Mario Notaristefano - Luciano Berio Tra Poetiche Del Caso e Postavanguardia

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1 Mario Notaristefano Luciano Berio tra poetiche del caso e postavanguardia Questa rivoluzione non è arte! I. Linguaggio e comunicazione nelle poetiche contemporanee Parlare della musica e del suo possibile linguaggio rende inevitabile il paragone con il linguaggio verbale: possono descriversi le strutture generative del contesto linguistico e/o musicale ricorrendo ai soli strumenti della retorica proprio perché i due sistemi contengono tipi di segni differenti che li contraddistinguono a loro modo. 1 Vi sono senza dubbio dei punti di contatto tra la musica e il linguaggio verbale, tant’è che il discorso sonoro si articola alla pari del linguaggio in strutture composte di frasi, semifrasi, periodi, incisi e subordinate, ma è necessario suggerire più un’analogia metaforica che letterale. Tuttavia ci sono stati momenti nei quali la musica è stata vista come una complessa metafora del linguaggio: ne è un esempio la musica di Mozart, in cui lo sviluppo teatrale è parte integrante di quello musicale. Mozart è puramente esemplificativo di un lunghissimo periodo durante il quale il legame tra musica e linguaggio è stato considerato naturale e persino inevitabile, al punto che è proprio quando tale rapporto comincia a incrinarsi, vale a dire nel ’700, che comincia a porsi il problema del significato della musica e della sua eventuale valenza linguistica. Alcune opere come Le marteau sans maître di Boulez, Gesang der Jünglinge di Stockhausen, Il canto sospeso di Nono, Thema. Omaggio a Joyce e Visage di Berio, Glossolalie di Schnebel, Aventures e Nouvelles Aventures di Ligeti hanno rovesciato il rapporto con la parola. La musica ha cercato di “esplorare e assorbire musicalmente l’intera faccia del linguaggio” scoprendo il valore fonetico e linguistico della parola. 2 In questa linea ci appare un po’ più chiaro l’atteggiamento di rigetto cronocondriaco della Nuova Musica, ma non del tutto il problema della possibilità comunicativa di un suo eventuale messaggio: la libertà con la quale si assembla frammentariamente l’indeterminazione del materiale è capace di creare un messaggio univoco oppure può solo fornirci un’esposizione di informazioni contenute? La teoria dell’informazione applicata al discorso poetico esprime una radicale scissione nei termini analitici tra “significato” ed “informazione”. La convenzionalità di strutture di un ordine di ridondanze semantiche ci dà un’inequivocabilità di 1 Cfr. M. GARDA, Musica e Linguaggio, in ID., L’estetica musicale del Novecento. Tendenze e problemi, Roma, Carrocci Editore, 2007, pp. 13-44. 2 L. BERIO, Un ricordo al futuro. Lezioni americane, a cura di T. Pecker Berio, Torino, Einaudi, 2006, p. 41.

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This paper, taking cue froma stronghold of musical literature, highlights the important role the Avant-garde, and not just musical, has played in the middle of the last century. The semantic excess or new canons turns the traditional valure of Art itself; but the get in us with an artistic reality different from the mere contempletion of the 'fact of Art', becoming an observation of a complex cultural experience. An experience Luciano Berio carries in his labyrinthic music made of flashback and propelis.

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Mario Notaristefano Luciano Berio tra poetiche del caso e postavanguardia

Questa rivoluzione non è arte!

I. Linguaggio e comunicazione nelle poetiche contemporanee

Parlare della musica e del suo possibile linguaggio rende inevitabile il paragone con il linguaggio verbale: possono descriversi le strutture generative del contesto linguistico e/o musicale ricorrendo ai soli strumenti della retorica proprio perché i due sistemi contengono tipi di segni differenti che li contraddistinguono a loro modo.1 Vi sono senza dubbio dei punti di contatto tra la musica e il linguaggio verbale, tant’è che il discorso sonoro si articola alla pari del linguaggio in strutture composte di frasi, semifrasi, periodi, incisi e subordinate, ma è necessario suggerire più un’analogia metaforica che letterale.

Tuttavia ci sono stati momenti nei quali la musica è stata vista come una complessa metafora del linguaggio: ne è un esempio la musica di Mozart, in cui lo sviluppo teatrale è parte integrante di quello musicale. Mozart è puramente esemplificativo di un lunghissimo periodo durante il quale il legame tra musica e linguaggio è stato considerato naturale e persino inevitabile, al punto che è proprio quando tale rapporto comincia a incrinarsi, vale a dire nel ’700, che comincia a porsi il problema del significato della musica e della sua eventuale valenza linguistica. Alcune opere come Le marteau sans maître di Boulez, Gesang der Jünglinge di Stockhausen, Il canto sospeso di Nono, Thema. Omaggio a Joyce e Visage di Berio, Glossolalie di Schnebel, Aventures e Nouvelles Aventures di Ligeti hanno rovesciato il rapporto con la parola. La musica ha cercato di “esplorare e assorbire musicalmente l’intera faccia del linguaggio” scoprendo il valore fonetico e linguistico della parola.2

In questa linea ci appare un po’ più chiaro l’atteggiamento di rigetto cronocondriaco della Nuova Musica, ma non del tutto il problema della possibilità comunicativa di un suo eventuale messaggio: la libertà con la quale si assembla frammentariamente l’indeterminazione del materiale è capace di creare un messaggio univoco oppure può solo fornirci un’esposizione di informazioni contenute? La teoria dell’informazione applicata al discorso poetico esprime una radicale scissione nei termini analitici tra “significato” ed “informazione”. La convenzionalità di strutture di un ordine di ridondanze semantiche ci dà un’inequivocabilità di

1 Cfr. M. GARDA, Musica e Linguaggio, in ID., L’estetica musicale del Novecento. Tendenze e problemi, Roma, Carrocci Editore, 2007, pp. 13-44.

2 L. BERIO, Un ricordo al futuro. Lezioni americane, a cura di T. Pecker Berio, Torino, Einaudi, 2006, p. 41.

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traduzione del significato del suo messaggio, attingendo a probabilità di regole prefissate, in modo addirittura aprioristico. Di converso, tanto più l’assembramento della struttura si fa ambiguo e disordinato, tanto più aumenta l’informazione di un messaggio eterogeneo.

Ogni forma d’arte, anche se impianta le basi del suo discorso sulla convenzionalità figurativa ed iconografica della tradizione, istituisce il proprio valore sulla novità di organizzazione del materiale, seppure in modo originale, ristabilendo strutture che la sensibilità comune riconosce in ogni caso già come proprie. Gli sperimentalismi contemporanei ribaltano invece i presupposti di ricerca, perseguendo l’intenzionale deformazione dei moduli del discorso. Il valore artistico così si estende non più nella contrappo-sizione di modelli opposti, bensì sul puro aspetto comunicativo dell’infor-mazione che contengono, indipendentemente dalle linee estetiche di un mes-saggio.

