Mark Haw Nel mondo indice di...

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1. Piccole cose che non stanno mai ferme 5 2. La scoperta accidentale del mondo di mezzo 21 3. Giardini di delizie, frutteti di determinismo 45 4. Dalla rivoluzione industriale... al risotto 63 5. Giganti della statistica 83 6. Narratori e filosofi, il tempo e la realtà 113 7. Una teoria del mondo browniano 125 8. Dalle palline di gomma agli atomi 149 9. Dalla materia alla vita 169 10. In catene nel mondo di mezzo 175 11. Macchine della vita 207 12. Dominatori del mondo di mezzo 233 13. L’agitazione perenne della materia e della vita 251 Ringraziamenti 262 Letture consigliate 263 Indice analitico 266 indice Mark Haw Nel mondo di mezzo Il moto browniano tra materia e vita traduzione di Luisa Doplicher Chiavi di lettura a cura di Lisa Vozza e Federico Tibone

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1. Piccole cose che non stanno mai ferme 5

2. La scoperta accidentale del mondo di mezzo 21

3. Giardini di delizie, frutteti di determinismo 45

4. Dalla rivoluzione industriale... al risotto 63

5. Giganti della statistica 83

6. Narratori e filosofi, il tempo e la realtà 113

7. Una teoria del mondo browniano 125

8. Dalle palline di gomma agli atomi 149

9. Dalla materia alla vita 169

10. In catene nel mondo di mezzo 175

11. Macchine della vita 207

12. Dominatori del mondo di mezzo 233

13. L’agitazione perenne della materia e della vita 251

Ringraziamenti 262

Letture consigliate 263

Indice analitico 266

indice

Mark HawNel mondo di mezzoIl moto browniano tra materia e vitatraduzione di Luisa Doplicher

Chiavi di lettura a cura diLisa Vozza e Federico Tibone

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Un giorno di giugno dell’anno 1827, in un apparta-mento di Soho, a Londra, un botanico scozzese cin-quantaquattrenne di nome Robert Brown iniziò aguardare nel suo microscopio. Sotto la lente avevaposto una goccia d’acqua che conteneva granuli dipolline estratti da un fiore di Clarkia pulchella, unapianta nordamericana della famiglia delle onagracee.

Quello che Brown vide avrebbe finalmente risoltoun rompicapo vecchio di duemila anni – il mistero diche cosa costituisca la materia – anche se la soluzionesarebbe giunta soltanto ottant’anni dopo, quando ilbotanico scozzese era già morto da tempo.

Ma in realtà in quel giorno di giugno, mentre scru-tava nel microscopio, Brown non stava pensando allamateria. Si era posto un problema diverso: pensava al-la vita, e in particolare alla riproduzione delle piante.

La goccia d’acqua era piena di granuli di polline.Brown si era chiesto: come funziona l’impollinazio-ne? Come fanno queste minuscole particelle a diffon-dere il messaggio della vita da una pianta all’altra?Che cosa sono, dove vanno, che ruolo svolgono?

Brown passò tutta l’estate a lavorare al microsco-pio, eseguendo osservazioni scrupolose che trascri-veva con cura. Quando la calura di agosto aveva or-mai ceduto il passo alla dolce fruttuosità di settem-

Piccole cose che non stanno mai ferme

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Gli scienziati sapevano che il polline svolgeva unqualche ruolo, ma nessuno capiva di preciso quale. Ilpulviscolo di polline che ci ritroviamo sui vestiti, oche rimane attaccato alle zampe di un’ape, è in realtàcomposto di tantissimi granuli, così piccoli che sipossono vedere soltanto al microscopio: misuranocirca un millesimo di millimetro, meno di un cin-quantesimo dello spessore di un capello sottile.

Brown e i suoi contemporanei sapevano che i mi-nuscoli granellini di polline sono essenziali nella ri-produzione delle piante: in qualche modo i vegetali liusano per scambiare caratteri con i propri simili e darluogo alla generazione successiva. Ma ciò che non sa-pevano è dove vadano le particelle di polline, e comeportino la scintilla in grado di creare nuova vita.

Con il suo microscopio Brown faceva parte di unanuova stirpe di botanici apparsa verso l’inizio del-l’Ottocento. In una trentina d’anni di lavoro si eraguadagnato la fama di essere tra i migliori botanicidell’epoca. Per lo più svolgeva le attività tradizionalidello studioso di piante: identificare, descrivere, ca-talogare e ordinare la sorprendente varietà di specieche ricopre il globo. Ma fu anche uno dei pionieri diun nuovo approccio alla botanica. Non gli bastavacatalogare e classificare: voleva sperimentare, osser-vare, vedere con i propri occhi.

Nel corso degli anni Brown si costruì una straordi-naria reputazione parallela come esperto di lenti. Unodei tanti che gli chiesero consigli sui microscopi, intor-no al 1830, fu il giovane Charles Darwin che si prepa-rava a imbarcarsi sul Beagle come naturalista di bordo.

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bre, egli dovette riconoscere che aveva fallito. Queitre mesi di esperimenti non gli avevano insegnatonulla di nuovo sulla riproduzione delle piante. Con-cluse con delusione che, per strano e inspiegabile chefosse, ciò che aveva visto al microscopio non avevaproprio niente a che fare con la vita.

Aveva ragione. Ma aveva anche torto.Questa è la storia di come alcuni granelli di polli-

ne, osservati con tanta meticolosità da un botanicoscozzese nell’estate del 1827, hanno dapprima rivo-luzionato ciò che sappiamo della materia, e oggi stan-no rivoluzionando ciò che sappiamo della vita.

Il sesso nelle piante

Brown era sempre stato un appassionato di piante;era cresciuto perlustrando le colline scozzesi a cacciadi nuove specie. Pur non avendo titoli di studio inbotanica, divenne un esperto di fama mondiale nelcampo. Era un uomo energico dai lineamenti moltoespressivi, sempre vestito con grande semplicità inpantaloni e cappotto neri, ed era dotato di un umori-smo frizzante che di solito nascondeva dietro una ti-mida riservatezza.

Molto prima che Charles Darwin partisse per ilsuo memorabile viaggio di scoperta, anche Brownaveva girovagato per gli angoli più remoti del globo,raccogliendo ogni sorta di tesori botanici sconosciu-ti. Ma nel 1827 ormai non si avventurava più in viaggiper mare e la sua curiosità si era concentrata sulla ri-produzione delle piante.

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era la vita. Doveva trattarsi di esseri viventi. A Brownvennero in mente gli animalcula, cioè i protozoi, leminuscole creature acquatiche che – lo si sapeva findalle prime osservazioni al microscopio – si muovo-no in quel modo.

Ma potevano davvero essere vive, quelle particelledi polline, visto che erano molto più piccole del piùminuscolo protozoo? Erano forse le unità viventi piùpiccole e fondamentali, gli «atomi» della vita? Forseera questo il segreto della riproduzione delle piante:durante l’impollinazione venivano trasmessi i porta-tori microscopici della vita.

La prima ipotesi di Brown fu proprio che le parti-celle di polline fossero vive. Ma Brown era uno scien-ziato meticoloso, non gli bastava concepire un’idea epoi sedersi in poltrona ad ammirarla. Nelle settimaneseguenti condusse ricerche ad ampio raggio, esami-nando al microscopio il polline di un gran numero dispecie vegetali e – cosa più importante – anche cam-pioni di sostanze che sapeva non essere organiche,come frammenti di minerali e particelle di fuliggine.Praticamente tutto ciò che gli capitava sotto manoveniva triturato, mescolato a qualche goccia d’acquae infilato sotto la lente del microscopio.

E dunque la danza del polline era una prova dell’e-sistenza di minuscoli atomi di vita? Quelle che flut-tuavano sotto la lente del microscopio erano davverole unità fondamentali della vita?

No.Perché, come Brown ebbe modo di vedere, danza-

vano anche le cose morte.

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Così in quel giorno di giugno del 1827 Brown di-sperse nella goccia d’acqua sotto la lente del suo mi-croscopio alcuni granuli di polline di Clarkia pulchel-la. Sperava di poter scoprire qualche cosa in più sul-l’impollinazione. Invece stava puntando dritto alcuore della materia.

