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Maria Duenas La notte ha cambiato rumore

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Maria Duenas

La notte ha cambiato rumore

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Sira Quiroga è una giovane sarta nella Madrid degli anni Trenta, sta per sposarsi e

avviarsi a un destino senza imprevisti quando perde la testa per un carismatico imprenditore e, prima che scoppi la Guerra Civile, lascia la Spagna per trasferirsi con lui in Marocco, in quella Tangeri dove si respira un’atmosfera internazionale, mondana e inebriante. Ma qui si ritrova presto sola, ingannata e piena di debiti. Raggiunto il protettorato spagnolo di Tetuàn, con l’aiuto di alcuni improbabili amici Sira riesce ad aprire un atelier di alta moda che, grazie al suo gusto e alla sua forza di volontà, diventa il punto di riferimento per le signore più ricche e influenti della città. Una clientela all’apparenza insospettabile, ma che nasconde dei segreti. E qui il destino di Sira subisce una svolta imprevedibile, intrecciandosi con quello di un variegato gruppo di personaggi, alcuni dei quali storicamente esistiti, come Juan Luis Beigbeder, il ministro degli Esteri del regime franchista, e la sua amante, l’eccentrica e affascinante inglese Rosalinda Fox. Saranno loro a dare a Sira la possibilità di riscattarsi, di ricostruire pezzo a pezzo il suo destino. Anche se questo sarà per lei l’inizio di una doppia vita, in cui il suo mestiere, la sua arte, il ruolo che si è conquistata nel mondo della grande sartoria diventeranno la facciata di qualcosa di molto più oscuro e pericoloso.

Avventura, mystery, grande rievocazione storica e tragedia amorosa sono gli elementi

del nuovo successo che, dopo L’ombra del vento, ci offre la narrativa spagnola contemporanea. Pubblicato nel 2009 e diventato un grande bestseller (più di venti edizioni a oggi) grazie al solo passaparola dei lettori, anche La notte ha cambiato rumore può essere letto come un moderno feuilleton, avvolgente e irresistibile nel disegnare le atmosfere e con uno splendido cast di personaggi, le cui vite Maria Duenas drammatizza con ritmo impeccabile, trasportandoci sul filo della Storia attraverso una mappa di affascinante ampiezza - Madrid, Tangeri, Tetuàn, Lisbona - per intrecciare una storia di fedeltà e tradimento, coraggio e dedizione, amore e ideali, in cui i lettori scopriranno l’arte di narrare di una nuova scrittrice che combina sapientemente i generi e immette una linfa nuova nella grande tradizione del romanzo d’appendice.

Maria Duenas è nata nella provincia di Ciudad Real nel 1964. Titolare della cattedra

di Filologia e Letteratura inglese all’Università di Murcia, ha insegnato anche in alcune università americane. La notte ha cambiato rumore è il suo libro d’esordio, ma sta già lavorando a un secondo romanzo.

ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO GRAPHIC DESIGNER: SUSANNA

TOSATTI

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Avevo mille motivi per non imbarcarmi in quell’impresa assurda, ma preferii

condensarli tutti in un’unica negazione. No. Non l’avrei fatto. Decisamente no. «Perché no, darling? Perché hai paura, right?» Parlava di nuovo sottovoce e con tono

sicuro. «Abbiamo tutti paura, moriamo tutti di paura» mormorò. «Ma non è una buona giustificazione. Dobbiamo impegnarci, Sira. Dare il nostro contributo. Tu, io, tutti, ciascuno come può. Dobbiamo aggiungere il nostro granello di sabbia per fermare questa follia.»

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A mia madre, Ana Vinuesa

Alle famiglie Vinuesa Lope e Alvarez Moreno, per gli anni di Tetuàn e la nostalgia con cui li hanno sempre ricordati

A tutti gli antichi abitanti del Protettorato spagnolo in Marocco e ai marocchini che

hanno convissuto con loro

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Prima parte

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CAPITOLO 1 Una macchina da scrivere ha sconvolto il mio destino. Era una Hispano-Olivetti, da

cui mi ha separato per settimane la barriera di una vetrina. A pensarci oggi, affacciandomi sugli anni trascorsi, mi è difficile credere che un semplice oggetto meccanico avesse in sé il potere di cambiare la rotta di una vita e mandare all’aria in pochi giorni tutti i piani fatti per seguirla. Ma andò così, e non potei fare nulla per impedirlo. In realtà quelli che avevo in serbo allora non erano grandi progetti. Soltanto aspirazioni raggiungibili, quasi domestiche, coerenti con le coordinate di spazio e tempo che mi è capitato di vivere; piani per il futuro alla mia portata, che sarebbero stati accessibili allungando appena la mano. Allora il mio mondo girava lentamente intorno a poche presenze che credevo salde ed eterne. Mia madre era sempre stata la più solida di tutte. Era una sarta, impiegata come lavorante in un atelier che serviva una clientela distinta. Aveva esperienza e giudizio, ma rimase sempre una semplice salariata; un’operaia come tante che per dieci ore al giorno si rovinava le unghie e gli occhi tagliando e cucendo, provando e correggendo abiti destinati a corpi altrui e a sguardi che di rado si sarebbero posati su di lei. Di mio padre sapevo poco, allora. Quasi niente. Non mi è mai stato vicino, ma la sua assenza non mi ha turbato. Non ho mai nutrito eccessiva curiosità di sapere qualcosa di lui finché mia madre, quando avevo otto o nove anni, non si è avventurata a fornirmi qualche brandello d’informazione. Aveva un’altra famiglia, non poteva vivere con noi.

Mandai giù quelle notizie con la stessa premura e lo stesso scarso appetito con cui finii le ultime cucchiaiate della zuppa quaresimale che avevo di fronte: la vita di quell’essere estraneo mi interessava decisamente meno che scendere di corsa a giocare in piazza. Ero nata nell’estate del 1911, l’anno in cui la vedette del flamenco Pastora Imperio sposò il torero El Gallo, in Messico venne alla luce il futuro divo Jorge Negrete e in Europa si spegneva a poco a poco la stella di un’epoca chiamata la Belle Epoque. Si cominciavano a sentire in lontananza i tamburi di quella che sarebbe stata la Grande guerra e nei caffè di Madrid si leggevano “El Debate” e “El Heraldo”, mentre la Chelito, sui palcoscenici, accendeva il desiderio degli uomini muovendo con sfacciataggine i fianchi al ritmo delle canzonette. Proprio in quei mesi il re Alfonso XIII, fra un’amante e l’altra, riuscì a concepire la quinta figlia legittima. Nel frattempo a capo del governo c’era il liberale Canalejas, incapace di prevedere che solo un anno dopo un anarchico dissennato avrebbe posto fine alla sua vita, sparandogli due colpi in testa mentre guardava le novità nella vetrina della libreria San Martin. Crebbi in un ambiente moderatamente felice, con più ristrettezze che lussi, ma senza patire troppe carenze e frustrazioni.

Diventai grande in una strada stretta di un quartiere popolare di Madrid, vicino a plaza de la Paja, nei pressi del Palazzo Reale. A due passi dall’animazione incessante del cuore cittadino, circondata da panni stesi, odore di candeggina, vociare di donne e gatti

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allungati al sole. Frequentai una specie di scuola in un seminterrato nelle vicinanze: nei banchi per due stavamo seduti in quattro, a casaccio e spintonandoci per ripetere urlando le rime della Candori del pirata di José de Espronceda e le tabelline. Lì imparai a leggere e scrivere, a fare le operazioni e a riconoscere i nomi dei fiumi che solcavano la carta geografica ingiallita appesa alla parete. A dodici anni terminai la mia istruzione ed entrai come apprendista nella sartoria in cui lavorava mia madre. Il mio destino naturale. Dall’atelier della signora Manuela Godina, la padrona, uscivano da decenni capi di ottima qualità, tagliati e cuciti in modo impeccabile e apprezzati in tutta Madrid.

Abiti da giorno, vestiti da cocktail, cappotti e mantelle che le signore distinte avrebbero sfoggiato nelle passeggiate sul paseo de la Castellana, all’Ippodromo e al circolo di polo della Puerta de Hierro, nella sala da tè Sakuska e per farsi ammirare in chiesa. Passò un po’ di tempo, tuttavia, prima che cominciassi a addentrarmi nei segreti del taglio e cucito. Prima divenni la ragazza tuttofare della sartoria: quella che toglieva la carbonella dai bracieri e spazzava i ritagli di stoffa dal pavimento, faceva scaldare sul fuoco i ferri da stiro e correva affannata a comprare fili e bottoni in plaza de Pontejos. Avevo l’incarico di far arrivare alle residenze signorili i modelli appena confezionati, avvolti in grandi fodere di tela scura: era il mio compito preferito, l’occupazione più divertente in quell’inizio di carriera.

Conobbi così i portieri e gli autisti delle ville più belle, le domestiche, le governanti e i maggiordomi delle famiglie più agiate.

Osservavo senza dare troppo nell’occhio le signore raffinate, le loro figlie e i mariti. E come una testimone muta mi introdussi nelle loro case borghesi, nelle palazzine aristocratiche e nei sontuosi appartamenti degli edifici d’epoca. Alcune volte non arrivavo a superare le zone riservate al personale di servizio, perché un domestico si occupava di ritirare l’abito che consegnavo; altre invece ero invitata a spingermi fino al guardaroba, e per farlo percorrevo i corridoi e intravedevo i saloni, mangiavo con gli occhi i tappeti, i lampadari di cristallo, le tende di velluto e i pianoforti a coda che a volte qualcuno suonava e a volte no, mentre pensavo a quanto potesse essere strana la vita in un universo come quello. Trascorrevo le giornate senza tensioni in quei due mondi, quasi ignara delle incongruenze che esistevano fra loro. Camminavo con la medesima naturalezza nelle ampie strade solcate dalle carrozze e costellate di grandi portoni e nell’intrico disordinato delle vie tortuose del mio quartiere, sempre piene di pozzanghere, rifiuti, grida di venditori e latrati strazianti di cani affamati; vie nelle quali la gente aveva sempre fretta, e quando si sentiva urlare “attenzione all’acqua!” era meglio mettersi al riparo per evitare gli schizzi di urina. Artigiani, piccoli commercianti, impiegati e lavoratori a giornata appena arrivati nella capitale riempivano le case in affitto e davano al quartiere un’anima di paese.

Molti residenti oltrepassavano i confini della zona solo per cause di forza maggiore; io e mia madre, invece, lo facevamo ogni mattina di buon’ora, insieme e a passo svelto, per raggiungere calle Zurbano e iniziare in tempo il lavoro che dovevamo svolgere ogni giorno nella sartoria della signora Manuela.

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Trascorsi un paio d’anni dalla mia entrata nell’atelier, la padrona e mia madre decisero che era arrivato il momento di insegnarmi a cucire. A quattordici anni iniziai con le cose più semplici: travette, sopraggitto, punti lenti. Poi vennero le asole, le impunture e gli orli.

Cucivamo sedute su seggioline impagliate, curve su assi di legno appoggiate sulle ginocchia, dove tenevamo il lavoro. La signora Manuela curava i rapporti con le clienti, tagliava, provava e correggeva. Mia madre prendeva le misure e si occupava del resto: cuciva le parti più delicate e distribuiva gli altri compiti, ne controllava l’esecuzione, imponendo ritmo e disciplina al piccolo battaglione formato da una manciata di sarte mature, quattro o cinque giovani e qualche apprendista chiacchierona, più portata a ridere e a spettegolare che a lavorare in silenzio. Alcune riuscirono a diventare brave sarte, altre non erano abbastanza capaci e rimasero destinate per sempre alle mansioni più noiose. Quando una se ne andava, ne arrivava subito una nuova in quella stanza caotica, che contrastava con la serena opulenza della facciata e la sobrietà del salone luminoso cui avevano accesso solo le clienti.

Queste ultime, la signora Manuela e mia madre erano le uniche a godersi le pareti tappezzate di tessuto color zafferano; le uniche ad avvicinarsi ai mobili di mogano e a camminare sul parquet in rovere che noi giovani dovevamo lucidare con stracci di cotone. Solo loro beneficiavano ogni tanto dei raggi di sole che entravano dai quattro alti balconi affacciati sulla via. Noi, il resto della truppa, rimanevamo sempre nelle retrovie: in quel gineceo gelato in inverno e soffocante in estate che era il nostro laboratorio, nel retrobottega grigio in cui si aprivano solo due finestrelle sul buio cortile interno, dove le ore volavano fra le canzonette canticchiate e il rumore delle forbici. Imparai in fretta. Le mie dita agili si abituarono presto alla forma degli aghi e al contatto con i tessuti. Alle misure, alle parti e ai volumi. Lunghezza vita davanti, circonferenza seno, lunghezza gamba.

Giromanica, risvolti, sbiechi. A sedici anni imparai a distinguere le stoffe, a diciassette ad apprezzarne le qualità e a valutarne il potenziale. Crèpe de Chine, mussola di seta, georgette, pizzo Chantilly.

I mesi passavano come su una giostra: gli autunni a confezionare cappotti di panno pregiato e vestiti per la mezza stagione, le primavere a cucire abiti leggeri adatti alle lunghe vacanze sul mar Cantabrico, lontano, sulle spiagge di La Concha o El Sardinero. Compii diciotto anni, diciannove. A poco a poco mi accostai al taglio e alla confezione delle parti più delicate. Imparai a montare i colli e i risvolti delle giacche, a immaginare come potessero cadere le stoffe e a visualizzare i capi finiti. Il mio lavoro mi piaceva, mi divertiva. La signora Manuela e mia madre a volte mi chiedevano un parere, cominciavano a fidarsi di me. «La bambina ci sa fare e ha occhio, Dolores» diceva la signora Manuela. «E’ brava e migliorerà ancora, se non la perdiamo per strada. E diventerà più brava di te, se non stai attenta.» Mia madre continuava a lavorare, come se non avesse sentito. Io non alzavo la testa dalla mia asse, fingendo di non ascoltare. Ma la guardavo con la coda dell’occhio e vedevo che sulle sue labbra strette attorno agli spilli

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si disegnava un lieve sorriso. Passavano gli anni, passava la vita. Cambiava anche la moda, e il lavoro della sartoria

si adeguava ai suoi dettami. Dopo la guerra, in Europa erano arrivate le linee dritte, si erano messi da parte i corsetti e si cominciava a mostrare le gambe senza vergogna. Ma quando gli spensierati anni Venti volgevano al termine, il girovita dei vestiti tornò alla sua posizione naturale, le gonne si allungarono e la discrezione si impose di nuovo alle maniche, alle scollature e alle intenzioni. Entrammo in un nuovo decennio e arrivarono altri cambiamenti. Tutti insieme, imprevisti, alla rinfusa. Compii vent’anni, arrivò la Repubblica e conobbi Ignacio. Una domenica di settembre nel Parque de La Bombilla; durante un ballo rumoroso affollato di sartine, studenti perdigiorno e soldati in licenza. Mi invitò a ballare, mi fece ridere. Due settimane dopo cominciammo a progettare di sposarci. Chi era Ignacio, che cosa significò per me? L’uomo della mia vita, credevo allora. Il ragazzo tranquillo che immaginavo destinato a diventare un buon padre per i miei figli. Avevo raggiunto l’età nella quale per le ragazze come me, senza arte né parte, non c’erano molte alternative al di là del matrimonio. Il destino di mia madre, che mi aveva cresciuta da sola lavorando dalla mattina alla sera, non mi era mai sembrato desiderabile. E in Ignacio vidi il candidato giusto per non seguire i suoi passi: qualcuno con cui attraversare il resto della mia vita adulta senza dovermi svegliare ogni mattina con il sapore della solitudine in bocca. Non provavo per lui una passione sfrenata, ma un affetto intenso, e avevo la certezza che le mie giornate, al suo fianco, sarebbero trascorse senza dispiaceri e senza contrasti, soffici come un cuscino. Credevo che Ignacio Montes sarebbe stato il proprietario del braccio cui mi sarei appoggiata durante mille passeggiate, la presenza vicina che mi avrebbe garantito per sempre sicurezza e protezione. Due anni più vecchio di me, magro, gentile, tanto mite quanto tenero. Aveva una statura notevole e poca carne addosso, modi educati e un cuore la cui capacità di amarmi sembrava moltiplicarsi con il passare delle ore. Figlio di una vecchia castigliana attenta ai soldi che conservava sotto il materasso; ogni tanto alloggiava in pensioni modeste; entusiasta aspirante a un posto di funzionario ed eterno candidato a qualsiasi ministero in grado di assicurargli uno stipendio per tutta la vita: Guerra, Interni, Tesoro.

Il sogno di tremila pesetas l’anno, duecentoquarantuno al mese: un salario fisso per sempre in cambio del resto dei suoi giorni dedicati al mondo sereno degli uffici amministrativi e delle anticamere, delle carte assorbenti, dei fogli protocollo, delle marche da bollo e dei calamai.

Su quello progettavamo il nostro futuro: sull’indolenza di funzionari che, concorso dopo concorso, si ostinavano a non includere il mio Ignacio tra le nomine. Ma lui insisteva senza scoraggiarsi. In febbraio provava al ministero di Giustizia e in giugno a quello dell’Agricoltura, per poi ricominciare daccapo. Nel frattempo, incapace di permettersi distrazioni costose ma disposto a morire pur di farmi felice, Ignacio mi viziava in accordo con le scarse possibilità concesse dal suo magrissimo portafoglio: una scatola di cartone piena di bachi da seta e foglie di gelso, cartocci di caldarroste e promesse d’amore eterno sul prato sotto il viadotto. Ascoltavamo insieme la banda

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musicale del gazebo del Parque del Oeste e la domenica, nelle mattinate di sole, remavamo sulle barche nel Parque del Retiro. Non ci perdevamo neanche una sagra, con le altalene e gli organetti, e neppure uno chotis, che ballavamo precisi come orologi. Quanti pomeriggi abbiamo passato ai giardini di las Vistillas, quanti film abbiamo visto nei cinema di quartiere da quattro soldi. Per noi un’orzata valenciana era un lusso, e un taxi un miraggio.

La tenerezza di Ignacio non era fastidiosa e sembrava infinita. Io ero il suo cielo e le sue stelle, la più bella, la migliore. I miei capelli, la mia faccia, i miei occhi. Le mie mani, la mia bocca, la mia voce.

Tutto di me era il massimo per lui, la sua fonte di gioia. E io lo ascoltavo, gli dicevo che era uno stupido e mi lasciavo amare. A quel punto la vita all’atelier, però, prese un ritmo diverso. Si fece difficile, incerta. La Seconda Repubblica aveva portato un soffio d’inquietudine nella confortevole prosperità dell’ambiente cui appartenevano le nostre clienti. Madrid era convulsa e frenetica, la tensione politica impregnava ogni angolo della città. Le famiglie agiate prolungavano all’infinito le vacanze estive al Nord, con l’intenzione di tenersi lontano dalla capitale inquieta e ribelle nelle cui piazze si annunciava a gran voce la vendita di “Mundo Obrero”, mentre i proletari poverissimi della periferia si spingevano senza timore addirittura fino alla Puerta del Sol. Per strada le grandi carrozze private cominciavano a scarseggiare, le feste opulente si diradavano. Le vecchie dame vestite a lutto recitavano novene perché il capo del governo repubblicano Azana cadesse presto, e il rumore degli spari era ormai quotidiano all’ora in cui si accendevano i lampioni a gas. Gli anarchici bruciavano le chiese, i falangisti sfoderavano le pistole per fare gli spacconi. Sempre più spesso gli aristocratici e i membri dell’alta borghesia coprivano i mobili con le lenzuola, licenziavano i domestici, sbarravano le imposte delle finestre e scappavano all’estero, portando impunemente oltre confine gioielli, timori e banconote, e rimpiangendo il re esiliato e una Spagna ubbidiente che avrebbe ancora tardato ad arrivare. E nell’atelier della signora Manuela entravano sempre meno signore, scarseggiavano gli ordini e diminuiva il lavoro. Con un penoso contagocce furono licenziate prima le apprendiste e poi il resto delle sarte, finché rimanemmo solo la padrona, mia madre e io. E quando terminammo l’ultimo vestito per la marchesa de Entrelagos e passammo i sei giorni successivi ad ascoltare la radio con le mani in mano, senza che si presentasse un’anima alla porta, la signora Manuela ci annunciò tra i sospiri che non aveva scelta: doveva chiudere l’attività. Era un’epoca concitata, i diverbi politici facevano tremare le platee dei teatri, i governi duravano tre padrenostri, senza lasciarci il tempo di piangere quello appena perso. Trascorse tre settimane dall’inizio della nostra forzata inattività, Ignacio si presentò con un mazzetto di viole e la notizia che finalmente aveva vinto il concorso. Il progetto delle nostre modeste nozze tamponò l’incertezza e pianificammo l’evento intorno a un tavolino, riscaldati dal braciere. Con la ventata di aria nuova portata dalla Repubblica si stava diffondendo la moda dei matrimoni civili, ma Dolores, nel cui animo convivevano senza il minimo problema la condizione di madre nubile, un ferreo spirito cattolico e la

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nostalgica fedeltà alla monarchia deposta, fece pressione perché si celebrasse un matrimonio religioso nella vicina chiesa di San Andrés. Io e Ignacio accettammo, non avremmo potuto fare altrimenti senza sconvolgere la gerarchia di volontà per la quale lui soddisfaceva tutti i miei desideri e io rispettavo quelli di mia madre senza discutere.

Inoltre, non avevo nessuna buona ragione per rifiutarmi: l’entusiasmo che provavo per la celebrazione del matrimonio era modesto, e per me un altare con il prete in sottana o un salone presidiato da una bandiera tricolore erano più o meno la stessa cosa. Ci decidemmo così a fissare la data con lo stesso parroco che ventiquattro anni prima, un 8 di giugno, seguendo l’almanacco mi aveva imposto il nome Sira. Sabiniana, Victorina, Gaudencia, Heraclia e Fortunata erano le altre opzioni in accordo con i santi del giorno. «Sira, padre, la chiami Sira, almeno è corto» era stata la decisione di mia madre nella sua maternità solitaria. E Sira fui. Avremmo festeggiato le nozze con la famiglia e qualche amico. Con mio nonno privo di gambe e del lume della ragione, mutilato nel corpo e nello spirito durante la guerra delle Filippine, costante presenza muta sulla sedia a dondolo accanto al balcone del nostro soggiorno. Con la madre e le sorelle di Ignacio venute dal paese.

Con Engracia e Norberto e i loro tre figli, socialisti e affezionati, vicini ai nostri affetti dalla porta di fronte come se fossimo uniti dallo stesso sangue attraverso il pianerottolo. Con la signora Manuela, che avrebbe ripreso in mano ago e filo per regalarmi la sua ultima creazione sotto forma di un abito da sposa. Avremmo offerto agli invitati torte meringate, vino di Malaga e vermut, forse saremmo riusciti a pagare un musicista del quartiere per suonare un paso doble, e un fotografo di strada che ci facesse una lastra per adornare la nostra casa, che peraltro non avevamo ancora, e che per il momento sarebbe stata quella di mia madre. Fu allora, nella confusione di progetti fatti e disfatti, che a Ignacio venne l’idea che dovessi prepararmi per qualche concorso per diventare funzionaria come lui. Il suo posto nuovo di zecca in un dipartimento amministrativo gli aveva aperto gli occhi su un mondo inedito: l’amministrazione della Repubblica, un ambiente in cui si prospettavano per le donne sbocchi professionali al di là del focolare, del lavatoio e dei lavori domestici; in cui il genere femminile poteva aprirsi la strada gomito a gomito con gli uomini in eguali condizioni e puntando agli stessi obiettivi. Le prime donne sedevano già come deputate al Congresso, fu dichiarata l’uguaglianza dei sessi nella vita pubblica, ci vennero riconosciuti la capacità giuridica, il diritto al lavoro e il suffragio universale. Io avrei comunque preferito mille volte tornare alla sartoria, ma Ignacio non impiegò più di tre pomeriggi a convincermi. Il vecchio mondo delle stoffe e delle impunture era crollato e un nuovo universo ci stava dischiudendo le porte: bisognava adattarsi. Ignacio si sarebbe potuto occupare personalmente della preparazione; possedeva tutti i programmi e aveva esperienza da vendere nell’arte di presentarsi un sacco di volte senza mai lasciarsi andare allo sconforto. Io, dal canto mio, avrei dovuto apportare al progetto la consapevolezza che bisognava tirarsi su le maniche per mandare avanti il piccolo battaglione che, con il matrimonio, avremmo formato noi due e mia madre, mio nonno e la prole che sarebbe arrivata. Così acconsentii. Una volta

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presa la decisione, mancava solo un particolare: una macchina da scrivere per esercitarmi e preparare l’immancabile prova di dattilografia. Ignacio aveva passato anni a far pratica su macchine altrui, in una via crucis di tristi scuole che puzzavano di grasso, inchiostro e sudore: non voleva che fossi obbligata a ripetere quella trafila e si impegnò perché avessimo la nostra. Nelle settimane successive ci mettemmo a cercarla come se si trattasse del grande investimento della nostra vita. Studiammo tutte le opzioni e facemmo infiniti calcoli. Io non me ne intendevo di prestazioni, ma pensavo che un formato piccolo e leggero potesse fare al caso nostro. Per Ignacio le dimensioni erano indifferenti, in compenso si concentrava con grande minuziosità su prezzi, rate e meccanismi. Individuammo tutte le rivendite di Madrid, passammo ore intere di fronte alle vetrine e imparammo a pronunciare nomi forestieri che evocavano geografie lontane e divi del cinema: Remington, Royal, Underwood. Avremmo potuto preferire una marca o l’altra; avremmo potuto acquistare la macchina presso una ditta americana o tedesca, ma alla fine la scelta cadde sull’italiana Hispano-Olivetti di calle Pi y Margall. Come avremmo potuto sapere che un’azione tanto semplice, fare tre passi e oltrepassare una soglia, sarebbe equivalsa a firmare la sentenza di morte del nostro futuro insieme, cambiando irrimediabilmente il corso del nostro avvenire?

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CAPITOLO 2 «Non sposerò Ignacio, mamma.» Stava cercando di infilare un ago e sentendo le mie

parole si bloccò, con il filo tra le dita. «Cosa dici, ragazzina...» mormorò. Dalla gola le uscì una voce rotta, sconcertata e incredula. «Lo lascio, mamma. Mi sono innamorata di un altro.» Mi ferì con i rimproveri più duri che riuscì a pronunciare, si rivolse al cielo supplicando tutti i santi perché intercedessero, e con decine di argomenti cercò di convincermi a fare marcia indietro nei miei propositi. Quando capì che non sarebbe servito a niente, si sedette su una sedia a dondolo uguale a quella di mio nonno, si coprì il volto e si mise a piangere. Affrontai quel momento mantenendo a stento il sangue freddo, sforzandomi di nascondere l’agitazione dietro parole pesanti.

Temevo la reazione di mia madre: Ignacio per lei era diventato il figlio che non aveva avuto, la presenza che aveva colmato il vuoto maschile della nostra piccola famiglia. Parlavano fra loro, andavano d’accordo, si capivano. Mia madre gli preparava gli stufati che gli piacevano tanto, gli lucidava le scarpe e gli rivoltava le giacche quando i segni del tempo ne peggioravano l’aspetto. Lui, dal canto suo, la riempiva di complimenti quando la vedeva impegnata a prepararsi per la messa domenicale, le portava dei dolci, e un po’ per scherzo e un po’ per davvero le diceva che era più bella di me. Sapevo che la mia bravata avrebbe messo fine a quel rapporto rassicurante, sapevo che avrei rovinato altre vite oltre alla mia, ma non potei fare nulla per evitarlo. La mia decisione era irrevocabile: non ci sarebbero stati né matrimonio né concorsi, non avrei imparato a scrivere a macchina sul tavolino e non avrei mai condiviso con Ignacio figli, letto, gioie.

L’avrei lasciato, e neanche la forza di un uragano avrebbe potuto incrinare la mia risolutezza. Il negozio della Hispano-Olivetti aveva due vetrine che mostravano gli articoli ai passanti con orgoglioso splendore. In mezzo si apriva una porta a vetri attraversata in diagonale da una sbarra in bronzo brunito. Ignacio la spinse ed entrammo. Il suono di un campanello annunciò il nostro ingresso, ma non arrivò subito qualcuno per servirci. Rimanemmo intimiditi per un paio di minuti a osservare la merce esposta con rispetto reverenziale, senza avere neppure il coraggio di sfiorare i lisci mobili di legno su cui giacevano i portenti della dattilografia fra i quali avremmo scelto il più adatto ai nostri progetti. In fondo all’ampio locale dedicato all’esposizione si intravedeva un ufficio. Ne uscivano voci maschili.

Non dovemmo aspettare ancora molto, le voci sapevano che c’erano dei clienti e una di loro ci venne incontro, contenuta in un corpo robusto vestito di scuro. Il commesso cortese ci salutò e chiese di che cosa avevamo bisogno. Ignacio si mise a parlare, a descrivere quello che volevo, a domandare dati e pareri. Il venditore fece sfoggio di tutta la sua professionalità e recitò le caratteristiche di ogni macchina esposta. Nei particolari,

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con rigore e tecnicismi; con una precisione e una monotonia tali che dopo venti minuti stavo per addormentarmi dalla noia. Ignacio, intanto, acquisiva e valutava le informazioni con tutti e cinque i sensi, indifferente a me e a ogni altra cosa all’infuori di ciò che gli veniva offerto. Decisi di allontanarmi perché quella solfa non mi interessava minimamente. Qualunque scelta di Ignacio sarebbe andata benissimo. Che cosa me ne poteva importare delle battute, della leva del carrello o del campanello di fine riga? Mi misi a girovagare nelle altre aree dell’esposizione in cerca di qualcosa con cui ammazzare la noia.

Osservai i grandi manifesti pubblicitari che annunciavano dalle pareti gli articoli della ditta con disegni a colori e parole scritte in lingue che non capivo, mi avvicinai alle vetrine e osservai i passanti frettolosi in strada. Dopo un po’ tornai di malavoglia in fondo al negozio. Un grande armadio a vetri occupava parte di una parete. Guardai il mio riflesso, vidi che un paio di ciocche erano sfuggite dalla crocchia e le rimisi a posto; ne approfittai per pizzicarmi le guance e dare un po’ di colore al viso annoiato. Mi soffermai a esaminare i vestiti: mi ero preoccupata di indossare il mio abito migliore; in fin dei conti quell’acquisto era un’occasione speciale per noi. Mi lisciai le calze risalendo dalle caviglie; aggiustai la gonna sui fianchi, il corpetto al busto, il risvolto al collo. Mi sistemai di nuovo i capelli, mi guardai di fronte e di lato, osservando con calma la copia di me stessa che lo specchio di vetro mi restituiva. Provai diverse posizioni, feci un paio di passi di ballo e risi. Quando mi stancai della visione di me stessa ripresi a camminare per la sala, ingannando il tempo mentre facevo scivolare con calma la mano sulle superfici e zigzagavo languidamente tra i mobili. Non feci quasi caso a ciò che ci aveva portati lì: per me tutte quelle macchine differivano solo nelle dimensioni. Ce n’erano di grandi e robuste, e anche di più piccole; alcune sembravano leggere, altre pesanti, ma ai miei occhi erano solo una massa di scuri catafalchi incapaci di suscitare il minimo interesse.

Mi fermai svogliatamente di fronte a una macchina, sfiorai con l’indice la tastiera e accennai a premere le lettere più vicine a me. La “s”, la “ì”, la “r”, la “a”. «Sira» ripetei in un sussurro. «Che bel nome.» Alle mie spalle risuonò una voce maschile piena, così vicina che potevo quasi avvertire sulla pelle il fiato del suo proprietario. Sentii una specie di brivido lungo la spina dorsale che mi fece voltare di scatto. «Ramiro Arribas» disse tendendomi la mano. Non reagii subito: forse non ero abituata a essere salutata in modo così formale; forse non avevo ancora assimilato l’impatto provocato da quella presenza inaspettata. Chi era quell’uomo, da dove era uscito? Me lo chiarì lui stesso con le pupille ancora fisse nelle mie. «Sono il principale. Mi scusi se non vi ho servito prima, ma stavo cercando di fare una telefonata interurbana.» E la osservavo attraverso la veneziana che separa l’ufficio dall’esposizione, stava per dire. Non lo fece, ma lo lasciò intendere.

Lo intuii dalla profondità del suo sguardo, dalla voce decisa; dal fatto che si era avvicinato a me prima che a Ignacio, e dal tempo in cui aveva tenuto stretta la mia mano nella sua. Capii che era rimasto a guardarmi e mi aveva osservata mentre vagabondavo

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nel suo negozio. Mi aveva visto sistemarmi di fronte all’armadio a vetri: ricomporre l’acconciatura, far aderire le cuciture dell’abito al mio profilo e aggiustarmi le calze facendo scivolare le mani sulle gambe. Barricato nel suo ufficio, aveva ammirato l’ancheggiare del mio corpo e la cadenza lenta di ogni mio movimento. Mi aveva valutata, aveva valutato le mie forme, i tratti del viso. Mi aveva studiato con l’occhio sicuro di chi sa bene che cosa gli piace ed è abituato a raggiungere i propri obiettivi con l’immediatezza dettata dal desiderio. E decise di dimostrarmelo. Io non avevo mai avvertito una cosa del genere in nessun altro uomo, non avrei mai pensato di poter risvegliare in qualcuno un’attrazione così carnale. Ma nello stesso modo in cui gli animali sentono l’odore del cibo o del pericolo, grazie al medesimo istinto primario le mie viscere seppero che Ramiro Arribas, come un lupo, aveva deciso di venire a prendermi.

«E’ suo marito?» disse indicando Ignacio. «Il mio fidanzato» riuscii a rispondere. Forse era solo la mia immaginazione, ma sulle sue labbra mi parve di cogliere l’accenno di un sorriso compiaciuto. «Perfetto, venga con me, prego.» Mi fece passare avanti e, nel farlo, mi appoggiò la mano aperta sulla cintola come se la stesse aspettando da tutta la vita.

Salutò con simpatia, mandò il commesso in ufficio e prese in mano la vendita con la disinvoltura di chi agita una mano in aria per far volare via i colombi; come un prestigiatore imbrillantinato, i tratti del volto segnati da linee spigolose, il sorriso ampio, il collo possente e un portamento così imponente, così virile e risoluto, che al mio povero Ignacio, in confronto, sembravano mancare cent’anni per diventare uomo.

Quando ebbe capito che la macchina che intendevamo comprare mi sarebbe servita per imparare la dattilografia, elogiò il proposito come un’idea geniale. Per Ignacio quell’uomo era un professionista competente che esponeva caratteristiche tecniche e illustrava vantaggiose opzioni di pagamento. Per me fu qualcosa di più: una scossa, una calamita, una certezza. Ci volle ancora un po’ per scegliere. Nel frattempo i segnali inviati da Ramiro Arribas non cessarono neanche un attimo. Un contatto inaspettato, una battuta, un sorriso; parole a doppio senso e sguardi che penetravano come lance nel profondo del mio essere. Ignacio, perso nei suoi pensieri e ignaro di quello che stava accadendo davanti ai suoi occhi, si decise per la Lettera 35 portatile, una macchina dai tasti bianchi e rotondi sui quali le lettere dell’alfabeto erano incastonate con tanta eleganza da sembrare cesellate. «Ottima scelta» concluse il principale lodando la saggezza di Ignacio. Come se fosse stato padrone di scegliere, e quell’uomo non lo avesse manipolato con le sue doti di abile venditore per fargli preferire quel modello. «La scelta migliore per dita sottili come quelle della sua fidanzata. Mi permetta di dare un’occhiata, signorina.» Tesi la mano timidamente. Cercai subito lo sguardo di Ignacio per chiedere il permesso, ma non lo incrociai: era di nuovo concentrato sul meccanismo della macchina. Ramiro Arribas mi accarezzò con lentezza e impudenza di fronte all’ingenua passività del mio fidanzato, un dito dopo l’altro, con una sensualità che mi fece venire la pelle d’oca e tremare le gambe come foglie mosse dalla brezza estiva.

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Lasciò la mia mano solo quando Ignacio sollevò gli occhi dalla Lettera 35 e chiese istruzioni per concludere l’acquisto. I due si accordarono che avremmo lasciato il cinquanta per cento di acconto quel pomeriggio e saldato il resto il giorno successivo. «Quando possiamo portarla via?» chiese allora Ignacio. Ramiro Arribas guardò l’orologio.

«Il ragazzo del magazzino è in giro per consegne e oggi non torna più. Temo che non sarà possibile averne un’altra fino a domani.» «E questa? Non

possiamo prendere questa?» insistette Ignacio, deciso a chiudere l’acquisto il prima possibile. Una volta scelto il modello, il resto ai suoi occhi era solo una serie di seccanti formalità che voleva liquidare in fretta. «Neanche per sogno. Non posso permettere che la signorina Sira utilizzi una macchina già toccata da altri clienti. Domani mattina presto ne avrò una nuova, con fodera e imballo. Se mi dà il suo indirizzo» disse rivolto a me, «mi occuperò personalmente di fargliela arrivare a casa prima di mezzogiorno.» «Veniamo a prenderla noi» tagliai corto. Intuivo che quell’uomo era capace di qualunque cosa e fui percorsa da un’ondata di terrore al pensiero che si presentasse davanti a mia madre per chiedere di me. «Non posso passare di qui fino al pomeriggio, lavoro» fece notare Ignacio. A mano a mano che parlava, una corda invisibile sembrava annodarsi lentamente intorno al suo collo, pronta a strangolarlo. Ramiro non dovette far altro che tirarla un po’.

«E lei, signorina?» «Io non lavoro» dissi evitando di guardarlo negli occhi. «Allora può pensare lei al pagamento» suggerì in tono indifferente. Non trovai le parole per rifiutarmi e Ignacio non intuì neppure a che cosa ci stava portando quella proposta in apparenza così innocente. Ramiro Arribas ci accompagnò alla porta e ci salutò calorosamente, come se fossimo i clienti migliori che il negozio avesse mai avuto. Con la mano sinistra diede una vigorosa pacca sulla spalla al mio fidanzato, con la destra strinse di nuovo la mia. Ed ebbe parole per tutti e due. «Ha fatto un’ottima scelta venendo alla Hispano-Olivetti, Ignacio, mi creda. Le assicuro che non dimenticherà questo giorno per molto tempo. E lei, Sira, venga intorno alle undici, per favore.

L’aspetterò.» Passai la notte a rigirarmi nel letto senza chiudere occhio. Era una pazzia e facevo ancora in tempo a sottrarmi. Dovevo solo decidere di non tornare al negozio. Potevo rimanere a casa con mia madre, aiutarla a battere i materassi e a lavare i pavimenti con l’olio di linosa; avrei chiacchierato con le vicine in piazza, sarei andata al mercato della Cebada per comprare due etti di ceci o un pezzo di baccalà. Potevo aspettare il ritorno di Ignacio dal ministero e giustificare la mancata commissione con una bugia qualsiasi: avevo mal di testa, credevo che si mettesse a piovere. Potevo sdraiarmi per un po’ dopo mangiato, continuare a fingere per ore un malessere diffuso.

Ignacio sarebbe andato da solo, avrebbe saldato il conto con il principale, avrebbe preso la macchina e sarebbe finita lì. Non avremmo più avuto notizie di Ramiro Arribas, le nostre strade non si sarebbero incrociate mai più. Il suo nome sarebbe caduto a poco a poco nell’oblio e noi saremmo andati avanti con la nostra vita di tutti i giorni. Come se lui non mi avesse accarezzato le dita con il desiderio a fior di pelle; come se non mi

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avesse mangiata con gli occhi nascosto dietro una veneziana. Sarebbe stato così facile, così semplice. E io lo sapevo. Lo sapevo, sì, ma finsi di non saperlo. Il giorno dopo aspettai che mia madre uscisse per le commissioni, non volevo che assistesse ai miei preparativi: avrebbe sospettato qualcosa di strano vedendomi così curata al mattino presto. Non appena sentii la porta che si chiudeva alle sue spalle, cominciai a prepararmi in fretta. Riempii la bacinella per lavarmi, mi cosparsi di acqua di lavanda, scaldai l’arricciacapelli nel fuoco, stirai l’unica camicetta di seta che possedevo e staccai le calze dal fil di ferro dove avevano passato la notte ad asciugarsi. Erano le stesse del giorno prima: non ne avevo altre. Mi imposi di calmarmi e me le infilai facendo attenzione a non smagliarle per la fretta. E ogni movimento meccanico ripetuto mille volte in passato quel giorno ebbe, per la prima volta, un destinatario preciso, un obiettivo e un fine: Ramiro Arribas. Per lui mi vestii e mi profumai, perché mi guardasse, perché sentisse il mio odore, perché mi sfiorasse di nuovo e si riversasse un’altra volta nei miei occhi. Per lui decisi di lasciare sciolti i capelli, la chioma lucida che mi arrivava a metà schiena. Per lui strinsi la vita tirando con forza la cintura sulla gonna fino a non riuscire quasi a respirare. Per lui: tutto solo per lui. Camminai per le strade con determinazione, senza badare agli sguardi di desiderio e ai complimenti procaci. Mi costrinsi a non pensare: evitai di valutare il peso delle mie azioni e non volli soffermarmi a capire se quel tragitto mi avrebbe condotto alle porte del paradiso o direttamente al mattatoio.

Percorsi la Costanilla de San Andrés, attraversai plaza de los Carros e, passando per la Cava Baja, mi diressi verso Plaza Mayor. In venti minuti ero alla Puerta del Sol; in meno di mezz’ora raggiunsi la mia meta.

Ramiro mi aspettava. Non appena scorse la mia silhouette sulla porta troncò la conversazione con l’altro commesso e si avviò verso l’uscita, prendendo al volo il cappello e un impermeabile. Quando mi fu accanto volevo dirgli che avevo i soldi in borsa, che Ignacio gli mandava i suoi saluti, che forse quel pomeriggio stesso avrei iniziato a imparare a battere a macchina. Non me lo permise. Non mi salutò neanche. Si limitò a sorridere con la sigaretta in bocca, sfiorò il punto in cui finiva la mia schiena e disse: Andiamo. E io andai con lui. Il luogo scelto non poteva essere più innocente: mi portò al caffè Suizo. Notai sollevata che l’ambiente era sicuro e pensai che forse ero ancora in tempo per salvarmi. Mi dissi anche, mentre lui cercava un tavolo e mi invitava a sedermi, che forse l’incontro non aveva altri significati al di là delle consuete attenzioni riservate a una cliente. Cominciai a sospettare addirittura che quella galanteria sfacciata fosse solo il frutto delle mie fantasie. Ma non era così. Malgrado l’ambiente inoffensivo, il nostro secondo incontro mi riportò sull’orlo di un baratro. «Da quando te ne sei andata ieri non ho smesso di pensare a te neanche un minuto» mi sussurrò all’orecchio non appena ci fummo seduti. Non ero in grado di rispondere, le parole non mi arrivarono alla bocca: si sciolsero in qualche angolo sperduto del cervello, come lo zucchero nell’acqua.

Ramiro mi prese di nuovo la mano e l’accarezzò come aveva fatto il pomeriggio

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precedente, senza smettere di osservarla. «Hai le mani rovinate, dimmi cosa hanno fatto queste dita prima di arrivare da me.»

La sua voce era intima e sensuale, indifferente ai rumori che ci circondavano: all’urto del vetro e della porcellana contro il marmo dei tavoli, al brusio delle conversazioni mattutine e alle voci dei camerieri che riferivano gli ordini al bancone. «Hanno cucito» sussurrai senza sollevare lo sguardo dal grembo. «E così sei una sarta.» «Lo ero.

Ora non più» dissi, alzando finalmente gli occhi. «Adesso non c’è molto lavoro» aggiunsi. «Per questo vuoi imparare a scrivere a macchina.»

Parlava in un tono complice, intimo, come se mi conoscesse: come se la sua anima e la mia si aspettassero dall’inizio dei tempi. «Il mio fidanzato ha pensato di farmi preparare qualche concorso per diventare funzionaria come lui» dissi con un pizzico di vergogna.

L’arrivo delle consumazioni interruppe la conversazione. Per me una tazza di cioccolata. Per Ramiro un caffè nero come la notte. Approfittai della pausa per osservarlo mentre scambiava qualche frase con il cameriere. Aveva un vestito diverso dal giorno prima, un’altra camicia impeccabile. I suoi modi erano eleganti, ma quella raffinatezza così estranea agli uomini del mio ambiente trasudava virilità da ogni poro: nel fumare, nell’aggiustarsi il nodo della cravatta, nel tirare fuori il portafoglio di tasca o nel portarsi la tazzina alla bocca. «E per quale motivo una donna come te vorrebbe passare la vita in un ministero, se non sono indiscreto?» chiese dopo il primo sorso di caffè. Mi strinsi nelle spalle. «Perché potremmo vivere meglio, direi.» Si riavvicinò lentamente e rovesciò di nuovo la sua voce calda nel mio orecchio. «Vuoi iniziare davvero a vivere meglio, Sira?» Per non rispondere mi rifugiai in un sorso di cioccolata. «Ti sei macchiata, lascia che ti pulisca» disse. Avvicinò la mano al mio volto e la posò aperta sulla mia gota, adattandola alle mie ossa come se quello, e nessun altro, fosse lo stampo che un giorno mi aveva modellata. Mise il pollice sopra la presunta macchia, vicino alla linea della bocca. Mi accarezzò con delicatezza, senza fretta. Lo lasciai fare: un misto di paura e piacere mi impedì qualsiasi movimento. «Ti sei macchiata anche qui» mormorò con voce roca, spostando il dito. La meta fu un’estremità del mio labbro inferiore. Ripeté la carezza. Più lenta, più tenera. Sentii un brivido lungo la schiena e conficcai le dita nel velluto della sedia. «E anche qui» disse di nuovo. Mi accarezzò le labbra millimetro per millimetro, da un angolo all’altro, con un movimento cadenzato, lento, ancora più lento. Stavo per sprofondare in qualcosa di soffice che non avrei saputo definire. Non mi importava che la macchia fosse una bugia e che sulle mie labbra non ci fosse traccia di cioccolata. Non mi importava che al tavolo accanto tre uomini anziani interrompessero la conversazione per osservare infervorati la scena, desiderando con furore di avere trent’anni in meno. Un gruppo chiassoso di studenti entrò in massa nel caffè e, tra il baccano e le risate, spezzò la magia del momento, come quando si fa scoppiare una bolla di sapone. E all’improvviso, come risvegliandomi da un sogno, mi resi conto confusamente di diverse cose insieme: il pavimento non si era sciolto ed era ancora solido sotto i miei piedi, il dito di uno sconosciuto stava per infilarsi nella mia

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bocca, una mano ansiosa strisciava sulla mia coscia, ed ero sul punto di tuffarmi a capofitto in un precipizio. La lucidità riacquistata mi spinse ad alzarmi di scatto e, nella fretta di prendere la borsa, rovesciai il bicchiere d’acqua che il cameriere aveva portato insieme alla mia cioccolata. «Ecco i soldi della macchina. Nel tardo pomeriggio passerà il mio fidanzato a prenderla» dissi gettando la mazzetta di banconote sul marmo. Mi afferrò il polso. «Non te ne andare, Sira, non essere arrabbiata con me.» Mi liberai con uno strattone. Non lo guardai e non lo salutai; mi limitai a girarmi e a dirigermi verso la porta, sforzandomi di mostrarmi dignitosa. Solo a quel punto mi resi conto che mi ero versata addosso l’acqua e il mio piede sinistro gocciolava.

Ramiro non mi seguì: probabilmente aveva intuito che non sarebbe servito a niente. Rimase seduto e, mentre mi allontanavo, mi scoccò un’ultima frecciata alle spalle. «Torna un altro giorno. Sai dove trovarmi.» Finsi di non aver sentito, allungai il passo fra la turba di studenti e mi confusi nel tumulto della strada. Per otto sere andai a dormire con la speranza che il giorno dopo fosse diverso, e per otto mattine mi svegliai con la stessa ossessione in testa: Ramiro Arribas. Il suo ricordo mi assaliva in ogni momento della giornata, non riuscivo ad allontanarlo dai miei pensieri neanche per un attimo: mentre facevo il letto, o mi soffiavo il naso, o sbucciavo un’arancia, o scendevo le scale gradino per gradino con la sua immagine impressa sulla retina. Nel frattempo Ignacio e mia madre si affannavano nei progetti per il matrimonio, ma senza riuscire a contagiarmi con il loro entusiasmo.

Niente mi faceva piacere, niente riusciva a suscitare in me il minimo interesse. Sarà nervosa, pensavano. Io, intanto, mi sforzavo di togliermi Ramiro dalla testa, di non ricordare la sua voce al mio orecchio, il suo dito che mi accarezzava la bocca, la sua mano che risaliva lungo la mia coscia e le ultime parole che mi aveva conficcato nei timpani quando gli avevo voltato le spalle nel caffè, convinta che andandomene avrei posto fine a quella follia. Torna un altro giorno, Sira. Torna. Lottai con tutte le mie forze per resistere. Lottai e persi. Non potei fare nulla per imporre un minimo di razionalità all’attrazione sfrenata che quell’uomo aveva risvegliato in me. Per quanto mi guardassi intorno, fui incapace di trovare mezzi, forze o puntelli cui aggrapparmi per evitare che mi trascinasse via. Né il mio futuro marito, che avrei dovuto sposare nel giro di un mese, né la madre integerrima che aveva fatto di tutto perché diventassi una donna onesta e responsabile. Non mi trattenne neppure l’incertezza di sapere a malapena chi fosse quell’estraneo, e che cosa mi riservasse il destino al suo fianco. al negozio della Hispano-Olivetti, ritornai. Come le volte precedenti, mi accolse il tintinnio del campanello sopra la porta.

Non mi venne incontro un venditore grasso, un magazziniere, un altro commesso. Mi ricevette Ramiro. Mi avvicinai cercando di far apparire sicuro il mio passo; mi ero preparata le parole. Non riuscii a dirgliele. Non me lo permise. Quando mi ebbe vicina, mi circondò la nuca con la mano e mi stampò sulla bocca un bacio così intenso, così profondo e prolungato, che il mio corpo ne fu sopraffatto, sul punto di sciogliersi e trasformarsi in una pozza di melassa. Ramiro Arribas aveva trentaquattro anni, un

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passato tumultuoso e una capacità di sedurre così potente che neppure un muro di cemento sarebbe riuscito a contenerla.

Attrazione, dubbio e angoscia prima. Abisso e passione poi. Bevevo l’aria che respirava e al suo fianco camminavo due spanne sopra il selciato. I

fiumi sarebbero anche potuti straripare, gli edifici crollare e le vie sparire dalle mappe; il cielo si sarebbe potuto unire con la terra e l’universo sprofondare sotto i miei piedi, ma io, accanto a Ramiro, avrei sopportato tutto. Ignacio e mia madre cominciarono a sospettare che ci fosse qualcosa di strano in me, qualcosa che andava al di là della semplice tensione provocata dal matrimonio imminente. Ma non riuscirono a indovinare le ragioni della mia agitazione e non trovarono un motivo che potesse giustificare la segretezza con cui agivo a ogni ora, le mie uscite sregolate e le risate isteriche che mi sfuggivano in certi momenti. Riuscii a mantenere in equilibrio quella doppia vita solo per pochi giorni, sufficienti a verificare che la bilancia si scompensava ogni minuto di più: il piatto di Ignacio scendeva e quello di Ramiro saliva. In meno di una settimana capii che avrei dovuto tagliare i ponti con tutto e lanciarmi nel vuoto. Era arrivato il momento di spazzare via il mio passato. E fare piazza pulita. Ignacio venne a casa mia nel pomeriggio. «Aspettami in piazza» gli sussurrai socchiudendo la porta di pochi centimetri. Avevo informato mia madre all’ora di pranzo; lui non poteva continuare a rimanere all’oscuro.

Scesi cinque minuti dopo, con il rossetto sulle labbra, la borsa nuova in una mano e la Lettera 35 nell’altra. Ignacio mi aspettava alla solita panchina, su quella lastra di pietra fredda dove avevamo trascorso tante ore a pianificare un futuro insieme che non sarebbe mai arrivato. «Te ne vai con un altro, vero?» chiese quando mi sedetti accanto a lui. Non mi guardò: tenne lo sguardo in basso, fisso sulla terra polverosa che rimuoveva con la punta della scarpa. Annuii con un cenno. Un sì chiaro e tondo senza parole. Chi è? chiese. Glielo dissi. Attorno a noi i rumori erano quelli di sempre: i bambini, i cani e i campanelli delle biciclette; le campane della chiesa di San Andrés che annunciavano l’ultima messa, le ruote dei carri che giravano sull’acciottolato, i muli stanchi alla fine della giornata. Ignacio impiegò un po’ di tempo per ricominciare a parlare. La mia determinazione doveva essergli apparsa tale, come la sicurezza della mia decisione, da spingerlo a non lasciar trapelare il suo turbamento. Non fece drammi e non pretese spiegazioni. Non mi insultò e non mi chiese di riconsiderare i miei sentimenti. Pronunciò solo un’altra frase, lentamente, come se la lasciasse scorrere. «Non ti amerà mai come ti amo io.» Poi si alzò in piedi, prese la macchina da scrivere e si mise a camminare verso il nulla. Lo vidi allontanarsi di spalle, sotto la luce fioca dei lampioni, forse trattenendo la voglia di abbatterli. Non distolsi gli occhi, lo guardai mentre usciva dalla piazza finché svanì in lontananza, finché divenne impercettibile nella sera autunnale che stava scendendo. Avrei voluto piangere la sua assenza, dispiacermi per quell’addio così breve e così triste, incolparmi per aver posto fine al nostro progetto pieno d’illusioni per il futuro. Ma non ci riuscii. Non versai neppure una lacrima e non

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mi mossi il minimo rimprovero. Un minuto dopo che la sua presenza era svanita, mi alzai anch’io dalla panchina e me ne andai. Mi lasciai alle spalle per sempre il mio quartiere, la mia gente, il mio piccolo mondo. Tutto il mio passato restò lì, mentre io imboccavo un nuovo tratto della mia vita; una vita che immaginavo luminosa e nel cui presente immediato non riuscivo a concepire altra meraviglia all’infuori di Ramiro, che mi offriva rifugio tra le sue braccia.

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CAPITOLO 3 Con Ramiro conobbi un altro modo di vivere. Imparai a essere indipendente da mia

madre, a convivere con un uomo e ad avere una domestica. A cercare di compiacerlo in ogni momento e a pensare la sua felicità come unico obiettivo. Conobbi anche un’altra Madrid: quella dei locali sofisticati e dei posti alla moda, degli spettacoli, dei ristoranti e della vita notturna. I cocktail al Negresco, alla Granja del Henar, al Balkanik. I film in prima visione al Real Cinema con l’organo dell’orchestra, Mary Pickford sullo schermo, Ramiro che mi infilava le caramelle in bocca e io che sfioravo con le labbra la punta delle sue dita, sciogliendomi d’amore. Carmen Amaya al teatro Fontalba, Raquel Meller al Maravillas. Il flamenco a Villa Rosa, il cabaret al Palacio del Hielo. Una Madrid frizzante e rumorosa, nella quale io e Ramiro ci muovevamo come se non ci fosse uno ieri e un domani. Come se in ogni istante dovessimo consumare il mondo intero, nel caso il futuro avesse deciso di non arrivare. Che cosa aveva Ramiro per mandare a gambe all’aria la mia vita nel giro di due settimane? Ancora oggi, dopo tanti anni, posso stilare a occhi chiusi una lista di tutte le cose che mi hanno conquistato di lui, e sono convinta che se fossi tornata a nascere altre cento volte mi sarei innamorata altre cento volte come mi capitò allora. Ramiro Arribas, irresistibile, mondano, bello da impazzire. Con i capelli castani pettinati all’indietro, un portamento virile da far girar la testa, sprizzava ottimismo e sicurezza ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Divertente e sensuale, indifferente all’astio politico di quei tempi, come se il suo regno non fosse di questo mondo. Amico degli uni e degli altri, senza prendere mai nessuno troppo sul serio, pieno di progetti ambiziosi, sempre capace di trovare la parola giusta, il gesto adatto in ogni momento. Dinamico, splendido, nemico delle abitudini. Oggi direttore della filiale madrilena di una ditta italiana di macchine da scrivere, ieri rappresentante di auto tedesche; l’altro ieri chi se ne importa e domani Dio solo lo sa. Che cosa vide Ramiro in me, perché si incapricciò di un’umile sartina sul punto di sposarsi con un funzionario senza aspirazioni? Il vero amore provato per la prima volta in vita sua, mi giurò mille volte. C’erano state altre donne, ovviamente. Quante? chiedevo io. Qualcuna, ma nessuna come te. A quel punto mi baciava e a me sembrava di danzare fino a svenire. Oggi non mi sarebbe difficile neppure stilare un elenco di quello che lui pensava di me, ricordo tutto. La combinazione esplosiva di un’ingenuità quasi infantile con un portamento divino, diceva. Un diamante grezzo. In certi momenti mi trattava come una bambina e i dieci anni che ci separavano sembravano secoli. Anticipava i miei capricci, assecondava la mia capacità di sorprendermi con idee inaspettate. Mi comprava le calze alle Sederias Lycon, creme e profumi, gelati di Cuba, all’annona, al mango e al cocco. Mi istruiva: mi insegnava a usare le posate, a guidare la

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sua Morris, a decifrare i menu dei ristoranti e ad aspirare quando fumavo. Mi parlava di presenze del passato e di artisti che aveva conosciuto; ricordava vecchi amici e mi illustrava le splendide opportunità che ci aspettavano in qualche angolo remoto del globo. Disegnava mappe del mondo e mi aiutava a crescere. In altri momenti, invece, la bambina scompariva e io mi ergevo come una donna in tutto e per tutto, e non gliene importava niente delle cose che non conoscevo e non avevo vissuto: mi desiderava, mi venerava così com’ero e si aggrappava a me come se il mio corpo fosse l’unico appiglio stabile nel vortice tumultuoso della sua esistenza. Mi trasferii fin da subito nel suo appartamento da scapolo vicino a plaza de las Salesas. Non portai con me quasi niente, come se la mia vita dovesse ricominciare da capo; come se fossi diventata un’altra e fossi rinata una seconda volta.

Un cuore travolto dalla passione e un paio di vestiti furono gli unici averi che portai da lui. Di tanto in tanto tornavo a trovare mia madre; a quei tempi cuciva in casa su ordinazione, ma poca roba, sufficiente appena per sopravvivere. Ramiro non le piaceva, disapprovava il modo in cui si comportava con me. Lo accusava di avermi trascinato via in modo impulsivo, di essersi servito dell’età e della posizione per abbindolarmi e costringermi a strappare le mie radici. Non approvava che vivessi con lui senza essere sposata, che avessi lasciato Ignacio e che non fossi più quella di prima. Malgrado i miei tentativi, non riuscii a convincerla che non mi comportavo in quel modo spinta da lui; che era un amore incontenibile a farmi agire così. Le nostre discussioni erano sempre più accese: ci scambiavamo rimproveri atroci e ci strappavamo le viscere a vicenda. A ogni attacco replicavo rincarando la dose, a ogni rimprovero rispondevo con un disprezzo più feroce. Erano rari gli incontri che non finivano in lacrime, con urla e porte sbattute; le visite divennero sempre più brevi, più rare. E io e mia madre ogni giorno più estranee. Fino a quando, da parte sua, ci fu un riavvicinamento. Lo provocò per interposta persona, ma quel gesto - come potevamo prevederlo? - significò una nuova svolta nelle nostre vite. Un giorno comparve a casa di Ramiro, a metà mattinata. Lui non c’era e io stavo ancora dormendo. La sera prima eravamo usciti, avevamo visto Margarita Xirgu al Teatro de la Comedia, poi ci eravamo spostati al Le Cock. Dovevano essere quasi le quattro del mattino quando eravamo andati a dormire, ero esausta e non avevo avuto neanche la forza di togliermi dalla faccia il trucco che avevo cominciato a usare negli ultimi tempi.

Nel sonno avevo sentito Ramiro che se ne andava verso le dieci, nel sonno avevo sentito arrivare Prudencia, la domestica che si occupava di riordinare il nostro caos casalingo. Nel sonno l’avevo sentita uscire per andare a comprare il latte e il pane, e sempre nel sonno, poco dopo, avevo sentito bussare alla porta. Prima dolcemente, poi in modo deciso.

Pensai che Prudencia avesse dimenticato di nuovo la chiave, come era successo altre volte. Mi alzai stordita e risposi di pessimo umore a quel bussare insistente gridando: Arrivo! Non mi presi neppure la briga di mettermi qualcosa addosso: quell’inetta di Prudencia non valeva lo sforzo. Aprii ancora addormentata, ma non mi trovai davanti la

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domestica, bensì mia madre. Non sapevo che dire. Neanche lei, all’inizio. Si limitò a squadrarmi da capo a piedi, concentrandosi in successione sui capelli scompigliati, sulle sbavature nere di mascara sotto gli occhi, sui resti di rossetto intorno alla bocca e sulla camicia da notte provocante che lasciava scoperta più pelle di quanto il suo senso del pudore potesse ammettere. Non riuscii a reggere il suo sguardo, non riuscii ad affrontarla. Forse ero troppo stordita dalla nottata. Forse la calma severità della sua espressione mi aveva disarmata. «Entra, non startene lì» dissi cercando di dissimulare il turbamento causato dal suo arrivo improvviso. «No, non entro, ho fretta.

Sono passata solo per riferirti un messaggio.» La situazione era così tesa e assurda che non l’avrei mai creduta possibile se non l’avessi vissuta in prima persona. Io e mia madre, che avevamo condiviso così tanto, che eravamo così simili in molte cose, all’improvviso sembravamo due estranee, all’erta come cagne randage diffidenti che si misuravano a distanza. Rimase davanti alla porta, seria, dritta, con una crocchia stretta in cui cominciavano a intravedersi i primi capelli grigi.

Dignitosa e alta, le sopracciglia spigolose incorniciavano la disapprovazione del suo sguardo. In qualche modo elegante, pur nella semplicità degli indumenti che indossava. Quando finalmente la smise di esaminarmi a dovere parlò. E, nonostante i miei timori, le sue parole non furono di critica nei miei confronti. «Sono venuta a portarti un messaggio. Una richiesta non mia. Puoi accettarla o no, vedi tu. Ma credo che dovresti dire di sì. Pensaci: meglio tardi che mai.» Non oltrepassò la soglia e la sua visita durò solo un altro minuto: il tempo che le serviva per comunicarmi un indirizzo, un’ora di quello stesso pomeriggio, e per voltarmi le spalle senza la minima cerimonia di saluto. Mi stupì che non aggiungesse altro, ma non dovetti aspettare troppo perché arrivasse. Non appena cominciò a scendere le scale. «E lavati la faccia, pettinati e mettiti qualcosa addosso, sembri una di quelle.» All’ora di pranzo condivisi il mio stupore con Ramiro. Non capivo il senso di una richiesta così inaspettata, non sapevo che cosa potesse esserci dietro, ero diffidente. Lo supplicai di accompagnarmi.

Dove? A conoscere mio padre. Perché? Perché lui lo aveva chiesto a mia madre. A che scopo? Neanche in dieci anni di ipotesi cavillose sarei riuscita a intuire un motivo così remoto. Con mia madre eravamo rimaste d’accordo di incontrarci nel primo pomeriggio all’indirizzo stabilito: calle Hermosilla 19. Una bella strada, un bellissimo palazzo; simile ai molti che avevo visitato in altri tempi per consegnare gli abiti appena confezionati. Mi ero impegnata a rendermi presentabile per l’incontro: avevo scelto un vestito di lana blu, un cappotto intonato e un cappellino con tre piume portato con grazia, a coprire l’orecchio sinistro. Aveva pagato tutto Ramiro, naturalmente: erano i primi abiti non cuciti da mia madre o da me che toccavano il mio corpo. Avevo le scarpe con il tacco e i capelli sciolti sulle spalle; mi truccai pochissimo, quel pomeriggio non volevo rimproveri. Prima di uscire mi specchiai. A figura intera. Dietro di me si rifletteva l’immagine di Ramiro che mi guardava ammirato con le mani in tasca. «Sei fantastica.

Rimarrà colpito.» Cercai di sorridere con grazia al commento, ma non ci riuscii fino

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in fondo. Ero bella, certo; bella e diversa, un’estranea rispetto a quella che ero stata fino a qualche mese prima. Bella, diversa e spaventata come un coniglio, morta di paura, pentita di aver accettato quella richiesta insolita. Dallo sguardo di mia madre, quando arrivai, dedussi che la presenza di Ramiro al mio fianco non era gradita. Intuendo la nostra intenzione di entrare insieme, attaccò senza riguardi. «E’ una questione di famiglia; lei rimane qui, se non le spiace.» E senza fermarsi ad aspettare una risposta, si girò e varcò il portone imponente di vetro e ferro nero. Io avrei voluto avere accanto Ramiro, sentivo il bisogno del suo appoggio e della sua forza, ma non osai oppormi a mia madre. Mi limitai a sussurrargli che sarebbe stato meglio se se ne fosse andato e la seguii. «Siamo venute per vedere il signor Alvarado. Ci aspetta» annunciò al portiere. L’uomo annuì e senza aggiungere una parola fece per accompagnarci all’ascensore. «Non occorre, grazie.» Attraversammo l’ampio androne e cominciammo a salire le scale, mia madre davanti. Con passo sicuro sfiorava appena il legno liscio del corrimano, fasciata in un tailleur che non le avevo mai visto. Io dietro, spaventata, mi aggrappavo alla ringhiera come a un salvagente in una notte di tempesta. Tutte e due mute come tombe. I pensieri mi si accalcavano in testa a mano a mano che salivamo, gradino dopo gradino. Prima rampa. Perché mia madre si muoveva con tanta familiarità in quel luogo estraneo? Mezzanino. Come sarebbe stato l’uomo che avremmo visto, perché quel repentino desiderio di conoscermi dopo tanti anni? Primo piano. Il resto dei pensieri rimase ammassato nel limbo della mia mente: non c’era più tempo, eravamo arrivate. Una grande porta sulla destra, il dito di mia madre, per nulla intimidita, sul campanello che premette con sicurezza. La porta aperta immediatamente, un’anziana domestica in divisa nera con la cuffia immacolata.

«Buongiorno, Servanda. Siamo venute per vedere il signore. Immagino che sia in biblioteca.» Servanda rimase a bocca aperta, non ebbe il tempo di pronunciare un saluto, come se avesse ricevuto la visita di due fantasmi. Quando riuscì a reagire e sembrò che finalmente sarebbe riuscita a dire qualcosa, una voce senza volto si sovrappose alla sua.

Una voce maschile roca, forte, che proveniva dal fondo dell’appartamento. «Falle accomodare.» La domestica si fece da parte, ancora in preda al turbamento. Non fu necessario che ci facesse strada: mia madre sembrava conoscere quel posto fin troppo bene. Attraversammo un corridoio ampio, superando saloni con pareti tappezzate, arazzi e ritratti di famiglia. Quando arrivammo a una porta a due battenti che si apriva sulla sinistra, mia madre svoltò in quella direzione.

Intravedemmo allora la figura di un uomo alto che ci aspettava al centro della stanza. E di nuovo la voce potente. «Avanti.» Uno studio grande per un uomo grande. Una scrivania grande coperta di carte, una libreria grande zeppa di libri, un signore grande che mi guardava, prima negli occhi, poi verso il basso, di nuovo verso l’alto. Mi studiava. Deglutiva lui, deglutivo io. Fece alcuni passi verso di noi, mi posò la mano sul braccio e lo strinse senza premere, come per essere sicuro che esistessi davvero. Accennò un sorriso all’angolo della bocca, con un fondo di malinconia. «Sei uguale a com’era tua madre venticinque anni fa.» Tenne gli occhi fissi nei miei mentre mi

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stringeva per un secondo, due, tre, dieci. Poi, senza lasciarmi andare, spostò lo sguardo su mia madre. Sul volto gli tornò il lieve sorriso amaro. «Quanto tempo, Dolores.» Lei non rispose, ma non distolse lo sguardo. Allora lui allontanò la mano dal mio braccio e l’allungò verso di lei; non sembrava cercare un saluto, solo un contatto, uno sfioramento, come se sperasse che le dita di lei si muovessero verso di lui. Mia madre però rimase immobile, non rispose al richiamo, finché lui sembrò ridestarsi dall’incantesimo, si schiarì la voce e, in tono controllato e volutamente neutro, ci invitò ad accomodarci. Invece di dirigersi alla grande scrivania coperta di carte, ci guidò verso un altro angolo della biblioteca. Mia madre si accomodò su una poltrona e lui su quella di fronte. Io mi sedetti da sola su un divano, in mezzo a loro due. Tesi, imbarazzati tutti e tre. Lui si attardò ad accendere un sigaro. Lei rimaneva rigida, con le ginocchia giunte e la schiena dritta. Io, intanto, graffiavo con il dito il rivestimento damascato color vino del divano, tutta concentrata in quel gesto, quasi volessi fare un buco nell’ordito del tessuto e scappare da lì come una lucertola. La stanza si riempì di fumo e lui tornò a schiarirsi la voce come se volesse parlare, ma prima che il suono potesse spandersi nell’aria lo fece mia madre. Si rivolse a me, ma i suoi occhi erano concentrati su di lui. La sua voce mi costrinse a sollevare lo sguardo. «Bene, Sira, questo è tuo padre, finalmente lo conosci. Si chiama Gonzalo Alvarado, è un ingegnere, padrone di una fonderia, e vive in questa casa da sempre. Prima era il figlio e ora è il signore, come passa il tempo. Tanti anni fa venivo qui a cucire per sua madre, ci conoscemmo allora e, alla fine, tre anni dopo, sei nata tu. Non immaginare un romanzo d’appendice in cui un signorino senza scrupoli inganna la povera sartina né niente del genere. Quando iniziò la nostra relazione, io avevo ventidue anni e lui ventiquattro: sapevamo tutti e due perfettamente chi eravamo, dove ci trovavamo e quello a cui andavamo incontro. Lui non mi ha preso in giro e io non mi sono illusa più del dovuto. La relazione finì perché non poteva portare da nessuna parte; perché non sarebbe mai dovuta iniziare. Decisi io di troncare, non fu lui ad abbandonare me e te. E sono stata io a fare in modo che non aveste contatti. Tuo padre ha cercato di non perderci, all’inizio in modo insistente; poi, a poco a poco, si è rassegnato alla situazione. Si è sposato e ha avuto altri figli, due maschi. Da molto tempo non sapevo niente di lui, finché ieri ho ricevuto il suo messaggio. Non mi ha detto perché vuole conoscerti proprio adesso; ora lo sapremo.» Mentre parlava, lui la osservava con attenzione, con un serio rispetto. Quando tacque, aspettò qualche minuto prima di darle il cambio. Come se stesse pensando, misurando le parole per esprimere con esattezza quello che voleva dire. Approfittai di quei momenti per studiarlo, e la prima cosa che mi venne in mente fu che non avrei mai pensato di avere un padre così. Io ero bruna, mia madre anche, e le pochissime volte che avevo cercato di immaginare mio padre me l’ero sempre figurato come noi, simile, con la carnagione scura, i capelli neri e una corporatura esile.

Avevo sempre associato l’immagine di padre alle persone che popolavano il mio ambiente: il nostro vicino Norberto, i padri delle mie amiche, gli uomini che affollavano le osterie e le strade del mio quartiere.

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Padri normali di gente normale: lavoratori delle poste, commessi, impiegati, camerieri dei caffè o al massimo proprietari di una tabaccheria, di una merceria o di un banco di verdure al mercato della Cebada. I signori che vedevo durante i miei giri nelle vie ricche di Madrid, quando consegnavo i capi della sartoria della signora Manuela, erano per me come esseri di un altro mondo, creature di una specie diversa che non corrispondevano in alcun modo al modello che avevo in mente per la categoria della presenza paterna. Davanti a me, tuttavia, c’era uno di quegli esemplari. Un uomo ancora piacevole nonostante la corpulenza appena eccessiva, con i capelli ormai bianchi che un tempo dovevano essere stati chiari e gli occhi color miele un po’ arrossati, vestito di grigio scuro, proprietario di una grande casa e con una famiglia assente. Un padre diverso dagli altri, che alla fine iniziò a parlare, rivolgendosi alternativamente a mia madre e a me, a volte a entrambe, a volte a nessuna.

«Bene, non è facile» esordì. Inspirazione profonda, boccata di sigaro, fumo soffiato fuori. Sguardo finalmente rivolto ai miei occhi. A quelli di mia madre, poi. Di nuovo ai miei. Solo allora riprese la parola e andò avanti senza fermarsi per un tempo così lungo e intenso che a un certo punto mi resi conto che eravamo rimasti quasi al buio, i nostri corpi erano divenuti ombre e l’unica luce che ci accompagnava era il riflesso lontano e fioco di un paralume a forma di tulipano sulla scrivania. «Vi ho cercate perché temo che uno di questi giorni mi uccideranno. O sarò io a uccidere qualcuno e finirò in prigione, che è una specie di morte in vita, esattamente la stessa cosa. La situazione politica sta per esplodere e, quando succederà, Dio solo sa che ne sarà di tutti noi.» Guardai mia madre con la coda dell’occhio, in cerca di qualche reazione, ma il suo volto non lasciava trasparire la minima inquietudine: come se invece di un presagio di morte imminente le avessero comunicato l’ora, o le previsioni del tempo avessero annunciato una giornata nuvolosa. Lui, intanto, proseguiva nell’autopsia delle sue premonizioni, trasudando fiotti di amarezza. «So di avere i giorni contati e ho fatto un bilancio della mia vita. E cosa ho scoperto di possedere, tra i miei averi? Denaro, certo. Proprietà, anche. E un’azienda con duecento dipendenti a cui mi sono dedicato anima e corpo per trent’anni e dove, quando non organizzano uno sciopero, mi umiliano e mi sputano in faccia. E una moglie che non appena ha visto bruciare un paio di chiese se n’è andata con la madre e le sorelle a recitare il rosario a San Juan de Luz. E due figli che non capisco, due perdigiorno diventati fanatici che passano il tempo a sparare sui tetti e a adorare l’illuminato figlio di Primo de Rivera, che con le sue sciocchezze romantiche sulla riaffermazione dello spirito nazionale è riuscito a fare in modo che tutti i signorini di Madrid si bevessero il cervello.

Li porterei volentieri tutti quanti in fonderia, a lavorare dodici ore al giorno, per vedere se riescono a ricostruire lo spirito nazionale a colpi di incudine e martello. Il mondo è cambiato molto, Dolores. Lo vedi? Gli operai non si accontentano più di andare alla sagra di San Cayetano e alle corride a Carabanchel, come dice la famosa zarzuela.

Ora sostituiscono l’asino con la bicicletta, entrano in un sindacato e, la prima volta

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che gli gira storta, va a finire che sparano una pallottola in mezzo agli occhi del padrone. Probabilmente hanno le loro ragioni, vivere un’esistenza di privazioni e lavorare dalla mattina alla sera da quando ti spuntano i denti non fa piacere a nessuno. Ma c’è bisogno di ben altro: alzare il pugno, odiare i superiori e cantare L’Internazionale risolve poco; un paese non si cambia a forza di inni.

Di ragioni per ribellarsi, ovviamente, ne hanno d’avanzo; scontano una fame di secoli e molte ingiustizie, ma non si raddrizzano le cose mordendo la mano che ti nutre. Per modernizzare questo paese avremmo bisogno di imprenditori coraggiosi e di lavoratori qualificati, di un’istruzione adeguata e di governi seri che rimangano in carica un tempo sufficiente. Invece è un disastro, ognuno pensa per sé e nessuno si preoccupa di lavorare seriamente per mettere fine a questa situazione assurda. I politici, di una parte e dell’altra, passano le giornate immersi nelle loro diatribe, a cesellare frasi retoriche in Parlamento.

Il re sta bene dove sta; se ne sarebbe dovuto andare molto prima. I socialisti, gli anarchici e i comunisti combattono per la propria parte come è giusto che sia, ma dovrebbero farlo in modo sensato e ordinato, senza rancore e senza incendiare gli animi. I ricchi e i monarchici, nel frattempo, scappano vigliaccamente all’estero. E fra tutti, uno di questi giorni, spingeremo i militari a sollevarsi, così metteranno in piedi uno Stato di polizia e allora sì che ci sarà da piangere. Oppure scateneremo una guerra civile, ci spareremo gli uni contro gli altri e finiremo per ammazzarci tra fratelli.»

Parlava con decisione, senza pause. Finché all’improvviso parve tornare alla realtà e capì che sia mia madre sia io, pur restando composte, eravamo turbate, ignare di dove sarebbe andata a parare la sua amara arringa, senza sapere che cosa c’entrassimo noi con le parole crude che ci stava riversando addosso. «Perdonatemi se vi racconto queste cose in modo così impulsivo, ma ci penso da parecchio tempo e credo che sia arrivato il momento di passare all’azione. Il paese sta affondando. E’ una follia, non ha senso e, come vi ho detto, uno di questi giorni mi uccideranno. Il mondo sta cambiando e si fa fatica a adattarvisi. Ho lavorato come un mulo per più di trent’anni, passando le notti in bianco per seguire i miei affari e cercando di fare il mio dovere. Ma, o non è più tempo per me, oppure ho sbagliato di grosso, perché alla fine la sorte mi ha voltato le spalle e sembra che la vita mi stia sputando addosso la sua vendetta. I figli mi sono sfuggiti di mano, mia moglie mi ha abbandonato e la vita quotidiana nella mia azienda è diventata un inferno. Sono rimasto solo, non posso contare su nessuno e sono convinto che la situazione, ormai, potrà solo peggiorare. Perciò mi preparo, metto in ordine le mie cose, le carte, i conti. Sto disponendo le mie ultime volontà e mi sforzo di far sì che sia tutto a posto, se uno di questi giorni non dovessi tornare a casa. E, come per gli affari, sto mettendo ordine anche fra i ricordi e i sentimenti, perché qualcuno mi è rimasto, anche se pochi. Quanto più vedo nero intorno a me, tanto più frugo tra i miei affetti e riporto a galla le cose buone che ho avuto dalla vita; e ora che i miei giorni si stanno esaurendo, mi sono reso conto che una delle poche cose per le quali è valsa la pena di vivere sai qual è, Dolores? Tu. Tu e questa figlia nostra che è il tuo ritratto negli anni in cui siamo

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stati insieme. Ecco perché ho voluto vedervi.» Arrivato a quel punto, Gonzalo Alvarado, quel padre che finalmente aveva un volto e

un nome, parlava in modo più tranquillo. A metà del discorso cominciò a lasciar trasparire l’uomo che doveva essere tutti i giorni salvo quello: sicuro di sé, deciso nei gesti e nelle parole, abituato a comandare e ad avere ragione. Aveva faticato a ingranare; non doveva essere facile affrontare un amore perduto e una figlia sconosciuta dopo un’assenza durata un quarto di secolo. Ma in quel momento era assolutamente disinvolto, padrone della situazione. Fermo nelle parole, sincero e diretto come può essere solo chi non ha nulla da perdere. «Sai una cosa, Sira? Ho amato davvero tua madre; l’ho amata molto, moltissimo; magari le cose fossero andate diversamente e l’avessi avuta sempre al mio fianco. Ma purtroppo non è stato così.» Distolse lo sguardo da me e si concentrò su di lei. Sui suoi grandi occhi color nocciola consumati a cucire. Sulla sua bellezza matura priva di trucco e ornamenti. «Non mi sono battuto molto per te, vero, Dolores? Non sono stato capace di oppormi ai miei, non mi sono rivelato all’altezza, nei tuoi confronti. E poi, lo sai: mi sono adeguato alla vita che tutti si aspettavano da me, mi sono abituato a un’altra donna e a un’altra famiglia.» Mia madre ascoltava in silenzio, sembrava impassibile. Non saprei dire se stesse nascondendo le sue emozioni o se quelle parole non le facessero né caldo né freddo. Si manteneva ieratica nell’atteggiamento; indecifrabili i pensieri, dritta nel tailleur di ottima fattura che non le avevo mai visto indossare, sicuramente cucito con i ritagli di un’altra donna, che aveva più stoffa e più mezzi di lei. Lui, lungi dal trattenersi di fronte alla sua passività, continuò a parlare. «Non so se mi crederete o no, ma la cosa certa è che, ora che sento avvicinarsi la fine, mi dispiace davvero che siano trascorsi tanti anni senza che mi sia occupato di voi e senza neppure conoscerti, Sira.

Avrei dovuto insistere di più, non avrei dovuto abbandonare il proposito di tenervi vicine, ma le cose stavano come stavano e tu eri troppo orgogliosa, Dolores: non mi avresti mai permesso di darvi solo le briciole della mia vita. Se non poteva essere tutto, allora non sarebbe stato niente. Tua madre è molto dura, figliola, molto dura e molto decisa. Io no; probabilmente sono stato debole e stupido, ma non è il momento di lamentarsi.»

Rimase in silenzio per qualche secondo a pensare, senza guardarci. Poi inspirò dal naso, espirò con forza e cambiò atteggiamento: staccò la schiena dalla spalliera della poltrona e piegò il corpo in avanti, come se volesse apparire più diretto, come se avesse deciso di affrontare di petto quello che voleva dirci. Sembrava finalmente disposto a scrollarsi di dosso l’amara nostalgia che lo aveva indotto a ripensare al passato, pronto a concentrarsi sulle necessità terrene del presente. «Non voglio annoiarvi oltre con l’elenco delle mie malinconie, perdonatemi.

Arriviamo al punto. Vi ho chiamate per comunicarvi le mie ultime volontà. E chiedo a entrambe di cercare di capirmi e di non interpretare in modo sbagliato quello che dirò. Non intendo ricompensarvi per gli anni che non vi ho dedicato, né dimostrarvi con regali il mio pentimento né tantomeno tentare di comprare la vostra stima, arrivati a questo

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punto. L’unica cosa che voglio, adesso, è riannodare i capi sciolti, perché siano uniti quando arriverà la mia ora.» Per la prima volta da quando ci eravamo sedute si alzò dalla poltrona e si diresse verso la scrivania. Lo seguii con lo sguardo: osservai le spalle ampie, il taglio impeccabile della giacca, i movimenti agili nonostante la corporatura robusta. Notai il ritratto appeso alla parete di fondo verso la quale si dirigeva, impossibile da non vedere, date le dimensioni. Una dama elegante vestita secondo la moda di inizio secolo, né brutta né bella, con un diadema sui capelli corti e ondulati, l’aria austera, in un dipinto a olio dalla cornice dorata. Mentre si voltava lo indicò con un cenno del mento. «Mia madre, la grande signora Cariota, tua nonna. La ricordi, Dolores? E’ mancata sette anni fa; se fosse accaduto venticinque anni fa, probabilmente tu, Sira, saresti nata in questa casa. Ma lasciamo che i morti riposino in pace.» Ormai parlava senza guardarci, concentrato su quello che stava facendo dietro il tavolo.

Aprì cassetti, estrasse oggetti, frugò tra le carte e tornò da noi con le mani colme. Mentre camminava non distolse lo sguardo da mia madre.