Nell’abitualità del linguaggio tonale i rapporti organici tra gli intervalli non rappresentano solo delle semplici differenze di frequenza, ma l’obbiettiva e convenzionale ridondanza della loro percezione permette di rendere chiaro il significato del messaggio. Nelle composizioni seriali, in cui una serie di suoni viene presentata senza un lineare epicentro tonale che guidi lo sviluppo gerarchico della composizione, questo grado di prevedibilità viene a mancare. Portando al limite i presupposti degli sperimentalismi, la somma di tutte le frequenze possibili mi darà come risultato il rumore bianco che, se teoricamente dovrebbe contenere il numero massimo di informazioni, in realtà non informa più, diventa un ammasso indecodificabile dal nostro orecchio. L’esasperazione della potenza di informazione quindi tronca quelle direzioni interpretative sicché il massimo di equiprobabilità statistica nella distribuzione nega le possibilità di informazione sul piano di un rapporto comunicativo, pur mantenendolo su di un piano matematico.3

Ci si potrebbe chiedere a questo punto se la ricerca della bellezza in un’opera d’arte e la vitalità del materiale informativo siano davvero inconciliabili. Problema nullo nel caso si preferisse la vitalità al valore della bellezza, la negazione delle forme alla razionalità del gusto. Ma nel momento in cui si mette in dubbio lo stesso atto comunicativo del valore vitalità, il problema si sposta sul valore critico di un atto irrazionalmente intenzionale e provocatorio. L’entità artistica chiede al fruitore di unire liberamente le associazioni che gli stimoli indirizzano, ma al contempo di giudicarne l’esperienza in paragone al proprio campo teorico, prendendo coscienza di ciò che è nell’Arte. Lo pensava già Amadeus Wendt nel 1830, spogliando la musica da ogni veste puramente edonistica e passivamente

3 Cfr. U. ECO, Opera aperta, Milano, Bompiani, 2009, pp. 167-78 (in part. p. 174).

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armonica e chiamando il fruitore ad un necessario giudizio scientifico, anche quando questo mette in crisi il rapporto tra scienza ed arte.4 II. Crisi d’Avanguardia

La musica seriale, germogliata nel panorama darmstadiano, da cenacolo di pochi adepti divenne una moda culturale estremamente affascinante, un inesauribile cult della prima metà del Novecento che sopprimeva in un certo qual modo la debole individualità, come se lo sforzo collettivo avvicinasse ma al contempo rendesse anonimi. Un collegio di false libertà ed ideali conquistati, libertà di poter usare qualsiasi materiale in qualsiasi forma. La coscienza di gruppo normativa evolutasi elaborava partiture sempre più complicate, facendone spesso più una questione di prestigio che di valore necessariamente musicale. Formule, schemi e ricette preconfezionate sembrano voler attingere ad un messaggio coercitivo esteticamente nullo ai fini della propria funzione, riempiendo tautologiche pagine di carta pentagrammata in cui tutto, quasi inconsapevolmente, attraverso un gergo sempre più raffinato, doveva quadrare, indipendentemente dal suo risultato percettivo ed estetico.

Si tratta di opere che, per quanto apparentemente prive di un’unità formale, sono rette da leggi strutturali che ne indirizzano la lettura, ma non la ricerca di una chiave che giustifichi in modo finito l’esperienza del fruitore, ovvero quella dell’opera stessa. Tale apertura, se da un lato ci offre una complementarietà di differenti livelli di lettura, tutti possibili, al tempo stesso la rende incompleta, poiché incapace di esaurire assieme tutti gli esiti in cui l’opera può identificarsi.5 La ricerca dei codici metalinguistici che mettono in relazione il modo di operare e i principi cognitivi, tuttavia, non è sufficiente a conferire valore artistico ad un’opera. Si mette in dubbio che un’opera aperta riesca a comunicare e possa dirsi esteticamente intenzionata, e non sia invece frutto di una reale furia fantascientifica; se ne mette in discussione il linguaggio e la sua comprensibilità,.

Un procedimento numerico sistematico portato alle estreme conseguenze finisce con il produrre risultati analoghi a quelli ottenibili con un procedimento aleatorio, pervenendo in entrambi i casi alla dissoluzione del senso formale. Tra i primi a far vasto uso dei procedimenti aleatori fu l’americano John Cage, elevando l’opera d’arte ad un’operazione d’arte mai esattamente determinata e prevedibile. Nei procedimenti seriali l’apertura è applicabile dai singoli parametri del suono (altezze, timbro, dinamica, durata) alle permutazioni di piccole strutture formali, sino alla forma

4 Cfr. A. WENDT, Über die Hauptperioden der schönen Kunst, oder die Kunst, im Laufe der Weltgeschichte dargestellt, Leipzig, 1831, p. 373, in A. EDLER, Schumann e il suo tempo, Torino, EDT, 1991, p. 49.

5 Cfr. U. ECO, Opera aperta, cit., p. 52.

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macrostrutturale del pezzo. Nel caso dei procedimenti aleatori il concetto di apertura formale può riguardare il processo compositivo o quello performativo. Nel caso riguardi il processo compositivo, descritte le possibilità di eventi generativi in una griglia formale ben definita, l’atto creativo diventa una scelta di possibilità arbitrarie e/o casuali. Nel caso in cui riguardi il processo performativo, i procedimenti random descritti in partitura (verbalmente o graficamente) concernono l’esecutore. Tali procedimenti possono far parte della notazione o possono esser frutto di una volontaria riduzione del controllo sull’evento sonoro da parte del compositore. Da una parte i seguaci della serialità integrale, che predetermi-navano gli elementi microstrutturali rinunciando al controllo sulla macro-forma; dall’altra gli adepti dell’alea, che finivano per far coincidere caso e composizione a livello sia macroformale che microformale. In mezzo, autori che tentavano di recuperare il controllo sulla forma determinando percorsi generali entro cui si verificavano eventi casuali.

Per compositori come Maderna, Nono e Berio, l’accostamento alla serialità integrale, all’alea e all’elettronica si colloca all’interno di una concezione umanistica della musica, che mette al centro l’intento comunicativo e si esplica attraverso interventi empirici sul suono, in modo tale che la manipolazione acustica rientri nella struttura di un tessuto polifonico più complesso. III. Luciano Berio, appunti per una biografia

Gli anni dell’immediato dopoguerra furono uno dei momenti in cui si accese un forte senso di rinnovamento, in cui da una parte ogni nuova strada ed ipotesi rappresentava un possibile riscatto dal passato, ma dall’altro si profilava il rischio di produrre strutture confuse e di cadere in una sorta di afasia linguistica, che poteva creare un divario ancora più imbarazzante tra chi produceva queste forme musicali ed il pubblico che non riusciva a recepirle. Per quanto riguarda l’italia, data la difficile situazione politica, fu solo attorno alla metà del secolo che iniziarono a diffondersi opere di compositori come Schönberg, Stravinskij, Webern, Hindemith, Bartók e Milhaud.

Fiutare le correnti di pensiero più vive e lasciar cadere tutto ciò che, a dispetto delle seducenti apparenze, era in fondo sterile ed oltranzista; essere capace di rapidi aggiornamenti; coltivare l’interesse per la linguistica, l’opera di Joyce, l’antropologia strutturale di Lévi-Strauss; occuparsi degli studi sulla fonetica e sul canto popolare sono alcuni degli interessi che orientano la formazione di Luciano Berio e che ne definiscono la costellazione culturale: punti piuttosto eccentrici rispetto a quelli dominanti nelle Avanguardie di quegli anni. I punti di contatto tra Berio e i musicisti della generazione degli anni ’50 erano molto profondi, ma allo stesso tempo

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molto generali; il bisogno di cambiare, di sviluppare e di rileggere l’esperienza seriale era legato da una parte a un senso di responsabilità, che lo spingeva a non accettare più nulla a scatola chiusa, dall’altra alla volontà di incidere e contribuire ad una profonda innovazione musicale, che forse in molti casi sconfinava in un’adorazione feticista di modelli e processi, rischiando di svuotare il linguaggio musicale e ridurlo a estremismi combinatori privi di fondamento e senso storico. Per quanto musicisti quali Berio e Maderna abbiano contribuito ad aprire le strade ad un percorso sostanzialmente neoavanguardistico del tutto italiano, Berio ha sempre rigettato fermamente tale etichetta generica, che ha la pretesa di ricondurre alla stessa denominazione personaggi, ricerche e percorsi tutt’altro che omogenei.