«I observed many of them very evidently in motion...»

«Ne ho osservate una moltitudine in moto evidentis-simo...»: tutto cominciò con questa semplice osserva-zione, che avrebbe avuto ripercussioni nel mondodella scienza per i duecento anni successivi.

Brown si aspettava di vedere al microscopio unasospensione calma e immobile di particelle, di trova-re sotto la lente polline fermo e tranquillo nella goc-cia d’acqua, in paziente attesa di essere guardato, stu-diato, descritto e classificato. Ma vide subito che lostudio delle particelle di polline non sarebbe statocosì semplice: non stavano affatto ferme.

Si muovevano in ogni direzione, anzi non si limita-vano a muoversi: danzavano. Saltavano su e giù, zig-zagavano avanti e indietro, vorticavano come in balìadi un invisibile ciclone microscopico. E per quanto alungo Brown rimanesse a guardarle, la folle danzadelle particelle di polline proseguiva senza un mo-mento di pausa. Non avevano proprio alcuna inten-zione di stare ferme.

Per quanto ne sapevano gli scienziati all’inizio del-l’Ottocento, l’unica cosa in grado di dar luogo a mo-vimenti spontanei, continui e in apparenza casuali

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Il muscolo danzanteFacciamo ora un salto in avanti di centosessant’anni,fino agli anni Novanta del Novecento. E dalle parti-celle di polline passiamo alle proteine dei muscoli.

L’energia chimica è immagazzinata in tutta la ma-teria attorno a noi, ma da sola non basta a produrremovimento: per muoversi servono i muscoli. Possia-mo spostarci, camminare e sollevare oggetti grazie aimuscoli collegati alle ossa, i cosiddetti muscoli sche-letrici. Un muscolo scheletrico è un fascio di fibre fat-te di lunghi filamenti formati dalla proteina actina econnessi alle ossa e alle articolazioni per mezzo deitendini. Quando usiamo un muscolo, i filamenti diactina si contraggono e tirano i tendini che, a lorovolta, tirano le ossa: così, grazie alle articolazioni, loscheletro può muoversi.

Ma che cosa fa contrarre i filamenti di actina? Aquesti filamenti sono intrecciate catene formate daun’altra proteina specializzata, la miosina. Per mette-re in tensione un muscolo le catene di miosina affer-rano chimicamente il filamento di actina più vicino elo strattonano, in una sorta di tiro alla fune microsco-pico. I filamenti di actina contraendosi tirano i tendi-ni, i tendini tirano le ossa e il corpo si muove, sollevaoggetti, si alza o salta.

Naturalmente usare i muscoli richiede energia. Lamiosina deve sfruttare l’energia chimica per produr-re la forza necessaria a tirare i filamenti di actina.

L’energia per i processi biologici è fornita di solitoda una sostanza chiamata adenosina trifosfato o ATP.Quando la molecola di ATP si trasforma in adenosina

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Fuliggine, sabbia, minerali, metalli. Anche la pol-vere più sterile danzava, né più né meno che le parti-celle di polline di Clarkia pulchella. Ogni cosa danza-va, purché fosse abbastanza piccola. La danza deigranuli di polline non era dovuta a una microscopicaforza vitale: quelli non erano gli atomi della vita.

E fu così che andò in fumo un’idea sbalorditiva.Niente di grave, la scienza è piena di delusioni pas-seggere. C’era comunque qualcosa che faceva danza-re senza sosta il polline, la polvere e la fuliggine. E an-che se non aveva a che fare con la biologia, era inte-ressante lo stesso: dopotutto c’era una mole consi-stente di osservazioni in merito, raccolte da Brown intre mesi interi di lavoro... Così, come si è sempre fattonella storia della scienza, anche quando i risultati so-no negativi, Brown pubblicò.

Il suo resoconto degli esperimenti svolti nell’estatedel 1827 divenne un articolo sulla rivista britannicaPhilosophical Magazine, intitolato «Breve relazionesulle osservazioni microscopiche eseguite nei mesi digiugno, luglio e agosto 1827 sulle particelle contenu-te nel polline delle piante, e sull’esistenza in generaledi molecole attive nei corpi organici e inorganici».

All’inizio ci fu un’effimera ondata di entusiasmo,dovuta al diffondersi di voci secondo cui Brown ave-va davvero trovato gli «atomi della vita». Ma a partequesto la storia del polline danzante non fece diBrown una celebrità. Nei cinquant’anni successivi isuoi esperimenti rimasero per lo più ignorati e di-menticati. E anche quando qualcuno se ne ricordava,venivano profondamente fraintesi.

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interna di un’automobile, dove i pistoni spinti nei ci-lindri fanno girare l’albero a camme, generando mo-vimento a ciclo continuo.

Con questa immagine familiare pare di poter com-prendere un processo biologico complicato, il fun-zionamento dei muscoli, nello stesso modo in cui unmeccanico analizzerebbe gli ingranaggi sotto il cofa-no di una Ferrari. Forse la vita non è altro che inge-gneria in scala ridotta: basta prendere le nostre mac-chine grandi e rimpicciolirle fino al mondo del minu-scolo, delle cellule.

Il problema è che questa rappresentazione mecca-nica del muscolo, per quanto attraente nella sua quo-tidiana semplicità, è sbagliata.

Come Robert Brown nel lontano 1827, è raro chegli scienziati si dichiarino soddisfatti finché non ve-dono le cose con i propri occhi. Nel caso delle protei-ne dei muscoli (e di molti altri processi cellulari) in-torno al 1990 i ricercatori hanno incominciato asfruttare le tecniche più moderne per osservare «indiretta» l’effettivo comportamento delle molecole.Così è diventato possibile riprendere una molecola dimiosina in azione, fotografando la macchina musco-lare in movimento.

Fra questi ricercatori c’era un gruppo diretto daToshio Yanagida all’università di Osaka, in Giappo-ne. Yanagida voleva misurare che cosa accade davve-ro quando si fornisce ATP alla miosina. Per cercaredi capire in dettaglio la chimica che regola il funzio-namento delle proteine muscolari, voleva vedere una

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difosfato, o ADP, essa rilascia una parte della propriaenergia chimica, che diventa disponibile per altri usi.Così ogni molecola di miosina usa l’energia chimicacontenuta in una molecola di ATP per generare mo-vimento meccanico e tirare il filamento di actinaadiacente*.

Ma come funziona in realtà questo processo mi-croscopico? Il modello più semplice vede il muscolopiù o meno come una normale macchina a ingranag-gi, che segue precise regole meccaniche: una moleco-la di miosina riceve una molecola di ATP, la «brucia»e usa l’energia chimica così liberata per dare un sin-golo strattone al filamento di actina adiacente: si spo-sta lungo il filamento e, così facendo, lo porta a con-trarsi nella direzione opposta. Mettiamo insieme ungran numero di queste coppie miosina-actina ed eccoun muscolo: miriadi di molecole di miosina che tira-no filamenti di actina, che a loro volta tirano tendini eossa. Ci muoviamo insomma grazie a un minuscolotiro alla fune.

Il lato attraente di questo modello meccanico delmuscolo è la sua somiglianza con le macchine dellanostra vita quotidiana: si immette un’unità di carbu-rante, la miosina fa un passo e tira un filamento di ac-tina; un’altra unità di carburante, un altro passo, unaltro strattone... proprio come le macchine che cono-sciamo bene, per esempio il motore a combustione

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* Nel corso di una giornata il corpo di una persona seden-taria sintetizza e poi «brucia» fino a 40 kg di ATP. Un marato-neta può utilizzarne la stessa quantità in un’ora circa.

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sempre allo stesso modo. A volte fa alcuni passi didanza in avanti, a volte indietro; altre volte non sisposta affatto. Confrontando diverse molecole dimiosina in condizioni identiche, il gruppo di Yanagi-da ha ottenuto di nuovo risultati quasi casuali: mole-cole diverse fanno un numero diverso di passi perogni unità di carburante.

Questo singolo esempio, preso da solo, potrebbesembrare poco significativo. La biologia è piena distranezze: gli esseri umani e le piante sono entità cosìcomplesse che di rado le cose vanno proprio comeuno si aspetta. Tuttavia nel frattempo i biologi hannoscoperto che la stessa storia si ripete in microscopiciprocessi biologici di ogni genere.