«Sei ancora bella, Dolores» commentò intanto che si sedeva. Non era più teso, il disagio iniziale era solo un ricordo. «Perdonatemi, non vi ho offerto niente. Volete bere qualcosa? Chiamo Servanda...» Fece per rialzarsi, ma mia madre lo bloccò. «Non vogliamo niente, Gonzalo, grazie. Finiamo questa cosa, per favore.» «Ricordi Servanda, Dolores? Come ci spiava, ci sorvegliava per poi andare a riferire a mia madre.»

All’improvviso scoppiò in una risata roca, breve, amara. «Ricordi quando ci scoprì chiusi nella stireria? Che ironia: mia madre marcisce al cimitero e io sono qui con Servanda, l’unica rimasta a prendersi cura di me; che destino patetico. Avrei dovuto licenziarla quando è morta mia madre, ma dove sarebbe potuta andare quella povera donna, vecchia, sorda e senza famiglia? E poi, probabilmente non aveva altra scelta se non fare quello che mia madre le ordinava: non si sarebbe potuta permettere di perdere il lavoro da un giorno all’altro, anche se la signora Cariota aveva un carattere insopportabile e rendeva amara la vita della gente al suo servizio. Bene, se non volete niente, non prendo niente neanche io.

Procediamo.» Stava seduto sul bordo della poltrona, senza chinarsi, con le grandi mani posate sul cumulo di cose che aveva preso dalla scrivania. Carte, pacchetti, astucci. Tirò fuori dalla tasca interna della giacca un paio di occhiali con la montatura in metallo e li inforcò. «Bene, veniamo alle questioni pratiche. Andiamo con ordine.»

Prese per primo un pacchetto che in realtà era formato da due grandi buste unite da un elastico. «Questi sono per te, Sira, perché tu possa farti strada nella vita. Non è un terzo del mio capitale come ti spetterebbe in qualità di mia discendente, ma è tutto quello che posso darti in contanti in questo momento. Non sono riuscito a vendere niente, sono tempi duri per le transazioni di qualsiasi tipo. E non sono nella posizione di poterti lasciare le proprietà: non sei riconosciuta legalmente come figlia mia e i veri aventi diritto ti farebbero a pezzi, oltre a costringerti ad affrontare cause interminabili con gli altri miei figli. Comunque, qui ci sono quasi cinquantamila pesetas. Sembri in gamba come tua madre e sono sicuro che saprai farne buon uso. Con questi soldi voglio che

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pensi anche a lei, che ti preoccupi di non farle mancare niente e che la mantenga se un giorno ne avrà bisogno. In realtà avrei preferito dividere il denaro in due parti, una per ciascuna, ma so che Dolores non lo accetterebbe mai, perciò lascio l’incarico a te.» Mi tendeva il pacchetto; prima di prenderlo guardai turbata mia madre, non sapendo che fare. Con un cenno affermativo, breve e conciso, mi comunicò il suo consenso. Solo a quel punto allungai le mani. «Molte grazie» mormorai a mio padre. Prima di replicare mi rivolse un sorriso severo.

«Non c’è di che, figlia mia, non c’è di che. Bene, proseguiamo.» Prese poi un astuccio ricoperto di velluto blu e lo aprì. Ne prese un altro, color granata, più piccolo. Fece lo stesso. Così fino ad arrivare a cinque. Li lasciò sul tavolo. I gioielli che contenevano non brillavano, c’era poca luce, ma potevo intuirne il valore anche nella penombra.

«Erano di mia madre. Ce ne sono altri, ma Maria Luisa, mia moglie, li ha portati con sé nel suo esilio religioso. Ha lasciato i più preziosi, però, forse perché sono quelli meno discreti. Sono per te, Sira; per sicurezza, non sfoggiarli mai: come vedi, sono gioielli piuttosto vistosi. Ma puoi venderli o impegnarli, se un giorno ne avrai bisogno, in cambio di una somma più che ragguardevole.» Non sapevo che cosa rispondere; mia madre sì. «Neanche per sogno, Gonzalo. Queste cose appartengono a tua moglie.» «Assolutamente no» tagliò corto lui.

«Questa roba, mia cara Dolores, non è di proprietà di mia moglie: sono cose mie e

desidero che vadano a mia figlia.» «Non è ammissibile, Gonzalo, non possiamo accettare.» «Sì che potete.» «No.» «Sì.» La discussione finì lì. Silenzio di Dolores, battaglia persa. Lui chiuse gli astucci uno per uno. Li impilò in un’ordinata piramide, il più grande sotto, il più piccolo sopra. Spostò la pila verso di me, facendola scivolare sulla superficie incerata del tavolo, e quando l’ebbi di fronte spostò la sua attenzione su un mucchio di fogli piegati. Li aprì e me li mostrò.

«Questi sono i certificati dei gioielli, con descrizione, valutazione e tutto il resto. C’è anche un documento notarile in cui si attesta che mi appartengono e che te li cedo di mia volontà. Ti servirà se un giorno ti toccherà provare che sono tuoi; spero che non avrai bisogno di dimostrare niente a nessuno, ma non si sa mai.» Ripiegò le carte, le mise in una specie di cartellina, la legò con un nastro rosso e mise anche quella di fronte a me. Poi prese una busta ed estrasse un paio di fogli incartapecoriti con timbri, firme e altri contrassegni ufficiali.

«Ancora una cosa, abbiamo quasi finito. Come posso spiegarti...» Pausa, inspirazione, espirazione, poi riprese: «Ho redatto questo documento con il mio avvocato alla presenza di un notaio che può garantire del suo contenuto. Vi si dice, in poche parole, che sono tuo padre e tu sei mia figlia. A cosa può servirti? Spero a niente, perché se un giorno volessi rivendicare il mio patrimonio, ti renderai conto che l’ho lasciato in eredità ai tuoi fratellastri, e da questa famiglia non potrai mai ottenere altro che quello che porterai con te quando uscirai da questa casa. Ma per me ha un valore: significa riconoscere pubblicamente qualcosa che avrei dovuto riconoscere molti anni fa. Qui

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risulta il legame che ci unisce, e adesso puoi farne quello che vuoi: mostrarlo a mezzo mondo o farlo in mille pezzi e gettarlo nel fuoco; dipende solo da te». Piegò il documento, lo infilò in una busta per darmelo e ne prese un’altra dal tavolo, l’ultima. La prima era grande, in carta pregiata, con una grafia elegante e l’intestazione di un notaio. La seconda, piccola, scura, ordinaria, aveva l’aria di essere stata toccata da migliaia di mani prima di arrivare alle nostre. «Siamo alla fine» disse senza sollevare la testa. Aprì la busta, ne estrasse il contenuto e lo esaminò un istante. Poi, senza una parola, e questa volta saltando me, la diede a mia madre. A quel punto si alzò per andare a un balcone.

Rimase lì in silenzio, di spalle, con le mani nelle tasche dei pantaloni, a osservare la sera o il nulla, non saprei. Quello che mia madre aveva ricevuto era un plico di foto. Vecchie, marrone e di cattiva qualità, scattate più di due decenni prima da un fotografo ambulante per trenta centesimi in una mattinata di primavera. Due giovani, belli, sorridenti. Complici e vicini, intrappolati nella fragile rete di un amore tanto grande quanto sconveniente, ignari del fatto che al termine degli anni trascorsi separati, confrontandosi di nuovo insieme con quella testimonianza del passato, lui si sarebbe voltato verso un balcone per non guardarla in faccia, e lei avrebbe stretto i denti per non piangere di fronte a lui. Dolores scorse le fotografie a una a una, lentamente. Poi me le passò senza guardarmi. Le osservai a lungo, mi soffermai su ognuna; poi le rimisi nella busta. Lui tornò accanto a noi, si risedette e riprese la conversazione.

«Con questo abbiamo esaurito le questioni materiali. Ora vengono i consigli. A questo punto, non è che io intenda lasciarti un’eredità morale, figliola; non ho i titoli per ispirare fiducia né per predicare con l’esempio, ma se mi concederai qualche minuto in più dopo tanti anni non credo che succederà niente, vero?» Annuii con un cenno del capo.

«Be’, il mio consiglio è questo: andatevene appena potete. Dovete andarvene tutte e due, lontano, il più lontano possibile da Madrid.

Fuori dalla Spagna, preferibilmente. Non in Europa, neanche lì la situazione sembra buona. Andate in America o, se vi sembra troppo lontano, in Africa. In Marocco; andate nel Protettorato, è un bel posto per viverci. Un luogo tranquillo dove, dalla fine della guerra con gli arabi, non succede mai niente. Cominciate una nuova vita lontano da questo paese impazzito, perché quando meno ve lo aspettate scoppierà qualcosa di tremendo e nessuno ne uscirà vivo.» Non riuscii a trattenermi. «E perché lei non se ne va?» Sorrise ancora una volta con amarezza. Tese la sua grande mano verso la mia e l’afferrò con forza.

Era calda. Parlò senza allentare la stretta. «Io non ho più bisogno di un futuro, figliola; ormai mi sono tagliato i ponti alle spalle. E non darmi del lei, per favore. Ho già concluso il mio ciclo, forse un po’ in anticipo, d’accordo, ma non ho più né la voglia né le forze per lottare per una nuova vita. Quando si intraprende un cambiamento, bisogna farlo nutrendo sogni e speranze, con entusiasmo. Andarsene senza è come scappare, e io non intendo fuggire da nessuna parte; preferisco rimanere qui e affrontare a viso aperto quello che succederà. Ma per te è diverso, Sira, sei giovane, dovrai farti una famiglia,

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mandarla avanti. E la Spagna sta diventando un posto pessimo. Perciò, questa è la mia

raccomandazione di padre e di amico: vattene. Porta tua madre con te, così vedrà crescere i suoi nipoti. E prenditi cura di lei come non sono stato capace di fare io, promettimelo.» Tenne lo sguardo fisso nel mio finché colse un cenno affermativo. Non sapevo in che modo sperasse che mi sarei presa cura di mia madre, ma non osai fare altro che acconsentire. «Bene, direi che con questo abbiamo finito» annunciò. Si alzò e noi facemmo lo stesso. «Prendi le tue cose» disse. Ubbidii. Nella mia borsa ci stava tutto tranne l’astuccio più grande e le buste con i soldi. «E ora lascia che ti abbracci per la prima e sicuramente per l’ultima volta. Dubito molto che ci rivedremo.» Avvolse il mio corpo sottile con la sua corpulenza e mi strinse forte; poi mi prese il viso tra le mani grandi e mi baciò sulla fronte. «Sei bella come tua madre.

Ti auguro di avere fortuna nella vita, figlia mia. Che Dio ti benedica.» Volevo rispondergli in qualche modo, ma non ne fui capace. I suoni si arenarono in

un grumo di muco e parole all’altezza della gola; le lacrime mi inondarono gli occhi, e riuscii soltanto a girarmi e a dirigermi in corridoio in cerca dell’uscita, vacillante, con la vista annebbiata e una fitta che mi straziava le viscere. Aspettai mia madre sul pianerottolo. La porta era socchiusa e la vidi uscire mentre la figura sinistra di Servanda la guardava da lontano. Aveva le gote accese e gli occhi vitrei, il suo volto finalmente rivelava emozione. Non assistetti a quello che i miei genitori fecero e si dissero in quei cinque minuti scarsi, ma maturai la convinzione che si fossero abbracciati anche loro e che si fossero detti addio. Scendemmo come eravamo salite: mia madre davanti, io dietro. In silenzio. Con i gioielli, i documenti e le fotografie in borsa, centocinquantamila pesetas strette sottobraccio e il rumore dei tacchi che picchiettavano sul marmo delle scale. Arrivate al mezzanino non riuscii più a trattenermi: la presi per il braccio e la costrinsi a fermarsi e a girarsi. Quando mi ritrovai di fronte il suo viso, la mia voce fu appena un sussurro terrorizzato. «Lo uccideranno davvero, mamma?» «E io che ne so, figlia mia, che ne so...»

Uscimmo in strada e ci mettemmo sulla via del ritorno senza scambiare una parola. Lei allungò il passo e io mi sforzai di starle dietro, ma la scomodità e l’altezza delle scarpe, che calzavo per la prima volta, mi impedivano a tratti di tenere il ritmo delle sue falcate. Nel giro di qualche minuto trovai il coraggio di parlare, ancora scossa, come se stessi cospirando. «E adesso che faccio con tutta questa roba, mamma?»

Non si fermò per rispondere. «Mettila al sicuro» fu l’unica cosa che disse. «Tutto? E tu non tieni niente?» «No, è tutto tuo; sei l’erede e per di più sei una donna adulta, e io non posso interferire in quello che vorrai fare con i beni che tuo padre ha deciso di lasciarti.» «Sei sicura?» «Certo, figlia mia, sono sicura. Dammi, magari, una foto; una qualsiasi, voglio solo un ricordo. Il resto è solo tuo, ma, in nome di Dio e della Madonna, ascoltami bene.» Finalmente si fermò e mi guardò negli occhi sotto la luce fioca di un lampione. Accanto a noi i passanti seguivano mille direzioni diverse, ignari del turbamento provocato in noi da quell’incontro. «Fai attenzione, Sira. Fai attenzione e

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comportati in modo responsabile» disse a voce bassa, pronunciando rapidamente le parole. «Non fare follie, perché ora hai molto, moltissimo; davvero molto più di quanto avresti mai sognato di avere in tutta la vita, quindi, in nome di Dio, figlia mia, sii prudente; sii prudente e giudiziosa.» Continuammo a camminare in silenzio finché ci separammo. Lei tornò alla casa vuota senza di me; alla muta compagnia di mio nonno, che non aveva mai saputo chi avesse generato la nipote, perché Dolores, testarda e orgogliosa, si era sempre rifiutata di dirgli il nome di mio padre. Io tornai da Ramiro. Mi aspettava a casa e fumava mentre ascoltava la radio nella penombra del salotto, impaziente di sapere com’era andata e pronto per uscire a cena. Gli raccontai l’incontro nei particolari: quello che avevo visto e udito da mio padre, come mi ero sentita e i consigli che mi aveva dato. E gli mostrai anche quello che avevo portato fuori da quella casa in cui probabilmente non sarei più tornata. «Questa roba vale un mucchio di soldi, bambina» sussurrò osservando i gioielli. «E non è finita» dissi allungandogli le buste con le banconote. Come replica si limitò a lasciarsi sfuggire un fischio. «Cosa ne facciamo di tutto questo, Ramiro?» chiesi con un nodo di preoccupazione. «Vuoi dire cosa ne farai tu, amore mio: è solo tuo.

Io, se vuoi, posso studiare il modo migliore per custodirlo. Forse sarebbe bene depositare tutto nella cassaforte del mio ufficio.» «Perché non lo portiamo in banca?» chiesi. «Non credo sia una buona idea, con i tempi che corrono.» Sostenne la sua proposta accennando alla caduta della Borsa di New York pochi anni prima, all’instabilità politica e a un mucchio di altre cose che a me non interessavano minimamente. Lo ascoltai a malapena: qualunque sua decisione mi sembrava giusta, volevo solo che trovasse al più presto un posto sicuro per quella fortuna che scottava fra le dita. Il giorno dopo tornò dal lavoro carico di fogli e quaderni. «Ci ho pensato e ripensato e credo di aver trovato la soluzione. La cosa migliore è costituire una società commerciale» annunciò appena entrato. Non ero ancora uscita di casa da quando mi ero alzata. Ero stata tesa e nervosa tutta la mattina; ripensavo al pomeriggio precedente, ancora commossa dalla strana sensazione che mi dava la consapevolezza di avere un padre con un nome, un cognome, una fortuna e dei sentimenti. La proposta inaspettata non fece altro che accrescere il mio turbamento. «Perché dovrei volere una società?» chiesi allarmata. «Perché così il tuo denaro sarebbe più al sicuro. E anche per un’altra ragione.» Mi parlò dei problemi nella sua ditta, delle tensioni con i capi italiani e dell’incertezza delle aziende straniere nella Spagna convulsa di quei giorni. E di idee, mi parlò anche di idee, sciorinando una serie di progetti di cui fino ad allora non mi aveva reso partecipe. Tutti innovativi, brillanti, destinati a svecchiare il paese con ingegni forestieri, aprendo la strada alla modernizzazione.

Importazione di mietitrebbia inglesi per i campi della Castilla, aspirapolvere americani che promettevano appartamenti cittadini lindi come specchi, e un cabaret come quelli di Berlino per il quale aveva già individuato un locale in calle Valverde. Un progetto, però, si imponeva sugli altri: le Academias Pitman. «Da mesi penso e ripenso a quest’idea: da quando abbiamo ricevuto un dépliant in ufficio tramite alcuni vecchi

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clienti. Ma come gestore del negozio non mi era sembrato opportuno rivolgermi a loro personalmente. Se costituissimo una società a tuo nome, sarebbe tutto molto più facile» chiarì. «In Argentina le Academias Pitman vanno a gonfie vele: hanno più di venti succursali, migliaia di allievi che la scuola prepara per impieghi nelle aziende, in banca e nell’amministrazione. Insegnano dattilografia, stenografia e contabilità con metodi rivoluzionari e, dopo undici mesi, gli studenti escono con un diploma in tasca, pronti a conquistare il mondo. E l’azienda continua a crescere, ad aprire nuove sedi, ad assumere personale e a produrre profitti. Potrebbe succedere anche a noi, se aprissimo una succursale delle Academias Pitman al di qua dell’oceano. E se proponiamo l’idea agli argentini dicendo che abbiamo una società costituita legalmente e con un capitale sufficiente, è probabile che le nostre chance siano molto maggiori che se ci rivolgessimo a loro come privati.» Non avrei saputo dire se fosse un piano sensato o il più strampalato dei progetti, ma Ramiro parlava con tanta sicurezza, con tanta padronanza e conoscenza che non dubitai neppure per un momento che fosse una grande idea.

Continuò a illustrarmela nei particolari senza smettere, sillaba dopo sillaba, di meravigliarmi. «Credo, fra l’altro, che sarebbe bene tenere in considerazione il suggerimento di lasciare la Spagna che ti ha dato tuo padre. Ha ragione: qui la situazione è troppo tesa, uno di questi giorni può scoppiare qualcosa di grave e non è un buon momento per lanciarsi in nuovi affari. Quindi credo che dovremmo seguire il suo consiglio e andarcene in Africa. Se tutto va bene, quando la situazione si sarà tranquillizzata potremo fare il salto sulla penisola ed espanderci in tutta la Spagna.

Dammi il tempo di contattare a nome tuo i padroni delle Pitman a Buenos Aires e di

convincerli con il nostro progetto di aprire una grande succursale in Marocco, vedremo se a Tangeri o nel Protettorato. Ci vorrà al massimo un mese per avere una risposta. E quando l’avremo, arrivederci Hispano-Olivetti: ce ne andiamo e ci mettiamo al lavoro.» «Ma perché i marocchini dovrebbero voler imparare a scrivere a macchina?» Una sonora risata fu la prima reazione di Ramiro. Poi illuminò la mia ignoranza. «Ma cosa dici, amore mio! La nostra scuola sarà destinata agli europei che vivono in Marocco: Tangeri è una città internazionale, un porto franco con cittadini provenienti da tutta Europa. Ci sono molte aziende straniere, delegazioni diplomatiche, banche e imprese commerciali di ogni tipo; le possibilità di lavoro sono immense e ovunque hanno bisogno di personale qualificato con nozioni di dattilografia, stenografia e contabilità. A Tetuàn la situazione è diversa, ma altrettanto ricca di opportunità: la popolazione è meno internazionale perché la città è la capitale del Protettorato spagnolo, ma è piena di funzionari e di gente che aspira a diventarlo, e tutti, come sai bene, tesoro, hanno bisogno della preparazione che l’Academia Pitman può offrire.» «E se gli argentini non ti danno la licenza?» «Ne dubito. Ho amici a Buenos Aires con ottimi contatti. Ci riusciremo, vedrai. Ci affideranno il loro metodo e la loro esperienza, e manderanno dei rappresentanti per insegnare ai dipendenti.» «E tu cosa farai?» «Io da solo, niente. Noi due insieme, molto. Dirigeremo l’azienda. Io e te, insieme.» Prima di rispondere feci una

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risatina nervosa. Ramiro non avrebbe potuto prospettarmi un panorama più inverosimile: la povera sartina senza lavoro, che solo qualche mese prima non sapeva a che santo votarsi e pensava d’imparare a battere a macchina, era sul punto di trasformarsi come per incanto nella dirigente di un’impresa con prospettive allettanti. «Vuoi che io diriga un’impresa? Non saprei da che parte cominciare, Ramiro.» «Ma come? Quante volte devo ripeterti quanto vali? Il fatto è che non hai mai avuto occasione di dimostrarlo: hai sprecato la tua gioventù chiusa in un buco, a cucire stracci per le altre senza avere l’opportunità di costruirti una prospettiva migliore.

Il tuo momento, il tuo grande momento, deve ancora arrivare.» «E cosa diranno quelli della Hispano-Olivetti quando sapranno che te ne vai?»

Sorrise beffardo e mi baciò sulla punta del naso. «Al diavolo la Hispano-Olivetti, amore mio.» Le Academias Pitman o un castello in aria per me si equivalevano, se l’idea veniva dalla bocca di Ramiro; se mi illustrava i suoi progetti con entusiasmo febbrile mentre mi teneva le mani e i suoi occhi si riversavano nei miei, se mi ripeteva quanto valevo e come sarebbe andato tutto bene scommettendo insieme sul futuro.

Sulle Academias Pitman o sulle fiamme dell’inferno: ogni sua proposta era legge, per me. Il giorno seguente portò a casa il dépliant informativo che aveva scatenato la sua immaginazione. Diversi paragrafi descrivevano la storia dell’azienda: aperta nel 1919, creata da tre soci, Allua, Schmiegelon e Jan. Basata sul sistema stenografico ideato dall’inglese Isaac Pitman. Un metodo infallibile, insegnanti rigorosi, serietà assoluta, trattamento personalizzato, radioso avvenire dopo il conseguimento del diploma. Le foto di giovani sorridenti che sembravano pregustare la brillante carriera professionale futura anticipavano la veridicità delle promesse. L’opuscolo, capace di smuovere anche il lettore più diffidente, sprizzava trionfalismo: “Il cammino della vita è lungo e scosceso. Non tutti riescono a raggiungere l’agognata meta, dove li attendono successo e fortuna. Molti si perdono per strada: gli incostanti, i deboli di carattere, i negligenti, gli ignoranti, coloro che confidano solo nella sorte, dimenticando che i trionfi più magnifici ed esemplari sono forgiati a forza di studio, perseveranza e volontà.

Ognuno può scegliere il proprio destino. Scegli anche tu!”. Quel pomeriggio andai a trovare mia madre. Fece il caffè e mentre lo bevevamo in

compagnia della presenza cieca e silenziosa di mio nonno la resi partecipe del nostro progetto e le suggerii che, una volta sistemati in Africa, si sarebbe potuta unire a noi. Come avevo immaginato, l’idea non le piacque affatto, e non si mostrò disposta a raggiungerci. «Non devi per forza ubbidire a tuo padre, né credere a tutto quello che ha detto. Il fatto che abbia problemi con i suoi affari non significa che debba succedere qualcosa a noi. Più ci penso, più mi convinco che abbia esagerato.» «Se è così spaventato, mamma, un motivo ci sarà; non si è certo inventato tutto...» «Ha paura perché è abituato a comandare senza che nessuno osi replicare, e ora è turbato perché i lavoratori, per la prima volta, cominciano a far sentire la propria voce e a pretendere diritti. La verità è che continuo a chiedermi se accettare tutti quei soldi, e soprattutto i gioielli, non sia stata una follia.» Follia o no, fatto sta che, a partire da quel momento, il

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denaro, i gioielli e i progetti entrarono nella nostra vita quotidiana in modo naturale, senza grandi cerimonie, ma erano sempre presenti nei pensieri e nei discorsi. Come previsto, Ramiro si occupò della trafila per creare la società e io mi limitai a firmare le carte che mi mise davanti. A parte quello, la mia vita continuò come sempre: ero agitata, divertita, innamorata e colma di un’ingenuità sconsiderata. L’incontro con Gonzalo Alvarado fece sì che io e mia madre limassimo un po’ le asperità del nostro rapporto, ma le nostre strade proseguirono, irrimediabilmente, in direzioni diverse. Dolores si manteneva sfruttando al massimo gli ultimi scampoli provenienti dalla sartoria della signora Manuela, a volte cuciva per qualche vicina di casa, ma per la maggior parte del tempo stava senza far niente. Il mio mondo, invece, ormai era un altro: un universo in cui non c’era spazio per i cartamodelli e le controfodere di rinforzo, dove non rimaneva nulla della giovane sartina che ero stata. Il trasferimento in Marocco richiese alcuni mesi. Nel corso dei quali io e Ramiro uscimmo e rientrammo, ridemmo, fumammo, facemmo l’amore come matti e ballammo fino all’alba la carioca. Intorno a noi l’atmosfera politica continuava a essere incandescente e gli scioperi, i conflitti lavorativi e le violenze in strada erano ormai all’ordine del giorno. Nel febbraio del 1936 vinse le elezioni la coalizione di sinistra del Fronte Popolare; la Falange, per reazione, si fece più aggressiva. Le pistole e i pugni sostituirono le parole nei dibattiti politici, la tensione divenne estrema. Ma cosa ce ne poteva importare, se eravamo a un passo da una nuova tappa?

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CAPITOLO 4 Lasciammo Madrid alla fine di marzo del 1936. Una mattina uscii per comprare un

paio di calze e quando tornai trovai la casa sottosopra e Ramiro circondato di valigie e bauli. «Ce ne andiamo, oggi pomeriggio.»

«Ti hanno risposto quelli delle Pitman?» chiesi con un nodo allo stomaco. Mi rispose senza guardarmi, mentre toglieva in fretta e furia i pantaloni e le camicie dalle grucce appese nell’armadio. «Non proprio, ma ho saputo che stanno valutando seriamente la proposta. Quindi credo che sia venuto il momento di levare le tende.» «E il tuo lavoro?» «Mi sono licenziato oggi. Ero stufo marcio, e tutti sapevano che era solo questione di giorni. Così, addio per sempre Hispano-Olivetti. Ci aspetta un altro mondo, amore mio; la fortuna aiuta gli audaci, perciò prendi le tue cose che ce ne andiamo.» Non risposi e il mio silenzio lo costrinse a interrompere l’attività frenetica. Si fermò, mi guardò e, vedendomi confusa, sorrise. Poi si avvicinò, mi prese per la vita e con un bacio estirpò alla radice tutte le mie paure: una trasfusione di energia capace di farmi volare fino in Marocco. La fretta mi consentì di ritagliarmi solo qualche minuto per salutare mia madre; poco più di un rapido abbraccio quasi sulla porta e un Non ti preoccupare, ti scriverò.

Ringraziai il cielo di non avere il tempo per prolungare l’addio: sarebbe stato troppo doloroso. Non mi guardai neppure indietro mentre scendevo di corsa le scale: nonostante la sua forza, sapevo che stava per scoppiare a piangere, e non c’era tempo per i sentimentalismi. Nella mia assoluta incoscienza, sentivo che la nostra separazione non sarebbe durata a lungo: come se l’Africa fosse a due passi e bastasse attraversare un paio di vie, come se il nostro viaggio non dovesse protrarsi per più di qualche settimana. Sbarcammo a Tangeri all’inizio della primavera, a mezzogiorno di un giorno ventoso. Avevamo abbandonato una Madrid grigia e dura e ci sistemammo in una città diversa, sconvolgente, ricca di colori e contrasti, dove i volti scuri degli arabi in gellaba e turbante si mescolavano con gli europei trasferiti in pianta stabile e altri che fuggivano dal proprio passato, in transito verso mille destini, con le valigie sempre pronte e piene di sogni incerti. Tangeri, con il suo mare, le sue dodici bandiere internazionali e la vegetazione lussureggiante di palme ed eucalipti; con le viuzze arabe e i nuovi viali dove transitavano lussuose automobili targate “CD”: corps diplomatique. Tangeri, dove i minareti delle moschee e gli aromi delle spezie convivevano senza tensioni con i consolati, le banche, le straniere frivole a bordo delle decappottabili, l’odore di tabacco biondo e i profumi parigini esenti da imposte. I dehors degli hammam del porto ci ricevettero con le tende svolazzanti per la forte brezza marina, capo Malabata e le coste spagnole in lontananza. Gli europei, fasciati in abiti chiari e leggeri, protetti da occhiali

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da sole e cappelli flosci, prendevano l’aperitivo sfogliando i giornali internazionali con le gambe accavallate in un’indolente noncuranza.

Alcuni si dedicavano agli affari, altri a impieghi amministrativi, molti a una vita oziosa e falsamente spensierata: preludio di eventi incerti che dovevano ancora arrivare e che neppure i più audaci avrebbero potuto prevedere. Nell’attesa di ricevere notizie concrete dai proprietari delle Academias Pitman, ci sistemammo all’hotel Continental, affacciato sul porto e ai margini della medina. Ramiro mandò un cablogramma alla società argentina per comunicare il nostro cambio d’indirizzo e io mi preoccupavo ogni giorno di chiedere alla reception dell’albergo notizie della lettera che avrebbe segnato l’inizio del nostro futuro. Una volta ottenuta la risposta, avremmo deciso se rimanere a Tangeri o trasferirci nel Protettorato. Mentre la lettera si attardava nella traversata dell’Atlantico, cominciammo a muoverci per la città fra altri espatriati come noi, uniti alla massa di individui dal passato nebuloso e dal futuro incerto che si dedicava anima e corpo all’estenuante occupazione di chiacchierare, bere, ballare, assistere a spettacoli al Teatro Cervantes e giocarsi il domani a carte; senza sapere se la vita avesse in serbo un destino brillante o una fine ingloriosa in qualche buco ancora inimmaginabile. Cominciammo a diventare come loro ed entrammo in un tempo nel quale c’era di tutto, tranne che calma. Ci furono ore d’amore accumulato nella camera del Continental mentre le tende bianche ondeggiavano mosse dalla brezza marina; passione furiosa al rumore monotono delle pale del ventilatore insieme al ritmo affannoso del nostro respiro, il sudore che sapeva di sale sulla pelle e le lenzuola stropicciate cadute dal letto e sparse sul pavimento. E poi uscite continue, vita per le strade notte e giorno. All’inizio vagavamo da soli, non conoscevamo nessuno. Nelle giornate in cui il levante soffiava con meno forza andavamo alla spiaggia del Bosque Diplomatico; nel pomeriggio passeggiavamo in boulevard Pasteur, appena aperto, vedevamo film americani al Florida Kursaal e al

Capitol, o ci sedevamo in un qualsiasi caffè dello Zoco Chico, il cuore palpitante della città, dove il mondo arabo e quello europeo si intrecciavano con grazia e leggerezza. Il nostro isolamento, però, durò appena qualche settimana: Tangeri era piccola, Ramiro socievole all’inverosimile, e tutti in quei giorni sembravano spinti da un’urgenza assoluta di avere a che fare con gli altri. In breve tempo cominciammo a salutare facce, imparare nomi e unirci a gruppi di persone all’entrata dei locali. Pranzavamo e cenavamo al Bretagne, al Roma Park o alla Brasserie de la Plage, e di sera andavamo al Bar Russo, o al Chatham, o al Detroit in plaza de Francia, o al Central con il suo gruppo di animatrici ungheresi, o a vedere gli spettacoli del music-hall M’salah, con il suo grande padiglione a vetri, affollato di francesi, inglesi, spagnoli, ebrei di diverse nazionalità, marocchini, tedeschi e russi che ballavano, bevevano e intavolavano discussioni politiche sulla situazione di vari paesi, in una confusione di lingue e al suono di un’orchestra spettacolare. A volte finivamo all’Haffa, vicino al mare, sotto le tende fino all’alba. I materassini per terra, la gente sdraiata che fumava kif e beveva tè. Arabi ricchi ed europei dalla sorte incerta che in passato forse lo erano stati anche loro, o forse

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no. In quel tempo indefinito, a cavallo fra l’attesa di notizie dall’Argentina e l’ozio imposto dal loro ritardo, di rado andavamo a letto prima dell’alba. A poco a poco ci abituammo a girare nella nuova zona europea e a vagabondare in quella araba; a convivere con l’amalgama di forestieri e locali. Con le signore dalla carnagione lattea che portavano a passeggio i cagnolini agghindate con pamele e perle, e i barbieri dalla pelle scura che lavoravano all’aperto con i loro strumenti vetusti. Con i venditori ambulanti di pomate e unguenti, l’abbigliamento impeccabile dei diplomatici, i greggi di capre e le silhouette svelte, sfuggenti e quasi senza volto delle donne musulmane avvolte nei loro haik e caffetani. Ogni giorno arrivavano notizie da Madrid. A volte le leggevamo sui quotidiani locali in spagnolo, “Democracia”, “El Diario de Africa” o il repubblicano “El Porvenir”. A volte le apprendevamo semplicemente dalla bocca dei venditori di giornali che nello Zoco Chico urlavano i titoli in una babele di lingue: “La Vedetta di Tangeri” in italiano, “Le Journal de Tanger” in francese.

Ogni tanto mi arrivava qualche lettera di mia madre, breve, semplice, rara. Venni così a sapere che il nonno era morto, silenzioso e quieto sulla sua sedia a dondolo, e fra le righe intuii quanto diventasse ogni giorno più difficile per lei la semplice sopravvivenza. Fu anche un periodo di scoperte. Imparai alcune frasi in arabo, poche ma utili. Il mio orecchio si abituò ai suoni di altre lingue - francese, inglese - e ad altri accenti, come L’haketia, il dialetto degli ebrei sefarditi marocchini, con un sottofondo di spagnolo antico che aveva inglobato parole arabe ed ebraiche. Venni a sapere dell’esistenza di sostanze che si fumano, o si iniettano, o si inalano, e confondono i sensi; di persone capaci di giocarsi la madre a un tavolo di baccarà e di passioni carnali che ammettono molte combinazioni oltre a quella di un uomo e una donna orizzontali su un materasso. Venni a conoscenza di cose che succedevano nel mondo e che la mia formazione sotterranea non mi aveva permesso di conoscere: imparai che anni prima in Europa c’era stata una grande guerra, che in Germania governava un certo Hitler, ammirato da alcuni e temuto da altri, e che qualcuno che abitava apparentemente in pianta stabile in un luogo poteva volatilizzarsi il giorno dopo per salvare la pelle, per non essere fatto fuori a colpi di pistola, o per evitare di finire la propria vita in un posto peggiore degli incubi più neri. Scoprii inoltre, con immenso dispiacere, che in qualsiasi momento e senza causa apparente tutto ciò che crediamo stabile può crollare, prendere un’altra strada, cambiare traiettoria e iniziare a mutare. Al contrario di quanto avvenne per la conoscenza delle passioni delle persone, della politica europea e della storia dei paesi da cui proveniva la gente che ci circondava, non acquisii quell’insegnamento perché qualcuno me lo comunicò, ma perché mi toccò viverlo in prima persona. Non ricordo il momento esatto né cosa accadde concretamente, ma a un certo punto le cose fra me e Ramiro cominciarono a cambiare.

All’inizio fu solo un mutamento delle nostre abitudini. Le frequentazioni con altre persone si intensificarono ed emerse un interesse preciso ad andare in un posto piuttosto che in un altro; non vagabondavamo più senza meta per le strade, non ci lasciavamo portare dall’inerzia come nei primi giorni. Io preferivo la fase precedente, da soli, senza

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nessuno oltre a noi due e il mondo estraneo intorno, ma vedevo che Ramiro, con la sua personalità travolgente, aveva iniziato a guadagnarsi simpatie ovunque. E siccome tutto quello che faceva per me andava bene, sopportai senza protestare le ore interminabili trascorse con sconosciuti, anche se perlopiù capivo a malapena di cosa si parlava, perché si conversava in lingue diverse dalla mia, o perché si discuteva di luoghi e argomenti che ancora non conoscevo: concessioni, nazismo, Polonia, bolscevichi, visti, estradizioni. Ramiro se la cavava abbastanza bene in francese e in italiano, masticava un po’ d’inglese e conosceva qualche espressione tedesca. Aveva lavorato per aziende internazionali e tenuto contatti con stranieri, e se non ci arrivava con i termini esatti, si faceva capire a gesti, con giri di parole e allusioni. Comunicava senza problemi e in poco tempo divenne popolare tra gli espatriati. Difficilmente entravamo in un ristorante senza dover salutare qualcuno a vari tavoli, o arrivavamo al bancone dell’hotel El Minzah o nel dehors del caffè Tingis senza che ci chiedessero di unirci alle animate conversazioni di qualche gruppo. Ramiro si ambientava in mezzo a quella gente come se la conoscesse da sempre, e io mi lasciavo trascinare, ero la sua ombra, una presenza quasi sempre muta, indifferente a qualsiasi cosa tranne la sensazione di sentirlo accanto a me ed essere la sua appendice, un’estensione compiacente della sua persona. Ci fu un tempo, che durò più o meno quanto la primavera, in cui combinammo i due aspetti raggiungendo un equilibrio. Conservavamo i nostri momenti di intimità, le nostre ore esclusive. Mantenevamo accesa la fiamma dei giorni madrileni e, nello stesso tempo, ci aprivamo ai nuovi amici e partecipavamo alla movimentata vita locale. A un certo punto, però, la bilancia cominciò a pendere da una parte. Lentamente, a poco a poco ma in modo irreversibile. Le ore pubbliche cominciarono a infiltrarsi nello spazio dei nostri momenti privati. Le facce conosciute smisero di essere semplici fonti di conversazione e aneddoti, e iniziarono a delinearsi come persone con un passato, progetti per il futuro e la capacità di intervenire nel nostro avvenire. Le loro personalità uscirono dall’anonimato per profilarsi nettamente, risultando interessanti, attraenti. Ricordo ancora alcuni nomi e cognomi; conservo nella memoria i volti, che ormai saranno teschi, e i loro paesi lontani, che allora non sarei stata capace di individuare su una carta geografica. Ivan, il russo elegante e silenzioso, sottile come un giunco, con lo sguardo sfuggente e il fazzoletto che gli spuntava dal taschino della giacca come un fiore di seta fuori stagione. Il barone polacco di cui ora mi sfugge il nome, che millantava ai quattro venti la sua presunta ricchezza mentre possedeva solo un bastone con l’impugnatura d’argento e due camicie dal colletto liso per il contatto di anni contro la pelle. Isaac Springer, l’ebreo austriaco con il naso prominente e il portasigarette d’oro. La coppia di croati, gli Jovovic, entrambi così belli, così somiglianti e ambigui che a volte sembravano amanti e a volte fratelli. L’italiano sudaticcio che mi guardava sempre con quel suo sguardo torbido, si chiamava Mario, o forse Maurizio, non ricordo. Ramiro era in rapporti sempre più stretti con loro, cominciò a partecipare ai loro desideri e alle loro preoccupazioni, e divenne parte attiva nei loro progetti. E io vedevo che, ogni giorno di più, lentamente, si avvicinava a loro e si allontanava da me. Sembrava che le notizie dei

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proprietari delle Academias Pitman non dovessero arrivare mai, ma con mia grande sorpresa il ritardo non sembrava affatto inquietare Ramiro. Passavamo sempre meno tempo da soli nella camera del Continental. C’erano sempre meno sussurri, meno allusioni a tutto quello che fino ad allora gli era piaciuto di me. Menzionava appena le cose che prima lo facevano impazzire e che non si stancava mai di nominare: la pelle luminosa, i fianchi divini, i capelli di seta. Dedicava a stento qualche complimento alla grazia della mia risata, alla freschezza della mia gioventù. Non rideva quasi mai di quella che prima chiamava la mia beata innocenza, e mi accorgevo di suscitare sempre meno interesse, complicità e tenerezza. Fu allora, in quei giorni tristi in cui l’incertezza minacciava di lacerarmi la coscienza, che cominciai a sentirmi male. Non solo nello spirito, anche fisicamente. Male, male, malissimo, ancora peggio. Forse il mio stomaco non si era ancora abituato del tutto ai nuovi cibi, così diversi dalla cucina di mia madre e dai piatti semplici dei ristoranti di Madrid. Forse il caldo afoso e umido di quell’estate appena iniziata aveva qualcosa a che vedere con la mia crescente debolezza. La luce del giorno era diventata troppo violenta, gli odori della strada mi disgustavano e mi davano la nausea.

A stento riuscivo a riunire le forze per alzarmi dal letto, i conati si ripetevano nei momenti più inattesi e il sonno si impadroniva di me a qualsiasi ora. A volte, di rado, Ramiro sembrava preoccupato: si sedeva accanto a me, mi posava la mano sulla fronte e mi diceva parole dolci. A volte, la maggior parte, si distraeva, lo perdevo. Non faceva caso a me, mi sfuggiva. Smisi di accompagnarlo nelle uscite notturne: l’energia e le forze mi bastavano appena per reggermi in piedi. Cominciai a rimanere sola in albergo, ore lunghe, pesanti, asfissianti; ore di canicola appiccicosa, senza un filo d’aria, quasi senza vita. Immaginavo che lui facesse le stesse cose degli ultimi tempi, con le stesse compagnie: bevute, partite a biliardo, conversazioni e ancora conversazioni; conti e mappe tracciati su un pezzo di carta qualsiasi sul marmo bianco dei tavolini di qualche caffè. Credevo che facesse le stesse cose ma senza di me, e non intuii che era passato a una fase diversa, che c’era dell’altro; aveva superato le frontiere della vita sociale tra amici per addentrarsi in un territorio nuovo che non gli era del tutto sconosciuto. Ci furono altri progetti, certo. E anche le carte, partite agguerrite a poker, feste che si prolungavano fino alle prime luci dell’alba. Scommesse, bravate, oscure transazioni e progetti strampalati. Menzogne, spacconate, mentre emergeva un aspetto della sua personalità rimasto nascosto per mesi. Ramiro Arribas, l’uomo dai mille volti, fino a quel momento me ne aveva mostrato solo uno. Non avrei tardato a conoscere gli altri. Ogni notte tornava sempre più tardi e in condizioni peggiori: i lembi della camicia che spuntavano sopra la cintura dei calzoni, il nodo della cravatta quasi all’altezza del petto, sovreccitato. Puzzava di fumo e whisky e balbettava scuse con la voce impastata se mi trovava ancora sveglia. A volte non mi sfiorava neppure, crollava sul letto come un peso morto e si addormentava all’istante, russando in un modo che mi impediva di prendere sonno nelle poche ore restanti prima che fosse giorno fatto. A volte mi abbracciava goffamente, sbavava respirandomi sul collo, scostava gli indumenti che lo disturbavano

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e si scaricava dentro di me. Io lo lasciavo fare senza un rimprovero, senza capire del tutto che cosa ci stava succedendo, incapace di dare un nome a quell’allontanamento. Alcune notti non tornò affatto. Furono le peggiori, trascorse a vegliare fino al mattino di fronte alle luci giallastre dei moli che si riflettevano sull’acqua nera della baia; albe passate a scacciare a manate le lacrime con l’amaro sospetto che forse era stato tutto un errore, uno sbaglio immenso senza rimedio. La fine non tardò ad arrivare. Decisa ad avere una volta per tutte una conferma delle cause del mio malessere, ma senza preoccupare Ramiro, una mattina presto mi incamminai verso l’ambulatorio di un medico in calle Estatuto. DOTTOR BEVILACQUA, MEDICINA GENERALE, DISTURBI E MALATTIE diceva la targa dorata sulla porta. Mi auscultò, mi esaminò, mi rivolse qualche domanda. E non furono necessarie la prova della rana né altre analisi per confermare quello che avevo intuito e che, come seppi in seguito, anche Ramiro sospettava. Tornai in albergo in preda a sentimenti confusi. Entusiasmo, ansia, gioia, paura. Speravo di trovarlo ancora a letto, di svegliarlo con un bacio per comunicargli la notizia.

Ma non fu possibile. Non ebbi mai occasione di dirgli che avremmo avuto un bambino, perché al mio arrivo lui non c’era più e, insieme alla sua assenza, trovai la camera sottosopra, le ante degli armadi spalancate, i cassetti sfilati dalle guide e le valigie sparse per terra. Ci sono stati i ladri, fu il mio primo pensiero. Sentii che mi mancava l’aria e dovetti sedermi sul letto. Chiusi gli occhi e feci un respiro profondo, una, due, tre volte. Quando li riaprii, esaminai la camera. Un solo pensiero si ripeteva nella mia testa: Ramiro, Ramiro, dov’è Ramiro? A quel punto le mie pupille, che vagavano smarrite, si imbatterono in una busta lasciata sul comodino dal mio lato del letto, appoggiata sulla base della lampada, il mio nome scritto in lettere maiuscole con la calligrafia decisa che avrei saputo riconoscere anche in capo al mondo.

Sira, amore mio, prima che continui, voglio che tu sappia che ti adoro e che il tuo ricordo rimarrà vivo in me fino alla fine dei miei giorni.

Quando leggerai queste righe non sarò più al tuo fianco, avrò preso un’altra strada, e, anche se lo desidero con tutta l’anima, temo che non ci sarà posto per te e per la creatura che, a quanto ho intuito, aspetti. Voglio chiederti scusa per il mio comportamento degli ultimi tempi, per la mia mancanza di dedizione; confido che capirai che l’incertezza provocata dalla mancanza di notizie dalle Academias Pitman mi ha spinto a cercare altre vie per affrontare il futuro. Ho vagliato diverse proposte e alla fine ne ho scelta una; si tratta di un’avventura affascinante e promettente, che richiede però il mio impegno totale, quindi oggi non mi è possibile contemplare la tua presenza nell’impresa.

Non ho dubbi che il progetto in cui mi getto oggi si rivelerà un successo assoluto, ma per il momento, a questo stadio, necessita di un investimento cospicuo che supera le mie possibilità finanziarie, motivo per cui mi sono permesso di prendere in prestito il denaro e i gioielli di tuo padre per fare fronte alle spese iniziali. Un giorno spero di poterti restituire quello che oggi ho preso in prestito perché, nel corso degli anni, tu possa lasciarlo ai tuoi discendenti come tuo padre ha fatto con te. Confido inoltre che il ricordo

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dell’abnegazione e della forza con cui tua madre ti ha cresciuto ti serva di ispirazione in tutte le tappe della vita. Addio, tesoro mio. Tuo per sempre, Ramiro.

P.S. Ti consiglio di lasciare Tangeri il più presto possibile; non è un posto adatto per una donna sola, tantomeno nelle tue condizioni attuali.

Temo che qualcuno intenda trovarmi e, se non ci riesce, può darsi che cerchi te. Quando lascerai l’albergo, fallo con discrezione e pochi bagagli: proverò in ogni modo a saldare il conto degli ultimi mesi, ma non so se ci riuscirò, vista l’urgenza della mia partenza, e se ciò dovesse crearti problemi non potrei mai perdonarmelo.

Non ricordo che cosa pensai. Nella memoria serbo intatta la scena: la camera sottosopra, l’armadio vuoto, la luce accecante che entrava dalla finestra aperta e la mia figura sul letto disfatto, con la lettera in una mano, l’altra aggrappata alla gravidanza appena confermata, e dense gocce di sudore lungo le tempie. I pensieri che mi passarono per la testa in quel momento, però, o non sono mai esistiti o non hanno lasciato traccia, perché non riuscii mai a ricordarli. La cosa certa, invece, è che mi misi all’opera come una macchina appena avviata, con movimenti svelti ma senza la capacità di riflettere o manifestare sentimenti. Nonostante il contenuto della lettera, anche da lontano Ramiro continuava a scandire il ritmo delle mie azioni, e io, semplicemente, mi limitai a ubbidire. Aprii una valigia e la riempii afferrando con entrambe le mani le prime cose che trovavo, senza fermarmi a pensare a quello che mi conveniva portarmi dietro e a quello che poteva rimanere lì. Alcuni vestiti, una spazzola per i capelli, qualche camicetta e un paio di vecchie riviste, una manciata di biancheria intima, scarpe spaiate, due giacche senza le gonne intonate e tre gonne senza giacche, carte sparse rimaste sulla scrivania, flaconi del bagno, un asciugamano. Quando quel guazzabuglio di indumenti e accessori ebbe riempito la valigia, la chiusi e me ne andai sbattendo la porta.

Nella confusione di mezzogiorno, mentre i clienti entravano e uscivano dalla sala da pranzo, fra il rumore dei camerieri, i tragitti che si incrociavano e le voci che parlavano lingue che non capivo, sembrò che nessuno si accorgesse del mio allontanamento. Solo Hamid, il piccolo facchino con l’aria da bambino cresciuto, si avvicinò sollecito per aiutarmi a portare i bagagli. Rifiutai con un cenno e uscii. Mi misi a camminare tenendo un’andatura né sostenuta né lenta, senza la minima idea di dove mi sarei diretta e senza preoccuparmene. Ricordo di aver percorso la salita della rue de Portugal, ho qualche immagine isolata dello Zoco de Afuera: un brulichio di banchi, animali, voci e gellabe.

Girovagai senza meta e varie volte dovetti accostarmi ai muri nell’udire dietro di me il clacson di un’automobile o le grida - balak, balak - di qualche marocchino che trasportava di corsa la sua merce. Nel mio vagabondaggio concitato, a un certo punto passai vicino al cimitero inglese, davanti alla chiesa cattolica e in calle Siagin, in calle de la Marina e di fianco alla Grande Moschea. Camminai per un lasso di tempo eterno e imprecisato, senza sentire la fatica né altre sensazioni, mossa da una forza sconosciuta che spingeva le mie gambe come se non appartenessero a me. Avrei potuto proseguire molto più a lungo: ore, notti, forse settimane, anni e anni, fino alla fine dei giorni. Ma non lo feci perché in Cuesta de la Playa, mentre passavo di fronte alle Scuole Spagnole

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come un fantasma, mi passò accanto un taxi. «Devo portarla da qualche parte, mademoiselle?» chiese il tassista in un misto di spagnolo e francese. Credo di aver assentito con la testa. Vista la valigia, probabilmente avrà pensato che avessi intenzione di fare un viaggio. «Al porto, alla stazione o prende un autobus?» «Sì.» «Sì cosa?»

«Sì.» «Sì l’autobus?» Annuii di nuovo con un cenno: per me, un autobus, un treno o il fondo di un burrone si equivalevano. Ramiro mi aveva lasciata e non avevo un posto dove andare, quindi ogni luogo era orribile come qualsiasi altro. O peggiore.

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CAPITOLO 5 Una voce melodiosa cercò di svegliarmi e con uno sforzo immenso riuscii ad aprire

gli occhi. Intravidi due sagome accanto a me: prima confuse, poi più nitide. Una apparteneva a un uomo dai capelli bianchi, il cui volto ancora indefinito mi sembrò vagamente familiare. L’altro profilo aveva assunto le fattezze di una suora dalla tonaca immacolata. Cercai di capire dove mi trovassi, ma riuscii a distinguere solo l’alto soffitto, i letti di fianco al mio, l’odore di medicinali e il sole che entrava a fiotti dalle finestre. Mi resi conto che ero in un ospedale.

Ricordo ancora con chiarezza le prime parole che mormorai. «Voglio tornare a casa.» «E dov’è casa tua, figliola?» «A Madrid.» Mi parve che i due si scambiassero un’occhiata. La suora mi prese la mano e la strinse delicatamente. «Credo che per ora non sia possibile.» «Perché?» chiesi. Rispose l’uomo. «Il transito nello Stretto è interrotto. E’ stato dichiarato lo stato di guerra.» Non riuscii a capire cosa significasse perché, non appena le parole mi arrivarono all’orecchio, sprofondai di nuovo in un pozzo di debolezza e sonno infiniti da cui mi risvegliai solo alcuni giorni dopo. Quando accadde, rimasi ricoverata ancora per un certo periodo. Le settimane che trascorsi immobilizzata all’Ospedale Civile di Tetuàn mi servirono per mettere un po’ di ordine nei miei sentimenti e valutare la situazione venutasi a creare in quei mesi. Ma questo solo alla fine, negli ultimi giorni, perché all’inizio, la mattina e il pomeriggio, all’alba, nell’orario di visita in cui non venne mai a trovarmi nessuno e quando mi portavano il cibo che non riuscivo neppure ad assaggiare, non feci altro che piangere. Non pensai, non riflettei, non ricordai neppure. Piangevo soltanto. Con il passare dei giorni, quando mi si seccarono gli occhi perché non mi erano più rimaste lacrime da versare, al mio letto cominciarono ad arrivare i ricordi, come in una sfilata scandita da un ritmo implacabile. Potevo quasi vederli mentre mi assillavano: entravano in fila indiana dalla porta in fondo al padiglione nella corsia grande e inondata di luce.

Ricordi vivi, autonomi, grandi e piccoli, che si avvicinavano uno dietro l’altro, con un balzo saltavano sul materasso e risalivano lungo il mio corpo fino a infilarsi nel cervello da un orecchio, sotto le unghie o nei pori della pelle, e lo massacravano senza pietà con immagini e momenti che la mia volontà avrebbe preferito non ricordare mai. Poi, mentre la tribù della memoria continuava ad arrivare - la sua presenza però era sempre meno rumorosa - con una freddezza atroce cominciò a invadermi come un’eruzione cutanea la necessità di analizzare tutto, di trovare una causa e una ragione per ogni evento della mia vita negli ultimi otto mesi. Quella fase fu la peggiore: la più aggressiva, la più dolorosa. Quella che mi fece più male. E anche se non sono in grado di calcolare quanto durò, so con certezza che a porvi fine fu un arrivo inaspettato. Fino ad allora le giornate erano

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trascorse fra partorienti, figlie della Carità e letti di ferro dipinti di bianco. Ogni tanto compariva il camice di un medico e a certe ore arrivavano le famiglie delle altre ricoverate che sussurravano, facevano le moine ai neonati o consolavano fra i sospiri quelle che, come me, erano rimaste a metà strada. Mi trovavo in una città dove non conoscevo anima viva: non era venuto a trovarmi nessuno né mi aspettavo che qualcuno lo facesse. Non mi era neppure ben chiaro come fossi finita in quel luogo sconosciuto: ero in grado di riportare alla mente solo un ricordo confuso delle circostanze in cui vi ero arrivata. Nella mia memoria una profonda laguna di incertezza occupava il posto destinato alle ragioni logiche che mi avevano condotta lì. Nel corso di quei giorni mi tennero compagnia solo i ricordi confusi con la cupezza dei pensieri, le presenze discrete delle suore e il desiderio - a metà fra l’anelito e il timore - di tornare a Madrid il prima possibile. Ma una mattina, inaspettatamente, la mia solitudine fu interrotta. Preceduto dalla figura bianca e robusta di sorella Virtudes, ricomparve il volto maschile che pochi giorni prima mi aveva comunicato vaghe parole relative a una guerra. «Hai una visita, figliola» annunciò la suora. Nel suo tono squillante mi sembrò di cogliere una leggera sfumatura di preoccupazione. Quando il nuovo venuto si presentò, capii perché. «Sono il commissario Claudio Vàzquez, signora» disse lo sconosciuto a mo’ di saluto. «O signorina?» Aveva i capelli quasi bianchi, un cappello floscio, un abito estivo chiaro e il volto abbronzato dal sole in cui brillavano due occhi scuri e sagaci. Ancora in preda alla debolezza, non riuscii a capire se fosse un signore maturo dall’aria giovanile o un giovane incanutito prematuramente. In ogni caso, in quel momento non era importante: avevo più urgenza di sapere che cosa volesse da me. Sorella Virtudes gli indicò una sedia appoggiata contro una parete; lui la sollevò e l’avvicinò al lato destro del mio letto. Lasciò il cappello in fondo ai miei piedi e si sedette. Con un sorriso gentile ma autoritario fece capire alla suora che avrebbe preferito restare da solo con me. La luce entrava a fiotti dalle ampie finestre della corsia. Al di là dei vetri, il vento faceva ondeggiare lentamente le palme e gli eucalipti del giardino, che si stagliavano contro un cielo azzurro abbagliante, segno di una giornata estiva magnifica, per chi non era costretto a trascorrerla prostrato in un letto d’ospedale in compagnia di un commissario di polizia. Con le lenzuola immacolate e stirate alla perfezione, i letti accanto al mio erano vuoti come quasi tutti gli altri. La religiosa se ne andò cercando di nascondere la contrarietà di fronte al divieto di presenziare all’incontro, e nel padiglione rimanemmo io e il commissario, con la sola compagnia di due o tre presenze sdraiate in letti lontani e di una giovane suora che lavava il pavimento distante e silenziosa. Io ero sollevata leggermente, con il lenzuolo che mi arrivava al petto lasciando scoperte le braccia nude sempre più smagrite, le spalle ossute e la testa. Con i capelli raccolti in una treccia scura su un lato del volto magro e cinereo, sfinita dalla prostrazione. «La sorella mi ha detto che si è un po’ rimessa, quindi temo che sia arrivato il momento di parlare, d’accordo?» Assentii limitandomi a muovere la testa, senza riuscire neppure a intuire di che cosa volesse discutere quell’uomo con me; non mi risultava che lo strazio e il turbamento infrangessero qualche legge. Il commissario tirò fuori un bloc-notes dalla tasca interna

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della giacca e consultò i suoi appunti. Probabilmente li aveva riguardati poco prima, perché non dovette sfogliare le pagine per trovare quello che cercava: si limitò a puntare lo sguardo su quella che aveva davanti, e lì, sotto i suoi occhi, c’erano le annotazioni di cui sembrava aver bisogno. «Bene, comincerò con qualche domanda; risponda semplicemente sì o no. Lei è Sira Quiroga Martin, nata a Madrid il 25 giugno 1911, giusto?» Il suo tono era cortese, ma non per questo meno diretto e inquisitorio. Un certo rispetto per la mia condizione attenuava il carattere professionale del colloquio, ma senza occultarlo del tutto. Confermai l’esattezza dei miei dati personali con un gesto affermativo. «Ed è arrivata a Tetuàn lo scorso 15 luglio da Tangeri.» Annuii ancora. «A Tangeri ha alloggiato all’hotel Continental a partire dal 23 marzo.»

Nuova affermazione. «In compagnia di...» consultò il bloc-notes «Ramiro Arribas Querol, originario di Vitoria, nato il 23 ottobre 1901.»

Assentii di nuovo, ma abbassando lo sguardo. Era la prima volta che sentivo il suo nome dopo tanto tempo. Il commissario Vàzquez non sembrò accorgersi che la mia disinvoltura diminuiva, e se lo notò non lo fece capire; si limitò a proseguire l’interrogatorio senza soffermarsi sulla mia reazione. «E all’hotel Continental avete lasciato un conto da saldare di 3789 franchi francesi.» Non replicai. Mi limitai a girare la testa di lato per evitare i suoi occhi. «Mi guardi» disse. Non gli diedi retta. «Mi guardi» ripeté. Il tono era ancora neutro: la seconda volta non era stato più insistente della prima, né più gentile, ma nemmeno più autoritario. Era semplicemente lo stesso. Aspettò con pazienza qualche secondo, finché gli ubbidii. Ma non risposi. Lui riformulò la domanda senza perdere la calma. «Sa che avete lasciato un conto di 3789 franchi?» «Credo di sì» risposi alla fine con un filo di voce. Smisi di guardarlo negli occhi girando di nuovo la testa. E cominciai a piangere.

«Mi guardi» mi intimò per la terza volta. Aspettò un po’, finché si rese conto che non avevo l’intenzione, o le forze, o il coraggio di affrontarlo. Allora sentii che si alzava dalla sedia, passava accanto ai miei piedi e mi si avvicinava dall’altra parte. Si sedette sul letto vicino, che io stavo fissando; scompigliò la superficie liscia delle lenzuola e mi fissò negli occhi. «Sto cercando di aiutarla, signora. O signorina, fa lo stesso» chiarì con fermezza. «Lei si è cacciata in un bel pasticcio, anche se, a quanto ho capito, non per sua volontà. Credo di sapere come sono andate le cose, ma mi serve la sua collaborazione.

Se lei non mi aiuta, io non posso aiutarla, ha capito?» Mi sforzai per dire di sì. «Bene, allora la smetta di piangere e andiamo avanti.» Mi asciugai il viso con un lembo del lenzuolo. Il commissario mi concesse un minuto. Non appena capì che avevo ingoiato le lacrime, tornò scrupolosamente al suo dovere. «Pronta?» «Pronta» mormorai. «Senta, la direzione dell’hotel Continental l’accusa di aver lasciato un conto piuttosto salato da pagare, ma non è tutto. La faccenda, purtroppo, è molto più complessa. Abbiamo saputo che su di lei grava una denuncia della ditta Hispano-Olivetti per una truffa di 24.890 pesetas.» «Ma io...» Con un gesto della mano interruppe le mie giustificazioni: aveva altre notizie da comunicarmi. «E un mandato di comparizione per la sottrazione di alcuni gioielli di un certo valore da una casa privata di Madrid.» «Io non...» L’impatto di ciò

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che avevo sentito annullava la mia capacità di pensare e impediva alle mie parole di uscire con ordine.

Il commissario, consapevole della mia sorpresa, cercò di tranquillizzarmi. «Lo so, lo so. Si calmi, non faccia sforzi. Ho letto tutti i documenti che aveva in

valigia e sono riuscito a ricostruire in modo approssimativo gli eventi. Ho trovato il foglio scritto da suo marito, o fidanzato, o amante, o qualunque cosa rappresenti per lei questo Arribas, e anche il certificato di donazione dei gioielli a suo favore, e un documento secondo cui il precedente proprietario dei suddetti gioielli è in realtà suo padre.» Non ricordavo di aver portato con me quei documenti; non sapevo che fine avessero fatto dal momento in cui Ramiro li aveva messi via, ma se erano tra le mie cose sicuramente li avevo presi senza rendermene conto dalla camera d’albergo quando me n’ero andata. Sospirai con un certo sollievo, intuendo che forse potevano costituire la chiave della mia salvezza. «Parli con lui, per favore, parli con mio padre» lo supplicai. «Si chiama Gonzalo Alvarado.

Vive a Madrid in calle Hermosilla 19.» «Non c’è modo di contattarlo. Le comunicazioni con Madrid sono pessime. La capitale è sottosopra, ci sono molti dispersi: arrestati, fuggiti, in procinto di farlo, o nascosti, o morti. Inoltre, il problema per lei è ancora più complicato, perché la denuncia proviene dal figlio di Alvarado. Enrique, mi sembra che si chiami; è il suo fratellastro, no? Enrique Alvarado, sì» confermò dopo avere consultato gli appunti. «A quanto pare qualche mese fa una domestica gli ha riferito che lei era stata a casa sua e ne era uscita piuttosto alterata con alcuni pacchetti: immaginano che tra le altre cose ci fossero i gioielli; credono che Alvarado padre sia vittima di un possibile ricatto o di qualche forma di estorsione. Insomma, una brutta storia, anche se questi documenti sembrano escludere la sua colpevolezza.» A quel punto estrasse da una tasca della giacca i documenti che mio padre mi aveva consegnato qualche mese prima, quando ci eravamo incontrati. «Per sua fortuna, Arribas non se li è portati via insieme ai gioielli e al denaro, forse perché potevano essere compromettenti. Avrebbe dovuto distruggerli, per stare tranquillo, ma nella fretta di sparire non l’ha fatto. Gliene sia grata, perché per il momento questo la salverà dal carcere» sottolineò con ironia. Subito dopo chiuse gli occhi per un istante, forse nel tentativo di rimangiarsi le ultime parole. «Mi perdoni, non volevo offenderla; immagino che non sia dell’umore giusto per essere grata di qualcosa a un tizio che si è comportato in quel modo con lei.» Non replicai alle sue scuse, mi limitai a formulare debolmente un’altra domanda. «Dov’è adesso?»

«Arribas? Non lo sappiamo con certezza. Forse in Brasile, forse a Buenos Aires. O a Montevideo. Si è imbarcato su un transatlantico che batteva bandiera argentina, ma può essere sceso in diversi porti. A quanto pare viaggiava con altri tre individui: un russo, un polacco e un italiano.»

«E non lo cercherete? Non farete niente per seguire le sue tracce e arrestarlo?» «Temo di no. Abbiamo poco contro di lui: semplicemente un conto non pagato a metà

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con lei. A meno che non lo denunci per i gioielli e il denaro che le ha sottratto, ma, sinceramente, non credo che ne valga la pena. E’ lampante che è roba sua, però la provenienza non è del tutto chiara e lei è stata denunciata proprio per questo. Quindi, credo che difficilmente riusciremo a sapere dove si trova questo Arribas; di solito i tipi come lui sono furbi, sanno bene come va il mondo e riescono a svanire reinventandosi in quattro e quattr’otto nel modo più inatteso in un qualunque altro angolo del globo.»

«Ma stavamo per iniziare una nuova vita, avremmo aperto una società; aspettavamo una risposta» balbettai.

«Allude alla faccenda della scuola di dattilografia?» chiese estraendo di tasca un’altra busta. «Impossibile: non avreste avuto la licenza. I proprietari argentini delle Academias Pitman non erano affatto interessati a espandere la loro attività al di là dell’oceano, ve l’hanno comunicato in aprile» disse, e vedendo la mia faccia sconcertata aggiunse: «Arribas non gliel’ha mai detto, vero?».

Ricordai le mie domande quotidiane al bancone della reception, emozionata, speranzosa per l’arrivo della lettera che pensavo potesse cambiare le nostre vite, e che era da mesi nelle mani di Ramiro a mia insaputa. I miei appigli per giustificarlo si stavano dissolvendo, svanivano. Mi aggrappai con le poche forze rimaste all’ultimo spiraglio di speranza.

«Però mi amava...» Il commissario sorrise con lieve amarezza mescolata a qualcosa di simile alla

compassione. «Tutti gli uomini della sua risma dicono così. Senta, signorina, non si illuda: i tipi

come Arribas amano solo se stessi. Possono essere affettuosi e apparire generosi; di solito sono affascinanti, ma al momento della verità pensano solo a salvarsi la pelle, e non appena le cose cominciano a mettersi male se ne vanno in fretta e furia passando sopra a tutto, pur di non essere colti in flagrante. Questa volta a farne le spese è stata lei; una sfortuna, certo. Non dubito che gli sia piaciuta, ma un bel giorno gli è capitato per le mani un progetto migliore e lei è diventata un peso che non intendeva portarsi dietro.

Ecco perché l’ha lasciata, non ci ricami troppo sopra. Lei non ne ha colpa, ma ormai possiamo fare ben poco per rimediare.»

Non volli approfondire oltre quella riflessione sulla sincerità dell’amore di Ramiro; era troppo doloroso. Preferii tornare ai problemi pratici.

«E la questione della Hispano-Olivetti? Cosa c’entro io?» L’uomo inspirò ed espirò profondamente, come se si preparasse ad affrontare un

argomento spiacevole. «Questa storia è ancora più ingarbugliata. Per il momento non ci sono prove che la

scagionino, anche se, personalmente, mi sembra di capire che si tratta di un’altra trovata di suo marito, o del suo fidanzato, o qualunque cosa rappresenti Arribas per lei. Secondo la versione ufficiale, lei figura come titolare di una ditta che ha ricevuto un grosso quantitativo di macchine da scrivere che a tutt’oggi non risultano pagate.»

«Gli è venuta l’idea di aprire una società a nome mio, ma io non sapevo... non avevo

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idea... io non...» «Ne sono convinto, so che lei non ha la minima idea di cosa ha combinato Arribas

usandola come copertura. Le dirò come sono riuscito a ricostruire i fatti; la versione ufficiale la conosce già. Mi corregga se sbaglio: lei ha ricevuto da suo padre una somma di denaro e dei gioielli, è così?»

Annuii. «Poi Arribas le ha proposto di registrare una società a suo nome e di depositare tutti i

soldi e i gioielli nella cassaforte della ditta per cui lavorava, giusto?» Annuii di nuovo. «Bene, ma in realtà non l’ha fatto. O meglio, l’ha fatto, ma non come un semplice

deposito a suo nome. Con il suo denaro ha fatto un acquisto alla propria ditta fingendo che si trattasse di un ordine della società di import-export Mecanograficas Quiroga, di cui lei risultava la titolare. Ha pagato puntualmente l’ordine con il suo denaro, e la Hispano-Olivetti non ha avuto sospetti: era un ordine come un altro, ingente e regolare, punto. Poi Arribas ha rivenduto le macchine, non so come né a chi. Fin qui, tutto a posto per la Hispano-Olivetti in termini contabili, e soddisfacente per Arribas che, senza aver investito un centesimo di tasca propria, aveva concluso un ottimo affare guadagnandoci sopra. Ma dopo poche settimane ha fatto un altro ordine a nome suo, che è stato evaso puntualmente. L’importo di quest’ordine non è stato saldato alla consegna; è stata versata solo una prima rata, ma lei figurava come cliente solvente e nessuno si è insospettito: hanno pensato che il resto della somma sarebbe stato versato entro i termini stabiliti. Il problema è che il pagamento non è mai stato fatto: Arribas ha rivenduto la merce, si è tenuto il guadagno e si è tolto di torno, con lei e il suo capitale praticamente intatto, e una bella fetta in più ottenuta dalla compravendita dei prodotti che non sono stati pagati. Un bel colpo, non c’è che dire, anche se qualcuno deve aver avuto qualche sospetto perché, a quanto ho capito, la sua partenza da Madrid è stata un po’ precipitosa, vero?»

Ricordai con una vampata il mio arrivo a casa nostra in plaza de las Salesas quella mattina di marzo, l’impeto nervoso di Ramiro che tirava fuori la roba dall’armadio e riempiva le valigie in fretta e furia, la premura con cui mi disse di fare lo stesso, senza perdere neanche un secondo. Con quelle immagini in testa, confermai l’ipotesi del commissario, che proseguì.

«Quindi, alla fine della fiera, Arribas non solo si è tenuto il suo denaro, ma l’ha anche usato per ottenere ulteriori guadagni per sé. Un tipo molto sveglio, non c’è che dire.»

Mi rispuntarono le lacrime. «La smetta. Trattenga le lacrime, per favore: non vale la pena piangere sul latte

versato. Guardi, a dire il vero è successo tutto nel momento meno opportuno e più complicato.»

Deglutii, riuscii a trattenermi e a riprendere la conversazione. «Per la questione della guerra di cui parlava l’altro giorno?» «Non si sa ancora come andrà a finire, ma al momento la situazione è molto

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complessa. Mezza Spagna è in mano all’esercito ribelle e l’altra metà è rimasta leale al governo. Regnano il caos, la disinformazione e la mancanza di notizie; un disastro totale, insomma.»

«E qui? Come stanno le cose qui?» «Per ora la situazione è abbastanza tranquilla; nelle scorse settimane era molto più

confusa. Tutto è iniziato proprio qui, non lo sa? Il colpo di Stato, la sollevazione, quello che chiamano alzamiento; il generale Franco è partito da qui, dal Marocco, e da qui è iniziato il movimento delle truppe. Nei primi giorni ci sono stati dei bombardamenti; l’aviazione della Repubblica ha attaccato l’Alto Commissariato in risposta all’alzamiento, ma la sfortuna ha voluto che sbagliassero obiettivo, e un Fokker ha causato numerosi feriti tra la popolazione civile, la morte di diversi bambini arabi e la distruzione di una moschea. Così i musulmani hanno considerato l’azione come un attacco rivolto a loro e si sono schierati automaticamente dalla parte dei ribelli. Ci sono stati anche numerosi arresti e fucilazioni di sostenitori della Repubblica contrari all’alzamiento: il carcere europeo è pieno da scoppiare e hanno allestito una specie di campo di reclusione a El Mogote. Con la caduta dell’aerodromo di Sania Ramel, proprio qui, vicino all’ospedale, il governo non ha più bastioni nel Protettorato, quindi al momento l’intero Nordafrica è controllato dai militari insorti e la situazione è abbastanza calma. Adesso il fulcro dello scontro è nella penisola.»

Si strofinò gli occhi con il pollice e l’indice della mano sinistra; spostò poi la palma della mano in su, sulle sopracciglia, la fronte, l’attaccatura dei capelli, la parte superiore della testa e la nuca fino al collo. Parlò a voce bassa, come fra sé.

«Chissà se questa dannata faccenda finirà presto...» Lo strappai alla sua riflessione; non riuscivo a sopportare oltre l’incertezza. «Ma io potrò andarmene o no?» La mia domanda inopportuna lo riportò alla realtà. In modo brusco. «No, assolutamente. Lei non può andare da nessuna parte, e meno che mai a Madrid.

E’ lì che si è insediato per il momento il governo della Repubblica: la popolazione lo appoggia e si prepara a resistere per tutto il tempo necessario.»

«Ma io devo tornare» insistetti debolmente. «Là ci sono mia madre, la mia casa...» Parlò di nuovo sforzandosi di non perdere la pazienza. La mia insistenza lo

infastidiva, anche se cercava di non contrariarmi, viste le mie condizioni di salute. In un’altra situazione probabilmente mi avrebbe trattato con meno riguardo.

«Senta, non so qual è la sua posizione, se sta dalla parte del governo o con gli insorti» disse, e la sua voce era di nuovo pacata, aveva ripreso forza dopo un momento di abbassamento; probabilmente scontava la stanchezza e la tensione di quei giorni concitati. «Se devo essere sincero, dopo tutto quello che ho visto nelle ultime settimane, della sua posizione mi importa ben poco; anzi, preferisco non conoscerla. Io mi limito a fare il mio lavoro cercando di tenere fuori le questioni politiche; quelli che se ne occupano sono più che sufficienti, purtroppo. Ma, ironia della sorte, anche se stenterà a crederci, la fortuna le ha sorriso. Qui a Tetuàn, centro della sollevazione, sarà

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completamente al sicuro, perché nessuno all’infuori di me si preoccuperà dei suoi problemi con la legge che, mi creda, sono piuttosto torbidi.

Sufficienti a farla finire in carcere per un bel po’ di tempo, in condizioni normali.» Provai a protestare, allarmata e in preda al panico. Non me lo permise; bloccò le mie

intenzioni alzando una mano e continuò a parlare. «Immagino che a Madrid si fermerà la maggior parte delle pratiche di polizia e tutti i

processi che non siano di natura politica o d’importanza cruciale: con quello che gli è capitato addosso non credo che a nessuno interessi cercare in giro per il Marocco una presunta truffatrice di una ditta di macchine da scrivere e presunta ladra del patrimonio del padre denunciata dal fratello. Qualche settimana fa sarebbero state faccende piuttosto serie, ma oggi appaiono insignificanti rispetto alla tempesta che ha travolto la capitale.»

«Quindi?» chiesi titubante. «Quindi lei non si muove di qui; non deve tentare in alcun modo di lasciare Tetuàn e

deve fare di tutto per non causarmi il minimo problema. Il mio compito è vigilare sulla sicurezza del Protettorato e non credo che lei costituisca una grave minaccia. Ma non intendo perderla di vista, non si sa mai. Dunque rimarrà qui per un po’ e cercherà di stare alla larga dai guai. Non lo prenda come un consiglio o un suggerimento: è un ordine in piena regola. Sarà una specie di detenzione un po’ particolare; non la chiuderò in cella e non la confinerò agli arresti domiciliari, perciò avrà una relativa libertà di movimento. Ma non è assolutamente autorizzata a lasciare la città senza il mio previo consenso. Chiaro?»

«Fino a quando?» domandai senza dargli la conferma che mi chiedeva. L’idea di rimanere da sola per un tempo indefinito in quella città sconosciuta mi

sembrava la peggiore delle prospettive. «Finché la situazione in Spagna si sarà calmata e vedremo come si metteranno le

cose. A quel punto deciderò cosa fare di lei; per ora non ho né tempo né modo di occuparmi delle sue faccende. Nell’immediato dovrà fare fronte a un unico problema: il debito con l’albergo di Tangeri.»

«Ma io non posso pagare quella somma...» chiarii, di nuovo sul punto di piangere. «Lo so: ho controllato da cima a fondo i suoi bagagli e, a parte i vestiti in disordine e

qualche documento, ho visto che non ha altro. Ma al momento lei è l’unica responsabile che abbiamo, e in questa storia è coinvolta tanto quanto Arribas. Quindi, siccome lui non si trova, ne dovrà rispondere lei. E in questo caso non credo proprio di poterla esimere, perché a Tangeri sanno che lei è qui da me, perfettamente localizzata.»

«Ma lui si è portato via i miei soldi...» insistetti con la voce rotta dal pianto. «So anche questo, e per favore la smetta di frignare una buona volta. Nella sua lettera Arribas ha chiarito ogni cosa: rivela apertamente che razza di

svergognato sia e la sua intenzione di lasciarla a piedi, senza un centesimo, portandosi via tutti i suoi beni. E con un bambino non desiderato che ha perso non appena ha messo piede a Tetuàn, quando è scesa dall’autobus.»

Il turbamento evidente sul mio volto, insieme con le lacrime, il dolore e la

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frustrazione, lo costrinsero a farmi una domanda. «Non ricorda? Ero lì ad aspettarla. Avevamo ricevuto una comunicazione dalla

gendarmeria di Tangeri che ci avvisava del suo arrivo. A quanto pare un sollecito fattorino dell’albergo ha riferito al direttore il suo precipitoso allontanamento; gli era sembrata piuttosto alterata e ha dato l’allarme. A quel punto hanno scoperto che aveva lasciato la camera con l’intenzione di non tornare. Siccome l’importo dovuto era piuttosto cospicuo, hanno avvisato la polizia, hanno trovato il tassista che l’aveva portata alla compagnia di autobus La Valenciana e hanno saputo che era diretta qui. In condizioni normali avrei mandato uno dei miei uomini a prenderla, ma viste le complicazioni degli ultimi tempi ho preferito occuparmene personalmente per evitare spiacevoli sorprese, così sono venuto io. Non appena scesa dall’autobus mi è svenuta tra le braccia; e l’ho portata qui.»

Nella mia memoria cominciarono a prendere forma alcuni ricordi imprecisi. Il calore asfissiante sull’autobus che tutti, in effetti, chiamavano La Valenciana. Le grida al suo interno, le gabbie con i polli vivi, il sudore e gli odori sprigionati dai corpi e dai pacchi che i passeggeri, arabi e spagnoli, avevano con sé. La sensazione di umidità vischiosa tra le cosce. La debolezza estrema al momento di scendere a Tetuàn, lo spavento nel sentire una sostanza calda che mi gocciolava lungo le gambe. La traccia scura e densa che lasciavo dietro di me e, non appena toccai l’asfalto della nuova città, una voce maschile proveniente da un volto seminascosto dalla falda di un cappello. «Sira Quiroga? Polizia, venga con me per favore.» Ero stata pervasa da una debolezza infinita, mi ero resa conto che la mia mente si annebbiava e le gambe avevano smesso di reggermi. Avevo perso conoscenza, ma in quel momento, settimane dopo, avevo nuovamente di fronte quel volto e non sapevo ancora se appartenesse a un carnefice o a un salvatore.

«Sorella Virtudes mi ha tenuto aggiornato sulle sue condizioni. Cerco di parlare con lei da giorni, ma finora mi avevano proibito di vederla. Mi hanno detto che ha un’anemia perniciosa e qualcos’altro. Tutto sommato, comunque, sembra che stia meglio, quindi oggi ho avuto il permesso di vederla e nei prossimi giorni la dimetteranno.»

«E dove andrò?» Ero angosciata e spaventata. Non mi sentivo in grado di affrontare da sola una realtà sconosciuta. Non avevo mai fatto nulla senza aiuto, c’era sempre stato qualcuno a guidare i miei passi: mia madre, Ignacio, Ramiro. Mi sentivo inutile, incapace di affrontare da sola la vita e i suoi colpi. Incapace di sopravvivere senza una mano forte che mi sostenesse, senza un’altra testa che decidesse per me.

Senza una presenza vicina su cui contare e da cui dipendere. «Mi sto occupando proprio di questo. Le sto cercando un posto, ma non creda che sia

facile, in un momento del genere. Comunque mi piacerebbe chiarire qualche particolare della sua storia che ancora mi sfugge.

Perciò, se se la sente, vorrei rivederla domani in modo che possa riassumermi tutto quello che è successo; magari può aggiungere qualche dettaglio che ci aiuti a risolvere i problemi in cui l’ha cacciata suo marito, o il suo fidanzato...»

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«O qualunque cosa sia quel figlio di buona donna» completai con una smorfia ironica, debole e amara.

«Eravate sposati?» chiese. Negai con la testa. «Meglio per lei» concluse bruscamente. Guardò l’orologio. «Bene, non voglio

stancarla oltre» disse alzandosi. «Direi che per oggi può bastare. Torno domani, non so a che ora; non appena riuscirò a trovare un momento, siamo presissimi.»

Lo guardai mentre si dirigeva verso l’uscita del padiglione, svelto, con il passo agile e deciso di chi non è abituato a perdere tempo. Prima o poi, quando mi fossi ripresa, avrei dovuto capire se quell’uomo credeva davvero nella mia innocenza o se desiderava semplicemente liberarsi del peso che con me gli era piombato addosso nel momento meno opportuno. Ma allora non riuscivo a pensarci: ero esausta e spaventata, e desideravo soltanto sprofondare nel sonno per dimenticare tutto.

Il commissario Vàzquez tornò la sera dopo, alle sette, forse alle otto, quando il calore era meno intenso e la luce meno abbagliante. Non appena lo vidi varcare la soglia, all’estremo opposto del padiglione, mi appoggiai sui gomiti e, con grande sforzo, mi tirai su. Quando arrivò accanto a me, si sedette sulla stessa sedia del giorno prima. Non lo salutai neanche. Mi limitai a schiarirmi la voce, pronta a raccontargli tutto quello che voleva sapere.

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CAPITOLO 6 Il secondo incontro con Claudio Vàzquez ebbe luogo un venerdì, alla fine di agosto.

Tornò a prendermi il lunedì successivo a metà mattinata: mi aveva trovato un posto dove stare e mi avrebbe accompagnato nel nuovo trasloco. In circostanze diverse un comportamento così cavalleresco si sarebbe potuto interpretare in un altro modo; ma in quel momento né lui né io avevamo il minimo dubbio sul suo zelo: era soltanto interesse professionale per una persona che conveniva tenere al sicuro per evitare ulteriori complicazioni.

Quando arrivò ero già vestita. Indossavo abiti che facevano a pugni e mi erano diventati grandi, avevo una crocchia approssimativa ed ero seduta sul bordo del letto rifatto. Con la valigia piena dei miseri resti del naufragio ai miei piedi e le dita ossute intrecciate in grembo, mi sforzavo invano di riunire le forze. Quando lo vidi arrivare, cercai di alzarmi: ma lui mi fece segno con un gesto di rimanere seduta. Si accomodò sul bordo del letto di fronte al mio e disse solo: «Aspetti, prima dobbiamo parlare».

Mi guardò per qualche secondo con quegli occhi scuri capaci di bucare le pareti. A quel punto avevo capito che non era né un giovane con i capelli bianchi né un vecchio dall’aria giovanile: era un uomo fra i quaranta e i cinquanta, educato nei modi ma navigato nel suo mestiere, di bella presenza, avvezzo a trattare con mascalzoni d’ogni sorta.