Dal cauto accostamento di Berio ai procedimenti seriali nascono lavori quali Serenata I (1957) per flauto e quattordici strumenti, Différences (1958) per flauto, arpa, clarinetto, viola, violoncello e nastro magnetico e Tempi Concertati (1958) per flauto, violino, due pianoforti e altri strumenti. Si tratta di opere nelle quali Berio supera gli automatismi seriali, ricorrendo alla variazione continua di alcuni elementi di base, sottoposti a libere trasformazioni, a elaborazioni del materiale che sono alla base di una conciliazione tra flessibilità e controllo totale: un procedimento condiviso da Eco, il quale proponeva un nuovo approccio alla struttura. Le nuove forme sostengono una cornice all’interno della quale materiali di diversa matrice si assemblano in ordine discontinuo, creando una struttura non completamente determinata e dominata da elementi preesistenti, ma sospesa piuttosto tra più interpretazioni. Ciò ha permesso, almeno in linea di principio, di riconciliare l’apparente contraddizione tra l’imperante controllo del materiale, che ha raggiunto l’apice con il primo Boulez e Stockhausen, e l’elasticità delle performance, che ha caratterizzato l’aleatorietà di Cage.

Un analogo processo di elaborazione del materiale è rintracciabile in letteratura nell’opera di Joyce, in particolare nel Finnegans Wake, in cui, attraverso l’uso di un linguaggio onirico e polisemico, la tecnica del flusso di coscienza (già adoperata nello Ulysses) viene portata alle estreme conseguenze. Finnegans Wake mescola storie, annulla linguaggi precostituiti, incorpora citazioni in una maglia fittissima di possibili letture: il risultato della rinuncia alle formalizzazioni logiche è un linguaggio che, sconvolgendo le strutture del romanzo tradizionale nelle tematiche e nella sintassi, permette di cogliere gli aspetti più eterogenei ed immediati dell’esperienza umana, riproducendone il linguaggio incoerente dell’incon-scio.

Nella struttura generale dell’Ulysses c’è una corrispondenza tra i singoli capitoli e le varie arti: in particolare l’undicesimo, il capitolo delle Sirene, è associato alla musica. È naturale quindi che Joyce decida di incrementare in questo capitolo la musicalizzazione fonetica, intensificando da un lato l’uso di allitterazioni ed onomatopee (espressioni come “Imperththn thnthnthn”

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sono onomatopee di trilli, “Chips, picking chips” di staccati, “A sail! A veil awake upon the waves” di glissandi) e dall’altro organizzando l’entrata dei personaggi secondo la procedura della fuga per canonem. Trattandosi di un’opera letteraria il procedimento del canone non consente sovrappo-sizioni, ma l’accostamento degli episodi, delle entrate dei personaggi e delle citazioni provenienti dalla lirica musicale crea un flusso narrativo non più rettilineo, ma circolare.6

Questo passaggio da una dimensione percettiva all’altra fu da stimolo per Berio per Thema. Omaggio a Joyce (1958), in cui utilizzò alcuni frammenti dallo Ulysses, scelti per la loro particolare connotazione musicale. Le complesse operazioni di analisi, classificazione e sovrapposizione anche di idiomi diversi (il testo viene dato in inglese, francese e italiano) diventarono così un parametro compositivo da impiegare allo stesso modo della densità della texture o delle altezze, permettendo così di creare un rapporto non di opposizione, ma di continuità tra suono e parola.

L’esplorazione delle possibilità musicali e sintattiche della parola continuò con opere quali Circles (1960), Sequenza III (1966), Sinfonia (1968), A-Ronne (1974), Coro (1975-76) e Ofanìm (1988-92). Si tratta di opere in cui i presupposti più importanti diventano l’organizzazione degli elementi fonetici del testo, l’estensione dei rapporti fonetici tra gli strumenti e la voce, le mutazioni di senso formale sulla base delle permutazioni delle trame gestuali e la continua apparizione di un confronto storico non più idiosincratico, ma in cui innovazione e memoria convivono. Proprio in Sinfonia convivono differenti dimensioni di significato, ad iniziare dal titolo, che non ha nulla a che fare con la forma classica, ma va piuttosto inteso in senso etimologico, come il suonare assieme di voci e strumenti: una provocazione che mostra come spesso ciò che abbiamo in mente di definito non sia altro che pura nomenclatura. Il brano è per orchestra ed otto voci, le quali non sono usate in senso tradizionale, ma parlano, bisbigliano e gridano frammenti di vari testi da Le cru et le cuit di Lévi-Strauss e Unnamble di Beckett. Come le voci ci danno percezioni di storie interrotte, parimenti fa la musica con citazioni da Bach, Brahms, Stravinskij, Boulez, Mahler e Berio stesso. Citazioni che offrono lo spunto per comprendere il rapporto di Berio col passato e il futuro, di cui ci da una testimonianza diretta in Un ricordo al futuro, parlando di quella musica che interroga ed invita l’ascoltatore ad una presa di visione del suo rapporto con il passato in vista di una revisione o addirittura sospensione di esso, prevedendone la riscoperta in relazione ai percorsi futuri.

Parimenti in campo letterario si sono consumati interminabili matches tra passato e presente: secondo Eliot, la tradizione non è un patrimonio che viene ereditato in modo per così dire automatico, ma di cui bisogna impossessarsi, acquisendo con fatica la consapevolezza che il senso storico

6 Cfr. E. RESTAGNO (ed.), Berio, Torino, EDT, 1995.

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ha una sua esistenza simultanea che ordina la nostra eredità culturale e storica, del passato che è allo stesso tempo presente. Possesso di un senso storico, che è senso dell’atemporale come del temporale, e dell’atemporale e del temporale assieme, che rende consapevole del suo posto nel tempo uno scrittore, distolto dall’atteggiamento tradizionalmente passivo della contemplazione del passato e chiamato a svolgere un ruolo culminante nella ridefinizione del passato che giustifica il presente.7

Nel 1985, quando l’ascetismo delle vecchie avanguardie era completa-mente in declino e da ogni parte si proclamava la necessità di un ritorno alla tradizione, Baxandall riprendeva la tesi di Eliot, affermando che, se diciamo che la tradizione ha esercitato un influsso sull’Individuo, ovvero l’artista, sembra che essa abbia prodotto un’azione sull’Individuo, piuttosto che il contrario. È invece nel caso in cui l’Individuo influenza la tradizione che si crea una relazione certamente più interessante, favorendo la diversificazione del nostro vocabolario: ricorrere a, servirsi di, adattare, citare, stabilire un contatto con, mettersi in sintonia con, parafrasare, assorbire, rivivere, distorcere, rielaborare, semplificare, ricostruire, etc.8

Alla luce delle riflessioni di Eliot e Baxandall, il rapporto di Berio con la tradizione ci appare più chiaro. Rendering (1988-89) ne è forse l’esempio più lampante: si tratta di un’opera basata su frammenti di una sinfonia incompiuta di Schubert, che sarebbe stata la sua ultima Sinfonia in re maggiore. Qualcosa di simile è accaduto anche per Zaide (1981), l’opera che Mozart non terminò, e per il finale di Turandot (2001) di Puccini.