L’agitazione incessante delle molecole non caratte-rizza soltanto i muscoli. Una quasi-casualità analoga,caratterizzata da disordine e imprevedibilità, sembraessere fondamentale per molti altri processi cellulariessenziali per la vita: il ripiegamento delle proteinenelle loro precise forme funzionali, il trasporto di so-stanze chimiche all’interno della cellula, il funziona-mento degli enzimi e perfino quello delle molecole diDNA. I ricercatori che studiano i meccanismi fonda-mentali della vita sono costretti a fare i conti con unmondo disordinato, casuale e all’apparenza impreve-dibile.

Come è possibile che la vita funzioni, quando cosìtante delle sue macchine microscopiche sembranocontagiate dalla casualità? Che razza di ingegnere co-struirebbe macchine del genere? Non dovrebbe es-serci un sistema migliore, più efficiente e affidabile?

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singola molecola di miosina spostarsi lungo un fila-mento di actina.

Il gruppo di Yanagida ha sviluppato metodi perosservare i movimenti di singole molecole proteichementre ricevono energia sotto forma di ATP. Peresempio stratagemmi come rendere fluorescenti lemolecole, così che quando un laser le illumina essebrillano al microscopio come fari molecolari, segna-lando la propria posizione e i propri movimenti. Op-pure fissare alle estremità dei filamenti di actina mi-nuscole sferette da usare come «maniglie»: la pressio-ne della luce di un laser focalizzato sulle sferette tienefermo il filamento di actina, mentre lungo di esso simuovono le molecole di miosina rifornite di energiadall’ATP.

In questo modo Yanagida e il suo gruppo sono ri-usciti a rilevare e misurare i minuscoli passi che unasingola molecola di miosina compie lungo il filamen-to di actina, tenendo fermo il filamento e fornendoalla miosina molecole di ATP.

E ciò che hanno osservato ha mandato all’aria ilmodello del muscolo come ingranaggio meccanico.

Dopo aver ricevuto il carburante, la molecola diATP, la miosina infatti non reagisce sempre spostan-dosi di un solo passo lungo il filamento di actina adia-cente. Talvolta avanza di due, tre o persino cinquepassi. A volte fa addirittura un passo indietro, tiran-do nella direzione sbagliata. La molecola di miosinasembra danzare in modo quasi casuale lungo il fila-mento di actina, come un funambolo nervoso.

Ma c’è di più: una stessa molecola non si comporta

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che formano il sapone, per fare soltanto alcuni esem-pi. L’elenco include anche le irrequiete molecole dimiosina colte nel loro nervoso equilibrismo da Tos-hio Yanagida e dal suo gruppo di ricercatori a Osaka.

Questo libro è la storia dell’universo alle scalecomprese tra un centesimo e un decimo dello spesso-re di un capello umano. Un universo che ho chiamatomondo di mezzo.

Per Brown il mondo di mezzo fu una sorpresa. Giàprima di lui correva voce che al microscopio si potes-sero scoprire cose strane, ma il botanico scozzese fu ilprimo a esplorare sul serio quel nuovo territorio. Ve-dremo che tanti scienziati, persino i più eminenti, nonavevano mai sospettato che a quella scala intermediapotesse succedere alcunché di importante.

E il mondo di mezzo continua a ricevere poca at-tenzione ancora oggi, duecento anni dopo gli esperi-menti di Brown. Ci sono innumerevoli libri sul mon-do degli atomi, sugli strani fenomeni che coinvolgo-no elettroni e nuclei, quark, superstringhe, incertezzaquantistica, fenomeni che avvengono a una scalamolto più piccola del millesimo di millimetro tipicodei pollini danzanti di Brown. All’estremo opposto sitrovano scaffali interi di libri sull’universo a scale gi-gantesche: galassie, big bang, buchi neri e tutte le al-tre diavolerie cosmologiche, enormemente più gran-di dei pollini di Brown.

Uno dei messaggi di questa storia è che il mondoche si trova nel mezzo è altrettanto importante e inte-ressante. Molti scienziati lavorano per capire cosa

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Eppure gli scienziati hanno iniziato a constatare chele macchine della vita non hanno alternative. È inutileopporsi, perché l’agitazione continua è inevitabile.

Il mondo di mezzoChe cosa hanno in comune con i pollini quei filamentimuscolari che non stanno mai fermi? Le dimensioni.

Le dimensioni, si sa, hanno la loro importanza.Come aveva dimostrato Brown, non erano soltanto leparticelle di polline a danzare in quel modo inaspet-tato e incessante. Danzavano anche i granuli di mine-rali e argilla, il pulviscolo di carbone (disponibile inabbondanza nella Londra del 1827) e i granelli disabbia. E ciò che tutti quegli oggetti danzanti aveva-no in comune erano le dimensioni.

I più piccoli misuravano poco meno di un millesi-mo di millimetro, mentre i più grandi raggiungevanoforse cinque o dieci millesimi di millimetro. Rientra-vano tutti in questo intervallo, all’incirca da un cente-simo a un decimo dello spessore di un capello uma-no. Sono dimensioni molto particolari perché quelloche succede agli oggetti di questa grandezza, a questascala della realtà, riguarda tutti noi: determina ciòche siamo e il modo in cui funzioniamo.

Si dà il caso infatti che nell’universo molti oggettiimportanti abbiano queste dimensioni: le cellule, ilDNA, i virus, le gocce di grasso sospese in acqua cheformano il latte, le molecole filamentose dello sham-poo che ci strofiniamo sulla testa quando ci laviamo icapelli, e le ingegnose molecole dotate di testa e coda

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logia e la vita, sebbene sia iniziata sul serio ormai duesecoli fa e per certi versi risalga all’alba della scienzaoccidentale, ai tempi dell’antica Grecia, e forse addi-rittura all’origine della vita, quasi quattro miliardi dianni fa.

È molto più che la storia della perenne agitazionecondivisa da pollini e proteine: riguarda anche scien-ze e personaggi di vario tipo, scoperte accidentali,controversie filosofiche, genio matematico e speri-mentazione ostinata. È una vicenda che coinvolge lafisica, la biologia, la botanica e la chimica; e anche lastoria, e le persone che si sforzano di capire il mondoche le circonda, alle prese non soltanto con la scienzama anche con la politica, le filosofie, i pregiudizi, l’i-gnoranza, la malattia, la disperazione e il caso.

È una storia in cui appaiono i Greci antichi, l’ulti-mo pittore medievale, i primi scienziati moderni, ipionieri dell’industria e, ovviamente, il nostro intre-pido botanico-esploratore che portava sempre con séil suo microscopio. Vi figurano il terzo scienziato piùeminente della storia e un austriaco che con le pro-prie idee cambiò il mondo, ma poi finì appeso alletravi di una stanza d’albergo. Intervengono anche lascoperta meno famosa ma forse più importante di Al-bert Einstein, la borsa valori francese e l’amante diMadame Curie. E poi le calze di nylon, i cargo mole-colari, le nanotecnologie e i detersivi per piatti. Ah,dimenticavo: anche l’origine della vita.

È la storia di alcuni fra gli sviluppi più entusia-smanti della scienza moderna, ai confini delle nostreconoscenze attuali sulla vita: lo studio di come i siste-

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succede nel mondo di mezzo, e spesso chiamano me-soscopici i fenomeni che studiano. Il prefisso meso-viene dal greco e significa intermedio: a metà tra lascala microscopica dei quark e degli atomi e il mondomacroscopico di sabbia, ciottoli, esseri umani, case,pianeti e galassie.

Il mondo di mezzo non è interessante soltanto per-ché se ne parla poco, ma per una ragione assai più im-portante: la materia a quelle scale si comporta in mo-do diverso. Il mondo di mezzo è speciale per via di unsingolo aspetto eclatante del comportamento deisuoi abitanti, proprio quello che colpì Brown la pri-ma volta che osservò al microscopio le particelle dipolline di Clarkia pulchella.

Gli oggetti del mondo di mezzo sono del tutto inca-paci di stare fermi.