Un uomo, pensai, al quale dovevo cercare a ogni costo di non creare problemi. «Senta, di solito al mio commissariato non seguiamo questo iter; nel suo caso, viste le

circostanze, sto facendo un’eccezione, ma voglio che abbia ben chiara la situazione. Anche se personalmente credo che lei sia solo l’incauta vittima di una canaglia, la faccenda deve essere chiarita da un giudice, non certo da me. Nella confusione di questi giorni, però, temo che aspettare un processo sia impensabile. E non ci guadagneremmo niente a tenerla rinchiusa in una cella fino a chissà quando. Perciò, come le ho detto l’altro giorno, la lascerò in libertà, ma stia attenta perché sarà controllata e non sarà del tutto libera di muoversi. Per evitare tentazioni, non le restituirò il passaporto. Sarà libera, dunque, ma a una condizione: quando si sarà ristabilita completamente, si cercherà un modo decente di guadagnarsi da vivere e risparmierà per saldare il debito con il Continental. Ho chiesto a quelli dell’albergo di concederle un anno per pagare il conto e hanno accettato, perciò veda di svegliarsi e faccia il possibile per trovare quei soldi; li cerchi sotto le pietre, se occorre, ma in modo pulito e senza trucchi. Chiaro?»

«Sissignore» mormorai. «Non mi deluda; non tenti di prendermi in giro e non mi costringa a fare sul serio con

lei, perché se mi provoca metto in moto il meccanismo e la imbarco il prima possibile

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per la Spagna, dove in men che non si dica l’aspettano sette anni nel carcere femminile di Quinoles. Ha afferrato il concetto?»

Di fronte a quella minaccia funesta non riuscii a pronunciare una frase coerente; mi limitai ad annuire. A quel punto si alzò; feci lo stesso qualche secondo dopo. Lui si rimise in piedi in modo agile e fluido; io dovetti impormi uno sforzo immenso per seguire il suo movimento.

«Allora andiamo» concluse. «Lasci, la valigia gliela porto io; lei non è in grado neanche di sollevare la sua ombra. Ho la macchina qui fuori; saluti le suore, le ringrazi per il buon trattamento e andiamo via.»

Attraversammo Tetuàn a bordo della sua auto, e per la prima volta potei apprezzare un po’ quella città che sarebbe stata la mia per chissà quanto. L’Ospedale Civile era in periferia; a poco a poco entrammo nell’abitato. A mano a mano che ci avvicinavamo al centro, aumentava il numero di persone in movimento. Era quasi mezzogiorno e le strade erano affollate. Le automobili erano pochissime e il commissario doveva suonare di continuo il clacson per farsi largo tra la gente che si muoveva senza fretta in mille direzioni. C’erano uomini con abiti di lino chiaro e panama in testa, bambini con i calzoni corti che correvano e donne spagnole con il cesto della spesa colmo di verdure. C’erano musulmani con turbanti e gellabe a righe, e donne arabe con vesti ingombranti che lasciavano scoperti solo gli occhi e i piedi. C’erano soldati in uniforme e ragazze con abiti estivi a fiori, bambini del posto scalzi che giocavano in mezzo alle galline. Si udivano voci, frasi e parole in arabo e in spagnolo, frequenti saluti al commissario ogni volta che qualcuno riconosceva la sua macchina. Era difficile credere che in un’atmosfera del genere, solo poche settimane prima, fosse cominciata quella che aveva tutta l’aria di essere una guerra civile.

Lungo il tragitto non intavolammo conversazioni; non era certo una passeggiata di piacere, ma la scrupolosa esecuzione di un incarico che comportava il mio trasferimento da un luogo all’altro. A volte però il commissario, intuendo che qualcosa che era comparso davanti ai nostri occhi poteva apparirmi incomprensibile o insolito, lo indicava muovendo la mascella e, senza distogliere lo sguardo dalla strada, pronunciava qualche parola per nominarlo. «Le rifenas» ricordo che disse indicando un gruppo di donne marocchine avvolte in tessuti a righe e con grandi cappelli di paglia da cui pendevano nappe colorate. I dieci o quindici minuti scarsi del viaggio mi bastarono per assorbire le forme, scoprire gli odori e imparare i nomi di alcune presenze con cui avrei convissuto ogni giorno in quella nuova tappa della mia vita. L’Alto Commissariato, i fichi d’India, il palazzo del califfo, capo supremo del Protettorato spagnolo in Marocco, gli acquaioli in groppa agli asini, il quartiere arabo, il Dersa e il Gorgues, la menta, i bakaiitos, negozietti gestiti dagli arabi dove si vendeva di tutto.

Scendemmo dalla macchina in plaza de Espana: due bambini arabi si avvicinarono di corsa per prendere i miei bagagli e il commissario lasciò fare. Entrammo poi in calle de La Luneta, vicino al quartiere ebraico e alla medina. La Luneta, il mio primo indirizzo a Tetuàn: stretta, rumorosa, irregolare e vivace, affollata di gente, taverne, caffè e bazar

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chiassosi in cui si poteva comprare e vendere di tutto. Arrivammo a un portone, entrammo, salimmo una scala. Il commissario suonò un

campanello al primo piano. «Buongiorno, Candelaria. Ecco l’incarico che le avevo annunciato.» La donna robusta

vestita di rosso che aveva aperto la porta ci guardava, e il mio accompagnatore mi indicò con un breve cenno del capo.

«E questo che razza di incarico sarebbe, commissario?» replicò con le mani sui fianchi e una sonora risata. Subito dopo si fece da parte e ci lasciò passare. Aveva una casa luminosa, modesta ma pulitissima e arredata con un gusto un po’ dubbio. Sfoggiava con disinvoltura un comportamento naturale, dietro cui si intuiva la grande inquietudine suscitata dalla visita del poliziotto.

«Un incarico speciale che le assegno personalmente» chiarì lui lasciando la valigia nella piccola entrata, sotto un almanacco con l’immagine del Sacro Cuore. «Deve ospitare questa signorina per un po’, per il momento senza chiederle un soldo; aggiusterete i conti quando comincerà a guadagnarsi da vivere.»

«Ma ho la casa piena come un otre, santiddio! Mi arriva almeno mezza dozzina di cristiani al giorno, e non so più dove metterli!»

Mentiva, ovviamente. Il donnone bruno mentiva, e lui lo sapeva. «Non stia a raccontarmi i suoi guai, Candelaria; ho detto che deve sistemarla, in un

modo o nell’altro.» «E’ dall’alzamiento che arriva gente in continuazione a chiedermi ospitalità, commissario! Ho addirittura i materassi per terra!»

«La smetta con questa solfa; il transito sullo Stretto è interrotto da giorni e non lo attraversano neanche i gabbiani. Che le piaccia o no, dovrà fare quello che le chiedo; aggiunga anche questo al conto aperto che ha con me. E non deve darle solo alloggio: deve anche aiutarla. Non conosce nessuno a Tetuàn e ha sulle spalle una storia abbastanza brutta, quindi le trovi un buco dove può, perché viene a stare qui, chiaro?»

La donna rispose senza il minimo entusiasmo. «Come il sole, signore. Chiaro come il sole.» «Allora gliela affido. Se c’è qualche problema, sa dove trovarmi. Non mi fa per niente

piacere saperla qui: è già sulla cattiva strada e da lei non imparerà niente di buono, ma...»

La padrona di casa lo interruppe con un velo d’ironia nel tono apparentemente innocente.

«Adesso non mi venga a dire che sospetta di me, signor commissario...» Lui non si lasciò abbindolare dall’intonazione scherzosa dell’andalusa. «Io sospetto sempre di tutti, Candelaria, sono pagato per questo.» «Se mi crede tanto cattiva, perché la porta proprio da me, caro commissario?» «Gliel’ho già detto: visto come stanno le cose, non avevo altri posti dove sistemarla,

ma non creda che mi faccia piacere. Comunque, gliela affido; trovi il modo di farle guadagnare il pane: non penso che potrà tornare in Spagna per un bel po’ e ha bisogno di soldi per sistemare una faccenda. Magari riesce a farla assumere come commessa in un

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negozio, o come lavorante da una parrucchiera; faccia lei, basta che sia un posto come si deve. E per favore, la smetta di chiamarmi “caro commissario”, gliel’ho già detto mille volte.»

A quel punto la donna si soffermò per la prima volta su di me. Mi esaminò da cima a fondo, velocemente e senza troppa curiosità; come se si limitasse a valutare il volume della tegola che le era appena caduta in testa. Poi spostò lo sguardo sul mio accompagnatore e, mostrando un’ironica rassegnazione, accettò l’incarico.

«Stia tranquillo, commissario, ci pensa Candelaria. Vedrò dove posso metterla, ma non si preoccupi, sa bene che qui da me si sta come in paradiso.»

Le promesse celesti della proprietaria della pensione non convinsero del tutto il poliziotto, che volle tirare ancora un po’ la corda nel trattare i termini del mio soggiorno. Scandì le parole e alzò il dito indice all’altezza del naso, formulando un ultimo avvertimento che non lasciava spazio a risposte scherzose.

«Stia all’occhio, Candelaria, e faccia attenzione: la faccenda è molto complicata e non voglio problemi. Guai a lei se le salta in testa di coinvolgerla in uno dei suoi traffici. Non mi fido per niente di nessuna delle due, quindi vi terrò d’occhio. E se vengo a sapere di qualche movimento strano, vi porto entrambe al commissariato e da lì non uscite neanche se pregate in cinese, ci siamo capiti?»

Mormorammo entrambe un convinto «Sissignore». «Bene, allora è avvisata; adesso pensi a rimettersi e, appena può, cominci a lavorare.» Mi guardò negli occhi per salutarmi e per un attimo sembrò in dubbio se darmi la

mano o no. Alla fine decise di non farlo e chiuse l’incontro con una raccomandazione e un pronostico condensati in poche parole: «Abbia cura di sé, ne riparleremo». A quel punto uscì dalla stanza e trotterellò giù per le scale, mentre si aggiustava il cappello in testa.

Lo osservammo in silenzio dalla porta finché scomparve dalla nostra vista; stavamo quasi per rientrare in casa quando sentimmo i suoi passi a pianoterra e la sua voce che rimbombava nella tromba delle scale.

«Vi sbatto entrambe in galera e non ne uscite neanche se supplicate tutti i santi del paradiso!»

«Accidenti a te e ai tuoi morti, bastardo» fu la prima cosa che disse Candelaria dopo avere chiuso la porta, spingendola con il voluminoso fondoschiena. Poi mi guardò e sorrise di malavoglia, cercando di attenuare il mio turbamento. «Quel demonio mi fa diventare matta; non so come fa, ma non gliene scappa una e mi sta sempre con il fiato sul collo.»

Sospirò così profondamente che il suo petto imponente si gonfiò e si sgonfiò come se avesse due palloni strizzati nel vestito di percalle.

«Dài, tesoro, vieni, ti metto in una delle camere in fondo. Questo maledetto alzamiento ha mandato tutto all’aria, abbiamo le vie piene di rabbia e le caserme piene di sangue! Speriamo che il putiferio finisca presto e si possa tornare alla normalità! Ora esco, devo sbrigare alcune cosette; tu rimani qui, ti sistemi e quando torno, all’ora di

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pranzo, mi racconti tutto per bene.» Si mise a gridare in arabo per chiamare una ragazzina di neanche quindici anni, che

uscì dalla cucina asciugandosi le mani con uno strofinaccio. Entrambe si misero a spostare le cose e a cambiare le lenzuola nella stanzetta minuscola e priva di finestre che da quella notte sarebbe diventata la mia camera. E mi installai lì, senza avere la minima idea di quanto tempo ci sarei rimasta, né quale direzione avrebbe preso il mio futuro.

Candelaria Ballesteros, più nota a Tetuàn come Candelaria la contrabbandiera, aveva quarantasette anni e, a sentire lei, aveva ricevuto più colpi dei soldati dell’intera caserma del Protettorato.

Passava per vedova, ma neanche lei sapeva se il marito fosse davvero morto durante uno dei suoi numerosi viaggi in Spagna, o se la lettera ricevuta sette anni prima da Màlaga che annunciava il suo decesso per una polmonite fosse solo il trucco di uno svergognato che voleva levarsi di torno senza essere cercato da nessuno. La coppia si era trasferita nel Protettorato dopo la guerra del Rif, nel 1926, per sfuggire alla miseria dei lavoratori giornalieri negli uliveti andalusi. Da allora si erano dedicati entrambi ad affari di ogni genere, tutti nati sotto una cattiva stella e i cui magri guadagni lui aveva pensato bene di spendere in baldorie, bordelli e bicchieri di brandy Fundador. Non avevano avuto figli e quando il suo Francisco era svanito lasciandola sola e senza contatti in Spagna, Candelaria, per continuare a contrabbandare tutto quello che le passava per le mani, aveva deciso di affittare una casa e aprire una modesta pensione. Ma senza smettere di impegnarsi a comprare, vendere, ricomprare, rivendere, scambiare, contrattare e barattare tutto quello che le capitava sottomano. Monete, portasigarette, francobolli, stilografiche, calze, orologi, accendini: tutti oggetti di origine dubbia, tutti con destinazione incerta.

Nella sua casa in calle de La Luneta, fra la medina araba e la nuova zona spagnola, alloggiava senza distinzione chiunque suonasse alla sua porta chiedendo un letto, in genere gente priva di mezzi e aspirazioni.

Con loro e con chiunque le capitasse davanti cercava di trattare: ti vendo questo, ti compro quello, ti pago; mi devi tanto, ti devo tanto, paga tu. Ma con attenzione; faceva sempre molta attenzione, perché Candelaria la contrabbandiera, con i suoi modi da donna focosa, i loschi affari e la disinvoltura capace di far crollare anche l’uomo più determinato, non era per niente stupida, e sapeva che non poteva permettersi di fare sciocchezze con il commissario Vàzquez. Magari una battuta qua e là, senza calcare la mano e senza oltrepassare il confine del lecito, perché in caso contrario non si sarebbe limitato a requisirle tutto, ma, come diceva lei: «Se mi pesca con le mani nel sacco, mi porta in caserma e mi fa nera».

La dolce ragazza araba mi aiutò a sistemarmi. Tirammo fuori insieme le mie quattro cose e le appendemmo alle grucce in fil di ferro dentro una specie di armadio, poco più di una cassa di legno con un pezzo di stoffa a mo’ di tenda. Quel mobile, una lampadina nuda e un vecchio letto con il materasso di lana costituivano tutto l’arredamento della stanza. Un calendario vecchio con degli usignoli, omaggio del barbiere El Siglo, era

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l’unica nota di colore alle pareti imbiancate a calce che recavano i segni di un’infinità di perdite d’acqua. In un angolo, su un baule, erano ammucchiati vari oggetti ormai inutili: un cesto di vimini, un catino scheggiato, due o tre vasi da notte scrostati e un paio di gabbie di ferro arrugginite. La sistemazione era spartana, le comodità piuttosto scarse, ma la camera era pulita e la ragazza dagli occhi neri, mentre mi aiutava a mettere in ordine il groviglio di indumenti stropicciati che costituiva tutto il mio patrimonio, ripeteva con voce melodiosa: «Segnorina, tu non preoccupare; Jamila lava, Jamila stira roba di segnorina».

Ero ancora priva di forze e il piccolo sforzo compiuto per trasportare la valigia nella stanza e svuotarne il contenuto mi costrinse a cercare un sostegno per evitare che ricominciasse a girarmi la testa. Mi sedetti ai piedi del letto, chiusi gli occhi e li coprii con le mani, appoggiando i gomiti sulle ginocchia. In un paio di minuti recuperai l’equilibrio; tornai al presente e scoprii accanto a me la giovane Jamila che mi osservava preoccupata. Mi guardai intorno. La camera buia e squallida come una topaia, i miei vestiti stropicciati appesi alle grucce e la valigia svuotata per terra erano ancora lì. E nonostante l’incertezza delle prospettive, che si spalancava davanti a me come un abisso, pensai con un certo sollievo che, per quanto le cose potessero andare male, perlomeno avevo un buco in cui rifugiarmi.

Candelaria ritornò nel giro di un’ora. Poco prima e poco dopo di lei arrivò il ridotto gruppo di ospiti a cui la casa offriva vitto e alloggio. La clientela era composta da un rappresentante di forniture per parrucchieri, un funzionario delle Poste, un maestro in pensione, due sorelle ormai avanti con gli anni, secche come mummie, e una corpulenta vedova con un figlio che lei si ostinava a chiamare Paquito, malgrado il vocione e gli incipienti baffetti sfoggiati dal ragazzo.

Quando la padrona mi presentò, tutti mi salutarono con cortesia, poi si accomodarono in silenzio attorno al tavolo, ognuno al posto che occupava abitualmente: Candelaria a capotavola, gli altri ai due lati. Le donne e Paquito da una parte, gli uomini dall’altra.

«Tu ti siedi di fronte a me» mi ordinò la contrabbandiera. Poi cominciò a servire lo stufato parlando senza sosta della carne, che era molto

rincarata, e dei meloni, che quell’anno erano proprio buoni. Non rivolgeva i suoi commenti a nessuno in particolare, ma sembrava molto

impegnata a non smettere di chiacchierare, per quanto banali fossero gli argomenti e scarsa l’attenzione dei commensali. Senza dire una parola, tutti mangiavano portando aritmicamente le posate dai piatti alle bocche. Non si udiva altro suono all’infuori della voce della padrona, il rumore dei cucchiai che sbattevano contro la ceramica e le gole che inghiottivano il cibo. Ma un attimo di distrazione di Candelaria mi fece intuire la ragione delle sue chiacchiere incessanti: non appena chiamò Jamila in sala da pranzo e si aprì uno spiraglio nel suo sproloquio, una delle sorelle ne approfittò per iniziare una tirata, e allora capii perché la contrabbandiera cercasse di condurre con fermezza la conversazione.

«Dicono che Badajoz è caduta.» Neanche le parole della più giovane delle due mature

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sorelle sembravano rivolte a qualcuno in particolare; forse alla brocca dell’acqua, alla saliera, all’oliera o al quadro leggermente storto con l’immagine di un Cenacolo che dominava la parete. Il tono voleva essere indifferente, come se parlasse del tempo o del sapore dei piselli. Ma capii subito che il suo intervento era innocente come un coltello ben affilato.

«Che peccato; tanti bravi ragazzi sacrificati per difendere il governo legittimo della Repubblica; tante vite giovani e vigorose sprecate, e dire che qualcuno di quei giovanotti avrebbe potuto far felice una donna piacente come lei, Sagrario.»

Alla replica acida del rappresentante fece eco una risata degli altri maschi. Quando la signora Herminia si accorse che anche il suo

Paquito era divertito dall’intervento del venditore di lozioni per la crescita dei capelli, diede al figlio uno schiaffo che gli lasciò un segno rosso sulla guancia. Allora il vecchio maestro venne in aiuto del ragazzino e con voce giudiziosa, senza alzare la testa dal piatto, sentenziò: «Non ridere, Paquito, dicono che ridere fa diventare duri di comprendonio».

Fece appena in tempo a finire la frase che intervenne la madre della creatura. «L’esercito si è sollevato proprio per farla finita con le risate, l’allegria e il

libertinaggio che stavano portando la Spagna alla rovina...» A quel punto le ostilità erano aperte. I tre uomini da un lato e le tre donne dall’altro

alzarono le voci quasi contemporaneamente, in uno schiamazzo da pollaio dove nessuno ascoltava nessuno e tutti si sgolavano sputando improperi e atrocità. Rosso vizioso, vecchia baciapile, figlio di Lucifero, zitella acida, ateo, degenerato e decine di altri epiteti destinati a insultare il commensale di fronte volarono in un fuoco incrociato di urla colleriche. Solo io e Paquito restammo in silenzio; io perché ero nuova e non avevo notizie né opinioni sull’andamento del conflitto, e Paquito probabilmente per paura degli schiaffi della madre furibonda, che in quel preciso istante accusava il maestro di essere un massone disgustoso e un adoratore di Satana, con la bocca piena di patate masticate e un rivolo di unto che le scendeva lungo il mento. Intanto, all’altro capo del tavolo l’aspetto di Candelaria mutava a vista d’occhio: l’ira amplificava la sua mole da cavallona, e il volto, prima cordiale, cominciò a diventare paonazzo finché, incapace di trattenersi oltre, mollò un pugno sul tavolo così forte che il vino uscì dai bicchieri, i piatti sbatterono gli uni contro gli altri, e la salsa corse a fiumi sulla tovaglia. La sua voce tuonò fino a coprire le altre sei.

«Se sento ancora parlare di questa maledetta guerra in casa mia vi sbatto tutti in strada e vi butto le valigie giù dal balcone!»

I commensali riposero le armi malvolentieri scambiandosi sguardi assassini, e si rassegnarono a terminare la prima portata trattenendo a stento il furore. Di secondo c’erano i sugarelli, che furono consumati quasi in silenzio; l’anguria del dessert poteva rappresentare un pericolo per via del colore, ma la tensione non esplose. Il pranzo terminò senza altri incidenti; per riaverli bisognava solo aspettare la cena. Come aperitivo tornarono infatti l’ironia e le battute a doppio senso; poi i dardi avvelenati e lo

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scambio di bestemmie e segni della croce, e alla fine gli insulti senza ritegno e il lancio di croste di pane, mirando agli occhi degli avversari. E come chiusa, di nuovo le grida di Candelaria che minacciava l’imminente cacciata di tutti gli ospiti se si fossero ostinati a riprodurre a tavola le due fazioni nemiche. Scoprii allora che alla pensione quelle discussioni erano abituali durante i tre pasti quotidiani, un giorno sì e l’altro pure. Ma, anche se gli ospiti bellicosi continuarono ad affilare la lingua e la mira per avventarsi contro il lato nemico del tavolo, la padrona non cacciò mai nessuno. La contrabbandiera, in quel momento di traffici stentati, non poteva permettersi di perdere quello che ciascuno di quei poveri diavoli senza casa né mezzi pagava per il vitto, l’alloggio e il diritto a un bagno settimanale. Quindi, nonostante le minacce, furono rari i giorni in cui da un lato all’altro del tavolo non volarono infamie, noccioli di olive, proclami politici, bucce di banana e, nei momenti più caldi, qualche sputo e varie forchette. Sembrava una rappresentazione della vita ridotta alla scala di una battaglia domestica.

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CAPITOLO 7 Passarono così i primi tempi che trascorsi alla pensione della calle de La Luneta, fra

persone di cui arrivai a conoscere poco più dei nomi di battesimo e - molto superficialmente - le ragioni per cui alloggiavano lì. Il maestro e il funzionario, celibi e anziani, erano ospiti di lunga data; le sorelle erano arrivate a metà luglio da Soria per il funerale di un parente e si erano viste chiudere lo Stretto al traffico marittimo prima di poter tornare alla loro terra; qualcosa di simile era successo al rappresentante di forniture per parrucchieri, trattenuto suo malgrado nel Protettorato dall’alzamiento. Più oscuri erano i motivi della madre e del figlio, anche se tutti supponevano che fossero in cerca di un marito e di un padre un po’ sfuggente, che un bel giorno era uscito a comprare le sigarette in plaza de Zocodover, a Toledo, e aveva deciso di non tornare più a casa. Con quei conati di rissa quasi quotidiani, la guerra reale che avanzava spietata nel corso dell’estate e quell’accolita di individui senza un lavoro, iracondi e spaventati, che ne seguivano passo passo lo sviluppo, mi abituai alla casa e al suo mondo, e strinsi i rapporti con la padrona di quell’attività che, vista la natura della clientela, probabilmente dava una rendita piuttosto esigua.

In quei giorni uscii poco: non avevo un posto dove andare né persone da incontrare. Di solito rimanevo sola, o con Jamila, o con Candelaria quando c’era, cioè non tanto spesso. A volte, quando non era presa dalla fretta e dai suoi traffici, la contrabbandiera insisteva perché l’accompagnassi a cercare un lavoro insieme: «Ti si raggrinzirà la faccia se non vedi mai il sole» diceva. A volte non me la sentivo, mi mancavano ancora le forze, ma in altri casi accettavo, e allora mi trascinava qua e là, nell’inestricabile labirinto di stradine del quartiere arabo e nelle vie perpendicolari e moderne della nuova zona spagnola, con le sue belle case e la sua gente ben vestita. Chiedeva a tutti i negozianti che conosceva se potevano assumermi, o se sapevano di qualcuno che avesse un lavoro per la ragazza giudiziosa e disposta a lavorare giorno e notte che sarei dovuta essere io. Ma erano tempi duri, e anche se l’eco degli spari era lontana, tutti sembravano avviliti dall’andamento incerto del conflitto, preoccupati per i parenti nel loro paese, per questo e per quello, per l’avanzata delle truppe al fronte, per i vivi, per i morti e per quello che sarebbe successo. In quella situazione nessuno era interessato ad ampliare l’attività o ad assumere personale. E anche se le uscite terminavano immancabilmente con un bicchiere di tè arabo e un vassoio di stuzzichini in qualche caffè di plaza de Espana, ogni tentativo frustrato comportava per me un’altra palata di angoscia che andava ad aggiungersi a quella già accumulata, e per Candelaria, anche se non lo diceva, un nuovo morso di preoccupazione.

La mia salute migliorava seguendo il ritmo dei progressi interiori, a passo di lumaca.

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Ero ancora pelle e ossa, e il colore smorto del mio incarnato contrastava con i volti abbronzati dal sole estivo che mi circondavano. I miei sensi erano ancora intorpiditi e il mio animo affaticato; sentivo lo strazio dell’abbandono di Ramiro quasi come il primo giorno. Continuavo a rimpiangere il figlio della cui esistenza prenatale ero stata consapevole solo per qualche ora, e mi consumavo nella preoccupazione per il destino di mia madre a Madrid, nella capitale assediata. Ero sempre spaventata dalle denunce a mio carico e dagli avvertimenti del commissario, terrorizzata all’idea di non poter fare fronte al debito e dalla possibilità di finire in carcere. Il panico era ancora un compagno fedele, e le mie ferite bruciavano sempre con violenza.

Uno degli effetti dell’innamoramento folle e cieco è l’annullamento dei sensi, che ci rende incapaci di cogliere ciò che accade intorno a noi.

Estirpa alla radice la sensibilità, la facoltà di percepire tutto il resto. Costringe a concentrare l’attenzione su un unico essere e isola dall’universo, imprigiona dentro una corazza e mantiene ai margini delle altre realtà, anche quelle a due passi. Quando tutto andò in frantumi, mi resi conto che gli otto mesi passati insieme a Ramiro erano stati così intensi da impedirmi quasi del tutto di entrare in contatto con altre persone. E solo a quel punto realizzai fino in fondo quanto ero sola. A Tangeri non mi ero presa la briga di stringere rapporti con nessuno: non mi importava di altri all’infuori di Ramiro e mi interessava solo quello che aveva a che fare con lui. A Tetuàn però non c’era più, e insieme a lui se n’erano andati i miei punti di appoggio e di riferimento; dovetti imparare a vivere da sola, a pensare a me stessa e a lottare perché il peso della sua assenza diventasse a poco a poco meno desolante. Come diceva il dépliant delle Academias Pitman, il cammino della vita è lungo e scosceso.

Finì agosto e arrivò settembre, con i pomeriggi più corti e le mattinate più fresche. Le giornate trascorrevano lente nel viavai di calle de La Luneta. La gente entrava e usciva dai negozi, dai caffè, dai bazar, attraversava la strada, si fermava davanti alle vetrine e chiacchierava all’angolo con i conoscenti. Mentre osservavo dalla mia torre il cambiamento della luce e il viavai incessante, ero pienamente consapevole di aver bisogno anch’io, con urgenza sempre maggiore, di attivarmi, di iniziare un’attività produttiva per non dover più vivere della carità di Candelaria e mettere insieme i soldi per estinguere il mio debito. Ma non trovavo il modo e, per compensare la mia inattività e l’inesistente contributo all’economia della casa, mi sforzavo di collaborare il più possibile per alleggerire i lavori domestici e per non essere un peso improduttivo come un mobile messo da parte. Pelavo le patate, apparecchiavo la tavola e stendevo il bucato in terrazza.

Aiutavo Jamila a togliere la polvere e a lavare i vetri, imparavo da lei qualche parola araba e accoglievo i suoi eterni sorrisi come un dono prezioso. Annaffiavo le piante, sbattevo i tappeti e anticipavo le piccole incombenze che prima o poi sarebbero toccate a qualcuno. Quando il clima iniziò a cambiare, la pensione cominciò i preparativi per l’autunno e io diedi il mio contributo. Rifacemmo i letti in tutte le camere; cambiammo le lenzuola, mettemmo via i copriletto estivi e portammo giù dalle soffitte le coperte

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invernali. Vidi che buona parte della biancheria aveva bisogno di un ritocco urgente, quindi misi un gran cesto di panni accanto al balcone e mi sedetti a rammendare strappi, a rinforzare orli e a fermare frange.

E avvenne qualcosa che non mi sarei mai aspettata. Non avrei mai immaginato che la sensazione di riprendere in mano l’ago potesse essere così gratificante. Quei copriletto ruvidi e quelle lenzuola di tela grezza non avevano niente a che vedere con le sete e le mussole della sartoria della signora Manuela, e i rammendi di quei buchi distavano anni luce dalle impunture delicate cui mi ero dedicata in altri tempi per confezionare gli abiti delle grandi signore di Madrid. E neanche l’umile sala da pranzo di Candelaria somigliava all’atelier della signora Manuela, né la ragazzina araba e i bellicosi ospiti con il loro trambusto incessante corrispondevano alle figure delle mie ex colleghe di lavoro e delle clienti distinte. Ma il movimento del polso era lo stesso, e l’ago scorreva di nuovo svelto davanti agli occhi, le mie dita si impegnavano a cucire punti precisi come avevo fatto per anni, giorno dopo giorno, in un altro luogo e con altre finalità. La soddisfazione di tornare a cucire fu così piacevole che per un paio d’ore mi riportò a tempi più felici e riuscì ad alleviare per un po’ il peso di piombo delle mie miserie. Era come tornare a casa.

Scendeva la sera e non c’era quasi più luce quando Candelaria rientrò da una delle sue solite uscite. Mi trovò circondata da una pila di biancheria appena rammendata e con il penultimo asciugamano in grembo.

«Non mi dire che sai cucire, bambina.» La mia risposta al suo saluto fu, per la prima volta da molto tempo, un sorriso

affermativo, quasi trionfante. Allora la padrona, sollevata per aver finalmente trovato qualche utilità nella zavorra che stavo diventando per lei, mi portò in camera sua e cominciò a rovesciare sul letto l’intero contenuto dell’armadio.

«Devi allungare l’orlo di questo vestito e rivoltare il collo del cappotto. A questa camicia devi aggiustare le cuciture e tirare fuori due dita sui fianchi alla gonna, perché ultimamente ho messo su qualche chiletto e non riesco proprio a infilarmela.»

E avanti così con un mucchio di abiti vecchi che riuscivo a stento a tenere fra le braccia. Per eliminare i difetti del suo guardaroba consunto mi bastò una mattinata. Soddisfatta della mia efficienza e decisa a vagliare fino in fondo il mio potenziale produttivo, quel pomeriggio Candelaria arrivò a casa con un taglio di lana di Scozia per un giaccone.

«Lana inglese, della migliore qualità. La portavamo da Gibilterra prima che cominciasse questo putiferio, ma ora è difficilissimo trovarla. Te la senti?»

«Mi procuri un buon paio di forbici, due metri di fodera, mezza dozzina di bottoni di tartaruga e un rocchetto di filo marrone. Le prendo subito le misure e sarà pronto domani mattina.»

Con quei pochi strumenti e la tavola da pranzo come base operativa, all’ora di cena il capo era pronto per la prova. Prima di colazione era finito. Appena sveglia, con gli occhi ancora cisposi e i capelli raccolti in una retina, Candelaria indossò il giaccone sulla

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camicia da notte e osservò incredula l’effetto allo specchio. Le spalline si adattavano in modo impeccabile alla sua ossatura e i risvolti si aprivano sui lati perfettamente simmetrici, mascherando il seno esagerato. La vita era segnata da un’ampia cintura, il taglio perfetto dissimulava l’opulenza dei fianchi da cavallona. I risvolti ampi ed eleganti delle maniche davano il tocco finale all’opera. Il risultato non poteva essere più soddisfacente. La contrabbandiera si contemplò di fronte e di profilo, di spalle e di tre quarti. Una volta, un’altra; abbottonato, aperto, con il collo tirato su, con il collo abbassato. La sua solita parlantina sembrava attenuata dalla concentrazione per valutare bene il risultato. Di nuovo di fronte, di nuovo di lato. E alla fine il giudizio.

«Benedetta la madre che ti ha partorito. Ma perché non mi hai detto prima che hai questa mano, tesoro?»

Altre due gonne, due camicette, un camicione, un paio di tailleur, un cappotto e una vestaglia invernale trovarono posto nel suo armadio via via che lei si impegnava a trovare tagli di stoffa investendo il minimo possibile.

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«Seta cinese, tocca, tocca; in cambio l’indiano del bazar di sotto mi ha scucito due accendini americani, accidenti a lui. Meno male che me n’erano rimasti un paio dall’anno scorso, perché ora pretende solo moneta locale, quel disgraziato; dicono che ritireranno i soldi della Repubblica e li cambieranno con banconote nazionali; che follia, ragazza mia» diceva accalorata mentre apriva un involto e mi metteva davanti un paio di metri di tessuto rosso fuoco.

Una nuova uscita portò con sé mezzo rotolo di gabardine. «Roba buona, piccola, roba buona.» Il giorno dopo arrivò uno scampolo di raso cangiante, accompagnato dal racconto delle peripezie per ottenerlo e da epiteti poco eleganti rivolti alla madre dell’ebreo che glielo aveva ceduto. Uno scampolo di lanetta color caramello, un taglio di alpaca, un metro e mezzo di satin stampato, e così, tra scambi e baratti, arrivammo a una dozzina di tessuti che io tagliai e cucii e che lei si provò ed elogiò. Finché gli espedienti per ottenere la merce si esaurirono, o finché decise che il suo nuovo guardaroba era finalmente ben fornito, o finché pensò che fosse venuto il momento di passare a qualcos’altro.

«Con tutto quello che mi hai fatto, il tuo debito con me è saldato fino a oggi» annunciò. E senza neanche darmi il tempo di assaporare il sollievo, proseguì: «Ora dobbiamo parlare del futuro. Hai molto talento, bambina mia, e non può andare sprecato, adesso meno che mai, con il bisogno che hai di quattrini per uscire dal pasticcio in cui ti sei cacciata. Hai visto che trovare un lavoro è complicatissimo, quindi la cosa migliore che puoi fare è metterti a cucire per gli altri. Oggi come oggi, però, mi sembra difficile che la gente ti spalanchi le porte di casa. Dovrai avere un posto tuo, mettere su la tua sartoria, e comunque non sarà facile farsi una clientela. Dobbiamo pensarci bene».

Candelaria la contrabbandiera conosceva uno per uno tutti gli esseri viventi di Tetuàn, ma per informarsi sulle sartorie esistenti e affrontare la faccenda come si deve dovette uscire varie volte, interpellare i contatti che aveva qua e là e studiare la situazione a fondo e da vicino. Un paio di giorni dopo che le era venuta l’idea, avevamo già una mappa fedele al cento per cento del panorama. Venni a sapere che c’erano due o tre creatrici di moda prestigiose che lavoravano da tempo, frequentate in genere dalle mogli e dalle figlie degli alti gradi militari, di alcuni medici di fama e degli impresari che facevano buoni affari. Un gradino sotto c’erano quattro o cinque sarte decenti che cucivano gli abiti da indossare ogni giorno e i cappotti della domenica per le madri di famiglia del personale amministrativo di alto livello. E infine diverse sartine modeste che giravano per le case, tagliavano vestaglie di percalle e aggiustavano vestiti ereditati, facevano orli o rammendavano i buchi dei calzini. 11 quadro non sembrava incoraggiante: la concorrenza era notevole, ma in qualche modo dovevo ingegnarmi per aprirmi un varco. Secondo la mia padrona di casa, nessuna di quelle sarte professioniste era eccezionale, perlopiù erano figure domestiche e quasi familiari, ma non per questo andavano sottovalutate: se una sarta lavora bene, le clienti le rimangono fedeli fino alla morte.

L’idea di tornare attiva mi suscitò sentimenti contrastanti. Da un lato riuscì a suscitare

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un palpito di emozione che non sentivo da un’eternità. Poter guadagnare i soldi per mantenermi e saldare i debiti, dedicandomi a qualcosa che mi piaceva e in cui sapevo di essere brava, era la cosa migliore che potesse capitarmi in quel momento.

D’altro canto, a voler guardare il rovescio della medaglia, l’ombra dell’inquietudine e dell’incertezza si spandeva nel mio animo come una notte nera. Per aprire una mia attività, per quanto modesta, mi serviva un capitale iniziale che non possedevo, contatti che mi mancavano, e molta più fortuna di quella che la vita mi aveva riservato negli ultimi tempi. Farsi spazio per diventare una fra le tante sarte che c’erano già non sarebbe stato facile: per sottrarre le clienti fedeli alle altre avrei dovuto avere un’idea, uscire dall’ordinario, riuscire a offrire qualcosa di diverso.

Mentre io e Candelaria ci sforzavamo di trovare uno spazio in cui infilarmi, diverse sue amiche e conoscenti cominciarono a venire alla pensione per ordinarmi qualche lavoretto: bambina, fammi una camicetta, per favore; i cappotti per i miei figli prima che cominci a fare freddo.

In genere erano donne modeste, come le loro possibilità economiche. Arrivavano con molti bambini e piccoli scampoli di stoffa, e si sedevano a parlare con

Candelaria mentre io cucivo. Sospiravano per la guerra, piangevano la sorte dei parenti in Spagna, asciugandosi le lacrime con la punta di un fazzoletto che tenevano appallottolato nella manica. Si lamentavano della carestia di quei tempi e si chiedevano angosciate come avrebbero fatto a mantenere i figli se il conflitto fosse continuato o se un proiettile nemico avesse ucciso i loro mariti. Pagavano poco e tardi, a volte mai, facevano quello che potevano. Ma, nonostante le ristrettezze delle clienti e l’umiltà degli ordini, il semplice fatto di essere tornata a cucire aveva attenuato la mia desolazione, aprendo uno spiraglio da cui cominciava a filtrare un debole raggio di luce.

Alla fine del mese cominciò a piovere, una sera, quella dopo, quella successiva. Per tre giorni il sole non si fece vedere; ci furono tuoni, lampi, un vento pazzesco e le foglie degli alberi sulla terra bagnata.

Continuavo a lavorare agli abiti che mi ordinavano le vicine di casa; vestiti privi di grazia e di classe, confezionati con stoffe grossolane destinate a proteggere dalle intemperie, con scarsa attenzione all’estetica. Finché, tra una giacca per il nipote di una vicina e una gonna a pieghe ordinata dalla figlia della portinaia, Candelaria arrivò in preda a uno dei suoi slanci.

«Ce l’ho fatta, bambina, finalmente ci siamo, è tutto sistemato!» Era rientrata con il suo giaccone nuovo di lana di Scozia stretto in vita, un foulard in

testa e le vecchie scarpe con i tacchi storti tutte infangate. Si spogliò mentre mi riversava addosso un fiume di parole, raccontandomi i particolari della grande scoperta che aveva fatto. Il suo busto possente saliva e scendeva in modo ritmico, mentre mi esponeva affannata le notizie e si spogliava degli strati di abiti come una cipolla.

«Sono stata dalla parrucchiera dove lavora la mia amica Remedios perché dovevo sistemare delle faccende con lei, e mentre la Reme faceva la permanente a una gallica...»

«Una cosa?»

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«Una gallica, una francese, una di quelle tutte smancerie» chiarì in fretta prima di proseguire. «In realtà mi era sembrata una gallica, poi ho scoperto che non era francese ma tedesca. Non la conoscevo, mentre le altre, le mogli del console, di Gumpert, Bernhardt e Langenheim, che in realtà non è tedesca ma italiana, le conosco che mi basta e mi avanza; abbiamo fatto qualche affaruccio. Be’, è successo che mentre pettinava quella lì, la Reme mi ha chiesto dove avevo comprato il giaccone stupendo che indossavo. Io, naturalmente, ho detto che me lo ha fatto un’amica, allora la gallica, che poi si è scoperto che non era francese ma tedesca, mi ha guardato e riguardato e si è intromessa nella conversazione, con quel suo accento che ogni volta che dice qualcosa sembra che voglia darti un morso; quella gran villana mi ha detto che aveva bisogno di qualcuno che le cucisse i vestiti, ma che li sapesse cucire bene, chissà se lei conosce una casa di moda di qualità, buona per davvero però, perché era appena arrivata a Tetuàn, ci sarebbe rimasta per un po’ e aveva bisogno di qualcuno. E io le ho detto...»

«Di venire qui a farsi cucire le cose da me» l’anticipai. «Ma che dici, ragazza mia, sei matta? Non posso mica far venire qui una smorfiosa

del genere; quelle come lei si mischiano solo con le generalesse e le colonnelle, e sono abituate a ben altre cose e altri posti, non hai idea della classe di quella tedesca e non immagini quanta grana deve avere.»

«E allora?» «Non so cosa mi è saltato in mente, ma le ho detto che ho saputo della prossima

apertura di una casa d’alta moda.» Deglutii con forza. «E dovrei aprirla io?» «Certo, tesoro, chi altro?» Cercai di deglutire di nuovo, ma non ci riuscii. All’improvviso mi sembrava di avere

la gola piena di sabbia. «E come faccio ad aprire una casa d’alta moda, Candelaria?» chiesi spaventata. La sua prima risposta fu una risata. La seconda, poche parole pronunciate con tale

sicurezza da non lasciare adito a dubbi. «Con me, piccola, con me.» Durante la cena sentivo i nervi che mi ballavano nella pancia. Prima di mangiare la

padrona di casa non ebbe il tempo di dirmi altro, perché dopo l’annuncio entrarono in sala da pranzo le sorelle esultanti per la liberazione dell’Alcazar di Toledo. Poco dopo si aggiunsero gli altri ospiti: una fazione trasudava soddisfazione, l’altra rimuginava il proprio dispiacere. Jamila cominciò ad apparecchiare e a Candelaria non restò che dirigersi in cucina per organizzare la cena: cavolfiore in padella e frittate di un solo uovo; tutto economico, tutto morbido, caso mai fosse venuto in mente agli ospiti di replicare gli avvenimenti del giorno al fronte scagliandosi furiosamente in testa le ossa delle braciole.

La cena condita di ostilità finì e gli ospiti di entrambe le fazioni se ne andarono alla chetichella dalla sala da pranzo. Le donne e quel capodoglio di Paquito verso la camera

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delle sorelle per sentire l’arringa notturna del generale Queipo de Llano a Radio Sevilla. Gli uomini verso l’Unión Mercantil per bere l’ultimo caffè della giornata e parlare degli sviluppi del conflitto con gli avventori. Jamila sparecchiava e io intendevo aiutarla a lavare i piatti nel lavandino quando Candelaria, con un’espressione imperiosa dipinta sul volto scuro, mi indicò il corridoio.

«Aspettami in camera tua, arrivo subito.» Mi raggiunse dopo un paio di minuti; sufficienti per infilarsi la camicia da notte e la

vestaglia, verificare dal balcone che i tre uomini fossero già lontani, ormai all’altezza di Callejón de Intendencia, e assicurarsi che le donne fossero abbastanza distratte dalla folle logorrea radiofonica del generale insorto. «Buonasera, signori! In alto i cuori!» Io l’aspettavo sul bordo del letto, con la luce spenta, inquieta, nervosa. Sentirla arrivare fu un sollievo.

«Io e te dobbiamo parlare, bambina mia. Dobbiamo fare un discorso serio» disse sottovoce, sedendosi di fianco a me. «Dimmi un po’, sei pronta ad aprire un atelier? Sei pronta a diventare la migliore sarta di Tetuàn, a cucire stoffe che qui nessuno ha mai cucito?»

«Certo che sono pronta, Candelaria, ma...» «Niente ma. Ora ascolta bene e non interrompermi. Dopo l’incontro con la tedesca

dalla parrucchiera in cui lavora la mia amica, mi sono informata in giro e a quanto pare a Tetuàn abbiamo gente che prima non c’era. Come è successo a te, a quelle scorbutiche delle sorelle, a Paquito e alla cicciona di sua madre, e a Matias delle lozioni per i capelli: con la faccenda dell’alzamiento siete rimasti tutti qui, intrappolati come topi, senza poter attraversare lo Stretto per tornarvene a casa. Bene, ci sono altre persone a cui è successa più o meno la stessa cosa, e non parlo di un branco di morti di fame come quello toccato a me, ma di gente piena di soldi, gente che prima non c’era e adesso è qui, capisci cosa intendo, bambina mia? Un’attrice famosa che è arrivata con la sua compagnia e si è dovuta fermare. Un bel gruppetto di straniere, soprattutto tedesche. Si dice in giro che i mariti sono stati coinvolti nell’aiutare l’esercito a portare le truppe di Franco sulla penisola. E come loro ce ne sono altre: non molte a dire il vero, ma abbastanza per darti lavoro per un bel po’, se riesci a fartele come clienti. Non sono del posto, dunque non hanno una sarta di fiducia. E per di più, ed è la cosa più importante, hanno soldi da spendere, ed essendo straniere se ne fregano della guerra, cioè hanno voglia di divertirsi e non passeranno certo il tempo che manca alla fine di questo putiferio vestite di stracci a tormentarsi su chi vincerà la prossima battaglia; mi segui, tesoro?»

«La seguo, Candelaria, certo che la seguo, ma...» «Ssst! Ho detto che non voglio sentirti fiatare finché non avrò finito! Allora: quello

che ti serve, adesso, subito, subitissimo, domani stesso, è un locale di lusso in cui poter offrire alla tua clientela il meglio del meglio. Ti giuro sulla tomba di mia madre che in tutta la vita non ho mai conosciuto una che cuce bene come te, quindi dobbiamo attivarci immediatamente. E certo, so che non hai il becco di un quattrino, ma a questo ci pensa Candelaria.»

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«Ma neanche lei ha un centesimo; si lamenta tutto il giorno che i soldi non le bastano neanche per darci da mangiare.»

«Sono alla fame, certo; ultimamente trovare la roba è diventato difficilissimo. Alle frontiere ci sono soldati armati fino ai denti, e non c’è modo di oltrepassarle per andare a Tangeri in cerca di mercanzia, a meno di avere cinquantamila lasciapassare che a me nessuno concederà mai. Raggiungere Gibilterra poi è ancora più complicato, con il traffico nello Stretto interrotto e gli aerei militari che volano bassi, pronti a bombardare tutto quello che si muove. Ma ho qualcosa con cui possiamo ottenere i soldi che ci servono per aprire l’attività; qualcosa che, per la prima volta in tutta la mia vita disgraziata, mi è capitato in mano senza dovermelo andare a cercare, senza neanche uscire di casa. Vieni, ti faccio vedere.»

A quel punto si diresse verso l’angolo della stanza in cui si ammucchiavano gli oggetti inutili.

«Prima fa’ un giretto in corridoio per sentire se le sorelle hanno ancora la radio accesa» mi ordinò sussurrando.

Quando tornai e le diedi la conferma, aveva già spostato le gabbie, il cesto, i vasi da notte e i catini. Era rimasto solo il baule.

«Chiudi bene la porta, metti il chiavistello, accendi la luce e avvicinati» intimò imperiosamente senza alzare la voce più del necessario.

La lampadina nuda del soffitto illuminò all’improvviso la stanza di una luce fioca. Raggiunsi Candelaria mentre finiva di sollevare il coperchio. In fondo al baule c’era solo un pezzo di coperta stropicciato e sudicio. Lo alzò con attenzione, quasi con reverenza.

«Guarda bene dentro.» Quello che vidi mi lasciò senza parole; quasi senza fiato, senza vita. Un mucchio di pistole scure, dieci, dodici, forse quindici o venti, erano sparse sulla

base di legno, ogni canna puntata in una direzione diversa, come un plotone di assassini addormentati.

«Le hai viste?» bisbigliò. «Allora chiudo. Dammi le cose, così ce le metto sopra, e spegni di nuovo la luce.»

La voce di Candelaria, ancora bassa, era quella di sempre; la mia non so, perché l’impatto di quello che avevo visto mi impedì di esprimermi per un bel po’.

Tornammo sul letto e lei mormorò: «Qualcuno potrà anche pensare che questa storia dell’alzamiento è stata una sorpresa, ma è una sporca bugia. Chi più chi meno, tutti sapevamo che in pentola bolliva qualcosa di grosso. La faccenda si preparava da un pezzo, e non solo nelle caserme e nel Llano Amarillo, dove gli insorti hanno pronunciato il giuramento. Dicono che anche nel Casino Espanol c’era un intero arsenale nascosto dietro il banco, vai a sapere se è vero. Nelle prime settimane di luglio ho ospitato in questa camera un agente doganale in attesa di destinazione, o perlomeno era quel che diceva di essere. La cosa mi puzzava, a dirla tutta, perché secondo me quello lì non era né un agente doganale né niente di simile, ma siccome non faccio mai domande a nessuno perché non mi piace che qualcuno ficchi il naso nei miei affari, gli ho preparato

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la camera, gli ho messo in tavola un piatto caldo, arrivederci e grazie. Dal 18 luglio non l’ho più visto. Forse si è unito all’alzamiento, o magari se l’è data a gambe attraverso i villaggi di beduini verso la zona francese, o l’hanno portato sul monte Hacho, sopra Ceuta, per fucilarlo all’alba: non ho la minima idea di dove sia finito e non ho voluto indagare. Fatto sta che quattro o cinque giorni dopo hanno mandato un tenentino a prendere le sue cose. Gli ho consegnato senza fare domande il poco che c’era nell’armadio del doganiere, gli ho detto Dio la benedica e ho considerato chiusa la faccenda. Ma poi Jamila è entrata a pulire la stanza per l’ospite successivo, e mentre spazzava sotto il letto l’ho sentita cacciare un urlo improvviso, come se avesse visto il diavolo in persona con in mano il forcone, o quello che ha il demonio dei musulmani, vai a sapere cos’è. Fatto sta che lì nell’angolo, in fondo, aveva dato un colpo di scopa a un mucchio di pistole».

«E lei le ha scoperte e se le è tenute?» chiesi con un filo di voce. «E cosa dovevo fare? Non potevo mica andare a cercare il battaglione del tenente, con

quello che sta capitando.» «Poteva darle al commissario.» «A Vàzquez? Tu sei tutta matta, ragazza mia!» In quel caso fui io a chiedere silenzio e discrezione con un sonoro «Ssst». «Potevo darle al commissario, secondo te? Hai presente come mi tiene d’occhio? Mi

avrebbe sbattuta in cella e gettato via la chiave. Me le sono tenute, visto che erano in casa mia, e poi l’agente doganale si è volatilizzato senza pagare l’affitto di quindici giorni, quindi le armi sono una specie di risarcimento in natura. In realtà valgono una fortuna, bambina, e ora più che mai, con i tempi che corrono, perciò le pistole sono mie e posso farne quello che mi pare.»

«Pensa di venderle? Può essere molto pericoloso.» «Certo che è pericoloso, ma ci servono i quattrini per aprire la tua attività.» «Non mi dica che ha intenzione di ficcarsi in questo pasticcio solo per me...» «No, figlia mia, certo che no» mi interruppe. «Vediamo se mi spiego. Nei pasticci non

mi ci ficco da sola: ci imbarchiamo in questa storia tutte e due. Io mi preoccupo di cercare qualcuno che compri la merce, e con quello che ne ricavo apriamo la tua sartoria e facciamo a metà.»

«E perché non le vende solo per lei e vive di quello che ottiene senza aprire il mio atelier?»

«Perché è come dire pane oggi e fame domani, e a me interessa qualcosa che renda sul lungo periodo. Se vendo la merce e in due o tre mesi metto in pentola quello che ne ricavo, di cosa vivrò se la guerra si prolunga?»

«E se la beccano mentre cerca di piazzare le pistole?» «Dico al commissario che siamo coinvolte tutte e due e ce ne andiamo per mano dove

dobbiamo andare.» «In carcere?» «O al cimitero civile, dipende da dove ci manda quel disgraziato.»

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Anche se aveva annunciato l’ultima funesta previsione con un ghigno scherzoso, sentivo crescere il panico ogni secondo che passava. Il ricordo dello sguardo d’acciaio del commissario Vàzquez e dei suoi avvertimenti era ancora fresco. Si tenga fuori da qualsiasi faccenda sporca, non faccia scherzi, si comporti come si deve. Le parole uscite dalla sua bocca avevano stilato un elenco di eventualità indesiderabili. Commissariato, carcere femminile. Furto, truffa, debito, denuncia, tribunale. E ora, come se non bastasse, traffico di armi.

«Non si cacci in questo guaio, Candelaria, è molto pericoloso» la pregai, morta di paura.

«E allora che facciamo?» si affrettò a chiedere in un sussurro. «Viviamo d’aria? Ci mangiamo le nostre caccole? Tu sei arrivata qui senza il becco di un quattrino e io non so più dove andare a prendere i soldi.

Degli altri ospiti, solo la madre, il maestro e il telegrafista mi pagano, e chissà fino a quando riusciranno a far durare il poco che hanno. Tu e gli altri tre disgraziati siete rimasti al verde, ma non posso mica gettarvi in strada; loro per carità, te perché ci manca solo che il commissario venga a chiedermi spiegazioni. Perciò, dimmi cosa dovrei fare, secondo te.»

«Posso continuare a cucire per le donne per cui lavoro adesso; lavorerò di più, rimarrò sveglia di notte, se serve. Divideremo in due il mio guadagno...»

«E quanto sarebbe? Quanto credi di poter tirare su cucendo gli stracci delle vicine di casa? Quattro soldi in croce? Hai dimenticato quanto devi all’albergo di Tangeri? Pensi di rimanere in questa stanzetta per il resto dei tuoi giorni?» Le parole le uscivano di bocca a cascata, accompagnate da un sibilo di disapprovazione. «Ascoltami bene, piccola, le tue mani sono un tesoro che farebbe gola a chiunque, e commetti un peccato mortale se non le sfrutti come Dio comanda. So che dalla vita hai preso tante batoste, il tuo fidanzato si è comportato malissimo con te, ora sei in una città dove non vuoi rimanere, lontano dalla tua terra e dalla tua famiglia, ma questo è quello che c’è, il passato è passato e non si può tornare indietro. Devi andare avanti, Sira. Devi farti coraggio, rischiare e lottare per te stessa. Con la sfortuna che ti porti addosso non arriverà di certo un damerino a bussare alla tua porta per offrirti un appartamento, e poi, dopo l’esperienza che hai avuto, non credo che vorrai dipendere di nuovo da un uomo per un bel po’ di tempo. Sei molto giovane e alla tua età puoi ancora aspirare a rifarti una vita; questi sono i tuoi anni migliori e puoi puntare a qualcosa di più che restare qui a marcire facendo orli e sospirando per quello che hai perso.»

«Ma le pistole, Candelaria, questa cosa di vendere le pistole...» mormorai impaurita. «E’ quello che c’è, piccola; abbiamo solo le pistole e ti giuro sulla tomba dei miei

genitori che cercherò di ricavarne più che posso. Credi che non preferirei avere per le mani qualcosa di più innocente? Che invece delle armi mi avessero lasciato un assortimento di orologi svizzeri o di calze velate? Certo che sì. Però abbiamo solo queste, siamo in guerra e c’è gente interessata a comprarle.»

«Ma se la prendono?» chiesi di nuovo incerta.

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«Ancora con questa solfa! Be’, se mi beccano, preghiamo il Cristo di Medinaceli che il commissario Vàzquez sia clemente, ci facciamo un po’ di galera, pace e amen. Comunque, ti ricordo che hai meno di dieci mesi per pagare il tuo debito, e di questo passo, cucendo per le vicine di casa, non riuscirai a saldarlo neanche in vent’anni. So che preferiresti essere onesta, ma se non vuoi sentire ragioni il carcere non te lo leva neanche Custodio, che in Andalusia ha guarito tanta gente ed è diventato “santo” prima di morire. E se non ti sbattono in galera, finirai per aprire le gambe in un bordello puzzolente e far sfogare i soldati malandati di ritorno dal fronte, che è un’alternativa da tenere presente, nella tua situazione.»

«Non lo so, Candelaria, non lo so. Mi fa molta paura...» «Anch’io me la faccio sotto, non sono mica di gesso. Arrangiarmi con i miei traffici

non è come cercare di piazzare una ventina di pistole nel bel mezzo di una guerra. Ma non abbiamo alternative, bambina.»

«E come pensa di fare?» «Di questo non devi preoccuparti, sentirò i miei contatti. Dovrei riuscire a piazzare la mercanzia nel giro di qualche giorno. A quel punto cerchiamo un locale nella zona migliore di Tetuàn, lo sistemiamo e

inizi.» «Come sarebbe inizi? E lei? Non starà con me all’atelier?» Rise in silenzio e scosse la testa. «No, figlia mia, no. Io penserò a trovarti i soldi per pagare i primi mesi di affitto e

comprare quello che ti serve. Dopo, quando sarà tutto pronto, tu comincerai a lavorare e io rimarrò qui, a casa mia, ad aspettare la fine del mese per dividere i guadagni. E poi, non è bene se ti associano a me: sono una donna qualunque e non appartengo alla classe delle signore che ci servono come clienti. Quindi, io ci metto i soldi per cominciare e tu le mani. Poi facciamo a metà. Si chiama investimento.»

Tutt’a un tratto un vago sentore di Academias Pitman e di progetti simili a quelli di Ramiro invase la stanza buia e fu sul punto di riportarmi a una tappa della mia vita passata che non avevo la minima intenzione di rivivere. Scacciai la sensazione con una manata invisibile e tornai alla realtà per chiedere ulteriori chiarimenti.

«E se non guadagno? Se non riesco a farmi una clientela?» «Vorrà dire che abbiamo pisciato fuori dal pitale. Ma non fare la guastafeste, fifona

che non sei altro. Non bisogna pensare male: dobbiamo essere positive e rimboccarci le maniche. Nessuno verrà a risolverci la vita, a quelle come noi non capita; con tutte le disgrazie che abbiamo passato, o ci mettiamo a combattere o non ci resterà altra alternativa per scacciare la fame che prendere a morsi le sedie.»

«Ma io ho promesso al commissario di non andare in cerca di guai.» Candelaria dovette fare uno sforzo per non sbellicarsi dalle risate. «Anche Francisco ha promesso davanti al prete del mio paese che mi avrebbe

rispettato fino alla fine dei miei giorni, invece quel figlio di buona donna mi batteva come un tappeto, disgraziato maledetto. E’ incredibile quanto sei ancora ingenua,

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ragazzina, con gli schiaffi che hai preso dalla vita ultimamente. Pensa a te, Sira, pensa a te stessa e dimentica il resto; nei tempi orribili che ci tocca vivere, chi non mangia viene mangiato. E poi, non è così grave: noi non spariamo a nessuno, ci limitiamo a rimettere in circolazione merce che non ci serve, e se questo è il volere di Dio, chi siamo noi per metterlo in discussione? Se tutto va come deve andare, il commissario si ritroverà il tuo atelier avviato, nuovo di zecca, e se un giorno ti chiede dove hai preso i soldi gli dici che te li ho prestati io, che erano i miei risparmi, e se non se la beve o non gli piace l’idea, gli dici che doveva lasciarti sul groppone delle Sorelle della Carità all’ospedale, invece di portarti a casa mia e affidarti a me. Lui è sempre pieno di problemi fino al collo e non vuole complicazioni, perciò, se facciamo in modo che venga a sapere tutto a cose fatte, senza dare troppo nell’occhio, non si prenderà certo la briga d’indagare; te lo dico io che lo conosco bene, perché da anni ci studiamo a vicenda, almeno su questo puoi stare tranquilla.»

Sapevo che Candelaria, con la sua disinvoltura e la sua personale filosofia di vita, aveva ragione. Per quanto stessimo a ricamarci sopra, per quanto lo rigirassimo da ogni parte, su, giù, dritto e rovescio, in fin dei conti quel triste piano era una soluzione sensata per rimediare alla miseria di due donne povere, sole e prive di mezzi, che si trascinavano dietro un passato nero come la pece in tempi difficili. La rettitudine e l’onestà erano belle parole, ma non davano da mangiare, non pagavano i debiti e non proteggevano dal freddo nelle notti d’inverno. I princìpi etici e l’integrità morale potevano andare bene per persone di un altro tipo, non per due poverette distrutte come eravamo noi in quei giorni. Ero senza parole, e Candelaria dovette pensare che chi tace acconsente.

«Allora che ne dici? Domani comincio a mettere in giro la merce?» Mi sentii come se camminassi alla cieca sull’orlo di un precipizio. Le onde radio

disturbate continuavano a trasmettere in lontananza lo sproloquio infervorato di Queipo da Siviglia. Feci un sospiro profondo. E alla fine parlai a bassa voce, in tono fermo. O quasi.

«Cominci.» La mia futura socia, soddisfatta, mi diede un pizzicotto affettuoso sulla guancia,

sorrise e fece per andarsene. Si aggiustò la vestaglia e si alzò in tutta la sua abbondanza sulle ciabatte di panno sgangherate, che probabilmente l’accompagnavano da tempo nella sua esistenza di funambola in equilibrio per sopravvivere: Candelaria la contrabbandiera, opportunista, attaccabrighe, svergognata e affettuosa, era già sulla porta diretta in corridoio quando, sempre sottovoce, le rivolsi un’ultima domanda. In realtà c’entrava poco con l’argomento di cui avevamo parlato quella sera, ma in qualche modo ero curiosa di sapere la risposta.

«Candelaria, lei da che parte sta in questa guerra?» Si voltò sorpresa, ma non esitò un istante a rispondere con un potente sussurro. «Io? Fedele fino alla morte a chi la vincerà, tesoro.»

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CAPITOLO 8 I giorni che seguirono la sera delle pistole furono terribili. Candelaria entrava, usciva e si muoveva in continuazione come una serpe rumorosa e

corpulenta. Passava senza dire una parola dalla sua camera alla mia, dalla sala da pranzo alla strada, dalla strada alla cucina, sempre di fretta, concentrata, mormorando una confusa litania di grugniti e fusa che nessuno era in grado di decifrare. Non interferii nel suo andirivieni e non le chiesi come procedessero le trattative: sapevo che, quando fosse stato tutto combinato, si sarebbe preoccupata di mettermi al corrente.

Dopo circa una settimana, finalmente ebbe un annuncio da farmi. Quel giorno tornò a casa alle nove passate, quando eravamo già tutti seduti di fronte ai piatti vuoti ad aspettare il suo rientro. La cena, al solito, fu agitata e combattiva. Finito di mangiare, mentre gli ospiti si sparpagliavano nella pensione per dedicarsi alle ultime occupazioni della giornata, cominciammo a sparecchiare insieme. E mentre portavamo via le posate, i piatti sporchi e i tovaglioli, lei, con il contagocce, mi illustrò sussurrando la fase finale del suo piano: «Stanotte finalmente si risolve la faccenda, piccola; la merce è piazzata; domani mattina cominciamo a metterci in moto per le tue cose; non vedo l’ora che finisca questa maledetta storia, tesoro mio».

Quando tutto fu in ordine, ci chiudemmo ognuna in camera sua, senza scambiarci altre parole. Il resto della truppa, intanto, terminava la giornata con la solita routine serale: gargarismi all’eucalipto e radio, bigodini di fronte allo specchio e uscite per raggiungere il caffè. Cercai di comportarmi normalmente, lanciai un buonanotte e me ne andai a letto. Rimasi sveglia a lungo, finché i rumori a poco a poco si acquietarono. L’ultima cosa che sentii fu Candelaria che usciva dalla sua camera e chiudeva, senza quasi far rumore, la porta di casa.

Mi addormentai pochi minuti dopo che se n’era andata. Per la prima volta in tanti giorni non mi rigirai all’infinito nel letto e non mi si infilarono sotto le coperte gli oscuri presagi delle notti precedenti: carcere, commissario, arresti, morti. Sembrava che finalmente il nervosismo avesse deciso di concedermi una tregua, sapendo che quel sinistro commercio stava per concludersi. Sprofondai nel sonno rannicchiata con il dolce presentimento che, la mattina successiva, avremmo cominciato a pianificare il futuro senza l’ombra nera delle pistole che incombeva sulle nostre teste.

Ma il riposo durò poco. Non avevo idea di che ora fosse, le due, forse le tre, quando una mano mi afferrò per una spalla scuotendomi energicamente.

«Svegliati, bambina, svegliati.» Mi sollevai un po’, disorientata, ancora mezzo addormentata. «Che succede, Candelaria? Cosa ci fa qui? E’ già tornata?» chiesi a raffica.

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«Un disastro, figlia mia, un disastro su tutta la linea» sussurrò la contrabbandiera. Era in piedi accanto al mio letto e, annebbiata dal sonno com’ero, la sua figura

voluminosa mi sembrò più imponente che mai. Indossava un cappotto che non conoscevo, largo e lungo, chiuso fino al collo.

Cominciò a sbottonarlo in fretta e furia mentre mi dava spiegazioni confuse. «L’esercito controlla tutte le entrate a Tetuàn via terra, e gli uomini che dovevano

venire da Larache a prendere la merce non hanno osato arrivare fin qui. Ho aspettato quasi fino alle tre del mattino senza vedere nessuno, e poi hanno mandato un piccolo berbero a dirmi che gli accessi erano molto più controllati del previsto e temevano di non uscirne vivi, se avessero deciso di entrare.»

«Dove avevate appuntamento?» chiesi sforzandomi di mettere ordine nel suo racconto.

«Alla Suica Baja, sul retro di un deposito di carbone.» Non conoscevo il posto, ma non cercai di capire dove fosse. Nella mia mente ancora

addormentata si profilò nero su bianco la portata del nostro fallimento: potevo dire addio all’attività, addio all’atelier. E dare di nuovo il benvenuto al turbamento di non sapere che cosa ne sarebbe stato di me nei tempi a venire.

«Allora è tutto finito» dissi mentre mi strofinavo gli occhi per scacciare le ultime tracce di sonno.

«Neanche per idea, piccola» tagliò corto la padrona di casa mentre si spogliava del cappotto. «I piani si sono complicati, ma ti giuro sulla tomba di mia madre, che Dio l’abbia in gloria, che stanotte le pistole usciranno fischiettando da casa mia. Quindi forza, signorina: alzati, non c’è tempo da perdere.»

Ci misi un po’ a capire quello che diceva; ero concentrata su qualcos’altro: l’immagine di Candelaria che si sbottonava il sacco informe che indossava sotto il cappotto, una specie di vestaglia ampia di lana grezza che lasciava intuire a stento le forme generose del suo corpo. L’osservai attonita mentre si svestiva, senza capire il senso di quello che stava facendo e la ragione del suo corpo nudo ai piedi del mio letto. Fino a quando, rimasta senza il saio, cominciò a tirare fuori gli oggetti sprofondati nelle sue carni morbide come il burro. E finalmente capii. Aveva quattro pistole appese alle giarrettiere, sei nella guaina, due infilate nelle spalline del reggiseno e altre due sotto le ascelle. Le cinque rimanenti erano in borsa, avvolte in un pezzo di stoffa. In totale diciannove. Diciannove calci e diciannove canne sul punto di abbandonare il calore di quel corpo robusto per dirigersi verso una nuova destinazione che in quel momento cominciai a intuire.

«Cosa vuole che faccia?» chiesi intimorita. «Devi portare le armi alla stazione ferroviaria, consegnarle prima delle sei del mattino

e tornare con le 9500 pesetas che ho negoziato per la merce. Sai dov’è la stazione, no? Oltre la strada per Ceuta, ai piedi del Gorgues. Lì gli uomini potranno prenderle senza dover entrare a Tetuàn. Scenderanno dalla montagna e verranno direttamente a ritirarle prima dell’alba, senza essere costretti a entrare in città.»

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«Ma perché devo portarle io?» All’improvviso ero sveglia come un grillo, lo spavento aveva eliminato del tutto la sonnolenza.

«Perché mentre tornavo dalla Suica facendo un giro e studiando il modo di risolvere la faccenda della stazione, quel figlio di puttana di Palomares usciva dal bar El Andaluz, che stava chiudendo. Mi ha intimato l’alt vicino al portone dell’Intendenza e ha detto che se gli gira stanotte passa dalla pensione per una perquisizione.»

«Chi è Palomares?» «Il poliziotto più perfido di tutto il Marocco spagnolo.» «Agli ordini del commissario?» «Sì, lavora per lui. Quando ce l’ha davanti gli lecca i piedi, ma quando è libero di

muoversi quell’infame tira fuori una boria tremenda e diventa una carogna; figurati che ha minacciato di sbattere in carcere mezza Tetuàn.»

«E perché stanotte l’ha fermata?» «Perché gli girava, perché quel disgraziato è così, gli piace seminare il panico e

spaventare la gente, soprattutto le donne; lo fa da anni e di questi tempi ancora di più.» «Ma ha avuto qualche sospetto sulle pistole?» «No, figlia mia, no; per fortuna non mi ha chiesto di aprire la borsa e non ha osato

toccarmi. Mi ha solo detto con quella sua voce disgustosa: Dove te vai nel cuore della notte, contrabbandiera, non starai mica combinandone una delle tue, zoccola che non sei altro, e io gli ho risposto: Sono andata a trovare un’amica, signor Alfredo, che sta male per via dei calcoli ai reni. Non mi fido di te, contrabbandiera, sei una sporca imbrogliona, ha detto quel porco, e io mi sono morsa la lingua per non rispondere a tono, anche se stavo per mandarlo sonoramente a cagare, ma ho tenuto la borsa stretta sotto braccio, ho allungato il passo pregando la Madonna santissima che le pistole non mi cadessero e quando me l’ero ormai lasciato alle spalle ho sentito di nuovo la sua voce da porco: Magari più tardi passo dalla pensione e la perquisisco, vediamo se trovo qualcosa.»

«E lei crede che verrà davvero?» «Può darsi, ma può anche darsi di no» rispose stringendosi nelle spalle. «Se riesce a trovare una sgualdrina che gli fa un servizietto e riesce a sfogarsi come si

deve, magari si scorda di me. Ma se stanotte non gli gira bene, non mi stupirei se suonasse alla porta fra poco, facesse uscire gli ospiti sulle scale e mi buttasse per aria la casa senza troppi riguardi. Non sarebbe la prima volta.»

«Allora lei non può muoversi di qui fino a domani mattina, non si sa mai» sussurrai lentamente.

«Proprio così, tesoro» confermò. «E le pistole devono sparire subito perché Palomares non le trovi qui» aggiunsi. «Esatto, sissignore.» «E la consegna deve per forza avvenire oggi, perché i compratori stanno aspettando le

armi e rischiano la vita se devono entrare a Tetuàn per venirsele a prendere.» «Hai capito perfettamente, gioia.»

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Restammo in silenzio per qualche secondo guardandoci negli occhi, tese e patetiche. Lei in piedi mezzo nuda, con i rotoli di carne che debordavano dalla guaina e dal reggiseno; io seduta con le gambe piegate, ancora sotto le lenzuola, in camicia da notte, con i capelli spettinati e una morsa che mi stringeva il cuore. E a farci compagnia, le pistole nere sparpagliate intorno a noi.

Alla fine parlò lei, in tono fermo. «Devi occupartene tu, Sira. Non possiamo fare altrimenti.» «Non posso, io non, io non...» balbettai. «Devi farlo, piccola» ripeté con voce cupa. «Altrimenti perdiamo tutto.» «Ma pensi alle accuse a mio carico, Candelaria: il debito con l’albergo, le denunce

della ditta e del mio fratellastro. Se mi beccano sono rovinata.» «La rovina arriverà se stasera viene Palomares e ci pesca con questa roba in casa»

rispose spostando lo sguardo sulle pistole. «Candelaria, mi stia a sentire» insistetti. «No, stammi a sentire tu, ragazzina; ascoltami bene, adesso» disse in tono imperioso.

Mi zittì con un «Ssst» e spalancò gli occhi. Si chinò verso di me, che ero ancora a letto. Mi afferrò con forza le braccia e mi costrinse a guardarla in faccia. «Io ho fatto di tutto, ho rischiato la pelle per questa faccenda, ma non è andata bene» disse. «La fortuna fa schifo: a volte ti lascia vincere e a volte ti sputa in faccia e ti costringe a perdere. Stanotte mi ha detto tu rimani a marcire, contrabbandiera. Non ho altre cartucce, Sira, sono bruciata. Tu invece no. Solo tu puoi rimediare per non farci colare a picco, solo tu puoi consegnare la merce e portare a casa i soldi. Se non fosse necessario non te lo chiederei, Dio mi è testimone. Ma non possiamo fare diversamente, piccola: devi muoverti. Sei coinvolta in questa storia quanto me; riguarda entrambe, e tutto dipende da questo. Il futuro, bambina, il nostro futuro. Senza quel denaro non potremo mai rialzare la testa. E ora è tutto nelle tue mani. Devi farlo. Per te e per me, Sira.

Per entrambe.» Avrei voluto rifiutare ancora; sapevo di avere buoni motivi per dire no, non se ne

parla, neanche per sogno. Ma sapevo anche che Candelaria aveva ragione. Mi ero ficcata in quel gioco sporco di mia spontanea volontà, nessuno mi aveva costretta. Eravamo una squadra, e a ciascuna spettava un compito. Candelaria doveva trattare e io lavorare. Ma tutte e due sapevamo che a volte i confini delle cose sono elastici e imprecisi, possono spostarsi, diventare scoloriti e indistinti come l’inchiostro nell’acqua. Lei aveva fatto la sua parte, ci aveva provato. La fortuna le aveva voltato le spalle e non ci era riuscita, ma non era ancora tutto perduto. Era giusto che a quel punto rischiassi io.

Dopo qualche secondo riuscii a parlare; prima dovetti scacciare dalla mente alcune immagini che rischiavano di farmi scoppiare la giugulare: il commissario, la cella, il volto sconosciuto di quel Palomares.

«Ha pensato a come dovrei fare?» chiesi alla fine con un filo di voce. Candelaria sbuffò rumorosamente, finalmente risollevata dopo un momento di

scoraggiamento.

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«E’ molto semplice, gioia mia. Aspetta solo un istante, te lo dico subito.» Uscì dalla camera ancora mezzo nuda e tornò in meno di un minuto con quella che mi

parve un’enorme tela bianca tra le braccia. «Indosserai un haik da araba» disse, mentre si chiudeva la porta alle spalle. «Qui

dentro c’è posto per l’intero universo.» Ed era proprio così. Vedevo ogni giorno le donne arabe infagottate in quelle larghe

vesti informi, sorta di mantelle ampissime che coprivano la testa, le braccia e l’intero corpo davanti e dietro. Lì sotto, in effetti, si poteva nascondere qualunque cosa. Di solito un pezzo di stoffa copriva la bocca e il naso e scendeva fino alle sopracciglia.

Erano visibili solo gli occhi, le caviglie e i piedi. Non mi sarebbe mai venuto in mente un modo migliore di girare per strada con un piccolo arsenale di pistole.

«Prima però dobbiamo fare un’altra cosa. Datti una mossa ed esci dal letto, sbrighiamoci.»

Ubbidii senza parlare, lasciando le decisioni a Candelaria. Senza pensarci due volte sfilò un lenzuolo del mio letto e se lo portò alla bocca. Strappò con i denti l’orlo superiore e cominciò a dividere la stoffa ricavando una lunga striscia larga un paio di spanne.

«Fai la stessa cosa con l’altro lenzuolo» ordinò. Fra morsi e strappi impiegammo solo pochi minuti per ridurre le lenzuola a una ventina di lunghe strisce di cotone. «Adesso ti leghiamo le strisce attorno per sostenere le pistole. Alza le braccia che sistemo la prima.»

Così, senza neanche togliermi la camicia da notte, le diciannove pistole aderirono al mio corpo, fasciate strette con i lembi delle lenzuola. Ogni striscia era destinata a una pistola: prima Candelaria avvolgeva l’arma in una piega del tessuto, poi me l’appoggiava contro e passava due o tre volte la striscia intorno al corpo. Alla fine annodava strette le estremità.

«Sei pelle e ossa, ragazzina, non hai abbastanza carne addosso per legare la prossima» disse dopo avermi coperta completamente davanti e dietro.

«Sulle cosce» suggerii. L’intero carico di pistole fu sistemato sotto il seno, sopra le costole, i reni e le scapole,

sui fianchi, le braccia, le anche e la parte superiore delle gambe. Ero una specie di mummia, coperta di bende bianche sotto cui si estendeva un’intelaiatura tetra e pesante che mi complicava i movimenti, ma con la quale dovevo imparare a convivere immediatamente.

«Metti queste babbucce, sono di Jamila» disse lasciando ai miei piedi un paio di vecchie ciabatte di pelle scura. «Adesso l’haik» aggiunse prendendo il grande drappo di stoffa bianca. «Avvolgiti dalla testa ai piedi, vediamo come ti sta.»

Mi osservò con un mezzo sorriso. «Perfetta, sembri proprio un’araba. Prima di uscire, non dimenticare di coprirti la

faccia con la stoffa in modo da nascondere la bocca e il naso. Vieni, andiamo fuori, devo spiegarti in fretta il percorso.»

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Cominciai a camminare e mi accorsi subito delle difficoltà: riuscivo a stento a muovermi normalmente. Le pistole pesavano come piombo e mi costringevano a tenere le gambe semiaperte e le braccia scostate dai fianchi. Uscimmo in corridoio, Candelaria davanti e io dietro, con un’andatura goffa; ero un grande fagotto bianco che sbatteva contro le pareti, i mobili, i cardini delle porte. Finché, senza rendermene conto, urtai una mensola e feci cadere tutto quello che c’era sopra: un piatto di ceramica di Talavera, una lampada a petrolio spenta e il ritratto color seppia di qualche parente della padrona di casa. La ceramica, il vetro del portaritratti e il paralume della lampada andarono in pezzi non appena toccarono le piastrelle, e il rumore, interrompendo il sonno degli ospiti, fece cigolare le reti dei letti nelle stanze vicine.

«Cos’è successo?» gridò la madre grassa dal letto. «Niente, mi è caduto un bicchiere d’acqua. Tornate tutti a dormire» rispose

Candelaria in tono autoritario. Feci per chinarmi a raccogliere i cocci, ma non riuscivo a piegarmi. «Lascia stare, bambina, rimetto a posto dopo» disse spostando qualche vetro con il

piede. A quel punto, a meno di tre metri da noi si aprì una porta. Scorgemmo la testa piena

di bigodini di Fernanda, la più giovane delle anziane sorelle. Prima che potesse chiederci cos’era successo e cosa ci facesse in casa una donna araba con un haik che faceva cadere i soprammobili del corridoio a quell’ora di notte, Candelaria le scoccò una frecciata che la lasciò senza parole e incapace di reagire.

«Se non se ne torna subito a letto, domattina appena mi sveglio racconto a Sagrario che lei si vede ogni venerdì con il praticante dell’ambulatorio sul cornicione.»

Il terrore che la sorella scoprisse la sua tresca poté più della curiosità e, senza spiccicare parola, Fernanda strisciò come un’anguilla in camera sua.

«Forza, piccola, si fa tardi» disse poi la contrabbandiera con un sussurro perentorio. «Meglio se nessuno ti vede uscire di casa, se per caso Palomares è da queste parti mandiamo tutto in malora ancora prima di cominciare. Quindi svelta, fuori.»

Uscimmo nel cortiletto sul retro. Ci accolsero la notte nera, un fico contorto, qualche cianfrusaglia e la bicicletta del telegrafista. Ci nascondemmo in un angolo e ricominciammo a parlare sottovoce.

«E ora che faccio?» mormorai. Sembrava che avesse pensato a tutto e parlò con determinazione, sottovoce. «Devi salire su quel rialzo e saltare oltre il muro di cinta, ma fai attenzione, perché se

l’haik ti si attorciglia fra le gambe finisci con il muso per terra.» Osservai la parete alta circa due metri e il muretto addossato su cui dovevo

arrampicarmi per arrivare al punto più alto e riuscire a passare dall’altra parte. Preferii non domandarmi se ci sarei riuscita, appesantita dalle pistole e avvolta in metri di stoffa, e mi limitai a chiedere altre istruzioni.

«E poi?» «Una volta giù, ti troverai nel cortile del negozio di alimentari di Leandro; da lì,

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salendo sulle cassette e le botti impilate, potrai passare senza problemi al cortile successivo, quello della pasticceria dell’ebreo Menahen. In fondo vedrai una porticina di legno che dà su una viuzza laterale; è quella che usa per portare i sacchi di farina nel laboratorio. Appena fuori, dimentica chi sei: copriti bene, stai curva e dirigiti verso il quartiere ebraico e, da lì, entra in quello arabo. Ma fai molta attenzione, bambina: cammina lentamente e rasente ai muri, trascinando un po’ i piedi, come se fossi una vecchia; non devono vederti camminare con garbo, altrimenti a qualcuno potrebbe venire in mente di attaccare bottone; ci sono molti spagnoli che vanno matti per le grazie delle musulmane.»

«E poi?» «Quando arrivi al quartiere arabo, fai qualche giro per le strade e assicurati che

nessuno ti abbia notato o ti stia seguendo. Se incontri qualcuno, cambia strada con indifferenza o allontanati il più possibile.

Dopo un po’ torna alla Puerta de La Luneta e scendi fino al parco; sai dove dico, vero?»

«Mi pare di sì» dissi sforzandomi di ricostruire mentalmente il tragitto. «Una volta lì, sarai di fronte alla stazione: attraversa la strada per Ceuta e infilati

dentro dove trovi aperto, pian pianino e ben coperta. E’ probabile che ci siano solo un paio di soldati mezzo addormentati che non faranno

caso a te; sicuramente incontrerai qualche marocchino che aspetta il treno per Ceuta; i cristiani arriveranno solo più tardi.»

«A che ora parte?» «Alle sette e mezzo. Ma gli arabi hanno altri ritmi, lo sai, e nessuno si stupirà se ti

vede lì prima delle sei di mattina.» «E devo salire anch’io? O cosa devo fare?» Candelaria si prese qualche secondo prima di rispondere e intuii che il suo piano

prevedeva solo la strada che avrei dovuto fare per arrivare a destinazione. «No. In teoria non devi prendere il treno. Quando arrivi alla stazione, siediti per un

po’ sulla panchina sotto il tabellone delle partenze, fatti vedere lì, così sapranno che hai portato la merce.»

«Chi deve vedermi?» «Non importa; chi deve vederti ti vedrà. Dopo venti minuti alzati dalla panchina, entra

nell’osteria e fatti dire dall’oste dove devi lasciare le pistole.» «Così? Come se niente fosse?» chiesi allarmata. «E se l’oste non c’è, se non mi dà

retta, se non riesco a parlargli, che faccio?» «Ssst. Non alzare la voce, altrimenti ci sentono. Non preoccuparti, in qualche modo

capirai cosa devi fare» disse impaziente, incapace di dare alle parole una sicurezza che probabilmente non aveva. Alla fine decise di parlare chiaro: «Senti, bambina, stanotte è andato tutto così male che hanno saputo dirmi solo questo: le pistole devono essere alla stazione alle sei del mattino, la persona che le porta deve sedersi per venti minuti sotto il tabellone e l’oste le dirà come avverrà la consegna. Non so altro, figlia mia, mi dispiace.