La domanda “cosa intendi per musica?” pareva a Berio “una domanda difficile e, tutto sommato, un po’ indiscreta”, dal momento che la musica può essere pensata come

un insieme di tanti fenomeni diversi che prende forma in tante zone e livelli diversi della nostra coscienza e della realtà.9

Tentare di definire la musica, che per Berio non è un oggetto ma un

processo, ristabilisce quei confini tra ciò che è musica e ciò che non lo è: confini impossibili da tracciare, che sfuggono addirittura ad ogni processo estetico che cerchi di definire ciò che è Bello. Se sino all’avvento della dodecafonia i limiti tonali delimitavano un ambito di azione assai chiaro a tutti, l’Avanguardia ha reso tali confini quanto mai mobili. Rispondere in maniera esaustiva alla domanda “cos’è la musica?” presuppone che siffatto processo sia concluso e finché si pone il problema di individuarne i confini

7 Cfr. T.S. ELIOT, Opere, a cura di R. Sanesi, Milano, Bompiani, 1992, pp. 393-4. 8 Cfr. M. BAXANDALL, Forme dell’intenzione. Sulla spiegazione storica delle opere

d’arte, trad. di A. Fabrizi, Torino, Einaudi, 2000. 9 L. BERIO, Intervista sulla musica, a cura di R. Dalmonte, Roma-Bari, Laterza, 2007, p.

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non sarà mai arte compiuta: si potrà solo pervenire a individuare un elemento aggiuntivo da porre in contraddizione a qualcos’altro. IV. Sequenze e Chemins, un approccio ri-creativo

Le Sequenze di Berio costituiscono il solo corpus di opere che ricopre l’intero arco della sua carriera,10 un gruppo di brani solistici che in alcuni casi hanno generato la serie dei Chemins e composizioni come Linea (1973), Point of the curve to find… (1974) e Notturno (1993-95), in cui la parte solistica è avvolta da un commento orchestrale senza tuttavia essere modificata. La trascrizione delle Sequenze negli Chemins crea un tessuto in cui il solista coesiste con la sua immagine trascritta in un gruppo strumentale, che amplifica e fa emergere le forme spesso implicite e nascoste: trascrizione che non è adattamento del materiale (ossia trascrizione come genere) ma parte integrante di un processo che investe non più il suono ma l’idea stessa.

Il termine Sequenza non ha alcuna derivazione dall’antica accezione, che indica il tropo del X secolo, né rivela una concezione formale precostituita: piuttosto trae origine dai campi armonici su cui è edificata l’opera.11

Tra gli elementi che emergono immediatamente dalle Sequenze colpisce certamente l’uso del virtuosismo, caratterizzato non tanto dalla trepidante gazzarra di suoni, bensì soprattutto dalla consapevolezza di chi è capace di attraversare l’intera evoluzione storica dei singoli strumenti, risolvendo le tensioni fra la creatività del linguaggio di ieri e di oggi. La comparazione delle esperienze storiche conduce in questo modo l’ascoltatore ad un continuo e volontario rapporto di conferma e cesura della memoria tra passato e presente. Il virtuosismo non appare quindi ammantato della violenza ideologica di chi vuole necessariamente sperimentare nuove tecniche, ma asseconda lo sviluppo tecnico di ciascuno strumento in modo così distintivo che ogni brano assorbe potenzialmente il repertorio in un nuovo percorso.

10 Sequenza I per flauto (1958), Sequenza II per arpa (1963), Sequenza III per voce (1965-66), Sequenza IV per pianoforte (1966), Sequenza V per trombone (1966), Sequenza VI per viola (1967), Sequenza VII per oboe (1969), Sequenza VII b per sassofono soprano, Sequenza VIII per violino (1975-77), Sequenza IX per clarinetto (1980), Sequenza IX b per sassofono contralto (1980), Sequenza IX c per clarinetto basso (1980), Sequenza X per tromba e risonanze di pianoforte (1984), Sequenza XI per chitarra (1987-88), Sequenza XII per fagotto (1995), Sequenza XIII “Chanson” per fisarmonica (1995), Sequenza XIV per violoncello (2002).

11 Cfr. E. RESTAGNO (ed.), Berio, cit., p. 146. Secondo Fagnocchi, in Sequenza I c’è una chiara derivazione dalla sequenza medioevale, che consisteva nell’immissione di un testo vocale sui lunghi melismi che variavano le sillabe del termine Alleluja. Questo tentativo di interpretazione si allontana dalla fedele adesione al testo e forza abusivamente le affermazioni dello stesso autore. Per approfondimenti, cfr. G. FAGNOCCHI, Lineamenti di Storia della Letteratura flautistica, Faenza, Mobydick, 1999, pp. 292-3.

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Un’opera musicale non è mai veramente prêt à écouter ma ha bisogno di un continuo chiarimento da parte di intermediari che interpretino il rapporto fra l’idea ed i criteri della sua realizzazione. Parlare di apertura delle forme sottintende certamente il desiderio di seguire percorsi né lineari né omogenei, ma non chiarisce in rapporto a cosa esiste tale apertura. Indubbiamente un’opera non sarà mai completamente aperta al momento dell’ascolto, in quanto il risultato sarà sempre univoco nello spazio e nel tempo; si potrà invece trovare apertura nei processi creativi nascosti nelle sue pagine, magari assieme ad una buona dose di aleatorietà.

Ciò che fa da fil rouge alla serie delle Sequenze è l’identità grafica e drammatica delle partiture, ottenuta mediante l’introduzione di elementi extra-musicali: linee narrative senza la necessaria presenza di un testo e comportamenti che vanno al di là degli usuali e naturali gesti strumentali. Uno dei lavori che riunisce meglio teatralità e dinamicità della forma, abbracciando le problematiche linguistiche affrontate da Joyce ad Eco, è Sequenza III per voce femminile. L’opera è una sorta di invenzione a tre voci che sviluppa simultaneamente classi di materiale che interferiscono e si incorporano a vicenda: il testo di Kutter, che non appare mai nella sua completezza ma in una permanente modularità resa possibile dall’utilizzo di unità a livello di sintagmi parziali del testo, getta la voce in un’escursione vocale che va dal rumore al canto, generando un nutrito prontuario di gesti vocali ed indicazioni espressive che accompagnano l’elaborazione musicale. L’incontro tra i due sistemi semiotici (musica e parola) non si pone qui in termini di prevaricazione reciproca, bensì di reciproca apertura: né la parola annulla l’esclusività della musica né di contro la musica invalida il significato della parola, ma solo dall’intima fusione di esse si crea un nuovo codice comunicativo che muta sostanzialmente il valore d’origine dei rispettivi sistemi. Un codice che non è propriamente né un linguaggio verbale (nonostante l’uso di termini quali “sintassi”) né un linguaggio musicale autonomo, un linguaggio che seppure snaturato non ci fa mai sentire a disagio proprio perché propone un aggancio con la realtà, anche non strettamente musicale, che tutti conosciamo.

Nonostante siano brani solistici, spesso per strumenti monodici, le Sequenze sono scritte secondo un sistema polifonico articolato su vari livelli: non solo per la scrittura a più voci, ma anche per la presenza latente e virtuale di una polifonia composta di flashback ed analessi sonori, ritorni su altezze fisse o somiglianze di strutture ritmiche, eventi autonomi sovrapposti tra loro, come altezze, dinamiche, variazioni di agogica ed elaborazioni fonetiche. Il gesto e le loro interazioni, singole o col contesto generale, diventano oggetto di ricerca, di esplorazione di un campo nuovo che sostituisce definitivamente le problematiche funzionali seriali; la matrice combinatoria passa da essere seriale a testuale. Un gesto che reca tracce di storie già dette, processi già avvenuti, riletti e reinterpretati, dimostrazione pratica di un residuo atto linguistico; cosicché la poetica del

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gesto viene in prima istanza interiorizzata al livello del testo e poi teatralizzata interiormente ed esteriormente.12 V. La Sequenza per flauto. Opera Aperta?