Il cuore irrequieto della materia e della vitaQuesto libro dunque è la storia del mondo di mezzo,dove niente sta fermo, e dei suoi abitanti inevitabil-mente irrequieti: il che, come gli scienziati stanno ini-ziando a scoprire, ha un ruolo cruciale per la nostraesistenza. È la storia del cuore irrequieto della mate-ria e della vita.

In questo agitato mondo di mezzo succedono mol-te cose; ne stiamo ancora scoprendo di nuove quasiduecento anni dopo che Brown lo visitò per la primavolta, in quell’estate del 1827.

La storia del mondo di mezzo ha risvolti molto im-portanti per le idee moderne sulla materia, la tecno-

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Il piccolo Robert nacque nel 1773, quattro giorni pri-ma di Natale. La famiglia Brown si era stabilita aMontrose, una cittadina sulla costa orientale dellaScozia, fra Aberdeen a nord e il fiume Tay a sud. Ja-mes Brown, il padre, era un pastore della Chiesa epi-scopale scozzese in perenne contrasto con l’establish-ment dell’epoca.

Senza dubbio Robert ereditò alcuni tratti paterni,come la tenacia e il disprezzo per l’autorità. Tuttaviaper uno scienziato era essenziale un ingrediente ulte-riore, oltre alla creatività e all’indipendenza intellet-tuale: la curiosità. Da ragazzo Robert ne mostrava inabbondanza. Passò la gioventù a scorrazzare per lacampagna; non erano vagabondaggi oziosi, perchéesaminava e osservava con attenzione la natura. Stavaimparando a leggere l’enciclopedia della vita dissemi-nata in tutto il suo splendore per le colline scozzesi.

Robert ricevette una solida istruzione, prima allascuola secondaria locale, poi al rinomato MarischalCollege di Aberdeen, dove studiò la filosofia e la ma-tematica; seguì anche lezioni di botanica, la discipli-na che avrebbe dominato la sua vita.

Nel 1790 i Brown si trasferirono a Edimburgo; Ro-bert li seguì e intraprese studi di medicina all’univer-

mi viventi abbiano sviluppato la capacità di sfruttarele risorse del mondo circostante, materia ed energia.

Perché ciò che accade nel mondo di mezzo, comegli scienziati stanno finalmente incominciando a ca-pire, quasi due secoli dopo Brown, potrebbe racchiu-dere uno dei segreti della vita. Ironicamente il bota-nico scozzese si era messo a osservare il polline diClarkia pulchella per rispondere alla domanda piùgrande di tutte: come funziona la vita? E sebbene eglifosse giunto alla conclusione che le sue osservazioninon avevano niente a che fare con la biologia, oggi sicomincia a pensare che uno dei fattori cruciali cherendono possibile la vita è proprio quello osservatoda Brown: l’agitazione incessante e inevitabile delmondo di mezzo.

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La scoperta accidentaledel mondo di mezzo

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un parroco o un insegnante, in grado di dare consiglisui metodi migliori, sui recipienti migliori per con-servare i campioni, sui posti migliori dove trovare lespecie più insolite.

Questa passione collettiva ebbe conseguenze no-tevoli. Alla fine del Settecento e all’inizio dell’Otto-cento tutti quegli appassionati di scienze naturali, ra-ramente professionisti affiliati a musei e orti botanici,più spesso semplici dilettanti pieni di curiosità per iluoghi in cui vivevano, o autenticamente affascinatida quelli che visitavano e dalle cose che vedevano inviaggio, stavano in realtà gettando le basi di una dellepiù grandi rivoluzioni nella nostra concezione dell’u-niverso: l’evoluzionismo. Senza il loro vasto sforzo dicatalogazione sarebbe stato impossibile riconoscereil principio ordinatore dell’evoluzione nell’insiemedi specie che ricoprono il pianeta. E allora nonavremmo la genetica, non conosceremmo il DNA...in breve, la biologia non sarebbe la scienza che è oggi.

Formazione di un botanicoArrivato a Edimburgo nel 1790, Robert Brown si mi-se a seguire lezioni di storia naturale e a girare perraccogliere piante in posti come Leith, in riva al ma-re, e Musselburgh, poco distante lungo la costa. Du-rante le vacanze estive faceva escursioni con amicinelle Highlands, sempre con l’obiettivo di raccoglie-re piante. Frequentava l’orto botanico di Edimbur-go, stringendo amicizie con altri entusiasti di flora.Quando ne aveva la possibilità andava a fare cammi-

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sità locale, all’epoca centro mondiale della scienzamedica. James Brown divenne il capo di un gruppet-to di dissidenti locali, tuttavia la sua carriera a Edim-burgo non durò a lungo: nel 1791 morì per un colpoapoplettico.

A quel tempo Robert si stava già formando comescienziato. Per essere più precisi, era ben avviato a di-ventare un botanico.

Una scienza di modaAlla fine del Settecento la botanica, oltre che unascienza, era una mania collettiva.

Nel ventunesimo secolo discipline come la biologiamolecolare, la genetica, la proteomica e la biofisica sa-ranno probabilmente i settori più attraenti delle scien-ze naturali, con i loro apparecchi ad alta tecnologia,modelli coloratissimi al computer, microscopi e laserpotenti. Al contrario la botanica non sembra eccitaregranché i giovani intenzionati a diventare biologi. Maogni branca moderna della biologia ha un debito enor-me verso questa cugina oggi meno eccitante.

Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocentoquasi tutti gli europei che ne avessero i mezzi si dilet-tavano di botanica, da professionisti o da amatori.Per esempio la scrittrice George Eliot descrive nelDiario di Ilfracombe del 1856 una vacanza passatacon il compagno alla ricerca febbrile di campioni ve-getali e animali lungo la costa del Devon, nelle pozzed’acqua fra gli scogli. Dovunque si andasse, tra lagente del luogo si trovava sempre un esperto, magari

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na da St. Andrews, circa cinquanta kilometri a norddi Edimburgo.

Presto Robert fu trasferito in Irlanda con il reggi-mento. Quell’incarico era un’occupazione pressochéideale per lui. Malgrado il conflitto crescente fra i pro-testanti inglesi al potere e i cattolici irlandesi, i Fifeshi-re Fencibles parteciparono a poche ostilità, e Robertebbe molto tempo a disposizione per continuare a rac-cogliere campioni in una landa sconosciuta, piena dinuove sorprese botaniche. Nel maggio del 1795 persi-no i suoi studi di medicina mai completati si rivelaronoutili: fu nominato assistente medico del reggimento.

Ben presto Brown contattò le strutture e gli espertidi botanica disponibili in Irlanda. Nelle sue lettere avari altri appassionati della materia si trovano dibattitie discussioni su identificazioni di esemplari, descrizio-ni accurate di piante e richieste di informazioni riguar-do alle pubblicazioni più recenti. Eppure di tanto intanto egli si lamentava della mancanza di organizzazio-ne della botanica locale: per esempio esistevano pochi«erbari» autorevoli dove poter confrontare i suoi cam-pioni con esemplari già noti e classificati. In una letterascrisse che le sue condizioni di vita all’epoca non gliavrebbero «mai permesso di essere altro che un dilet-tante nella Scienza». Mai previsione fu più sbagliata.

Nel 1798, durante un breve viaggio a Londra, riuscìa ottenere una lettera di presentazione all’eminentescienziato Sir Joseph Banks. Brown era spinto da moti-vazioni del tutto pratiche: voleva studiare i campioniscozzesi della collezione di Banks, all’epoca la più riccadel Paese. Anche durante la permanenza nella capitale

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nate nelle colline scozzesi, accompagnato a volte daMungo Park, un altro giovane studente. Park sareb-be diventato uno dei più celebri esploratori scozzesi,avventurandosi in regioni dell’Africa mai viste primada nessun europeo; e Brown non sarebbe stato dameno in un altro continente misterioso, l’Australia.

Robert perlustrava le colline attorno a Edimburgoin cerca di nuove specie, strani muschi ed erbe dicampo, e riportava campioni all’orto botanico. A di-ciotto anni presentò alla Società di storia naturale diEdimburgo un articolo in cui segnalava alcuni erroriin quello che all’epoca era il testo di riferimento sullaflora scozzese. Nel 1793 cominciò a redigere un librodi descrizioni di piante, con un’attenzione meticolo-sa ai dettagli che preannunciava la cura con cui in se-guito avrebbe eseguito i suoi esperimenti e il suo la-voro scientifico.