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Ma non ti preoccupare, gioia, una volta lì le cose andranno a posto da sole.» Volevo dirle che ne dubitavo molto, ma la preoccupazione dipinta sul suo volto mi

consigliò di non farlo. Per la prima volta da quando la conoscevo, la capacità della contrabbandiera di trovare sempre una soluzione e la sua tenacia nel risolvere con l’ingegno le faccende più torbide sembravano esaurite. Però sapevo che se fosse stata libera di agire non si sarebbe tirata indietro: sarebbe arrivata alla stazione e avrebbe eseguito gli ordini ricorrendo a tutta l’arguzia di cui disponeva. Il problema era che in quel caso la mia padrona di casa aveva le mani legate, era immobilizzata dalla minaccia di una perquisizione della polizia, che forse si sarebbe presentata quella notte o forse no. E sapevo che, se non fossi riuscita a reagire prendendo in mano la situazione, sarebbe stata la fine per tutte e due. Così radunai le forze che non avevo e mi feci coraggio.

«Ha ragione, Candelaria, troverò il modo, stia tranquilla. Ma prima mi dica una cosa.» «Quello che vuoi, bambina mia, però facciamo in fretta, mancano meno di due ore

alle sei» aggiunse, cercando di dissimulare il sollievo che provava nel vedermi pronta a lottare.

«Dove andranno a finire le armi? Chi sono gli uomini di Larache?» «Questo non è affar tuo, ragazzina. Tu devi pensare solo a farle arrivare a

destinazione all’ora stabilita; a lasciarle dove ti dicono e a prendere il denaro che ti daranno: 9500 pesetas, ricordati, e conta le banconote una per una. Poi torna più in fretta che puoi, io sarò qui ad aspettarti e di sicuro non avrò chiuso occhio.»

«Stiamo rischiando molto, Candelaria» insistetti. «Mi dica almeno con chi ci stiamo giocando la pelle.»

Fece un sospiro profondo e il suo petto, coperto a metà dalla vestaglia logora che si era gettata addosso all’ultimo momento, riprese ad alzarsi e ad abbassarsi come se ci fosse una pompa a gonfiarlo.

«Sono massoni» mi disse all’orecchio, come se avesse paura di pronunciare una parola maledetta. «Dovevano arrivare stanotte su un camion da Larache, probabilmente sono già nascosti intorno alle fontane di Buselmal o in qualche orto della valle del rio Martin. Passano per i villaggi, non si azzardano a viaggiare sulla strada. Probabilmente prenderanno le armi dove gliele lasci e non le porteranno neanche sul treno. Secondo me, dalla stazione torneranno alla loro città attraversando di nuovo i villaggi ed evitando Tetuàn, se prima non li beccano, Dio non voglia. Ma queste sono supposizioni mie, perché a dire il vero non ho la minima idea di cos’abbiano in testa quegli uomini.»

Fece un altro grosso sospiro guardando nel vuoto e proseguì in un mormorio. «Quello che so, bambina, perché lo sanno tutti, è che gli insorti si sono accaniti contro

chiunque abbia a che fare con la massoneria. A qualcuno hanno sparato in testa fra le pareti del locale in cui si riunivano; i più fortunati sono fuggiti a gambe levate a Tangeri o nella zona francese. Gli altri li hanno portati al Mogote; un giorno o l’altro li fucileranno e chi si è visto si è visto. E probabilmente alcuni si nascondono nei seminterrati, nelle soffitte e negli androni delle case, e si aspettano terrorizzati che un giorno o l’altro qualcuno spifferi tutto e arrivino a tirarli fuori dai loro rifugi

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picchiandoli con il calcio dei fucili. All’inizio non trovavo nessuno disposto a comprare la mercanzia, ma la voce si è sparsa e alla fine è arrivato il contatto di Larache, per questo so che quegli uomini saranno lì e dove andranno a finire le pistole.»

Mi guardò negli occhi, seria e grave come non l’avevo mai vista. «E’ tutto molto brutto, bambina, bruttissimo» disse a denti stretti. «Non c’è pietà e non ci sono riguardi, e se qualcuno si espone appena un po’, in

quattro e quattr’otto lo fanno fuori. Sono già morti tanti poveri cristi, gente perbene che non ha mai fatto male a una mosca. Fai molta attenzione, piccola, cerca di non essere la prossima.»

Ancora una volta tirai fuori un po’ di coraggio dal nulla, per convincere entrambe di qualcosa in cui non credevo nemmeno io.

«Non si preoccupi, Candelaria; vedrà che in qualche modo ne veniamo fuori.» E senza aggiungere una parola mi diressi verso il muretto e mi preparai ad

arrampicarmi con il più lugubre dei carichi ben stretto alla pelle. Mi lasciai alle spalle la contrabbandiera, che mi osservava ai piedi del muro facendosi

il segno della croce tra i sussurri e i rami dei rampicanti. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, che la Madonna ti accompagni, tesoro mio. L’ultima cosa che sentii fu il sonoro bacio che diede alle dita incrociate quando ebbe finito di segnarsi. Un secondo dopo sparii dietro il muro e caddi come un sacco di patate nel cortile del negozio di alimentari.

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CAPITOLO 9 Raggiunsi l’uscita del pasticciere Menahen in meno di cinque minuti. Per strada mi

impigliai diverse volte in chiodi e schegge che il buio mi impediva di vedere. Mi graffiai un polso e fui sul punto di perdere l’equilibrio e cadere di spalle mentre cercavo di arrampicarmi su un mucchio di casse di prodotti alimentari ammucchiate in disordine contro un muro. Arrivata vicino alla porta, anzitutto mi sistemai bene il velo in modo che si vedessero solo gli occhi. Poi feci scorrere il chiavistello arrugginito, respirai profondamente e uscii.

Nel vicolo non c’era nessuno, neanche un’ombra o un rumore. Come unica compagna avevo la luna che si muoveva capricciosa tra le nuvole.

Cominciai a camminare lentamente, tenendomi sul lato sinistro, e arrivai subito a La Luneta. Prima di immettermi nella via, mi fermai all’angolo per studiare la situazione. Dai cavi che attraversavano la strada pendevano lampadine giallastre a mo’ di lampioni. Guardai a destra e a sinistra e riconobbi, addormentati, alcuni locali che di giorno traboccavano di vita. L’hotel Victoria, la farmacia Zurita, il bar Levante, dove spesso si cantava il flamenco, il tabaccaio Galindo e il magazzino del sale. Il Teatro Nacional, i bazar degli indiani, quattro o cinque taverne di cui non conoscevo il nome, la gioielleria La Perla dei fratelli Cohen e La Espiga de Oro, dove compravamo il pane ogni mattina.

Tutti chiusi, sbarrati. Silenziosi e quieti come cadaveri. Mi addentrai in calle de La Luneta sforzandomi di adattare il passo al peso del carico.

Ne percorsi un tratto e svoltai verso la mellah, il quartiere ebraico. Il tracciato lineare delle vie strettissime mi confortò: sapevo che non potevo smarrirmi, perché nella mellah, con i suoi incroci perpendicolari, era impossibile perdere l’orientamento.

Entrai poi nella medina e all’inizio andò tutto bene. Vagabondai e passai in posti che mi apparvero familiari: lo Zoco del Pan e lo Zoco de la Carne. Non incontrai nessuno: neanche un cane, neanche un’anima, neppure un mendicante cieco che chiedeva l’elemosina. Intorno a me si sentiva solo il rumore attutito delle mie babbucce trascinate sull’acciottolato e lo zampillio di una fontana in lontananza. Mi accorsi che camminare con il peso delle pistole era sempre meno gravoso: il mio corpo si stava abituando alle nuove dimensioni. Ogni tanto mi toccavo da qualche parte per assicurarmi che tutto fosse al proprio posto: il costato, le braccia, i fianchi. Non arrivai a rilassarmi, rimanevo tesa, ma perlomeno camminavo abbastanza tranquilla per le vie buie e sinuose, tra i muri imbiancati a calce e le porte di legno con le borchie fissate da chiodi a testa grossa.

Per scacciare le preoccupazioni dalla mente mi sforzai di immaginare l’interno di quelle case arabe. Avevo sentito dire che erano belle e fresche, con cortili, fontane e portici con mosaici e azulejos, i soffitti in legno intarsiato e il sole che accarezzava i

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terrazzi. Era impossibile intuire quei dettagli dalla strada, su cui si affacciavano solo i muri intonacati. Procedetti in compagnia di quei pensieri finché, dopo un lasso imprecisato di tempo, quando mi sembrava di avere camminato abbastanza da essere sicura al cento per cento di non avere destato sospetti, decisi di avviarmi verso la Puerta de La Luneta.

Proprio in quel momento, in fondo al vicolo in cui mi trovavo, scorsi un paio di figure che avanzavano verso di me. Due militari, due ufficiali con i pantaloni alla zuava, la fascia in vita e il berretto rosso dei regulares, i militari di stanza in Marocco; quattro gambe che camminavano a passo deciso, facendo risuonare gli stivali sul selciato mentre parlavano sottovoce con un’intonazione nervosa.

Trattenni il respiro mentre mille immagini funeste si avvicendavano nella mia testa come fucilate sparate contro un muro. All’improvviso mi sembrò che le pistole potessero staccarsi dai legacci e spargersi rumorosamente a terra, pensai che a uno dei due potesse venire in mente di scostare la stoffa per scoprirmi il volto, che mi avrebbero fatta parlare, riconoscendo in me una loro connazionale coinvolta in un traffico d’armi con le persone sbagliate, e non una donna del luogo diretta in un posto qualunque.

I due uomini mi passarono accanto; mi addossai il più possibile al muro, ma la viuzza era così stretta che quasi ci sfiorammo. Non mi considerarono affatto, però. Ignorarono la mia presenza come se fossi stata invisibile e proseguirono svelti la conversazione e il cammino.

Parlavano di distaccamenti e munizioni, cose che non capivo e non volevo capire. Duecento, duecentocinquanta al massimo, disse uno dei due quando mi passò di fianco. Ma no, certo che no, fidati, te lo dico io, replicò l’altro con veemenza. Non li vidi in faccia, non osai alzare lo sguardo, ma quando sentii il rumore degli stivali svanire in lontananza allungai il passo e potei finalmente riprendere fiato.

Dopo pochi secondi, tuttavia, mi resi conto che non avrei dovuto cantare vittoria tanto presto: quando alzai lo sguardo scoprii che non sapevo più dove mi trovavo. Per tenere la direzione avrei dovuto girare a destra tre o quattro vie prima, ma l’arrivo inatteso dei due militari mi aveva distratto e non l’avevo fatto. All’improvviso mi sentii persa e mi vennero i brividi. Ero passata spesso per le vie della medina, ma non ne conoscevo tutti gli angoli e i segreti. In assenza della luce del giorno, dei movimenti e dei rumori quotidiani, non avevo la minima idea di dove mi trovassi.

Decisi di tornare indietro e ricostruire il percorso, ma non ci riuscii. Quando pensavo che sarei sbucata in una piazzetta che conoscevo mi ritrovavo di

fronte un arco; quando mi aspettavo un passaggio, mi imbattevo in una moschea o in una scalinata. Proseguii muovendomi goffamente lungo viuzze tortuose, cercando di associare ogni angolo con le attività diurne per riuscire a orientarmi. Ma via via che camminavo mi perdevo sempre di più in quelle strade intricate che sfidavano le leggi della razionalità. Con gli artigiani addormentati e le botteghe chiuse non riuscivo a capire se mi trovavo nella zona dei lattonieri e degli stagnini o se ero già arrivata in quella dei filatori, dei tessitori e dei sarti. Dove alla luce del sole c’erano dolci al miele,

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panini dorati, mucchietti di spezie e mazzi di basilico che mi avrebbero aiutato a orizzontarmi, mi imbattei solo in porte sbarrate e imposte chiuse. Sembrava che il tempo si fosse fermato, avevo l’impressione di essere dentro uno scenario deserto senza le voci dei commercianti e degli acquirenti, senza le carovane di asini carichi di sporte e le donne del Rif sedute per terra in mezzo a ortaggi e arance che forse non sarebbero mai riuscite a vendere. Ero sempre più tesa: non avevo idea di che ora fosse, ma sapevo che si avvicinavano le sei.

Allungai il passo, uscii da una viuzza, mi infilai in un’altra, poi in un’altra, in quella successiva; tornai indietro, cambiai di nuovo direzione. Niente. Neanche un indizio, un punto di riferimento: la medina era diventata un labirinto demoniaco da cui non c’era modo di uscire.

Quei passi inconsapevoli mi condussero fino a una casa con un grande lampione sopra la porta. All’improvviso udii risate, baccano, voci scomposte che intonavano in coro le parole del famoso paso doble Mi jaca, accompagnate dalle note stonate di un pianoforte. Decisi di avvicinarmi, ansiosa di scoprire un riferimento che mi facesse ritrovare il senso dell’orientamento. Ero a pochi metri dall’entrata quando una coppia che parlava in spagnolo si precipitò fuori dal locale: un uomo che aveva l’aria di essere ubriaco e una matura bionda artificiale che rideva sguaiatamente. Mi resi conto che mi trovavo davanti a un bordello, ma era troppo tardi per fingere di essere un’anziana donna del posto: la coppia era a pochi passi da me. «Morettina, vieni con me bellezza, vieni che ho una cosa da farti vedere, guarda, guarda, morettina» disse l’uomo sbavando, mentre allungava una mano verso di me e con l’altra si toccava oscenamente fra le gambe. La donna cercò di trattenerlo, sostenendolo fra le risate mentre io, con un balzo, mi allontanai dalla sua mano e cominciai a correre come una forsennata, stringendomi l’haik al corpo con tutte le forze.

Mi lasciai alle spalle il postribolo affollato di carne da caserma che giocava a carte, berciava canzoni e palpava con furia le donne, per sfuggire momentaneamente alla certezza che presto avrebbe attraversato lo Stretto per affrontare la macabra realtà della guerra. Mentre mi allontanavo da quella topaia con tutta la fretta del mondo nelle suole delle babbucce, la fortuna finalmente mi venne in aiuto: svoltando l’angolo mi trovai proprio di fronte allo Zoco el Foki.

Ripresi fiato: avevo ritrovato l’orientamento, ora sapevo come uscire dalla gabbia in cui si era trasformata la medina. Il tempo volava e dovevo volare anch’io. Camminavo a passi lunghi e svelti, compatibilmente con la corazza che avevo addosso, e in pochi minuti raggiunsi la Puerta de La Luneta, dove mi aspettava però un altro spavento: uno dei temuti posti di blocco militari che avevano impedito agli uomini di Larache l’ingresso a Tetuàn. Qualche soldato, uno sbarramento e un paio di veicoli: abbastanza per intimidire chiunque volesse entrare in città con cattive intenzioni. Avevo la gola secca ma non potevo evitare di passare accanto ai militari né fermarmi a meditare sul da farsi, quindi, con lo sguardo fisso al suolo, decisi di proseguire con l’andatura affaticata che mi aveva suggerito

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Candelaria. Oltrepassai il posto di blocco con il sangue che mi martellava le tempie; trattenevo il

respiro aspettandomi che da un momento all’altro qualcuno mi fermasse per chiedermi dove stavo andando, chi ero, che cosa nascondevo. Per mia fortuna mi guardarono appena. Mi ignorarono, semplicemente, come gli ufficiali in cui mi ero imbattuta nella viuzza stretta. Che pericolo poteva rappresentare per il glorioso alzamiento una marocchina dal passo lento che attraversava le vie all’alba come un’ombra? Scesi verso la zona aperta del parco e mi sforzai di tranquillizzarmi. Fingendo di essere calma attraversai i giardini pieni di ombre addormentate, così strani in quel silenzio, senza i bambini chiassosi, le coppie e gli anziani che alla luce del giorno camminavano tra le fontane e le palme. A mano a mano che procedevo, la stazione appariva sempre più nitida davanti ai miei occhi. In confronto alle case basse della medina, all’improvviso mi parve grandiosa e inquietante, per metà moresca e per metà andalusa, con le torrette agli angoli, le tegole e gli azulejos verdi, gli enormi archi delle entrate.

Diversi lampioni dalla luce fioca illuminavano la facciata e ne proiettavano il profilo sul massiccio del Gorgues, la montagna rocciosa e imponente da cui sarebbero dovuti arrivare gli uomini di Larache. Ero passata accanto alla stazione solo una volta, quando il commissario mi aveva accompagnato in automobile dall’ospedale alla pensione. Per il resto l’avevo vista solo da lontano, dal balcone della calle de La Luneta, da dove non riuscivo a valutarne le dimensioni. Quella notte, quando me la trovai di fronte, la sua imponenza mi parve così minacciosa che cominciai a rimpiangere le accoglienti viuzze strette del quartiere arabo.

Comunque, non era il momento di lasciarsi prendere dalla paura, perciò tirai fuori tutto il mio coraggio e mi accinsi ad attraversare la strada per Ceuta, su cui a quell’ora non si muoveva neanche la polvere. Cercai di farmi forza calcolando i tempi, dicendomi che mancava sempre meno alla conclusione di quella faccenda, che il più era fatto. Mi consolai pensando che presto mi sarei liberata delle bende strette, delle pistole che mi tormentavano e della palandrana in cui mi sentivo così a disagio.

Mancava poco, pochissimo. Entrai nella stazione dalla porta principale, che era spalancata. Mi accolse un fascio di

luce fredda che illuminava il vuoto, incongruente rispetto alla notte scura che mi ero appena lasciata alle spalle. La prima cosa che intravidi fu un grande orologio che segnava le sei meno un quarto. Sospirai sotto la stoffa che mi copriva il volto: il ritardo non era eccessivo. Camminai a passo volutamente lento nell’atrio mentre con gli occhi nascosti dietro il cappuccio studiavo in fretta la situazione. Le biglietterie erano chiuse, c’era solo un vecchio musulmano sdraiato su una panchina con un fagotto vicino ai piedi. In fondo si aprivano due grandi porte che davano sulla banchina. Sulla sinistra un’altra porta che, a giudicare dall’insegna ben dipinta, era quella dell’osteria. Cercai il tabellone degli orari e lo vidi sulla destra. Non mi fermai a osservarlo; mi limitai a sedermi sulla panchina che c’era sotto e mi misi ad aspettare. Non appena sfiorai il legno del sedile, notai che ero pervasa da un sentimento di gratitudine dalla testa ai piedi. Fino

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a quel momento non mi ero resa conto di quanto fossi stanca, dello sforzo immane che avevo fatto camminando senza sosta con quel lugubre peso che mi copriva come una seconda pelle di piombo.

Anche se nell’atrio non comparve nessuno per tutto il tempo in cui rimasi seduta immobile, mi arrivarono alle orecchie dei suoni e capii che non ero sola. Alcuni provenivano dall’esterno, dalla banchina. Passi e voci maschili, alcune basse, altre più alte. Erano voci di giovani, immaginai che fossero i soldati incaricati di sorvegliare la stazione e cercai di non pensare che forse avevano l’ordine di sparare senza indugio al minimo sospetto. Anche dall’osteria arrivavano dei rumori.

Sentirli fu consolante: perlomeno sapevo che l’oste era al suo posto, al lavoro. Lasciai passare dieci minuti, che trascorsero con una lentezza esasperante; non potevo farne passare venti come mi aveva raccomandato Candelaria. Quando le lancette dell’orologio segnavano le sei meno cinque, radunai le forze, mi alzai a fatica e mi incamminai verso la meta che mi era stata indicata.

L’osteria era grande e aveva almeno una dozzina di tavoli, tutti liberi tranne uno, su cui dormiva un uomo con la testa nascosta fra le braccia, accanto a una caraffa di vino vuota. Mi diressi verso il bancone trascinando le babbucce, senza la minima idea di quello che avrei dovuto dire o che avrei sentito. Dietro il bancone un uomo scuro e asciutto con una sigaretta spenta fra le labbra si dava da fare a impilare ordinatamente piatti e tazze, senza degnare di uno sguardo la donna dal volto coperto che si dirigeva verso di lui. Quando mi vide vicina al bancone, senza togliersi il mozzicone di bocca disse solo a voce alta e in tono sostenuto: «Alle sette e mezzo, fino alle sette e mezzo il treno non parte». Poi aggiunse sottovoce qualche parola in arabo che non capii. «Sono spagnola, non capisco» mormorai dietro il velo. L’uomo aprì la bocca senza riuscire a nascondere l’incredulità, e nella distrazione fece cadere a terra quello che restava della sigaretta. A quel punto mi comunicò rapidamente il messaggio: «Entri nel bagno sulle banchine e chiuda la porta, l’aspettano».

Tornai piano sui miei passi, entrai nell’atrio e da lì uscii nella notte. Prima mi riavvolsi nell’haik e alzai la stoffa in modo che arrivasse quasi a sfiorarmi le ciglia. L’ampia banchina sembrava deserta e di fronte c’era solo il massiccio roccioso del Gorgues, scuro e immenso. I soldati, quattro, erano insieme, fumavano e parlavano sotto uno degli archi che conduceva ai binari. Quando scorsero un’ombra che entrava sussultarono, percepii la loro tensione, vidi che univano gli stivali e si raddrizzavano, sistemandosi i fucili in spalla.

«Altolà» gridò uno di loro appena mi vide. Sentii il mio corpo irrigidirsi sotto il metallo delle pistole.

«Lasciala perdere, Churruca, non vedi che è un’araba?» disse un altro subito dopo. Rimasi immobile, non riuscivo ad andare né avanti né indietro. Loro non si

avvicinarono: rimasero dov’erano, a venti-trenta metri da me, discutendo sul da farsi. «Non me ne frega niente se è araba o cristiana. Il sergente ha detto che dobbiamo

chiedere a tutti di identificarsi.»

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«Ma sarai scemo, Churruca. Ti abbiamo detto dieci volte che si riferiva agli spagnoli, non ai musulmani, possibile che non capisci?» chiarì l’altro.

«Siete voi che non capite. Signora, documenti, prego.» Credetti che le ginocchia mi cedessero e che sarei svenuta. Immaginai che quella

sarebbe stata la mia fine, irrimediabilmente. Trattenni il respiro e sentii che ogni centimetro di pelle si copriva di sudori freddi.

«Certo che sei proprio duro di comprendonio, Churruca» intervenne un altro compagno alle sue spalle. «Le donne del posto non vanno in giro con i documenti; quando imparerai che qui siamo in Africa e non nella piazza del tuo paese?»

Troppo tardi: il soldato scrupoloso era a due passi da me, con una mano tesa ad aspettare il documento mentre cercava il mio sguardo tra le pieghe della stoffa che mi copriva. Ma non lo trovò: lo tenni fisso a terra, concentrato sui suoi stivali infangati, sulle mie vecchie babbucce e il mezzo metro scarso che separava i nostri piedi.

«Se il sergente viene a sapere che hai disturbato una marocchina non sospetta, ti giocherai tre giorni agli arresti all’Alcazaba, ragazzo.»

La funesta prospettiva della punizione riuscì finalmente a far ragionare Churruca. Non potei vedere la faccia del mio salvatore: continuavo a fissare per terra. Ma la minaccia dell’arresto sortì il suo effetto, e il soldato puntiglioso e testardo, dopo averci pensato per qualche angosciante secondo, si girò e si allontanò.

Benedissi la saggezza del compagno che lo aveva fermato, e quando i quattro soldati tornarono insieme sotto l’arco mi voltai e ripresi a camminare senza una meta precisa. Cominciai a percorrere la banchina lentamente, senza una direzione, cercando solo di calmarmi. Quando ci riuscii, potei concentrarmi per trovare i bagni. Notai anche quello che avevo intorno: un paio di arabi che dormicchiavano per terra addossati al muro e un cane pelle e ossa che attraversava i binari. Ci misi un po’ di tempo per trovare il bagno; per fortuna era quasi alla fine della banchina, all’estremo opposto rispetto ai soldati. Trattenni il respiro, spinsi la porta a vetri smerigliati ed entrai in una specie di anticamera. Ci si vedeva a malapena, ma non volli fare luce, preferii cercare di abituare i miei occhi al buio. Intravidi la targhetta degli uomini a sinistra e delle donne a destra. E in fondo, contro la parete, quello che sembrava un mucchio di stoffa che cominciava a muoversi con lentezza. Una testa coperta da un cappuccio emerse con fare circospetto dalla stoffa e il suo sguardo incrociò il mio nella penombra.

«Ha la merce?» chiese con accento spagnolo. Parlava sottovoce e velocemente. Annuii e la sagoma si alzò senza far rumore, fino a trasformarsi in un uomo vestito,

come me, secondo gli usi locali. «Dov’è?» Abbassai il velo per parlare più facilmente, aprii l’haik e mostrai il mio corpo fasciato. «Qui.» «Oddio» si limitò a mormorare lui. In quella esclamazione si concentrava un universo

intero di sensazioni: stupore, ansia, urgenza. Il tono era grave, sembrava una persona educata.

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«Riesce a togliersele da sola?» chiese. «Mi ci vorrà un po’ di tempo» sussurrai. Mi indicò il bagno delle donne e vi entrammo tutti e due. Lo spazio era stretto e da

una finestrella filtrava un raggio di luce lunare, abbastanza da non dover ricorrere ad altre fonti di illuminazione.

«Dobbiamo sbrigarci, non c’è un minuto da perdere. Il picchetto del mattino sta per arrivare e controlla la stazione da cima a fondo prima della partenza del treno. Devo per forza aiutarla» disse chiudendosi la porta alle spalle.

Lasciai cadere l’haik a terra e incrociai le braccia in modo che lo sconosciuto potesse trafficare intorno al mio corpo, sciogliendo i nodi, svolgendo le bende e liberandomi da quella lugubre corazza.

Prima di cominciare tirò indietro il cappuccio della gellaba e di fronte a me vidi il volto serio e armonioso di uno spagnolo di mezz’età, con la barba di vari giorni. Aveva i capelli castani e ricci, spettinati dal cappuccio sotto il quale probabilmente si camuffava da un pezzo.

Cominciò a darsi da fare, ma non era facile. Candelaria aveva fatto le cose per bene e nessuna pistola si era mossa, ma i nodi erano così stretti e i metri di stoffa da svolgere così tanti che l’impresa richiese più tempo di quanto io e lo sconosciuto avremmo voluto.

Rimanemmo tutti e due in silenzio, circondati dagli azulejos bianchi, con l’unica compagnia del bagno alla turca, dei nostri respiri all’unisono e di qualche frase mormorata per scandire il ritmo dell’operazione: ci siamo, ora di qua, si muova un po’, va bene, alzi di più il braccio, attenzione. Nonostante la fretta, l’uomo di Larache agiva con una delicatezza infinita, quasi con pudore, evitando il più possibile di avvicinarsi alle parti intime o di sfiorare la pelle nuda un millimetro più in là dello stretto necessario. Come se temesse di macchiare la mia integrità con le sue mani, come se il carico che aderiva al mio corpo fosse uno splendido involto di carta di seta e non una nera corazza di marchingegni destinati a uccidere. La vicinanza fisica non mi infastidì neppure per un attimo: né le sue carezze involontarie, né l’intimità dei nostri corpi quasi aderenti. Fu senza dubbio il momento più piacevole della notte: non perché dopo mesi le dita di un uomo si muovevano sul mio corpo, ma perché ero convinta che quell’atto segnasse l’inizio della fine.

Procedevamo in fretta. Le pistole uscivano a una a una dai loro nascondigli e si ammucchiavano per terra. Ne rimanevano poche, non più di tre o quattro. Calcolai che in cinque minuti, dieci al massimo, avremmo finito. Ma proprio allora, inaspettatamente, il silenzio si ruppe, e noi trattenemmo il respiro fermandoci all’istante.

Dall’esterno, ancora lontani, arrivarono i suoni concitati dell’inizio di una nuova attività.

L’uomo fece un respiro profondo ed estrasse l’orologio di tasca. «E’ arrivato il picchetto per il cambio di turno. E’ in anticipo» annunciò. Nella sua voce spezzata colsi l’angoscia, l’inquietudine e la volontà di non

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comunicarmi nessuna di quelle sensazioni. «Cosa facciamo?» «Usciamo di qui il prima possibile» disse subito. «Si rivesta, presto». «E le altre pistole?» «Non importa. Adesso dobbiamo scappare: i soldati verranno a controllare se è tutto a

posto.» Mentre mi avvolgevo nell’haik con le mani tremanti, lui slegò un sacco di tela sudicia

che portava in vita e vi introdusse a manciate le pistole. «Da dove usciamo?» mormorai. «Da lì» disse alzando la testa e indicando con il mento la finestra. «Prima salta lei, poi le getto le pistole ed esco io. Mi ascolti bene però: se non riesco a

raggiungerla, prenda le armi e corra lungo il binario, poi le lasci vicino al primo cartello che indica una fermata o una stazione, dove qualcuno verrà a prenderle. Non si volti indietro e non mi aspetti; corra soltanto via e scappi. Forza, deve salire, appoggi un piede sulle mie mani.»

Guardai la finestra, alta e stretta. Mi sembrò impossibile passarci attraverso, ma non lo dissi. Ero così spaventata che mi limitai a ubbidire, confidando ciecamente nelle decisioni di quel massone anonimo di cui non avrei mai saputo neppure il nome.

«Aspetti un momento» disse allora, come se avesse dimenticato qualcosa. Si aprì la camicia di colpo e tirò fuori una piccola borsa di tela, una specie di sacca. «Tenga, lo metta via, è il denaro pattuito. Caso mai le cose si complicassero.» «Ma restano altre pistole...» balbettai tastandomi il corpo. «Non importa. Lei ha fatto la sua parte e deve avere i soldi» disse mentre mi

appendeva la sacca al collo. Lo lasciai fare, rimasi immobile, come anestetizzata. «Andiamo, non c’è un secondo da perdere.»

Alla fine riuscii a reagire. Appoggiai un piede sulle sue mani intrecciate e mi diedi la spinta per raggiungere il davanzale della finestra.

«L’apra, presto» mi intimò. «Si affacci. Mi dica in fretta quello che vede e sente.» La finestra dava sulla campagna buia, il movimento proveniva da una zona fuori dalla

portata del mio sguardo. Rumori di motori, ruote che scricchiolavano sulla ghiaia, passi decisi, saluti e ordini,

voci perentorie che assegnavano compiti. Con impeto, veemenza, come se il mondo stesse per finire quando la mattina non era ancora cominciata.

«Pizarro e Garda, all’osteria. Ruiz e Albadalejo, alla biglietteria. Voi negli uffici e voi due nei bagni. Avanti, vi faccio sputare sangue» urlò qualcuno con rabbiosa autorità.

«Non vedo nessuno, ma stanno venendo da questa parte» annunciai con la testa ancora fuori.

«Allora salti» ordinò. Non lo feci. L’altezza era spaventosa, dovevo ancora uscire, inconsciamente mi

rifiutavo di scappare da sola. Volevo che l’uomo di Larache mi assicurasse che sarebbe venuto con me e mi avrebbe condotta per mano nel posto dove sarei dovuta andare.

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Il trambusto si faceva sempre più vicino. Lo scalpiccio degli stivali, la voce che distribuiva gli incarichi. «Quinterno, al bagno delle donne.

Villarta, a quello degli uomini.» Con tutta evidenza quei militari non erano le reclute negligenti che avevo trovato all’arrivo, ma una pattuglia di uomini freschi, ansiosi di riempire d’attività l’inizio della giornata.

«Salti e corra!» ripeté l’uomo in tono energico, afferrandomi i piedi e spingendomi verso l’alto.

Saltai. Saltai, caddi e su di me piombò il sacco delle pistole. Ero appena atterrata quando sentii il baccano precipitoso delle porte aperte a calci. Gli ultimi suoni che mi arrivarono all’orecchio furono le grida aspre rivolte all’uomo che non avrei rivisto mai più.

«Che ci fai nel bagno delle donne, arabo? Cosa stai gettando dalla finestra? Villarta, in fretta, esci a vedere se ha lanciato qualcosa dall’altra parte.»

Cominciai a correre. Alla cieca, furiosamente. Avvolta nel buio della notte, trascinando il sacco con le armi; sorda, insensibile, senza sapere se mi seguivano e senza chiedermi cosa sarebbe successo all’uomo di Larache di fronte al fucile del soldato. Persi una babbuccia e una delle ultime pistole finì per staccarsi dal mio corpo, ma non mi fermai a raccoglierle. Mi limitai a continuare la corsa nell’oscurità seguendo i binari, con un piede scalzo, senza arrestarmi, senza pensare.

Inciampai, mi rialzai e continuai a correre senza riprendere fiato, senza calcolare la distanza che coprivo con le mie falcate. Non incontrai anima viva, e niente si frappose al ritmo forsennato dei miei piedi, finché, nell’ombra, riuscii a intravedere un cartello pieno di lettere: “Fermata di Malalien”. Probabilmente ero arrivata nel luogo che dovevo raggiungere.

La stazione era a un centinaio di metri dall’insegna, illuminata da un unico lampione giallastro. Interruppi la mia corsa folle prima di raggiungerla, non appena arrivai al cartello che l’annunciava. Guardai rapidamente in tutte le direzioni per vedere se c’era qualcuno a cui potessi consegnare le armi. Stava per scoppiarmi il cuore e avevo la bocca secca, piena di polvere di carbone; feci uno sforzo sovrumano per zittire il suono strozzato del mio respiro. Non mi venne incontro nessuno. Non c’era nessuno ad aspettare la merce. Forse sarebbero arrivati più tardi, forse mai.

Presi la decisione in meno di un minuto. Lasciai il sacco per terra, lo appiattii perché si vedesse il meno possibile e cominciai ad ammucchiarvi sopra piccole pietre a ritmo febbrile, artigliando la terra, strappando zolle, sassi e cespugli finché la stoffa non fu coperta per metà. Quando mi parve che non avesse più l’aria di un involto sospetto, me ne andai.

Concedendomi appena il tempo necessario per recuperare fiato, ripresi a correre verso il punto in cui si intravedevano le luci di Tetuàn.

Sgravata del carico, decisi di liberarmi anche del resto della zavorra. Aprii l’haik senza fermarmi e riuscii, con qualche difficoltà, a sciogliere a poco a

poco gli ultimi nodi. Le tre pistole ancora legate caddero lungo la strada, prima una, poi

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un’altra, infine l’ultima. Quando arrivai in prossimità della città ero sfinita, triste e ferita. E avevo una sacca

piena di banconote appesa al collo. Neanche più l’ombra delle armi. Salii sulla cunetta della strada per Ceuta e ripresi a camminare a passo lento. Avevo

perso anche l’altra babbuccia, così cercai di assomigliare di nuovo a un’araba scalza e imbacuccata che iniziava stancamente la salita verso la Puerta de La Luneta. Non dovevo sforzarmi per simulare un’andatura affaticata: le mie gambe non ne potevano più. Sentivo le membra intorpidite, ero piena di vesciche, sporca e contusa dappertutto, e avvertivo una debolezza infinita nelle ossa.

Mi addentrai nella città quando le ombre cominciavano a svanire. In una moschea vicina risuonava la voce del muezzin che chiamava i musulmani alla preghiera, e la tromba della caserma dell’Intendenza suonava la diana. Dalla “Gazeta de Africa” usciva ancora calda l’edizione del quotidiano, e in calle de La Luneta passavano tra gli sbadigli i lustrascarpe più mattinieri. Il pasticciere Menahen aveva già acceso il forno e il signor Leandro impilava le mercanzie del negozio con il grembiule allacciato stretto in vita.

Tutte quelle scene quotidiane sfilarono davanti ai miei occhi come cose estranee, senza attirare la mia attenzione e senza lasciare traccia.

Sapevo che Candelaria sarebbe stata soddisfatta alla consegna del denaro, avrebbe pensato che avevo compiuto una prodezza memorabile. Io, in compenso, non provavo niente che somigliasse alla soddisfazione.

Sentivo solo il nero morso di un immenso malessere. Mentre correvo freneticamente in mezzo alla campagna, mentre conficcavo le unghie

nella terra e ricoprivo il sacco, mentre camminavo in strada; durante tutte le ultime azioni compiute nel corso di quella lunga notte, nella mia mente si erano avvicendate mille immagini che formavano diverse sequenze con un unico protagonista: l’uomo di Larache. In una di queste scene i soldati scoprivano che non aveva gettato niente oltre la finestra, si era trattato di un falso allarme e quell’individuo era solo un arabo assonnato e confuso; allora lo lasciavano andare, perché gli uomini dell’esercito avevano l’ordine di non importunare la popolazione locale se non sospettavano qualcosa di allarmante. In un’altra scena, molto diversa, non appena il soldato apriva la porta capiva di avere di fronte uno spagnolo travestito; lo spingeva nell’angolo del bagno, gli puntava il fucile a due spanne dal volto e gridava per chiamare i rinforzi. Arrivavano, lo interrogavano, forse lo identificavano, forse lo arrestavano e lo portavano in caserma, forse l’uomo di Larache tentava di fuggire e lo ammazzavano sparandogli alla schiena mentre saltava sui binari. In mezzo a quelle due visioni c’erano altre mille sequenze; ma ero consapevole che non sarei mai riuscita a sapere quale fosse più vicina alla verità.

Entrai nel portone esausta e timorosa. Sul Marocco si levava il nuovo giorno.

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CAPITOLO 10 Trovai la porta della pensione aperta e gli ospiti svegli, riuniti in sala da pranzo.

Sedute al tavolo dove si lanciavano i quotidiani insulti e promesse, le sorelle in vestaglia e bigodini piangevano e si soffiavano il naso, mentre il maestro Anselmo tentava di consolarle pronunciando sottovoce parole che non riuscii a sentire. Paquito e il commesso viaggiatore stavano raccogliendo da terra il quadro del Cenacolo per riappenderlo al suo posto. Il telegrafista, con i pantaloni del pigiama e una camicia, fumava nervoso in un angolo. La madre grassa, intanto, cercava di raffreddare un infuso di tiglio soffiandoci sopra leggermente. Era tutto per aria, fuori posto, il pavimento era cosparso di vetri e cocci; avevano addirittura strappato le tende dalle aste.

Nessuno sembrò stupirsi dell’arrivo di un’araba a quell’ora, forse pensarono che fossi Jamila. Rimasi a osservare la scena per qualche secondo, ancora avvolta nell’haik, finché un richiamo vigoroso attirò la mia attenzione dal corridoio. Girai la testa e vidi Candelaria che gesticolava come un’indemoniata, con la scopa in una mano e la paletta nell’altra.

«Vieni dentro, piccola» ordinò concitata. «Entra e raccontami tutto, stavo per impazzire a furia di chiedermi cosa poteva essere successo.»

Avevo deciso di risparmiarle i dettagli più scabrosi e di condividere solo il risultato finale. Le pistole non c’erano più e il denaro sì: era quello che Candelaria voleva sentire, ed era quello che le avrei detto. Avrei tenuto per me il resto della storia.

Parlai mentre mi scoprivo la testa. «E’ andato tutto bene» sussurrai. «Gioia mia, vieni qui e lasciati abbracciare! La mia Sira vale più di tutto l’oro del

Perù, altro che trovare un tesoro!» gridò la contrabbandiera. Poi buttò per terra la scopa e la paletta, mi imprigionò tra i seni e mi riempì la faccia di baci appiccicosi come ventose.

«Stia zitta, per l’amor del cielo, Candelaria, o va a finire che la sentono» protestai con la paura ancora addosso. Invece di darmi retta, sgranò una sfilza di maledizioni contro il poliziotto che quella notte le aveva rivoltato la casa.

«Ora che è fatta non m’importa che mi sentano! Che Dio ti fulmini, Palomares, te e tutta la tua genia! Che Dio ti strafulmini: non mi hai beccato!»

Temevo che quell’esplosione di emozioni dopo la lunga notte con i nervi a fior di pelle non si sarebbe esaurita tanto presto, quindi presi Candelaria per un braccio e la trascinai in camera mia mentre continuava a declamare spropositi.

«Spero proprio che qualcuno te la faccia pagare, gran figlio di puttana. Vaffanculo, Palomares, a casa mia non hai trovato niente neanche rovesciando i

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mobili e buttando all’aria i materassi!» «Adesso stia zitta, Candelaria, la smetta una buona volta» insistetti. «A Palomares non ci pensi più, si tranquillizzi e mi lasci raccontare com’è andata.» «Sì, figlia mia, raccontami tutto per bene» disse cercando finalmente di calmarsi.

Aveva il respiro pesante, la vestaglia allacciata male, e dalla retina che le copriva la testa spuntavano ciocche di capelli in disordine. L’aspetto era pietoso, ma lei irradiava entusiasmo. «Quel cornuto è venuto alle cinque del mattino e ci ha fatti uscire tutti in strada, quel disgraziato... E proprio... proprio... Dài, non pensiamoci più, il passato è passato. Parla tu, gioia, raccontami tutto con calma.»

Le riferii in breve l’avventura mentre tiravo fuori la mazzetta di banconote dalla sacca che l’uomo di Larache mi aveva appeso al collo.

Non accennai alla fuga dalla finestra, né alle urla minacciose del soldato né alle pistole abbandonate sotto il cartello della fermata di Malalien. Mi limitai a consegnarle il contenuto della sacca e mi tolsi l’haik e la camicia da notte che indossavo sotto.

«Ora puoi anche marcire all’inferno, Palomares» gridò ridendo e lanciando per aria le banconote. «Marcisci! Non sei riuscito a beccarmi!»

Di punto in bianco interruppe le urla; non aveva recuperato il senno di colpo, ma quello che aveva davanti agli occhi le impedì di continuare a manifestare il suo tripudio.

«Guarda come sei ridotta, bambina mia! Sembri il Cristo con le cinque piaghe!» esclamò di fronte al mio corpo nudo. «Ti fa molto male, tesoro?»

«Un po’» mormorai mentre crollavo a peso morto sul letto. Mentivo. La verità è che mi doleva anche l’anima.

«E sei sporca come se ti fossi rivoltata in una fogna» disse, ormai tornata del tutto in sé. «Vado a mettere sul fuoco qualche pentola d’acqua per prepararti un bel bagno caldo. Poi le pezze con l’unguento sulle ferite e dopo...»

Non sentii altro. Prima che la contrabbandiera finisse la frase mi ero addormentata.

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CAPITOLO 11 Non appena la casa fu riordinata e fummo tornati tutti alla normalità, Candelaria

cominciò a cercare un appartamento nella zona nuova per installarvi il mio atelier. L’ampliamento di Tetuàn, così diverso dalla medina araba, era stato progettato con

criteri europei per fare fronte alle necessità del Protettorato spagnolo: ospitare le istituzioni civili e militari e offrire case e attività alle famiglie della penisola che via via sceglievano il Marocco come residenza permanente. Gli edifici nuovi, con le facciate bianche, i balconi decorati e un’aria a cavallo tra lo stile moderno e quello moresco, sorgevano in vie ampie e piazze spaziose che formavano una pianta a scacchiera ricca di armonia. Vi passeggiavano signore con belle acconciature e signori con il cappello, militari in divisa, bambini vestiti all’europea e coppie di fidanzati a braccetto.

C’erano filobus e qualche automobile, confetterie, caffè nuovi di zecca e negozi raffinati e moderni. Vi regnavano l’ordine e la calma, era un mondo completamente diverso rispetto al baccano, agli odori e alle voci dei mercati della medina, che costituiva una sorta di enclave del passato, circondata da mura e aperta verso l’esterno attraverso sette porte. Tra i due spazi, quello arabo e quello spagnolo, come una specie di confine, c’era calle de La Luneta, la strada che stavo per lasciare.

Non appena Candelaria avesse trovato un appartamento per aprire l’atelier, la mia vita avrebbe avuto una nuova svolta e io mi sarei dovuta adeguare. E per prepararmi decisi di cambiare anch’io: mi sarei rinnovata completamente, disfacendomi delle vecchie zavorre e ricominciando da zero. In pochi mesi avevo chiuso la porta in faccia a tutto il mio passato; avevo smesso di essere un’umile sartina per trasformarmi, in parallelo o alternativamente, in un mucchio di donne diverse. Candidata momentanea a un posto da funzionarla, beneficiaria del patrimonio di un grande industriale, amante vagabonda di un mascalzone, illusa aspirante alla direzione della succursale di una ditta argentina, madre frustrata di un figlio mai nato, sospettata di truffa e furto, piena di debiti fino al collo e trafficante occasionale di armi camuffata da araba innocente. In un intervallo di tempo ancora più breve mi sarei dovuta costruire una nuova personalità, perché nessuna delle precedenti ormai poteva tornarmi utile. Il mio vecchio mondo era in guerra e l’amore era svanito portando con sé i miei beni e le mie illusioni. Il figlio mai nato si era sciolto in una pozza di sangue coagulato alla fermata dell’autobus, una scheda con i miei dati circolava nei commissariati di due paesi e tre città, e forse il piccolo arsenale di pistole che mi ero portata addosso aveva già spezzato qualche vita. Volevo voltare le spalle a quel bagaglio patetico e pensai di affrontare il futuro con una maschera di sicurezza e coraggio, per evitare di lasciar trasparire le mie paure, le mie miserie e la pugnalata che mi aveva trafitto l’anima.

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Decisi di cominciare dall’esterno, inaugurando un aspetto di donna mondana e indipendente che non rivelasse la mia realtà di vittima di un disgraziato, né l’oscura provenienza dei fondi per l’attività che stavo per avviare. Per farlo bisognava camuffare il passato, inventare in fretta un presente e immaginare un futuro tanto falso quanto splendido.

E bisognava farlo immediatamente; dovevo cominciare subito. Basta con le lacrime e i lamenti. Basta passare il tempo a crogiolarsi e a guardare indietro. Doveva essere tutto presente, tutto oggi. Così optai per una nuova personalità che tirai fuori dal polsino come un prestigiatore estrae una sfilza di fazzoletti o un asso di cuori. Decisi di trasformarmi e scelsi di adottare le sembianze di una donna decisa, benestante, vissuta. Mi sarei dovuta sforzare perché la mia ignoranza apparisse altezzosità, e la mia incertezza una dolce noncuranza. Perché nessuno sospettasse i miei timori, nascosti dall’andatura risoluta in equilibrio su un paio di tacchi alti e dall’aria determinata. Perché nessuno intuisse l’immenso sforzo che dovevo fare ogni giorno per vincere a poco a poco la mia tristezza.

La prima mossa fu un cambio di stile. L’incertezza degli ultimi tempi, l’aborto e la convalescenza mi avevano sottratto almeno sei o sette chili. L’amarezza e l’ospedale si erano portati via la rotondità dei fianchi, parte del volume dei seni, delle cosce, e il poco grasso che una volta avevo intorno alla vita. Non mi sforzai per recuperare quello che avevo perso, iniziavo a sentirmi bene nella nuova corporatura: un altro passo avanti. Ripescai nella memoria il modo di vestire di alcune straniere di Tangeri e decisi di adattarlo al mio esiguo guardaroba, con qualche aggiustamento e riparazione. Sarei stata meno rigida delle mie connazionali, più ammiccante, ma senza arrivare a essere indecente o procace. Toni più accesi, stoffe più leggere. I bottoni della camicetta più aperti sulla scollatura e le gonne un po’ meno lunghe. Di fronte allo specchio scheggiato della camera di Candelaria ricostruii, provai e feci miei i sensuali accavallamenti di gambe che avevo osservato ogni giorno all’ora dell’aperitivo nei dehors di Tangeri, il portamento elegante delle donne che percorrevano con classe gli ampi marciapiedi di boulevard Pasteur, e la grazia delle dita fresche di manicure che reggevano una rivista di moda francese, un Gin Fizz o una sigaretta turca con il bocchino d’avorio.

Per la prima volta dopo più di tre mesi prestai attenzione alla mia immagine e scoprii che avevo bisogno di un intervento d’emergenza. Una vicina mi depilò le sopracciglia, un’altra mi curò le mani. Ricominciai a truccarmi dopo mesi di viso acqua e sapone: scelsi matite per delineare il contorno labbra, rossetto per dipingerle, ombretti, fard, eye-liner e mascara per le ciglia. Mi feci tagliare i capelli da Jamila con le forbici da cucito, seguendo al millimetro la fotografia di una vecchia copia di “Vogue” che avevo in valigia. La folta chioma scura che mi arrivava a metà schiena cadde in ciocche sfibrate sul pavimento della cucina, come le ali di un corvo morto, finché restò una capigliatura che arrivava all’altezza delle mascelle, liscia, con la riga su un lato, che tendeva a ricadere indomita sull’occhio destro. Al diavolo quella coperta calda che affascinava tanto Ramiro. Non sapevo se il nuovo taglio mi donasse, ma mi fece sentire più fresca, più libera. Rinnovata, ormai lontana per sempre dai pomeriggi passati sotto le pale del

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ventilatore nella camera dell’hotel Continental; dalle ore eterne trascorse coperta solo dal suo corpo intrecciato al mio e dai miei folti capelli sparsi come uno scialle sulle lenzuola.

Candelaria riuscì a dare forma ai suoi propositi appena pochi giorni dopo. Per prima cosa individuò tre immobili liberi da subito per l’affitto nella zona nuova. Mi riferì di ciascuno nei particolari, esaminammo con minuzia i prò e i contro e alla fine decidemmo.

All’inizio il primo appartamento di cui Candelaria mi aveva parlato sembrava perfetto: ampio, moderno, mai abitato, vicino alla posta e al Teatro Espanol. «C’è anche la doccia con una cornetta precisa identica a un telefono, piccola, solo che, invece di sentire la voce di qualcuno che parla, ti esce un getto d’acqua che puoi puntare dove vuoi» spiegò la contrabbandiera, stupita da quel prodigio. Ma lo scartammo, perché confinava con un terreno non ancora edificato occupato da gatti scheletrici e rifiuti. La zona nuova stava crescendo, ma qua e là c’erano ancora tratti non urbanizzati. Pensammo che una posizione del genere non avrebbe fatto una buona impressione alle clienti sofisticate a cui puntavamo, quindi l’idea dell’atelier con la doccia telefonica fu scartata.

La seconda opzione si trovava nella via principale di Tetuàn, quella che allora era calle Republica, in una bella casa con torrette agli angoli vicina a plaza de Muley-el-Mehdi, che presto sarebbe stata intitolata a Primo de Rivera. A prima vista anche quel locale aveva tutti i requisiti necessari: era spazioso, signorile e senza terreni non edificati di fianco, all’incrocio fra due arterie centrali e trafficate. Di quel posto, però, ci fece paura una vicina: nell’edificio accanto risiedeva una delle migliori sarte cittadine, una modellista di una certa età dalla solida reputazione.

Soppesammo la situazione e decidemmo di scartare anche quell’appartamento: meglio non infastidire la concorrenza.

Propendemmo così per la terza alternativa. Il locale che alla fine sarebbe diventato il mio posto di lavoro e la mia residenza era un grande appartamento in calle Sidi Mandri, in un palazzo con la facciata rivestita di azulejos vicino al Casino Espanol, al pasaje Benarroch e all’hotel Nacional, non lontano da plaza de Espana, l’Alto Commissariato e il palazzo del califfo, con le sue guardie imponenti all’entrata, un dispiegamento esotico di turbanti e mantelli sontuosi che ondeggiavano al vento.

Candelaria chiuse il contratto con l’ebreo Jacob Benchimol, che a partire da quel momento, con grande discrezione, divenne il mio padrone di casa in cambio del puntuale pagamento di 375 pesetas mensili. Tre giorni dopo io, la nuova Sira Quiroga, trasformata in una donna che non ero ma che un giorno sarei anche potuta diventare, presi possesso del locale e spalancai le porte su una nuova tappa della mia vita.

«Va’ avanti» disse Candelaria consegnandomi la chiave. «E’ meglio se d’ora in poi non ci facciamo vedere troppo insieme. Ti raggiungo fra poco.»

Mi feci strada nel trambusto di calle de La Luneta, fra gli sguardi degli uomini che mi squadravano senza posa. Ne ricordavo pochissimi nei mesi precedenti, quando la mia

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immagine era quella di una ragazza insicura con i capelli raccolti in una crocchia sgraziata, che camminava pigramente trascinando i vestiti e le ferite di un passato che tentava di dimenticare. In quel momento, invece, cercavo di apparire disinvolta, sforzandomi di emanare al mio passaggio un’aura di superiorità e savoir-faire che appena una settimana prima nessuno avrebbe neanche potuto immaginare.

Sebbene cercassi di imporre alla mia andatura un ritmo controllato, non tardai più di dieci minuti a raggiungere la meta. Non avevo mai notato quell’edificio a pochi metri dalla via principale del quartiere spagnolo. Fui subito soddisfatta vedendo che riuniva tutte le caratteristiche desiderate: eccellente posizione e aspetto signorile fuori, un certo esotismo moresco negli azulejos della facciata, sobrietà europea nella disposizione interna. Le zone comuni erano eleganti e ben distribuite; la scala, senza essere troppo ampia, aveva una bella ringhiera in ferro battuto che girava con grazia attorno alle rampe.

Il portone era aperto, come tutti gli altri, in quegli anni. Immaginai che ci fosse una portinaia, ma non si fece vedere. Salii le scale con una certa inquietudine, quasi in punta di piedi, cercando di attutire il suono dei miei passi. Fuori avevo guadagnato sicurezza e prestanza, ma dentro continuavo a essere intimidita e preferivo farmi notare il meno possibile. Arrivai al piano principale senza incontrare nessuno e mi ritrovai su un pianerottolo con due porte identiche. Una a sinistra e una a destra, entrambe chiuse. La prima era quella dell’appartamento dei vicini che ancora non conoscevo. La seconda era la mia. Tirai fuori la chiave dalla borsa, la inserii nella serratura con mano tremante e girai. Spinsi timidamente il battente e per qualche secondo non osai entrare; feci scorrere lo sguardo su ciò che il varco nella porta mi permetteva di vedere. Un ampio ingresso con le pareti spoglie e il pavimento di piastrelle geometriche bianche e granata. In fondo, un corridoio. A destra, un grande salone.

Nel corso degli anni erano stati numerosi i momenti in cui il destino mi aveva riservato rotture inaspettate, sorprese e svolte inattese che avevo dovuto affrontare in fretta e furia, a mano a mano che capitavano.

A volte ero preparata; molte altre no. Ma non ero mai stata consapevole di iniziare un nuovo ciclo come in quel mezzogiorno di ottobre, quando osai finalmente oltrepassare la soglia e i miei passi risuonarono nella casa deserta e ancora priva di mobili. Mi lasciavo alle spalle un passato complesso e, come in una premonizione, mi si apriva di fronte un enorme spazio nudo che il tempo si sarebbe incaricato di riempire. Riempire di che cosa? Di oggetti e affetti. Di istanti, sensazioni e persone; di vita.

Mi diressi verso il salone in penombra. Tre balconi chiusi e protetti da imposte dipinte di verde schermavano la luce del giorno. Le aprii una per una e l’autunno marocchino entrò nella stanza a fiotti, colmando le ombre di dolci presagi.

Assaporai il silenzio e la solitudine, e rimandai l’attività per qualche minuto. In quel mentre non feci niente; mi limitai a stare in piedi al centro dello spazio vuoto,

assimilando il mio nuovo posto nel mondo. Poco dopo, quando mi parve che fosse arrivato il momento di uscire dal letargo, misi insieme una dose ragionevole di decisione

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e mi attivai. Con il vecchio atelier della signora Manuela come riferimento, girai tutto l’appartamento e suddivisi mentalmente le zone. Avrei accolto le clienti nel salone; sarebbe servito per presentare le idee, guardare i figurini, scegliere le stoffe e le fogge e ricevere gli ordini. La stanza più vicina al salone, una specie di sala da pranzo con un balcone d’angolo, sarebbe diventata la sala prove. Una tenda a metà del corridoio avrebbe separato la zona pubblica dal resto dell’appartamento. Il tratto successivo di corridoio e le stanze corrispondenti avrebbero costituito la zona di lavoro: il laboratorio, il magazzino, la stireria, il deposito degli abiti finiti e dei tentativi, tutto quello che poteva starci. Il terzo tratto, in fondo alla casa, più buio e meno presentabile, sarebbe stato per me. Lì avrebbe trovato spazio il mio vero io, la donna addolorata in esilio forzato, piena di dubbi, domande e insicurezze; con una valigia mezzo vuota come unico capitale e una madre sola in una città lontana che lottava per resistere; una donna consapevole che il prezzo di quell’attività era stato il trasporto di un mucchio di pistole. Quello sarebbe stato il mio rifugio, il mio spazio intimo. Fuori di lì cominciava il territorio pubblico della sarta arrivata dalla capitale spagnola per allestire la più straordinaria casa di moda che si fosse mai vista nel Protettorato.

Tornai nell’ingresso e sentii che qualcuno bussava alla porta con le nocche. Aprii immediatamente, sapevo chi era. Candelaria entrò strisciando come un grosso lombrico.

«Che te ne pare, bambina? Ti piace?» chiese ansiosa. Per l’occasione si era agghindata; indossava uno dei vestiti che le avevo cucito io, un paio di scarpe ereditate da me, più piccole di due numeri, e aveva un’acconciatura elaborata, fatta in fretta e furia dall’amica Remedios.

Sotto l’ombretto steso in modo maldestro, i suoi occhi scuri brillavano di un entusiasmo contagioso. Quello era un giorno speciale anche per la contrabbandiera, l’inizio di qualcosa di nuovo e inaspettato. L’attività che stava per partire era la prima e unica scommessa seria di tutta la sua vita tormentata. Forse la nuova tappa avrebbe compensato la fame patita nell’infanzia, le botte ricevute dal marito e le continue minacce sentite per tanti anni sulle bocche dei poliziotti. Aveva passato tre quarti della sua esistenza a trafficare, a tramare astuzie, a fuggire in avanti in un braccio di ferro con la cattiva sorte; forse era arrivato il momento di sedersi e riposare.

Non risposi subito alla domanda sull’appartamento; prima la guardai negli occhi per qualche istante, pensando a tutto ciò che quella donna aveva significato per me da quando il commissario mi aveva scaricata a casa sua come chi lascia un pacco scomodo.

La guardai in silenzio e, inaspettatamente, alla sua immagine si sovrappose quella di mia madre. Dolores e la contrabbandiera avevano ben poco in comune. Mia madre era tutta rigore e temperanza e Candelaria, in confronto, pura dinamite. Il loro modo di essere, la morale e la maniera in cui affrontavano le prove del destino erano del tutto diversi, ma per la prima volta vidi una certa affinità fra le due. Entrambe, anche se ognuna alla sua maniera e nel suo mondo, appartenevano a una stirpe di donne coraggiose e combattive, capaci di farsi largo nella vita con il poco che la sorte riservava loro. Mi sarei battuta perché quell’attività prosperasse, e l’avrei fatto per me e per loro,

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per tutte noi. «Mi piace molto» risposi alla fine, sorridendo. «E’ perfetto, Candelaria: non avrei

potuto immaginare un posto migliore.» Ricambiò il sorriso e mi diede un pizzicotto sulla guancia, entrambi carichi di affetto

e di una saggezza vecchia come il mondo. Sapevamo entrambe che da allora in avanti sarebbe stato tutto diverso. Avremmo continuato a vederci, certo, ma solo di tanto in tanto e con discrezione. Avremmo smesso di vivere sotto lo stesso tetto, non avremmo più presenziato insieme alle liti intorno alla tavola; non avremmo sparecchiato dopo cena e non avremmo sussurrato di notte nella mia misera stanza. Le nostre strade erano sul punto di dividersi, certo. Ma sapevamo entrambe che, fino alla fine dei nostri giorni, saremmo state unite da qualcosa di cui nessuno ci avrebbe mai sentite parlare.

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CAPITOLO 12 In meno di una settimana mi ero sistemata. Spronata da Candelaria, organizzai gli

spazi e ordinai i mobili, gli strumenti e gli attrezzi. Pensava lei a ogni cosa, sfoderando ingegno e banconote, disposta a giocarsi tutto in

quell’affare ancora nebuloso. «Parla, tesoro, io non ho mai visto una sartoria di lusso in vita mia e non ho idea del

materiale che serve per un’attività del genere. Se non avessimo questa maledetta guerra sul groppone, potremmo andarcene a Tangeri a comprare meraviglie francesi a Le Palais du Mobilier e magari anche mezza dozzina di mutandine a La Sultana; ma siamo a Tetuàn, abbiamo le mani legate e non voglio che ti associno troppo a me, quindi facciamo che tu chiedi le cose e io mi ingegno per procurartele tramite i miei contatti. Forza, figlia mia, dacci dentro: dimmi cosa devo cercare e da dove vuoi che cominciamo.»

«Prima di tutto pensiamo al salone. Deve rappresentare l’immagine della casa, dare un’impressione di eleganza e buon gusto» dissi richiamando alla mente la sartoria della signora Manuela e tutte le case signorili che avevo visto quando consegnavo i suoi abiti. Anche se l’appartamento di Sidi Mandri, costruito su misura per la piccola Tetuàn, era assai meno raffinato e meno grande delle case ricche di Madrid, il ricordo dei vecchi tempi sarebbe stato un punto di riferimento per dare forma al presente.

«E cosa ci mettiamo?» «Un divano meraviglioso, quattro belle poltrone, un grande tavolo al centro e due o

tre più piccoli di appoggio. Tendoni damascati per i balconi e un grande lampadario. Per il momento basta. Poche cose, ma di classe e di ottima qualità.»

«Non so bene dove troverò tutta questa roba, ragazzina. A Tetuàn non ci sono negozi così lussuosi, ma lascia che ci pensi un po’; ho un amico che fa il trasportatore e magari riesco a farmi portare qualcosa...

Senti, non preoccuparti, in qualche modo me la cavo. Se qualcosa è di seconda o terza mano ma di buona qualità va bene lo stesso, vero? Sembrerà una casa con una tradizione. Continua a ordinare, bambina.»

«Figurini, riviste di moda straniere. La signora Manuela ne aveva a bizzeffe; quando diventavano vecchie ce le regalava e io me le portavo a casa; le sfogliavo senza stancarmi mai.»

«Anche queste saranno difficili da trovare: da quando c’è stato l’alzamiento le frontiere sono chiuse e da fuori arriva poco e niente.

Ma fa lo stesso, conosco uno che ha un salvacondotto per Tangeri, provo a vedere se può farmi il favore di portarmene un po’; poi mi presenterà il conto, ma ci penseremo

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quando sarà il momento...» «Speriamo di essere fortunate. E faccia in modo che siano tante e delle migliori.»

Ricordai i nomi di alcune riviste che ero solita comprare io stessa a Tangeri negli ultimi tempi, quando Ramiro cominciava a disinteressarsi di me. Per notti intere mi ero rifugiata in quei disegni e in quelle foto. «Le americane “Harper’s Bazaar”, “Vogue” e “Vanity Fair”, la francese “Madame Figaro”» aggiunsi. «Tutte quelle che trova.»

«Avanti, altre cosette.» «Uno specchio a tre ante per la sala prove. E un altro paio di poltrone. E una panca foderata per appoggiare gli abiti.» «Altro.» «Stoffe. Al massimo un metro dei tessuti migliori da usare come campionario; niente

rotoli interi finché non vediamo come si mettono le cose.» «Le stoffe più belle si trovano a La Caraquena; quelle della burrakia che vendono gli

arabi vicino al mercato non le prendiamo, sono molto meno eleganti. Vedo anche cosa riescono a procurarmi gli indiani della calle de La Luneta, che si danno molto da fare e hanno sempre qualche sorpresa speciale nel retrobottega. E hanno ottimi contatti con la zona francese, magari anche da lì possiamo tirar fuori qualcosina di interessante. Vai avanti, bellezza.»

«Una macchina da cucire, una Singer americana, se possibile. Quasi tutto il lavoro si fa a mano, ma è bene averla. Anche un buon ferro da stiro e un’asse. E un paio di manichini. Al resto degli strumenti ci penso io in un attimo, mi dica solo dov’è la merceria migliore della città.»

Ci eravamo organizzate così. Io ordinavo e Candelaria, nelle retrovie, ricorreva instancabilmente alle sue arti di faccendiera per ottenere quello di cui avevamo bisogno. A volte le cose arrivavano di nascosto e a orari strani, coperte e portate da uomini dal volto olivastro. A volte le consegne avvenivano alla luce del sole, sotto gli occhi dei passanti.

Arrivarono mobili, decoratori ed elettricisti; ricevetti pacchi, strumenti di lavoro, e ci furono tantissime altre consegne di ogni genere. Immersa nella mia nuova immagine di donna di mondo disinvolta e piena di fascino, dall’alto dei miei tacchi supervisionai il processo dall’inizio alla fine. Con l’aria decisa, le ciglia coperte di mascara e le mani impegnate a ravviarmi i nuovi capelli corti, affrontai come si deve gli imprevisti che si presentavano e mi feci conoscere tra i vicini. Tutti mi salutavano con discrezione ogni volta che ci incrociavamo sulla porta o per le scale. Al pianoterra c’erano una cappelleria e un tabaccaio; al primo piano, di fronte a me, vivevano una signora anziana vestita a lutto e un uomo giovane e robusto con gli occhiali che doveva essere suo figlio. Sopra di me c’erano due famiglie con un mucchio di bambini, che cercavano di curiosare il più possibile per sapere qualcosa della futura vicina.

Nel giro di qualche giorno era tutto pronto: ora bisognava solo riuscire a farci qualcosa. Ricordo come fosse oggi la prima notte che trascorsi li, sola e intimorita; riuscii a dormire solo per pochi minuti. Era ancora presto quando udii gli ultimi rumori

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domestici negli appartamenti vicini: un bimbo che piangeva, una radio accesa, la madre e il figlio della porta accanto che discutevano a voce alta, il cozzo delle stoviglie e l’acqua che usciva dal rubinetto mentre qualcuno lavava i piatti di una cena finita tardi. A mano a mano che calava la notte, i rumori reali tacquero per lasciare posto ad altri suoni, immaginari: mi sembrava che i mobili scricchiolassero più del dovuto, sentivo dei passi sulle piastrelle del corridoio e le pareti appena dipinte mi apparivano piene di ombre in agguato. Il primo raggio di sole non era ancora filtrato in casa quando mi alzai, certa che non avrei retto quell’ansia neanche per un secondo ancora. Mi diressi verso il salone, aprii le imposte e mi affacciai ad aspettare l’alba. Dal minareto di una moschea risuonò la chiamata al fajr, la prima preghiera del giorno. Per strada non c’era ancora nessuno e il massiccio del Gorgues, che si intravedeva nella penombra, prese a stagliarsi maestoso con le prime luci del mattino. A poco a poco, pigramente, la città si mise in movimento. Le domestiche arabe cominciarono ad arrivare avvolte nei loro haik e nei loro scialli. Alcuni uomini uscivano per andare al lavoro e diverse donne velate di nero, a due a due, a tre a tre, camminavano svelte verso la messa mattutina. Non arrivai a vedere i bambini che andavano a scuola; e non vidi nemmeno i negozi e le officine che aprivano, né le domestiche che uscivano per andare a comprare churros, né le madri di famiglia dirette al mercato per scegliere i prodotti che i marocchini avrebbero consegnato a casa in cesti caricati sulla schiena. Rientrai nel salone e mi sedetti sul mio divano in taffettà granata nuovo di zecca. A fare cosa? Ad aspettare che finalmente la fortuna girasse.

Jamila arrivò presto. Ci scambiammo un sorriso nervoso, era il nostro primo giorno insieme. Candelaria mi aveva ceduto i suoi servizi e le ero grata per il gesto: ci eravamo molto affezionate e quella ragazza sarebbe stata una grande alleata per me, una sorella minore. «Io mi trovo una Fatima in due minuti, tu prenditi Jamila, che è una bravissima ragazza, vedrai come ti darà una mano.» Quindi la dolce Jamila venne con me, contenta di liberarsi del duro lavoro alla pensione e cominciare una nuova attività lavorativa con la sua segnorina, che le avrebbe consentito di vivere una giovinezza meno faticosa.

Arrivò Jamila, quindi, ma dopo di lei non arrivò nessuno. Né il primo giorno né il secondo, e nemmeno quello successivo. Quelle tre mattine aprii gli occhi ben prima dell’alba e mi preparai con identica cura. I vestiti e l’acconciatura impeccabili, la casa linda; le riviste di moda con le donne eleganti che sorridevano in copertina, gli strumenti ordinati nel laboratorio: tutto perfetto al millimetro, in attesa che qualcuno richiedesse i miei servigi. Ma sembrava che nessuno fosse intenzionato a farlo.

A volte sentivo dei rumori, passi, voci sulle scale. Allora correvo in punta di piedi alla porta e guardavo con ansia dallo spioncino, ma non erano mai per me. Con l’occhio appiccicato alla fessura rotonda vidi passare bambini chiassosi, signore di fretta e padri con il cappello, domestiche cariche, ragazzi delle consegne, la portinaia con il suo grembiule, il postino che tossiva e un’infinità di altre comparse. Ma non si presentò nessuno per ordinare un abito al mio atelier.

Ero in dubbio se avvisare Candelaria o continuare ad aspettare con pazienza. Rimasi

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nell’incertezza per un giorno, due, tre, fino a perdere quasi il conto delle giornate che passavano. Alla fine mi decisi: sarei andata in calle de La Luneta e le avrei chiesto di intensificare i contatti, di ricorrere a tutti gli espedienti necessari per informare le potenziali clienti che l’attività era avviata. Se la contrabbandiera non fosse riuscita a fare qualcosa, di quel passo la nostra impresa comune sarebbe morta prima di nascere. Ma non ebbi modo di andare a sollecitare il suo intervento: quella mattina, finalmente, il campanello suonò.

«Guten Morgen. Mi chiamo Frau Heinz, sono appena arrivata a Tetuàn e ho bisogno di qualche vestito.»

La ricevetti con un tailleur che mi ero cucita pochi giorni prima. Blu mare, gonna stretta a tubo, giacca sciancrata senza camicetta sotto e con il primo

bottone posizionato con precisione per non rendere indecente una scollatura ardita ma molto elegante. Come unico ornamento, una lunga catena d’argento al collo, da cui pendeva un paio di forbici antiche dello stesso metallo; erano troppo vecchie per tagliare, ma le avevo trovate nella bottega di un antiquarie mentre cercavo una lampada e avevo subito deciso di aggiungerle alla mia ultima, immagine.

La nuova arrivata mi guardò negli occhi di sfuggita mentre si presentava: sembrava più preoccupata di valutare il livello della sartoria per verificare che fosse all’altezza delle sue esigenze.

Servirla fu facile: dovevo solo immaginare di non essere io, ma la signora Manuela reincarnata in una straniera affascinante e competente.

Ci sedemmo in poltrona nel salone, lei con il suo atteggiamento deciso, vagamente maschile, mentre io mettevo in pratica il modo di accavallare le gambe provato mille volte. Con le poche parole che conosceva mi disse quello che le serviva. Due tailleur, due abiti da sera. E un completo per giocare a tennis.

«Non c’è problema» mentii. Non avevo la minima idea di come potesse essere un completo da tennis, ma non

avrei riconosciuto la mia ignoranza neppure di fronte a un plotone d’esecuzione. Consultammo le riviste ed esaminammo le fogge. Per gli abiti da sera scelse due modelli disegnati da due grandi stilisti di quegli anni, Marcel Rochas e Nina Ricci, trovati fra le pagine di una pubblicazione francese che presentava tutta l’alta moda della stagione autunno-inverno 1936. Le idee per gli abiti da giorno le prese dall’Harper’s Bazaar” americano: due modelli della maison Harry Angelo, che non avevo mai sentito nominare, anche se mi guardai bene dal rivelarlo apertamente. Soddisfatta del mio dispiegamento di riviste, la tedesca si sforzò per chiedermi nel suo spagnolo rudimentale dove le avessi trovate. Feci finta di non capire: se avesse saputo dei traffici della mia socia contrabbandiera, la mia prima cliente sarebbe scappata seduta stante e non l’avrei più rivista. Poi passammo alla scelta delle stoffe.

Tirai fuori i campionari forniti da diversi negozi e le mostrai un ricco assortimento, descrivendo il colore e la qualità di ciascun tessuto.

La decisione fu relativamente veloce. Chiffon, velluto e organze per la sera; flanella e

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cachemire per il giorno. Del modello e del tessuto per il completo da tennis non parlammo: mi sarei ingegnata quando sarebbe arrivato il momento. La visita durò un’ora abbondante. Nel frattempo Jamila, con un caffettano turchese e i suoi occhioni neri sottolineati dal kohl, comparve silenziosa con pasticcini arabi e tè dolce alla menta, serviti su un vassoio brunito. La tedesca accettò con piacere, e con un sorriso complice appena percettibile comunicai la mia gratitudine alla domestica. Annotai senza difficoltà i dati su un quaderno foderato in pelle: la versione cosmopolita della signora Manuela in cui mi ero trasformata si stava rivelando utilissima. Ci accordammo per la prima prova dopo cinque giorni e ci salutammo con modi squisiti. «Arrivederci, Frau Heinz, grazie per la visita.» «Arrivederci, Fràulein Quiroga, a presto.» Non appena chiusi la porta, mi tappai la bocca con la mano per trattenere un urlo di gioia e irrigidii le gambe per non scalpitare come un puledro selvaggio. Se avessi potuto reagire a briglia sciolta, avrei dato libero sfogo all’entusiasmo: la nostra prima cliente era caduta nella rete, e non sarei più tornata indietro.

Nei giorni successivi lavorai mattina, pomeriggio e sera. Era la prima volta che confezionavo capi del genere da sola, senza la supervisione e l’aiuto di mia madre o della signora Manuela. Concentrai nell’impresa tutti e cinque i sensi moltiplicati per cinquantamila ma, nonostante l’attenzione, la paura di sbagliare mi accompagnò in ogni passaggio.

Scomposi mentalmente i modelli delle riviste e quando le illustrazioni non bastavano affinai l’immaginazione e intuii quello che non riuscivo a vedere. Segnai le stoffe con il gessetto e tagliai i pezzi con timore e precisione equivalenti. Assemblai, disassemblai e tornai ad assemblare.

Imbastii, cucii, montai, smontai e rimontai i modelli su un manichino finché il risultato mi parve soddisfacente. La moda era cambiata parecchio da quando avevo cominciato a muovermi in quel mondo di fili e stoffe. Nel momento in cui ero entrata nella sartoria della signora Manuela, a metà degli anni Venti, predominavano le linee ampie, le vite basse e le gonne longuette per il giorno, le tuniche languide dal taglio netto e una squisita semplicità per la sera. Gli anni Trenta avevano portato gonne più lunghe, vite strette, tagli di sbieco, spalline segnate e silhouette voluttuose. La moda cambiava come cambiavano i tempi, e con loro le esigenze della clientela e l’arte delle sarte. Ma riuscii a adattarmi: mi sarebbe piaciuto che la facilità con cui mi adeguavo ai capricci delle tendenze parigine si estendesse anche al resto della mia vita.

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CAPITOLO 13 I primi giorni furono frenetici. Lavoravo senza sosta e mi avanzava pochissimo

tempo, appena sufficiente per una breve passeggiata al calar della sera. Di solito incrociavo qualche vicino: la madre e il figlio della porta accanto che camminavano a braccetto, due o tre bambini dell’appartamento di sopra che scendevano le scale di corsa e qualche signora preoccupata di arrivare a casa in tempo per organizzare la cena familiare. Solo un’ombra offuscò l’attività della prima settimana: quel maledetto completo da tennis. Finché mi decisi a mandare Jamila a La Luneta con un biglietto. «Ho bisogno di riviste con modelli da tennis.

Anche vecchie, fa lo stesso.» «Segnora Candelaria dire che Jamila tornare domani.» E Jamila il giorno seguente andò alla pensione e tornò con una pila di riviste che

reggeva a fatica tra le braccia. «Segnora Candelaria dire che segnorina Sira guardare queste riviste prima» annunciò

con dolcezza nel suo spagnolo incerto. Era paonazza per la fretta, piena di energia, e sprigionava entusiasmo. In qualche modo mi ricordava me durante i primi anni passati nella sartoria di calle

Zumbrano, quando il mio compito consisteva semplicemente nel correre avanti e indietro per fare commissioni e consegne, quando giravo per le vie agile e spensierata come un giovane gatto di strada, perdendomi dietro a qualunque piccola distrazione che mi permettesse di strappare qualche minuto all’ora del rientro, rimandando il momento di tornare prigioniera fra quattro mura. Avvertivo la nostalgia in agguato con le sue sferzate, ma riuscii a schivarne i colpi in tempo e ad allontanarmi con un movimento deciso: avevo imparato a coltivare l’arte della fuga ogni volta che sentivo avvicinarsi la minaccia della malinconia.

Mi buttai ansiosa sulle riviste. Erano tutte vecchie, molte consumate, alcune addirittura senza copertina. Poche di moda, la maggior parte rotocalchi. Qualcuna francese, in gran parte spagnole o del Protettorato: “La Esfera”, “Bianco y Negro”, “Nuevo Mundo”, “Marruecos Grafico”, “Ketama”. Diversi fogli avevano un’orecchia, forse Candelaria aveva già scorso i giornali e mi aveva segnato qualche pagina. Li aprii e la prima cosa che vidi non era quello che cercavo. In una fotografia due signori imbrillantinati e vestiti interamente di bianco si stringevano la mano sopra una rete con le racchette nell’altra. Nella pagina seguente un gruppo di signore elegantissime applaudiva la consegna di un trofeo a un altro tennista maschio. Mi accorsi allora che nel biglietto per Candelaria non avevo specificato che il completo da tennis doveva essere femminile. Stavo per chiamare Jamila perché tornasse a La Luneta, quando lanciai un

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urlo di gioia. Nella terza pagina segnata c’era proprio quello che cercavo. Un ampio servizio mostrava una tennista con un maglione chiaro e una specie di gonna divisa, a metà fra la solita gonna e un pantalone largo: non avevo mai visto niente di simile in vita mia e molto probabilmente neanche la maggioranza dei lettori della rivista, a giudicare dall’attenzione particolareggiata che le foto dedicavano alla tenuta da tennis.

Il testo era in francese e lo capii a malapena, ma alcune informazioni saltavano all’occhio ripetutamente: la tennista Lili Alvarez, la stilista Elsa Schiaparelli, un posto chiamato Wimbledon. Presto però la soddisfazione di avere trovato uno spunto su cui lavorare fu offuscata dall’inquietudine. Chiusi la rivista e mi soffermai a esaminarla. Era vecchia, ingiallita. Cercai la data: 1931. Mancava il retro della copertina, i bordi erano macchiati di umidità, alcune pagine erano state strappate.

Cominciai a preoccuparmi. Non potevo mostrare quel rudere alla tedesca per chiederle un parere sul completo; avrei rovinato la mia falsa immagine di ricercata professionista all’ultima moda. Camminai avanti e indietro per la casa, nervosamente, cercando una soluzione, una strategia: qualunque cosa potesse servirmi per affrontare l’imprevisto.

Dopo aver fatto ticchettare i tacchi sulle piastrelle del corridoio varie decine di volte, l’unica idea che mi venne fu copiare il modello e tentare di spacciarlo per una mia proposta originale, ma non avevo la minima nozione di disegno e il risultato sarebbe stato così maldestro da abbassare di vari punti la mia presunta fama. Incapace di calmarmi, decisi di ricorrere ancora a Candelaria.

Jamila era uscita: le poche faccende da sbrigare in casa le consentivano spesso momenti di pausa, impensabili nelle giornate di duro lavoro alla pensione. Decisa a recuperare il tempo perduto, la ragazza ne approfittava per scendere continuamente in strada con la scusa di piccole commissioni: «Segnorita volere Jamila va a comprare semi di girasole? Sì?». Prima di ottenere una risposta era già sulle scale e trotterellava in cerca di semi di girasole, pane o frutta, o solo di aria e libertà. Strappai le pagine della rivista, le misi in borsa e decisi di andare io stessa in calle de La

Luneta, ma quando arrivai non trovai la contrabbandiera. In casa c’era solo la nuova domestica indaffarata in cucina e il maestro accanto alla finestra, tormentato da una forte tosse. Mi salutò con simpatia.

«Guarda guarda, sembra proprio che la vita ci vada bene, da quando abbiamo cambiato nido» disse ironizzando sul mio nuovo aspetto.

Non feci quasi caso alle sue parole: avevo altre priorità. «Sa mica dove può essere Candelaria, signor Anselmo?» «Non ne ho la minima idea, figliola; sai che passa le giornate spostandosi qua e là,

come la coda di una lucertola.» Intrecciai nervosamente le dita. Dovevo trovarla, mi serviva una soluzione. Il maestro

capì che ero inquieta. «C’è qualcosa che non va, ragazzina?» Ero disperata e decisi di chiedere a lui.

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«Lei sa disegnare bene, per caso?» «Io? Non so neanche tenere una matita in mano. Al di fuori del triangolo equilatero

sono perduto.» Non avevo la minima idea di cosa mi parlasse, ma non era così importante: fatto sta

che nemmeno il mio vecchio compagno di pensione poteva aiutarmi. Continuai a tormentarmi le dita e mi affacciai al balcone per vedere se Candelaria tornava. Guardando la strada affollata di gente, battevo nervosamente i tacchi senza rendermene conto. Alle mie spalle sentii la voce del vecchio repubblicano.

«Se mi dici cosa ti serve, magari posso aiutarti.» Mi girai. «Ho bisogno di qualcuno che disegni bene per copiare dei modelli da una rivista.» «Vai alla scuola di Bertuchi.» «Di chi?» «Bertuchi, il pittore.» L’espressione sul mio viso rivelò la mia ignoranza. «Ragazzina, sei a Tetuàn da mesi e non conosci ancora il maestro Bertuchi? Mariano

Bertuchi, il grande pittore del Marocco.» Non sapevo chi fosse quel Bertuchi e non mi interessava affatto. Volevo solo trovare

in fretta una soluzione al mio problema. «Potrebbe disegnare quello che mi serve?» chiesi ansiosa. Il signor Anselmo scoppiò in una risata seguita da un attacco di tosse. Il conto che gli presentavano i tre pacchetti quotidiani di sigarette Toledo era ogni

giorno più salato. «Ma che dici, Sira, figliola. Credi che un grande pittore come lui si metta a disegnare i

tuoi modelli? Mariano Bertuchi è un artista, vive immerso nella sua pittura, è impegnato a conservare l’arte tradizionale di questa terra e a diffondere l’immagine del Marocco al di là delle frontiere, non è un qualunque ritrattista su incarico. Alla sua scuola però troverai un mucchio di gente che può darti una mano; giovani pittori con poco lavoro, ragazze e ragazzi che seguono le lezioni per imparare a dipingere.»

«E dov’è la scuola?» chiesi mentre mi mettevo il cappello e prendevo in fretta la borsa.

«Vicino a Puerta de la Reina.» Probabilmente lo stupore dipinto sul mio volto lo commosse, perché dopo una risata

roca e un altro colpo di tosse si alzò con grande sforzo dalla poltrona e aggiunse: «Dài, andiamo, ti accompagno».