Scritta negli anni in cui il virtuosismo di Gazzelloni era stato di stimolo

per la creazione di una ricca letteratura flautistica, Sequenza I (1958) è probabilmente il brano più celebre di tutta la cosiddetta Gazzelloni Musik, nonché una delle opere più importanti per ‘flauto solo’ del XX secolo, assieme a Density 21.5 (1936) di Varèse e Syrinx (1913) di Debussy. Un’opera rivoluzionaria che come poche ha inciso sui compositori, darmstadtiani e non, che dopo il ’58 si avvicinarono al flauto. L’interesse che immediatamente suscitò fu certamente dovuto all’utilizzo di una notazione innovativa: di fatto fu la prima partitura a circolare così ampiamente in Europa a far uso della notazione proporzionale.13

Compresa la forte influenza letteraria di Joyce e l’esperienza seriale a Darmstadt, è possibile inquadrare Sequenza I nel contesto dello stile compositivo dell’autore. Berio aveva già usato principi di tecnica seriale in composizioni giovanili, comprese Chamber Music (1953), Cinque Variazioni (1952-53), Nones (1954), e tracce di serialismo possono essere trovate anche in Sequenza I. I campi armonici di cui Berio parla costituiscono centri gravitazionali nella partitura e si riferiscono alla saturazione di taluni intervalli presenti nella serie (o motivo) iniziale, all’uso di gesti musicali e all’impiego di alcuni parametri polarizzati, come ad esempio le altezze.14 Questo materiale armonicamente coerente e così variegato si ingloba in un discorso espressamente monodico, dove l’unità è garantita dalla stessa iterazione del materiale.

Il brano rinuncia alla metrica tradizionale affidando la durata dei ritmi al posizionamento spaziale delle note sulla partitura, appunto in metrica proporzionale. L’opera è strutturata in modo tutt’altro che “aperto”, poiché ci si accorge ben presto che tutto è maniacalmente scritto, concedendo all’esecutore una libertà psicologica piuttosto che musicale. Naturalmente

12 Cfr. M. UVIETTA, Gesto, intenzionalità, indeterminazione nella poetica di Berio tra il 1956 e il 1996, “Rivista italiana di musicologia”, n. 46 (2011), pp. 212-6.

13 Esempi simili erano già stati introdotti nei primi anni Cinquanta da compositori d’oltreoceano quali BROWN (Music for Cello and Piano, 1954-55) e CAGE (William Mix, 1952; 34’46.776’’ for a Pianist, 1954; 31’57.9864’’ for a Pianist, 1954).

14 Non adoperando un rigido e stretto strutturalismo seriale, qualsivoglia termine (serie, motivo, leitmotiv, etc.) è di per sé una forzatura. La scelta di affiancare ed interscambiare una terminologia quale motivo e serie è piuttosto azzardata, in quanto la serie non è necessariamente un motivo, anzi quasi mai lo è. Ma in Sequenza I l’uso che Berio fa della serie (di dodici suoni) iniziale, sottoponendola ad un processo di continua evoluzione, fatta di cambiamenti ed afflussi di materiali sempre nuovi ma pur sempre generati dalla serie iniziale, è paragonabile ad un utilizzo tematico del materiale.

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l’indeterminazione di una notazione talmente innovativa produsse come risultato imprecisi adattamenti, per lo più abusivi, della partitura, tant’è che nel 1992 Berio ripubblicò Sequenza I in notazione tradizionale “meno aperta e più autoritaria, ma certamente più attendibile”,15 cercando di chiarire le incomprensioni generatesi dalla precedente.16 Le proporzioni, data la natura della notazione adottata inizialmente, se da un lato saranno sempre approssimative, dall’altro permettono certo una piccola flessibilità di adattamento nel tempo, che è parte della concezione del lavoro. L’abuso delle libertà concesse porta alla sua alterazione, dove nel complesso la velocità, i bruschi cambi di registro e la pressione a cui è sottoposto costantemente ogni parametro portano automaticamente ad una sensazione di instabilità. Si tratta di capire che tipo di apertura Berio conceda, se in termini formali o di permutazione di alcuni parametri.

E per comprenderlo bisogna tornare alle dispute dell’Avanguardia, nelle quali il problema della forma cominciò ad essere sempre più ingombrante in un momento in cui la riflessione teorica procedeva di pari passo con l’apparizione di ogni nuova tendenza pratica.17 Se da un lato questo smisurato interesse comune portò a numerose arringhe di approfondimento sul significato dell’opera come valore estetico in continua mobilità pluridirezionale, dall’altro provocò una confusione terminologica – tutt’altro che superata – che lasciò aperte più problematiche di quelle che vennero risolte. Da una parte il fiducioso Eco, dall’altra chi, come Boehmer, mostrava il suo scetticismo di fronte ad una teoria organica che abbracciava in un’unica categoria materiale che omogeneo non era affatto.

Il concetto di “opera aperta” naturalmente presuppone un cambio, e forse anche una dissoluzione, del concetto tradizionale di opera, nascondendo altresì una contrapposizione: aperta rispetto a ciò che in precedenza era da intendersi come chiuso? L’idea di un’opera chiusa ci fa immaginare qualcosa di immutabile e concluso nel tempo, lo stesso ideale di un’estetica che per due secoli aveva ricercato il Bello e guidato la percezione dell’opera d’arte, e che adesso è minato dall’indeterminazione. Proprio nella contrapposizione temporale tra passato e presente, la formula “opera aperta” mostra una stretta relazione con problematiche precedenti, raccogliendo pericolosamente nei suoi contorni indefiniti tutto ciò che c’è di ambiguo ed

15 L. BERIO, Intervista sulla musica, cit., pp. 108-9. 16 Tant’è che nella lettera di risposta al flautista Aurèle Nicolet, che gli aveva inviato in

anteprima la sua incisione nel 1966, Berio scrive: “Nella tua registrazione c’è un malinteso che riguarda le proporzione fra i tempi e le velocità. Non è questione di un tempo più o meno rapido: una volta che si è scelto il tempo, le proporzioni di durata delle note devono essere comunque rispettate. Si deve comunque scegliere il tempo [...] che permetta di rispettare queste proporzioni di durata”. Una lettera di Berio, “Syrinx”, n. 4/13 (1992), p. 27.

17 Limitiamo il discorso al XX secolo, nonostante l’apertura delle forma, sia in senso performativo / compositivo sia a livello interpretativo, faccia parte di qualunque costrutto artistico di ogni epoca.