Robert proseguiva i suoi studi di medicina ma sen-za alcun entusiasmo, e non conseguì mai il diplomafinale. Nel mondo moderno, dove si dà tanta impor-tanza ai titoli di studio e ai voti ricevuti agli esami,Robert Brown non avrebbe mai potuto diventareuno scienziato professionista. Ma le sue carenze intermini di qualifiche universitarie erano ampiamentecompensate dall’esperienza: quei vagabondaggi gio-vanili nelle colline scozzesi gli avevano permesso dicomprendere in profondità la struttura del mondovivente. Nel 1793 Robert interruppe gli studi univer-sitari e nell’ottobre del 1794 fu nominato alfiere di unnuovo reggimento di milizia territoriale, i FifeshireFencibles, di stanza a Cupar, una cittadina non lonta-

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la Francia avevano ingaggiato una lotta disperata peril controllo dei mari, mentre Napoleone devastaval’Europa intera. Soltanto nelle battaglie navali c’era-no possibilità di avere la meglio contro la tattica ap-parentemente infallibile di Napoleone; e lanciare unasimile sfida toccò naturalmente alla Gran Bretagna,nazione insulare.

Guerra o no, gli scienziati volevano comunque oc-cuparsi di scienza. Navi sia francesi sia inglesi conti-nuavano a solcare i mari in cerca di nuovi mondi,nuove piante e nuove creature. Già da qualche tem-po Sir Joseph Banks accarezzava il progetto di unviaggio di esplorazione verso l’interno del NuovoGalles del Sud, poiché era convinto che fosse ora diiniziare lo sfruttamento delle risorse naturali della re-gione. Da una Marina a corto di soldi Banks riuscì aottenere l’Investigator, una vecchia nave malandata,e un certo capitano Flinders per governarla. Ma nes-suna spedizione scientifica poteva essere completasenza un naturalista di bordo.

Robert Brown fu chiamato a far parte della spedi-zione in Australia più o meno per caso. Nel 1801Banks era ormai troppo vecchio per rimettersi a gira-re il mondo. In precedenza aveva arruolato MungoPark, il vecchio compagno di studi di Brown, perviaggi di esplorazione a Sumatra e in Gambia*. Ma il

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Brown riuscì comunque a fare raccolta di piante, pre-levando campioni dai fossi e dalle sponde del Tamigi.

Sir Joseph Banks era un uomo in vista, attivo invari campi della scienza, membro di molti club e so-cietà influenti e amico del re. Da vent’anni era anchepresidente della Royal Society, l’illustre associazionedegli scienziati britannici. Robert Brown, ventiseien-ne sconosciuto, aveva dovuto farsi aiutare da due in-termediari per avere accesso alle collezioni di Banksnella casa di quest’ultimo, a Soho Square.

Ma era uno sforzo che valeva senz’altro la pena difare; conoscere Joseph Banks poteva essere moltoutile, oltre al vantaggio immediato di poter accederealla sua collezione botanica. La prima visita di RobertBrown alla casa di Banks si rivelò l’inizio di quellache sarebbe stata una lunga frequentazione.

Joseph Banks era diventato famoso come naturali-sta di bordo della prima spedizione in Australia delcapitano James Cook, trent’anni prima; furono pro-prio le collezioni di piante raccolte da Banks a ispira-re il nome che Cook diede alla famosa Botany Bay. Ein seguito fu proprio Banks a inviare Brown a ricalca-re le sue orme in un altro viaggio verso il nuovo conti-nente. Proprio l’Australia, all’epoca chiamata ancoraNuova Olanda, fu la terra dove il giovane RobertBrown si fece le ossa come scienziato.

Viaggio verso un Nuovo MondoL’anno 1801 non era un momento propizio per tro-varsi a cavalcare le onde dell’oceano. L’Inghilterra e

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* In entrambi questi viaggi Park fu dato per morto, per poiricomparire inaspettatamente. Finì per morire davvero inAfrica nel 1806, scomparendo durante una spedizione pionie-ristica che scendeva lungo il corso del Niger.

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Terra Australis

L’Investigator salpò da Portsmouth alle undici dimattina del 18 luglio 1801 e già nel canale della Mani-ca scoprì che il mare era un’arena tutt’altro che paci-fica: incrociò quattro navi da guerra della MarinaReale fra cui il Temeraire, immortalato in seguito dalpittore J.M.W. Turner. Il giorno seguente navi miste-riose spararono colpi contro l’Investigator. Quandoall’orizzonte apparve una nave da guerra, però, gli as-salitori fecero dietrofront: erano pirati di Guernseyche, viste le poche difese della nave di Brown, aveva-no provato ad attaccarla. Quel viaggio nell’ignotonon sarebbe stato una passeggiata.

I problemi non erano finiti: la vecchia nave stavagià facendo acqua, e l’astronomo di bordo era fuoricombattimento per il mal di mare. FortunatamenteRobert Brown, che non aveva mai viaggiato sull’o-ceano, scoprì di avere un buon piede marino. Prestooltrepassarono le Azzorre e Madeira, diretti a sud,verso il Capo di Buona Speranza.

I membri del contingente scientifico, fra cui l’illu-stratore botanico Ferdinand Bauer, Brown e il suogiovane assistente Peter Good, svolgevano i propricompiti con entusiasmo, desiderosi di esaminarequalunque creatura si trovasse sul loro cammino. Ti-rarono fuori dal mare un tipo insolito di tartaruga ene misurarono con diligenza la temperatura rettale.Remarono per sei ore fino a una delle minuscole iso-lette Desertas, per trovarvi soltanto rocce brulle:non c’era proprio niente che avesse il benché mini-mo interesse scientifico. Un banco di meduse lumi-

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posto mal pagato di naturalista nella nuova spedizio-ne australiana fu rifiutato da Park, che aveva un granbisogno di denaro perché stava per sposarsi con la fi-glia di un medico scozzese («un matrimonio peramore, non certo per i soldi» come lo descrisse aBanks una conoscenza comune).

Dopo il rifiuto di Mungo Park il giovane RobertBrown sembrava un ottimo candidato: «È uno scoz-zese, capace di perseguire il proprio obiettivo con lu-cidità e costanza» disse un amico di Robert a cuiBanks si era rivolto per un consiglio.

Malgrado rinvii, cambiamenti di programma emanovre politiche di ogni tipo, nel dicembre del1800 Banks scrisse infine a Brown per offrirgli il po-sto di naturalista in quella che era diventata una mis-sione di rilevamento delle coste, con il progetto dicircumnavigare l’intero continente della NuovaOlanda.

All’inizio dell’Ottocento non era nemmeno asso-dato che l’Australia fosse un singolo continente: alcu-ni sospettavano che fosse un arcipelago di grandi iso-le. Il salario di Brown sarebbe stato di quattrocentosterline all’anno. Il viaggio, predisse Banks, sarebbedurato almeno tre anni.

Robert Brown accettò l’offerta a giro di posta. Il 21dicembre 1800, nel giorno del suo ventisettesimocompleanno, si imbarcò sul postale a Dublino, attra-versò il Mar d’Irlanda, camminò fino a Chester e pre-se la carrozza per Londra. La mattina di Natale del1800 raggiunse la capitale. Un nuovo mondo e unanuova vita lo attendevano.

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L’Investigator ripartì il 5 novembre 1801. Proce-dette veloce verso est, e il 6 dicembre arrivò in vistadella punta sud-occidentale della «Nuova Olanda».La Terra Australis, finalmente.

Ora iniziava il vero divertimento. Prima del viaggiodi Robert Brown le specie di piante australiane esami-nate a dovere erano soltanto quattrocento circa, unapercentuale minima delle circa dodicimila specie en-demiche oggi conosciute. Alla fine della spedizioneBrown da solo riportò in patria più di tremila specienuove. Nelle prime tre settimane di lavoro attorno al-la punta sud-occidentale del continente raccolse cin-quecento specie sconosciute. Insieme a Good inoltrevide molti animali, fra cui ovviamente i canguri, maanche nuove specie di uccelli e molti insetti.