Uscimmo da calle de La Luneta ed entrammo nella mellah, il quartiere ebraico; mentre percorrevamo le vie strette e ordinate ricordavo in silenzio i giri senza meta durante la notte delle pistole. Ma alla luce del sole appariva tutto diverso, con i negozietti e i cambiavalute aperti. Ci inoltrammo poi nelle viuzze arabe della medina, nell’intricato labirinto in cui facevo ancora fatica a orientarmi.

Nonostante i tacchi alti e la gonna stretta cercavo di trottare svelta sul selciato. Ma l’età e la tosse impedivano al signor Alfonso di tenere il mio passo. L’età, la tosse e i

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commenti ininterrotti sull’uso del colore e della luce nei dipinti di Bertuchi, sui suoi oli, acquerelli e chine, e sull’attività del pittore come promotore della scuola d’arte indigena e della scuola superiore di Belle Arti.

«Hai mai spedito una lettera in Spagna da Tetuàn?» chiese. Avevo mandato qualche lettera a mia madre, ovviamente. Ma, visti i tempi, dubitavo

molto che fossero arrivate a destinazione a Madrid. «Be’, tutti i francobolli del Protettorato sono riproduzioni di suoi disegni. Immagini di

Alhucemas, Alcazarquivir, Xauen, Larache, Tetuàn. Paesaggi, persone, scene di vita quotidiana: tutto uscito dai suoi pennelli.» Continuavamo a camminare, lui parlava e io forzavo il passo e ascoltavo. «E le insegne e i manifesti per promuovere il turismo, non hai visto nemmeno quelli?

Non credo che in questi giorni funesti qualcuno abbia voglia di venire a visitare il Marocco, ma per anni l’arte di Bertuchi si è incaricata di diffondere le bellezze di questa terra.»

Sapevo a quali manifesti si riferiva, erano appesi in molti posti, li vedevo ogni giorno. Erano stampe di Tetuàn, Letama, Arcila e altre località dei paraggi. Sotto c’era la scritta “Protettorato della Repubblica spagnola in Marocco”. Presto il nome sarebbe cambiato.

Arrivammo a destinazione dopo una bella camminata in mezzo a uomini e mercati, capre e bambini, giacche, gellabe, aromi di coriandolo e menta, pane appena sfornato e olive condite; di vita, insomma, a fiotti. La scuola era al limitare della città, in un edificio che faceva parte di una vecchia fortezza arroccata sulle mura. Intorno c’era poco movimento, giovani che entravano e uscivano, alcuni soli, altri riuniti a chiacchierare; alcuni con grandi cartelline sotto braccio, altri no.

«Siamo arrivati. Ti lascio qui; approfitto della passeggiata per bermi un vinello con degli amici che vivono alla Suica; ultimamente esco poco e devo sfruttare al massimo ogni scappatella.»

«E come torno?» chiesi insicura. Non avevo prestato la minima attenzione al percorso tortuoso; pensavo che il maestro mi avrebbe accompagnato anche sulla strada del ritorno.

«Non preoccuparti, uno qualunque di questi ragazzi sarà lieto di aiutarti. Buona fortuna per i tuoi disegni, poi mi dirai com’è andata.»

Lo ringraziai per avermi accompagnato, salii le scale ed entrai nell’edificio. Notai diversi sguardi che si posavano su di me; a quei tempi la presenza di donne come me nella scuola non doveva essere troppo frequente. Mi spinsi fino a metà dell’atrio e mi fermai; ero a disagio, mi sentivo persa, non sapevo che fare né a chi chiedere. Non ebbi il tempo di pensare al passo successivo perché sentii una voce alle mie spalle.

«Ma guarda chi si vede, la mia bella vicina di casa!» Mi voltai senza avere idea di chi potesse aver pronunciato quelle parole e vidi il mio

giovane dirimpettaio. Ce l’avevo proprio davanti, e per una volta era da solo. Con diversi chili in più e abbastanza capelli in meno per gli anni che aveva, probabilmente meno di trenta. Non mi lasciò neanche parlare. Gliene fui grata, non avrei saputo che

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dire. «Sembra un po’ disorientata. Posso aiutarla?» Era la prima volta che mi rivolgeva la parola. Anche se ci eravamo incrociati varie

volte da quando ero arrivata, lo avevo sempre visto in compagnia della madre. Durante quegli incontri avevano mormorato entrambi poco più di un cortese buonasera. Conoscevo anche un altro tono della sua voce decisamente meno piacevole: quello che sentivo quasi ogni sera, quando madre e figlio si dilungavano fino alle ore piccole in discussioni accalorate e tumultuose. Decisi di parlare chiaro: non avevo in mente alcun sotterfugio e in quel momento non avrei avuto il tempo di pensarci.

«Ho bisogno di qualcuno che mi faccia dei disegni.» «E posso sapere che tipo di disegni le servono?» Il suo tono non era insolente, soltanto curioso. Curioso, diretto e lievemente affettato.

Da solo sembrava molto più spigliato che in presenza della madre. «Ho delle foto di qualche anno fa e voglio che qualcuno mi disegni dei figurini sulla

base di quelle immagini. Come saprà, sono una sarta. I figurini sono per un modello che devo cucire a una cliente; ma prima devo mostrarglielo per avere la sua approvazione.»

«Ha con sé le foto?» Annuii. «Me le fa vedere? Magari posso aiutarla io.» Mi guardai intorno. Non c’era tanta gente, ma abbastanza per sentirmi a disagio al

pensiero di mostrare i ritagli delle riviste. Non fu necessario dirglielo, lo capì da solo. «Usciamo?» Una volta in strada tirai fuori le vecchie pagine dalla borsa. Gliele porsi senza parlare

e lui le guardò con attenzione. «Schiaparelli, la musa dei surrealisti, molto interessante. Mi appassiona il

surrealismo... a lei?» Non avevo la minima idea di cosa mi stesse chiedendo e moltissima fretta di risolvere

il mio problema, quindi cambiai discorso senza rispondere alla domanda. «Conosce qualcuno che può farmeli?» Mi guardò dietro gli occhiali da miope e sorrise senza dischiudere le labbra. «Che ne dice di me?» Mi portò i bozzetti quella sera stessa; non immaginavo che avrebbe fatto così in fretta.

Ero già pronta per andare a letto, in camicia da notte e con una vestaglia di velluto confezionata per ammazzare il tempo durante i giorni vuoti trascorsi ad aspettare la prima cliente. Avevo appena finito di cenare su un vassoio in salone, dove erano rimasti gli avanzi del mio pasto frugale: un grappolo d’uva, un pezzo di formaggio, un bicchiere di latte, qualche biscotto. Era tutto silenzioso e spento, eccetto una lampada a stelo in un angolo. Erano quasi le undici di sera e il campanello mi sorprese; mi avvicinai in fretta allo spioncino, curiosa e spaventata allo stesso tempo. Quando vidi chi era tirai il chiavistello e aprii.

«Buonasera, cara. Spero di non disturbarla.»

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«Non si preoccupi, ero ancora alzata.» «Ho qualcosa per lei» annunciò lasciandomi intravedere i cartoncini che teneva dietro

la schiena. Non me li porse, li tenne seminascosti aspettando la mia reazione. Per qualche

secondo dubitai se invitarlo a entrare a quell’ora insolita. Lui, nel frattempo, se ne stava impassibile sulla soglia, con il suo lavoro lontano dalla

mia vista e un sorriso apparentemente inoffensivo stampato in faccia. Capii il messaggio. Non intendeva mostrarmi neanche un centimetro dei disegni

finché non lo avessi fatto accomodare. «Prego, entri» dissi alla fine. «Grazie, grazie» sussurrò con dolcezza, senza nascondere la soddisfazione di avere raggiunto il suo

obiettivo. Indossava una camicia e un paio di pantaloni, e sopra una giacca da camera di feltro. Con i soliti occhialini. E i modi un po’ affettati.

Esaminò l’ingresso con sfacciataggine ed entrò nel salone senza aspettare che lo invitassi a farlo.

«La sua casa mi piace moltissimo. Ariosa e molto chic.» «Grazie, mi sto ancora sistemando. Può farmi vedere quello che mi ha portato, per

favore?» Il vicino non ebbe bisogno che dicessi altro; capì che se l’avevo fatto entrare a

quell’ora non era certo per sentire i suoi commenti sul mio arredamento. «Ecco le cosette che mi ha chiesto» disse mostrandomi finalmente i disegni che aveva

nascosto fino a quel momento. Tre cartoncini a matita e pastelli mostravano da diverse angolazioni e pose una

modella stilizzata in modo quasi irreale, che sfoggiava una gonna stramba che in realtà non era una gonna. Probabilmente il mio viso rifletté all’istante la soddisfazione.

«Mi sembra di capire che le piacciono» disse con una punta di orgoglio malcelato. «Moltissimo.» «Quindi li tiene?» «Certo. Mi ha tolto dai guai. Mi dica quanto le devo, per favore.» «Mi basta un grazie: è il mio regalo di benvenuto. Mamma dice che bisogna essere

educati con i vicini, anche se lei le piace solo così così. Credo che la trovi troppo spregiudicata e un po’ frivola» osservò con ironia.

Sorrisi e mi parve che una lievissima corrente di sintonia ci unisse per un istante; appena un soffio d’aria che se ne andò com’era venuto quando sentimmo la genitrice che gridava dalla porta semiaperta il nome del figlio.

«Fééééééé-lix!» Strascicava la e tirandola come l’elastico di una fionda. Una volta tesa al massimo la prima sillaba, sparava con forza la seconda. «Fééééééé-lix!» ripeté. Lui alzò gli occhi al cielo e fece un’espressione di disperazione esagerata.

«Non può vivere senza di me, poveretta. Vado.» La voce stridula della madre lo reclamò per la terza volta con quella vocale iniziale

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allungata all’infinito. «Ricorra pure a me quando vuole; sarò felice di farle altri disegni, tutto quello che

viene da Parigi mi fa impazzire. Torno in cella. Buonanotte, cara.» Chiusi la porta e contemplai a lungo i disegni. Erano davvero bellissimi, non avrei potuto immaginare un risultato migliore. Anche

se non erano opera mia, quella sera andai a dormire con un sapore dolce in bocca. Il giorno dopo mi alzai presto; aspettavo la cliente alle undici per le prime prove, ma

volevo sistemare alcuni particolari prima del suo arrivo. Jamila non era ancora tornata dal mercato, ma sicuramente stava per farlo. Alle undici meno venti suonò il campanello; pensai che la tedesca fosse in anticipo. Indossavo il vestito blu mare della volta prima: avevo deciso di metterlo per ricevere le clienti come se fosse una tenuta di lavoro, elegante nella sua semplicità. In quel modo sottolineavo la mia professionalità senza rivelare la penuria di abiti autunnali che c’era nel mio armadio. Ero pettinata, truccata alla perfezione, con le forbici d’argento antiche appese al collo. Mi mancava un ultimo tocco: il travestimento da donna vissuta. Lo indossai in fretta e andai ad aprire con disinvoltura. Mi cadde il mondo addosso.

«Buongiorno, signorina» disse la voce togliendosi il cappello. «Posso entrare?» Deglutii. «Buongiorno, commissario. Certo, si accomodi, prego.» Lo feci entrare nel salone e lo invitai a sedersi. Si avvicinò a una poltrona senza fretta,

come se fosse occupato a osservare la stanza mentre camminava. Posò lentamente lo sguardo sugli elaborati stucchi del soffitto, sulle tende damascate e il grande tavolo in mogano cosparso di riviste straniere. Sul lampadario antico di cristallo, bello e scenografico, trovato da Candelaria chissà dove, in cambio di chissà quanti soldi e quali loschi traffici. Avevo le pulsazioni accelerate e lo stomaco sottosopra.

Alla fine si accomodò e io mi sedetti di fronte a lui, in silenzio, aspettando che parlasse e cercando di dissimulare l’inquietudine per la sua visita inaspettata.

«Vedo che le cose vanno a gonfie vele.» «Faccio quello che posso. Ho cominciato a lavorare; sto giusto aspettando una

cliente.» «Che cosa fa, di preciso?» chiese. Conosceva benissimo la risposta, ma per qualche

ragione voleva che gliene parlassi io stessa. Mi sforzai di usare un tono neutro. Non volevo che mi vedesse intimorita o che

cogliesse un’aria colpevole, ma non intendevo neppure apparire la donna sicura di sé e decisa che non ero, come lui sapeva benissimo, più di chiunque altro.

«Cucio, sono una sarta» dissi. Non replicò. Si limitò a guardarmi con i suoi occhi penetranti e aspettò altre

spiegazioni. Gliele sgranai stando dritta sul bordo del divano, senza sfoggiare neanche un barlume del sofisticato campionario di pose provate mille volte per costruire la mia nuova personalità. Non accavallai le gambe in modo spettacolare. Non mi ravviai i

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capelli con brio. E non sbattei le ciglia. Mi sforzai di trasmettere solo compostezza e calma.

«Cucivo già a Madrid; lo faccio da una vita. Ero impiegata nell’atelier di una sarta molto rinomata, mia madre era una sua lavorante. Ho imparato tanto lì: era una casa di moda di gran classe e cucivamo per signore importanti.»

«Capisco. Un impiego onorevole. E per chi lavora adesso, si può sapere?» Deglutii di nuovo. «Per nessuno, per me stessa.» Aggrottò le sopracciglia fingendosi stupito. «E posso chiederle come ha fatto ad aprire questa attività da sola?» Il commissario sapeva essere inquisitorio fino alla morte e duro come l’acciaio, ma

prima di tutto era un signore e formulava le domande con estrema cortesia. Una cortesia condita da una sfumatura di sarcasmo che non si sforzava di nascondere. Era molto più rilassato rispetto alle visite in ospedale. Non era così teso, a disagio. Peccato che io non fossi in grado di fornirgli risposte adeguate alla sua eleganza.

«Mi hanno prestato i soldi» dissi solo. «Ma che fortuna» ironizzò. «E potrebbe essere così gentile da dirmi chi è stata la

persona generosa che le ha fatto questo favore?» Credevo che non ci sarei riuscita, ma la risposta mi uscì di bocca di getto, immediata.

Immediata e sicura. «Candelaria.» «Candelaria la contrabbandiera?» chiese con un lieve sorriso per metà sarcastico e per

metà incredulo. «Proprio lei, signore.» «Bene, molto interessante. Non sapevo che di questi tempi i traffici rendessero tanto.» Mi guardò di nuovo con quei suoi occhi affilati come coltelli e seppi che il mio

destino era esattamente in bilico fra la sopravvivenza e la rovina. Come una moneta lanciata in aria che ha le stesse probabilità di cadere sul lato della testa o su quello della croce. Come un funambolo maldestro sul filo, che ha il cinquanta per cento di possibilità di cadere a terra e le stesse di rimanere brillantemente in aria. Come una palla da tennis lanciata dalla modella disegnata dal mio vicino di casa, una palla sbagliata lanciata da una tennista gracile vestita da Elsa Schiaparelli: una palla che, invece di passare nell’altro campo, per pochi secondi eterni resta in equilibrio sulla rete prima di ricadere su uno dei due lati, incerta se assegnare il punto alla tennista glamour abbozzata dai tratti a matita o alla sua anonima avversaria. Da un lato la salvezza, dall’altro il crollo; e io in mezzo. Mi vidi così, di fronte al commissario Vàzquez in quella mattina d’autunno, quando la sua presenza venne a confermare i miei peggiori presagi. Chiusi gli occhi, inspirai dal naso. Poi li aprii e dissi: «Senta, signor commissario: lei mi ha consigliato di lavorare ed è quello che sto facendo. Questa è un’attività onesta, non una copertura temporanea di traffici illeciti.

Lei è ben informato su di me: sa perché sono qui, conosce i motivi che hanno

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provocato la mia rovina e le circostanze che mi impediscono di andarmene. Ma non sa da dove vengo e dove voglio andare, e adesso, se mi concede un minuto, glielo dirò. Vengo da una famiglia modesta: mia madre era nubile e mi ha cresciuta da sola. Dell’esistenza di mio padre, quel padre che mi ha dato il denaro e i gioielli che hanno contribuito alla mia sfortuna, non sapevo niente fino a qualche mese fa. Non ho mai saputo nulla di lui finché un giorno, all’improvviso, ha capito che lo avrebbero ucciso per motivi politici e, facendo un bilancio del passato, ha deciso di riconoscermi e di lasciarmi parte della sua eredità. Fino ad allora, però, non conoscevo neppure il suo nome e non mi ero potuta godere neanche un centesimo delle sue ricchezze. Per questo ho cominciato a lavorare quando non ero più alta di un soldo di cacio: all’inizio il mio contributo alla sartoria si limitava a qualche commissione e a spazzare il pavimento in cambio di quattro soldi, visto che ero ancora una bambina; avevo l’età delle ragazzine in uniforme della scuola La Milagrosa passate per strada poco fa; forse una era sua figlia diretta a scuola, quel mondo di suore, calligrafia e declinazioni latine che non ho mai conosciuto perché dovevo imparare un mestiere e guadagnarmi da vivere. Ma lo feci con piacere, non creda: amavo cucire e avevo una buona mano, quindi imparai, mi sforzai, perseverai e con il tempo diventai una brava sarta. E se un giorno ho lasciato il lavoro, non è stato certo per capriccio, ma perché le cose a Madrid si erano complicate: data la situazione politica, molte clienti erano scappate all’estero, l’atelier aveva chiuso e non si trovava lavoro. Non sono mai andata in cerca di guai, commissario; quello che mi è successo nell’ultimo anno, tutti i delitti in cui sono implicata, a quanto pare, non sono stati commessi per mia volontà, e lei lo sa bene, ma perché una persona indesiderabile un brutto giorno si è messa sulla mia strada. Non può neanche immaginare cosa darei per cancellare il momento in cui quel farabutto è entrato nella mia vita, ma non posso tornare indietro, e i suoi problemi ora sono diventati miei, e so che devo uscirne a qualunque costo: ormai è una responsabilità mia e come tale me ne faccio carico. Però lei deve capire che posso uscire da questo pasticcio solo cucendo: è l’unico modo che conosco. Se lei mi chiude questa porta, se mi taglia le ali, mi rovina perché non potrò dedicarmi a nient’altro. Ci ho provato, ma non ho trovato nessuno disposto ad assumermi, perché non so fare altro. Quindi le chiedo un favore, solo uno: mi lasci andare avanti con questo atelier e non indaghi oltre. Si fidi di me, non mi rovini. L’affitto di questo appartamento e tutti i mobili sono stati pagati fino all’ultimo centesimo; non ho imbrogliato i fornitori e non devo niente a nessuno. L’unica cosa di cui questa attività ha bisogno è qualcuno che ci lavori, e io sono qui per farlo, disposta a spezzarmi la schiena notte e giorno. Mi lasci lavorare tranquillamente, non le creerò problemi, glielo giuro su mia madre, l’unica cosa che ho. Quando avrò guadagnato i soldi che devo all’albergo di Tangeri, quando avrò saldato il mio debito e la guerra sarà finita, tornerò a Madrid e non la disturberò più. Nel frattempo però, la prego, commissario, non pretenda altre spiegazioni e mi lasci continuare. Le chiedo solo questo: non mi stia con il fiato sul collo e non mi asfissi ancora prima che abbia iniziato. Se lo farà, a lei non gliene verrà niente, ma io, in compenso, perderò tutto».

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Non rispose e io non aggiunsi altro; ci guardammo a lungo negli occhi. Contro ogni aspettativa, ero riuscita ad arrivare in fondo al discorso con la voce ferma

e un’espressione serena, senza crollare. Alla fine mi ero sfogata, liberata del tarlo che mi tormentava da tanto tempo.

All’improvviso sentii una stanchezza immensa. Ero stanca di essere stata maltrattata da un disgraziato senza scrupoli, dei mesi vissuti in preda alla paura, di sentirmi costantemente minacciata. Stanca di portarmi addosso una colpa così pesante, schiacciata come le povere donne arabe che vedevo spesso camminare insieme, lente e curve, avvolte nei loro haik, trascinare i piedi trasportando sulla schiena pacchi e fascine di legna, grappoli di datteri, bambini, anfore di terracotta o sacchi di calce. Ero stanca di sentirmi intimorita, umiliata; stanca di vivere così tristemente in quella terra straniera. Stanca, stufa, sfinita, esausta e, ciò nonostante, pronta a tirare fuori le unghie e a lottare per uscire dalla mia situazione disastrosa.

Alla fine fu il commissario a rompere il silenzio. Si alzò in piedi per primo; io feci lo stesso, mi lisciai la gonna, stirai con attenzione le pieghe con le dita. Lui prese il cappello e lo fece girare tra le mani, con lo sguardo fisso. Non era più il cappello floscio estivo di qualche mese prima; era un borsalino scuro invernale, un bel cappello di feltro color cioccolato che girava fra le dita come se contenesse la chiave dei suoi pensieri. Quando smise, parlò.

«D’accordo, accetto. Se nessuno mi porta prove evidenti non indagherò sul modo in cui ha messo su tutto questo. D’ora in poi potrà lavorare e mandare avanti i suoi affari. La lascerò in pace. Speriamo che la fortuna arrivi, e che si porti via i problemi di entrambi.»

Non aggiunse altro e non aspettò che replicassi. Non appena ebbe pronunciato l’ultima sillaba, fece un cenno di saluto con il mento e si diresse verso la porta. Cinque minuti dopo arrivò Frau Heinz. Non sono mai riuscita a ricordare i pensieri che mi passarono per la testa nell’intervallo di tempo che separò le due visite. Ricordo solo che, quando la tedesca suonò il campanello e andai ad aprire, mi sentivo come se la mia anima si fosse liberata del peso di una montagna.

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SECONDA PARTE

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CAPITOLO 14 Nel corso dell’autunno arrivarono altre clienti; perlopiù erano straniere benestanti,

dunque la mia socia aveva visto giusto. Diverse tedesche. Qualche italiana. Anche alcune spagnole, quasi sempre mogli di imprenditori, visto che per l’amministrazione e l’esercito erano tempi duri. Qualche ricca ebrea sefardita, bella, che parlava uno spagnolo dolce e antico dalla cadenza diversa, che diceva hadrear per “parlare”, con il ritmo melodioso dell’haketìa, il dialetto giudaico-spagnolo, fatto di parole rare, antiquate: mi zvueno, mi reina, buena semana mos dé el Dio, ansina corno te digo que ya te conti, “tesoro, cara, speriamo che Dio ci conceda una buona settimana, come ti ho detto”.

A poco a poco l’attività cominciava a prosperare, la voce girava. Arrivarono i soldi: pesetas di Burgos, franchi francesi e marocchini, monete hassani.

Riponevo tutto in una piccola cassaforte ben protetta nel secondo cassetto del comodino. Il trenta di ogni mese consegnavo il denaro a Candelaria. In quattro e quattr’otto la contrabbandiera metteva da parte un pugno di pesetas per le spese quotidiane e con il resto delle banconote faceva un rotolo compatto che si infilava svelta nella scanalatura dei seni. Con i guadagni mensili al sicuro nelle sue carni opulente, correva nel quartiere ebraico a cercare il cambista che le proponeva la commissione più bassa. Poi tornava subito alla pensione, stanca morta e con un rotolo di sterline riposte nello stesso nascondiglio. Con il respiro ancora affannoso per la fretta, si toglieva il bottino dal seno. «Al sicuro, piccola, così sono al sicuro. Per me gli inglesi sono i più furbi. Non risparmieremo neanche una peseta di Franco, io e te, perché se i nazionalisti alla fine perdono la guerra i loro soldi non saranno buoni neanche per pulirsi il culo.» Divideva equamente: «Metà a me e metà a te. Che non ci manchino mai, tesoro mio».

Mi abituai a vivere da sola, tranquilla, senza timori. A badare alla sartoria e a me stessa. Lavoravo molto, mi concedevo poche distrazioni.

Il volume degli ordini non richiedeva altre mani e continuai senza aiutanti. L’attività era incessante, ero sempre alle prese con fili, forbici, immaginazione e ferro da stiro. A volte uscivo in cerca di stoffe, per far foderare i bottoni o scegliere i rocchetti di filo e i poussoir. Mi godevo soprattutto le uscite del venerdì: andavo nella vicina plaza de Espana - il Feddàn, come la chiamavano gli arabi - per vedere il califfo che usciva dal suo palazzo e si recava alla moschea in groppa a un cavallo bianco, sotto un parasole verde, circondato da soldati indigeni con uniformi da sogno: uno spettacolo grandioso. Ero solita camminare in quella che veniva già chiamata calle del Generalisimo, proseguivo la passeggiata fino a plaza de Muley-el-Mehdi e passavo di fronte alla chiesa di Nuestra Senora de las Victorias, la missione cattolica, piena di cordoglio e preghiere

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per la guerra. La guerra: così lontana e così presente. Le notizie su quello che avveniva dall’altro

lato dello Stretto arrivavano tramite le onde radio, i giornali, e passando di bocca in bocca. Nelle case la gente segnava con puntine colorate l’avanzata delle truppe sulle carte geografiche appese alle pareti. Io, nella solitudine della mia, mi tenevo informata su quello che stava accadendo nel mio paese. L’unico capriccio che mi permisi in quei mesi fu l’acquisto di un apparecchio radiofonico grazie al quale, prima della fine dell’anno, venni a sapere che il governo della Repubblica si era trasferito a Valencia e aveva lasciato il popolo da solo a difendere Madrid. Poi in aiuto dei repubblicani accorsero le Brigate internazionali, Hitler e Mussolini riconobbero la legittimità di Franco, José Antonio Primo de Rivera venne fucilato in un carcere di Alicante, misi insieme ottanta sterline, arrivò il Natale.

Trascorsi la prima notte di Natale africana alla pensione. Tentai di rifiutare l’invito, ma la padrona riuscì a convincermi ancora una volta con la sua veemenza travolgente.

«Tu vieni a cenare a La Luneta, punto e basta; finché Candelaria avrà un posto a tavola, nessuno passerà il Natale da solo.»

Non potei rifiutare, anche se dovetti fare uno sforzo. A mano a mano che si avvicinavano le feste, dalle fessure delle finestre e sotto le porte cominciarono a infilarsi refoli di tristezza, che finivano per riempire l’atelier di malinconia. Come stava mia madre? Come faceva fronte all’incertezza di non sapere niente di me? Come si manteneva in quei tempi durissimi? Le domande senza risposta mi aggredivano in ogni momento e accrescevano il mio malessere per giorni. L’atmosfera generale non contribuiva a tenere su l’umore: anche se i negozi sfoggiavano qualche decorazione, la gente si scambiava auguri e i bambini degli appartamenti accanto canticchiavano canzoni natalizie saltellando per le scale, c’era pochissima gioia. La consapevolezza di quello che stava accadendo in Spagna era così cupa e buia che nessuno sembrava in vena di festeggiamenti.

Quando arrivai alla pensione erano le otto passate e per strada non avevo incontrato quasi nessuno. Candelaria aveva arrostito un paio di tacchini: i primi guadagni della nuova attività avevano dato una certa prosperità alla sua dispensa. Io portai due bottiglie di vino frizzante e un formaggio olandese proveniente da Tangeri, pagato a peso d’oro.

Trovai gli ospiti sciupati, amareggiati, tristissimi. La padrona, in compenso, si sforzava di mantenere alto il morale della piccola comunità cantando a squarciagola con le maniche rimboccate mentre finiva di preparare la cena.

«Sono arrivata, Candelaria» annunciai entrando in cucina. Smise di cantare e rimescolare. «Cos’hai, si può sapere? Hai una faccia da funerale, sembri una condotta al patibolo.» «Niente, cosa dovrei avere...» dissi cercando un posto dove lasciare le bottiglie mentre

mi sforzavo di evitare il suo sguardo. Si pulì le mani con uno strofinaccio, mi prese per il braccio e mi costrinse a girarmi

verso di lei.

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«A me non la racconti, bambina. E’ per tua madre, vero?» Non la guardai e non risposi. «La prima vigilia di Natale lontano dal nido è sempre triste, ma bisogna ingoiare il

rospo, piccola. Ricordo ancora la mia, e guarda che in casa eravamo poveri come topi e passavamo tutta la notte a cantare, ballare e battere le mani, perché da mettere sotto i denti c’era ben poco. Ma il sangue è sempre il sangue, anche se con i tuoi hai diviso solo fatiche e miseria.»

Continuavo a non guardarla, fingendo di concentrarmi per trovare un buco dove posare le bottiglie in mezzo al cibo e agli strumenti che ingombravano il tavolo. Un mortaio, una pentola di minestra e un vassoio di budini. Una ciotola di olive, tre teste d’aglio, un rametto di alloro. Lei continuò a parlare, vicina, sicura.

«Ma piano piano passa tutto, vedrai. Di sicuro tua madre sta bene, stasera cenerà con i vicini e, anche se pensa a te e le manchi, sarà contenta perché almeno tu hai la fortuna di essere lontana da Madrid, lontana dalla guerra.»

Magari Candelaria aveva ragione e per mia madre la mia assenza era più una consolazione che un dolore. Forse lei mi credeva ancora con Ramiro a Tangeri, pensava che avremmo cenato in un albergo splendido, circondati da stranieri spensierati che ballavano fra una portata e l’altra, estranei alle sofferenze di chi viveva al di là dello Stretto. Avevo cercato di informarla per lettera, ma sapevamo tutti che la posta marocchina non arrivava a Madrid, e forse quella corrispondenza non era mai uscita da Tetuàn.

«Può darsi che abbia ragione lei» mormorai quasi senza staccare le labbra. Avevo ancora le bottiglie in mano e lo sguardo fisso sul tavolo, dove non ero riuscita a trovare posto per il vino. E non avevo il coraggio di guardare in faccia Candelaria, temevo di non poter trattenere le lacrime.

«Certo che ho ragione, bambina mia, non pensarci più. Anche se l’assenza è dolorosa, sapere che una figlia è lontana dalle bombe e dalle mitragliatrici è una buona ragione per essere contenta. Quindi, su, un po’ di allegria» gridò mentre mi strappava di mano una bottiglia.

«Vedrai che adesso ci rimettiamo in sesto, stellina.» L’aprì e la sollevò. «A tua madre» disse. Prima che potessi replicare, bevve un lungo sorso di spumante. «Adesso tocca a te» ordinò dopo essersi pulita la bocca con il dorso della mano. Non avevo assolutamente voglia di bere, però ubbidii: brindavamo alla salute di Dolores; avrei fatto qualunque cosa per lei.

Cominciammo a cenare ma, per quanto Candelaria si sforzasse di mantenere un umore festaiolo, gli altri parlarono poco. Non avevano neanche voglia di litigare. Il maestro tossì così forte da farci temere che gli si spezzasse lo sterno, e le sorelle rinsecchite, più rinsecchite che mai, scoppiarono in lacrime. La madre grassa sospirò, si soffiò il naso. Il vino diede alla testa al suo Paquito, che disse qualche stupidaggine; il telegrafista gli diede man forte e alla fine scoppiammo a ridere. Allora la padrona si alzò e sollevò il bicchiere sbeccato per brindare a tutti: ai presenti e agli assenti, a questi e a

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quelli. Ci abbracciammo, piangemmo e per una sera non ci furono altre fazioni oltre a quella formata da noi tutti, un battaglione di disperati.

I primi mesi del nuovo anno furono pieni di serenità e di lavoro indefesso. In quel periodo il mio vicino Felix Aranda divenne una presenza quotidiana. Oltre alla vicinanza dei nostri appartamenti, cominciò a unirmi a lui un’altra prossimità, impossibile da calcolare misurando i metri di pianerottolo che ci separavano. Il suo comportamento un po’ particolare e il mio bisogno di aiuto contribuirono a creare tra noi un rapporto d’amicizia costruito a tarda ora, che sopravvisse ai decenni e ai cambiamenti che ci toccò vivere. Dopo i primi bozzetti che avevano risolto l’inconveniente della divisa da tennis, capitarono altre occasioni in cui il figlio della signora Encarna mi diede una mano per superare ostacoli apparentemente insuperabili. A differenza della gonna pantalone di Elsa Schiaparelli, il secondo scoglio che mi costrinse a chiedergli un favore non nasceva da esigenze artistiche, ma dalla mia ignoranza in fatto di economia.

Tutto era cominciato tempo prima con un piccolo problema che non sarebbe stato tale per chiunque avesse avuto una buona istruzione. Non era certo il mio caso, visti i pochi anni passati a studiare nell’umile scuola del mio quartiere madrileno. Capitò che, alle undici di sera del giorno precedente a quello in cui dovevo consegnare il primo conto dell’atelier, scoprii che non sapevo mettere per iscritto le voci e i prezzi corrispondenti al lavoro svolto.

Era novembre. Nel pomeriggio il cielo aveva preso il colore biancastro del ventre di un’asina, e quando scese la sera cominciò a piovere forte, preludio di una tormenta proveniente dal vicino Mediterraneo; una tormenta che sradicava alberi, abbatteva i pali della luce e faceva raggomitolare le persone tra le coperte, a mormorare una raffica infervorata di litanie rivolte a santa Barbara. Appena qualche ora prima che il tempo cambiasse, Jamila aveva portato i primi capi confezionati a casa di Frau Heinz. I due abiti da sera, i due tailleur e il completo da tennis - le mie cinque prime creazioni - avevano lasciato le grucce appese nel laboratorio in attesa dell’ultima stiratura, erano stati sistemati nelle fodere di tela e consegnati in tre viaggi successivi. Il ritorno di Jamila dopo l’ultimo portò con sé la richiesta.

«Frau Heinz dire che Jamila portare domani mattina conto in marchi tedeschi.» E se il messaggio non fosse stato abbastanza chiaro, mi consegnò una busta con un

biglietto in cui me lo comunicava per iscritto. Mi sedetti a pensare come diavolo si potesse fare un conto, e per la prima volta la memoria, mia grande alleata, non fu sufficiente per levarmi dai pasticci.

Durante la preparazione dell’attività e la creazione dei primi capi, le immagini che ancora custodivo del mondo della signora Manuela mi erano servite come espediente per andare avanti. Fino a quel momento le scene memorizzate, i trucchi appresi, i movimenti e le azioni meccaniche ripetute tante volte nel corso del tempo mi avevano fornito l’ispirazione necessaria per procedere con successo. Conoscevo al millimetro il funzionamento interno di una buona casa di moda, sapevo prendere le misure, tagliare gli abiti, plissettare le gonne, montare le maniche e rinforzare i risvolti, ma per quanto

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cercassi nel catalogo di abilità e ricordi, non trovai niente che potesse servirmi da esempio per preparare un conto. Me ne erano passati in mano molti, quando cucivo ancora a Madrid e avevo l’incarico di recapitarli alle clienti; a volte ero anche tornata con l’importo in tasca. Ma non mi ero mai soffermata ad aprire quelle buste per esaminarne il contenuto nei particolari.

Pensai di ricorrere come sempre a Candelaria, ma dal balcone vidi il buio della notte, il vento impetuoso e una pioggia sferzante sempre più fitta, i lampi implacabili che si aprivano una strada sul mare. Di fronte a quello scenario, il tragitto a piedi fino alla pensione si profilava come il più scosceso dei sentieri diretti all’inferno. Così decisi di provare a sbrigarmela da sola: presi carta e matita e mi sedetti al tavolo della cucina, pronta ad affrontare l’impresa. Dopo un’ora e mezzo ero ancora lì, tra mille foglietti appallottolati, a fare per la quinta volta la punta alla matita con un coltello e senza essere riuscita a capire a quanti marchi tedeschi potessero corrispondere le 275 pesetas che volevo incassare dalla tedesca. Proprio allora, nel bel mezzo della notte, qualcosa sbatté con forza contro il vetro della finestra. Balzai in piedi così precipitosamente che feci cadere la sedia. Vidi subito che nella cucina di fronte la luce era accesa e scoprii la figura rotondetta del mio dirimpettaio Félix, con gli occhiali, i capelli radi e crespi e un braccio alzato, pronto per lanciare la seconda manciata di mandorle. Aprii la finestra arrabbiata per chiedergli spiegazioni di quel comportamento inammissibile, ma prima che potessi pronunciare una sola parola la sua voce attraversò lo spazio che ci separava. Il ticchettio fitto della pioggia sulle piastrelle del cortile interno attutì il volume; il contenuto del messaggio, però, era inequivocabile.

«Ho bisogno di ospitalità. Le tormente non mi piacciono.» Avrei potuto chiedergli se era impazzito. Avrei potuto dirgli che mi aveva fatto

prendere uno spavento terribile, gridargli che era un imbecille e chiudere la finestra senza aggiungere altro. Ma non feci niente del genere, perché all’improvviso mi si accese una lucina nel cervello: forse il suo strambo comportamento poteva rivelarsi utile.

«Puoi venire se mi aiuti» gli dissi, dandogli del tu senza pensarci. «Vai ad aprire la porta, arrivo in un attimo.» Ovviamente il mio vicino sapeva che 275 pesetas corrispondevano a 12,50

Reichsmark. E anche che non si poteva presentare un conto come si deve su un foglietto di carta scadente, scritto con una matita spuntata; quindi rientrò in casa e tornò con una risma di carta inglese color avorio e una penna stilografica Waterman che sputava tratti di inchiostro violetto tracciati con una grafia delicata. Mise nell’impresa tutto il suo ingegno, che era molto, e il suo talento, abbondante anche quello, e nel giro di mezz’ora, in mezzo ai tuoni e in pigiama, non solo riuscì a preparare il conto più elegante che le sarte europee del Nordafrica potessero immaginare, ma diede anche un nome alla mia attività. Era nata la sartoria “Chez Sirah”.

Félix Aranda era un uomo strano. Spiritoso, fantasioso e colto, certo. E curioso, e impiccione. E un tantino eccentrico, un po’ impertinente, anche. Il viavai serale dal suo

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appartamento al mio divenne un’abitudine. Non quotidiana ma costante. A volte passavamo tre o quattro giorni senza vederci, a volte veniva da me cinque sere la settimana. O sei. Addirittura sette. L’assiduità dei nostri incontri non dipendeva da noi, ma da quanto era ubriaca sua madre.

Che rapporto strano, che universo familiare oscuro quello della porta di fronte. Da quando era morto il marito e padre anni prima, la signora Encarna e Félix tiravano

avanti insieme in modo apparentemente armonioso. Passeggiavano a braccetto ogni sera fra le sei e le sette; assistevano a messe e novene,

si rifornivano di medicinali alla farmacia Benatar, salutavano i conoscenti con gentilezza e per merenda mangiavano dolci di pasta sfoglia a La Campana. Lui la colmava sempre di attenzioni, la proteggeva con affetto e si adeguava alla sua andatura: attenzione mamma che inciampi, di qui mamma, attenta, stai attenta. Lei, orgogliosa della sua creatura, sempre a decantarne le doti a destra e a manca: il mio Félix dice, il mio Félix fa, il mio Félix pensa, ah, il mio Félix, come farei senza di lui.

Eppure il pulcino sollecito e la chioccia amorevole si trasformavano in un paio di piccoli mostri non appena entravano in un territorio più intimo. Oltrepassata la soglia del loro appartamento, l’anziana indossava la divisa da tiranna ed estraeva una frusta invisibile per umiliare il figlio. Grattami la gamba, Félix, mi prude il polpaccio; no, più su, sei un buono a nulla, figlio mio, come ho potuto partorire un aborto come te; metti bene la tovaglia, è storta; non così, che è ancora peggio; rimettila com’era, rovini tutto quello che tocchi, idiota che non sei altro, avrei fatto meglio a lasciarti all’orfanotrofio; guardami in bocca e vedi se la piorrea è peggiorata, prendimi l’acqua del Carmen che mi dà sollievo dalla flatulenza, strofinami la schiena con l’alcol canforato, limami questo callo, tagliami le unghie dei piedi, fai attenzione, palla di lardo, a non tagliarmi anche il dito; passami il fazzoletto, devo soffiarmi il naso, portami un cerotto Sor Virginia per la lombaggine; lavami la testa e mettimi i bigodini, fai piano, imbecille, vuoi farmi diventare calva? Félix era cresciuto così, con una doppia vita dai risvolti tanto opposti quanto patetici. Non appena era morto il padre, il bambino adorato aveva smesso di essere tale dalla sera alla mattina: in piena crescita, senza che nessuno potesse sospettarlo, da oggetto di coccole e affettuosità in pubblico divenne il bersaglio della furia e delle frustrazioni della madre in privato. Tutte le sue illusioni furono estirpate alla radice da un colpo di falce: andarsene da Tetuàn per studiare Belle Arti a Siviglia o a Madrid, fare chiarezza nella sua sessualità confusa e conoscere persone come lui, individui dalla mentalità non convenzionale che anelavano a volare liberi. Si vide invece costretto a vivere costantemente sotto l’ala nera della signora Encarna. Finì le superiori presso i padri marianisti del Colegio del Pilar con risultati brillanti, che però non gli servirono a nulla, perché la madre aveva già fatto leva sulla propria condizione di vedova rassegnata per procurargli un grigio impiego burocratico. Stampare moduli presso l’Ufficio per le forniture e i servizi municipali: il lavoro perfetto per stroncare la creatività dell’uomo più ingegnoso e tenerlo alla catena come un cane, una volta un

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boccone di carne succulenta, un’altra un calcio micidiale nel ventre. Lui incassava i colpi con pazienza francescana. E così, in passato, lo squilibrio non

aveva subito alterazioni: lei lo tiranneggiava, e lui, docile, sopportava, resisteva. Era difficile sapere che cosa cercasse la madre in Félix, perché lo trattasse così, che cosa volesse dal figlio più di quello che era sempre stato disposto a darle. Amore, rispetto, compassione? No. Li aveva già senza doversi sforzare minimamente, perché lui era tutto meno che spilorcio negli affetti, anzi, povero Félix. La signora Encarna voleva qualcos’altro. Devozione, dedizione incondizionata, attenzione a tutti i capricci più assurdi.

Sottomissione, asservimento. Tutto quello che il marito aveva preteso da lei quando era vivo. Sospettai che si fosse liberata di lui. Félix non me lo disse mai apertamente, ma lasciò una scia di briciole di pane per mostrarmi la via, come Pollicino. Io mi limitai a seguirle e arrivai a quella conclusione. Il signor Nicasio, buonanima, era stato ucciso dalla moglie esattamente come Félix avrebbe potuto far fuori la madre in una di quelle torbide notti.

Era difficile dire fino a quando sarebbe riuscito a sopportare una vita quotidiana così miserabile, se non gli si fosse presentata una soluzione in modo del tutto inaspettato. Un ringraziamento speciale per l’efficienza nel lavoro in ufficio, un salame e un paio di bottiglie di liquore all’anice in regalo; dài, mamma, provalo, su, bevine un bicchierino, bagnati solo le labbra. Non furono solo le labbra della signora Encarna ad apprezzare il sapore dolciastro del liquore, ma anche la lingua, il palato e la gola, e il tratto intestinale, da dove gli effluvi salirono alla testa, e in quella notte alcolica Félix si trovò davanti una via di scampo. Da allora la bottiglia di liquore all’anice divenne una preziosa alleata: la sua ancora di salvezza e la via di fuga per accedere alla terza dimensione della sua vita. Non fu più solo un figlio modello davanti agli altri e uno straccio schifoso in casa; da quel giorno divenne anche un nottambulo disinibito, un profugo alla ricerca dell’ossigeno che a casa gli mancava.

«Vuoi un altro bicchierino di Anìs del Mono, mamma?» le chiedeva immancabilmente dopo cena.

«Ma sì, dài, giusto un goccio. Per schiarirmi un po’ la gola, mi sa che nel pomeriggio ho preso freddo in chiesa.»

Le quattro dita di liquido vischioso scendevano giù per il gargarozzo della signora Encarna a una velocità vertiginosa.

«Te l’ho detto mille volte, mamma, non ti copri abbastanza» proseguiva Félix in tono affettuoso, mentre riempiva di nuovo il bicchiere fino all’orlo. «Su, bevilo in fretta, vedrai che ti scaldi subito.» Dieci minuti e tre bicchieri di anisetta dopo, la signora Encarna russava semincosciente, e suo figlio scappava come una rondine dal nido, verso tuguri malfamati dove incontrava gente che alla luce del sole e in presenza della madre non avrebbe neanche osato salutare.

Dopo il mio arrivo in calle Sidi Mandri e la notte di tormenta, anche la mia casa divenne un rifugio permanente. Veniva da me a sfogliare le riviste, a suggerirmi qualche

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idea, a disegnare bozzetti e a raccontarmi aneddoti divertenti sul mondo esterno, sulle mie clienti e su tutte le persone che incontravo ogni giorno senza conoscerle. Così, una sera dopo l’altra, fui informata su Tetuàn e la sua gente: da dove provenivano le famiglie che vi abitavano e perché erano arrivate in quella terra straniera, chi erano le signore per le quali cucivo, chi aveva in mano il potere, chi il denaro, chi faceva cosa, perché, come e quando.

La devozione della signora Encarna per la bottiglia, però, non raggiungeva sempre effetti sedativi, e in quelle occasioni purtroppo la situazione degenerava. La ricetta “io ti riempio di liquore e tu mi lasci in pace” a volte non funzionava. E quando l’anisetta non riusciva a stenderla, con la sbronza arrivava anche l’inferno. Quelle serate erano le peggiori, perché la madre non raggiungeva uno stato di docile mummia, ma si trasformava in un Giove tonante, capace con i suoi muggiti di radere al suolo la dignità dell’uomo più solido. Figlio degenere, pagliaccio, disgraziato, frocio erano tra gli insulti più leggeri che le uscivano di bocca. Lui sapeva che i postumi della sbronza avrebbero cancellato ogni traccia di memoria, e sfoderando la mira infallibile di un lanciatore di coltelli le rispondeva con insulti altrettanto indecorosi. Strega schifosa, zoccola, porca, pezzo di baldracca. Che scandalo, mio Dio, se li avessero sentiti gli amici con cui andavano in pasticceria, dal farmacista o in chiesa. Il giorno dopo, però, tutto sembrava sepolto sotto il peso dell’oblio; la cordialità tornava a regnare di nuovo sulla passeggiata serale, come se tra loro non ci fosse mai stata la benché minima tensione. Oggi per merenda vuoi una cioccolata con panna, mamma, o preferisci una sfoglia ripiena di carne? Quello che vuoi tu, Félix, amore mio; sai sempre quello che è meglio per me, dài, sbrighiamoci, che dobbiamo andare a fare le condoglianze a Maria Angustias, ho saputo che il nipote è morto nella battaglia del Jarama; che tristezza, angelo mio, meno male che sei figlio di madre vedova e non possono chiamarti alle armi; Madonna mia, come farei da sola, con il mio bambino al fronte? Félix era abbastanza intelligente da capire che quella relazione era morbosa, ma non abbastanza coraggioso da tagliare i ponti con lei. Forse per questo evadeva dalla sua triste realtà facendo diventare la madre un’alcolizzata a poco a poco, e scappava come un vampiro all’alba o rideva delle proprie miserie mentre attribuiva il comportamento della megera a mille cause ridicole e valutava i rimedi più assurdi. Uno dei suoi modi per divertirsi consisteva nello scoprire stranezze e soluzioni negli annunci pubblicitari dei giornali, sdraiato sul divano del mio salone mentre io rifinivo un polsino o impunturavo l’ultimo occhiello della giornata.

Mi diceva cose come questa: «Pensi che il problema di quell’idra di mia madre sia di origine nervosa? Magari questo glielo risolve. Senti un po’: “Nervional. Stimola l’appetito, facilita la digestione, regolarizza l’intestino. Elimina gli sbalzi d’umore e la depressione. Scegliete Nervional, fidatevi”».

O questa: «Per me i guai di mamma sono dovuti a un’ernia. Pensavo di regalarle una fascia ortopedica, così magari le passa anche il cattivo umore. Senti qui: “Herniado. Evitate pericoli e fastidi con l’insuperabile e innovativo compressore automatico, una meraviglia meccanico-scientifica che senza lacci, tiranti e altre seccature eliminerà

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totalmente i dolori”. Magari funziona, che ne dici, bellezza, gliene compro uno?». O quest’altra: «E se risulta che dipende dal sangue? Senti cosa dice qui: “Depurativo Richelet. Problemi circolatori. Varici e piaghe. Purifica il sangue. Efficace nell’eliminazione dei veleni urici”». O qualunque stupidaggine del genere: «Se fossero le emorroidi? E se ha il malocchio?

E se cerco un santone nel quartiere arabo per farle un incantesimo? A dire il vero non dovrei preoccuparmi tanto, perché mi sa che le tendenze darwiniane finiranno per corroderle il fegato e l’ammazzeranno in poco tempo: una bottiglia le dura al massimo un paio di giorni; di questo passo la vecchia mi manderà in rovina». Interruppe il proclama, forse in attesa di una replica che però non arrivò.

Perlomeno, non a parole. «Perché fai quella faccia, dolcezza?» aggiunse. «Perché non capisco di cosa parli, Félix.» «Non sai che cosa intendo con “tendenze darwiniane”? E non sai neanche chi è

Darwin, vero? Quello delle scimmie, quello della teoria secondo cui l’uomo discende dai primati. Dico che mia madre ha tendenze darwiniane perché si scola l’Anis del Mono, che ha la scimmia sull’etichetta, hai capito? Ragazza mia, hai uno stile divino e cuci come un angelo, ma quanto a cultura generale sei un po’ asina, o sbaglio?»

In effetti era così. Sapevo di poter imparare facilmente cose nuove e trattenere i dati in testa, ma ero consapevole anche delle lacune nella formazione che mi portavo dietro. Le mie conoscenze enciclopediche erano alquanto scarse: poco più del nome di un pugno di re ripetuti a memoria, e il fatto che la Spagna confina a nord con il mar Cantabrico e i monti Pirenei che la separano dalla Francia. Sapevo urlare a squarciagola le tabelline ed ero veloce con i numeri nelle operazioni pratiche, ma in vita mia non avevo letto neanche un libro e per quanto riguarda la storia, la geografia, l’arte o la politica non avevo altre nozioni all’infuori di quelle assorbite durante la convivenza con Ramiro, e dai diverbi tra i sessi alla pensione di Candelaria. In apparenza potevo fare la figura della giovane donna di classe e della creatrice di moda sofisticata, ma sapevo benissimo che se qualcuno si fosse preso la briga di raschiare sotto la superficie avrebbe scoperto subito la mia fragilità. Durante quel mio primo inverno a Tetuàn, però, Félix mi fece uno strano regalo: cominciò a istruirmi.

Ne valse la pena. Per entrambi. Per me, che imparai e divenni più raffinata. Per lui, che con i nostri incontri poté riempire le sue ore solitarie di affetto e compagnia. Ma nonostante le intenzioni encomiabili, il mio vicino era ben lungi dall’essere un docente convenzionale. Félix Aranda aspirava a diventare uno spirito libero ma passava quattro quinti della sua vita costretto fra due poli: il dispotismo della madre e il tedio avvilente del più burocratico dei lavori, quindi nelle ore di libertà che si guadagnava a fatica ci si poteva aspettare da lui di tutto tranne che ordine, misura e pazienza.

Per trovarli sarei dovuta tornare in calle de La Luneta, per farmi stilare dal maestro Anselmo un piano didattico commisurato alla mia ignoranza. In ogni caso, anche se Félix non fu un insegnante metodico e organizzato, mi istruì con lezioni incoerenti e

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sconclusionate che alla lunga, in un modo o nell’altro, si rivelarono utili per muovermi nel mondo. Grazie a lui acquisii familiarità con personaggi come Modigliani, Scott Fitzgerald e Joséphine Baker, imparai a distinguere il cubismo dal dadaismo, seppi che cos’era il jazz, imparai a individuare le capitali europee su una carta geografica, memorizzai i nomi dei cabaret e degli hotel migliori e arrivai a contare fino a cento in inglese, francese e tedesco.

E grazie a Félix scoprii la funzione dei miei connazionali in quella terra lontana. Venni a sapere che la Spagna esercitava il protettorato sul Marocco dal 1912, pochi anni dopo la firma del Trattato di Algeciras con la Francia, secondo il quale, come succede ai parenti poveri, alla patria spagnola, in confronto ai ricchi francesi, era toccata la zona peggiore del paese, la meno prospera, la meno ambita. La “briciola d’Africa”, la chiamavano. La Spagna nutriva varie ambizioni: rivivere il sogno imperiale, partecipare al festino coloniale africano e alla spartizione della torta fra le nazioni europee, anche a costo di accontentarsi degli avanzi delle grandi potenze; voleva tornare di nuovo perlomeno al polpaccio della Francia e dell’Inghilterra, dopo che Cuba e le Filippine le erano sfuggite di mano e quando la pelle di toro valeva quanto uno scarafaggio.

Consolidare il controllo sul Marocco non era stato facile, anche se la zona assegnata dal Trattato di Algeciras era poco estesa, la popolazione locale scarsa e la terra aspra e povera. Era costato rifiuti e rivolte interne in madrepatria, migliaia di morti spagnoli e africani nella cruenta follia della brutale guerra del Rif. Ma gli spagnoli ci erano riusciti: avevano assunto il comando e quasi venticinque anni dopo l’istituzione ufficiale del Protettorato, fiaccata ogni resistenza interna, erano ancora lì, con la loro capitale stabile e in continua crescita. Militari di ogni grado, funzionari di poste, dogane e opere pubbliche, revisori di conti, dipendenti di banca. Impresari e matrone, maestri, farmacisti, giuristi e impiegati. Commercianti, falegnami.

Medici e suore, lustrascarpe, osti. Famiglie intere che attiravano altre famiglie con la prospettiva di buoni stipendi e di un futuro da costruire nella convivenza con altre culture e religioni. E fra tutti questi c’ero anch’io, una dei tanti. In cambio della presenza imposta per un quarto di secolo, la Spagna aveva offerto al Marocco la modernizzazione delle infrastrutture, della sanità e dei cantieri, e i primi passi verso un modesto miglioramento in ambito agricolo. E una scuola di arti e mestieri tradizionali. Oltre a tutto quello che le popolazioni locali potevano ottenere con le attività destinate a soddisfare i colonizzatori: la rete elettrica, l’acqua potabile, le scuole e le accademie, i negozi, il trasporto pubblico, gli ambulatori e gli ospedali, il treno che univa Tetuàn a Ceuta, quello per la spiaggia di Rio Martin. La Spagna, in termini materiali, non aveva ottenuto granché dal Marocco: le risorse da sfruttare erano poche e scarse. In termini umani, invece, negli ultimi tempi aveva ottenuto un contributo importante per una delle due fazioni in guerra: erano migliaia i soldati delle forze indigene marocchine che in quei giorni lottavano come belve sull’altro lato dello Stretto per la causa dell’esercito ribelle, a loro estranea.

Oltre a queste e altre conoscenze, Félix mi diede qualcosa in più: compagnia, amicizia

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e idee per la mia attività. Alcune si rivelarono eccellenti e altre assolutamente eccentriche, ma almeno, alla fine della giornata, riuscivano a strappare una risata a due anime solitarie. Per quanto ci abbia provato, non mi convinse mai a trasformare il mio atelier in uno studio di sperimentazione surrealista di copricapi a forma di scarpa, o a realizzare bozzetti con modelle che avevano un telefono per cappello. Non mi persuase neanche a usare le conchiglie al posto delle perline, o cordicelle in vita, o a non accettare come clienti le signore prive di glamour.

In altre cose, però, gli diedi retta. Grazie a lui, per esempio, cambiai modo di parlare. Eliminai dal mio spagnolo

madrileno i modi di dire popolari e le espressioni colloquiali e creai un nuovo stile per apparire più sofisticata. Cominciai a infilare nelle conversazioni parole o espressioni in francese che avevo sentito pronunciare di continuo nei locali di Tangeri, rubate al volo da conversazioni a cui non avevo quasi mai partecipato, e durante gli incontri con persone con le quali non ero mai riuscita a scambiare più di tre frasi. Erano pochi modi di dire, cinque o sei, ma lui mi aiutò a migliorare la pronuncia e a individuare i momenti più opportuni per usarli. Erano tutti destinati alle mie clienti, presenti e future.

Dovevo chiedere il permesso per appuntare gli spilli dicendo vous permettez? E confermare dicendo voilà tout ed elogiare i risultati con un très chic. Dovevo parlare di maisons de haute couture di cui un tempo avevo conosciuto i proprietari, e di gens du monde, che magari avevo incontrato durante i miei viaggi in giro per il globo. A tutti gli stili, modelli e accessori proposti avrei applicato l’etichetta verbale à la française; le signore sarebbero state tutte madame. Per assecondare l’atmosfera patriottica del momento, decidemmo che con le clienti spagnole avrei menzionato opportunamente persone e luoghi conosciuti ai vecchi tempi, quando avevo accesso alle migliori case di Madrid. Avrei infilato con noncuranza nella conversazione nomi e titoli come chi lascia cadere un fazzoletto: con leggerezza, senza eccessi e senza ostentazione. Quel vestito si ispirava al modello che un paio d’anni prima una mia amica, la marchesa de Puga, aveva indossato alla festa del circolo di polo della Puerta de Hierro; quella stoffa era identica a quella sfoggiata alla festa delle debuttanti dalla figlia maggiore dei conti del Encinar, nel loro palazzo di calle Velàzquez.

Dietro suggerimento di Félix ordinai una targa dorata per la porta, con l’iscrizione in corsivo Chez Sirah - Grand Couturière. Ordinai anche una scatola di biglietti color avorio alla Papelera Africana, con il nome e l’indirizzo dell’atelier. Era così, secondo lui, che si chiamavano le più prestigiose case francesi di allora. La h finale era un altro tocco dei suoi per dare alla sartoria un sapore più internazionale, disse. Lo assecondai, perché no? In fin dei conti quella piccola folie de grandeur non faceva male a nessuno. Gli diedi retta in questo e mille altri particolari grazie ai quali, come in una piroetta da grande circo, non imparai solo a muovermi con maggiore sicurezza in vista del futuro, ma riuscii anche, abracadabra, a estrarre un passato dal cilindro. Non dovetti sforzarmi molto: con tre o quattro pose, pochi accenni mirati e qualche raccomandazione del mio pigmalione personale, nel giro di un paio di mesi la mia clientela ancora ridotta si

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preoccupò di costruirmi una vita intera. Per la piccola compagnia di signore raffinate che costituiva la mia clientela in

quell’universo di espatriati, divenni una giovane sarta d’alta moda, figlia di un milionario in rovina, fidanzata con un aristocratico bellissimo ma un po’ seduttore e avventuriero. In teoria avevamo vissuto insieme in diversi paesi ed eravamo stati costretti a chiudere l’atelier e le attività di Madrid spaventati dall’incertezza politica. In quel momento il mio promesso sposo si occupava di fiorenti imprese in Argentina, mentre io aspettavo il suo ritorno nella capitale del Protettorato, perché i medici mi avevano consigliato quel clima, adatto alla mia salute delicata. La mia vita era sempre stata vivace, movimentata e mondana, ero incapace di stare senza far niente, quindi avevo deciso di aprire una piccola sartoria a Tetuàn. Fondamentalmente per divertirmi. Ecco perché i miei prezzi non erano esorbitanti e non rifiutavo determinati ordini.

Non smentii mai di una virgola l’immagine creata grazie ai pittoreschi suggerimenti del mio amico Félix. Non fu necessario assecondarla: mi limitai semplicemente a lasciare un po’ di suspense, ad alimentare le incognite e a diventare meno concreta, più vaga: un ottimo espediente per suscitare la curiosità morbosa delle clienti e acquisirne di nuove.

Se le lavoranti della sartoria della signora Manuela mi avessero visto... Se mi avessero visto le vicine di plaza de la Paja, se mi avesse visto mia madre... Mia madre. Cercavo di pensare a lei il meno possibile, ma il suo ricordo mi tormentava di continuo. Sapevo che era forte e risoluta; sapevo che era in grado di resistere. Ma non vedevo ugualmente l’ora di avere sue notizie, di sapere in che modo se la cavava giorno dopo giorno, come tirava avanti senza compagnia e senza lavoro.

Volevo informarla che stavo bene, che ero di nuovo sola, che avevo ripreso a cucire. Mi tenevo al corrente sentendo la radio, e ogni mattina Jamila scendeva sotto casa dal tabaccaio Alcaraz a comprare “La Gaceta de Africa”. Le prime pagine recavano già titoli come “Secondo anno trionfale sotto l’egida di Franco”. E anche se l’attualità era filtrata dalla fazione nazionalista, più o meno riuscivo a intuire la situazione di Madrid e della sua resistenza. Ma era ancora impossibile ricevere notizie dirette di mia madre. Quanto mi mancava, quanto avrei dato per condividere tutto con lei in quella città estranea e luminosa, se solo avessimo potuto aprire la sartoria insieme, se avessi potuto gustare di nuovo le sue pietanze, ascoltare i suoi pareri, sempre azzeccati... Ma Dolores non era lì e io sì. Fra gente sconosciuta, senza la possibilità di tornare, combattendo per sopravvivere mentre mi inventavo un’esistenza impostata su cui poggiare i piedi al risveglio ogni mattina; e perché nessuno venisse a sapere che un viveur senza scrupoli mi aveva spezzato il cuore, e che l’attività grazie alla quale riuscivo a mangiare tutti i giorni era stata aperta grazie a un mucchio di pistole.

Ricordavo spesso anche Ignacio, il mio primo fidanzato. Non mi mancava la sua vicinanza fisica; la presenza di Ramiro era stata così violenta e intensa che la sua al confronto, dolce e lieve, mi sembrava ormai un ricordo remoto e indistinto, un’ombra quasi svanita. Ma non potevo fare a meno di ripensare con nostalgia alla sua lealtà, alla

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sua tenerezza e alla certezza che al suo fianco non mi sarebbe mai capitato qualcosa di doloroso. E molto più spesso di quanto avrei voluto venivo aggredita all’improvviso dal ricordo di Ramiro, che arrivava come una pugnalata rabbiosa nelle viscere. Faceva male, certo che faceva male. Faceva malissimo, eppure mi abituai a conviverci, come chi porta un grande peso: mi trascinavo dietro un fardello immenso, ma anche se rallentava la mia andatura e mi richiedeva uno sforzo maggiore non m’impediva di proseguire il cammino.

Tutte quelle presenze invisibili - Ramiro, Ignacio, mia madre, le cose perdute e passate - si trasformarono in compagnie più o meno evanescenti, più o meno intense, con cui dovetti imparare a convivere.

Mi aggredivano quando ero da sola, nei pomeriggi di lavoro in laboratorio, fra cartamodelli e imbastiture, a letto quando andavo a dormire, nella penombra del salone nelle serate che passavo senza Félix, impegnato nelle sue avventure clandestine. Durante il resto della giornata in genere mi lasciavano in pace: forse intuivano che ero troppo occupata per dare retta ai ricordi. Un’attività da mandare avanti e una personalità falsa da costruire erano già abbastanza per me.

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CAPITOLO 15 Con la primavera la mole di lavoro aumentò. Il tempo cambiava e le mie clienti

chiedevano modelli leggeri per le mattinate serene e le future serate dell’estate marocchina. Si presentarono facce nuove, un altro paio di tedesche, diverse ebree. Grazie a Félix riuscii a farmi un’idea più o meno precisa di tutte. Di solito le incrociava nell’androne o per le scale, sul pianerottolo o in strada quando entravano o uscivano dal portone. Le riconosceva, dava loro un’identità; si divertiva a cercare scampoli d’informazione qua e là per mettere insieme il loro profilo quando gli mancava qualche particolare: chi erano loro e le loro famiglie, dove erano dirette, da dove venivano. Più tardi, nei momenti in cui abbandonava la madre crollata sulla poltrona, con gli occhi persi e un filo di bava liquorosa che le colava dalla bocca, mi esponeva il risultato delle indagini che aveva condotto.

In quel modo venni a sapere, per esempio, alcuni dettagli su Frau Langenheim, una tedesca che presto divenne una cliente assidua. Il padre era stato ambasciatore italiano a Tangeri e la madre era inglese, ma lei aveva preso il cognome del marito, un ingegnere minerario anziano, alto, calvo, membro autorevole della piccola ma influente colonia tedesca del Marocco spagnolo: a quanto mi disse Félix, era uno dei nazisti che, in modo inatteso e lasciando di stucco i repubblicani, aveva ottenuto direttamente da Hitler il primo aiuto esterno per l’esercito ribelle, appena pochi giorni dopo l’’alzamiento. Mi ci volle del tempo per capire come il comportamento dell’altero marito della mia cliente si fosse rivelato cruciale per la piega che aveva assunto la guerra civile, ma alla fine venni a sapere che, grazie a Langenheim e a Bernhardt, un altro tedesco residente a Tetuàn, con una moglie per metà argentina per la quale avrei cucito qualche volta, le truppe di Franco, senza averlo previsto e nel giro di pochissimo tempo, avevano messo insieme un arsenale di aiuti militari grazie ai quali erano riuscite a trasportare i loro uomini sulla penisola. Mesi dopo, in segno di gratitudine e riconoscimento per il contributo significativo del marito, la mia cliente avrebbe ricevuto dal califfo la più alta distinzione conferita nella zona del Protettorato, e io l’avrei vestita di seta e organza per l’evento.

Molto prima di quella cerimonia ufficiale Frau Langenheim arrivò all’atelier una mattina di aprile, in compagnia di una persona che ancora non conoscevo. Suonò il campanello e ad aprirle fu Jamila; io aspettavo in salone, fingendo di esaminare la trama di un tessuto alla luce diretta del sole che entrava dai balconi. In realtà non stavo osservando proprio niente; avevo adottato quella posa per ammantarmi di un’aria professionale al momento di ricevere la cliente.

«Ho portato con me un’amica inglese perché veda le sue creazioni» disse la moglie del tedesco mentre entrava nella stanza con passo sicuro.

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Accanto le comparve una donna bionda magrissima, che aveva l’aria di non essere un prodotto nazionale neppure lei. Calcolai che dovesse avere più o meno la mia età ma, a giudicare dalla disinvoltura con cui si muoveva, poteva tranquillamente avere alle spalle mille vite come la mia. Notai la sua freschezza spontanea, la sicurezza sconcertante che emanava e l’eleganza priva di smancerie con cui mi salutò, sfiorandomi le dita con le sue mentre si scostava dal viso un’onda di capelli con un gesto deciso. Si chiamava Rosalinda Fox; aveva la pelle così chiara e sottile che sembrava carta per avvolgere i pizzi, e uno strano modo di parlare nel quale termini di lingue diverse si confondevano in una cadenza stravagante, a volte un po’ incomprensibile.

«Ho bisogno con urgenza di un guardaroba, so... I believe che io e lei saremo costrette... err... to understand each other. A capirci, I mean» disse concludendo la frase con una risatina.

Frau Langenheim rifiutò l’invito a sedersi con un «Ho fretta, cara, devo andare via subito». Nonostante il cognome e il miscuglio di origini, parlava uno spagnolo fluente.

«Rosalinda, cara, ci vediamo nel pomeriggio al cocktail del console Leonini» disse salutando l’amica. «Bye, sweetie, bye, ciao, ciao.»

Io e la nuova arrivata ci sedemmo e seguii il protocollo di tante altre prime visite: diedi fondo al mio repertorio di pose ed espressioni, sfogliammo qualche rivista ed esaminammo le stoffe. La consigliai e lei scelse; poi riconsiderò la decisione, la corresse e scelse di nuovo. La sua elegante naturalezza mi fece sentire a mio agio accanto a lei fin dall’inizio. A volte l’artificiosità del mio comportamento mi affaticava, soprattutto quando avevo di fronte clienti particolarmente esigenti. In quel caso non era così: l’incontro fu privo di tensioni e non ci furono richieste esagerate.

Passammo alla sala prove e presi le misure - le più piccole che avessi mai annotato - delle sue ossa sottili da gatto. Continuammo a parlare di stoffe e fogge, di maniche e scollature; rivedemmo un’altra volta i capi scelti, lei confermò e io presi nota. Uno chemisier in seta stampata, un completo in fresco lana rosa corallo e un modello da sera ispirato all’ultima collezione di Lanvin. Le fissai un appuntamento dopo dieci giorni e pensai che l’incontro fosse concluso. Ma la nuova cliente decise che non era ancora arrivato il momento di andarsene, e rimanendo seduta sul divano tirò fuori un astuccio di tartaruga e mi offrì una sigaretta. Fumammo con calma guardando qualche modello e mi spiegò i suoi gusti in quella lingua da forestiera. Indicava le immagini e mi chiedeva come si diceva ricamo, come si diceva spallina, come si diceva fibbia. Chiarii i suoi dubbi, ridemmo della sua pronuncia imprecisa, fumammo ancora e poi decise finalmente di andarsene, con calma, come se non avesse niente da fare e non ci fosse nessuno ad aspettarla da nessuna parte. Prima si ritoccò il trucco osservando senza troppo interesse la propria immagine nello specchietto del portacipria. Ravviò le onde della capigliatura e prese il cappello, la borsa, i guanti; tutto elegante e di ottima qualità, ma nuovo fiammante, notai. La salutai sulla porta, sentii i suoi tacchi sulle scale e non seppi più niente di lei fino a molti giorni dopo. Non la incontrai mai durante le mie passeggiate sul far della sera, non la vidi da nessuna parte, nessuno mi parlò di lei e non tentai di

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scoprire chi fosse quella inglese che sembrava avere tanto tempo da perdere. Nei giorni successivi fui sempre impegnata: il numero crescente di clienti rendeva

interminabili le ore di lavoro, ma calcolai bene i ritmi, cucii senza posa fino all’alba e riuscii ad avere pronto ogni capo nei tempi stabiliti. A dieci giorni di distanza dal primo incontro, i tre vestiti ordinati da Rosalinda Fox riposavano sui rispettivi manichini, pronti per la prima prova. Ma lei non si fece vedere. Non venne neanche il giorno dopo né quello successivo. E non si disturbò ad avvisare, né mi fece avere un messaggio da qualcuno per scusarsi dell’assenza, rimandare l’appuntamento o giustificare il ritardo. Era la prima volta che mi succedeva una cosa del genere. Pensai che forse non aveva intenzione di tornare, che era semplicemente una straniera di passaggio, una privilegiata che poteva uscire a proprio piacimento dal Protettorato e muoversi senza restrizioni al di là dei confini; una cosmopolita autentica, non una falsa donna di mondo come me. Incapace di trovare una spiegazione ragionevole per un comportamento simile, decisi di accantonare l’episodio e dedicarmi agli altri impegni. Cinque giorni dopo la data stabilita comparve dal nulla mentre stavo finendo di mangiare. Avevo lavorato di fretta per tutta la mattina ed ero riuscita a ricavarmi un buco per il pranzo solo dopo le tre. Suonò il campanello, e Jamila andò ad aprire mentre io finivo di mangiare una banana in cucina. Non appena sentii la voce dell’inglese all’altro capo del corridoio, mi lavai le mani nel lavello e corsi a mettermi i tacchi.

Uscii svelta a riceverla, pulendomi i denti con la lingua e ravviandomi i capelli con una mano, mentre con l’altra lisciavo le cuciture della gonna e i risvolti della giacca. Il suo saluto fu lungo quanto il suo ritardo.

«Devo chiederle davvero scusa per non essere venuta prima, e anche per questa visita anattesa, si dice così?»

«Inattesa» la corressi. «Inattesa, sorry. Sono stata via a few days, avevo delle faccende da sbrigare a

Gibilterra, anche se temo di non aver concluso granché. Anyway, spero di non aver scelto il momento sbagliato.» «Assolutamente» mentii. «Prego, si accomodi.» La condussi nella sala prove e le mostrai i suoi tre modelli. Li elogiò mentre si

spogliava dei propri abiti fino a rimanere solo con la biancheria intima. Indossava una sottoveste di satin che una volta doveva essere stata bellissima; il tempo e l’usura, però, le avevano tolto un po’ del passato splendore. Nemmeno le calze di seta sembravano appena uscite dal negozio dove un giorno erano state comprate, ma rivelavano glamour e qualità sopraffina. Provai a una a una le tre creazioni su quel corpo fragile e ossuto. La pelle trasparente lasciava intravedere tutte le vene azzurrate. Con gli spilli fra le labbra corressi i capi di qualche millimetro e adattai le pieghe di tessuto alla sua sottile silhouette. Lei sembrava soddisfatta in ogni momento, mi lasciava fare, approvava i miei suggerimenti e chiedeva pochissimi cambiamenti. Finimmo la prova e le assicurai che tutto sarebbe stato très chic. Lasciai che si rivestisse e aspettai in salone. Tornò dopo un paio di minuti e dal suo atteggiamento dedussi che, nonostante l’arrivo intempestivo,

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neanche quel giorno sembrava avere fretta di andarsene. Allora le offrii un tè. «Muoio dalla voglia di una tazza di Darjeeling con una goccia di leite, ma immagino

che sarà tè verde alla menta, right?» Non avevo idea a quale bevanda si riferisse, ma non lo diedi a vedere. «Proprio così, tè arabo» dissi senza mostrare il minimo turbamento. La invitai ad

accomodarsi e chiamai Jamila. «Sono inglese» spiegò, «ma ho passato la maggior parte della vita in India e, anche se

molto probabilmente non ci tornerò mai più, sono tante le cose che mi mancano. Come il nosso tè, per esempio.»

«La capisco. Anche a me costa fatica abituarmi ad alcune cose di questa terra e ne rimpiango altre che mi sono lasciata alle spalle.»

«Dove viveva prima?» volle sapere. «A Madrid.» «E prima ancora?» Stavo per mettermi a ridere della sua domanda, dimenticando le invenzioni sul mio

presunto passato e riconoscendo apertamente che non avevo mai messo piede fuori dalla città dov’ero nata, finché un disgraziato aveva deciso di trascinarmi con sé per poi buttarmi via come un mozzicone di sigaretta. Ma mi trattenni e ricorsi ancora una volta alla mia studiata vaghezza.

«Be’, in tanti posti, qua e là, sa com’è, anche se probabilmente è a Madrid che ho vissuto di più. E lei?»

«Let’s see, le faccio l’elenco» disse con un’espressione divertita. «Sono nata in Inghilterra, ma mi hanno portata subito a Calcutta. A dieci anni i miei

genitori mi hanno rimandata in Inghilterra a studiare, err... a sedici sono tornata in India e a venti di nuovo in Occidente.

Una volta qui, ho passato un po’ di tempo again a Londra, poi un lungo periodo in Svizzera. Err... Later, un anno in Portogallo, per questo a volte confondo il portoghese e lo spagnolo. E alla fine mi sono stabilita in Africa: prima a Tangeri e da pochissimo tempo qui a Tetuàn.»

«Si direbbe una vita interessante» commentai, incapace di ricordare quell’intrico di mete esotiche e di parole mal dette.

«Well, dipende dai punti di vista» replicò stringendosi nelle spalle, attenta a non scottarsi con il bicchiere di tè che Jamila ci aveva servito. «Sarei rimasta in India, ma sono successe cose anattese e mi sono dovuta trasferire. A volte la sorte sceglie al posto nostro, right? After ali, err... that’s life. Così è la vita, no?»

Nonostante la strana pronuncia delle parole e la distanza evidente fra i nostri due mondi, capii benissimo che cosa intendeva. Finimmo di bere il tè discorrendo di cose di poca importanza: i ritocchi da fare alle maniche del vestito di dupion di seta stampata, la data della prova successiva. Guardò l’ora e di punto in bianco sembrò ricordare qualcosa.

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«Devo andare» disse alzandosi. «Mi ero dimenticata che devo fare un po’ di shopping, qualche compera prima di rientrare a casa per prepararmi.

Sono stata invitata a un cocktail dal console belga.» Parlava senza guardarmi mentre si infilava i guanti e si metteva il cappello in testa. Io

nel frattempo la osservavo con curiosità, chiedendomi con chi andasse alle feste quella donna, con chi condividesse la libertà di entrare e uscire dal Protettorato, la spensieratezza da bambina agiata e quel costante girovagare per il mondo saltando da un continente all’altro, parlando lingue confuse e bevendo tè aromatici di mille popoli. Paragonando la sua vita apparentemente oziosa alle mie giornate di lavoro sentii lungo la spina dorsale la carezza di qualcosa che somigliava all’invidia.

«Sa dove posso comprare un costume da bagno?» mi chiese all’improvviso. «Per lei?» «No, per il menfilho.» «Scusi?» «My son. No, that’s English, sorry. Mio figlio?» «Suo figlio?» domandai stupita. «Mio figlio, that’s the word. Si chiama Johnny, ha cinque anni and he’s so sweet... è

un amore.» «Anch’io sono a Tetuàn da poco, non credo di poterla aiutare» dissi cercando di non

far trapelare il mio sconcerto. Nella vita idilliaca che appena qualche secondo prima mi ero figurata, per quella donna frivola e infantile c’era spazio per amici e ammiratori, coppe di champagne, viaggi intercontinentali, sottovesti di seta, feste fino all’alba, abiti da sera di haute couture e magari, con un po’ di sforzo, anche per un marito giovane, spensierato, attraente come lei. Ma non avrei mai pensato che avesse un figlio; non me la sarei mai immaginata come madre di famiglia. Eppure, a quanto pareva, lo era.

«Non si preoccupi, troverò qualcosa» disse a mo’ di commiato. «Buona fortuna. Si ricordi che l’aspetto tra cinque giorni.» «Ci sarò. I promise.» Se ne andò e non mantenne la promessa. Invece di tornare il quinto giorno si presentò

il quarto: senza preavviso, affannata. Jamila mi annunciò il suo arrivo intorno a mezzogiorno, mentre facevo le prove con Elvirita Cohen, figlia del proprietario del Teatro Nacional della mia vecchia calle de La Luneta e una delle donne più belle che abbia mai visto in vita mia.

«Segnora Rosalinda dire che dovere vedere segnorina Sira.» «Dille di aspettare, sarò da lei tra un minuto.» I minuti furono più di uno, forse più di venti, perché dovetti fare diversi ritocchi al

vestito che la bella ebrea dalla pelle vellutata avrebbe sfoggiato a qualche evento sociale. Mi parlava tranquillamente nel suo haketia musicale: suhe un poco aquì, mi reina, qué lindo queda, mi weno, sì, “tira un po’ su qui, cara, come mi sta bene, tesoro, che bello, sì”.

Grazie a Félix, come sempre, ero informata sulla situazione degli ebrei sefarditi di

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Tetuàn. Alcuni benestanti, altri umili, tutti discreti; bravi commercianti, risiedevano nel Nordafrica da quando erano stati espulsi dalla penisola secoli prima, e da quando il governo della Repubblica aveva riconosciuto ufficialmente la loro origine, un paio di anni prima, erano diventati spagnoli a pieno diritto. A quell’epoca la comunità sefardita rappresentava circa un decimo della popolazione di Tetuàn, ma buona parte del potere economico era nelle loro mani. Avevano costruito la maggioranza degli edifici della zona nuova e aperto numerose attività ed esercizi commerciali fra i migliori della città: gioiellerie, negozi di scarpe, di stoffe e confezioni. Il loro potere finanziario si rifletteva nei centri di formazione che gestivano - l’Alleanza Israelita - nel loro Casinò e nelle varie sinagoghe in cui si riunivano per le preghiere e le celebrazioni. Probabilmente Elvira Cohen avrebbe sfoggiato proprio in uno di quegli eventi il vestito di gros-grain che le stavo provando nel momento in cui ricevetti la terza visita dell’imprevedibile Rosalinda Fox.

L’inglese mi aspettava nel salone, in piedi accanto a un balcone; sembrava inquieta. Le due clienti si salutarono da lontano con distaccata cortesia: Rosalinda Fox distratta, l’altra sorpresa e curiosa.

«Ho un problema» disse avvicinandosi subito a me non appena lo schiocco della porta annunciò che eravamo rimaste sole.

«Mi dica, vuole accomodarsi?» «Preferirei qualcosa da bere. A drink, please.» «Temo di poterle offrire solo tè, caffè o acqua.» «Evian?» Scossi la testa mentre pensavo che avrei dovuto dotarmi di un piccolo bar destinato a

risollevare l’umore delle clienti nei momenti di crisi. «Never mind» sussurrò mentre si accomodava languidamente. Io feci lo stesso sulla

poltrona di fronte, accavallai le gambe con una disinvoltura ormai automatica e attesi che mi spiegasse il motivo della sua visita anticipata. Tirò fuori il portasigarette e se ne accese una, poi lo gettò distrattamente sul divano. Dopo il primo tiro, intenso e profondo, si accorse che non mi aveva offerto una sigaretta, si scusò e fece per rimediare. La bloccai prima: no, grazie. Aspettavo una cliente a breve e non volevo che mi puzzassero le dita di tabacco nell’intimità della sala prove. Richiuse il portasigarette e finalmente parlò.

«Ho bisogno di un evening goiw, err... un vestito spettacolare per questa sera stessa. Mi è capitato un impegno inatteso e devo andare vestita like a princess.»

«Come una principessa?» «Right, come una principessa. Per modo di dire, obviously. Ho bisogno di qualcosa di

muito muito elegante.» «Il suo abito da sera è pronto per la seconda prova.» «Può finirlo oggi?» «Non è proprio possibile.» «E qualche altro modello?»

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«Temo di non poterla aiutare. Non ho niente da proporle: non tengo abiti pronti, faccio tutto su ordinazione.»

Diede una lunga boccata alla sigaretta, ma quella volta non aspirò con aria assente, bensì osservandomi attraverso il fumo. Dal suo volto era scomparsa ogni traccia dell’atteggiamento da bambina spensierata delle altre visite; il suo sguardo era quello di una donna nervosa ma decisa a non arrendersi tanto facilmente.

«Mi serve una soluzione. Quando ho traslocato da Tangeri a Tetuàn ho preparato dei trunks, dei bauli da mandare a mia madre in Inghilterra con alcune cose che non usavo più. Per errore il baule con tutti i miei evening goiws, con tutti i miei vestiti da noite è finito insieme alle cose smesse, aspetto che me lo mandino back, indietro. Ma ho appena ricevuto un invito a un ricevimento del German consul, il console tedesco. Err... it’s the first time, la prima occasione in cui parteciperò a un evento in compagnia di... di... una persona con cui ho una... una... liaison muito speciale.»

Parlava in fretta ma con cautela, sforzandosi per farmi capire tutto in quel tentativo di spagnolo che, a causa dell’agitazione, suonava più portoghese che mai e più condito di parole inglesi rispetto agli incontri precedenti.

«Well, it is... ehm... E’ muito importante/or...far...far him, per questa persona e per me che io faccia una buona impressào ai membri della German colony, la colonia tedesca a Tetuàn. So far, finora, Mrs Langenheim mi ha aiutato a conoscere alcuni di loro individually, perché lei è half English, mezzo inglese, err... ma questa noite farò la mia prima apparizione in pubblico con quella persona, openly together, insieme apertamente, per questo devo essere extremely well dressed, molto ben vestita, e...»

La interruppi: non c’era ragione di continuare ad affannarsi tanto senza alcuna prospettiva.

«Mi dispiace moltissimo, glielo giuro. Vorrei tanto aiutarla, ma è assolutamente impossibile. Come le ho detto, non tengo niente di pronto nel mio atelier, e non riuscirei mai a finire il suo vestito in poche ore: mi servono almeno tre o quattro giorni.»

Spense la sigaretta in silenzio, assorta. Si morse le labbra e aspettò qualche secondo prima di alzare lo sguardo e rilanciare con una domanda del tutto fuori luogo.