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anticonformista, decretando la fine di un’era che per analogia diventa dell’“opera chiusa”.18 Il problema della forma diventa perciò meno catastrofico di una presunta biforcazione tra serialismo ed indeterminazione, o, a detta di Eco, tra Ordine / Disordine, se inquadrato come processo consequenziale.19 È chiaro quindi che il concetto di opera chiusa non si riferisce a un genere specifico, ma al contrario allude ad opere che, al di là di analogie di facciata, si differenziano l’una dall’altra. Contro tale malinteso di fatto Montale, nella recensione del ’62 di Opera aperta, proponeva l’utilizzo più corretto di opere aperte.20

Anche laddove l’indeterminazione dell’ambiguità testuale sia massima, la partitura corrisponde di fatto ad un processo compiuto e paragonarlo ad un prodotto “non finito” è un grave errore. Un malinteso di significato derivato da alcune affermazioni di Eco tra ciò che è “chiuso” e ciò che è “aperto”:

è chiaro che opere come quelle di Berio o di Stockhausen […], detto volgarmente, sono opere “non finite”, che l’autore pare consegnare all’interprete più o meno come i mezzi di un meccano, apparentemente disinteressandosi di come andranno a finire le cose,21

offrendo “al fruitore un’opera da finire”.22 Tutto ciò genera una confusione terminologica tra opera esteticamente compiuta e opera facente parte di un processo più complesso, che usa l’interprete come strumento di chiusura. La fenomenologia dell’indeterminazione nell’opera d’arte entra in relazione con l’eteronomia della stessa: un rapporto certo di opposizione ad un’accondiscendenza idealmente e ipostaticamente storiografica, in favore di una metodologia più duttile e comprensiva nella pluralità critica.

Uno degli studi più interessanti riguardo il concetto di apertura formale in musica è quello condotto da Decroupet che, basandosi su un sistema di classificazione a tre livelli, individua otto tipologie di apertura. Le variabili sono così divise: S = strumento, P = parametri delle strutture, F = forma chiusa (c) o mobile (m).23 1. Sc-Pc-Fc: partiture in cui il testo è già fissato (Music of Changes, 1951, di

Cage);

18 Cfr. A. DE BENEDICTIS, Opera aperta: teoria e prassi, in Storia dei concetti musicali. Espressione, forma, opera, a cura di G. Borio e C. Gentili, Roma, Carrocci, 2007, p. 319.

19 Cfr. U. ECO, Opera aperta, Milano, Bompiani, 1962, p. 2. 20 Cfr. Ibid., p. XVII. 21 U. ECO, Opera aperta, cit., p. 35. 22 Ibid., p. 58. 23 Cfr. A. DE BENEDICTIS, Opera aperta: teoria e prassi, cit., pp. 323-4; P. DECROUPET,

Aleatorik und Indetermination. Die Ferienkurse als Forum der europäischen Cage-Rezeption, in Im Zenit der Moderne: die Internationalen Ferienkurse fur neue Musik Darmstadt, 1946-1966, a cura di G. Borio e H. Danuser, Freiburg im Breisgau, Rombach, 1997, pp. 191-8.

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2. Sc-Pc-Fm: partiture modulari di strutture e/o sezioni definite (Troisième Sonata, 1955-77, di Boulez; Klavierstück XI, 1956, di Stockhausen; Scambi, 1957, e Caractèrs I, 1961, di Pousser; Aleatorio, 1964, di Evangelisti; Preludes and Fugue, 1972, di Lutoslawski);

3. Sc-Pm-Fc: partiture in cui le decisioni locali sulla realizzazione di alcuni parametri sono lasciati all’interprete (Sequenza I, 1958, e Circles, 1960-61, di Berio; Spiegel II, 1961-63, di Cerha; Volumina, 1961-62 di Ligeti);

4. Sc-Pm-Fm: partiture in cui le decisioni locali per la definizione delle singole strutture, così come la loro organizzazione formale, sono lasciate agli interpreti (Mobile, 1958, di Pousseur; Available Forms I e II, 1961-62, di Brown; Mobile for Shakespeare, 1961, di Haubenstock-Ramati; Ausstrahlung, 1970-71, di Maderna; Five Piano Pieces for David Tudor, 1959, di Bussotti);

5. Sm-Pc-Fc: partiture non destinate ad uno strumento specifico (Dialodia, 1972, di Maderna);

6. Sm-Pc-Fm: partiture modulari composte da strutture definite per le quali non è specificata alcuna strumentazione (Mikrophonie I, 1964, di Stockhausen);

7. Sm-Pm-Fc: partiture dal tracciato formale chiuso, che prevedono un margine di libertà nell’articolazione parametrica delle strutture e nella destinazione strumentale (Hodograoh I, 1959, di Brown);

8. Sm-Pm-Fm: partiture in cui ogni dato è mobile (Variation I, 1958, di Cage; Glossolalie, 1959, di Schnebel; Plus-Minus, 1963, di Stockhausen).

Opera aperta ed opera chiusa rappresentano un binomio che costituisce

ancora oggi un problema irrisolto, dimenticato e a volte archiviato da sbrigative discussioni, ma che precede ed aiuta a comprendere il mutamento del significato di opera e del rapporto tra soggetto e storicità, anzi contemporaneità. In quest’ottica, la possibile dicotomia alla base di Sequenza I tra la libertà concessa all’interno dei parametri strutturali e la chiusura della forma macrostrutturale ci appare non più degenerante, bensì come una costellazione di leggere inflessioni in un’opera estremamente complessa, che sfugge al guinzaglio della definizione e testimonia non solo un’apertura alle interpretazioni basate sulle scelte dei performers, ma anche un’ apertura del materiale di uno stesso substrato espanso in più direzioni. VI. Le due versioni: analogie e differenze

Quale delle due versioni di Sequenza I è più aperta? Ad un primo impatto sembrerebbe che le pagine del 1958 offrano maggiore libertà

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rispetto alla lettura indirizzata del 1992,24 che se da una lato risolve certe incomprensioni dall’altro ne penalizza parte della vivacità originaria, adesso risolta in relazioni semplici che inducono ad una visione molto diversa delle priorità strutturali.25 (Si vedano gli esempi 1 e 2).

Stando alle affermazioni di Hopkins, l’intenzione iniziale di Berio per prima versione era quella di utilizzare una notazione precisa e determinata:

He originally wrote it in exceptionally fine detail [...] but Gazzelloni could not handle it, so Berio decided to use proportional notation.26

La scelta dell’uso della notazione proporzionale fa quindi pensare che

essa sia giunta almeno in parte come soluzione al problema. La rielaborazione del ’92 assegna alle note un valore che non sempre corrisponde a quello indicato nella prima stesura, dimostrando che l’indeterminazione delle microstrutture è interpretabile in modo differente finanche dallo stesso autore.27 Le fermate e le corone sono certamente più controllate nella versione del ’92, in quanto hanno una durata quantificata in secondi, ma la traduzione è lontana dall’essere una fedele trascrizione. In molti punti di fatto la nuova versione esagera o contraddice le distanze ritmiche proporzionali, mostrando così un apparente desiderio di mantenere un alto grado di irregolarità ritmica.

La prima battuta dell’esempio 1 è più vicina all’esempio 2, mentre la seconda battuta dell’esempio 3 è più simile all’esempio 1. Le tre versioni sono abbastanza simili nella parte centrale, ma l’esempio 3 estende notevolmente il La4 alla fine. Esempio 1: edizione del 1958

24 Tra le varie analisi comparative delle due versioni, Paul Nauert delinea una sorta di “teoria della percezione delle strutture temporali”, andando alla ricerca dei differenti valori informativi che ciascuna versione conferisce alla struttura. Ringrazio vivamente Nauert per aver condiviso il suo prezioso materiale inedito (P. NAUERT, Berio’s re-notation of Sequenza I. Representations of surface and structure in nonmetric music).