Trovarono anche esseri umani, gli aborigeni. Nelprimo incontro con loro Brown si improvvisò inter-prete, imparando le parole che significano «orec-chie» (twang) e «mantello» (wurrit). Com’è com-prensibile gli aborigeni erano sconcertati dai tentati-vi degli scienziati europei di misurarli con righelli.Persino il capitano Flinders si fece prendere dall’en-tusiasmo per la scienza: si mise a studiare gli effettidelle rocce magnetiche sulla bussola della nave, pub-blicando poi le osservazioni al ritorno in Inghilterra.

In piena estate si diressero a est costeggiando la ter-raferma. La calura era intensa e la costa meridionale,dopo un inizio molto promettente, si dimostrò pocointeressante dal punto di vista botanico. Brown preseun’insolazione. Gli esploratori compirono massacriindiscriminati della popolazione di uccelli, in parte

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nescenti passò loro accanto mentre si avvicinavanoall’equatore.

Il capitano Flinders distribuiva regolarmente suc-co di lime e zucchero assieme alle razioni di grog, nel-la speranza di tenere lontano l’incubo peggiore deimarinai, lo scorbuto (il succo di limone avrebbe of-ferto una protezione più efficace, ma all’epoca gliesperti di medicina erano ancora confusi in materia).All’attraversamento dell’equatore, seguendo la tradi-zione marinaresca, Flinders si travestì da Nettunoper la rappresentazione in maschera di rito, mentre ilresto dell’equipaggio si ubriacò assai poco decorosa-mente. Gli altri passeggeri, fra cui Robert Brown,non apprezzarono granché la scena. «Come al solito imarinai si sono ubriacati e di notte c’è stata agitazio-ne» scrisse Peter Good nel suo diario.

A ottobre l’Investigator raggiunse Città del Capo.Brown e la sua squadra di scienziati scalarono la Ta-ble Mountain; raggiunsero la vetta al tramonto e, sor-presi dal buio e dalla nebbia, corsero grandi rischisulla via del ritorno.

Brown si trovava nel suo elemento e si dava a unafrenetica attività di raccolta. Ma in confronto alla lo-ro destinazione finale, Città del Capo non era che ungiardinetto cittadino: nel corso degli anni erano statisvolti così tanti studi sulle piante locali che era rima-sto ben poco da scoprire. Ciononostante anni dopoBrown avrebbe descritto i giorni passati sulle mon-tagne attorno al Capo di Buona Speranza come«uno dei periodi più piacevoli nella mia attività dibotanico».

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pitano Flinders erano poco più che «illustrazioni dalibro di fiabe».

A novembre la nave era ormai in condizioni spaven-tose: i carpentieri prevedevano che nel giro di pochimesi non sarebbe rimasta neanche una trave sana. Afebbraio, mentre procedevano stancamente lungo lacosta, l’equipaggio cominciò ad ammalarsi per la dietasquilibrata. Flinders, anche lui malato di scorbuto, de-cise di dirigersi in tutta fretta verso Timor, in Indone-sia, per procurarsi rifornimenti di frutta e carne. Poicon maggiori scorte a bordo si diressero di volata aPort Jackson, procedendo sempre in senso antiorarioattorno al continente. L’equipaggio era allo stremo, ilnostromo e il timoniere stavano morendo di malnutri-zione. Finalmente il 2 giugno 1803 l’Investigator, cheormai faceva acqua da tutte le parti e cadeva a pezzi,giunse arrancando nel porto di Sydney dopo essersitrascinato intorno all’intero continente australiano.

Robert Brown aveva esaminato la natura favolosadi un mondo nuovo come nessuno aveva mai fattoprima, neanche Joseph Banks: tremilaseicento spe-cie di piante, di cui tremiladuecento del tutto scono-sciute; più di cento nuovi insetti e animali; e final-mente una carta abbastanza affidabile dell’intera co-sta della Nuova Olanda. Le ultime tappe del viaggioricordarono a tutti che esplorazioni simili avevanoun costo notevole: molti amici e marinai del capitanoFlinders avevano perso la vita. Peter Good, il fidatoassistente di Brown, morì proprio mentre calavanol’ancora a Sydney.

La botanica era un’impresa pericolosa.

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perché Flinders voleva nutrire i suoi uomini di carnefresca per tenere a bada lo scorbuto, ma anche perchéall’epoca era quello il modo di procedere: alla vista diuna cosa strana e nuova, si imbracciava il moschetto ele si sparava. Un giorno, nel giro di due ore e mezzo,furono uccisi ben settecentosessanta uccelli «berta co-dacorta», mentre sull’isola chiamata non a caso «deicanguri» furono abbattuti trentun esemplari di questimarsupiali, per un totale di circa venticinque chili diteste e code destinate a uno stufato gigante.

Anche così lontano da casa non ci si scordava ilconflitto europeo in corso: avvistando una nave fran-cese, Flinders preparò l’Investigator alle ostilità. For-tunatamente si scoprì che l’altra nave era Le Géogra-phe, l’equivalente francese dell’Investigator, caricodi botanici e campioni di piante, più che di polvereda sparo e cannoni. Tecnicamente a quel punto i duePaesi non erano nemmeno in guerra, dopo la firma diun trattato di pace nel marzo del 1802. Ma quella no-tizia non aveva ancora raggiunto la Nuova Olanda.

Nel maggio del 1802 la spedizione si trovava a PortJackson, vicino a Sydney, centro della presenza ingle-se in Australia. Dopo un paio di mesi passati a ripara-re alla bell’e meglio la nave, a raccogliere piante e afare rifornimenti – furono imbarcati tra l’altro seimi-lasettecento litri di rum – l’Investigator salpò di nuo-vo. Questa volta l’obiettivo era circumnavigare l’inte-ro continente, per determinare se si trattasse o menodi una distesa ininterrotta di terraferma. Della costasettentrionale esistevano alcune mappe olandesi, maerano vecchie di centocinquant’anni e secondo il ca-

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esotico mondo nuovo: agli occhi del pubblico era di-ventata un luogo sgradevole, anche perché la si usavasempre più spesso come comoda discarica per inde-siderabili e criminali. Dal punto di vista politico laspedizione fu quasi ignorata al ritorno in patria, mal-grado l’impressionante collezione di nuove meravi-glie raccolta da Brown.

Ma negli ambienti scientifici la reputazione di Ro-bert Brown era assicurata. Un esperto giudicò la suacollezione proveniente dall’Australia come «di granlunga la migliore mai riportata da un viaggio di esplo-razione». Brown fu eletto segretario e bibliotecariodella Società linneana di Londra, la principale istitu-zione dedicata alla storia naturale, e gli fu assegnatoun alloggio nell’edificio che la Società aveva ottenutoper la nuova biblioteca, già sede di un pub chiamatoTurk’s Head, La testa del turco, in Gerrard Street aSoho.

Joseph Banks annoverava Brown fra gli amici piùintimi e lo invitava agli incontri che era solito orga-nizzare: i «pranzi filosofici» (giovedì, soli uomini) ele «serate intellettuali» (domenica, donne tollerate).Brown si trovò in compagnia di alcuni fra i più gran-di luminari della scienza, come il chimico HumphryDavy, il matematico John Herschel e l’astronomoHugh Maskelyne, e divenne famoso per la sua parti-colare combinazione di riserbo distinto e umorismosecco e tagliente.

Non era tutta vita sociale. Brown passò i cinqueanni seguenti ad analizzare scrupolosamente le colle-zioni portate dalla Nuova Olanda, esaminando, de-

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Ritorno alla vita tranquillaRobert Brown passò un altro anno e mezzo a colle-zionare piante in Nuova Olanda. Fu fortunato a nonpartire con il capitano Flinders che, lasciata l’Austra-lia verso la fine del 1803, finì internato dai francesisull’isola di Mauritius e non fece ritorno in Inghilter-ra prima del 1810.

Era difficile che la miriade di scoperte di Brown ri-cevesse l’eco scientifica che meritava, là nel relativoisolamento di Port Jackson e Sydney. FinalmenteBrown ritornò in Inghilterra, sbarcando a Liverpoolnell’ottobre del 1805 dopo un viaggio di cinque mesi.Riuscì anche a riportare in patria un vombato vivo; ilmarsupiale sopravvisse per due anni affezionandosi aisuoi padroni, nel cui grembo amava raggomitolarsi.