«Non potrebbe prestarmi uno dei suoi abiti da sera?» Feci un cenno negativo mentre cercavo di inventare una scusa verosimile per

nascondere il fatto deplorevole che, in realtà, non ne possedevo. «Temo di no. Tutti i miei abiti sono rimasti a Madrid nel momento in cui è scoppiata

la guerra e non mi è stato possibile recuperarli. Qui ho solo qualche vestito per uscire a passeggio, ma niente per la sera.

Faccio pochissima vita sociale. Il mio fidanzato è in Argentina, e io...» Con mio grande sollievo mi interruppe immediatamente.

«I see, capisco.» Rimanemmo in silenzio per alcuni secondi che mi parvero eterni, senza guardarci

negli occhi, ognuna impegnata a nascondere il proprio disagio concentrandosi su punti opposti della stanza. Una verso i balconi, l’altra verso l’arco che separava il salone

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dall’ingresso. Fu lei ad allentare la tensione. «I think I must leave now. Devo andare.» «Mi creda, sono davvero molto dispiaciuta. Se avessimo più tempo...» Non conclusi la frase: mi resi conto all’improvviso che non aveva senso parlare

ancora di un problema senza soluzione. Cercai di cambiare discorso, di sviare l’attenzione dalla triste realtà che anticipava una serata fallimentare con quello che di sicuro era l’uomo di cui Rosalinda Fox era innamorata. Ero molto intrigata dalla vita di quella donna, che altre volte si era mostrata decisa e vivace, e che in quel momento stava raccogliendo le sue cose con un’espressione concentrata e si avviava verso la porta.

«Domani sarà tutto pronto per la seconda prova, d’accordo?» dissi a mo’ di inutile consolazione.

Fece un vago sorriso e se ne andò senza aggiungere altro. Rimasi da sola, in piedi, immobile, un po’ costernata per l’incapacità di aiutare una cliente in difficoltà e un po’ intrigata dallo strano modo in cui si delineava davanti ai miei occhi la vita di Rosalinda Fox, una giovane madre giramondo che perdeva bauli pieni di abiti da sera come chi, nella fretta di un pomeriggio piovoso, dimentica il portafoglio su una panchina del parco o sul tavolino di un caffè.

Mi affacciai al balcone, seminascosta dietro un’imposta, e la osservai camminare per strada. Si diresse senza fretta verso un’automobile rosso vivo parcheggiata proprio davanti al portone. Immaginai che l’aspettasse qualcuno, magari l’uomo che era così decisa a compiacere quella sera.

Non riuscii a resistere alla curiosità e cercai il suo volto, mentre costruivo scene immaginarie nella mia mente. Pensai che fosse un tedesco, e che probabilmente era quella la ragione dell’ansia di fare buona impressione tra i suoi connazionali. Me lo figuravo giovane, attraente, viveur; mondano e risoluto come lei. Ebbi appena il tempo di lasciarmi andare alle mie elucubrazioni perché, quando l’inglese raggiunse l’auto e aprì la portiera di destra - quella del passeggero, in teoria - vidi con stupore che il volante era proprio lì, e che si apprestava a guidare lei stessa. In quell’automobile con la guida a destra non l’aspettava nessuno: accese il motore e se ne andò da sola com’era arrivata.

Mentre cercavo di attenuare il sapore amaro che mi aveva lasciato in bocca l’incontro, ristabilii l’ordine degli oggetti che la presenza di Rosalinda Fox aveva alterato. Tolsi il posacenere, soffiai via la cenere caduta sul tavolo, raddrizzai un angolo del tappeto con la punta della scarpa, sprimacciai i cuscini su cui ci eravamo appoggiate e feci per riordinare le riviste che Rosalinda aveva sfogliato mentre finivo di servire Elvirita Cohen. Chiusi un “Harper’s Bazaar” aperto su una pubblicità di rossetti di Helena Rubinstein, e quando stavo per fare lo stesso con il numero primaverile di “Madame Figaro” mi soffermai sulla foto di un modello che mi parve lontanamente familiare.

Mi vennero in mente mille ricordi di altri tempi, come uno stormo di uccelli. Consapevole solo in parte di quello che facevo, gridai a squarciagola per chiamare Jamila. Con una corsa folle arrivò nel salone in men che non si dica.

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«Vai immediatamente a casa di Frau Langenheim e chiedile dove puoi trovare la signora Fox. Deve venire qui subito; dille che si tratta di una questione urgentissima.»

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CAPITOLO 16 «Il creatore del modello, cara la mia ignorantona, è Mariano Fortuny y Madrazo,

figlio del grande Mariano Fortuny, probabilmente il più grande pittore dell’Ottocento dopo Goya. Era un artista straordinario, molto legato al Marocco, fra l’altro. Venne qui durante la guerra d’Africa, rimase stregato dalla luce e dall’esotismo di questa terra e tentò di dargli forma in molti quadri; uno dei suoi dipinti più noti, infatti, è La batalla de Tetuàn. Se Fortuny padre è stato un pittore eccezionale, però, il figlio è un autentico genio. Dipinge pure lui, ma nel suo studio veneziano disegna anche scenografie teatrali, ed è fotografo, inventore, studia le tecniche classiche e disegna stoffe e abiti, come il mitico Delphos che tu, piccola commediante, gli hai appena rubato con una reinterpretazione domestica più che mai riuscita, a quanto pare.»

Félix parlava sdraiato sul divano, tenendo in mano la rivista con la foto che aveva fatto scattare la mia memoria. Io, distrutta dal pomeriggio intenso, lo ascoltavo immobile su una poltrona, senza avere nemmeno la forza di sollevare un ago. Avevo appena finito di raccontargli gli eventi delle ultime ore, a cominciare dal momento in cui la mia cliente annunciò il suo ritorno all’atelier con una brusca frenata che fece affacciare i vicini ai balconi. Salì di corsa, con la fretta che risuonava sui gradini della scala. L’aspettavo con la porta aperta e, senza neanche preoccuparmi di salutarla, le esposi la mia idea.

«Cercheremo di fare un Delphos casalingo, sa a cosa mi riferisco?» «Un Delphos di Fortuny?» si informò incredula. «Un falso Delphos.» «Pensa di riuscirci?» Ci guardammo per un attimo negli occhi. Il suo sguardo rifletteva la gioia di chi

credeva di avere già perso ogni speranza. Il mio non saprei. Forse determinazione e audacia, voglia di farcela, di uscire vittoriosa da quella prova. Probabilmente in fondo ai miei occhi c’era anche un po’ di terrore di fallire, ma cercai di farlo trasparire il meno possibile.

«L’ho già fatto; credo che ci riusciremo.» Le mostrai la stoffa che pensavo di usare, un grande scampolo di raso di seta grigio-

azzurra trovato da Candelaria in una delle sue ultime piroette nella capricciosa arte del baratto. Ovviamente mi guardai bene dallo svelare la sua provenienza.

«A che ora è il suo impegno?» «Alle otto.» Controllai l’ora. «Bene, faremo così. Adesso è quasi l’una. Appena ho finito la prova che ho tra dieci

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minuti, bagno la stoffa e la faccio asciugare. Mi serviranno quattro-cinque ore; a quel punto saranno le sei di sera. Mi servirà perlomeno un’altra ora e mezzo per confezionarlo: è semplicissimo, solo qualche cucitura dritta, e ho già le sue misure, non dovrà provarselo. Ma avrò comunque bisogno di un po’ di tempo, e poi ci sono le rifiniture. A quel punto saremo quasi arrivati all’ora limite.

Dove abita? Scusi se glielo chiedo, non è una mia curiosità...» «In paseo de las Palmeras.» Avrei dovuto immaginarlo: molte delle case più belle di Tetuàn erano lì. Era una zona appartata e discreta a sud della città, vicino al parco, quasi ai piedi

dell’imponente Gorgues, con grandi ville circondate da giardini. Più in là c’erano solo campi e canneti.

«Allora non potrò sicuramente consegnarle l’abito a domicilio.» Mi guardò con aria interrogativa. «Dovrà vestirsi qui» chiarii. «Venga verso le sette e mezzo, già truccata, pettinata e

pronta per uscire, con le scarpe e i gioielli che intende indossare. Le do un consiglio: non tanti o eccessivamente vistosi, il vestito non li richiede, sarà molto più elegante con accessori sobri. Ha capito?»

Aveva capito alla perfezione. Mi ringraziò per il mio sforzo e se ne andò sollevata. Mezz’ora dopo, con l’aiuto di Jamila, affrontai l’impresa più impensata e temeraria della mia breve carriera di creatrice di moda solitaria. Ma sapevo quello che facevo, perché ai tempi della sartoria della signora Manuela avevo aiutato la proprietaria a svolgere lo stesso lavoro. L’avevamo fatto per una cliente molto elegante ma priva di mezzi. Elena Barea, si chiamava. Nei momenti in cui regnava l’abbondanza cucivamo per lei modelli di lusso, confezionati con le stoffe più preziose. Ma a differenza di altre signore del suo ambiente e del suo ceto, che quando i soldi venivano a mancare inventavano viaggi, impegni o malattie per giustificare l’impossibilità di fare nuovi ordini, lei non si nascondeva mai dietro una scusa. Quando le vacche magre facevano il loro ingresso nell’attività irregolare del marito, Elena Barea non smetteva di frequentare il nostro atelier.

Tornava, rideva senza pudore della volubilità della sua fortuna e studiava con la padrona come rimodernare i vecchi modelli per farli sembrare nuovi, cambiando il taglio, aggiungendo ornamenti e ricombinando i pezzi in modo originale. O sceglieva con accortezza stoffe poco costose e fogge che richiedevano una confezione semplice: così riusciva a ridurre al minimo il conto senza rinunciare troppo all’eleganza. La fame aguzza l’ingegno, diceva, e concludeva la frase con una risata. Il giorno in cui arrivò con il più singolare degli ordini, io, mia madre e la signora Manuela stentavamo a credere ai nostri occhi.

«Voglio una copia di questo» disse tirando fuori da una piccola scatola quello che sembrava un rotolo di una stoffa rosso sangue. Rise di fronte alle nostre facce stupite. «Questo è un Delphos, signore, un abito unico. E una creazione dell’artista Fortuny: questi capi sono confezionati a Venezia e si vendono solo nei negozi più esclusivi delle

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grandi capitali europee. Guardate che colore meraviglioso, guardate la plissettatura. Le tecniche per ottenerla sono un segreto assoluto del loro creatore. Calza come un guanto. E io, cara signora Manuela, ne voglio uno. Ovviamente falso.»

Poi tirò un estremo della stoffa con le dita e come per incanto apparve un abito in raso di seta rosso, lussuoso e splendido, che cadeva in modo impeccabile fino a terra e terminava con una forma rotonda che si allargava in fondo; a ruota, si chiamava quella foggia. Era una specie di tunica con tante piccolissime pieghe verticali. Classica, semplice, raffinatissima. Da quel giorno erano passati quattro o cinque anni, ma nella mia memoria conservavo intatto l’intero procedimento di realizzazione del vestito, perché avevo partecipato attivamente a tutte le fasi. Per Elena Barea e per Rosalinda Fox la tecnica sarebbe stata la stessa; l’unico problema era che il tempo ci sarebbe bastato appena, anche lavorando a spron battuto. Assistita da Jamila in ogni operazione, riscaldai delle pentole d’acqua, e quando fu bollente la versammo nella vasca. Mi scottai le mani per introdurvi la stoffa, e la lasciai in ammollo. Il bagno si riempì di fumo, mentre noi osservavamo nervose l’esperimento, il sudore ci bagnava la fronte e il vapore cancellava le nostre immagini dallo specchio. Dopo un po’ decisi che si poteva tirare fuori il tessuto, ormai scuro e irriconoscibile. Facemmo scorrere via l’acqua dalla vasca e, prendendo la stoffa alle due estremità, attorcigliammo la striscia con tutte le nostre forze strizzandola nei due sensi, come avevamo fatto tante volte con le lenzuola della pensione di calle de La Luneta per eliminare fino all’ultima goccia d’acqua prima di stenderle al sole. Solo che in quel caso non avremmo disteso la tela, al contrario: l’obiettivo era tenerla attorcigliata il più possibile durante l’asciugatura, in modo che, una volta evaporata l’acqua, rimanessero infinite piegoline nella seta rappresa come una matassa.

Mettemmo la stoffa attorcigliata in una bacinella e salimmo in terrazza trasportandola in due. Stringemmo di nuovo le due estremità nei due versi opposti finché il tessuto assunse l’aspetto di una grossa corda, ritorta come una molla; poi mettemmo un asciugamano per terra e, come un serpente avvitato, vi stendemmo l’anticipo del vestito che poche ore dopo la mia cliente avrebbe dovuto sfoggiare, durante la prima apparizione pubblica sottobraccio all’enigmatico uomo della sua vita.

Lasciammo la stoffa ad asciugare al sole e nel frattempo scendemmo in casa, caricammo di carbone la cucina economica e la facemmo andare al massimo, in modo da ottenere la temperatura di una sala caldaie. Quando la stanza divenne un forno e calcolammo che il sole del pomeriggio cominciasse a calare, tornammo in terrazza a riprendere la matassa attorcigliata. Stendemmo un altro asciugamano sul coperchio di ferro della cucina economica, e sopra la stoffa ancora ritorta e avvolta su se stessa. Ogni dieci minuti, senza mai stenderla, la giravo perché il calore del carbone l’asciugasse in modo uniforme. Con un ritaglio, mentre andavo e venivo dalla cucina, confezionai una cintura che consisteva in un triplo strato di controfodera coperta da una semplice striscia di seta stirata. Alle cinque tolsi la matassa di stoffa ritorta dal coperchio della cucina e la portai nel laboratorio. Aveva l’aspetto di un sanguinaccio caldo: nessuno avrebbe mai

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immaginato quello che intendevo farne nell’ora successiva. Stesi l’orrendo groviglio sul tavolo da taglio e a poco a poco, con estrema attenzione,

lo distesi. E come per magia, di fronte ai miei occhi inquieti e con grande stupore di Jamila, vedemmo apparire la seta plissettata e brillante, bellissima. Non avevamo ottenuto pieghe permanenti come quelle del modello originale di Fortuny: ci mancavano i mezzi e le conoscenze necessarie, ma l’effetto era simile e sarebbe durato almeno una serata: una serata speciale per una donna che doveva fare colpo. Dispiegai il tessuto in tutta la sua lunghezza e lo lasciai raffreddare. Poi lo tagliai in quattro pezzi, con i quali confezionai una specie di attillata guaina cilindrica che si sarebbe adattata alle forme della mia cliente come una seconda pelle. Feci un semplice girocollo e tagliai le aperture per le braccia. Non c’era tempo per fare rifiniture ornamentali, ma il falso Delphos fu pronto in poco più di un’ora: una versione casalinga e veloce di un modello che aveva rivoluzionato il mondo della haute couture; un’imitazione volgare, ma capace di fare colpo su chiunque avesse posato lo sguardo sul corpo che avrebbe sfoggiato l’abito mezz’ora dopo.

Stavo provando l’effetto che faceva con la cintura quando suonò il campanello. Solo allora mi resi conto di avere un aspetto orribile. Il sudore provocato dall’acqua bollente mi aveva rovinato il trucco e i capelli; il calore, gli sforzi per attorcigliare la stoffa, le salite e le discese dalla terrazza e il lavoro senza sosta del pomeriggio mi avevano ridotta come se mi fosse passata sopra al galoppo la cavalleria dei Regulares. Corsi in camera mia mentre Jamila andava ad aprire; mi cambiai in fretta, mi pettinai, mi ricomposi. Il risultato del lavoro era soddisfacente e io volevo essere all’altezza della mia creazione.

Uscii a ricevere Rosalinda convinta che mi aspettasse in salone, ma passando accanto alla porta aperta del laboratorio vidi la sua figura di fronte al manichino su cui era montato il vestito. Mi dava le spalle, non riuscivo a vederla in faccia. Chiesi semplicemente dalla porta: «Le piace?».

Si girò subito e non rispose. Mi raggiunse con la sua andatura agile, mi prese una mano e la strinse forte.

«Grazie, grazie, grazie mille.» Aveva i capelli raccolti in una crocchia bassa, con le onde naturali un po’ più

accentuate del solito. Il trucco degli occhi e degli zigomi era leggero; il rossetto, in compenso, molto più appariscente. I tacchi a stiletto l’alzavano di una spanna rispetto alla sua statura. Un paio di orecchini di brillanti e oro bianco, lunghi, divini, erano gli unici accessori. Aveva un profumo delizioso. Si tolse i vestiti da giorno e l’aiutai a indossare l’abito. La plissettatura irregolare ricadde azzurra, armoniosa e sensuale sul suo corpo, mettendo in evidenza la perfezione dell’ossatura, la delicatezza delle membra, modellandolo e rivelando le curve e le forme con eleganza e sfarzo. Le sistemai la striscia ampia alla vita e l’annodai dietro. Contemplammo il risultato allo specchio senza scambiarci una parola.

«Stia ferma» dissi alla fine.

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Uscii in corridoio, chiamai Jamila e la feci entrare. Vedendo Rosalinda con il vestito addosso si coprì la bocca con una mano per trattenere un urlo di stupore e ammirazione.

«Si giri perché la veda bene. Gran parte del lavoro è merito suo. Senza di lei non ci sarei mai riuscita.»

L’inglese sorrise con gratitudine a Jamila e fece un paio di giri su se stessa, con grazia e stile. La ragazza marocchina la contemplò confusa, timida e felice.

«Adesso si sbrighi. Mancano solo dieci minuti alle otto.» Io e Jamila ci avvicinammo al balcone per vederla uscire, ammutolite, sottobraccio e

seminascoste in un angolo per non farci vedere dalla strada. Era quasi buio. Guardai in basso aspettandomi di vedere la sua piccola auto rossa parcheggiata, ma al suo posto c’era una vettura nera, fiammante, imponente, con bandierine sulla parte anteriore; da lontano e con la poca luce che c’era non riuscii a distinguere i colori. Quando la figura avvolta nella seta azzurra comparve sul portone, i fari della macchina si accesero e un uomo in divisa scese dal lato del passeggero e aprì la portiera posteriore. Rimase in attesa con un contegno marziale finché lei, elegante e maestosa, uscì in strada e raggiunse l’auto a passi corti. Senza fretta, come in un’esibizione di orgoglio e sicurezza. Non riuscii a capire se c’era qualcun altro sul sedile: quando Rosalinda si accomodò, l’uomo in divisa chiuse la portiera e tornò rapidamente al proprio posto. La vettura si mise in moto sprigionando tutta la sua potenza e si allontanò veloce nella notte, con una donna entusiasta e l’abito più fraudolento di tutta la storia della finta alta moda.

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CAPITOLO 17 Il giorno successivo le cose tornarono alla normalità. A metà pomeriggio qualcuno

suonò alla porta; ne fui sorpresa, perché non avevo appuntamenti. Era Félix. Senza dire una parola scivolò dentro e si chiuse la porta alle spalle. Il suo comportamento mi sorprese: di solito non compariva fino a tarda sera. Quando pensò di essere al riparo dagli sguardi indiscreti della madre che lo osservava dallo spioncino, pronunciò poche parole frettolose e ironiche.

«Andiamo proprio bene, ragazza, roba da non credere.» «Perché dici così?» «Per via della dama eterea che ho incrociato proprio adesso sulla porta.» «Rosalinda Fox? E’ venuta per le prove. E stamattina mi ha mandato un mazzo di

fiori per ringraziarmi. E’ lei quella che ho aiutato ieri a togliersi dai pasticci.» «Non mi dire che la biondina che ho visto è quella del Delphos.» «Proprio lei.» Si prese qualche secondo per assaporare fino in fondo la notizia. Poi proseguì in tono

sarcastico. «Interessante. Sei riuscita a risolvere un problema di una signora molto, ma molto

speciale.» «Perché speciale?» «Perché, mia cara, probabilmente in questo momento la tua cliente è la donna più

potente del Protettorato, in grado di risolvere qualsiasi problema. Tranne i propri di cucito, chiaro. Per quelli ha te, l’imperatrice dell’imitazione.»

«Félix, spiegati, non capisco.» «Vuoi dirmi che non sai chi è Rosalinda Fox, la donna per la quale ieri hai realizzato

un modello fantastico in poche ore?» «Un’inglese che ha trascorso la maggior parte della vita in India e che ha un figlio di

cinque anni.» «E un amante.» «Tedesco.» «Acqua, acqua.» «Non è tedesco?» «No, mia cara. Sei decisamente fuori strada.» «E tu come lo sai?» Fece un sorriso malizioso. «Perché lo sa tutta Tetuàn. E’ l’amante di un altro.» «Di chi?»

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«Uno importante.» «Chi?» ripetei tirandolo per la manica, incapace di contenere la curiosità. Fece un altro sorriso birichino e con un gesto teatrale si coprì la bocca con la mano

come se dovesse svelarmi un grande segreto. Me lo sussurrò all’orecchio, piano. «La tua amica è l’amante dell’alto commissario.» «Il commissario Vàzquez?» chiesi incredula. Dopo aver reagito con una risata alla mia congettura, mi diede una spiegazione. «No, sei matta, certo che no. Claudio Vàzquez si occupa solo della polizia: tiene in

riga la delinquenza locale e il manipolo di dementi ai suoi ordini. Dubito che riesca a trovare il tempo per le avventure extraconiugali, o almeno per farsi un’amichetta fissa e offrirle una villa con piscina in paseo de las Palmeras. La tua cliente, bellezza, è l’amante del tenente colonnello Juan Luis Beigbeder y Atienza, alto commissario di Spagna in Marocco e governatore generale delle Plazas de Soberania. L’incarico militare e amministrativo più importante di tutto il Protettorato, per capirci.»

«Sei sicuro, Félix?» mormorai. «Te lo giuro su mia madre, che possa vivere sana come un pesce fino a ottant’anni se

non ti ho detto la verità. Nessuno sa da quanto tempo stanno insieme, perché lei è arrivata a Tetuàn da poco più di un mese, abbastanza comunque perché tutti sappiano chi è e cosa c’è fra loro. Lui è l’alto commissario nominato ufficialmente a Burgos poco tempo fa, anche se in pratica ha assunto il comando dall’inizio della guerra. Si dice che Franco sia fuori di sé dalla gioia, perché gli sta reclutando arabi attaccabrighe da mandare al fronte.»

Neanche nella più rocambolesca delle mie fantasie avrei immaginato che Rosalinda Fox potesse essere innamorata di un tenente colonnello della fazione nazionalista.

«E lui com’è?» Il tono intrigato della mia domanda lo fece ridere di gusto ancora una volta. «Beigbeder? Non lo conosci? In effetti ora si vede meno, forse passa la maggior parte

del tempo rinchiuso dentro l’Alto Commissariato, ma prima, quando era vicedelegato agli Affari indigeni, potevi incontrarlo per strada in qualunque momento. Certo, allora non dava nell’occhio: era uno dei tanti ufficiali seri e anonimi quasi privi di vita sociale. Era quasi sempre da solo e di solito non partecipava ai ricevimenti del Circolo ippico, dell’hotel Nacional o del Salón Marfil, e non passava la vita giocando a carte come faceva, per esempio, il colonnello Sàenz de Buruaga, che durante l’alzamiento ha addirittura impartito i primi ordini dalla terrazza del Casinò. Diciamo che Beigbeder è un tipo discreto e un tantino solitario.»

«Attraente?» «Per quanto mi riguarda non mi attira affatto, ma per voi magari ha un suo fascino.

Voi donne siete un po’ strane.» «Descrivimelo.» «Alto, magro, austero. Capelli scuri, azzimato. Con gli occhiali rotondi, i baffi e l’aria

da intellettuale. Nonostante la carica e i tempi che corrono, si veste in borghese, con

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abiti scuri noiosissimi.» «Sposato?» «Probabilmente, anche se a quanto pare qui ha vissuto sempre da solo. Ma è

abbastanza comune per i militari non portarsi dietro le famiglie in tutte le destinazioni a cui sono assegnati.»

«Età?» «Potrebbe essere suo padre.» «Non ci posso credere.» Rise un’altra volta. «Vedi tu. Se lavorassi di meno e uscissi di più, prima o poi lo incroceresti e potresti

verificare con i tuoi occhi quello che ti dico. Passeggia ancora, a volte, anche se adesso ha sempre un paio di agenti di scorta al

fianco. E’ un uomo coltissimo, dicono, parla diverse lingue e ha vissuto molti anni fuori dalla Spagna; niente a che vedere con i salvatori della patria a cui siamo abituati qui, anche se il suo incarico attuale rivela che sta dalla loro parte. Forse ha conosciuto la tua cliente all’estero; magari lei un giorno te lo racconta e poi mi riferisci, sai che adoro i flirt romantici. Bene, ragazzina, devo lasciarti; accompagno la strega al cinema. Doppio spettacolo: La hermana san Suplicio e Don Quintìn el amargao, mi aspetta proprio un bel pomeriggio glamour. Con questa disgrazia della guerra, da quasi un anno non arriva un film decente. Avrei tanta voglia di vedere un bel musical americano. Ti ricordi Fred Astaire e Ginger Rogers in Cappello a cilindro? “I just got an invitation through the mail / your presence is requested this evening / it’s formal: top hate, white tie and tails...”.»

Uscì canticchiando e chiusi la porta alle sue spalle. Questa volta non fu la madre indiscreta a guardare dallo spioncino, ma io. Lo osservai mentre, con la canzoncina sulle labbra, tirava fuori il portachiavi tintinnante dalla tasca, individuava la chiave della sua porta e la introduceva nella serratura. Quando scomparve, tornai al laboratorio e mi rimisi all’opera; dovetti sforzarmi per capacitarmi di quello che avevo appena saputo. Provai a lavorare ancora un po’, ma mi accorsi che mi mancava la voglia. O la forza. O entrambe le cose.

Ricordai la frenetica attività del giorno precedente e decisi di prendermi il resto del

pomeriggio libero. Pensai di imitare Félix e la madre andando anch’io al cinema: meritavo un po’ di distrazione. Uscii di casa con quel proposito, ma i miei passi, inspiegabilmente, mi portarono in una direzione diversa, in plaza de Espana.

Ad accogliermi c’erano aiuole fiorite e palme, ciottoli colorati per terra e edifici bianchi tutt’intorno. Le panchine di pietra, come tanti altri pomeriggi, erano affollate di coppiette e gruppi di amiche. Dai caffè arrivava un gradevole odore di stuzzichini. Attraversai la piazza e mi spinsi verso l’Alto Commissariato che avevo visto tante volte dal giorno del mio arrivo, ma che fino ad allora aveva risvegliato in me scarsissima curiosità. Molto vicino al palazzo del califfo, un edificio bianco in stile coloniale circondato da giardini lussureggianti ospitava la principale sede amministrativa

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distaccata spagnola. In mezzo alla vegetazione si distinguevano due piani principali e un terzo rientrato, con torrette agli angoli, imposte verdi e bordi di mattoni rossicci.

Alcuni soldati arabi, imponenti, stoici sotto i turbanti e i lunghi mantelli, facevano la guardia davanti alla grande cancellata in ferro. E vari ufficiali impeccabili dell’esercito spagnolo in Africa, con l’uniforme beige, entravano e uscivano da una porticina laterale, imperiosi nei loro pantaloni alla zuava e gli stivali alti e lucidi.

Pullulavano anche i soldati indigeni, che andavano avanti e indietro con le casacche militari di foggia europea, i pantaloni larghi e una sorta di benda scura intorno ai polpacci. La bandiera nazionale bicolore sventolava sullo sfondo di un cielo blu che sembrava annunciare l’inizio dell’estate. Rimasi a osservare il movimento incessante degli uomini in divisa finché mi resi conto che restando lì immobile cominciavo ad attirare i loro sguardi. Imbarazzata e a disagio, mi voltai e tornai nella piazza. Che cosa ero andata a cercare davanti all’Alto Commissariato, che cosa pensavo di trovare, perché mi ero spinta fin lì? Non cercavo niente, probabilmente; almeno, niente di concreto, tranne vedere da vicino il luogo in cui si muoveva l’inaspettato amante della mia ultima cliente.

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CAPITOLO 18 La primavera si trasformò a poco a poco in una dolce estate dalle giornate lunghe, e io

continuai a dividere con Candelaria i guadagni dell’atelier. La mazzetta di sterline in fondo al cassetto crebbe fino a coprire quasi del tutto l’ammontare del mio debito; mancava poco alla scadenza per il pagamento al Continental, e mi confortava sapere che sarei riuscita a saldarlo: finalmente avrei potuto pagare la mia libertà. Continuavo a seguire le notizie sulla guerra alla radio e sui giornali. Morì il generale Mola, uno dei capi della sollevazione, cominciò la battaglia di Brunete, con cui la fazione repubblicana sperava di alleviare la pressione dei nazionalisti su Madrid. Félix continuava le sue incursioni notturne e Jamila era ancora con me, faceva progressi con il suo spagnolo dolce e strano, e cominciava ad aiutarmi in piccoli lavori: qualche punto lento, un bottone, un passante. Le giornate all’atelier trascorrevano monotone, interrotte solo dai rumori delle faccende domestiche e dagli scampoli di conversazioni nelle abitazioni vicine, che entravano dalle finestre aperte sul cortiletto interno. E dai bambini ormai a casa da scuola, che saltavano sul pavimento del piano superiore e uscivano a giocare in strada, in gruppo o uno alla volta. Nessuno di quei suoni mi disturbava, anzi: erano una compagnia, mi facevano sentire meno sola.

Un pomeriggio di metà luglio, però, i rumori e le voci si fecero più alti, le corse più precipitose.

«Sono arrivate! Sono arrivate!» Alle prime seguirono altre voci, urla, porte sbattute, nomi ripetuti fra sonori singhiozzi. «Concha! Concha! Carmela, sorella mia! Finalmente, Esperanza, finalmente!»

Sentii i vicini spostare i mobili, salire e scendere in fretta le scale decine di volte. Udii risate, pianti e ordini. Riempi la vasca, tira fuori altri asciugamani, porta i vestiti, i materassi; la bambina, date da mangiare alla bambina. Sentii altri pianti e grida d’emozione, altre risate. E odore di cibo, rumore di stoviglie in cucina a un’ora strana.

E ancora: «Carmela, oddio, Concha, Concha!». Il trambusto si calmò solo dopo mezzanotte. A quel punto Félix venne da me e potei finalmente chiedergli qualcosa.

«Cos’è successo a casa degli Herrero, che sono così agitati?» «Non l’hai saputo? Sono arrivate le sorelle di Josefina. Le hanno fatte uscire dalla

zona rossa.» La mattina seguente sentii di nuovo voci e movimenti, anche se più calmi. Ma

l’attività frenetica continuò per tutta la giornata: entrate e uscite, campanello, telefono, corse dei bambini nel corridoio. Il tutto sempre inframmezzato da singhiozzi, risate, pianti, altre risate. Nel pomeriggio suonarono alla mia porta. Pensai che fosse un vicino, magari aveva bisogno di qualcosa, voleva chiedermi un favore, o che gli prestassi sei

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uova, una coperta, una bottiglia d’olio, chissà. Mi sbagliavo. Mi ritrovai davanti una presenza del tutto inattesa.

«La signora Candelaria dice di andare in calle de La Luneta appena può. E’ morto il maestro, il signor Anselmo.» Paquito, il figlio grasso della madre grassa, era venuto a riferirmi il messaggio in un

bagno di sudore. «Va’ avanti e di’ che arrivo subito.» Riferii la notizia a Jamila, che pianse addolorata. Io non versai neanche una lacrima,

ma ero profondamente dispiaciuta. Di tutti i membri della tribù turbolenta con cui avevo convissuto ai tempi della pensione, il maestro era il più vicino, quello con cui avevo il rapporto più affettuoso. Indossai il tailleur più scuro che c’era nell’armadio: nel mio guardaroba non avevo ancora fatto spazio al lutto. Io e Jamila camminammo svelte per le strade, arrivammo a destinazione e salimmo una rampa di scale. Non potemmo andare oltre: un folto gruppo di persone ammassate ci impediva il passaggio. Ci facemmo largo a gomitate fra gli amici e i conoscenti del maestro, che aspettavano rispettosamente il proprio turno per porgergli l’ultimo saluto.

La porta della pensione era aperta, e ancor prima di oltrepassarla sentii l’odore delle candele accese e un sonoro mormorio di voci femminili che pregavano insieme. Candelaria ci venne incontro appena entrammo. Era inguainata in un vestito nero che le stava evidentemente stretto e sul petto prosperoso le ciondolava una medaglietta con il volto della Madonna. Al centro della sala da pranzo, sul tavolo, una bara aperta conteneva il corpo cereo del signor Anselmo, con il completo buono. Guardandolo avvertii un brivido lungo la schiena e sentii che Jamila mi conficcava le unghie nel braccio. Diedi due baci a Candelaria, che mi lasciò una scia di lacrime vicino all’orecchio.

«Eccolo lì, caduto sul campo di battaglia.» Ricordai le litigate fra una portata e l’altra cui avevo assistito tante volte. Le lische

delle acciughe e le bucce dei meloni africani, rugose e gialle, che volavano da un lato all’altro del tavolo. Le battute velenose e gli improperi, le forchette brandite come lance, le urla delle due fazioni. Le provocazioni e le minacce di sfratto mai messe in pratica della contrabbandiera. Il tavolo della sala da pranzo trasformato in un vero e proprio campo di battaglia, in effetti. Cercai di reprimere una risata triste. Le sorelle rinsecchite, la madre grassa e qualche vicina, sedute accanto alla finestra e vestite a lutto dalla testa ai piedi, continuavano a sgranare i misteri del rosario con voci monotone e piagnucolose. Immaginai per un secondo il signor Anselmo con una sigaretta Toledo in bocca gridare furibondo fra i colpi di tosse che smettessero di pregare per lui, una buona volta. Ma il maestro non era più fra i vivi, e loro sì. E davanti al suo corpo morto, benché ancora presente e caldo, potevano fare quello che volevano. Io e Candelaria ci sedemmo accanto alle altre donne, la padrona si unì al ritmo cadenzato della preghiera e io finsi di fare lo stesso, ma la mia mente vagava in altri lidi. Signore, pietà. Cristo, pietà.

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Avvicinai la sedia di paglia fino a toccarle il braccio con il mio. Signore, pietà. «Devo chiederle una cosa, Candelaria» le sussurrai all’orecchio. Cristo, ascoltaci. Cristo, esaudiscici. «Dimmi, tesoro» rispose sottovoce. Padre del

cielo, che sei Dio, abbi pietà di noi. Figlio, Redentore del mondo, che sei Dio. «Ho saputo che stanno facendo uscire gente dalla zona rossa.»

Spirito Santo, che sei Dio. Santa Trinità, unico Dio. «Così dicono.» Santa Maria, prega per noi. Santa Madre di Dio. Santa Vergine delle vergini. «Riesce

a sapere come fanno?» Madre di Cristo. Madre della Chiesa. «Perché vuoi saperlo?» Madre della divina grazia. Madre purissima. Madre castissima.

«Per portare mia madre fuori da Madrid e farla venire a Tetuàn.» Madre sempre vergine. Madre immacolata. «Devo chiedere in giro...» Madre

amorevole. Madre ammirevole. «Domani mattina?» Madre del buon consiglio. Madre del Creatore. Madre del Salvatore. «Appena posso. Adesso stai zitta e continua a pregare, vediamo se fra tutte riusciamo

a far salire in cielo il signor Anselmo.» La veglia si protrasse fino all’alba. Il giorno dopo seppellimmo il maestro con un

funerale alla missione cattolica, il responsorio solenne e onoranze degne del più fervente dei fedeli. Accompagnammo il feretro al cimitero. Spirava un forte vento, come succedeva spesso a Tetuàn: un vento fastidioso che scompigliava i veli, sollevava le gonne e faceva serpeggiare per terra le foglie degli eucalipti. Mentre il sacerdote pronunciava le ultime formule in latino, mi chinai incuriosita verso Candelaria per sussurrarle una domanda.

«Non capisco perché le sorelle abbiano organizzato un funerale del genere, se pensavano che il maestro fosse un ateo figlio di

Lucifero.» «Smettila, smettila, per carità, non vorrai mica che la sua anima vaghi sperduta

all’inferno e il suo spirito ci tiri i piedi mentre dormiamo?» Feci uno sforzo per non scoppiare a ridere. «Oddio, Candelaria, non sia così superstiziosa.» «Lasciami stare, io sono una vecchia volpe e so bene di cosa parlo.» Non aggiunse altro e tornò a concentrarsi sulla liturgia; non mi guardò più fin dopo

l’ultimo requiescat in pacem. A quel punto il cadavere fu calato nella fossa, e quando i becchini gettarono le prime palate di terra sulla bara il gruppo si sciolse. Ci dirigevamo ordinatamente verso la cancellata del cimitero, quando Candelaria all’improvviso si chinò e, fingendo di allacciarsi la fibbia di una scarpa, lasciò che le sorelle passassero avanti con la grassona e le vicine. Le guardammo restando indietro, mentre avanzavano come un branco di corvi, con i veli neri fino alla vita, il medio manto, come lo

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chiamavano. «Dài, andiamo a onorare la memoria del povero signor Anselmo, perché a me, figlia

mia, il dolore mi fa venire una fame...» Camminammo fino a El Buen Gusto, scegliemmo le paste e ci sedemmo a mangiarle

su una panchina nella piazza della chiesa, in mezzo alle palme e alle aiuole. E finalmente le feci la domanda che avevo trattenuto a fatica per tutta la mattina.

«E’ riuscita a sapere qualcosa?» Annuì con la bocca piena di meringa. «E’ complicato. E costa un bel po’ di soldi.» «Avanti, mi racconti.» «C’è chi se ne occupa qui, da Tetuàn. Non sono riuscita a sapere tutti i particolari, ma

sembra che in Spagna passino attraverso la Croce Rossa Internazionale. Localizzano le persone nella zona rossa e in qualche modo riescono ad accompagnarle in un porto del Levante, non chiedermi come fanno perché non ne ho idea. Nascosti, sui camion, a piedi, va’ a sapere. In ogni caso li imbarcano. Quelli che vogliono entrare nella zona nazionalista li portano in Francia per attraversare la frontiera con i Paesi Baschi. E quelli che vogliono venire in Marocco li trasportano a Gibilterra, se possono, anche se spesso è complicato e devono prima fare scalo in altri porti del Mediterraneo. La meta successiva di solito è Tangeri, e alla fine arrivano a Tetuàn.»

Mi accorsi che il cuore mi batteva più forte. «E sa con chi dovrei parlare?» Sorrise con un velo di tristezza e mi diede una pacca affettuosa sulla coscia che mi

lasciò una traccia di zucchero glassato sulla gonna. «Prima di parlare con qualcuno bisogna avere da parte un mucchio di banconote.

Sterline. Te l’avevo detto o no che i soldi degli inglesi erano i migliori?» «Ho tutto quello che ho risparmiato negli ultimi mesi» chiarii, ignorando la domanda. «Ma hai anche il debito con il Continental.» «Magari il denaro mi basta per entrambe le cose.» «Ne dubito, gioia mia. Ti costerebbe duecentocinquanta sterline.» All’improvviso mi venne la gola secca e la sfoglia dolce vi si attaccò come colla.

Cominciai a tossire, la contrabbandiera mi diede dei colpi sulla schiena. Quando finalmente riuscii a mandare giù il boccone, mi soffiai il naso e chiesi: «Non potrebbe prestarmeli lei?».

«Non ho il becco di un quattrino, bambina.» «E i soldi dell’atelier che le ho dato via via?» «Spesi.» «Per cosa?» Fece un sonoro sospiro. «Per pagare questo funerale, le medicine degli ultimi tempi e una manciata di debiti

che il signor Anselmo aveva lasciato in vari posti. E meno male che il dottor Maté era suo amico e non mi presenterà il conto delle visite.»

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La guardai incredula. «Ma non aveva da parte i soldi della pensione?» chiesi. «Non gli era rimasto un centesimo.» «Non è possibile: da mesi non usciva quasi, non aveva spese...» Sorrise con un misto di compassione, tristezza e ironia. «Non so come ci sia riuscito, ma quel vecchio demonio ha fatto arrivare tutti i suoi

risparmi al Soccorso Rosso.» Anche se la somma necessaria per far venire mia madre in Marocco e saldare il debito

era ben al di là della mia portata, l’idea continuò a ribollirmi in testa. Quella notte non chiusi quasi occhio, impegnata com’ero a rigirare la faccenda da tutte le parti. Fantasticai su opzioni di ogni genere e contai e ricontai mille volte le banconote risparmiate, ma per quanto mi impegnassi non riuscii a moltiplicarle. Quando era ormai l’alba, però, mi venne in mente un’altra soluzione.

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CAPITOLO 19 Le conversazioni, le risatine e il ticchettio ritmico della macchina da scrivere tacquero

all’istante, mentre quattro paia di occhi si posavano su di me. La stanza era grigia, satura di fumo, puzza di sigarette e odore rancido di un concentrato di umanità. Si sentivano solo il ronzio di mille mosche e il ritmo pigro delle pale di un ventilatore di legno che giravano sopra le nostre teste. E dopo qualche secondo, il fischio ammirato di qualcuno che passava in corridoio e mi aveva vista lì in piedi, con il mio tailleur migliore e circondata da quattro scrivanie dietro le quali quattro corpi sudati in maniche di camicia si sforzavano di lavorare. Perlomeno, così pareva.

«Devo vedere il commissario Vàzquez» annunciai. «Non c’è» disse il più grasso. «Ma dovrebbe arrivare tra poco» disse il più giovane. «Può aspettarlo» disse il più magro. «Si sieda, se vuole» disse il più vecchio. Mi accomodai su una sedia con il sedile di guttaperca e aspettai senza muovermi per

più di un’ora e mezzo. Durante quei novanta minuti eterni i quattro finsero di tornare alle proprie occupazioni, ma non lo fecero.

Mentre simulavano di lavorare, mi guardavano con sfacciataggine e ammazzavano le mosche con il giornale piegato a metà; si scambiavano gesti osceni e si passavano bigliettini scarabocchiati, probabilmente con commenti sul mio seno, il mio didietro, le mie gambe, e su tutto quello che mi avrebbero fatto se fossi stata un po’ carina con loro. Il commissario arrivò come un uomo orchestra: si tolse contemporaneamente cappello e giacca, distribuì ordini mentre cercava di decifrare un paio di appunti che qualcuno gli aveva passato.

«Juàrez, ti voglio in calle del Comercio, si sono presi a pugnalate. Cortés, se non mi porti sulla scrivania la faccenda della fabbrica di fiammiferi prima

che finisca di contare fino a dieci, ti spedisco a Ifni a calci in culo. Bautista, cos’è successo con il furto allo Zoco del Trigo? Canete...»

A quel punto si interruppe. Si interruppe perché mi vide. E Canete, quello magro, rimase senza incarico.

«Venga» si limitò a dire mentre mi indicava un ufficio in fondo alla stanza. Si rimise la giacca che si era già sfilato per metà. «Cortés, la fabbrica di fiammiferi può aspettare. E voi tornate alle vostre cose» ammonì gli altri.

Chiuse la porta a vetri che separava il suo rifugio dall’ufficio e mi invitò a sedermi. La stanza era più piccola, ma infinitamente più gradevole dell’ufficio contiguo. Appese il cappello a un attaccapanni, si accomodò dietro una scrivania piena di fogli e dossier.

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Azionò un ventilatore in bachelite e la ventata d’aria fresca mi arrivò sul viso come un miracolo nel bel mezzo del deserto.

«Bene, mi dica.» Il tono non era particolarmente simpatico, ma neanche il contrario. Il commissario aveva un aspetto a metà tra l’aria nervosa e preoccupata dei primi incontri e la serenità del giorno autunnale in cui aveva finalmente smesso di starmi con il fiato sul collo. Come l’estate precedente, aveva il volto abbronzato dal sole. Forse, come molti altri abitanti di Tetuàn, andava spesso alla vicina spiaggia di Rio Martin. O forse girava in continuazione per le strade per risolvere problemi da un capo all’altro della città.

Conoscevo il suo modo di lavorare, quindi feci la mia richiesta e mi preparai ad affrontare una raffica infinita di domande.

«Ho bisogno del mio passaporto.» «Posso sapere perché?» «Per andare a Tangeri.» «Posso sapere a quale scopo?» «Devo rinegoziare il mio debito.» «Rinegoziare in che senso?» «Mi serve più tempo.» «Credevo che il suo atelier non avesse problemi; speravo che fosse già riuscita a

mettere insieme la somma che deve all’albergo. So che ha buone clienti, mi sono informato, e a quanto pare si parla bene di lei.»

«Sì, le cose vanno bene, è vero. E ho risparmiato.» «Quanto?» «Abbastanza per pagare il conto del Continental.» «E allora?» «Sono sorti altri problemi e ho bisogno di soldi.» «Problemi di che genere?» «Di famiglia.» Mi guardò fingendosi incredulo. «Pensavo che la sua famiglia stesse a Madrid.» «Proprio per questo.» «Si spieghi meglio.» «Mia madre è tutta la mia famiglia. E si trova a Madrid. E io voglio tirarla fuori da lì e

farla venire a Tetuàn.» «E suo padre?» «Le ho già detto che lo conosco appena. Mi interessa solo trovare mia madre.» «Capisco. E come pensa di fare?» Gli riferii nei dettagli tutto quello che mi aveva detto Candelaria senza fare il suo

nome. Lui mi ascoltò come sempre, fissandomi negli occhi, con i cinque sensi concentrati nell’assorbire le mie parole, anche se ero certa che conoscesse perfettamente tutti i particolari dei trasferimenti da una zona all’altra.

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«Quando avrebbe intenzione di andare a Tangeri?» «Il prima possibile, se lei mi autorizza.» Si appoggiò allo schienale della sedia e mi guardò dritto negli occhi. Con le dita della mano sinistra cominciò a tamburellare ritmicamente sulla scrivania.

Se avessi avuto la capacità di vedere al di là della carne e delle ossa, avrei percepito il suo cervello che si metteva in moto e dava inizio a un’attività intensa: soppesava la mia proposta, scartava alternative, valutava e decideva. Dopo un lasso di tempo probabilmente breve, ma che mi parve infinito, interruppe di colpo il movimento delle dita e batté con energia la palma della mano sulla superficie di legno. Sapevo che aveva preso una decisione ma, prima di espormela, si diresse verso la porta, si affacciò e disse: «Canete, prepari un lasciapassare per il posto di blocco del Borch a nome della signorina Sira Quiroga. Subito».

Feci un respiro profondo quando capii che anche Canete aveva qualcosa da fare, ma non dissi nulla finché il commissario tornò al suo posto e mi informò direttamente.

«Le darò il passaporto, un salvacondotto e dodici ore per andare e venire da Tangeri domani. Parli con il responsabile del Continental e veda se riesce a rimandare il pagamento. A essere sincero non ci conterei troppo. Ma provare non costa niente. Mi tenga informato. E ricordi: niente scherzi.»

Aprì un cassetto, frugò e tirò fuori il mio passaporto. Canete entrò, posò un foglio sul tavolo e mi guardò lasciando trasparire la voglia di sfogare con me la sua magrezza. Il commissario firmò il documento e, senza alzare la testa, sputò un «Canete, aria» rivolto al suo subordinato scansafatiche. Poi piegò il foglio, lo mise tra le pagine del mio documento e me lo porse senza aggiungere altro. Si alzò e posò la mano sul pomo della porta, invitandomi a uscire. Quando lasciai l’ufficio, le quattro paia di occhi che mi ero trovata davanti all’arrivo erano diventate sette. Sette maschi con le braccia lungo i fianchi ad aspettare la mia uscita come l’arrivo del Messia; come se fosse la prima volta che vedevano una donna presentabile fra le pareti del commissariato.

«Che succede, siamo in vacanza?» chiese il commissario. Tutti si misero automaticamente in moto, fingendo un’attività frenetica; estraevano

fogli dalle cartelline, parlavano gli uni con gli altri simulando argomenti importanti e battevano sui tasti della macchina da scrivere, ripetendo con ogni probabilità la stessa lettera dieci volte.

Me ne andai e iniziai a camminare sul marciapiede. Quando passai accanto alla finestra aperta, vidi che il commissario rientrava in ufficio.

«Cazzo, capo, che bella passera» disse una voce che non riconobbi. «Chiudi il becco, Palomares, o ti spedisco a fare la guardia al Pico de las Monas.»

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CAPITOLO 20 Mi avevano detto che prima della guerra c’erano diversi servizi di trasporto quotidiani

a coprire i settanta chilometri che separavano Tetuàn da Tangeri. Ma in quei giorni il transito era ridotto e gli orari mutevoli, perciò nessuno seppe darmi informazioni precise. La mattina seguente mi diressi nervosa all’autorimessa della compagnia di autobus La Valenciana, disposta a tutto purché uno di quei grandi veicoli rossi mi portasse a destinazione. Se il giorno prima ero riuscita a sopportare un’ora e mezzo al commissariato, circondata da quei mucchi di carne provvisti di occhi, pensai che ce l’avrei fatta anche in mezzo ad autisti disoccupati e meccanici sporchi di grasso. Indossavo di nuovo il mio completo migliore, un foulard di seta a proteggermi la testa, e avevo grandi occhiali da sole per nascondere l’agitazione. Non erano ancora le nove e mi mancavano pochi metri per raggiungere l’autorimessa della compagnia, alla periferia della città. Camminavo svelta, immersa nei miei pensieri: mi figuravo l’incontro con il responsabile del Continental e ruminavo gli argomenti che volevo esporgli. Alla preoccupazione per il pagamento del debito si univa una sensazione altrettanto sgradevole. Per la prima volta da quando me n’ero andata sarei tornata a Tangeri, dove a ogni angolo mi aspettava un ricordo legato a Ramiro. Sapevo che sarebbe stato doloroso e che la memoria del tempo vissuto con lui in quei luoghi avrebbe assunto di nuovo una forma reale. Sentivo che sarebbe stata una giornata difficile.

Sulla strada incrociai poche persone e ancor meno automobili; era presto. Quindi mi meravigliò che una vettura frenasse proprio accanto a me. Era una Dodge nera fiammante, non troppo grande. L’auto mi era del tutto sconosciuta, ma non la voce che ne uscì.

«Morning, dear. Che sorpresa vederti da queste parti. Posso darti un passaggio?» «Mi sa di no, grazie. Sono arrivata» dissi indicando il quartier generale della

Valenciana. Mentre parlavo, riuscii a vedere con la coda dell’occhio che la mia cliente inglese

indossava un vestito uscito dal mio atelier qualche settimana prima. Come me, aveva un foulard chiaro sui capelli.

«Pensi di prendere un autobus?» chiese con una leggera nota di incredulità nella voce. «Proprio così, vado a Tangeri. In ogni caso, grazie mille per l’offerta del passaggio.» Rosalinda Fox si lasciò andare a una risata argentina, come se avesse sentito una

barzelletta divertente. «No zvay, szveetie. Di autobus non se ne parla neanche, tesoro. Vado a Tangeri

anch’io, sali. E non darmi più del lei, please. Adesso siamo amiche, aren’t we?» Valutai rapidamente l’offerta e conclusi che non contravveniva in nulla gli ordini del

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commissario Vàzquez, così accettai. Grazie a quell’invito inatteso avrei evitato un viaggio scomodo su un autobus pieno di ricordi tristi, e inoltre, facendo il tragitto in compagnia, avrei dimenticato più facilmente la mia inquietudine.

Rosalinda guidò lungo paseo de las Palmeras lasciandosi alle spalle la stazione degli autobus e passò accanto a ville grandi e belle, quasi nascoste dai giardini frondosi. Ne indicò una.

«Quella è casa mia, anche se per poco tempo, credo. Probabilmente presto traslocherò di nuovo.»

«Via da Tetuàn?» Rise come se avesse sentito una sparata assurda. «No, no, no, per niente al mondo. Forse mi trasferirò in una casa più comoda; questa

villa è divina, ma è stata disabitata a lungo e ha bisogno di molte migliorie. L’impianto idraulico fa pietà, non c’è quasi acqua potabile e non voglio immaginare come sarebbe passarci un inverno.

L’ho detto a Juan Luis e sta cercando un’altra casa a bit more comfortable.» Menzionò l’amante con assoluta naturalezza, sicura, senza le vaghezze e le

imprecisioni del giorno del ricevimento dai tedeschi. Io non mostrai alcuna reazione, come se fossi pienamente informata su quello che c’era tra loro; come se chiamare l’alto commissario con il nome di battesimo fosse una cosa del tutto normale nella mia vita quotidiana di sarta.

«Adoro Tetuàn, it’s so, so beautiful. Mi ricorda un po’ la zona bianca di Calcutta, con la sua vegetazione e le sue dimore coloniali. Ma sono cose che mi sono lasciata alle spalle da tempo.»

«Non hai intenzione di tornarci?» «No, no, assolutamente no. E’ acqua passata: sono successe cose sgradevoli e

qualcuno si è comportato male con me. E poi mi piace vivere in posti nuovi: prima in Portogallo, ora in Marocco, domani zvho knows, chissà. In Portogallo ci sono stata poco più di un anno; prima a Estoril e poi a Cascais. Ma l’atmosfera è cambiata e ho deciso di andarmene da un’altra parte.»

Parlava senza interruzione, concentrata sulla guida. Mi sembrò che il suo spagnolo fosse migliorato rispetto al nostro primo incontro; le tracce di portoghese non si sentivano quasi più, anche se continuava a intercalare le frasi con parole ed espressioni nella sua lingua. Avevamo la capote abbassata, il rumore del motore era assordante. Doveva quasi gridare per farsi sentire.

«Fino a non molto tempo fa a Estoril e Cascais c’era una deliziosa comunità di britannici e altri espatriati: diplomatici, aristocratici europei, impresari inglesi del mercato del vino, americani delle oil companies... Facevamo centinaia di feste, era tutto a buon prezzo: i liquori, gli affitti, i domestici.

Giocavamo come pazzi a bridge; era così divertente. Ma all’improvviso, inaspettatamente, è cambiato tutto. Di colpo sembrava che mezzo mondo avesse intenzione di stabilirsi lì. La zona si è riempita di nuovi britishers che, dopo aver vissuto

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ai quattro angoli dell’Impero, non avevano alcuna voglia di passare gli anni della pensione sotto la pioggia dell’Old Country e optavano per il clima dolce della costa portoghese. E di ebrei tedeschi, non proprio a loro agio in patria, che valutavano la possibilità di trasferire i loro affari in Portogallo. I prezzi salirono immensely.» Alzò le spalle con un’espressione infantile e aggiunse: «Direi che ha perso il suo charme, il suo fascino».

Per lunghi tratti il paesaggio giallastro era interrotto solo da macchie di fichi d’India o da canneti. Attraversammo una zona montagnosa ricca di pinete, scendemmo di nuovo verso terreni aridi. Le cocche dei foulard di seta che ci coprivano il capo svolazzavano luccicando alla luce del sole, mentre Rosalinda continuava a raccontare le peripezie del suo arrivo in Africa.

«In Portogallo mi avevano parlato a lungo del Marocco, soprattutto di Tetuàn. A quei tempi ero amica intima del generale Sanjurjo e della sua adorabile Carmen, so sweet, sai che è stata ballerina? Johnny, mio figlio, giocava ogni giorno con il loro bambino, Pepito. La morte di José Sanjurjo mi ha addolorato molto, in quell’airplane crash, un incidente terribile. Era un uomo davvero meraviglioso; non molto attraente, to tell you the truth, ma così simpatico e gioviale. Mi diceva sempre bellisssssima; da lui ho imparato le prime parole di spagnolo. Ed è stato lui a presentarmi Juan Luis a Berlino, durante i Giochi invernali dell’anno scorso, in febbraio; ne sono rimasta affascinata, ovviamente. Ci ero arrivata dal Portogallo con la mia amica Niesha: due donne sole che attraversano l’Europa in Mercedes fino a Berlino, can you imagine? Abbiamo preso una camera all’Adlon Hotel, che conoscerai di sicuro.»

Feci un’espressione che non significava né sì né no; lei nel frattempo continuò a parlare senza prestarmi troppa attenzione.

«Berlino, che città, my goodness. I cabaret, le feste, i night club, tutto in pieno fermento, vitale; la reverenda madre del mio convitto anglicano sarebbe morta di orrore, se mi avesse vista lì. Una sera, per caso, li ho incontrati al lounge dell’hotel having a drink, che bevevano qualcosa. Sanjurjo era in Germania per visitare fabbriche di armi; Juan Luis, che ci aveva vissuto per diversi anni come attaché militare dell’ambasciata spagnola, lo accompagnava nel suo giro. Abbiamo fatto a little chit-chat, un po’ di conversazione. All’inizio Juan Luis era discreto e non parlava di nulla davanti a me, ma José sapeva che ero una buona amica. Siamo qui per i Giochi invernali e ci prepariamo per il gioco della guerra, ha detto ridendo. My dear José: se non fosse stato per quel terribile incidente, forse ora sarebbe a capo dell’esercito nazionalista al posto di Franco, so sad. Anyway, una volta tornati in Portogallo, Sanjurjo mi ricordava in continuazione quell’incontro e mi parlava del suo amico Beigbeder: dell’ottima impressione che gli avevo fatto, della sua vita nel meraviglioso Marocco spagnolo. Sai che anche José è stato alto commissario a Tetuàn negli anni Venti? Ha progettato lui stesso i giardini dell’Alto Commissariato, so beautiful. E il re Alfonso XIII gli ha conferito il titolo di marchese del Rif. Per questo lo chiamavano il leone del Rif, poor dear José.»

Continuavamo ad attraversare terre aride. Rosalinda, incontenibile, guidava e parlava

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senza sosta saltando da un argomento all’altro, oltrepassando frontiere e momenti del passato senza curarsi di capire se riuscivo a starle dietro nel labirinto esistenziale che rivelava via via. All’improvviso ci fermammo in mezzo al nulla, e la frenata improvvisa sollevò una nuvola di polvere e terriccio secco. Lasciammo passare un gregge di capre affamate, guidate da un pastore con il turbante lercio e la gellaba scura sdrucita. Quando l’ultimo animale ebbe attraversato la strada, l’uomo alzò il ramo che usava come bastone per farci segno di proseguire e disse qualcosa che non capimmo, aprendo una bocca piena di buchi neri. Allora Rosalinda riprese a guidare e a parlare.

«Qualche mese dopo ci furono gli events, gli avvenimenti del luglio scorso. Io just me n’ero andata dal Portogallo e mi trovavo a Londra per preparare il trasloco in Marocco. Juan Luis mi ha raccontato che durante l’alzamiento le cose sono state a bit difficult, in certi momenti: c’erano focolai di resistenza, spari ed esplosioni, addirittura sangue nelle fontane degli amati giardini di Sanjurjo. Ma gli insorti hanno raggiunto il loro obiettivo e Juan Luis ha dato il suo contributo. E’ stato lui a informare il califfo Muley Hassan, il gran visir e gli altri dignitari musulmani di quello che stava succedendo. Parla perfettamente l’arabo, you know: ha studiato alla Scuola di Lingue Orientali a Parigi e ha vissuto per molti anni in Africa. E’ un grande amico del popolo marocchino e ama profondamente la sua cultura: chiama gli arabi fratelli e dice che voi spagnoli siete tutti mori; è così simpatico, so funny.»

Non la interruppi, però mi vennero in mente immagini frequenti di arabi affamati che lottavano in terra straniera, offrendo il loro sangue per una causa che non era la loro in cambio di un misero compenso e di qualche chilo di farina e zucchero che, a quanto si diceva, veniva dato alle famiglie delle tribù beduine mentre gli uomini combattevano al fronte. L’organizzazione del reclutamento di quei poveri arabi, mi aveva raccontato Félix, era in mano al loro buon amico Beigbeder.

«Anyway» proseguì «quella notte stessa riuscì a portare tutte le autorità islamiche dalla parte degli insorti, cosa fondamentale per il buon esito dell’operazione militare. Poi, come riconoscimento, Franco lo ha nominato alto commissario. Si conoscevano già da prima, si erano trovati insieme in qualche destinazione. Ma non erano esattamente amici, no, no, no. Di fatto, anche se aveva accompagnato Sanjurjo a Berlino qualche mese prima, Juan Luis initially era estraneo ai complotti dell’alzamiento; gli organizzatori, non so perché, non avevano previsto di coinvolgerlo. A quei tempi aveva un incarico più che altro amministrativo, come vicedelegato agli Affari indigeni, viveva ai margini delle caserme e delle cospirazioni, nel suo mondo. E’ un tipo molto particolare, un intellettuale più che un uomo d’azione, you know what I mean: gli piace leggere, parlare, discutere, imparare altre lingue... Dear Juan Luis, così romantico.»

Mi era difficile sposare la figura di uomo incantevole e romantico delineata dalla mia cliente con quella di un risoluto pezzo grosso dell’esercito ribelle, ma l’idea di farglielo sapere non mi passò nemmeno per l’anticamera del cervello. A quel punto arrivammo a un posto di blocco presidiato da soldati marocchini armati fino ai denti.

«Dammi il tuo passaporto, please.»

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Lo tirai fuori dalla borsa insieme al permesso per attraversare la frontiera che il commissario Vàzquez mi aveva dato il giorno prima. Le porsi entrambi i documenti; prese il primo e scartò il secondo senza neanche guardarlo. Mise il mio passaporto insieme al suo e a un altro foglio, probabilmente un salvacondotto illimitato con il quale sarebbe potuta arrivare fino in capo al mondo, se avesse voluto visitarlo.

Allungò i documenti sfoderando il migliore dei suoi sorrisi e li porse a uno di quei soldati arabi, i mejanis. Lui li portò in un casotto imbiancato a calce. Ne uscì immediatamente un militare spagnolo, che si mise sull’attenti davanti a noi nel più marziale dei saluti e senza dire una parola ci fece segno di proseguire. Lei riprese il suo monologo, in un punto diverso da quello in cui l’aveva lasciato qualche minuto prima.

Io, nel frattempo, mi sforzai di ritrovare la calma. Sapevo che non avevo motivo di essere inquieta, tutto era ufficialmente in ordine, ma nel superare quel posto di blocco non potei evitare una sensazione angosciante che si estese su tutto il mio corpo come un’eruzione cutanea.

«So, l’anno scorso, in ottobre, mi sono imbarcata a Liverpool su una nave che trasportava caffè; era diretta alle West Indies e faceva scalo a Tangeri. E lì sono rimasta, come previsto. Lo sbarco è stato absolutely crazy, una vera follia, perché il porto di Tangeri è così... così awful, spaventoso. Lo conosci, vero?»

Questa volta annuii con cognizione di causa. Come avrei potuto dimenticare il mio arrivo a Tangeri con Ramiro, più di un anno prima? Le luci, le navi, la spiaggia, le case bianche che declinavano sulle pendici della montagna verde fino al mare. Le sirene e quell’odore di sale e pece. Mi concentrai di nuovo per seguire Rosalinda e le sue disavventure di viaggio: non era ancora il momento di aprire la porta alla malinconia.

«Pensa che avevo con me Johnny, mio figlio, e Joker, il mio cocker spaniel, e in più la macchina e sedici bauli con le mie cose: vestiti, tappeti, porcellane, i libri di Kipling e di Evelyn Waugh, album di fotografie, le mazze da golf e l’HMV, you know, un grammofono portatile con tutti i miei dischi: Paul Whiteman e la sua orchestra, Bing Crosby, Luis Armstrong... E ovviamente un mucchio di lettere di presentazione.

Questa si è rivelata una delle cose più importanti che mio padre mi ha insegnato quando ero just a girl, appena una bambina, oltre a cavalcare e a giocare a bridge, of course. Non viaggiare mai senza lettere di presentazione, diceva sempre; poor daddy, è morto qualche anno fa di un heart attack, come si dice?» chiese, posando una mano sul lato sinistro del petto.

«Un attacco di cuore?» «That’s it, un attacco di cuore. E così, grazie alle lettere mi sono fatta subito qualche

amico inglese: vecchi funzionari coloniali in pensione, ufficiali dell’esercito, membri del corpo diplomatico, you know, i soliti once again. In generale abbastanza noiosi, to teli you the truth, anche se grazie a loro ho conosciuto persone fantastiche. Ho affittato una splendida casetta vicino alla Dutch Legation, ho cercato una domestica e mi sono trasferita lì per qualche mese.»

Si cominciava a intravedere qua e là una spruzzata di costruzioni bianche che

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anticipavano l’arrivo imminente a Tangeri. Aumentò anche il numero di persone che camminavano sul ciglio della strada, gruppi di donne musulmane cariche di fardelli, bambini che correvano con le gambe nude sotto le gellabe corte, uomini con cappucci e turbanti, animali, ancora animali, asini che trasportavano orci d’acqua, un gregge di pecore smunte, ogni tanto qualche gallina che scappava via spaventata. La città prese forma a poco a poco e Rosalinda guidò con destrezza per raggiungere il centro, svoltando a tutta velocità mentre continuava a descrivere la casa di Tangeri lasciata di recente che le piaceva tanto. Io, nel frattempo, cominciai a riconoscere luoghi familiari, sforzandomi di non pensare alla persona con cui ci ero passata in un’epoca che credevo felice. Alla fine parcheggiò in plaza de Francia con una frenata che fece voltare decine di passanti. Incurante delle loro occhiate, si tolse il foulard e si ritoccò il rossetto allo specchietto retrovisore.

«Ho una voglia matta di bere un Morning Cocktail al bar El Minzah. Ma prima devo risolvere una faccenda. Vieni con me?»

«Dove?» «Alla Bank of London and South America. Chissà se il mio insopportabile marito mi

ha finalmente mandato i soldi.» Mi tolsi il foulard anch’io, chiedendomi se quella donna avrebbe mai smesso di

smentire le mie supposizioni. Non solo era una madre amorevole mentre a me era sembrata una giovane svitata. Non solo mi chiedeva in prestito un abito per andare a un ricevimento di nazisti espatriati mentre io credevo che avesse un guardaroba di lusso confezionato da grandi stilisti internazionali; non solo era l’amante di un potente militare con il doppio dei suoi anni, mentre io l’avevo immaginata innamorata di un frivolo e aitante straniero. Ma a quanto pare non bastava ancora per contraddire le mie congetture, figuriamoci: ora saltava fuori anche un marito assente ma vivo, che non sembrava troppo entusiasta di continuare a mantenerla.

«Mi sa che non posso venire con te, anch’io ho una faccenda da sbrigare» dissi in risposta al suo invito. «Però possiamo darci appuntamento per dopo.»

«All right.» Guardò l’ora. «All’una?» Accettai. Non erano ancora le undici, avevo tutto il tempo. Forse la fortuna sì, ma il

tempo non mi sarebbe mancato.

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CAPITOLO 21 Il bar dell’hotel El Minzah era esattamente uguale all’anno prima. Gruppi animati di uomini e donne europei vestiti con eleganza sedevano ai tavoli e al

bancone e bevevano whisky, sherry e cocktail, impegnati in conversazioni in cui si passava da una lingua all’altra come si cambia un fazzoletto. Al centro della sala un pianista rallegrava l’atmosfera con la sua musica melodiosa. Nessuno sembrava avere fretta, in apparenza era tutto uguale all’estate del ‘36, a parte che al bancone non mi aspettava un uomo che parlava in spagnolo con il barman, ma una donna che si esprimeva in inglese, con un bicchiere in mano.

«Sira, dear!» disse richiamando la mia attenzione non appena mi vide. «Un Pink Gin?» chiese sollevando il suo cocktail. Per me bere gin con angostura o tre sorsi di acquaragia era esattamente lo stesso,

quindi accettai sforzandomi di sorridere. «Conosci Dean? E’ un mio vecchio amico. Dean, ti presento Sira Quiroga, my

dressmaker, la mia sarta.» Guardai il barista e riconobbi il corpo asciutto e il volto olivastro, in cui erano

incastonati due occhi dallo sguardo scuro ed enigmatico. Ricordai che ai tempi in cui io e Ramiro frequentavamo il suo bar parlava con tutti, e

chiunque sembrava rivolgersi a lui quando gli serviva un contatto, un referente o un brandello di informazione sfuggente. Vidi che mi squadrava, collocandomi nel passato mentre valutava i cambiamenti e mi associava alla presenza svanita di Ramiro. Parlò prima di me.

«Mi sembra che sia già stata qui un po’ di tempo fa, o sbaglio?» «Tempo fa, sì» fu la mia unica risposta. «Mi pare di ricordare. Quante cose sono successe da allora, vero? Adesso ci sono

molti più spagnoli da queste parti; quando lei frequentava il bar non erano tanti.» Sì, erano successe molte cose. A Tangeri erano arrivati migliaia di spagnoli in fuga

dalla guerra, e io e Ramiro eravamo andati ognuno per la sua strada. Erano cambiati la mia vita, il mio paese, il mio corpo e i miei affetti; era cambiato tutto, e così tanto che preferivo non pensarci troppo, quindi finsi di concentrarmi nel cercare qualcosa in fondo alla borsa e non risposi. I due continuarono a chiacchierare e a scambiarsi confidenze, alternando spagnolo e inglese; a tratti tentavano di coinvolgermi in pettegolezzi che non mi interessavano per niente; mi bastava e mi avanzava la fatica di mettere ordine nelle mie faccende.

Usciva qualche cliente, altri entravano: uomini e donne dall’aspetto elegante, senza fretta e senza impegni. Rosalinda salutò molti di loro con un’espressione allegra e un

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paio di parole simpatiche, come se volesse evitare di prolungare qualunque incontro più dello stretto necessario. Ci riuscì per un po’: esattamente finché arrivarono due conoscenti che quando la videro decisero di non accontentarsi: un semplice ciao tesoro, che piacere vederti, non erano sufficienti. Si trattava di un paio di esemplari di una specie superiore: bionde, snelle e disinvolte, straniere imprecisate come quelle di cui tante volte avevo imitato i gesti e gli atteggiamenti, fino a farli miei, di fronte allo specchio crepato della camera di Candelaria. Salutarono Rosalinda con baci fuggevoli, arricciando le labbra e sfiorando appena le guance incipriate. Si piazzarono vicino a noi con disinvoltura, senza che nessuno le avesse invitate. Mentre il barista preparava i loro aperitivi, tirarono fuori i portasigarette, i bocchini d’avorio e gli accendini d’argento. Menzionarono nomi e cariche, feste, incontri riusciti e falliti di Tizio con Caio e Sempronio: ricordi quella sera a Villa Harris, non puoi immaginare cosa è successo a Lucile Dawson con il suo ultimo fidanzato, ah, a proposito, sai che Bertie Steward è in rovina? E via di seguito finché una di loro, la meno giovane, la più ingioiellata, rivelò senza giri di parole a Rosalinda quello che entrambe dovevano avere in mente dal momento in cui l’avevano vista.

«Bene, cara, e come ti va a Tetuàn? A dire il vero è stata una sorpresa tremenda per tutti venire a sapere del tuo improvviso trasferimento. E successo così in fretta...»

Una risatina sarcastica precedette la risposta di Rosalinda. «Oh, la mia vita a Tetuàn è meravigliosa. Ho una casa da sogno e amici fantastici,

come my dear Sira, che ha il migliore atelier di haute couture dell’intero Nordafrica.» Mi guardarono con curiosità e per tutta risposta agitai la chioma e feci un sorriso più

falso di Giuda. «Magari un giorno possiamo venire a trovarla. Siamo appassionate di moda e le sarte

di Tangeri ci hanno un po’ annoiate, vero Mildred?» La più giovane annuì effusiva e prese in mano la conversazione. «Ci piacerebbe moltissimo farti visita a Tetuàn, Rosalinda cara, ma da quando è

iniziata la guerra spagnola attraversare la frontiera è così complicato...» «Magari tu, con i tuoi contatti, potresti farci avere due lasciapassare; così verremmo a

trovarvi entrambe. E avere l’opportunità di conoscere qualcuno dei tuoi nuovi amici...» Le bionde si alternavano nell’avanzata verso l’obiettivo; dietro il bancone il barista

Dean seguiva la conversazione impassibile, ma deciso a non perdere una battuta. Rosalinda, intanto, aveva un sorriso congelato sul volto. Le due donne continuarono a parlare, rubandosi la parola a vicenda.

«Sarebbe fantastico: tout le monde a Tangeri, cara, muore dalla voglia di conoscere i tuoi nuovi amici.»

«Be’, perché non dirlo apertamente, siamo o non siamo buone amiche? In realtà moriamo dalla voglia di conoscere un tuo amico in particolare. Ci hanno detto che si tratta di un uomo molto, molto speciale.»

«Forse una sera potresti invitarci a uno dei ricevimenti che dà, per presentargli i tuoi vecchi amici di Tangeri. Ci piacerebbe moltissimo, vero Olivia?»

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«Sarebbe splendido. Siamo così stanche di vedere sempre le stesse facce, alternarle un po’ con i rappresentanti del nuovo regime spagnolo per noi sarebbe meraviglioso.»

«Sì, sarebbe davvero meraviglioso... Inoltre, la ditta che rappresenta mio marito ha nuovi prodotti che potrebbero interessare l’esercito nazionalista; forse, se tu mettessi una buona parola riuscirebbe a introdurli nel Marocco spagnolo.»

«Il mio povero Arnold è un po’ stanco del suo lavoro alla Bank of British West Africa; forse a Tetuàn, fra le tue conoscenze, potrebbe trovare qualcosa di più adatto a lui...»

A poco a poco il sorriso di Rosalinda svanì e lei non si disturbò a ristamparselo sul viso. Quando decise di avere sentito abbastanza idiozie, si limitò a ignorare le due bionde per rivolgersi prima a me e poi al barista.

«Sira, darling, andiamo a mangiare al Roma Park? Dean, please, be a love e segna i nostri aperitivi sul mio conto.»

L’uomo fece di no con la testa. «Offre la casa.» «Anche a noi?» chiese sollecita Olivia. O forse era Mildred. Prima che il barman potesse rispondere, Rosalinda lo fece al posto suo. «A voi no.» «Perché?» chiese Mildred, stupita. O forse era Olivia. «Perché siete due bitches. Come si dice, Sira, darling?» «Due zoccole» dissi senza un attimo di esitazione. «That’s it. Due zoccole.» Lasciammo il bar dell’hotel El Minzah consapevoli che molti ci seguivano con lo

sguardo: anche per una società cosmopolita e tollerante come quella di Tangeri la tresca pubblica fra un militare insorto maturo e potente e una giovane inglese sposata era un boccone succulento, l’ideale per rendere gustosa l’ora dell’aperitivo.

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CAPITOLO 22 «Immagino che la mia relazione con Juan Luis debba sembrare un po’ sorprendente a

molti, ma per me è come se la nostra storia fosse scritta nelle stelle fin dal principio dei tempi.»

Tra quelli a cui la coppia sembrava del tutto inaudita c’ero, ovviamente, anch’io. Mi era davvero difficile immaginare la donna che avevo di fronte, raggiante e simpatica, mondana e frivola, coinvolta in una relazione sentimentale stabile con un sobrio militare di alto grado che, oltretutto, aveva il doppio della sua età. Mangiavamo pesce e bevevamo vino bianco nel dehors, mentre l’aria del mare vicino faceva svolazzare le tende a righe bianche e blu sulle nostre teste, portando odore di salsedine e tristi ricordi che mi sforzavo di allontanare concentrandomi sulle parole di Rosalinda. Sembrava che avesse una voglia pazzesca di parlare della sua relazione con l’alto commissario, di condividere con qualcuno una versione dei fatti completa e personale, lontana dai mormorii che passavano di bocca in bocca a Tangeri e a Tetuàn. Ma perché proprio con me, se mi conosceva appena? Nonostante il mio travestimento da sarta chic, le nostre origini non potevano essere più diverse. E anche il nostro presente. Lei proveniva da un mondo cosmopolita agiato e ozioso; io ero solo una lavoratrice, figlia di un’umile madre nubile e cresciuta in un quartiere popolare di Madrid.

Lei viveva un amore appassionato con un ufficiale distaccato dell’esercito che aveva provocato una guerra devastante per il mio paese; io, intanto, lavoravo giorno e notte per tirare avanti da sola. Eppure, lei aveva deciso di fidarsi di me. Forse pensava che potesse essere un modo di sdebitarsi per il favore del Delphos. Forse immaginava che, essendo una donna indipendente e sua coetanea, l’avrei capita meglio. O forse, semplicemente, si sentiva sola e aveva un bisogno imperioso di sfogarsi con qualcuno. E quel qualcuno, in quel mezzogiorno estivo e in quella città della costa africana, ero io.

«Prima di morire in quel tragico incidente, Sanjurjo insisteva perché, una volta sistemata a Tangeri, andassi a trovare il suo amico Juan Luis Beigbeder a Tetuàn; continuava a tirare fuori l’incontro all’Aflon di Berlino e diceva che sarebbe stato contentissimo di vedermi again.

Anch’io, to teli you the truth, ero interessata a rivederlo: mi era sembrato un uomo affascinante, così interessante, così educato, così cavaliere, così spagnolo. Perciò, quando mi ero trasferita da qualche mese, ho deciso che era arrivato il momento di andare nella capitale del Protettorato per fargli un saluto.

A quel punto le cose erano cambiate, obviously: Beigbeder non aveva più l’incarico

amministrativo agli Affari indigeni; occupava il posto più importante dell’Alto

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Commissariato. E con la mia Austin 7 mi sono diretta proprio lì. My Godi Non dimenticherò mai quel giorno. Sono arrivata a Tetuàn e come prima cosa sono andata a trovare il console inglese, Monk-Mason; lo conosci, no? Io lo chiamo old monkey, vecchia scimmia; è così noioso, poor thing.»

Approfittai del fatto che mi stavo portando il bicchiere alla bocca per fare un’espressione vaga. Non conoscevo quel Monk-Mason, ne avevo solo sentito parlare qualche volta dalle mie clienti, ma non volevo ammetterlo davanti a Rosalinda.

«Quando gli ho detto che avevo intenzione di andare a trovare Beigbeder, il console è rimasto molto colpito. Come saprai, a differenza dei tedeschi e degli italiani, His majesty’s government, il nostro governo, in pratica non ha nessun contatto con le autorità spagnole della fazione nazionalista, perché riconosce come legittimo solo il regime repubblicano; quindi Monk-Mason deve aver pensato che la mia visita a Juan Luis potesse rivelarsi molto conveniente per gli interessi britannici. So, prima di mezzogiorno ho raggiunto l’Alto Commissariato con la mia macchina, solo con Joker, il mio cane. All’ingresso ho mostrato la lettera di presentazione che Sanjurjo mi aveva dato prima di morire, e qualcuno mi ha condotto dal segretario personale di Juan Luis attraverso corridoi pieni di militari e sputacchiere, how very disgusting, che schifo! Immediatamente Jiménez Mouro, il suo segretario, mi ha accompagnato nel suo ufficio. Tenuto conto della guerra e della sua posizione, immaginavo di trovare il nuovo alto commissario con un’imponente divisa carica di medaglie e decorazioni; macché, assolutamente, anzi: come quella sera a Berlino, Juan Luis indossava un semplice abito scuro che non gli dava affatto l’aria di un militare ribelle. La mia visita gli ha fatto moltissimo piacere: è stato delizioso, abbiamo chiacchierato e mi ha chiesto se volevo pranzare con lui, ma io avevo già accettato un invito di Monk-Mason, così siamo rimasti d’accordo per il giorno dopo.»

I tavoli intorno a noi si erano a poco a poco riempiti. Ogni tanto Rosalinda salutava qualcuno con un semplice gesto o un breve sorriso, senza mostrarsi intenzionata a interrompere il racconto dei primi incontri con Beigbeder. Anch’io riconobbi alcuni volti familiari, gente che avevo conosciuto con Ramiro, ma preferii ignorarli. Eravamo concentrate entrambe: lei parlava e io ascoltavo, mangiavamo il nostro pesce e bevevamo vino freddo senza badare al rumore del mondo.

«Il giorno dopo, arrivando all’Alto Commissariato, mi aspettavo un pranzo ufficiale intonato all’ambiente: un grande tavolo, molte formalità, camerieri intorno... Ma Juan Luis aveva riservato un semplice tavolo per due accanto a una finestra aperta sul giardino. E stato un lunch indimenticabile; Beigbeder parlava, parlava, parlava in continuazione del Marocco, il suo Marocco felice, come lo chiama lui. Della magia di questa terra, dei suoi segreti, della sua cultura affascinante. Dopo pranzo ha deciso di mostrarmi i dintorni di Tetuàn, so beautiful. Siamo usciti con l’auto ufficiale, pensa, accompagnati da un seguito di motociclisti e attendenti, so embarassing! Anyway, siamo finiti in spiaggia, seduti in riva al mare mentre gli altri aspettavano in strada, cari you believe it?»

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Lei rise e io sorrisi. La situazione che mi aveva descritto era davvero singolare: la personalità più importante del Protettorato e una straniera appena arrivata, che sarebbe potuta essere sua figlia, che flirtavano apertamente in riva al mare mentre la comitiva motorizzata li osservava senza pudore da lontano.

«A un certo punto ha preso due pietre, una bianca e una nera. Ha messo le mani dietro la schiena e le ha tirate fuori con i pugni chiusi.

Scegli, ha detto. Cosa devo scegliere? ho chiesto. Una mano. Se c’è la pietra nera, oggi uscirai dalla mia vita e non ti rivedrò mai più. Se c’è quella bianca, è destino che tu rimanga con me.»

«E hai scelto quella bianca.» «Sì, in effetti la pietra era bianca» confermò con un sorriso radioso. «Un paio di giorni dopo ha mandato due auto a Tangeri: una Chrysler Royal per

trasportare le mie cose e, per me, la Dodge Roadster con cui siamo venute oggi, un regalo del direttore della Banca Hassan di Tetuàn, che Juan Luis ha deciso di passarmi. Da allora non ci siamo mai separati, tranne quando le sue mansioni gli impongono di viaggiare. Al momento vivo con mio figlio Johnny nella casa di paseo de las Palmeras; è magnifica, con un bagno degno di un maragià e un water che sembra un trono, ma le pareti cadono a pezzi e manca l’acqua corrente. Juan Luis continua ad abitare all’Alto Commissariato perché fa parte dei suoi obblighi; non pensiamo di andare a vivere insieme, ma lui ha deciso di non nascondere la sua relazione con me, anche se potrebbe rivelarsi compromettente.»

«Perché è sposato...» suggerii. Fece un’espressione indifferente e si tolse una ciocca di capelli dal viso. «No, no; il punto è un altro, anch’io sono sposata e questi sono solo fatti nostri, our

concern, faccende personali. Il problema è pubblico; ufficiale, diciamo: qualcuno pensa che una donna inglese possa esercitare su di lui un’influenza poco raccomandabile, e non lo nasconde.»

«Chi lo pensa?» Mi parlava con una tale fiducia che, senza neanche farci caso, mi sentivo legittimata a chiedere spiegazioni quando non riuscivo a capire fino in fondo quello che diceva.