25 D. OSMOND-SMITH, Only Connect..., “The Musical Times”, n. 134/1800, Febbraio 1993, p. 80.

26 Questa citazione è un estratto da una lettera di N. Hopkins (ex assistente musicale di Berio) a Benedict Weisser, conservata presso la Paul Sacher Stiftung di Basilea. Cfr. B. WEISSER, Notational Practice in Contemporary Music: A Critique of Three Compositional Models (Luciano Berio, John Cage and Brian Fereneyhough), Ph. D. Dissertation, City University of New York, 1998, p. 38, in C. FOLIO - A. R. BRINKMAN, Rhythm and Timing in the Two Version of Berio’s Sequenza I for Flute Solo: Psychological and Musical Differences in Performance, in Berio’s Sequenzas: Essays on Performance, Composition and Analysis, a cura di J. Halfyard, Aldershot, Ashgate Publishing Company, 2007, p. 2.

27 Si veda a proposito anche l’esempio 3, tratto dalla lettera del ’66 indirizzata al flautista Aurèle Nicolet, in cui Berio trascrive la prima frase proponendo una notazione ritmica che differisce dalla stesura successiva del ’92.

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Esempio 2: edizione del 1992 Esempio 3: tratto da una lettera ad A. Nicolet (1966)

Le sostanziali modifiche apportate alla nuova versione (cambi di raggruppamenti, agogica, accenti, dinamica, articolazione, note e morfologia) mostrano come la ri-notazione possa servire, oltre a chiarirne gli aspetti, ad ampliare la gamma di possibilità di raggruppamenti di figure musicali diverse (assegnando ritmi differenti a motivi simili), pur mantenendo un alto livello di irregolarità ritmica.28

In un’intervista a Weisser Berio confessò che fece uso dell’originale versione pre-proporzionale del ’58 durante la revisione del ’92:

[Berio] copied the old version in pencil, then modified all the rhythms in order to simplify them. This process consisted of regularizing or “rounding off” the rhythms so they would fit into rational meter. Berio describes it in a wonderfully understated, pithy manner: “I eliminated some excess of complexity”.29

Eliminando così gli eccessi di complessità del ’58, la trascrizione in

notazione convenzionale fu affidata a Roberts, assistente musicale di Berio.

The truth is that Berio originally composed the flute Sequenza in standard notation back in 1958. It was written using very strict serial rhythms, and was barred in 2/8 from start to end. The notation was very similar to his other works published by Suvini Zerboni, for example the Quartetto (1956), or

28 Per approfondimenti rimando alla mia tesi di laurea: M. NOTARISTEFANO, Incipit

sequentia sequentiarum... Anagrammi polifonici in Luciano Berio, Tesi di diploma accademico di II livello, Modena, Istituto Superiore di Studi Musicali “Vecchi-Tonelli”, a.a. 2009-2010.

29 B. WEISSER, Notational Practice in Contemporary Music: A Critique of Three Compositional Models (Luciano Berio, John Cage and Brian Fereneyhough), cit., p. 5.

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Serenata I (1957). (It would be of no surprise to learn that Gazzelloni actually gave the first performance in Darmstadt from this original). This is the moment when proportional notation was “born” because Berio rightly felt that original notation was too awkward. He therefore proceeded to transform this Sequenza visually into the version that we all now known. […] M° Berio asked me to process the original version on the computer (I worked from his personal original transparencies). With this in hand he “corrected” his own notation, smoothing the original rhythms down. In a sense, he did in 1991 what he perhaps should have done back in 1958. There is no question that I began from renotated version. The Suvini Zerboni publication is in reality a renotated version of the original. Just for the record, as far as I know, there is not a single piece of Berio’s that began life in proportional notation. This may disappoint some, but even the harp Sequenza was originally composed like the flute Sequenza.30

Tutto ciò apre la strada a una sua possibile rilettura, suggerendo che la

nuova versione fosse in realtà un ritorno alla precedente e che invece le pagine del ’58 non fossero altro che una ri-notazione dell’originale. Il fatto che Berio affermi l’esistenza di alcuni schizzi in notazione ritmica anteriori al ’58 lascia ipotizzare che l’esempio 3, proposto nella lettera indirizzata a Nicolet (si noti che è in 2/8), appartenesse proprio alla partitura originale di Sequenza! Che Sequenza I sia stata pensata e originariamente composta secondo la notazione convenzionale non ne cambia la natura, né demolisce il valore estetico e teorico del suo influsso nella storia della musica del secondo Novecento, anche se a qualche nostalgico musicologo custode di qualche amara contraddizione ciò possa apparire come un tassello necessariamente da riscrivere. VII. Aspetti generali

La composizione è basata sulla ricerca della potenzialità melodica e testurale degli intervalli di seconda, terza e settima, che accennano ad un intento seriale. L’irradiazione dell’attività ritmica che schizza dalle pagine di entrambe le versioni alterna momenti di estrema frenesia a momenti di maggiore lirismo che dilatano, senza mai estinguere, la tensione. L’attività ritmica è supportata anche da incrementi dinamici e progressive alterazioni morfologiche del suono, con l’introduzione dei flatterzunge (usati come estensione massima di rapide articolazioni), di rumori di chiavi (usati come estensione massima di un cammino al rumore) e di doppi suoni che segnalano la disperata ricerca, più simbolica che concreta, della polifonia in uno strumento monodico.31

30 E-mail da Paul Roberts a Janet Halfyard, 5 Novembre 2005 (cfr. C. FOLIO - A. R. BRINKMAN, Rhythm and Timing in the Two Version of Berio’s Sequenza I for Flute Solo, cit., p. 6).

31 L. BERIO, Intervista sulla musica, cit., p. 108.

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Sequenza I è organizzata secondo livelli di densità su alta/media/bassa scala applicati a quattro dimensioni: altezza, durata, dinamica e morfologia. Due di queste dimensioni sono al loro massimo grado in ogni istante del pezzo. Questo grado massimo sarà ottenuto a livello di altezze dall’insisten-za sui registri estremi o dai salti più ampi, a livello temporale dai momenti di estrema articolazione e durata del suono (il grado minimo dalla tendenza al silenzio), a livello dinamico dalla massima energia sonora e dai contrasti più accentuati, mentre l’aspetto morfologico troverà il suo grado massimo con flatterzunge, colpi di chiavi e doppi suoni. Gli esempi successivi mostrano solo alcuni dei punti più significativi in cui i diversi livelli si combinano tra loro.

Nell’esempio 432 c’è una netta contrapposizione tra la lunghezza dei due tremoli in ppp e la brevità dei suoni isolati in sf che simulano un’illusoria polifonia a due voci. Esempio 4

L’esempio 5, nella prima parte in un registro dinamico tra il mf-sffz, dalle legature della metà del primo rigo in un registro acuto cede verso la prima ottava lasciando il passo ad una fitta alternanza tra flatterzunge e colpi di chiave, simbolo di un’articolazione portata all’estremo. Nella seconda parte la tensione si distende verso un progressivo cammino al silenzio-rumore, il suono sparisce e rimane isolato il tremolo di chiave già sff in una simultaneità di dinamiche opposte che fa pensare ad una possibile polifonia, qui solo accennata, fuori dal tempo: di fatto spariscono i segni di battuta. Esempio 5

L’ultimo esempio mostra l’insieme dei gradi di tensione in una successione di differenti caratteri: dinamiche che insistono sul ppp e

32 Gli esempi fanno riferimento all’edizione Suvini Zerboni 1958.

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L'ultimo esempio mostra l'insieme dei gradi di tensione in una successione di differenti caratteri: dinamiche che insistono sul ppp e addirittura più p ancora nel registro medio, alternanza di flatterzunge, ribattuti, suoni staccati e legati, dilatazione temporale in una battuta vuota che prelude gli ultimi due suoni, un lunghissimo Do#3 con colpo di chiave in un brevissimo sfz che si estingue in un diminuendo dal pp al quasi impercettibile pppp del Do4. Esempio 6