Brown proseguì per Londra con il compagno dispedizione Ferdinand Bauer, un illustratore che ri-trasse i campioni di Brown in disegni precisi e delica-ti spesso diventati dei classici. Il 5 novembre si pre-sentarono al Ministero della Marina per fare rappor-to, ma non trovarono nessuno con cui parlare. Alla fi-ne lasciarono un messaggio e andarono a cercarsi unasistemazione. Tempo dopo scoprirono perché il Mi-nistero li aveva accolti con tanta freddezza: la MarinaReale aveva appena vinto a Trafalgar la battaglia deci-siva della guerra navale contro Napoleone, tutti alMinistero erano occupati a festeggiare e non intende-vano certo scomodarsi per un paio di viaggiatori qua-si dimenticati.

Altre cose erano cambiate durante l’assenza diBrown. La Nuova Olanda non era più di moda come

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noso resoconto delle scoperte australiane scrisse chele relazioni fra gli organismi assomigliavano «più auna rete che a una catena», anticipando alcune ideemoderne sulla struttura «a rete» (network) dei siste-mi complessi in evoluzione.

Nel 1810 inoltre Brown aveva iniziato a rendersiconto dell’importanza specifica del polline, il cuoredella riproduzione delle piante; e aveva dimostratoche spesso per identificare la famiglia o il genere diuna pianta il metodo più sicuro era proprio osser-varne il polline.

Nel 1820, a settantasette anni, Joseph Banks morì.Aveva formalmente lasciato in eredità la casa e le col-lezioni a Robert Brown, a condizione che dopoBrown fossero cedute al British Museum. Brown ac-cettò il posto di Conservatore delle collezioni botani-che, che avrebbero costituito il nucleo di una sezionedi storia naturale del museo. Continuò a lavorare aSoho Square, dove ormai era come parte del mobilio,mimetizzato tra i libri, i campioni e i microscopi.

Brown era sempre stato inseparabile dal suo mi-croscopio. Aveva dimostrato come fosse uno stru-mento vitale persino per un semplice catalogatore,dato che spesso un’accurata descrizione e classifica-zione delle specie era possibile solo grazie ad attenteosservazioni al microscopio. Ma nel giugno del 1827per Robert Brown era giunta l’ora di andare oltre icataloghi.

Nel 1827 si sapeva che nella pianta l’ovulo femmi-nile si trasforma nell’embrione che poi dà luogo a unnuovo individuo, e che in qualche modo il polline è

scrivendo e classificando il materiale fin nei minimidettagli. Con il salario della Società linneana si com-prò un nuovo microscopio e poco alla volta ampliò lapropria biblioteca di testi di consultazione.

Nel 1811 Joseph Banks nominò Brown biblioteca-rio e conservatore delle sue collezioni. La bibliotecadi Banks era enorme e la sua collezione botanica pro-babilmente la migliore al mondo. Da quel momentoBrown passò la maggior parte della sua vita lavorati-va nella biblioteca e nelle sale delle collezioni diBanks a Soho Square, che in quegli anni era il centrodel mondo scientifico. Sebbene Brown avesse più omeno finito di viaggiare, le sue ricerche scientificheerano appena agli inizi. Si sistemò al bancone del la-boratorio, con i suoi pantaloni blu e il cappotto nero,deciso a lavorare sodo.

Il segreto del sesso, secondo le pianteNei primi decenni dell’Ottocento la botanica si stavaavvicinando a piccoli passi alle idee che in seguitoCharles Darwin avrebbe sintetizzato nella teoria del-l’evoluzione. Robert Brown notò, per esempio, che lefamiglie di piante comprendenti un gran numero divarietà tendevano a essere largamente diffuse, men-tre le famiglie più ridotte si presentavano di solito inzone geografiche limitate. Il grado di diversificazioneera determinato dall’ambiente.

A Brown fu chiaro che in natura le forme di vitanon erano organizzate in una sequenza lineare, ma inuna rete complessa: nell’introduzione al suo volumi-

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turalista di bordo, Darwin si recò da Brown per rice-vere consigli dal massimo esperto di microscopi perla botanica, nonché del lavoro nelle difficili condizio-ni di un viaggio in nave.

Darwin rimase ammirato e fece i complimenti aBrown per la «meticolosità e l’accuratezza perfettadelle sue osservazioni». I due scienziati avevano incomune anche altre cose: entrambi avevano studiatomedicina a Edimburgo e non avevano terminato glistudi universitari né conseguito alcun titolo di studioufficiale in una materia scientifica. Quando Darwinritornò dal suo memorabile viaggio a bordo del Bea-gle, portò a Robert Brown campioni di piante da tut-to il mondo.

Danza nel mondo di mezzoNegli appunti di Brown alla data del 12 giugno 1827si legge: «Le particelle hanno un moto palese [...] vi-sibile soltanto con la mia lente che ingrandisce 370volte».

«Mentre esaminavo la forma di queste particelleimmerse nell’acqua» riferisce nell’articolo pubblica-to sul Philosophical Magazine, «ne ho osservate unamoltitudine in moto evidentissimo». Queste frasiavrebbero avuto conseguenze estremamente impor-tanti nella storia delle ricerche che hanno portato allacomprensione della materia e del mondo di mezzo.

Nel vedere la folle danza del polline, sulle primeBrown credette di essersi imbattuto in un qualche ti-po di forza vitale. Già da qualche decina d’anni circo-

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essenziale. Sembrava ovvio che il polline dovesse en-trare in contatto con l’ovulo perché la fecondazioneavesse luogo. Ma non si capiva bene come le particel-le di polline potessero raggiungere fisicamente l’ovu-lo; ad alcuni sembrava addirittura impossibile. L’o-biettivo dichiarato di Brown era «chiarire alcunequestioni relative alla modalità di azione del pollinenel processo della fecondazione».

Per i suoi primi esperimenti, Brown scelse granulidi polline di Clarkia pulchella. Questa pianta della fa-miglia delle onagracee, originaria del Nord America,era stata scoperta dal pioniere della botanica LewisClark e battezzata in suo onore. Ha bellissimi fiori ro-sa, e infatti in latino pulchella significa «graziosa».

Il microscopio di Brown era quanto mai semplice:nient’altro che una singola lente, fissata a un montan-te, sopra un supporto dove porre l’oggetto da studia-re. Uno specchio regolabile catturava la luce migliore,che fosse del sole o di candela. L’intera apparecchia-tura era solidamente montata su una pesante intelaia-tura di mogano per ridurre al minimo le vibrazioni.Esistevano microscopi più sofisticati, ma Brown con-tinuò a preferire il suo strumento semplice. Per svol-gere osservazioni precise era cruciale la qualità dellalente, che poteva essere assicurata soltanto da costrut-tori di strumenti ottici del più alto calibro.

Il lavoro al microscopio svolto da Brown godeva dialta considerazione nell’intera comunità scientificadel tempo, come testimonia la visita del giovaneCharles Darwin, alcuni anni dopo. Nel 1831, quandosi stava preparando a imbarcarsi sul Beagle come na-

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corpuscoli che misuravano 1/300 di millimetro dan-zavano ancora, benché a ritmo più lento rispetto aquelli che misuravano 1/400 di millimetro. Riscaldòle gocce d’acqua fino ad alta temperatura e vide che ilmoto persisteva.

Ne concluse che a qualunque cosa fosse dovuta, ladanza incessante doveva essere una caratteristica fon-damentale della materia, piuttosto che della vita. Inquel mondo materiale di particelle minuscole non c’e-ra nulla, vivo o no, che stesse fermo. Tutto danzava.