«I membri della comunità nazista nel Protettorato. Langenheim e Bernhardt, soprattutto. Pensano che l’alto commissario dovrebbe essere gloriously pro-German in tutti gli ambiti della sua vita: fedele ai tedeschi al cento per cento, perché stanno aiutando la sua causa in questa guerra; sono stati i primi a fornire aerei e armi. Di fatto Juan Luis sapeva del viaggio compiuto da Tetuàn in Germania in quei primi giorni per incontrare Hitler a Bayreuth, dove assisteva, come ogni anno, al festival wagneriano. Anyway, Hitler si è consultato con l’ammiraglio Canaris, che gli ha consigliato di acconsentire alla richiesta di aiuto; poi il Führer ha dato l’ordine di inviare in Marocco tutto ciò che era stato richiesto. Se non l’avesse fatto, le truppe dell’esercito spagnolo in Africa non avrebbero potuto attraversare lo Stretto, perciò l’aiuto tedesco si è rivelato fondamentale. Da allora, ovviamente, i rapporti fra i due eserciti sono strettissimi. Ma i

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nazisti di Tetuàn credono che la mia vicinanza e l’affetto che Juan Luis nutre per me possano portarlo a adottare una posizione più pro-British e meno fedele ai tedeschi.»

Ricordai i commenti di Félix sul marito di Frau Langenheim e sul suo compatriota Bernhardt, l’accenno al tempestivo aiuto militare negoziato in Germania che, a quanto pareva, lungi dal cessare era diventato sempre più di dominio pubblico nella penisola. Ricordai anche Rosalinda preoccupata di avere un aspetto impeccabile, per fare buona impressione al braccio del suo amante durante il primo incontro ufficiale con la comunità tedesca, ma cercai di minimizzare per tranquillizzarla.

«Probabilmente non devi preoccuparti troppo di queste cose. Lui può rimanere fedele ai tedeschi anche se sta con te, sono due cose diverse, una ufficiale e l’altra personale. Chi pensa diversamente non ha ragione.»

«Ce l’ha, invece, eccome.» «Non capisco.» Diede una rapida occhiata al dehors semideserto. La conversazione si era protratta

così tanto che solo due o tre tavoli erano ancora occupati. Il vento si era calmato, le tende si muovevano appena. Diversi camerieri in giacca bianca con il tarbush - il copricapo arabo di feltro rosso - lavoravano in silenzio scuotendo tovaglioli e tovaglie. Rosalinda abbassò la voce fino a sussurrare; e il suo sussurro, nonostante il volume basso, trasmetteva un’inequivocabile determinazione.

«Le loro congetture sono giuste perché io, my dear, ho intenzione di fare tutto il possibile perché Juan Luis intrattenga rapporti amichevoli con i miei compatrioti. Non sopporto l’idea che la vostra guerra sia vinta dall’esercito nazionalista, che la Germania diventi il grande alleato del popolo spagnolo e la Gran Bretagna una potenza nemica. E lo farò per due motivi. Il primo è semplice sentimentalismo patriottico: voglio che la nazione dell’uomo che amo sia amica del mio paese. Il secondo motivo, however, è molto più pragmatico e oggettivo: noi inglesi non ci fidiamo dei nazisti, e le cose cominciano a mettersi male. Forse parlare di un’altra guerra europea è un po’ azzardato, ma non si sa mai.

E se dovesse succedere, mi piacerebbe che il vostro paese fosse schierato al nostro fianco.»

Stavo per dirle apertamente che il nostro povero paese non era nelle condizioni di pensare a nessuna guerra futura, che per noi era già abbastanza problematico fare fronte alla disgrazia che stavamo vivendo.

Ma Rosalinda sembrava del tutto estranea al nostro conflitto, sebbene il suo amante fosse un pezzo grosso di una delle due fazioni. Alla fine decisi di assecondarla in quella conversazione incentrata su un futuro che forse non sarebbe mai arrivato, senza approfondire la tragedia presente. La giornata mi aveva già riservato una buona dose di amarezza e preferii non intristirmi ulteriormente.

«E come pensi di fare?» mi limitai a chiedere. «Well, non credere che abbia grandi contatti personali alla Whitehall, not at all» disse

con una risatina. Presi un appunto mentale per ricordarmi di chiedere a Félix che cosa

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fosse la Whitehall, e la mia espressione attenta e concentrata non lasciò trasparire la mia ignoranza. Proseguì: «Ma sai come vanno queste cose: reti di conoscenze, catene di rapporti... Così ho pensato di tentare anzitutto con gli amici che ho qui a Tangeri, il colonnello Hai Durand, il generale Norman Beynon e sua moglie Mary, tutti in ottimi rapporti con il Foreign Office. Ora sono a Londra per un po’, ma penso di incontrarli più avanti e di presentarli a Juan Luis per fare in modo che parlino e simpatizzino».

«E pensi che lui acconsentirà? Che ti lascerà intervenire in questo modo nelle sue questioni ufficiali?»

«But of course, dear, certo» affermò senza la minima ombra di dubbio, mentre con un vivace movimento della testa si toglieva dall’occhio sinistro un’altra ciocca di capelli. «Juan Luis è un uomo intelligente.

Conosce molto bene i tedeschi, ha passato diversi anni nel loro paese e teme che il prezzo da pagare per l’aiuto ricevuto si riveli alla lunga troppo salato per la Spagna. E stima molto noi inglesi perché non abbiamo mai perso una guerra e, after all, è un militare, e per lui queste cose sono molto importanti. E soprattutto, my dear Sira, ed è la cosa principale, Juan Luis mi adora. Come si preoccupa di ripetermi ogni giorno, per la sua Rosalinda sarebbe anche capace di scendere all’inferno.»

Ci alzammo quando i tavoli del dehors erano già apparecchiati per la cena e le ombre serali si allungavano sui muri. Rosalinda era decisa a pagare il pranzo.

«Finalmente sono riuscita a farmi mandare l’assegno da mio marito; offro io.» Camminammo senza fretta fino alla macchina e imboccammo la via del ritorno verso

Tetuàn appena in tempo per non superare il limite delle dodici ore concesse dal commissario Vàzquez. Con quel viaggio, tuttavia, non invertimmo solo la direzione geografica, ma anche quella della comunicazione. Se all’andata e per il resto della giornata era stata Rosalinda a monopolizzare la conversazione, il ritorno segnava il momento di scambiare le parti.

«Penserai che sono terribilmente noiosa, sempre concentrata su me stessa e sulle mie cose. Parlami di te. Tell me now, racconta come ti è andata stamattina.»

«Male» dissi semplicemente. «Male?» «Sì, male, malissimo.» «I’m sorry, really. Mi dispiace. Era una cosa importante?» Avrei potuto dirle di no, che non lo era. In confronto alle sue preoccupazioni, ai miei

problemi mancavano gli ingredienti necessari per suscitare interesse: non vi erano coinvolti militari di alto grado, consoli o ministri; non c’erano di mezzo interessi politici né affari di Stato o presagi di grandi guerre europee, né nulla di lontanamente paragonabile alle sofisticate turbolenze in cui si muoveva lei. L’umile spazio delle mie preoccupazioni era sufficiente appena a contenere una manciata di miserie che si potevano contare sulle dita di una mano: un amore tradito, un debito da pagare e il gestore di un albergo poco comprensivo, il lavoro quotidiano per mandare avanti un’attività, una patria insanguinata dove non potevo tornare e la nostalgia di una madre

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assente. Avrei potuto dirle di no, che le mie piccole tragedie non erano importanti. Avrei potuto tacere, tenere nascoste le mie preoccupazioni e condividerle solo con il buio della mia casa deserta. Avrei potuto, certo. Ma non lo feci.

«A dire il vero era una cosa molto importante per me. Voglio far uscire mia madre da Madrid e portarla in Marocco, ma per riuscirci mi servono parecchi soldi, che non ho perché prima devo usare i miei risparmi per un altro pagamento urgente. Stamattina ho cercato di ritardare la scadenza di questo pagamento, ma non ci sono riuscita, quindi credo che per ora non sia possibile risolvere la faccenda di mia madre. E la cosa peggiore è che, a quanto pare, passare da una zona all’altra sta diventando sempre più difficile.»

«Ma a Madrid è sola?» chiese preoccupata. «Sì. Assolutamente sola. Ha soltanto me.» «E tuo padre?» «Mio padre... E’ una storia lunga; di fatto non stanno insieme.» «Come mi dispiace, Sira, cara. Dev’essere duro sapere che è nella zona rossa, esposta

a qualunque pericolo in mezzo a quella gente...» La guardai con tristezza. Come potevo dirle che non aveva capito niente, come potevo

far entrare nella sua bella testolina bionda e riccioluta la tragica realtà di quello che stava succedendo nel mio paese?

«Quella gente è la sua gente, Rosalinda. Mia madre è tra i suoi, a casa sua, nel suo quartiere, in mezzo ai suoi vicini. Appartiene a quel mondo, al popolo di Madrid. Non voglio farla venire a Tetuàn per timore che possa succederle qualcosa, ma perché ho solo lei, e non avere sue notizie per me diventa più penoso ogni giorno che passa. Non so niente di lei da un anno: non ho la minima idea di come stia, di come si mantenga, di cosa viva, né come affronti la guerra.»

Tutta la farsa del mio presunto passato affascinante si sgonfiò come un palloncino bucato, svanì in un secondo. La cosa strana è che non me ne importava nulla.

«Ma... Mi avevano detto che... la tua famiglia era...» Non la lasciai finire. Lei era stata sincera con me e mi aveva raccontato la sua storia

senza omettere niente: era arrivato anche per me il momento di fare lo stesso. Forse la versione della mia vita che le avrei raccontato non le sarebbe piaciuta; forse l’avrebbe trovata ben poco glamour rispetto alle avventure cui era abituata. Magari avrebbe deciso da quel momento di non condividere più i Pink Gin con me e di non offrirmi passaggi a Tangeri sulla sua Dodge decappottabile, ma non potei fare a meno di raccontarle nei dettagli la mia verità. In fin dei conti, era l’unica che avevo.

«La mia famiglia è formata solo da mia madre e da me. Cuciamo tutte e due, siamo semplici sarte senza altro patrimonio al di là delle nostre mani. Dalla mia nascita, mio padre non ha avuto niente a che fare con noi. Appartiene a un’altra classe sociale, a un altro mondo: ha soldi, aziende, contatti, una moglie che non ama e due figli con cui non va d’accordo. Questo è quello che ha. O che aveva, non so: quando l’ho visto per la prima e l’ultima volta, la guerra non era ancora cominciata, ma lui sentiva che sarebbe

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stato ucciso. E il mio promesso, il fidanzato bello e intraprendente che in teoria dovrebbe trovarsi in Argentina a gestire aziende e risolvere problemi finanziari, non esiste.

C’è stato un uomo con cui ho avuto una relazione, e che forse adesso si trova proprio lì per affari, ma non ho più niente a che fare con lui. E solo un essere indesiderabile che mi ha spezzato il cuore e mi ha rubato tutto quello che avevo; ma preferisco non parlarne. La mia vita è questa, Rosalinda; come vedi, è molto diversa dalla tua.»

Replicò alla mia confessione con una sfilza di parole in inglese in cui riuscii a cogliere solo la parola Morocco.

«Non ho capito niente» dissi confusa. Tornò allo spagnolo. «Ho detto chi se ne importa delle tue origini, visto che sei la migliore sarta di tutto il

Marocco. E riguardo a tua madre, come dite voi, se Dio chiude una porta è per aprire un portone. Vedrai che alla fine tutto si risolverà.»

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CAPITOLO 23 L’indomani mattina presto tornai al commissariato per informare Claudio Vàzquez

sull’esito fallimentare del mio colloquio. Solo due dei quattro poliziotti erano al loro posto: il vecchio e il magro.

«Il capo non è ancora arrivato» dissero in coro. «A che ora arriva, di solito?» chiesi. «Alle nove e mezzo» disse uno. «O alle dieci e mezzo» disse l’altro. «O domani.» «O mai.» Risero entrambi con le loro bocche bavose, e mi resi conto di non avere la forza per

sopportare oltre quella coppia di deficienti. «Ditegli che sono venuta a cercarlo, per favore. E che sono stata a Tangeri, ma non ho

potuto combinare niente.» «Tutto quello che vuoi, bella mora» disse quello che non era Canete. Mi diressi verso la porta senza salutare. Stavo per uscire, quando sentii la voce di

Canete. «Quando vuoi ti faccio un altro lasciapassare, bellezza.» Non mi fermai. Strinsi con forza i pugni e, quasi senza rendermene conto, ripescai

un’espressione volgare del mio passato e girai la testa di pochi centimetri, appena sufficienti perché la mia risposta arrivasse forte e chiara.

«Fallo a quella puttana di tua madre.» Per fortuna incrociai il commissario per strada, abbastanza lontano dall’ufficio perché

non mi chiedesse di tornare indietro con lui. A Tetuàn non era difficile incontrare qualcuno: le strade perpendicolari della nuova zona spagnola erano limitate e ci passavamo tutti a qualsiasi ora. Come al solito indossava un abito di lino chiaro e aveva l’odore di chi si è appena rasato, pronto per cominciare la giornata.

«Non ha una bella cera» disse appena mi vide. «Immagino che le cose al Continental non siano andate troppo bene.» Guardò l’ora. «Venga, andiamo a prendere un caffè.»

Mi portò al Casino Espanol, un bell’edificio d’angolo con i balconi in pietra bianca e grandi vetrine affacciate sulla strada principale. Un cameriere arabo abbassava le tende muovendo una sbarra di ferro cigolante, altri due o tre sistemavano sedie e tavoli sul marciapiede, all’ombra. Iniziava una nuova giornata. Nell’interno fresco del locale non c’era nessuno, solo un’ampia scala di marmo in fondo e due sale ai lati. Mi invitò a entrare in quella a sinistra.

«Buongiorno, commissario.»

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«Buongiorno, Abdul. Due caffellatte, per favore» ordinò, mentre con lo sguardo cercava il mio assenso. «Mi racconti» chiese poi.

«Non ci sono riuscita. Il direttore è nuovo, non è lo stesso dell’anno scorso, ma era informato della faccenda. Non è stato disponibile a trattare. Ha detto solo che l’accordo era più che generoso e che se non avessi pagato nei termini stabiliti mi avrebbe denunciata.»

«Ho capito. Mi dispiace, creda. Ma temo di non poterla più aiutare.» «Non si preoccupi, ha già fatto abbastanza allora ottenendo la dilazione di un anno.» «E adesso cosa pensa di fare?» «Pagherò subito.» «E sua madre?» Mi strinsi nelle spalle. «Niente, continuerò a lavorare e a risparmiare, anche se quando sarò riuscita a mettere

insieme la cifra che serve forse sarà troppo tardi, e le evacuazioni saranno finite. Per il momento, come le ho detto, estinguerò il mio debito. I soldi li ho, non c’è problema. Ero venuta da lei proprio per questo. Mi serve un altro lasciapassare per la frontiera e il suo permesso di tenere il passaporto un paio di giorni.»

«Se lo tenga, non c’è bisogno che me lo restituisca.» Mise la mano nella tasca interna della giacca e tirò fuori un portafoglio in pelle e una stilografica. «Riguardo al salvacondotto, prenda questo, le servirà» disse mentre estraeva un biglietto e toglieva il cappuccio alla penna.

Scarabocchiò qualche parola, firmò e me lo porse. «Ecco.» Lo misi in borsa senza leggerlo. «Andrà con l’autobus La Valenciana?» «Sì, pensavo di fare così.» «Come ieri?» Prima di rispondere sostenni il suo sguardo inquisitorio per qualche secondo. «Ieri non ho preso La Valenciana.» «E com’è arrivata a Tangeri allora?» Sapevo che lo sapeva già. E sapevo anche che voleva sentirlo dire da me. Bevemmo entrambi un sorso di caffè. «Mi ha portato un’amica in macchina.» «Quale amica?» «Rosalinda Fox. Una cliente inglese.» Un altro sorso di caffè. «Sa chi è, vero?» disse a quel punto. «Sì, lo so.» «Allora faccia attenzione.» «Perché?» «Perché sì. Faccia attenzione.» «Mi dica perché» insistetti.

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«Ad alcune persone non piace che lei stia con l’uomo con cui sta.» «Lo so.» «Cosa sa?» «Che la sua situazione sentimentale non è gradita a certa gente.» «Quale gente?» Nessuno sapeva torchiare, spremere, far uscire fino all’ultima goccia d’informazione

come il commissario; ormai ci conoscevamo. «Gente. Non mi chieda cose che sa già, commissario. Non mi faccia comportare in

modo sleale con una cliente solo per sentire dalla mia bocca nomi che conosce benissimo.»

«D’accordo. Mi dia solo una conferma.» «Cosa?» «Queste persone hanno cognomi spagnoli?» «No.» «Perfetto» disse semplicemente. Finì il caffè e guardò di nuovo l’ora. «Devo andare, ho parecchio lavoro.» «Anch’io.» «Certo, dimenticavo che lei è una gran lavoratrice. Sa che si è fatta un’ottima

reputazione?» «Lei prende informazioni su tutto, quindi dovrò crederle.» Sorrise per la prima volta; sorridendo dimostrava qualche anno di meno. «So solo quello che devo sapere. E credo che le voci arrivino anche a lei: tra donne si

parla molto e il suo atelier veste signore che magari hanno storie interessanti da raccontare.»

Le mie clienti parlavano, eccome. Discorrevano dei mariti, dei loro affari, delle loro amicizie; delle persone che andavano a trovare, di quello che facevano Tizio o Caio, di quello che pensavano e dicevano. Al commissario però non diedi conferme, e non negai. Mi limitai ad alzarmi senza fare caso alla sua osservazione. Lui chiamò il cameriere e mosse la mano come se scrivesse in aria. Abdul annuì: nessun problema, i caffè sarebbero stati messi sul suo conto.

Saldare il debito a Tangeri fu una liberazione, come smettere di camminare con una corda al collo che chiunque avrebbe potuto tirare in qualsiasi momento. Ovviamente c’erano ancora le torbide faccende di Madrid da risolvere, ma dalla distanza africana mi sembravano molto remote. Il pagamento della somma che dovevo al Continental mi aiutò a liberarmi della zavorra del passato con Ramiro in Marocco, e mi accorsi che respiravo in un altro modo. Più tranquilla, più libera.

Padrona del mio destino. Era ormai estate inoltrata, ma le mie clienti sembravano refrattarie all’idea di pensare

già ai vestiti autunnali. Jamila era sempre con me, si occupava della casa e di piccoli lavori per la sartoria, Félix veniva a trovarmi quasi tutte le sere, di tanto in tanto facevo visita a Candelaria in calle de La Luneta. Tutto tranquillo, tutto normale, finché

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un’influenza inopportuna mi tolse le forze per uscire di casa e l’energia per cucire. Trascorsi il primo giorno prostrata sul divano. Il secondo a letto. Il terzo avrei fatto lo stesso, se non fosse arrivata una visita improvvisa. Improvvisa come tutte le altre sue visite.

«Segnora Rosalinda dire che segnorina Sira alzare dal letto immediatamente.» La ricevetti in vestaglia; non mi presi la briga di indossare il consueto tailleur e non

mi misi al collo le forbici d’argento, non mi preoccupai neanche di sistemarmi i capelli scompigliati. Ma se la mia sciatteria la stupì, non lo diede a vedere: era venuta per faccende ben più serie.

«Andiamo a Tangeri.» «Chi?» chiesi tenendo il fazzoletto davanti al naso che colava. «Io e te.» «A fare cosa?» «A cercare di risolvere la faccenda di tua madre.» La guardai con un misto di incredulità e di gioia, e volli saperne di più. «Attraverso il tuo...» Per fortuna uno starnuto mi impedì di finire la frase: non sapevo come definire l’alto

commissario, che lei menzionava sempre con i due nomi di battesimo. «No. Preferisco tenere fuori Juan Luis: ha mille altre cose a cui pensare. Riguarda

solo me, perciò i suoi contatti rimangono out, fuori. Ma abbiamo altre vie.» «Quali?» «Tramite il console inglese a Tetuàn ho cercato di capire se la nostra ambasciata si

occupa di cose del genere, ma non ho avuto fortuna: mi ha detto che la delegazione inglese a Madrid si è sempre rifiutata di dare asilo ai rifugiati e, da quando il governo repubblicano si è trasferito a Valencia, si sono spostati anche i diplomatici; nella capitale è rimasto solo un ufficio vuoto e qualche subalterno a mandarlo avanti.»

«E allora?» «Ho provato con la chiesa anglicana di Saint Andrews a Tangeri, ma neppure loro

sono stati in grado di aiutarmi. Poi mi è venuto in mente che qualche società privata potesse almeno sapere qualcosa, mi sono informata qua e là e ho ottenuto a tiny bit of information. Non è granché, ma magari abbiamo fortuna e possono dirci qualcosa di più. Il direttore della Bank of London and South America di Tangeri, Leo Martin, mi ha raccontato che durante il suo ultimo viaggio a Londra, nella sede centrale della banca, ha sentito dire che un impiegato della filiale di Madrid è in contatto con qualcuno che aiuta la gente a uscire dalla città. Non so altro, mi ha fornito informazioni vaghe, imprecise, solo un commento carpito al volo. Però ha promesso che avrebbe cercato di saperne di più.»

«Quando?» «Right now. Immediatamente. Quindi adesso vai a vestirti e andiamo da lui a Tangeri.

Ci sono stata un paio di giorni fa e mi ha detto di tornare oggi. Credo che nel frattempo

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sia riuscito ad avere altre informazioni.» Cercai di ringraziarla per i suoi sforzi tra i colpi di tosse e gli starnuti, ma lei sminuì

l’importanza della cosa e mi invitò a prepararmi. Il viaggio durò il tempo di un sospiro. Strada, terreni aridi, pinete, capre. Donne con le tuniche a righe e le babbucce per uscire, cariche di fardelli sotto i grandi cappelli di paglia. Pecore, fichi d’India, ancora terra secca, bambini scalzi che sorridevano al rostro passaggio e alzavano la mano per dire ciao, amica, ciao. Polvere, ancora polvere, su un lato campagna gialla, sull’altro campagna gialla, controllo dei passaporti, altra strada, altri fichi d’India, palmizi e canneti, e nel giro di un’ora eravamo arrivate.

Parcheggiammo di nuovo in plaza de Francia, fummo accolte di nuovo dalle ampie vie e dai magnifici edifici della zona moderna. In uno di quei palazzi ci aspettava la Bank of London and South America, curiosa combinazione di interessi economici, quasi quanto la strana coppia formata da Rosalinda Fox e me.

«Sira, ti presento Leo Martin. Leo, questa è la mia amica Miss Quiroga.» Se fosse nato a un paio di chilometri di distanza, Leo Martin si sarebbe potuto

tranquillamente chiamare Leoncio Martinez. Di corporatura bassa e pelle scura, non rasato e senza cravatta poteva passare per un contadino spagnolo sfinito. Ma il suo volto era privo di barba e sul suo ventre si allungava una sobria cravatta a righe. E non era spagnolo né contadino, ma un suddito della Gran Bretagna a tutti gli effetti: un gibilterrino capace di esprimersi in inglese e in andaluso con altrettanta disinvoltura. Ci salutò con la mano villosa, ci invitò ad accomodarci.

Disse alla vecchia gallina che gli faceva da segretaria che non voleva essere interrotto e, come se fossimo le clienti più munifiche dell’istituto, mise tutto il proprio impegno nell’esporci quello che era riuscito a sapere. Io non avevo mai aperto un conto in banca in vita mia e Rosalinda, probabilmente, non riusciva a mettere da parte neanche un centesimo dell’assegno che il marito le mandava quando il vento soffiava nella direzione giusta, ma le voci sulle vicende amorose della mia amica dovevano essere arrivate alle orecchie di quell’uomo basso dalle curiose competenze linguistiche. E in tempi difficili come quelli il direttore di una banca internazionale non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di fare un favore all’amante dell’uomo più potente fra i vicini.

«Bene, signore, qualche notizia penso di averla. Sono riuscito a parlare con Eric Gordon, un mio vecchio conoscente che ha lavorato presso la filiale di Madrid fino a poco dopo l’alzamiento; ora è stato trasferito a Londra. A quanto mi ha detto, conosce personalmente una persona coinvolta in questo tipo di attività che vive a Madrid, un cittadino britannico che lavorava per un’azienda spagnola. La cattiva notizia è che non sa come mettersi in contatto con lui, perché negli ultimi mesi ha perso le sue tracce.

Quella buona è che mi ha fornito le generalità di una persona che risiedeva nella capitale fino a poco tempo fa ed è informata sugli spostamenti di questo tizio. E’ un giornalista tornato in Inghilterra perché ha avuto un problema, credo sia stato ferito: non mi ha spiegato i particolari. Bene, costui potrebbe fornirci la soluzione, aiutandovi a contattare l’uomo che fa uscire i rifugiati. Ma vuole qualcosa in cambio.»

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«Cosa?» chiedemmo in coro io e Rosalinda. «Parlare personalmente con lei, Mrs Fox» si rivolse all’inglese. «Prima è, meglio è.

Spero che non mi consideri indiscreto ma, date le circostanze, ho pensato di rivelargli l’identità della persona interessata a ottenere informazioni da lui.»

Rosalinda non replicò; si limitò a fissarlo inarcando le sopracciglia, in attesa che proseguisse. L’uomo si schiarì la voce, a disagio, probabilmente si aspettava una reazione più entusiastica alle sue parole.

«Sapete come sono i giornalisti: un branco di avvoltoi che spera sempre di ottenere qualcosa.»

Rosalinda si prese qualche secondo prima di rispondere. «Non sono gli unici, mio caro Leo, non sono gli unici» disse con un tono vagamente

aspro. «Va bene, mi metta in contatto con lui e vediamo cosa vuole.» Cambiai posizione sulla poltrona cercando di non far trapelare il mio nervosismo e mi

soffiai di nuovo il naso. Nel frattempo il direttore britannico con il corpo a forma di otre e l’accento da torero ordinò alla telefonista di fare una chiamata. Aspettammo a lungo, ci portarono un caffè, Rosalinda recuperò il buon umore e Martin si mostrò sollevato.

Finché arrivò il momento di parlare con il giornalista. La telefonata durò solo tre minuti e non capii una parola perché parlavano in inglese.

Colsi però il tono serio e tagliente della mia cliente. «Tutto a posto» si limitò a dire alla fine. Salutammo il direttore, lo ringraziammo per

il suo interessamento e passammo di nuovo sotto l’occhio indagatore della segretaria con l’aria da gallina.

«Cosa vuole?» chiesi ansiosa appena fuori dall’ufficio. «A bit of blackmail. Non so come si dice in spagnolo. Quando qualcuno dice che farà

qualcosa per te solo in cambio di qualcosa da parte tua.» «Ricatto» chiarii. «Ricatto» ripeté con una pessima pronuncia. Troppi suoni complicati nella stessa

parola. «Che tipo di ricatto?» «Un colloquio privato con Juan Luis e qualche settimana di accesso alla vita ufficiale

di Tetuàn. In cambio si impegna a metterci in contatto con la persona di cui abbiamo bisogno a Madrid.»

Deglutii prima di formulare la mia domanda. Temevo di sentirle dire che sarebbe dovuto passare sul suo cadavere, prima di imporre un’estorsione così meschina al più alto dignitario del Protettorato spagnolo in Marocco. E meno che mai se il ricatto veniva da un giornalista opportunista e sconosciuto, in cambio di un favore per una semplice sartina.

«E tu cosa gli hai risposto?» osai infine domandare. Alzò le spalle con aria rassegnata. «Di mandarmi un cablogramma con la data del suo sbarco a Tangeri.»

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CAPITOLO 24 Marcus Logan arrivò trascinando una gamba, quasi sordo da un orecchio e con un

braccio legato al collo. Tutti gli acciacchi erano localizzati su un lato del corpo, il sinistro, quello più esposto all’esplosione che lo aveva buttato a terra e per poco non lo uccideva mentre copriva per conto della sua agenzia gli attacchi dell’artiglieria nazionalista a Madrid. Rosalinda fece in modo che un’auto ufficiale passasse a prenderlo al porto di Tangeri per condurlo direttamente all’hotel Nacional di Tetuàn.

Li aspettai seduta su una poltrona di vimini nel cortile interno, tra vasi di fiori e azulejos decorati da arabeschi. Sulle pareti coperte di grate salivano i rampicanti e dal soffitto pendevano grandi lanterne marocchine; la mia attesa fu accompagnata dal brusio delle conversazioni e dal gorgoglio dell’acqua di una fontanella.

Rosalinda arrivò quando gli ultimi raggi di sole del pomeriggio filtravano dalla vetrata della veranda; il giornalista dieci minuti dopo. Nei giorni precedenti avevo costruito nella mia mente l’immagine di un uomo impulsivo e brusco, dal carattere duro, abbastanza coraggioso da tentare di intimidire chiunque si fosse messo sulla sua strada pur di ottenere ciò che gli interessava. Ma mi ero sbagliata, come si sbaglia quasi sempre quando ci si fabbrica pregiudizi sulla base di una semplice azione o di poche parole. Mi ero sbagliata e lo capii non appena il giornalista attraversò l’arco che dava accesso al cortile, con il nodo della cravatta allentato e l’abito di lino spiegazzato.

Ci riconobbe immediatamente; gli bastò guardarsi intorno e verificare che eravamo le uniche donne giovani sedute da sole: una bionda che aveva tutta l’aria di essere straniera e una tipica bruna spagnola. Lo accogliemmo senza alzarci, con l’ascia di guerra nascosta dietro la schiena, nel caso fosse stato necessario difendersi da un ospite scomodo. Ma non fummo costrette a sfoderarla, perché il Marcus Logan che comparve in quel principio di serata africana avrebbe potuto risvegliare in noi qualunque sensazione tranne che il timore. Era alto e dimostrava fra i trenta e i quarantanni. I capelli castani erano un po’ spettinati, e quando si avvicinò zoppicando e appoggiandosi a un bastone di bambù notammo che il lato sinistro del suo volto era segnato da cicatrici recenti e contusioni. Il suo aspetto lasciava intuire l’uomo che doveva essere prima dell’incidente in cui stava per perdere la vita, ma in quel momento era poco più di un corpo dolorante e, non appena ci ebbe salutato con tutta la cortesia che le sue pessime condizioni gli permettevano di sfoderare, si accasciò su una poltrona, sforzandosi invano di nascondere la sofferenza e la stanchezza accumulate nelle membra provate dal lungo viaggio.

«Mrs Fox e Miss Quiroga I suppose» furono le sue prime parole. «Yes, we are, indeed» disse Rosalinda nella loro lingua. «Nice meeting you, Mr

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Logan. And now, if you don’t mind, I think we should proceed in Spanish; I’m afraid my friend won’t be able to join us otherwise.»

«Certo, mi scusi» disse rivolgendosi a me in un ottimo spagnolo. Non aveva l’aria di un taglieggiatore senza scrupoli; sembrava piuttosto un

professionista che tirava avanti come poteva, cogliendo al volo le occasioni che gli capitavano. Come Rosalinda, come me. Come tutti, a quei tempi. Prima di arrivare a parlare della faccenda che lo aveva portato in Marocco e chiedere conferma della sua promessa a Rosalinda, volle presentarci le sue credenziali. Lavorava per un’agenzia di stampa britannica, era stato incaricato di coprire la guerra per entrambe le fazioni, e pur usando la capitale come base si era spostato di continuo. Fino al momento dell’incidente. Era stato ricoverato a Madrid, operato d’urgenza e trasferito appena possibile a Londra. Aveva trascorso diverse settimane al Royal London Hospital, tormentato dai dolori e dalle cure; a letto, immobilizzato, smanioso di tornare alla vita attiva.

Quando gli era giunta notizia che a una persona vicina all’alto commissario di Spagna in Marocco serviva un’informazione in suo possesso, aveva intravisto uno spiraglio. Era consapevole di non essere nelle condizioni di tornare ai suoi andirivieni in giro per la penisola, ma una scappata nel Protettorato gli avrebbe permesso di continuare la convalescenza riprendendo in parte la vivacità professionale. Prima di ottenere l’autorizzazione al viaggio aveva dovuto litigare con i medici, i superiori e tutti coloro che si erano avvicinati al suo letto per convincerlo a non muoversi. E quella fatica, sommata al suo stato, aveva rischiato di farlo uscire dai gangheri. Chiese perciò scusa a Rosalinda per il tono brusco tenuto durante la conversazione telefonica, piegò e allungò varie volte la gamba con un’espressione sofferente e passò a questioni più urgenti.

«Non mangio da stamattina. Vi spiace se vi invito a cena e intanto parliamo?» Accettammo; di fatto io ero disposta a fare qualunque cosa pur di parlare con lui.

Avrei potuto mangiare in una latrina o rotolarmi nel fango tra i maiali; avrei masticato scarafaggi e bevuto un topicida per mandarli giù: qualunque cosa pur di ottenere l’informazione che aspettavo da tanti giorni. Logan chiamò con disinvoltura uno dei camerieri arabi che stavano servendo e sparecchiando nel cortile e chiese un tavolo al ristorante dell’albergo.

«Un momento, signore» rispose il cameriere, poi uscì a cercare qualcuno; nel giro di cinque secondi arrivò come un fulmine il maitre spagnolo, mellifluo e reverenziale.

«Subito, subito, prego, signore, prego signore, venite con me. La signora Fox e i suoi amici non devono aspettare neanche un minuto, ci mancherebbe.»

Logan ci cedette il passo all’ingresso della sala da pranzo, mentre il maitre indicava un tavolo centrale in vista, in una posizione pensata perché quella sera chiunque potesse osservare da vicino l’amante inglese di Beigbeder. Il giornalista lo rifiutò con educazione e ne indicò un altro più discreto in fondo alla sala. I tavoli erano apparecchiati in modo impeccabile, con tovaglie candide, bicchieri per l’acqua e per il vino e tovaglioli bianchi piegati sui piatti di porcellana. Era ancora presto, però, e

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c’erano appena una decina di persone in tutta la sala. Scegliemmo le pietanze sul menu e nell’attesa ci fu servito uno sherry. Rosalinda si comportò come una perfetta padrona di casa e guidò la conversazione.

L’incontro nel cortile era stato puramente formale ma aveva contribuito ad allentare la tensione. Il giornalista si era presentato e ci aveva esposto nei dettagli le ragioni del suo stato; noi, da parte nostra, vedendo che non si trattava di un individuo minaccioso ci eravamo tranquillizzate e avevamo scambiato con lui qualche battuta sulla vita nel Marocco spagnolo. Ma tutti e tre sapevamo che quello non era un semplice incontro di piacere per conoscere gente nuova, parlare di malattie e descrivere immagini pittoresche del Nordafrica. Quella sera ci eravamo incontrati solo per trattare e le parti in causa erano due: due fazioni che al momento opportuno avrebbero esposto chiaramente le rispettive richieste e condizioni. Era arrivato il momento di metterle sul tavolo e vedere fin dove sarebbe arrivata ciascuna delle due parti.

«Riguardo alle sue richieste telefoniche dell’altro giorno, ci tengo a farle sapere che è tutto sistemato» buttò lì Rosalinda non appena il cameriere si fu allontanato con le ordinazioni.

«Perfetto» rispose il giornalista. «Avrà il suo colloquio con l’alto commissario, in privato, e potrà prolungarlo finché

lo riterrà opportuno. Inoltre le sarà consegnato un permesso di soggiorno temporaneo nella zona del Protettorato spagnolo» proseguì lei «e tutti gli inviti agli eventi ufficiali delle prossime settimane saranno estesi anche a lei; le anticipo che alcuni saranno molto importanti.»

A quel punto il giornalista sollevò il sopracciglio sul lato del volto rimasto incolume, con espressione interrogativa.

«Aspettiamo a breve la visita di Ramon Serrano Suner, il cognato di Franco; immagino che sappia di chi parlo.»

«Certo, ovviamente» confermò. «Verrà in Marocco per commemorare l’anniversario dell’alzamiento e si fermerà tre

giorni. Si stanno organizzando diversi eventi per riceverlo; proprio ieri è arrivato Dionisio Ridruejo, il direttore generale della propaganda franchista, per coordinare i preparativi con il segretario dell’Alto Commissariato. Contiamo sulla sua partecipazione a tutti gli eventi ufficiali cui saranno invitati i civili.»

«Le sono molto grato. La prego di esprimere la mia gratitudine anche all’alto commissario.»

«Sarà un piacere averla con noi» rispose Rosalinda con un’espressione graziosa da brava padrona di casa, prima di infliggergli una stoccata.

«Spero capisca che anche noi abbiamo alcune condizioni.» «Naturalmente» disse Logan dopo un sorso di sherry. «Ogni informazione che vorrà trasmettere all’esterno dovrà essere supervisionata

dall’ufficio stampa dell’Alto Commissariato.» «Non c’è problema.»

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In quel momento si avvicinarono i camerieri con i piatti, e io avvertii una profonda sensazione di sollievo. Nonostante l’eleganza con cui Rosalinda e l’ospite tenevano le redini del negoziato, durante il loro colloquio non avevo potuto evitare di sentirmi a disagio, fuori posto, come se mi fossi imbucata a una festa alla quale non ero stata invitata.

Parlavano di questioni che mi apparivano assolutamente estranee, di faccende che forse non implicavano importanti segreti ufficiali, ma che andavano ben al di là di quello che una semplice sartina avrebbe dovuto sentire. Mi ripetei diverse volte che non ero fuori posto, che c’entravo anch’io, perché la ragione della cena era l’evacuazione di mia madre. Ma feci fatica a convincermi.

L’arrivo del cibo interruppe per qualche istante lo scambio di concessioni e richieste. Sogliole per le signore, pollo con contorno per il signore, annunciarono i camerieri. Commentammo brevemente le portate, la freschezza del pesce della costa mediterranea, la squisitezza delle verdure della pianura del Martin. Non appena i camerieri si allontanarono, la conversazione riprese dal punto esatto in cui si era interrotta pochi minuti prima.

«Qualche altra condizione?» indagò il giornalista prima di portarsi la forchetta alla bocca.

«Sì, anche se non la definirei precisamente una condizione. Si tratta piuttosto di qualcosa che conviene sia a lei che a noi.»

«Allora non sarà difficile da accettare» disse lui dopo aver ingoiato il primo boccone. «Lo spero proprio» confermò Rosalinda. «Vede, Logan, io e lei ci muoviamo in

mondi molto diversi, ma siamo compatrioti e sappiamo entrambi che, in linea generale, le simpatie della fazione nazionalista vanno ai tedeschi e agli italiani, mentre non ne hanno alcuna per gli inglesi.»

«E’ così, certo» confermò lui. «Bene, per questo voglio proporle di farsi passare per un mio amico. Non rinuncerà

alla sua identità professionale, naturalmente, ma dovrà mostrarsi come un giornalista vicino a me e, di conseguenza, all’alto commissario. In questo modo crediamo che sarà ricevuto con minore animosità.»

«Da chi?» «Da tutti: autorità locali spagnole e musulmane, corpo diplomatico straniero, stampa...

Non ho fervidi ammiratori in nessuno di questi ambienti, bisogna dirlo, ma almeno formalmente mi portano un certo rispetto per la mia vicinanza all’alto commissario. Se la presentiamo come mio amico, forse riusciremo a far sì che estendano il rispetto anche a lei.»

«Cosa ne pensa il colonnello Beigbeder?» «E’ assolutamente d’accordo.» «Allora, affare fatto. Non mi sembra una cattiva idea e, come dice lei, potrebbe

rivelarsi positiva per tutti. Altre condizioni?» «Nessuna, per quanto ci riguarda» disse Rosalinda sollevando il bicchiere per fare un

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piccolo brindisi. «Perfetto. Allora abbiamo chiarito tutto. Bene, credo che ora tocchi a me aggiornarvi

sulla questione per cui mi avete coinvolto.» Sentii una morsa che mi stringeva lo stomaco: il momento era arrivato. Il cibo e il vino sembravano aver ridato un po’ di vigore a Marcus Logan. Era più in

forma. Anche se aveva condotto la trattativa con fredda calma, si intuiva in lui un atteggiamento positivo e l’evidente intenzione di non importunare Rosalinda e Beigbeder al di là dello stretto necessario. Pensai che quella grinta avesse a che fare con la sua professione, ma non potevo esserne certa; in fin dei conti era il primo giornalista che conoscevo.

«Anzitutto voglio dirvi che il mio contatto è già avvisato e pensa di trasferire sua madre quando avverrà la prossima evacuazione da Madrid verso la costa.»

Dovetti aggrapparmi saldamente al bordo del tavolo per non alzarmi ad abbracciarlo. Ma mi trattenni: la sala da pranzo dell’hotel Nacional era affollata di commensali e il nostro tavolo, grazie a Rosalinda, rappresentava il principale polo di attrazione della serata. Ci mancava solo che per una reazione impulsiva fossi balzata in piedi all’improvviso per abbracciare con selvaggia euforia quello straniero, attirando immediatamente tutti gli sguardi e i commenti su di noi.

Quindi frenai l’entusiasmo e mi limitai a comunicare la mia gioia con un sorriso e un semplice grazie.

«Dovrà fornirmi qualche dato; li manderò alla mia agenzia a Londra con un cablogramma, e loro si metteranno in contatto con Christopher Lance, che è a capo dell’operazione.»

«Chi è?» indagò Rosalinda. «Un ingegnere inglese, un veterano della Grande guerra che abita a Madrid da diversi

anni. Prima dell’alzamiento lavorava presso un’azienda spagnola con una partecipazione britannica, la società d’ingegneria civile Ginés Navarro y Hijos, che ha gli uffici in paseo del Prado e succursali a Valencia e Alicante. Ha partecipato con loro alla costruzione di strade e ponti, di una grande diga a Soria, di una centrale idroelettrica vicino a Granada e della struttura di uno zeppelin a Siviglia. Quando è scoppiata la guerra i Navarro sono spariti, non si sa se di propria volontà o per forza. I lavoratori hanno formato un comitato e hanno assunto il controllo dell’azienda. Lance se ne sarebbe potuto andare allora, ma non lo ha fatto.»

«Perché?» chiedemmo noi due in coro. Il giornalista si strinse nelle spalle mentre beveva un lungo sorso di vino. «E’ ottimo per il dolore» disse per scusarsi mentre sollevava il bicchiere, come se

volesse mostrarci gli effetti curativi della bevanda. «In realtà» continuò «non so perché Lance non sia tornato in Inghilterra, non sono

mai riuscito a sapere da lui un motivo valido per quello che ha fatto. Prima della guerra gli inglesi residenti a Madrid, come quasi tutti gli stranieri, non prendevano posizione rispetto alla politica spagnola e guardavano alla situazione con indifferenza, persino con

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una certa superiorità. Conoscevano le tensioni tra le forze di destra e i partiti di sinistra, ma le consideravano un’altra manifestazione caratteristica del paese, parte del folclore nazionale. I tori, la siesta, l’aglio, l’olio e l’odio tra fratelli, tutto molto pittoresco, molto spagnolo. Finché la situazione è precipitata. Allora hanno capito che si faceva sul serio e si sono attivati per lasciare Madrid il prima possibile. Con qualche eccezione, come nel caso di Lance, che ha deciso di mandare a casa la moglie e di rimanere in Spagna.»

«Un po’ insensato, no?» azzardai. «Forse è un po’ matto, sì» disse in tono vagamente scherzoso. «Ma è una brava

persona e sa quello che fa. Non è un avventuriero temerario né un opportunista di quelli che al giorno d’oggi spuntano come funghi.»

«Cosa fa di preciso?» indagò Rosalinda. «Offre aiuto a chi ne ha bisogno. Fa uscire da Madrid chi può, fa arrivare i fuoriusciti

in qualche porto del Mediterraneo e li fa salire a bordo di imbarcazioni britanniche di ogni genere: navi militari, barche del servizio postale o cargo che trasportano limoni.»

«Prende soldi?» volli sapere. «No. Non ci guadagna niente. C’è chi lucra su queste cose, lui no.» Il giornalista ci avrebbe raccontato altre cose, ma al nostro tavolo si avvicinò un

giovane militare con i pantaloni alla zuava, gli stivali lucidi e il berretto sottobraccio. Fece un saluto militare con il volto concentrato e porse una busta a Rosalinda. Lei ne estrasse un foglio piegato, lo lesse e sorrise.

«I’m truly very sorry, dovete scusarmi» disse mettendo in fretta le sue cose nella borsa. Il portasigarette, i guanti, il conto. «E’ successa una cosa anattesa. Scusate, inattesa» aggiunse. Si avvicinò al mio orecchio: «Juan Luis è tornato da Siviglia prima del previsto» sussurrò impetuosamente.

Nonostante il timpano perforato, forse l’aveva sentita anche il giornalista. «Continuate a parlare, poi mi direte» aggiunse a voce alta. «Sira, darling, ci vediamo

presto. E lei, Logan, si faccia trovare pronto domani. Una macchina verrà a prenderla qui all’una. Pranzerà da me con l’alto commissario e poi avrà tutto il pomeriggio per il suo colloquio.»

Il giovane militare e molti sguardi sfacciati accompagnarono Rosalinda all’uscita. Quando scomparve dalla nostra vista, sollecitai Logan a riprendere le spiegazioni dal punto in cui eravamo rimasti.

«Se Lance non ci guadagna e non è spinto da interessi politici, perché lo fa?» Alzò di nuovo le spalle, come chi si scusa perché non sa trovare una spiegazione

ragionevole. «Ci sono persone così, le chiamano pimpinelas, primule rosse. Lance è un

personaggio singolare; una specie di difensore delle cause perse. Secondo lui, non c’è niente di politico nella sua condotta, è mosso solo da questioni

umanitarie: forse avrebbe fatto lo stesso con i repubblicani, se si fosse trovato nella zona dei nazionalisti. O forse è così perché è figlio di un canonico della cattedrale di Wells, chissà.

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Fatto sta che al momento dell’alzamiento l’ambasciatore Henry Chilton e la maggioranza dei suoi dipendenti si trovavano a San Sebastiàn per l’estate e a Madrid era rimasto solo un funzionario che non si è rivelato all’altezza delle circostanze. Perciò Lance, come membro veterano della comunità britannica, ha preso le redini in modo del tutto spontaneo. Come dite voi, senza guardare in faccia nessuno, ha aperto l’ambasciata, in un primo momento per offrire rifugio ai cittadini britannici, che allora erano poco più di trecento, a quanto ne so.

Nessuno di loro era coinvolto apertamente a livello politico, ma perlopiù erano conservatori simpatizzanti di destra che hanno chiesto protezione diplomatica non appena hanno capito la piega che prendevano gli eventi. In effetti la situazione è andata ben al di là di quello che ci si aspettava: centinaia di altre persone si sono rifugiate nell’ambasciata. Sostenevano di essere nati a Gibilterra o su una nave inglese durante una traversata, di avere parenti in Gran Bretagna, di aver concluso affari con la Camera di Commercio britannica; qualsiasi sotterfugio era buono per mettersi al riparo della Union Jack, la nostra bandiera.»

«Perché si sono rivolti proprio alla vostra ambasciata?» «Non solo alla nostra, anzi. In realtà, la nostra è stata tra le più restie a offrire rifugio.

Nei primi giorni si sono comportate tutte allo stesso modo: hanno accolto i propri cittadini e qualche spagnolo bisognoso di protezione.»

«E dopo?» «Alcune delegazioni sono rimaste molto attive nell’offrire asilo, si sono lasciate

coinvolgere direttamente o indirettamente nel traffico di rifugiati. Quella del Cile, soprattutto; e quelle francese, argentina e norvegese. Altre invece, passati i primi tempi d’incertezza, hanno deciso di non continuare. Lance, in ogni caso, non agisce in quanto rappresentante del governo britannico; tutto quello che fa lo fa in prima persona. La nostra, come le dicevo, è tra le ambasciate che si sono rifiutate di offrire asilo e di collaborare all’evacuazione dei rifugiati. Lance non sostiene la fazione nazionalista in astratto: aiuta quelli che, a titolo personale, hanno bisogno di uscire da Madrid. Per ragioni ideologiche o familiari, non importa. Comunque, si è installato nell’ambasciata e in qualche modo ha ottenuto l’incarico di addetto consolare onorario per gestire l’evacuazione dei cittadini britannici nei primi giorni di guerra, ma a partire da quel momento ha cominciato ad agire da solo, a proprio rischio e pericolo. Quando gli conviene, di solito per impressionare I miliziani e le sentinelle ai posti di blocco sulle strade, sfodera tutto il corredo diplomatico che ha a portata di mano: fascia rossa, blu e bianca sulla manica per identificarsi, bandierine sull’auto e un enorme salvacondotto coperto di bolli e timbri dell’ambasciata, di sei o sette sindacati operai e del ministero della Guerra, tutto quello che trova. E’ un personaggio abbastanza particolare, questo Lance: simpatico, ciarliero, indossa sempre abiti vistosi, giacche che fanno a pugni con le cravatte. A volte credo che esageri un po’ perché nessuno lo prenda troppo sul serio e sospetti di lui.»

«Come organizza i trasferimenti verso la costa?»

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«Di preciso non lo so, è restio a rivelare i dettagli. All’inizio credo che usasse mezzi dell’ambasciata e camion della sua azienda, ma poi glieli hanno requisiti. Ultimamente pare che si serva di un’ambulanza del corpo diplomatico scozzese, messa a disposizione della Repubblica.

Di solito è accompagnato da Margery Hill, un’infermiera dell’ospedale angloamericano; sa dov’è?»

«Mi pare di no.» «In calle Juan Montalvo, vicino alla Città universitaria, praticamente di fronte. Mi

hanno portato lì quando sono rimasto ferito, poi mi hanno trasferito nell’ospedale allestito nell’hotel Palace per operarmi.»

«C’è un ospedale nel Palace?» chiesi incredula. «Sì, un ospedale da campo, non lo sapeva?» «Non ne avevo idea. Quando ho lasciato Madrid, il Palace, con il Ritz, era l’albergo

più lussuoso della città.» «Come vede, ora svolge altre funzioni, sono cambiate tante cose. Sono rimasto lì

qualche giorno, finché hanno deciso di mandarmi a Londra. Prima di entrare all’ospedale angloamericano conoscevo già Lance: di questi tempi la

comunità britannica di Madrid è molto ridotta. Poi è venuto a trovarmi diverse volte al Palace; parte della sua autoimposta missione umanitaria consiste nell’aiutare il più possibile tutti i connazionali in difficoltà. Per questo so qualcosa del funzionamento della trafila dell’evacuazione, ma solo i particolari che lui ha deciso di rivelarmi. In genere i rifugiati arrivano per conto loro all’ospedale; a volte li tengono lì per un po’ facendoli passare per malati, finché è pronto il convoglio successivo. Di solito Lance e l’infermiera Hill sono presenti durante tutti gli spostamenti: lei a quanto pare è bravissima a distrarre funzionari e miliziani addetti ai controlli se le cose si mettono male. Inoltre, fa in modo di tornare a Madrid con tutto quello che riesce a prendere sulle navi della Royal Navy: medicine, materiale per l’ospedale, sapone, cibo in scatola...»

«E come fanno il viaggio?» Volevo poter immaginare il futuro trasferimento di mia madre, avere un’idea

dell’avventura che avrebbe dovuto affrontare. «So che partono all’alba. Lance conosce tutti i posti di blocco, più di trenta; a volte

impiegano oltre dodici ore. Ormai è anche un esperto della psicologia dei miliziani: scende dall’auto, parla con loro, li chiama compagni, mostra il suo impressionante salvacondotto, offre sigarette, scherza e li saluta dicendo “Viva la Russia” o “A morte i fascisti”: qualsiasi cosa, pur di proseguire. Però non tenta di corromperli: si è imposto questa regola e, a quanto ne so, non l’ha mai trasgredita. E’ anche molto scrupoloso nei confronti delle leggi della Repubblica, e non le infrange mai. E ovviamente evita di provocare contrattempi o incidenti che potrebbero danneggiare la nostra ambasciata. Pur appartenendovi solo in qualità di membro onorario, rispetta un codice rigorosissimo di etica diplomatica.»

Aveva appena finito di rispondere e io ero già pronta per la domanda successiva; mi

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stavo dimostrando un’ottima allieva del commissario Vàzquez per quanto riguarda le tecniche inquisitorie.

«Quali sono i porti dove conduce i rifugiati?» «Valencia, Alicante, Denia, dipende. Studia la situazione, stila un piano e alla fine, in

un modo o nell’altro, riesce a imbarcare il suo carico.» «Ma queste persone hanno documenti, permessi, salvacondotti...?» «Per muoversi all’interno della Spagna, di solito sì. Per andare all’estero

probabilmente no. Proprio per questo, in genere l’operazione dell’imbarco è la più complessa: Lance deve aggirare i controlli, riuscire ad avere accesso alle banchine e passare inosservato fra le sentinelle, trattare con i comandanti delle navi, introdurre i rifugiati e nasconderli in caso di perquisizioni. Bisogna fare molta attenzione, non suscitare sospetti. E una faccenda molto delicata: rischia di finire in carcere anche lui. Ma per ora se l’è sempre cavata bene.»

Finimmo di cenare. Logan si era dovuto sforzare per maneggiare le posate; non riusciva a usare il braccio sinistro al cento per cento.

Comunque aveva fatto fuori il pollo, due porzioni di budino e diversi bicchieri di vino. Io invece, impegnata ad ascoltarlo, avevo appena assaggiato la sogliola e non avevo ordinato il dessert.

«Vuole un caffè?» chiese. «Sì, grazie.» In realtà non prendevo mai il caffè dopo cena, tranne quando dovevo lavorare fino a

tardi. Ma quella sera avevo le mie buone ragioni per accettare l’offerta: prolungare il più possibile la conversazione e rimanere lucida per non perdere neanche un dettaglio.

«Mi racconti qualcosa di Madrid» gli chiesi. Usai un tono sommesso, forse immaginavo che la risposta non mi avrebbe fatto piacere.

Prima di rispondere mi fissò. «Non sa niente, vero?» Posai lo sguardo sulla tovaglia e feci un cenno negativo. Conoscere i particolari

dell’imminente evacuazione di mia madre mi aveva rilassato: non ero più nervosa. Marcus Logan, malgrado le ammaccature, era riuscito a tranquillizzarmi con il suo atteggiamento sicuro e rassicurante. La distensione però non aveva portato con sé l’allegria, bensì una profonda tristezza per tutto quello che avevo sentito. Per mia madre, per Madrid, per il mio paese. All’improvviso mi sentii infinitamente debole e intuii che stavano per venirmi le lacrime agli occhi.

«La città è in ginocchio, scarseggiano i generi di prima necessità. La situazione non è buona, ma ciascuno cerca di cavarsela come può» disse sintetizzando la risposta in una manciata di vaghe banalità. «Posso farle una domanda?» aggiunse poi.

«Mi chieda quello che vuole» risposi con lo sguardo ancora fisso sul tavolo. Il futuro di mia madre era nelle sue mani, non potevo certo rifiutarmi.

«Guardi, è tutto combinato e posso assicurarle che penseranno a sua madre come mi hanno promesso, perciò non si preoccupi.» Il suo tono era più basso, più intimo. «Ma

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per riuscirci mi sono dovuto inventare uno scenario senza sapere se corrisponde in qualche misura alla realtà. Ho dovuto dire che sua madre si trova in una situazione molto rischiosa e che deve essere evacuata con urgenza, non è stato necessario fornire altri particolari. Comunque, mi piacerebbe sapere se ho detto il vero o ho mentito. La risposta non cambierà assolutamente le cose, ma vorrei conoscerla, a livello personale. Così, se non le spiace, mi dica in quale situazione si trova sua madre, per favore; crede che corra davvero qualche pericolo a Madrid?»

Arrivò un cameriere con i caffè, mescolammo lo zucchero facendo sbattere lentamente i cucchiaini contro la porcellana delle tazzine. Dopo qualche secondo sollevai il viso e lo fissai.

«Vuole la verità? Be’, in realtà non credo che rischi la vita, ma mia madre ha solo me e io ho solo lei. Abbiamo sempre vissuto da sole, lottando per andare avanti: siamo due lavoratrici. Un giorno però ho commesso un errore e l’ho delusa. Ora voglio soltanto ritrovarla. Prima lei ha detto che il suo amico Lance non agisce per motivi politici ma per spirito umanitario. Decida lei stesso se ricongiungere una madre priva di mezzi alla figlia è una ragione umanitaria; io non lo so.»

Non riuscii a dire altro, sapevo che le lacrime stavano per uscirmi a fiotti. «Devo andare, domani mi sveglio presto, ho molto lavoro, grazie per la cena, grazie di

tutto...» Pronunciai le ultime parole con voce spezzata, a scatti, mentre mi alzavo e prendevo

svelta la borsa. Cercai di non sollevare il viso per evitare che vedesse la scia umida che mi scorreva sulle guance.

«L’accompagno» disse mentre si alzava sforzandosi di mascherare il dolore. «Non ce n’è bisogno, la ringrazio: abito qui vicino, dietro l’angolo.» Gli voltai le spalle e mi diressi verso l’uscita. Avevo fatto pochi passi quando sentii la

sua mano che mi sfiorava il gomito. «Per fortuna abita vicino, dovrò camminare di meno. Andiamo.» Comunicò con un gesto al cameriere di mettere la cena sul conto della sua camera e

uscimmo. Non parlò e non cercò di tranquillizzarmi; non disse una parola su quello che aveva appena sentito. Mi rimase accanto in silenzio e lasciò che mi calmassi da sola. Non appena fummo in strada si fermò all’improvviso. Appoggiandosi al bastone guardò il cielo stellato e inspirò avidamente.

«Il Marocco ha un buon odore.» «La montagna è vicina, e anche il mare» risposi già più calma. «Sarà per questo.» Camminammo piano, mi chiese da quanto abitassi nel Protettorato, com’era la vita in

quella terra. «Ci rivedremo, la informerò non appena saprò qualcosa di nuovo» disse quando feci

un gesto per indicare che eravamo arrivati a casa mia. «E stia tranquilla, può stare sicura che faranno tutto il possibile per aiutarla.» «Grazie mille, davvero, e mi scusi per la reazione. A volte non ce la faccio a

trattenermi. Non sono momenti facili, come può immaginare» sussurrai con un vago

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pudore. Cercò di sorridere, ma ci riuscì solo a metà. «La capisco perfettamente, non si preoccupi.» Non versai altre lacrime, il momento difficile era passato. Ci guardammo brevemente

negli occhi, ci augurammo la buonanotte e iniziai a salire le scale pensando a quanto poco quel Marcus Logan corrispondesse all’immagine del minaccioso opportunista che io e Rosalinda ci eravamo figurate.

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CAPITOLO 25 Beigbeder e Rosalinda furono contentissimi del colloquio del giorno successivo. Da

lei venni a sapere che si era svolto in un’atmosfera distesa, con i due uomini seduti in una terrazza della vecchia villa di paseo de las Palmeras che bevevano brandy e soda di fronte alla pianura del Martin e le pendici dell’imponente Gorgues, l’inizio del Rif. In precedenza avevano pranzato tutti e tre insieme: l’occhio critico di Rosalinda doveva verificare l’affidabilità del connazionale prima di lasciarlo da solo con l’adorato Juan Luis. Bedouie, il cuoco arabo, aveva preparato un tajin d’agnello, che i commensali avevano accompagnato con un Borgogna grand cru. Dopo il dessert e il caffè, Rosalinda si era ritirata e i due uomini si erano accomodati sulle poltrone in vimini per fumare un sigaro e approfondire la conversazione.

Venni a sapere che erano quasi le otto di sera quando il giornalista era tornato all’albergo dopo il colloquio, che non aveva cenato e si era limitato a ordinare un piatto di frutta in camera. Seppi che al mattino si era diretto all’Alto Commissariato subito dopo colazione, in quali vie era passato e a che ora era tornato. Venni a conoscenza di tutti i particolari delle sue entrate e delle sue uscite di quel giorno, del giorno dopo e di quello successivo; fui informata di quello che aveva mangiato e bevuto, dei giornali che aveva sfogliato e del colore delle sue cravatte. Il lavoro mi occupava l’intera giornata, ma fui informata di tutto in ogni momento grazie all’azione efficace di un paio di discreti collaboratori. Jamila si occupava del pedinamento durante tutta la giornata; per due soldi un giovane fattorino dell’hotel mi riferiva con altrettanta diligenza l’orario in cui Logan si ritirava la sera; in cambio di altri dieci centesimi ricordava anche il menu delle cene, i vestiti che l’inglese mandava a lavare e il momento in cui spegneva la luce.

Sopportai l’attesa per tre giorni, ricevendo dati particolareggiati su tutti i suoi movimenti e aspettando qualche notizia su come procedeva la trafila dell’espatrio. Al quarto, non sapendo nulla da lui, cominciai a pensare male. E pensai così male da ordire nella mia mente un piano elaborato secondo il quale Marcus Logan, raggiunto l’obiettivo di intervistare Beigbeder e raccogliere le informazioni sul Protettorato di cui aveva bisogno per il suo lavoro, meditava di andarsene dimenticando che doveva ancora risolvere qualcosa con me. E per evitare di alimentare le mie supposizioni perverse, decisi che sarebbe stato meglio anticiparlo. Perciò la mattina seguente, alle prime luci dell’alba, quando sentii il muezzin che annunciava la preghiera del mattino, uscii di casa tutta in ghingheri e mi piazzai in un angolo del cortile interno del Nacional. Con un nuovo tailleur color vino e una delle mie riviste di moda sottobraccio. A fare la guardia con la schiena dritta e le gambe accavallate. Non si sa mai.

Sapevo che stavo facendo una sciocchezza. Rosalinda aveva parlato di un permesso di

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soggiorno temporaneo nel Protettorato, lui mi aveva dato la sua parola che mi avrebbe aiutato, e sapevo che quel genere di cose richiedeva tempo. Se analizzavo la situazione a mente fredda, ero consapevole di non avere nulla da temere: tutte le mie paure erano prive di fondamento e quell’attesa era solo una dimostrazione delle mie insicurezze assurde. Lo sapevo, certo, ma decisi lo stesso di rimanere lì.

Logan scese alle nove e un quarto, quando il sole del mattino filtrava radioso attraverso la vetrata. Il cortile era animato dalla presenza di ospiti appena alzati, dal viavai dei camerieri e dal movimento incessante di giovani facchini marocchini che trasportavano masserizie e valigie. Zoppicava ancora leggermente e aveva il braccio legato al collo con un foulard blu, ma la metà rovinata del suo volto era migliorata e l’aspetto che gli davano gli abiti puliti, le ore di sonno e i capelli umidi appena ravviati era di gran lunga migliore rispetto al giorno in cui era sbarcato. Quando lo vidi sentii la morsa dell’ansia, ma cercai di non darlo a vedere scuotendo i capelli e accavallando vivacemente le gambe. Anche lui mi vide subito e si avvicinò per salutarmi.

«Non sapevo che le donne del Nordafrica fossero così mattiniere.» «Conoscerà il proverbio: Dio veglia su chi presto si sveglia.» «E nel suo caso per cosa dovrebbe vegliare Dio, se è lecito?» chiese accomodandosi

su una poltrona accanto a me. «Perché lei non lasci Tetuàn senza dirmi se l’espatrio di mia madre è già iniziato.» «Non le ho detto niente perché non so ancora niente» disse. Poi scostò la schiena dalla

spalliera e si piegò in avanti. «Non si fida di me fino in fondo, sbaglio?» La sua voce risuonò sicura e vicina. Complice, quasi. Tardai qualche secondo prima

di rispondere, cercando di inventare una bugia. Ma non ci riuscii e decisi di essere sincera.

«Mi scusi, ma ultimamente non mi fido di nessuno.» «La capisco, non si preoccupi» disse. Vidi che sorrideva ancora a fatica. «Non sono

tempi buoni per la lealtà e la fiducia.» Mi strinsi nelle spalle con un’espressione eloquente. «Ha già fatto colazione?» chiese allora. «Sì, grazie» mentii. Non l’avevo fatta e non ne avevo voglia. L’unica cosa di cui

avevo bisogno era la conferma che non mi avrebbe abbandonata senza tenere fede alla sua promessa.

«Be’, allora magari potremmo...» Un ciclone avvolto in un haik si frappose tra noi interrompendo la conversazione: era

Jamila, tutta affannata. «Frau Langenheim aspettare a casa. Va a Tangeri, a comprare stoffe. Vuole che segnorina Sira dire quanti metri comprare.» «Dille di aspettare due minuti; arrivo subito. Falla sedere e mostrale i nuovi disegni

che Candelaria ha portato l’altro giorno.» Jamila se ne andò di corsa e io mi scusai con Logan. «E’ la mia domestica; ho una cliente che aspetta, devo andare.»

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«Se è così, non la trattengo oltre. E non si preoccupi, è tutto avviato e prima o poi arriverà una conferma. Ma tenga conto che può essere questione di giorni o settimane, forse ci vorrà più di un mese; è impossibile fare una previsione» disse alzandosi. Sembrava anche più agile rispetto a qualche giorno prima, molto meno sofferente.

«Davvero, non so come ringraziarla» replicai. «E adesso mi scusi, ma devo proprio andare: ho tantissimo lavoro che mi aspetta, non avrò un minuto libero. Ci saranno diversi eventi sociali fra pochi giorni e le mie clienti hanno bisogno di abiti nuovi.»

«E lei?» «Io cosa?» chiesi confusa, non capendo la domanda. «Pensa di partecipare a qualcuno di questi eventi? Al ricevimento in onore di Serrano

Suner, magari?» «Io?» dissi ridendo mentre mi scostavo una ciocca di capelli dal viso. «No, io non partecipo a queste cose.» «Perché no?» Il primo impulso fu quello di ridere di nuovo, ma mi trattenni accorgendomi che

diceva sul serio. Era davvero curioso di sapere. Eravamo già in piedi, uno accanto all’altra, vicini. Apprezzai la fattura della sua

giacca di lino chiaro e le righe della cravatta; aveva un buon odore: di sapone pregiato, di uomo pulito. Io avevo in mano la mia rivista, lui si reggeva appoggiandosi al bastone. Lo guardai e socchiusi la bocca per replicare, avevo risposte da vendere per giustificare la mia assenza a quel tipo di ricevimenti: non ci andavo perché nessuno mi invitava, perché quello non era il mio mondo, perché non avevo niente a che fare con quella gente... Alla fine, però, decisi di non rispondere; alzai le spalle e dissi: «Devo andare».

«Aspetti» disse afferrandomi il braccio con delicatezza. «Venga con me al ricevimento in onore di Serrano Suner, faccia coppia con me quella sera.»

L’invito risuonò come una frustata e mi lasciò così sbalordita che quando cercai una scusa per rifiutare non riuscii a trovarne nemmeno una.

«Ha appena detto che non sa come ringraziarmi per il mio interessamento. Bene, ha un modo per farlo: mi accompagni al ricevimento. Potrebbe aiutarmi a

riconoscere le personalità cittadine, sarebbe molto utile per il mio lavoro.» «Io... non conosco quasi nessuno, sono qui da poco.» «E poi sarà una serata interessante; potremmo anche divertirci» insistette. Era un’assurdità, non aveva assolutamente senso. Che cosa avrei fatto a una festa in

onore del cognato di Franco, circondata da militari di alto grado e personalità locali, gente con molti mezzi e rappresentanti di paesi stranieri? La proposta era ridicola, certo, ma avevo di fronte un uomo che aspettava una risposta. Un uomo che stava organizzando l’evacuazione della persona più importante della terra, per me; uno straniero sconosciuto che mi aveva chiesto di fidarmi di lui. La mia mente fu attraversata da raffiche di pensieri contraddittori: alcuni mi intimavano di rifiutare, insistevano nel dire che era un’assurdità senza capo né coda. Altri, invece, mi ricordavano il detto popolare sentito tante volte in bocca a mia madre sulla gratitudine, che è una gran

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ricompensa. «D’accordo» dissi dopo aver deglutito bruscamente. «Verrò con lei.» Nella hall ricomparve la silhouette di Jamila, che mi metteva fretta gesticolando

esageratamente perché non facessi aspettare oltre la pignola Frau Langenheim. «Perfetto. Le comunicherò il giorno e l’ora esatti appena riceverò l’invito.» Gli strinsi la mano, attraversai in fretta l’atrio facendo risuonare i tacchi, e solo

quando arrivai alla porta mi voltai. Marcus Logan era ancora in piedi, in fondo, e mi guardava appoggiato al suo bastone. Non si era mosso da dove l’avevo lasciato e la sua presenza lontana si era trasformata in una sagoma in controluce. La sua voce, però, risuonò chiara.

«Sono contento che abbia accettato di accompagnarmi. E stia tranquilla: non ho fretta di lasciare il Marocco.»

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CAPITOLO 26 Non appena misi piede in strada fui assalita dall’incertezza. Mi resi conto che forse

ero stata precipitosa nell’accettare l’invito del giornalista senza consultarmi prima con Rosalinda; magari lei aveva altri piani per quell’ospite imposto. I miei dubbi, però, si dissolsero a breve: quando lei arrivò trafelata e impetuosa nel pomeriggio per una prova.

«Ho solo mezz’ora» disse mentre si sbottonava la camicetta di seta con le dita sottili. «Juan Luis mi aspetta, ci sono ancora mille cose da mettere a punto per la visita di Serrano Suner.»

Pensavo di sottoporle la questione con tatto, immaginavo di scegliere con cura le parole, ma decisi di approfittare di quel momento e arrivare subito al punto.

«Marcus Logan mi ha chiesto di accompagnarlo al ricevimento.» Parlai senza guardarla, fingendo di concentrarmi per togliere l’abito dal manichino. «But that’s wonderful, darling!» Non capii il significato esatto delle parole, ma dal tono dedussi che la notizia era una

bella sorpresa per lei. «Faccio bene ad andarci con lui?» investigai, esitante. «Certo! Sarà splendido averti vicino, sweetie. Juan Luis dovrà tenere un

comportamento molto formale, quindi spero di poter stare un po’ con voi. Cosa ti metterai?» «Non lo so ancora; devo pensarci. Credo che mi farò qualcosa con quella stoffa» dissi

indicando un rotolo di seta grezza appoggiato alla parete. «My God, sarai fantastica.» «Solo se sopravvivo» mormorai con gli spilli fra le labbra. Sarebbe stato davvero difficile uscire da quell’impiccio. Dopo varie settimane di

scarso lavoro, all’improvviso stavo per essere schiacciata dalle preoccupazioni e dagli impegni accumulati. Gli abiti da finire erano così numerosi che mi alzavo ogni mattina al canto del gallo e di rado riuscivo ad andare a letto prima delle tre di notte. Il campanello suonava in continuazione e le clienti entravano e uscivano senza sosta dall’atelier. Ma non ero preoccupata dagli impegni, anzi, mi sembravano una fortuna: così avevo poche occasioni per pensare a cosa diavolo avrei fatto al ricevimento, meno di una settimana dopo.

Superato lo scoglio di Rosalinda, la seconda persona che venne a sapere dell’invito inaspettato fu, inevitabilmente, Félix.

«Bene, furbetta, bel colpo! Sono verde d’invidia!» «Ti cederei volentieri il mio posto» dissi sinceramente. «Questa festa non mi attira per

niente; so che mi sentirò come un pesce fuor d’acqua, con un uomo che conosco appena

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e circondata da estranei, militari e politici per colpa dei quali la mia città è sotto assedio e io non posso tornare a casa.»

«Non fare la stupida, bambina. Parteciperai a un avvenimento che passerà alla storia di questo angolino della mappa dell’Africa. E per di più ci andrai con un tipo che non è niente male.»

«Tu che ne sai, lo conosci?» «Come no! Dove credi che abbia portato la lupa a fare merenda, oggi pomeriggio?» «Al Nacional?» chiesi stupita. «Esatto. Mi è costato il triplo delle cioccolate con panna a La Campana, perché la

scrofa si è rimpinzata di tè e pasticcini inglesi, ma ne è valsa la pena.» «Sei riuscito a vederlo?» «E a parlarci. Mi ha anche fatto accendere.» «Sei uno sfacciato» dissi lasciandomi sfuggire un sorriso. «E allora, come ti è

sembrato?» «Abbastanza appetitoso, una volta rimesso in sesto. Anche così zoppo e con una

maschera da povero cristo al posto della faccia non è niente male e sembra un vero gentleman.»

«Credi che sia affidabile, Félix?» indagai, con un velo di preoccupazione. Logan mi aveva chiesto di fidarmi di lui, ma non ero ancora sicura di poterlo fare. Il mio vicino di casa mi rispose con una risata.

«Credo di no, ma direi che non devi preoccuparti. Il tuo nuovo amico è solo un giornalista di passaggio, coinvolto in uno scambio con la donna per cui l’alto commissario si è bevuto il cervello. Le deve un favore, e se non vuole uscire dal paese messo peggio di com’è arrivato, gli conviene comportarsi bene con te.»

Il punto di vista di Félix mi fece vedere le cose in un altro modo. La fine disastrosa della mia storia con Ramiro mi aveva reso diffidente e sospettosa, ma con Marcus Logan non era questione di lealtà personale, bensì di un semplice scambio di favori. Io ti do una cosa e tu dai una cosa a me; altrimenti non se ne fa niente. Le regole erano chiare e non avevo motivo di spingermi oltre, facendo della sua affidabilità un’ossessione. L’inglese era interessato a mantenere buoni rapporti con l’alto commissario, quindi non aveva motivo di deludermi.

Quella sera Félix mi mise anche al corrente su chi fosse di preciso Serrano Suner. Avevo sentito spesso parlare di lui alla radio e avevo letto il suo nome sul giornale, ma non sapevo quasi niente del personaggio che si celava dietro quei due cognomi. Félix, come tante altre volte, mi fornì un ritratto dettagliato.

«Come forse saprai, mia cara, Serrano è il cognato di Franco, sposato con Zita, la sorella minore di Carmen Polo, una signora abbastanza giovane, più bella e meno boriosa della moglie del Caudillo, stando alle fotografie che ho visto. A quanto si dice è incredibilmente brillante, con doti intellettuali mille volte superiori a quelle del Generalissimo, che di questa cosa non è per niente contento. Prima della guerra ha esercitato come avvocato dello Stato ed è stato eletto deputato a Saragozza.»

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«E’ di destra.» «Ovviamente. Al momento dell’alzamiento, però, si trovava a Madrid. E’ stato

arrestato per la sua appartenenza politica, poi rinchiuso nel carcere Modelo, ma alla fine è riuscito a farsi trasferire all’ospedale, per un’ulcera o qualcosa del genere. Dicono che a quel punto, con l’aiuto di Gregorio Maranón, l’illustre medico, sia riuscito a scappare vestito da donna, con la parrucca, il cappello e i pantaloni arrotolati sotto il cappotto; pensa che meraviglia.»

Ridemmo immaginando la scena. «Poi è fuggito da Madrid, è arrivato ad Alicante e lì, questa volta travestito da

marinaio argentino, ha abbandonato la penisola su una torpediniera.» «E ha lasciato la Spagna?» «No. E sbarcato in Francia per rientrare nella zona nazionalista via terra, con la

moglie e quella sfilza di figli che si ritrova, quattro o cinque mi pare. Da Irun sono riusciti ad arrivare a Salamanca, dove la fazione nazionalista all’inizio aveva il suo quartier generale.»

«Sarà stato facile, come parente di Franco.» Félix sorrise con malizia. «Questo lo credi tu, carina. Si dice che il Caudillo non abbia mosso un dito per loro.

Avrebbe potuto proporre uno scambio di prigionieri, cosa comune per entrambe le fazioni, ma non l’ha fatto. E quando sono arrivati a Salamanca, l’accoglienza, a quanto pare, non è stata particolarmente entusiastica. Franco e la sua famiglia vivevano nel palazzo vescovile, e si dice che abbiano sistemato l’intera truppa dei Serrano Polo in un sottotetto con qualche brandina sgangherata, mentre la bambina di Franco aveva una camera da letto enorme con un bagno solo per lei. A dire il vero, al di là di tutte le malignità che si sentono in giro, non ho potuto trovare molte informazioni sulla vita privata di Serrano Suner; mi dispiace, cara. Ma so che a Madrid gli hanno ucciso due fratelli estranei alla politica a cui era molto legato; a quanto pare la tragedia lo ha traumatizzato e lo ha spinto a entrare attivamente nella costruzione di quella che si ostinano a chiamare

Nuova Spagna. Di fatto, è riuscito a diventare il braccio destro di Franco. Infatti lo chiamano “cognatissimo”, per equipararlo al Generalissimo. Si dice anche

che il suo attuale potere venga in gran parte dalla potente donna Carmen, che ne aveva fin sopra i capelli dell’influenza sul marito di quello svampito dell’altro cognato, Nicolas Franco. Perciò, appena è arrivato Serrano, lei gliel’ha detto chiaro e tondo: “D’ora in poi, Paco, più Ramon e meno Nicolas”.»

Fece di nuovo ridere entrambi. «A quanto si dice, Serrano è molto intelligente» proseguì Félix. «Molto sagace; molto

più preparato di Franco dal punto di vista politico, intellettuale e umano. Inoltre, è tremendamente ambizioso ed è un lavoratore indefesso; dicono che sgobba come un dannato, cercando di fabbricare una base giuridica per legittimare la fazione nazionalista e il potere supremo del cognato. Cioè, sta lavorando per dotare di un ordine istituzionale

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civile una struttura puramente militare, capisci?» «Sempre che vincano la guerra» lo anticipai. «Sempre che la vincano, certo, chi lo sa.» «E Serrano piace alla gente? E benvoluto?» «Così così. Ai guerrafondai, ai militari di alto grado, non piace per niente. Lo

considerano un intruso scomodo; parlano lingue diverse, non si capiscono. Loro vorrebbero uno Stato-caserma, ma Serrano, che è più furbo di tutti loro messi insieme, cerca di spiegargli che sarebbe assurdo, che in quel modo non otterrebbero mai la legittimità e il riconoscimento internazionale. E in questo Franco, che non ha la più pallida idea di cosa sia la politica, si affida a lui. Quindi, a costo di tapparsi il naso, devono mandarlo giù. Non convince fino in fondo neanche i falangisti della prima ora. A quanto pare era amico intimo di José Antonio Primo de Rivera, studiavano insieme all’università, ma prima della guerra non ha mai militato nella Falange. Ora sì: volente o nolente ci è dovuto entrare ed è diventato più papista del papa, ma i falangisti di vecchia data, le “camicie vecchie”, lo vedono come un arrivista, un opportunista che ha abbracciato il loro credo da poco tempo.»

«Allora chi lo appoggia? Solo Franco?» «E la sua santa moglie, che non è cosa da poco. Ma bisogna vedere quanto durerà

questo affetto.» Félix mi salvò anche preparandomi all’evento. Da quando gli avevo comunicato la

notizia e si era esibito in un gesto teatrale, fingendo di mordersi le dita per mostrarmi la sua invidia, non c’era stata sera in cui non fosse venuto da me per comunicarmi qualche informazione importante sulla festa; scampoli e briciole raccattate qua e là nel suo costante affanno esplorativo. Non trascorrevamo quei momenti nel salone come avevamo fatto fino ad allora: si era accumulato tanto lavoro che i nostri incontri serali si trasferirono temporaneamente nel laboratorio.

Il piccolo cambiamento non sembrò turbarlo più di tanto: gli piacevano moltissimo i fili, le stoffe e i segreti del mestiere e aveva sempre qualche idea per il modello che stavo realizzando. A volte erano buone; spesso però suggeriva cose assurde.

«Hai detto che questo velluto meraviglioso è per il modellino della moglie del presidente del Tribunale? Fagli un buco sul culo, così magari qualcuno la nota. Che spreco, una stoffa così bella per quel brutto uccellaccio» diceva facendo scorrere le dita sui pezzi di stoffa montati sul manichino.

«Non toccare» lo ammonii con durezza senza neanche guardarlo, con gli occhi fissi sulla mia impuntura.

«Scusa, bambina; ma quella stoffa è così brillante...» «Proprio per questo: fai attenzione a non lasciare ditate. Torniamo alle nostre cose,

Félix. Dimmi, cos’hai saputo oggi?» In quei giorni la visita di Serrano Suner era sulla bocca di tutti, a Tetuàn. Nei negozi,

nelle tabaccherie e dai parrucchieri, nell’ambulatorio di qualunque medico, nei caffè e nei capannelli sui marciapiedi, fra i banchi del mercato, all’uscita dalla messa, non si

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parlava d’altro. Io, però, ero troppo occupata e non avevo quasi il tempo di mettere piede in strada. Per fortuna c’era il mio caro vicino di casa.

«Nessuno ha intenzione di perdersi l’evento; ad accogliere il cognatissimo ci sarà la crème de la crème: il califfo e il suo numeroso seguito, il gran visir e il makhzen, il governo al completo. Tutte le autorità dell’amministrazione spagnola, militari carichi di decorazioni, avvocati e magistrati, rappresentanti dei partiti politici marocchini e della comunità ebraica, il corpo diplomatico al gran completo, i direttori di banca, i funzionari di grado elevato, gli impresari potenti, i medici, tutti gli spagnoli, gli arabi e gli ebrei d’alto lignaggio e, naturalmente, qualche intruso come te, piccola svergognata, che ti intrufolerai dalla porta di servizio sottobraccio al tuo giornalista zoppicante.»

Rosalinda comunque mi aveva avvertito che il lusso e il glamour della festa sarebbero stati contenuti: Beigbeder aveva intenzione di accogliere l’ospite con tutti gli onori, ma senza dimenticare che eravamo in tempo di guerra. Non ci sarebbero state esibizioni ostentate, né balli o musica, tranne la banda del califfo. Ma nonostante l’austerità d’obbligo, quello per il cognatissimo sarebbe stato il ricevimento più sfavillante organizzato dall’Alto Commissariato negli ultimi tempi, e la capitale del Protettorato era tutta presa dai preparativi.

Félix mi istruì anche su questioni di forma. Non riuscii mai a capire dove avesse imparato quelle cose, visto che la sua esperienza sociale era inesistente e la sua cerchia di amicizie scarsa quasi quanto la mia.

La sua vita si limitava al lavoro monotono presso l’Assessorato alle forniture e ai servizi, a sua madre e alle sue miserie, alle sporadiche scappatelle notturne in locali malfamati e ai ricordi di qualche raro viaggio a Tangeri prima che iniziasse la guerra: tutto lì. Non aveva mai messo piede in Spagna in vita sua. Ma adorava il cinema e conosceva tutti i film americani fotogramma per fotogramma; inoltre era un lettore vorace di riviste straniere, un osservatore assolutamente spregiudicato e un incorreggibile curioso. Ed era furbo come una volpe: combinando le informazioni delle sue fonti, era riuscito a mettere insieme senza fatica le basi necessarie per addestrarmi e trasformarmi in un’invitata elegante, che non avrebbe lasciato trapelare la mancanza di pedigree.

Alcuni suoi consigli non erano necessari in quanto ovvi. Accanto all’indesiderabile Ramiro avevo conosciuto e osservato persone di rango e provenienza molto diversi. Eravamo andati insieme a mille feste e avevamo frequentato decine di locali e buoni ristoranti, sia a Madrid sia a Tangeri; e grazie a quelle uscite avevo assimilato un mucchio di piccole abitudini per cavarmela con disinvoltura nelle riunioni sociali.