Sequenza I è stata analizzata numerose volte, proponendo differenti chiavi di lettura; non mancano alcune interpretazioni piuttosto bizzarre che vedono in essa la forma sonata o la sonata-rondò. Questi tipi di analisi sembrano dimenticare completamente in che periodo l’opera sia stata scritta, non prendono in esame la poetica dell’autore e snaturano il concetto di apertura cui si è fatto più volte riferimento. Se l’opera è aperta e in senso strutturale e nei parametri articolativi formali, essa offre più chiavi di lettura che certamente non possono essere ingabbiate in un tipo di struttura non solo chiusa, ma addirittura ipostatizzata, come nel caso della forma sonata. In altre parole, tutto ciò sembra contraddire l’approccio stesso di Berio alla forma.33 VIII. Eclissi di fine stagione. Conclusione

La riflessione sull’arte contemporanea ha aperto la strada a complesse problematiche estetiche fra cui quelle riguardanti il giudizio estetico, la valenza linguistica delle singole opere, la loro stessa natura, giungendo fino

33 A riguardo, cfr. il prospetto analitico proposto da I. PRIORE, Vestiges of Twelve-Tone Practice as Compositional Process in Berio’s Sequenza I for Solo Flute, in Berio’s Sequenzas: Essays on Performance, Composition and Analysis, p. 206, e la mia tesi di laurea in cui propongo un’analisi comparata e formale (M. NOTARISTEFANO, Incipit sequentia sequentiarum... Anagrammi polifonici in Luciano Berio, cit., pp. 94-101).

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a chiedersi “Che cosa è un’opera d’arte?” o “Quando vi è arte?”. “Vedere qualcosa come arte richiede qualcosa che l’occhio non può percepire – un’atmosfera di teoria artistica, una conoscenza della storia dell’arte: un mondo dell’arte”.34 Così Danto ci invita a prender coscienza di una fenomenologia artistica che oltrepassi il semplice apprezzamento osservabile, che analizzi quella trama invisibile che c’è in ogni opera, l’ombra degli scenari teorici che reggono le basi di ogni fatto che sia arte. Per afferrare appieno il significato di un’opera d’arte bisogna immergerla nel suo contesto iconografico, prendendo “conoscenza di quei principi soggiacenti che rivelano la mentalità di una nazione, di un periodo, di una classe, di una convinzione religiosa o filosofica”.35

L’Avanguardia in qualche modo regola retroattivamente i conti col suo tempo passato: o lo rifiuta – nella migliore delle ipotesi – o lo distrugge, ricattando le sue scelte. L’Avanguardia giunge pericolosamente a sfigurare qualsiasi contorno formale, arrivando così alle poetiche dell’astratto, dell’informale, al rumore, alla pagina o alla tela bianca, al silenzio, all’arte concettuale.

Il problema della definizione linguistica di taluni campi artistici deriva essenzialmente da una limitazione cognitiva, piuttosto che dall’indefinibilità del carattere artistico in quanto tale.36 Di fatto il critico, incapace di incasellare l’opera secondo concetti prenozionistici, si ritrova ad arrampicarsi sui suoi grovigli teorici per poi gridare in modo piuttosto sbrigativo “Questa rivoluzione non è arte!”. Un’affermazione simile, in ogni caso, rinnova quella linea strutturale sulla quale si muove la storia dell’Arte, anche quando decide di non volerlo, lasciandoci un’intuizione più originale. Se ogni rivoluzione è figlia dei suoi tempi (allora autori quali Bach e Stravinskij, Beethoven e Ravel, Wagner e Debussy ci appaiono più vicini),37 ciò significa che in qualche modo i criteri artistici, o almeno i suoi postulati teorici, sono parzialmente prevedibili. Poiché prevedibile, se tutto viene ricondotto ad una matrice originaria, significa che qualsiasi definizione dell’Arte è ambigua, ingenua, addirittura superflua in quanto univoca. Non avendo bisogno di nozionismi, si può azzardare addirittura l’ipotesi che l’Arte sia un discorso a sé, estraniato in parte dalla Storia; che abbia una

34 A. DANTO, The Artworld, “The Journal of Philosophy”, n. 56 (1964), cit. da D. LORIES, Philosophie analytique et Esthétique, Paris, Méridiens Klincksieck, 1988, p. 193 (per la trad. it. integrale del saggio di Danto cfr. il n. 27 di “Studi di estetica”, primo di due fascicoli abbinati dedicati all’estetica analitica, pp. 65-86). Su questi temi cfr. inoltre D. CHATEAU, La Question de la question de l’art, Saint-Denis, P.U.V., 1994.

35 E. PANOFSKY, Essais d’iconologie, les thèses humanistes dans l’art de la Renaissance, a cura di C. Herbette e B. Teyssèdre, Paris, Gallimard, 1967, p. 20 (trad. di A. Corbelli).

36 Cfr. A. DANTO, La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte, a cura di S. Velotti, Bari, Laterza, 2010.

37 Cfr. C. LÉVI-STRAUSS, Il crudo e il cotto, a cura di J.-J. Nattiez, Milano, Il Saggiatore, 2008, p. 52.

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propria Storia dell’arte che assista divertita agli adattamenti del critico-filosofo. Allora queste rivoluzioni di linguaggi non sono più emarginate ai loro confini, ma diventano manifesti necessari sul piano della diacronia metastorica.

In realtà il discorso si infittisce sul campo delle interazioni metalinguistiche dei mondi artistici. Entrano in causa i mutamenti storici e le disparità culturali secondo il modello del “fatto sociale totale”, in cui parametri sociali ed artistici interagiscono secondo un ordine sempre diverso e specifico per ogni relazione artistica.38 Cosicché ogni azione artistica è frutto di una dimensione specifica e caratterizzante (di senso pratico) ed una dimensione totalizzante di differenti parametri sociali. La funzione fatica della lingua artistica apre paralleli dialogativi, e in un certo senso digitativi, tra concezioni apparentemente opposte che ne incrementano anziché diminuire il lascito trasmissibile. Solo a condizione di riconoscere l’esistenza di una pluralità di campi artistici possiamo superare l’apparente contraddittorietà di un primo livello basato sul piano di informazioni che esse contengono. È il caso della pittura astratta come della musica sperimentale, che rovesciano un sistema stabile ma conservano i tratti necessari ed essenziali per cui quelle opere possano essere ancora paragonate e riconosciute, anche solo a livello sensibile, nel loro campo di valore artistico, pittura e musica.

Il problema si pone allo stesso modo quando ci si interroga su “Che cos’è l’Arte?”: quesito che ha trovato le sue possibili ma insoddisfacenti definizioni in più di venti secoli. Probabilmente parte delle difficoltà dipende già dalla formulazione errata della domanda alla quale si vuol rispondere, la quale, spostandosi sul versante critico, può trasformarsi in “Quando vi è arte?”. Descrivere cosa fa l’arte e in che misura essa opera è diverso da stabilire in che termini i suoi sintomi devono concretizzarsi. In relazione a tali problematiche, che restano ancora irrisolte, una possibile soluzione alle discordie nell’arte dei suoni potrebbe allora essere parlare non di Musica come concetto univoco, bensì di semantiche delle musiche.

38 Cfr. M. MAUSS, Saggio sul dono: forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Torino, Einaudi, 2002.