Inizialmente l’articolo di Brown, intitolato «Breverelazione sulle osservazioni microscopiche eseguitenei mesi di giugno, luglio e agosto 1827 sulle particel-le contenute nel polline delle piante, e sull’esistenzain generale di molecole attive nei corpi organici einorganici», fu stampato in proprio; Brown ne distri-buì delle copie ad amici e colleghi. Ma presto la co-munità scientifica lo notò e ne comparvero ristampesul Philosophical Magazine e sull’Edinburgh NewPhilosophical Journal, oltre a traduzioni in Germa-nia e in Francia. Sulle prime la confusione fu tale chenel 1829 Brown pubblicò un secondo articolo, neltentativo di fare piazza pulita di alcuni fraintendi-menti che il primo sembrava aver generato, come la«leggenda metropolitana» scientifica secondo cuiBrown aveva davvero trovato le «particelle elementa-ri della vita». A chiunque avesse davvero letto l’arti-colo di Brown non sarebbe mai venuta un’idea simi-le, ma evidentemente pur di fare scalpore erano statedate al pubblico informazioni scientificamente scor-rette (un’usanza che purtroppo non si esaurì allora).

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lava l’idea che potessero esistere «particelle elemen-tari» o «atomi» di materiale organico, minuscole en-tità fondamentali portatrici della misteriosa forza vi-tale. Ma Brown riscontrò lo stesso moto incessante incampioni di polline essiccato, e in particelle «lasciatea bagno nel gin per due settimane». Osservò spore dimuschi che avevano più di cent’anni, e di nuovo tro-vò particelle minuscole costantemente in moto.

Stava iniziando a concludere che non potesse trat-tarsi di una qualche «forza vitale». Osservò gomme,resine, fuliggine e granelli di polvere dispersi nell’ac-qua. Triturò pezzetti di vetro da finestre, minerali emetalli, e persino frammenti di meteorite. Provò an-che con placca raschiata dai propri denti «dopo avermangiato pollo arrosto la sera precedente». Addirit-tura triturò un pezzettino della Sfinge e ne osservò leparticelle in moto; dev’essere stato grazie al suo im-piego al British Museum che ebbe modo di procurar-si questo campione assolutamente improbabile.

In qualunque materiale che riusciva a triturare inparticelle abbastanza piccole, Brown continuava a ri-scontrare lo stesso moto, la stessa folle danza che ave-va osservato con il polline di Clarkia pulchella.

Eppure non era ancora soddisfatto.Nei mesi successivi svolse esperimenti più accura-

ti, per verificare che il fenomeno non fosse dovuto acause esterne, come l’evaporazione dell’acqua o le vi-brazioni del microscopio. Si convinse tuttavia che ilmoto era davvero intrinseco alle particelle e non ave-va a che fare con l’ambiente esterno. Studiò il feno-meno al variare delle dimensioni delle particelle: i

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Il mondo di mezzo di BrownSebbene in vita fosse riconosciuto all’unanimità co-me il più grande botanico dell’epoca, dopo la morte –avvenuta nel 1858, a 84 anni – Brown ripiombò pre-sto nell’anonimato più totale.

Ma in fondo perché i suoi pollini danzanti avreb-bero dovuto essere niente più che una curiosità per lascienza della metà dell’Ottocento? Con una talequantità di cose entusiasmanti a cui pensare – mac-chine a vapore, elettricità, onde luminose – perchémai gli scienziati avrebbero dovuto preoccuparsi diqualche particella di polline in una goccia d’acqua?

La risposta è che le minuscole particelle danzanti diRobert Brown, con il loro comportamento, erano inconflitto con alcune grandi certezze alla base della fi-sica da più di cent’anni. Il polline in perenne agitazio-ne pareva contraddire addirittura Sir Isaac Newton.

Anche a uno sguardo superficiale, infatti, le osser-vazioni di Brown indicavano che nel comportamentodella materia ha un ruolo importante la casualità.Qualunque teoria che volesse spiegare la danza in-cessante dei minuscoli frammenti di materia sospesinell’acqua doveva rendere conto della casualità diquella danza. Nelle leggi a cui la materia obbediscedoveva esserci, da qualche parte, uno spiraglio chepermettesse di sfuggire ai vincoli del moto preciso edeterminato, previsto dalla fisica classica.

Ma la materia doveva seguire leggi immutabili e re-golari, muovendosi sotto l’azione di forze comprensi-bili e calcolabili. Era stato il grande Isaac Newton inpersona, già alla fine del Seicento, a formulare quelle

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Michael Faraday fece del proprio meglio per rime-diare, tenendo alla Royal Institution una lezione pub-blica sulla versione corretta dei risultati di Brown.Giunse addirittura a concludere i propri appunti conla congettura profetica che il fenomeno osservato daBrown avrebbe potuto avere importanti «collega-menti alla filosofia atomica o molecolare».

Nel secondo articolo Brown difese il contenutoscientifico e i presupposti del suo lavoro. Alcuni af-fermarono che i suoi risultati erano già ben conosciu-ti, soprattutto grazie al lavoro di un botanico france-se, Adolphe Brongniart. Brown ricapitolò in detta-glio la letteratura esistente in materia, fra cui le rela-zioni delle scoperte di Brongniart, e fece un confron-to con i propri esperimenti condotti ad ampio raggio,dimostrando con argomentazioni convincenti chesebbene altri avessero già visto quel moto, egli era ilprimo ad averlo esaminato con cura e completezza.Aveva studiato una vasta gamma di campioni diffe-renti, organici e inorganici, nonché particelle di di-verse dimensioni, e aveva svolto esperimenti in variecondizioni: tutti passi necessari per concludere che ilmoto osservato era reale e intrinseco a tutta la mate-ria, che fosse viva o meno.

Alla fine la comunità scientifica si schierò conBrown, e il movimento danzante delle minuscoleparticelle fu chiamato «movimento browniano» o«moto browniano». Sebbene quasi per caso e alcunianni dopo la sua morte, Brown ottenne il più grandericonoscimento scientifico: a un fenomeno naturaleera stato attribuito il suo nome.

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Si sa molto poco del pittore Hieronymus Bosch. Lasua data di nascita è incerta, ma è stato in attività al-meno dal 1486. Nel 1516 è morto. Fra l’una e l’altradata, ha dipinto. E ha dipinto il caos.

La nobiltà dell’epoca faceva a gara per aggiudicar-si le sue opere. Ma Bosch non era un pittore di corte,un sofisticato professionista del mondo dell’arte: eramembro della Confraternita di Nostra Signora, unacongregazione religiosa dalla rigida disciplina, e nonlasciò quasi mai la sua città natale, ’s-Hertogenbosch,negli odierni Paesi Bassi. Ciononostante già in vitaera famoso persino all’estero. Il caos era di moda.

Secoli dopo lo psicanalista Carl Jung osservò che iquadri di Hieronymus Bosch erano una spettacolarerappresentazione grafica del libero spaziare dellamente inconscia. Bosch era senz’altro un pittore sin-golare, non rientrava proprio nelle mode artistichedell’epoca. Eppure sembra che nei suoi quadri sia ri-uscito a cogliere e raffigurare tratti profondi dellapsiche degli uomini del tardo Medioevo, il loro im-maginario dominato da una fantasmagoria di demonibizzarri e sfrenata dissolutezza, prigioniero di unmondo ove si è inermi di fronte alla magia, alle super-stizioni e a un destino incomprensibile; vi si ritrovano

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Giardini di delizie,frutteti di determinismo

leggi, e a dimostrare per esempio che esse spiegavanole osservazioni dei pianeti. Le semplici leggi di New-ton non lasciavano alcun margine alla casualità. Se sivoleva dare credito ai risultati di Brown, bisognavaammettere che c’era qualcosa di gravemente sbagliato.

Oppure era Brown a essersi sbagliato?Se egli non fosse stato uno sperimentatore così te-

nace e coscienzioso, le sue osservazioni avrebberopotuto semplicemente essere ignorate. Questo è pro-prio ciò che alcuni scienziati provarono a fare percinquant’anni dopo la sua scoperta. Ma alla fine nonera Brown a sbagliare: aveva lavorato sodo per esseresicuro delle proprie osservazioni, com’era evidentedall’accuratezza degli articoli in cui descriveva gliesperimenti. No, l’errore era di Isaac Newton.

E ci sarebbe voluto molto tempo, dopo la scom-parsa di Brown, per correggere quell’errore.

Per capire come siano andate le cose dobbiamo dinuovo tornare indietro nel tempo, fino a un’epocaperfino antecedente le leggi di Isaac Newton, un’e-poca in cui la casualità e il caos erano ancora padronidel mondo.

E alcune menti illuminate, piccole ma brillanti lucidella ragione, stavano per cambiare tutto.

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