Félix però decise di istruirmi a partire dalle nozioni più elementari. «Non parlare con la bocca piena, non fare rumore quando mangi e non pulirti con la

manica; e non infilarti la forchetta in bocca fino in fondo, non bere il vino tutto in un sorso, non alzare il bicchiere per chiamare il cameriere e fartelo riempire di nuovo. Di’ “per favore” e “molte grazie” quando è il caso, ma limitati a mormorare, senza grandi effusioni. E di’ semplicemente “molto lieta” di qua e “molto lieta” di là se ti presentano

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qualcuno, non te ne uscire con espressioni tipo “il piacere è tutto mio” o roba del genere. Se ti parlano di qualcosa che non sai o non capisci, stampati in faccia uno dei tuoi sorrisi smaglianti e rimani zitta, limitandoti ad annuire ogni tanto con la testa. E quando non puoi fare a meno di parlare, ricordati di ridurre le tue imposture al minimo minimorum, in modo che non possano smascherarti: che tu abbia diffuso qualche piccola bugia per promuoverti come haute couturière va bene, ma sarebbe ben diverso entrare nella tana del lupo pavoneggiandoti davanti a gente abbastanza perspicace e distinta da cogliere al volo la tua messinscena. Se qualcosa ti stupisce o ti piace moltissimo, di’ solo “ammirevole”, “straordinario”, o un aggettivo del genere; non mostrare mai il tuo entusiasmo a gesti, né con pacche sulle cosce o frasi del tipo “è un vero miracolo”, o “accidenti”, o “sono rimasta a bocca aperta”. Se qualche battuta ti sembra divertente, non ridere a crepapelle mostrando a tutti i denti del giudizio e non piegarti in avanti tenendoti la pancia con le mani.

Limitati a sorridere, a sbattere le ciglia, ed evita di fare commenti. E non esprimere la tua opinione se non te la chiedono, non uscirtene con interventi indiscreti del tipo “lei chi è, buon uomo?”, o “non mi dica che quella grassona è la sua signora”.»

«Queste cose le so già, mio caro Félix» dissi ridendo. «Sono una semplice sartina, ma non vengo dalle caverne. Dimmi qualcosa di più interessante, per favore.»

«D’accordo, bellezza, come vuoi; cercavo solo di rendermi utile, caso mai ti fosse sfuggito qualche particolare. Passiamo a cose serie.»

Così, nel corso di diverse serate, Félix mi snocciolò il profilo degli invitati più importanti e io ne memorizzai i nomi, gli impieghi e le funzioni uno per uno, e in vari casi anche le facce, grazie a giornali, riviste, foto e annuari che aveva portato con sé. In quel modo venni a sapere dove abitavano, a che cosa si dedicavano, le loro possibilità economiche e la posizione che occupavano nella scala sociale locale. In realtà quelle informazioni mi interessavano relativamente, ma Marcus Logan contava su di me perché lo aiutassi a identificare le persone importanti, dunque dovevo essere aggiornata.

«Immagino che, vista la provenienza del tuo accompagnatore, starete soprattutto con gli stranieri» disse. «E immagino che, oltre al fior fiore locale, verrà anche qualcuno da Tangeri; la tournée del cognatissimo non prevede una tappa lì, quindi, se Maometto non va alla montagna...»

La cosa mi confortò: mescolata a un gruppo di espatriati che non avevo mai conosciuto e che probabilmente non avrei più rivisto, mi sarei sentita più sicura che in mezzo ai cittadini del posto, che avrei potuto incrociare ogni giorno svoltando l’angolo. Félix mi informò anche sul protocollo che avrebbe seguito la cerimonia, come si sarebbero svolti i saluti e come tutto sarebbe proseguito passo a passo. Lo ascoltai memorizzando i particolari, mentre cucivo più intensamente di quanto avessi mai fatto in vita mia.

Infine arrivò il grande giorno. In mattinata uscirono dal laboratorio gli ultimi ordini, consegnati da Jamila; a mezzogiorno avevo recapitato tutto e finalmente vi fu un po’ di calma. Immaginai che le altre invitate stessero finendo di pranzare, preparandosi a

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riposare nella penombra delle loro camere da letto con le imposte chiuse, o attendendo il proprio turno nel negozio di haute coiffure di Justo e Miguel. Le invidiavo: trovai a malapena il tempo per mandar giù un boccone e dovetti dedicare l’ora della siesta a cucire il mio abito. Quando mi misi all’opera erano le tre meno un quarto. Il ricevimento sarebbe iniziato alle otto, Marcus Logan aveva mandato un messaggio per avvisarmi che sarebbe passato a prendermi alle sette e mezzo. Avevo un mucchio di cose da fare e solo cinque ore a disposizione.

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CAPITOLO 27 Quando terminai con il ferro da stiro guardai l’orologio. Le sei e venti. L’abito era

pronto; dovevo solo riuscire a rendermi presentabile. Mi immersi nella vasca da bagno e svuotai la mente. Avrei lasciato spazio al

nervosismo solo nell’imminenza dell’evento; per il momento meritavo un po’ di sollievo: il sollievo dell’acqua calda e della schiuma. Sentii che il mio corpo stanco si rilassava, le dita affaticate dal cucito si sgranchivano e le vertebre cervicali si distendevano. Mi appisolai, sembrava che il mondo svanisse nella porcellana della vasca da bagno. Non ricordavo un momento così piacevole da mesi, ma la sensazione gradevole durò poco: fu interrotta dalla porta del bagno spalancata senza troppe cerimonie.

«Si può sapere cos’hai in testa, ragazzina?» urlò Candelaria, affannata. «Sono le sei e mezzo passate e tu continui a stare a mollo come i ceci. Non farai in tempo, piccola; a che ora pensi di iniziare a prepararti?» La contrabbandiera aveva portato con sé quella che considerava una squadra

d’emergenza imprescindibile: l’amica Remedios, parrucchiera, e Angelita, una vicina della pensione brava a fare la manicure. Poco prima avevo mandato Jamila a comprare delle forcine in calle de La Luneta; Candelaria l’aveva incontrata per strada ed era venuta a sapere che ero stata molto più attenta ai vestiti delle clienti che al mio, e che non avevo avuto un minuto libero per prepararmi.

«Forza, signorina; esci dalla vasca, abbiamo un mucchio di cose a cui pensare e siamo giuste giuste con i tempi.»

La lasciai fare; era arrivata come un ciclone, opporsi sarebbe stato impossibile. E, neanche a dirlo, le fui profondamente grata per l’aiuto: Mancavano solo tre quarti d’ora all’arrivo del giornalista e io, come disse la contrabbandiera, sembravo una scopa. L’attività cominciò non appena riuscii ad avvolgermi in un asciugamano.

Angelita si concentrò sulle mie mani, strofinandole con l’olio, togliendo le impurità e limando le unghie. Intanto Remedios si dedicava ai capelli. Sapevo che non avrei avuto tempo di farlo dopo, e me li ero lavati al mattino; perciò avevo solo bisogno di un’acconciatura decente.

Candelaria faceva da assistente a entrambe, porgendo pinze e forbici, bigodini e pezzi di cotone mentre, senza smettere di parlare neanche per un attimo, ci riferiva le ultime voci su Serrano Suner che giravano a Tetuàn. Era arrivato da due giorni e aveva visitato diverse località e incontrato le personalità importanti del Nordafrica in compagnia di Beigbeder: da Alcazarquivir a Xauen e poi a Dar Riffien, dal califfo al gran visir. Io non vedevo Rosalinda da una settimana; ma le notizie viaggiavano di bocca in bocca.

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«Pare che ieri a Ketama abbiano fatto un pranzo arabo in pineta, seduti per terra sui tappeti. Dicono che al cognatissimo per poco non è venuto un colpo quando ha visto che tutti mangiavano con le mani; il tipo non sapeva come portarsi il cuscus alla bocca senza perderne metà per strada...»

«...l’alto commissario invece era felice come una pasqua, si comportava come un perfetto padrone di casa e fumava un sigaro dopo l’altro» aggiunse una voce sulla porta. Era Félix, ovviamente.

«Che ci fai qui a quest’ora?» chiesi sorpresa. La passeggiata del pomeriggio con la madre era sacra, a maggior ragione quel giorno, con tutta la città riversata in strada. Portandosi il pollice alla bocca, fece un gesto eloquente: la signora Encarna era a casa, opportunamente ubriaca prima del solito.

«Visto che stasera mi abbandoni per un giornalista straniero, non volevo perdermi i preparativi. Posso aiutarvi, signore?»

«Lei non è quello che dipinge divinamente?» gli chiese Candelaria a bruciapelo. Entrambi sapevano benissimo chi era l’altro, ma non si erano mai parlati.

«Murillo non è nessuno, in confronto a me.» «Allora vediamo cosa riesce a combinare con gli occhi della bambina» disse

porgendogli un astuccio di trucchi di cui non seppi mai la provenienza. Félix non aveva mai truccato nessuno in vita sua, ma non si tirò indietro. Al contrario:

accolse l’ordine della contrabbandiera come un dono del cielo e, dopo aver guardato le foto di un paio di numeri di “Vanity Fair” in cerca d’ispirazione, si gettò sul mio viso come avrebbe fatto su una tela da dipingere.

Alle sette e un quarto ero ancora avvolta nell’asciugamano con le braccia tese, mentre Candelaria e Angelita soffiavano per far asciugare lo smalto delle unghie. Alle sette e venti Félix finì di ripassarmi le sopracciglia con i pollici. Alle sette e venticinque Remedios mi mise l’ultima forcina nei capelli e, dopo qualche secondo, arrivò Jamila dal balcone correndo come una matta e gridando che il mio accompagnatore era appena comparso all’angolo.

«Mancano solo un paio di cosette» annunciò la mia socia. «E’ tutto perfetto, Candelaria: non c’è più tempo» dissi mentre cercavo il vestito

mezzo nuda. «Non se ne parla neanche» intimò alle mie spalle. «Non posso fermarmi neppure un secondo, Candelaria, davvero» insistetti nervosa. «Stai zitta e guarda, ti ho detto» ordinò prendendomi per un braccio in mezzo al

corridoio. Mi allungò un pacchetto piatto, avvolto in una carta stropicciata. Lo aprii in fretta: sapevo che se non l’avessi fatto sarebbe stato peggio. «Oddio, Candelaria, non ci posso credere!» dissi tirando fuori un paio di calze di seta.

«Come le ha avute? Mi aveva detto che non se ne trovavano da mesi!» «Stai zitta, una buona volta, e apri questo, adesso» disse frenando la mia gratitudine e

consegnandomi un altro involto. Sotto una grossolana carta da pacchi trovai un bellissimo oggetto di madreperla con il

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bordo dorato. «E’ un portacipria» chiarì tutta orgogliosa. «Così ti inciprii ben bene il naso, non

vorrai mica essere da meno delle signore importanti che avrai accanto?» «E’ bellissimo» sussurrai accarezzandone la superficie. Lo aprii: conteneva una

pastiglia di cipria compatta, uno specchietto e un piumino bianco. «Grazie mille, Candelaria. Non si doveva disturbare, ha già fatto così tanto per me...»

Non riuscii a proseguire per due motivi: perché stavo per scoppiare a piangere e perché proprio in quell’istante suonarono alla porta. Lo scampanellio mi fece reagire, non c’era tempo per i sentimentalismi.

«Jamila, corri ad aprire» ordinai. «Félix, portami la sottoveste che c’è sopra il letto; Candelaria, mi aiuti a mettere le calze, non vorrei smagliarle per la fretta. Remedios, lei prenda le scarpe; Angelita, tiri la tenda del corridoio. Andiamo nel laboratorio, e senza farci sentire.»

Con la seta grezza mi ero cucita un due pezzi con grandi risvolti, la vita stretta e la gonna svasata. In mancanza di gioielli, l’unico accessorio era un fiore di stoffa color tabacco vicino alla spalla, intonato alle scarpe dal tacco vertiginoso che mi aveva foderato un calzolaio del quartiere arabo. Remedios era riuscita a trasformare i miei capelli in un’elegante crocchia morbida che incorniciava con grazia il lavoro di Félix come truccatore improvvisato. Malgrado l’inesperienza, il risultato era splendido: mi aveva reso brillanti gli occhi e carnose le labbra, aveva dato luce al mio viso stanco.

Mi vestirono tutti insieme, mi calzarono, mi ritoccarono l’acconciatura e il rossetto. Non ebbi neanche il tempo di guardarmi allo specchio; non appena vidi che ero pronta, uscii in corridoio e lo percorsi in fretta tenendomi in equilibrio sulla punta delle scarpe. Quando arrivai nell’ingresso rallentai, ed entrai nel salone simulando un’andatura tranquilla. Marcus Logan era di spalle e guardava in strada dal balcone. Si girò quando sentì i miei passi sulle piastrelle.

Erano passati nove giorni dal nostro ultimo incontro e nel frattempo gli acciacchi che aveva all’arrivo dovevano essere migliorati. Mi aspettava con la mano sinistra infilata nella tasca di un abito scuro, senza il braccio legato al collo. Sul viso gli era rimasto solo qualche segno delle ferite sanguinanti di un tempo, la pelle aveva assorbito il sole del Marocco fino ad acquisire un colore dorato che faceva un bel contrasto con il bianco candido della camicia. Stava in piedi apparentemente senza sforzo, le spalle dritte, la schiena eretta. Quando mi vide sorrise, e quella volta distendere le labbra a entrambi i lati della faccia non gli costò fatica.

«Quando la vedrà, il cognatissimo non vorrà più tornare a Burgos» fu il suo saluto. Cercai di rispondere con una frase altrettanto brillante, ma fui distratta da una voce

alle mie spalle. «Proprio un bel bocconcino, bambina» sentenziò Félix con un sussurro rauco dal suo

nascondiglio nell’entrata. Trattenni una risata. «Andiamo?» dissi solo.

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Neanche lui ebbe modo di rispondere: nel momento in cui stava per farlo, lo spazio fu invaso da una presenza travolgente.

«Solo un momentino, signor Marcus» chiese la contrabbandiera alzando la mano come per avere la parola. «Vorrei solo darvi un consiglio prima che ve ne andiate, se permette.»

Logan mi guardò un po’ sconcertato. «E’ una mia amica» chiarii. «In tal caso può dire quello che vuole.» Candelaria gli si avvicinò e cominciò a parlargli mentre fingeva di togliergli un pelo

inesistente dalla giacca. «Faccia attenzione: questa ragazza porta sulle spalle il peso di tante fatiche. E se

vuole sedurla con la sua aria da forestiero pieno di grana e alla fine me la fa soffrire, o se le passa per la testa di farle del male, anche tanto così, io e mio cugino frocio le facciamo un lavoretto in quattro e quattr’otto, e una sera di queste le sfoderano un coltello in una viuzza del quartiere arabo e le riducono la parte sana della faccia a una pelle di porco, tutta segnata per il resto dei suoi giorni. Sono stata chiara, tesoro?»

Il giornalista non fu in grado di rispondere: per fortuna, pur parlando uno spagnolo perfetto, aveva colto solo qualche parola del minaccioso discorso della mia socia.

«Cos’ha detto?» chiese voltandosi verso di me con l’aria confusa. «Niente d’importante. Andiamo, è tardi.» Mentre uscivamo riuscii a stento a nascondere il mio orgoglio. Non per il mio aspetto;

e neanche per l’uomo attraente che avevo accanto, né per l’importante evento che ci aspettava quella sera, ma per l’affetto smisurato degli amici che avevo lasciato a casa.

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Le vie erano addobbate con bandiere rosse e gialle; c’erano ghirlande, cartelli di saluto all’illustre ospite o di elogio per la figura del cognato. Centinaia di arabi e spagnoli camminavano svelti e apparentemente senza meta. I balconi, adornati con i colori nazionali, erano affollati di gente, e anche i marciapiedi. I giovani si erano arrampicati sui posti più impensati - pali, cancelli, lampioni - cercando la posizione migliore per assistere a quello che sarebbe successo; le ragazze passeggiavano a braccetto con il rossetto ritoccato di fresco. I bambini correvano a frotte, procedendo a zigzag in tutte le direzioni. I piccoli spagnoli erano ben pettinati e profumati di colonia, con i loro cravattini, le bambine con i fiocchi in fondo alle trecce; i piccoli arabi con le gellabe e i tarbush; molti erano scalzi, altri no.

A mano a mano che ci avvicinavamo a plaza de Espana, la massa di corpi divenne più fitta, le voci più alte. Faceva caldo e la luce era ancora forte: cominciammo a sentire la banda musicale che accordava gli strumenti. Erano state allestite delle tribune di legno smontabili; lo spazio era occupato fino all’ultimo millimetro. Marcus Logan dovette mostrare più volte il suo invito perché potessimo attraversare gli sbarramenti di sicurezza che separavano la gente comune dalle zone in cui dovevano passare le autorità. Durante il tragitto quasi non parlammo: il rumore e le continue interruzioni per evitare gli ostacoli impedivano ogni tentativo di conversazione. A volte dovetti aggrapparmi con forza al suo braccio perché la folla non ci separasse; a volte fu lui a dovermi tenere per le spalle perché la massa vorace non mi inghiottisse. Ci volle parecchio tempo, ma alla fine riuscimmo ad arrivare. Sentii un crampo alla bocca dello stomaco non appena varcammo la cancellata che dava accesso all’Alto Commissariato, ma preferii non pensarci.

Diversi soldati arabi sorvegliavano l’entrata, imponenti nell’uniforme di gala, con grandi turbanti e i mantelli al vento. Attraversammo il giardino addobbato con bandiere e stendardi, poi un addetto ci invitò a unirci a un folto gruppo di invitati che attendeva l’inizio dell’evento sotto le tende bianche montate per l’occasione. Alla loro ombra c’erano berretti con visiera, guanti e perle, cravatte, ventagli, camicie blu sotto giacche bianche con l’emblema della Falange ricamato sul petto, e un buon numero di modelli cuciti punto per punto dalle mie mani. Salutai con discrezione diverse clienti, finsi di non notare gli sguardi e i commenti fatti di nascosto che arrivavano da varie parti: chi è quella, chi è lui, capii leggendo il movimento delle labbra. Riconobbi altri volti: molti li avevo visti solo nelle foto che Félix mi aveva mostrato nei giorni precedenti; con qualcun altro, invece, c’era un rapporto più personale. Il commissario Vàzquez, per esempio, che celò in modo magistrale il suo stupore nell’incontrarmi in quell’ambiente.

«Ma guarda che bella sorpresa» disse mentre si allontanava da un gruppo e si avvicinava a noi.

«Buonasera, commissario.» Mi sforzai di sembrare naturale, non so se ci riuscii. «Che piacere vederla.» «Davvero?» chiese con aria ironica. Non potei rispondere perché, lasciandomi sbigottita, subito dopo salutò il mio

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accompagnatore. «Buonasera, signor Logan. Vedo che si è inserito bene nella vita locale.» «Il commissario mi ha convocato nel suo ufficio appena sono arrivato a Tetuàn» mi

spiegò il giornalista mentre si stringevano la mano. «Formalità che toccano agli stranieri.» «Per il momento il suo accompagnatore non è sospettato di nulla, ma se nota qualcosa

di strano in lui me lo faccia sapere» scherzò il commissario. «E lei, Logan, abbia cura della signorina Quiroga, che ha passato un anno molto duro, a lavorare senza sosta.»

Lasciammo il commissario e andammo avanti. Il giornalista era rilassato e attento, e io mi sforzai di non far trapelare che mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Anche lui non conosceva quasi nessuno, ma la cosa non sembrava preoccuparlo: si muoveva con disinvoltura, con una sicurezza invidiabile che probabilmente era frutto del suo mestiere. Rispolverando le informazioni di Félix, gli rivelai con discrezione l’identità di alcuni invitati: quel signore vestito di scuro è José Ignacio Toledano, un ricco ebreo direttore della banca Hassan; la signora elegantissima con il cappello di piume che fuma con il bocchino è la duchessa di Guisa, una nobile francese che vive a Larache; l’uomo corpulento a cui stanno riempiendo il bicchiere è Mariano Bertuchi, il pittore. Tutto andò secondo il programma stabilito. Arrivarono altri invitati, poi le autorità civili spagnole e i militari; quelle marocchine dopo, con i loro abiti esotici. Dalla frescura del giardino sentimmo il clamore della strada, le grida, gli evviva e gli applausi. E arrivato, eccolo, si sentiva ogni tanto. Ma l’ospite d’onore tardò ancora a comparire: prima dedicò un momento alla folla, lasciandosi acclamare come un torero o una di quelle star americane che affascinavano il mio vicino di casa.

Infine comparve il tanto atteso e desiderato cognato del Caudillo, arriba Espana. Avvolto in un completo nero, serio, altero, magrissimo e tremendamente bello con i capelli quasi bianchi pettinati all’indietro; l’espressione impassibile, come diceva l’inno della Falange, con quegli occhi da gatto astuto e i suoi trentasette anni, anche se ne dimostrava qualcuno in più.

Io dovevo essere tra le poche persone che non morivano dalla curiosità di vederlo da vicino o dal desiderio di stringergli la mano, ma guardai lo stesso verso di lui. Comunque, non ero interessata a Serrano, bensì a un uomo molto vicino a lui, che non conoscevo ancora di persona: Juan Luis Beigbeder. L’amante della mia cliente e amica si rivelò alto, magro ma non magrissimo, sulla cinquantina. Indossava l’uniforme di gala con un’alta fascia in vita, un cappello con la visiera e un bastone leggero, una specie di frustino. Il naso era sottile e prominente: sotto, i baffi scuri; sopra, gli occhiali dalla montatura rotonda, due cerchi perfetti dietro i quali si intravedevano occhi intelligenti che seguivano tutto quello che accadeva intorno. Mi sembrò un uomo particolare, un po’ pittoresco. Nonostante gli abiti, non aveva assolutamente una prestanza marziale: anzi, nel suo atteggiamento c’era qualcosa di teatrale che però non appariva falso: i suoi gesti erano raffinati ma esibiti, aveva una risata aperta, la voce rapida e sonora. Si muoveva in continuazione da una parte all’altra, salutava con grandi effusioni distribuendo abbracci,

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pacche sulle spalle e lunghe strette di mano; sorrideva e parlava con Tizio e Caio, arabi, cristiani, ebrei, per poi ricominciare.

Forse nel tempo libero lasciava intravedere il raffinato intellettuale che secondo Rosalinda si portava dentro, ma in quel momento mostrò ai presenti solo le sue grandissime doti per le relazioni sociali.

Sembrava tenesse legato Serrano Suner con una corda invisibile; a volte gli permetteva di allontanarsi un po’, gli consentiva una certa libertà di movimento perché salutasse e se ne andasse per conto suo, perché si lasciasse adulare. Dopo un minuto però tirava la corda e lo richiamava accanto a sé: gli spiegava qualcosa, gli presentava qualcuno, gli passava un braccio intorno alle spalle, gli sussurrava una frase all’orecchio, scoppiava a ridere e poi lo lasciava andare di nuovo.

Cercai varie volte Rosalinda, ma non la vidi. Né accanto al suo caro Juan Luis né lontano da lui.

«Ha visto in giro la signora Fox?» chiesi a Logan quando ebbe finito di scambiare qualche parola in inglese con un invitato di Tangeri; me lo aveva presentato, ma avevo dimenticato immediatamente il suo nome.

«No, non l’ho vista» si limitò a rispondere, mentre si concentrava sul gruppo che si stava formando intorno a Serrano. «Sa chi sono?» disse indicandoli con un discreto movimento del mento.

«I tedeschi» risposi. C’erano la pignola Frau Langenheim inguainata nello straordinario abito di shantung

viola che le avevo cucito io; Frau Heinz, la mia prima cliente, con un appariscente vestito bianco e nero; la signora de Bernhardt, con il suo accento argentino, che in quell’occasione non ostentava niente di vistoso, e qualche altra donna che non conoscevo.

Tutte con i mariti, pronti ad accogliere il cognatissimo che dispensava grandi sorrisi in mezzo al gruppo compatto di tedeschi. In quel caso Beigbeder non interruppe la conversazione e lo lasciò occupare la scena da solo per un bel po’ di tempo.

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CAPITOLO 28 Calò il buio e si accesero le luci come in una fiera. L’atmosfera era animata senza

eccessi, la musica dolce e Rosalinda ancora assente. Il gruppo di tedeschi si stringeva intorno all’ospite d’onore, ma a un certo punto le donne si allontanarono a malincuore, e rimasero soltanto cinque uomini e il dignitario spagnolo. Sembravano molto concentrati sulla conversazione e si passavano qualcosa di mano in mano accostando le teste, indicando con il dito, commentando. Mi accorsi che il mio accompagnatore continuava a guardarli cercando di non dare nell’occhio.

«Si direbbe che le interessano i tedeschi.» «Mi affascinano» disse con una punta d’ironia. «Ma ho le mani legate.» Replicai sollevando le sopracciglia con un’espressione interrogativa. Invece di spiegarsi, dirottò la conversazione su un terreno in apparenza molto diverso. «Sarei troppo sfacciato se le chiedessi un favore?» Buttò lì la domanda in modo casuale, come quando, pochi minuti prima, mi aveva

chiesto se volevo una sigaretta o un cocktail alla frutta. «Dipende» risposi simulando anch’io un’indifferenza che non provavo affatto. La

serata si stava rivelando piuttosto rilassante, ma continuavo a non sentirmi a mio agio e a non godermi quella festa altrui. Inoltre, ero preoccupata per l’assenza di Rosalinda, che non si era ancora fatta vedere; era molto strano. Ci mancava solo che il giornalista mi chiedesse un altro favore fastidioso: avevo già fatto abbastanza accettando di partecipare al ricevimento.

«E’ una cosa semplicissima» chiarì. «Sono curioso di sapere perché tutti i tedeschi guardano con tanta attenzione quello che stanno mostrando a Serrano.»

«Curiosità personale o professionale?» «Entrambe. Ma non posso avvicinarmi: come saprà, noi inglesi non siamo graditi.» «Mi sta chiedendo di andare a dare un’occhiata?» domandai incredula. «Senza attirare troppo l’attenzione, se possibile.» Stavo per mettermi a ridere. «Non dice sul serio, vero?» «Assolutamente sì. Il mio lavoro consiste proprio in questo: cercare informazioni e

mezzi per ottenerle.» «E siccome non può ottenere l’informazione da solo, vuole che il mezzo sia io.» «Non intendo approfittare di lei, glielo assicuro. E’ una semplice proposta, non deve

accettarla per forza. Le chiedo solo di prenderla in considerazione.» Lo fissai senza proferire parola. Sembrava sincero e il suo atteggiamento invitava a

fidarsi di lui ma, come aveva detto Félix, probabilmente non lo era. In fin dei conti era

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solo una questione di interesse. «D’accordo, lo farò.» Stava per parlare, forse voleva ringraziarmi in anticipo. Non glielo permisi. «Ma voglio qualcosa in cambio» aggiunsi. «Cosa?» chiese sorpreso. Non si aspettava che la mia azione avesse un prezzo. «Cerchi di sapere dov’è la signora Fox.» «E come faccio?» «Un modo lo troverà; è o non è un giornalista?» Non aspettai la risposta: mi voltai immediatamente e mi allontanai chiedendomi come

diavolo avrei avvicinato il gruppo dei tedeschi senza apparire troppo sfacciata. La soluzione me la offrì il portacipria che Candelaria mi aveva regalato pochi minuti

prima di uscire. Lo tirai fuori dalla borsa e lo aprii. Mentre camminavo finsi di osservare una zona del mio viso, anticipando una visita alla toilette. Solo che, concentrata sullo specchio, sbagliai strada e invece di passare negli spazi vuoti, sfortunatamente, andai a sbattere proprio contro la schiena del console tedesco.

Lo scontro interruppe di colpo la conversazione e fece cadere a terra il portacipria. «Mi scusi tanto, mi dispiace moltissimo, ero distratta...» dissi in tono di finto

imbarazzo. Fecero per chinarsi a raccoglierlo in quattro, ma uno fu più veloce degli altri. Il più

magro, con i capelli quasi bianchi pettinati all’indietro. L’unico spagnolo. Quello con gli occhi da gatto.

«Credo che lo specchio si sia rotto» annunciò rialzandosi. «Guardi.» Guardai. Ma prima di spostare lo sguardo sullo specchio crepato cercai di capire

velocemente che cosa tenesse fra le dita sottilissime oltre al portacipria. «Sì, pare proprio rotto» mormorai passando con delicatezza l’indice sulla superficie

scheggiata del portacipria, ancora nella sua mano. L’unghia smaltata di fresco si rifletté cento volte nello specchietto. Le nostre spalle erano accostate e le teste vicine, entrambe chine sul piccolo oggetto.

Intravidi la pelle chiara del suo volto a pochi centimetri dal mio, i tratti delicati e le tempie canute, le sopracciglia più scure, i baffi sottili.

«Faccia attenzione a non tagliarsi» disse sottovoce. Mi trattenni ancora per qualche secondo, vidi che la pastiglia di cipria era intatta e il

piumino era ancora al suo posto. E di sfuggita diedi un’altra occhiata a quello che teneva fra le dita, che pochi minuti prima il gruppo si era passato di mano in mano. Fotografie. Diverse fotografie. Riuscii a vedere solo la prima: persone che non riconobbi, individui che formavano un gruppo compatto di volti e corpi anonimi.

«Sì, credo che sia meglio chiuderlo» dissi alla fine. «Tenga.» Unii le due parti con un sonoro clic. «Che peccato, è un portacipria bellissimo. Quasi quanto la sua proprietaria» aggiunse. Accettai il complimento con una smorfia civettuola e il più smagliante dei miei

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sorrisi. «Non fa niente, non si preoccupi, davvero.» «E’ stato un piacere, signorina» disse porgendomi la mano. Mi accorsi che era quasi

senza peso. «Anche per me, signor Serrano» replicai sbattendo le ciglia. «Mi scuso ancora per

l’interruzione. Buona serata, signori» aggiunsi guardando il resto del gruppo. Avevano tutti una svastica sul risvolto della giacca.

«Buona serata» risposero i tedeschi in coro. Ripresi a camminare cercando di imporre alla mia andatura tutta la grazia possibile.

Quando capii di essere lontana dai loro sguardi, presi un bicchiere di vino dal vassoio di un cameriere, lo buttai giù d’un fiato e poi lo gettai nel roseto.

Maledissi Marcus Logan per avermi coinvolta in quella stupida avventura e me stessa per avere accettato. Ero arrivata molto più vicino a Serrano Suner di tutti gli altri invitati: avevo avuto il suo volto quasi accostato al mio, le nostre dita si erano sfiorate, la sua voce era risuonata nel mio orecchio con una vicinanza che aveva sfiorato l’intimità. Mi ero mostrata a lui come una frivola svampita, felice di ricevere per un momento le attenzioni di una persona così importante, quando in realtà non ero minimamente interessata a conoscerlo. E tutto per niente; per verificare solo che il gruppo stava osservando con apparente interesse un mucchietto di fotografie in cui non ero riuscita a distinguere neanche una persona che conoscevo.

Trascinai la mia irritazione in giro per il giardino finché arrivai all’ingresso principale dell’Alto Commissariato. Dovevo trovare una toilette: andare in bagno, lavarmi le mani, dimenticare tutto almeno per un minuto e calmarmi prima di tornare dal giornalista. Seguii le indicazioni avute da un inserviente: percorsi l’entrata adornata da metope e ritratti di ufficiali in divisa, girai a destra e avanzai lungo un ampio corridoio. La terza porta a sinistra, aveva detto. Prima di arrivare, alcune voci mi anticiparono la situazione del luogo in cui ero diretta; pochi secondi dopo vidi con i miei occhi che cosa era successo. Il pavimento era allagato, l’acqua sembrava sgorgare a fiotti da qualche punto all’interno, da una cisterna bucata, probabilmente. Due signore furenti protestavano per le scarpe rovinate e tre soldati erano inginocchiati a terra e si davano da fare con stracci e asciugamani, cercando di contenere l’acqua che continuava a fluire e che aveva già invaso le piastrelle del corridoio. Rimasi ferma a osservare la scena; arrivarono i rinforzi carichi di stracci, mi parve che portassero addirittura delle lenzuola. Gli invitati si allontanarono fra proteste e brontolii, qualcuno si offrì di accompagnarmi a un altro bagno.

Seguii un soldato lungo il corridoio, ripercorrendolo in senso inverso rispetto all’andata. Riattraversammo l’atrio principale e ci infilammo in un altro corridoio, silenzioso e poco illuminato. Girammo diverse volte, prima a sinistra, poi a destra, poi di nuovo a sinistra. Più o meno.

«Vuole che l’aspetti, signora?» chiese quando arrivammo. «Non ce n’è bisogno. Grazie, dovrei farcela da sola.»

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Non ne ero così sicura, ma l’idea di avere una sentinella ad aspettarmi mi faceva sentire molto a disagio, perciò congedata la scorta andai in bagno, mi aggiustai il vestito, mi sistemai i capelli e feci per uscire.

Ma mi mancò il coraggio, non avevo la forza per affrontare di nuovo la realtà. Decisi quindi di concedermi qualche minuto, qualche istante di solitudine. Aprii la finestra, da cui entrò la serata africana profumata di gelsomino. Mi sedetti sul davanzale e guardai l’ombra delle palme, mi arrivò all’orecchio il suono lontano delle conversazioni nel giardino antistante. Rimasi senza fare niente, assaporando la calma e lasciando svanire le preoccupazioni. A un certo punto, però, sentii bussare in un angolo remoto del cervello. Toc, toc, è ora di tornare. Sospirai, mi alzai e chiusi la finestra. Dovevo rientrare nel mondo. Mescolarmi di nuovo a quegli individui con cui avevo così poco a che fare, tornare dallo straniero che mi aveva trascinato a quella festa assurda e mi aveva chiesto il più strambo dei favori. Osservai per l’ultima volta la mia immagine nello specchio, spensi la luce e uscii.

Imboccai il corridoio buio, svoltai un angolo, poi un altro, convinta di sapere dov’ero. Ma di colpo mi trovai davanti una porta a doppio battente che prima non mi sembrava di avere visto. L’aprii e dava su una sala buia e deserta. La strada non era quella giusta, quindi decisi di cambiare direzione. Un altro corridoio, poi a sinistra, mi pareva di ricordare. Ma sbagliai ancora ed entrai in una zona meno nobile, senza fregi in legno levigato né dipinti a olio di generali alle pareti; probabilmente mi stavo dirigendo verso una zona di servizio. Tranquilla, mi dissi senza troppa convinzione. Sentii aleggiare su di me la scena della notte delle pistole, quando mi ero smarrita nelle viuzze della medina avvolta in un haik. Me ne liberai, mi concentrai sul presente e cambiai di nuovo percorso. Mi ritrovai ancora una volta al punto di partenza, vicino alla toilette. Falso allarme: non mi ero persa.

Ripensai al momento in cui ero arrivata con il soldato e mi orientai. Era tutto chiaro, problema risolto, mi dissi mentre mi incamminavo verso l’uscita. E

in effetti mi era tutto familiare. Una teca con armi antiche, alcune fotografie incorniciate, le bandiere appese. Avevo visto quelle cose pochi minuti prima, era tutto riconoscibile. Anche le voci che sentivo dietro l’angolo che mi accingevo a superare: le stesse che avevo udito in giardino durante la ridicola scena del portacipria.

«Qui staremo meglio, Serrano; potremo parlare con maggiore tranquillità, amico mio. E’ la sala in cui ci riceve di solito il colonnello Beigbeder» disse qualcuno con un forte accento tedesco.

«Perfetto» si limitò a rispondere l’interlocutore. Rimasi immobile, senza fiatare. Serrano Suner e almeno un tedesco erano a pochi

metri da me e si stavano avvicinando lungo un tratto di corridoio che formava un angolo retto rispetto a quello in cui procedevo io. Appena superato l’angolo, ci saremmo trovati faccia a faccia. Mi tremavano le gambe al solo pensiero. In realtà, non avevo niente da nascondere; non avevo motivo di temere l’incontro. A parte che non me la sarei sentita di simulare di nuovo una posa, di presentarmi ancora come una sciocchina sbadata e di

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dare spiegazioni patetiche a proposito di cisterne rotte e pozzanghere d’acqua per giustificare i miei solitari giri notturni nei corridoi dell’Alto Commissariato. Valutai le opzioni in meno di un secondo. Non avevo il tempo di tornare sui miei passi e dovevo evitare a ogni costo di trovarmeli davanti, quindi non potevo andare né avanti né indietro. L’unica soluzione era trasversale: di fianco, dietro una porta chiusa. Senza pensarci due volte l’aprii e mi infilai dentro.

La stanza era buia, ma le finestre lasciavano entrare qualche spiraglio di luce notturna. Appoggiai la schiena contro la porta, aspettando che Serrano e il suo accompagnatore passassero oltre e scomparissero, in modo da poter uscire e proseguire per la mia strada. Il giardino con le sue luci da fiera, il brusio delle conversazioni e la sicurezza imperturbabile di Marcus Logan mi sembrarono di colpo una specie di paradiso, ma temevo che non fosse ancora arrivato il momento di raggiungerlo. Feci respiri profondi, come se a ogni boccata d’aria cercassi di togliermi di dosso un po’ d’angoscia. Scrutai il mio rifugio e nell’ombra riuscii a distinguere sedie, poltrone e una libreria a vetri contro una parete. C’erano altri mobili, ma non potei soffermarmi per capire quali fossero perché in quel momento la mia attenzione fu attirata da qualcos’altro. Vicino a me, dietro la porta.

«Siamo arrivati» annunciò la voce del tedesco, accompagnata dal rumore della maniglia che si muoveva.

Mi allontanai a grandi falcate e raggiunsi un lato della sala nell’esatto momento in cui il battente cominciò a socchiudersi.

«Dove sarà l’interruttore?» sentii chiedere mentre mi dileguavo dietro un divano. Nell’istante preciso in cui si accese la luce, il mio corpo toccò il pavimento.

«Bene, eccoci arrivati. Prego, si sieda, amico mio.» Rimasi sdraiata a pancia in giù, con la parte sinistra del volto appoggiata sulle

piastrelle fredde, trattenendo il respiro e con gli occhi spalancati, colmi di terrore. Non osavo respirare, deglutire o battere le palpebre. Come una statua di marmo, come un fucilato che aspetta il colpo di grazia.

Il tedesco si comportava da padrone di casa e si rivolgeva a un unico interlocutore; lo capii perché sentivo solo due voci e perché sotto il divano, dal mio insospettabile nascondiglio, fra le gambe dei mobili, intravidi due paia di piedi.

«L’alto commissario sa che siamo qui?» chiese Serrano. «E’ occupato a intrattenere gli invitati; parleremo con lui più tardi, se lo desidera» fu

la vaga risposta del tedesco. Sentii che si sedevano: i corpi si accomodavano, le molle cigolavano. Lo spagnolo su

una poltrona; vedevo l’orlo dei suoi pantaloni scuri con la riga ben stirata, i calzini neri attorno alle caviglie magre che si perdevano dentro un paio di scarpe lucidate a dovere. Il tedesco si sistemò di fronte a lui, sul lato destro del divano dietro al quale ero nascosta. Le sue gambe erano più robuste e le calzature meno eleganti.

Se avessi allungato il braccio avrei potuto fargli il solletico. Parlarono a lungo; non riuscii a calcolare con esattezza il tempo, ma rimasi in quella

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posizione abbastanza perché il collo cominciasse a farmi male da impazzire, perché mi venisse un tremendo prurito e perché non riuscissi quasi più a trattenere la voglia di gridare, di scoppiare in lacrime, di andarmene di corsa. Si sentì il rumore degli accendini e la stanza si riempì di fumo. Dal pavimento vidi le gambe di Serrano che si accavallavano e si distendevano un numero infinito di volte; il tedesco, invece, si muoveva appena. Cercai di dominare la paura, di trovare la posizione meno scomoda e di pregare il cielo che gli arti non mi costringessero a un movimento improvviso.

Il mio campo visivo era ridottissimo e le possibilità di movimento nulle. Potevo afferrare solo quello che aleggiava nell’aria e mi entrava nelle orecchie: le cose di cui parlavano. Mi concentrai sulla conversazione: dato che non ero riuscita a ottenere informazioni interessanti con l’incidente del portacipria, pensai che potesse incuriosire il giornalista. Perlomeno, ascoltando mi sarei distratta un po’, evitando di perdere la testa per il turbamento.

Li sentii parlare di installazioni e trasmissioni, di navi e dirigibili, di grandi quantità d’oro, di marchi tedeschi, di pesetas, di conti bancari. Firme e termini di scadenza, forniture, procedimenti; equilibri di potere, nomi di aziende, porti e alleanze. Venni a sapere che il tedesco era Johannes Bernhardt, e capii che Serrano si serviva di Franco per esercitare ulteriori pressioni ed evitare di sottostare ad alcune condizioni. E anche se mi mancavano le basi per comprendere fino in fondo la situazione, intuii che i due uomini erano interessati in eguale misura a fare in modo che il negoziato andasse a buon fine.

E così fu. Alla fine raggiunsero un accordo; poi si alzarono e conclusero la trattativa con una stretta di mano, che io sentii senza vederla. In compenso vidi i piedi avviarsi verso l’uscita, il tedesco che cedeva il passo all’ospite, trasformandosi di nuovo in un perfetto padrone di casa. Prima di uscire, Bernhardt fece una domanda.

«Ne parlerà lei con il colonnello Beigbeder o preferisce che glielo dica io?» Serrano non rispose immediatamente; sentii che prima si accendeva una sigaretta,

l’ennesima. «Crede che sia imprescindibile?» disse dopo aver soffiato fuori il fumo. «Le installazioni saranno nel Protettorato spagnolo, immagino che l’alto commissario

dovrebbe esserne al corrente.» «Allora lasci fare a me. Lo informerà direttamente il Caudillo. E rispetto ai termini

dell’accordo, meglio non diffondere i particolari. Facciamo in modo che restino tra noi» aggiunse mentre la luce si spegneva. Lasciai passare qualche minuto, finché calcolai che fossero usciti dall’edificio. A quel

punto mi alzai con cautela. Della loro presenza nella stanza rimanevano solo il forte odore di tabacco e un posacenere colmo di mozziconi. Ma non riuscivo ad abbassare la guardia.

Mi aggiustai la gonna e la giacca e mi avvicinai alla porta in punta di piedi, senza far

rumore. Portai lentamente la mano verso la maniglia, quasi temessi che il contatto

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potesse sferrarmi una frustata, intimorita dall’idea di uscire nel corridoio. Ma non riuscii neanche a toccarla: quando le mie dita stavano per sfiorarla, mi accorsi che qualcuno la stava muovendo dall’esterno. Con un movimento automatico mi tirai indietro e mi addossai alla parete con tutte le mie forze, come se volessi fondermi con il muro. La porta si aprì di colpo, rischiando quasi di sbattermi in faccia; la luce si accese un secondo dopo. Non riuscii a vedere chi fosse entrato, ma sentii una voce che masticava maledizioni a denti stretti.

«Dove avrà lasciato il suo dannato portasigarette quel figlio di puttana...» Pur senza vederlo, intuii che si trattava solo di un soldato che eseguiva svogliatamente

un ordine, venuto a recuperare un oggetto dimenticato da Serrano o da Bernhardt; non capii a quale dei due fosse rivolto l’epiteto. Il buio e il silenzio tornarono pochi secondi dopo, ma io non riuscivo a trovare il coraggio necessario per avventurarmi nel corridoio. Per la seconda volta in vita mia mi misi in salvo saltando da una finestra.

Tornai in giardino, e con mia grande sorpresa trovai Marcus Logan impegnato in un’animata conversazione con Beigbeder. Per un momento pensai di tornare sui miei passi, ma era troppo tardi: il giornalista mi aveva visto e mi invitò a unirmi a loro. Mi avvicinai cercando di non lasciar trasparire il mio nervosismo: dopo quello che mi era appena successo ci mancava solo una chiacchierata intima con l’alto commissario.

«E così lei è la bella sarta amica della mia Rosalinda» disse l’alto commissario con un sorriso.

Aveva in mano un sigaro e mi passò l’altro braccio intorno alle spalle, con familiarità. «Sono molto contento di conoscerla, mia cara, finalmente. Peccato che la nostra

Rosalinda sia indisposta e non si sia potuta unire a noi.» «Cos’ha?» Mosse il sigaro disegnandosi una spirale davanti al ventre. «Problemi intestinali. Le capita quando è nervosa, e in questi giorni siamo stati così

occupati con il nostro ospite che non ha avuto un attimo di respiro, poverina.» Fece un cenno perché io e Marcus avvicinassimo la testa alla sua e abbassò il tono in

segno di complicità. «Grazie a Dio il cognato se ne va domani; credo che non riuscirei a sopportarlo un

giorno di più.» Dopo la confidenza scoppiò a ridere e noi lo imitammo, fingendoci altrettanto

divertiti. «Bene, miei cari, ora devo andare» disse guardando l’orologio. «La vostra compagnia

è deliziosa, ma il dovere mi chiama: è arrivato il momento degli inni, dei discorsi e compagnia bella: senza dubbio la parte più noiosa. Sira, quando può vada a trovare Rosalinda, la farà felice. E vada a farle visita anche lei, Logan; la compagnia di un connazionale le farà piacere. Magari una sera riusciamo a cenare tutti e quattro insieme, così ci rilassiamo un po’. God save the king!» aggiunse a mo’ di saluto, alzando la mano con un gesto teatrale. E, subito dopo, senza aggiungere una parola, si voltò e se ne andò.

Rimanemmo in silenzio per qualche secondo, osservando Beigbeder che si

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allontanava, incapaci di trovare un aggettivo per definire l’uomo singolare che ci aveva appena lasciati.

«La cerco da un’ora, dove si era cacciata?» chiese il giornalista, lo sguardo ancora rivolto alla schiena dell’alto commissario.

«Stavo lavorando per lei; non è quello che mi ha chiesto?» «Allora è riuscita a vedere cosa si passavano di mano in mano?» «Niente di importante, solo foto di famiglia.» «Peccato, che sfortuna.» Parlavamo senza guardarci, entrambi concentrati su Beigbeder. «Ma ho saputo altre cose che potrebbero interessarle» annunciai. «Cioè?» «Accordi. Scambi. Affari.» «A che proposito?» «Antenne» chiarii. «Grandi antenne. Tre. Alte un centinaio di metri, sistema Consol,

marca Electro-Sonner. I tedeschi vogliono installarle per intercettare il traffico aereo e marittimo sullo Stretto e contrastare la presenza inglese a Gibilterra. Stanno trattando per montarne una vicino alle rovine di Tamuda, a qualche chilometro da qui.

In cambio dell’autorizzazione esplicita di Franco, l’esercito nazionalista riceverà un finanziamento sostanzioso dal governo tedesco.

La gestione avverrà attraverso l’impresa HISMA, di cui Johannes Bernhardt, che ha concluso l’accordo con Serrano, è socio di maggioranza. Cercano di tenere fuori Beigbeder, vogliono nascondergli la faccenda.»

«My goodness» mormorò nella sua lingua. «Come lo ha saputo?» Continuavamo a non guardarci, entrambi a fingere di osservare l’alto commissario che

avanzava salutando verso una tribuna addobbata, su cui qualcuno stava piazzando un microfono.

«Mi trovavo casualmente nella stanza in cui si è svolta la trattativa.» «Hanno concluso l’accordo davanti a lei?» chiese incredulo. «No, non si preoccupi; non mi hanno vista. E’ una storia lunga, gliela racconterò in un

altro momento.» «D’accordo. Mi dica qualcos’altro: hanno parlato di date?» Il microfono emise uno sgradevole fischio stridente. Prova, prova, disse una voce. «Il materiale è già pronto nel porto di Amburgo. Quando avranno ottenuto la firma del

Caudillo, lo scaricheranno a Ceuta e cominceranno a montare le antenne.» Vedemmo in lontananza il colonnello che saliva con passo atletico sulla pedana,

chiamando Serrano con un gesto magniloquente perché si unisse a lui. Continuava a sorridere, a salutare fiducioso. Feci un paio di domande a Logan.

«Secondo lei, Beigbeder dovrebbe sapere che lo stanno tagliando fuori? Crede che dovrei dirlo a Rosalinda?»

Prima di rispondere rifletté un momento, con lo sguardo ancora rivolto verso i due uomini che in quel momento erano vicini, a ricevere i calorosi applausi dei presenti.

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«Direi di sì, penso che per lui sarebbe bene saperlo. Ma è meglio se l’informazione non arrivi da lei e dalla signora Fox, perché potrebbe comprometterla. Lasci fare a me, penserò io al modo migliore per informarlo; lei non dica niente alla sua amica, troverò un’occasione.»

Ci furono alcuni secondi di silenzio, come se il giornalista stesse rimuginando quello che aveva sentito.

«Sa una cosa, Sira?» chiese alla fine girandosi verso di me. «Non so come abbia fatto, ma mi ha fornito un’informazione magnifica, molto più interessante di quanto potessi pensare di ottenere a un ricevimento come questo. Non so come ringraziarla...»

«E’ molto semplice» lo interruppi. «Come?» Proprio in quel momento l’orchestra del califfo attaccò con brio l’inno della Falange,

Cara al sol, e decine di braccia si alzarono immediatamente, come azionate da una molla. Mi alzai in punta di piedi e accostai la bocca al suo orecchio.

«Mi porti via da qui.» Neanche una parola, solo una mano tesa. L’afferrai con forza e scivolammo verso il

fondo del giardino. Non appena capimmo che nessuno poteva vederci, iniziammo a correre nel buio.

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CAPITOLO 29 Il mattino seguente il mondo si mise in moto a un ritmo diverso. Per la prima volta da

parecchie settimane non mi alzai all’alba, non ingurgitai solo un caffè frettoloso e non mi sedetti subito in laboratorio, circondata da consegne urgenti e lavori da finire. Invece di tornare all’attività frenetica dei giorni precedenti, cominciai la giornata con il lungo bagno interrotto il pomeriggio prima. Poi feci una passeggiata, dirigendomi verso casa di Rosalinda.

Le parole di Beigbeder mi avevano indotto a pensare che il malessere di Rosalinda fosse lieve e passeggero, solo un disturbo inopportuno, niente di più. Quindi mi aspettavo di trovare la mia amica come sempre, pronta a farsi raccontare i particolari dell’evento che si era persa e ansiosa di divertirsi con i commenti sugli abiti indossati dalle signore presenti, chi era la più elegante, chi la più malvestita.

Una domestica mi accompagnò in camera sua; lei era ancora a letto, accasciata sui cuscini, con le imposte chiuse e un forte odore di sigarette, medicine e aria viziata. La casa era ampia e bella: architettura moresca, mobili inglesi e un caos esotico in cui, sui tappeti e il capitonné dei divani, convivevano dischi a 78 giri fuori dalle copertine, buste con la scritta AIR MAIL, foulard di seta dimenticati e tazze di porcellana dello Staffordshire con il tè ormai freddo.

Quella mattina però Rosalinda emanava tutto meno che glamour. «Come stai?» Cercai di fare in modo che il mio tono non rivelasse troppa

preoccupazione. Anche se avevo buone ragioni per essere preoccupata, visto il suo aspetto: pallida, con le occhiaie, i capelli sporchi, buttata come un peso morto su un letto in disordine, con le lenzuola che strisciavano per terra.

«Malissimo» rispose con un umore da cani. «Sto molto male, ma siediti qui vicino» ordinò dando una pacca sul letto. «Non è contagioso.»

«Ieri sera Juan Luis mi ha detto che è un problema intestinale» dissi ubbidendo. Prima avevo dovuto spostare diversi fazzoletti stropicciati, un posacenere colmo di sigarette fumate a metà, i resti di un pacchetto di biscotti al burro e un bel po’ di briciole.

«That’s right, ma non è la cosa peggiore. Juan Luis non sa tutto. Lo informerò stasera, non volevo turbarlo l’ultimo giorno della visita di Serrano.»

«E quale sarebbe la cosa peggiore?» «Questo» disse furente, afferrando con le dita ad artiglio quello che sembrava un

telegramma. «E’ questo che mi ha fatto ammalare, non i preparativi per la visita. E’ la cosa peggiore di tutte.»

Di fronte al mio sguardo perplesso, sintetizzò il contenuto. «L’ho ricevuto ieri. Peter arriva fra sei settimane.»

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«Chi è Peter?» Non ricordavo che avesse un amico con quel nome. Mi guardò come se la mia domanda fosse assolutamente assurda. «Chi vuoi che sia, Sira, Dio santo: mio marito.» Peter Fox aveva in programma di arrivare a Tangeri a bordo di una nave della P&O,

deciso a trascorrere un lungo periodo con la moglie e il figlio dopo cinque anni durante i quali non aveva saputo quasi nulla di loro. Viveva ancora a Calcutta, ma aveva pensato di fare un viaggio in Occidente, forse per sondare le opportunità di abbandonare definitivamente l’India imperiale, sempre più sconvolta dai movimenti indipendentisti, a quanto disse Rosalinda. E la riunificazione con la famiglia nel nuovo mondo della moglie doveva essergli sembrata un’ottima prospettiva per valutare le possibilità di un eventuale trasferimento.

«E starà qui, a casa tua?» chiesi senza darle troppo credito. Si accese una sigaretta e mentre aspirava nervosamente il fumo fece un enfatico gesto

affermativo. «Of corse he will. E’ mio marito, ne ha tutti i diritti.» «Pensavo che foste separati...» «Di fatto, sì. Ma non legalmente.» «E non hai mai pensato di divorziare?» Diede un’altra boccata impetuosa alla sigaretta. «Un milione di volte. Ma lui si rifiuta.» Mi raccontò le peripezie di quella relazione disarmonica, rivelandomi una Rosalinda

più vulnerabile, più fragile. Meno irreale e più vicina alle complicazioni terrene di chi appartiene al mondo degli umani.

«Mi sono sposata a sedici anni; lui allora ne aveva trentaquattro. Avevo frequentato per cinque anni un collegio inglese, lasciando l’India quando ero ancora una bambina, e ci sono tornata trasformata in una ragazza quasi in età da marito, decisa a non perdere nessuna delle feste che si tenevano di continuo nella Calcutta coloniale. Alla prima mi è stato presentato Peter, era un amico di mio padre. Mi sembrava l’uomo più attraente che avessi conosciuto in vita mia; obviously ne avevo conosciuti pochissimi, per non dire nessuno. Era divertente, capace di tuffarsi in avventure impensabili e di animare qualunque riunione. E, insieme, maturo, navigato, membro di un’aristocratica famiglia inglese che viveva in India da tre generazioni. Mi sono innamorata come una scema, o almeno così credevo. Cinque mesi dopo eravamo sposati. Ci siamo sistemati in una casa magnifica con stalle, campi da tennis e quattordici stanze per la servitù; pensa che avevamo addirittura quattro bambini indiani sempre in divisa che facevano da raccattapalle quando ci andava di fare una partita. La nostra vita era ricca di attività: mi piaceva da morire ballare e andare a cavallo, ed ero altrettanto abile con il fucile che con le mazze da golf. Vivevamo immersi in un interminabile carosello di feste e ricevimenti. E poi è nato Johnny. Abbiamo costruito un mondo idilliaco all’interno di un universo altrettanto fastoso, ma non ho tardato a rendermi conto delle fondamenta fragili su cui si reggeva.»

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Interruppe il suo monologo e rimase con lo sguardo perso nel vuoto, come se stesse riflettendo. Poi spense la sigaretta nel posacenere e proseguì.

«Pochi mesi dopo il parto ho cominciato ad avvertire un disturbo alla pancia. Sono stata visitata e all’inizio i medici mi hanno detto che non c’era niente di cui preoccuparsi: i miei fastidi erano solo i normali problemi di salute di chi vive in un clima tropicale senza esserci nato.

Io però stavo sempre peggio. I dolori aumentavano e ho cominciato ad avere la febbre tutti i giorni. Allora hanno deciso di operarmi, ma anche se non hanno trovato niente di anormale, io non miglioravo.

Quattro mesi dopo, vedendo che continuavo a peggiorare, mi hanno sottoposto a visite più rigorose e alla fine sono riusciti a dare un nome alla mia malattia: tubercolosi bovina in una delle forme più aggressive, contratta dal latte di una mucca infetta che avevamo comprato dopo la nascita di Johnny, in modo da avere sempre a disposizione il latte fresco per rimettermi in sesto. L’animale si era ammalato ed era morto poco dopo, ma il veterinario non aveva trovato niente di strano quando lo aveva esaminato, così come i medici non erano riusciti a individuare nulla in me, perché la tubercolosi bovina è difficilissima da diagnosticare. Ma fa sì che si formino dei tubercoli, una specie di noduli, formazioni estranee nell’intestino che lo comprimono.»

«E quindi?» «Diventi un malato cronico.» «Cioè?» «Ogni volta che apri gli occhi al mattino ringrazi il cielo perché ti ha permesso di

vivere un altro giorno.» Cercai di nascondere il mio turbamento con una nuova domanda. «Come ha reagito tuo marito?» «Oh, wonderfully!» disse in tono sarcastico. «I medici che mi avevano in cura mi

hanno consigliato di tornare in Inghilterra; non erano granché ottimisti, ma pensavano che forse in un ospedale inglese avrebbero potuto fare qualcosa per me. E Peter non poteva essere più d’accordo.»

«Magari pensava al tuo bene...» Un’aspra risata mi impedì di finire la frase. «Peter, darling, non pensa ad altro che al proprio, di bene. Mandarmi lontano gli

sembrava la soluzione migliore, ma più che alla mia salute pensava al suo benessere. Si è disfatto di me, Sira. Non ero più divertente, non ero più un prezioso trofeo da sfoggiare nei club, durante le feste e le battute di caccia; la giovane sposa bella e simpatica si era trasformata in un peso difettoso di cui liberarsi il prima possibile. Perciò, quando sono riuscita di nuovo a reggermi in piedi, ha comprato due biglietti per l’Inghilterra; per me e per Johnny.

Non si è preso neanche il disturbo di accompagnarci. Con la scusa di dare alla moglie la possibilità di ricevere le cure dei migliori medici, ha imbarcato una donna gravemente ammalata che non aveva ancora compiuto vent’anni e un bambino che aveva appena

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cominciato a camminare. Come due pacchi. Bye-Bye, addio, miei cari.» Le scesero un paio di grosse lacrime lungo le guance e se le asciugò con il dorso della

mano. «Ci ha allontanati da lui, Sira. Mi ha ripudiata. Mi ha spedita in Inghilterra solo e

semplicemente per liberarsi di me.» Scese un silenzio triste, poi lei si fece forza e continuò. «Durante il viaggio Johnny ha avuto la febbre altissima e le convulsioni; era una

forma virulenta di malaria, è rimasto in ospedale per due mesi prima di riprendersi. La mia famiglia intanto mi ha accolta; i miei genitori avevano vissuto a lungo in India, ma erano tornati in Inghilterra l’anno precedente. All’inizio ho trascorso qualche mese abbastanza tranquillo, il cambiamento di clima sembrava fare effetto. Ma poi sono peggiorata: tanto che gli esami hanno rivelato una contrazione quasi totale dell’intestino. I medici, scartata l’eventualità di un intervento, hanno pensato che un possibile recupero presupponesse un riposo totale. In quel modo, teoricamente, gli organismi da cui ero invasa non si sarebbero diffusi nel resto del corpo. Sai come è stato quel periodo di riposo?»

Non lo sapevo e non potevo immaginarlo. «Sei mesi legata a un’asse, con lacci di cuoio che mi immobilizzavano all’altezza

delle spalle e delle cosce. Sei mesi interi, giorno e notte.» «E sei migliorata?» «Just a bit. A quel punto hanno deciso di mandarmi a Leysin, in Svizzera, in un

sanatorio per malati di tubercolosi. Come Hans Castorp nella Montagna incantata di Thomas Mann.»

Intuii che doveva trattarsi di un libro e, prima che potesse domandarmi se lo avevo letto, l’anticipai invitandola a proseguire il suo racconto.

«E Peter, nel frattempo?» «Ha pagato i conti dell’ospedale e ha cominciato a mandarci con regolarità trenta

sterline al mese per il nostro mantenimento. Nient’altro. Assolutamente nient’altro. Né una lettera, né un cablogramma, né un

messaggio portato da conoscenti, né la benché minima intenzione di venire a trovarci. Niente, Sira, niente. Non ho saputo più niente di lui direttamente. Fino a ieri.»

«E nel frattempo come hai fatto con Johnny? Dev’essere stata dura per lui.» «E’ rimasto con me in sanatorio per tutto il tempo. I miei genitori insistevano perché

abitasse da loro, ma io mi sono rifiutata. Ho assunto una bambinaia tedesca che stesse con lui e lo portasse a passeggio, però mangiava e dormiva in camera mia. E’ stata un’esperienza triste per un bambino così piccolo, ma non l’avrei allontanato da me per niente al mondo. In qualche modo aveva già perso il padre; l’assenza della madre sarebbe stata un castigo troppo crudele.»

«E la cura ha fatto effetto?» Per un momento il suo viso fu illuminato da una lieve risata. «Mi avevano consigliato un ricovero di otto anni, ma sono riuscita a resistere solo otto

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mesi. Poi ho chiesto di essere dimessa. Mi dicevano che ero pazza, che in quel modo mi sarei uccisa; ho dovuto firmare un milione di carte per liberare il sanatorio da qualsiasi responsabilità.

Mia madre si è offerta di venirmi a prendere a Parigi per tornare insieme. E allora, durante il viaggio di ritorno, ho preso alcune decisioni. La prima: non avrei più parlato della mia malattia. Di fatto, negli ultimi anni solo tu e Juan Luis l’avete saputo da me. Ho pensato che la tubercolosi avrebbe anche potuto fiaccare il mio corpo, ma di certo non il mio spirito, quindi ho deciso di tenere fuori dai miei pensieri l’idea di essere malata.»

«E la seconda?» «Iniziare una nuova vita da persona sana al cento per cento. Una vita lontano

dall’Inghilterra, dalla mia famiglia, dagli amici e dai conoscenti che mi associavano automaticamente a Peter e alla mia condizione di malata cronica. Una vita diversa in cui all’inizio c’era posto solo per mio figlio e per me.»

«E hai deciso di andare in Portogallo...» «I medici mi avevano consigliato un clima mite: il Sud della Francia, la Spagna, il

Portogallo, magari il Nord del Marocco; una via di mezzo fra il caldo eccessivo dei Tropici indiani e il pessimo clima inglese. Mi hanno fissato una dieta, mi hanno raccomandato di mangiare tanto pesce e poca carne, di riposare al sole il più possibile e di evitare gli sbalzi d’umore. Qualcuno mi aveva parlato della comunità britannica di Estoril e ho deciso che era un posto come un altro per cominciare. E ci sono andata.»

A quel punto tutti i particolari si incastravano molto meglio nella mappa mentale che mi ero costruita per capire

Rosalinda. I pezzi cominciavano a combaciare, non erano più frammenti di vita indipendenti e difficili da combinare. Tutto iniziava ad acquistare un senso. Le augurai con tutte le mie forze che le cose le andassero bene: ormai avevo capito che la sua esistenza non era stata tutta rose e fiori e pensavo che meritasse un destino felice.

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CAPITOLO 30 Il giorno seguente accompagnai Marcus Logan a trovare Rosalinda. Come la sera del

ricevimento in onore di Serrano, venne a prendermi e camminammo di nuovo insieme per strada. Ma tra noi era cambiato qualcosa. La fuga precipitosa dal ricevimento all’Alto Commissariato, la corsa a perdifiato nei giardini e la passeggiata più tranquilla nella città immersa nel buio prima dell’alba erano in qualche modo riusciti a spezzare le reticenze che nutrivo nei suoi confronti. Forse ci si poteva fidare, forse no; magari non lo avrei mai saputo. Ma non era poi così importante. Sapevo che si stava impegnando per l’evacuazione di mia madre; sapevo inoltre che era premuroso e gentile con me, che si trovava bene a Tetuàn. Ed era più che sufficiente: non avevo bisogno di sapere di più né di spingermi in altre direzioni, perché il giorno della sua partenza sarebbe arrivato presto.

La trovammo ancora a letto, ma con un aspetto migliore. Aveva fatto riordinare la stanza, si era lavata, le imposte erano aperte e la luce entrava a fiotti dal giardino. Il terzo giorno si spostò dal letto a un divano. Il quarto sostituì la camicia da notte di seta con un vestito a fiori, andò dal parrucchiere e riprese in mano le redini della sua vita.

Anche se la sua salute era ancora malferma, decise di approfittare del tempo che le rimaneva prima dell’arrivo del marito, come se quelle settimane fossero le ultime che le restavano da vivere. Assunse di nuovo il ruolo di perfetta padrona di casa, creando il clima ideale perché Beigbeder potesse dedicarsi alle sue relazioni pubbliche in un’atmosfera rilassata e discreta, confidando ciecamente nelle scelte dell’amata. Non seppi mai che effetto facessero agli occhi degli invitati quegli incontri organizzati dalla giovane amante inglese; o il fatto che l’alto commissario della fazione filogermanica vi si sentisse come a casa propria. Ma Rosalinda accarezzava ancora la possibilità di avvicinare Beigbeder ai britannici, e numerosi ricevimenti meno formali che organizzava miravano a quel fine.

Nel corso di quel mese, come aveva fatto prima e come avrebbe fatto in seguito, invitò diverse volte gli amici inglesi di Tangeri, membri del corpo diplomatico e addetti militari lontani dall’orbita italotedesca e rappresentanti di istituzioni multinazionali influenti e riconosciute.

Organizzò anche una festa per le autorità gibilterrine e per gli ufficiali di una nave da guerra britannica attraccata nel porto accanto alla Rocca. E fra tutti quegli invitati Juan Luis Beigbeder e Rosalinda Fox si muovevano con un cocktail in una mano e una sigaretta nell’altra, a proprio agio, rilassati, ospitali e affettuosi. Come se non fosse successo niente: come se in Spagna non continuassero a uccidersi tra fratelli e se l’Europa non stesse già scaldando i motori per il peggiore degli incubi.

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Mi capitò varie volte di trovarmi vicino a Beigbeder e potei notare di nuovo il suo stile particolare. Spesso indossava indumenti arabi, a volte le babbucce, a volte una gellaba. Era simpatico, disinibito, un tantino eccentrico e, soprattutto, adorava Rosalinda oltre ogni dire, e lo ripeteva di fronte a chiunque senza traccia di vergogna. Io e Marcus Logan, intanto, continuavamo a vederci con assiduità, alimentando una simpatia e una vicinanza affettiva che mi sforzavo ogni giorno di controllare. Se non lo avessi fatto, probabilmente quell’incipiente amicizia non avrebbe tardato a sfociare in qualcosa di più passionale e profondo. Ma lottai perché non accadesse, e difesi con fermezza la mia posizione, affinché il sentimento che cominciava a unirci non si spingesse troppo oltre. Le ferite provocate da Ramiro non si erano ancora rimarginate del tutto; sapevo che presto Marcus se ne sarebbe andato e non volevo soffrire un’altra volta. Ciò nonostante presenziammo assiduamente agli incontri che si tenevano nella villa di paseo de las Palmeras; a volte si unì a noi anche un Félix esultante, felice di inserirsi in quel mondo sconosciuto che tanto lo affascinava. In qualche occasione andammo in gruppo fuori Tetuàn: Beigbeder ci invitò a Tangeri all’inaugurazione del giornale “Espana”, una sua iniziativa per comunicare al mondo quello che i rappresentanti della sua causa volevano raccontare. Altre volte viaggiammo tutti e quattro - io, Marcus, Félix e Rosalinda - sulla Dodge della mia amica per il semplice plaisir di farlo: per andare da Saccone & Speed a rifornirci di manzo irlandese, bacon e gin; a ballare a Villa Harris, a vedere un film americano al Capitol o a ordinare cappelli appariscenti al laboratorio di Mariquita la Modista.

E passeggiammo nella bianca medina di Tetuàn, mangiammo cuscus, harira e chebbakia, salimmo sul Dersa e sul Gorgues, andammo alla spiaggia di Rio Martin e alla locanda di Ketama, nascosta tra i pini e ancora senza neve. Finché il tempo scadde e l’indesiderato si presentò. Solo allora avemmo la conferma che la realtà può superare le previsioni più nere. Me lo fece sapere Rosalinda una settimana dopo l’arrivo del marito.

«E’ molto peggio di quanto immaginassi» disse accasciandosi su una poltrona non appena mise piede nel mio atelier.

In quell’occasione però non sembrava ottenebrata. Non era infuriata come quando aveva ricevuto la notizia. Trasudava solo tristezza, sfinimento e delusione: una delusione profonda e cupa. Per Peter, per la situazione in cui si trovavano, per se stessa. Dopo cinque o sei anni passati a vagare da sola per il mondo, credeva di essere pronta a tutto; pensava che l’esperienza di vita accumulata le avrebbe fornito i mezzi necessari per fare fronte a ogni genere di avversità. Ma Peter si era rivelato molto più duro del previsto. Assumeva il comportamento possessivo di padre e marito insieme, come se non fossero vissuti separati tutti quegli anni; come se nella vita di Rosalinda non fosse successo niente dai tempi in cui lo aveva sposato, quando era poco più di una bambina.

Le rimproverava il lassismo con cui educava Johnny: era disgustato dal fatto che non frequentasse una buona scuola, che uscisse a giocare con i bambini del vicinato senza una bambinaia accanto, e che la sua unica pratica sportiva fosse lanciare pietre con la stessa abilità che dimostravano tutti i marmocchi arabi di Tetuàn. Si lamentava anche

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della mancanza di programmi radiofonici di suo gusto e dell’assenza di un club dove potersi riunire con i connazionali, del fatto che intorno a lui nessuno parlasse inglese e della difficoltà di trovare i giornali britannici in città.

Comunque, il puntiglioso Peter non era disgustato da tutto. Si erano rivelati di suo gradimento il gin Tanqueray e il Johnny Walker Black Label, che a Tangeri si potevano ancora trovare a un prezzo irrisorio.

Era solito bere almeno una bottiglia di whisky al giorno, accompagnata da un paio di cocktail a base di gin prima di ogni pasto. La sua capacità di reggere l’alcol era incredibile, quasi quanto il trattamento crudele che riservava alle persone di servizio. Si rivolgeva loro di malavoglia in inglese, senza disturbarsi a pensare che non capivano neanche una parola della sua lingua, e quando risultava evidente che non lo comprendevano gridava loro in indostano, la lingua dei suoi domestici di Calcutta, come se l’essere al servizio di un padrone comportasse un linguaggio universale. Con sua grande sorpresa, smisero l’uno dopo l’altro di farsi vedere in casa. Tutti, dagli amici della moglie fino al più umile dei domestici, capimmo nel giro di pochi giorni che genere di persona fosse Peter Fox. Egoista, irrazionale, capriccioso, ubriacone, arrogante e dispotico: impossibile trovare più attributi negativi in una sola persona.

Beigbeder, ovviamente, smise di passare la maggior parte del tempo a casa di Rosalinda, ma continuarono a vedersi ogni giorno altrove: all’Alto Commissariato, durante qualche gita nei dintorni. Con grande sorpresa di molti - me compresa - Beigbeder riservò sempre un trattamento squisito al marito dell’amante. Gli organizzò una giornata di pesca alla foce del fiume Smir e una partita di caccia al cinghiale a Jemis de Anyera. Gli facilitò i trasferimenti a Gibilterra perché potesse bere birra inglese, parlare di polo e cricket con i suoi connazionali. Fece tutto il possibile, in poche parole, per comportarsi come richiedeva il suo incarico di fronte a un ospite straniero così speciale. Le loro personalità, però, non sarebbero potute essere più distanti: era curioso vedere quanto fossero diversi quei due uomini tanto significativi nella vita della stessa donna. Forse proprio per quel motivo non arrivarono mai a scontrarsi.

«Peter considera Juan Luis uno spagnolo retrogrado e orgoglioso; una specie di cavaliere uscito da un quadro del Siglo de Oro» mi spiegò Rosalinda. «E Juan Luis pensa che Peter sia uno snob, un incomprensibile e assurdo snob. Sono come due linee parallele: non potranno mai entrare in conflitto perché non troveranno mai un punto d’incontro. Con l’unica differenza che per me, come uomo, Peter non è degno neanche di allacciare le scarpe a Juan Luis.»

«E nessuno è andato a raccontare di voi a tuo marito?» «Della nostra relazione?» chiese mentre si accendeva una sigaretta e si scostava i

capelli da un occhio. «Credo di sì, qualche serpe deve essersi avvicinata al suo orecchio per iniettare un po’ di veleno, ma per lui è esattamente lo stesso.»

«Non capisco come sia possibile.» Si strinse nelle spalle. «Neanche io, ma finché non dovrà pagare la casa e avrà a disposizione domestici,

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alcol in abbondanza, cibo caldo e sport cruenti, credo che tutto il resto gli sarà indifferente. Se vivessimo a Calcutta sarebbe diverso; probabilmente si sforzerebbe di mantenere almeno un minimo di apparenze. Ma qui non lo conosce nessuno; questo non è il suo mondo, perciò se ne infischia di quello che possono dirgli di me.»

«Non riesco comunque a capire.» «L’unica cosa certa, darling, è che non gliene importa assolutamente niente di me»

disse con un misto di sarcasmo e tristezza. «Per lui qualunque cosa è più importante: una mattinata di pesca, una bottiglia di gin o una partita a carte. Di me non gliene è mai importato niente; sarebbe strano se cominciasse a importargliene adesso.»

E mentre Rosalinda lottava contro un mostro nel bel mezzo dell’inferno, anche la mia vita subì uno scossone. Era martedì, tirava vento. Marcus Logan venne a casa mia prima di mezzogiorno.

Avevamo consolidato la nostra amicizia: eravamo buoni amici, nient’altro. Entrambi eravamo consapevoli che un bel giorno, quando meno ce lo aspettavamo, se ne sarebbe dovuto andare, sapevamo che nel mio mondo era solo di passaggio. Anche se mi sforzavo di liberarmene, le cicatrici che mi aveva lasciato Ramiro erano ancora evidenti; non ero preparata a subire di nuovo lo strappo di un’assenza. Io e Marcus eravamo attratti l’una dall’altro, certo, e molto; e non erano mancate le occasioni perché quel rapporto diventasse qualcosa di più. C’erano stati momenti di complicità, ci eravamo sfiorati, guardati, avevamo fatto accenni velati, fra noi c’era stima e desiderio. C’era una vicinanza, una certa tenerezza. Ma io avevo fatto di tutto per controllare i miei sentimenti; non avevo voluto spingermi oltre, e lui lo aveva accettato. Trattenermi era stato uno sforzo immenso: dubbi, incertezza, notti in bianco. Ma piuttosto di affrontare il dolore del suo abbandono, preferivo accontentarmi di ricordare i momenti memorabili trascorsi insieme in quei giorni frenetici e intensi. Notti di risate e bevute, di pipe di kif e chiassose partite a Continental. Gite a Tangeri, uscite e chiacchierate; istanti che non tornarono più e che custodii nello scrigno dei ricordi come memorie della fine di una tappa e dell’inizio di strade diverse.

Con lo scampanellio inaspettato di Marcus alla porta della mia casa in calle Sidi Mandri, quella mattina arrivò la conclusione di un’epoca e il principio di una nuova. Una porta si chiudeva e se ne apriva un’altra. E io ero in mezzo, incapace di trattenere quello che stava finendo, desiderosa di abbracciare quello che sarebbe arrivato.

«Tua madre è in viaggio. Ieri notte si è imbarcata ad Alicante diretta a Orano su un mercantile britannico. Arriverà a Gibilterra nel giro di tre giorni. Rosalinda si occuperà di farle attraversare lo Stretto senza problemi, ti dirà lei come avverrà il trasferimento.»

Volevo ringraziarlo dal più profondo del cuore, ma le sei lettere della parola necessaria si imbatterono in un fiume di lacrime pronte a uscire e il pianto le spazzò via, trascinandole con sé. Riuscii solo ad abbracciarlo con tutte le mie forze, bagnandogli i risvolti della giacca.

«E’ arrivato anche per me il momento di rimettermi in cammino» aggiunse dopo pochi secondi.

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Lo guardai tirando su con il naso. Estrasse un fazzoletto bianco e me lo porse. «L’agenzia mi reclama. Il mio incarico in Marocco è finito, devo rientrare.» «A Madrid?» Fece un’alzata di spalle. «Per il momento a Londra. Poi, dove mi manderanno.» Lo abbracciai ancora e ricominciai a piangere. Quando finalmente riuscii a contenere

il caos di emozioni e a controllare il confuso battaglione di sentimenti in cui la gioia più grande si mescolava con un’immensa tristezza, la mia voce spezzata chiese di uscire.

«Non te ne andare, Marcus.» «Magari potessi decidere. Ma non posso rimanere, Sira, hanno bisogno di me da

un’altra parte.» Guardai di nuovo il suo volto così caro. Portava ancora i segni delle cicatrici, ma

dell’uomo malconcio arrivato al Nacional una sera d’estate era rimasto ben poco. Allora avevo incontrato uno sconosciuto in preda al nervosismo e ai timori; in quel momento, invece, mi aspettava il compito doloroso di dire addio a una persona molto vicina, forse più di quanto avessi il coraggio di riconoscere.

Tirai di nuovo su col naso. «Quando vorrai regalare un vestito a qualche tua fidanzata, sai dove trovarmi.» «Quando vorrò una fidanzata verrò a cercare te» disse allungando la mano verso il

mio viso. Tentò di asciugare le lacrime con le dita; la sua carezza mi fece venire i brividi e desiderai con rabbia che quel giorno non fosse mai arrivato.

«Bugiardo» mormorai. «Bella.» Le sue dita scivolarono sul mio viso verso la radice dei capelli e vi si intrecciarono

fino ad arrivare alla nuca. I nostri volti si avvicinarono, piano, come se temessero il culmine di ciò che era nell’aria da tanto tempo.

Lo schiocco inatteso di una chiave ci fece separare. Entrò Jamila, affannata, con un messaggio urgente nel suo spagnolo approssimativo.

«Segnora Fox dice segnorina Sira andare di corsa a las Palmeras.» Il meccanismo era in moto, eravamo arrivati al finale. Marcus prese il cappello e io

non potei fare a meno di abbracciarlo un’altra volta. Non ci furono parole, non c’era nient’altro da dire. Pochi secondi dopo, della sua presenza solida e intima rimasero solo la traccia di un lieve bacio sui capelli, l’immagine delle sue spalle e il rumore doloroso della porta che si chiudeva dietro di lui.

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TERZA PARTE

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CAPITOLO 31 Dopo la partenza di Marcus e lo sbarco di mia madre la mia vita fu rivoltata come un

calzino. Dolores arrivò scheletrica in un pomeriggio nuvoloso, con le mani vuote e lo spirito provato, senza altri bagagli all’infuori della sua vecchia borsa, il vestito che aveva addosso e un passaporto falso fissato al reggiseno con una spilla da balia. Sembrava invecchiata di vent’anni: la magrezza lasciava intravedere le orbite degli occhi e le clavicole, e i primi capelli bianchi sparsi che ricordavo erano ormai intere ciocche grigie. Entrò in casa mia come un bambino strappato al sonno nel cuore della notte: disorientata, confusa, estranea. Come se non riuscisse a capire che sua figlia viveva lì e che d’ora in avanti ci avrebbe abitato anche lei.

Nella mia immaginazione mi ero figurata quell’incontro tanto atteso come un momento di gioia incontenibile. Non fu così. Se dovessi trovare una parola per descrivere la scena, sarebbe tristezza. Mia madre non parlò quasi e non mostrò il minimo entusiasmo per niente. Si limitò ad abbracciarmi forte e rimase attaccata alla mia mano come se temesse che potessi scappare. Non una risata, non una lacrima e pochissime parole, tutto lì. Assaggiò appena quello che io, Candelaria e Jamila avevamo cucinato: pollo, frittata, insalata di pomodori, acciughe, pane arabo; tutti cibi che a Madrid, secondo noi, non si vedevano da tempo. Non fece neanche un commento sull’atelier, né sulla camera che le avevo preparato, con un grande letto in rovere e una trapunta di cretonne cucita con le mie mani. Non mi chiese che ne era stato di Ramiro, né mostrò curiosità rispetto alla ragione per cui mi ero trasferita a Tetuàn. E, ovviamente, non disse una parola sul viaggio tragico che l’aveva portata in Africa, né accennò una sola volta agli orrori che si era lasciata alle spalle.

Trascorse parecchio tempo prima che si acclimatasse, non avrei mai immaginato di vedere mia madre così. La risoluta Dolores, che aveva sempre comandato con la frase giusta al momento opportuno, aveva lasciato il posto a una donna silenziosa e impacciata che faticavo a riconoscere. Mi dedicai a lei anima e corpo, in pratica smisi di lavorare: non c’erano eventi importanti all’orizzonte e le mie clienti avrebbero potuto aspettare. Le portavo ogni giorno la colazione a letto: brioche, churros, pane tostato con olio e zucchero, qualunque cosa potesse farle riprendere un po’ di peso. L’aiutavo a fare il bagno e le tagliai i capelli, le cucii dei vestiti nuovi. Feci fatica a tirarla fuori di casa, ma a poco a poco la passeggiata mattutina divenne un rito irrinunciabile. Percorrevamo a braccetto calle Generalisimo, arrivavamo fino alla piazza della chiesa; a volte, se era l’ora giusta, l’accompagnavo a messa. Le mostrai tutti gli angoli della città, la costrinsi ad aiutarmi nella scelta delle stoffe, a sentire canzoni alla radio e a decidere che cosa avremmo mangiato. Finché, molto lentamente, un passo alla volta, tornò a essere quella

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di sempre. Non le chiesi mai che cosa le fosse passato per la testa durante quel periodo di

transizione che mi era sembrato un’eternità: speravo che me lo raccontasse lei, ma non lo fece mai e io non insistetti. Non mi incuriosiva più di tanto, del resto: sapevo che il suo comportamento era solo un modo inconsapevole di affrontare l’incertezza provocata dal sollievo quando si mescola con il dispiacere e il dolore. Perciò lasciai che si adattasse senza pressarla, standole accanto, decisa a sostenerla se avesse avuto bisogno del mio appoggio e con un fazzoletto in mano per asciugarle le lacrime che non riuscì mai a versare.

Notai un miglioramento quando cominciò a prendere piccole decisioni da sola: oggi credo che andrò alla messa delle dieci, che ne dici se vado con Jamila al mercato e compro gli ingredienti per fare un riso? A poco a poco smise di spaventarsi ogni volta che sentiva il frastuono di un oggetto che cadeva o il motore di un aereo che sorvolava la città; la messa e il mercato tutt’a un tratto divennero abitudini a cui, in seguito, si accompagnarono altri passi avanti. Il più grande fu quello di riprendere a cucire. Nonostante i miei sforzi, da quando era arrivata non ero riuscita a far sì che mostrasse il minimo interesse per aghi e fili, come se non fossero stati alla base della sua esistenza per più di trent’anni. Le mostrai i figurini stranieri che ormai compravo personalmente a Tangeri, le parlai delle clienti e dei loro capricci, cercai di tirarla su con il racconto di aneddoti su qualche modello che avevamo cucito insieme in passato. Niente. Non avevo mai ottenuto niente, come se parlassi una lingua incomprensibile. Finché, una mattina come tante altre, si affacciò alla porta del laboratorio e chiese: «Ti aiuto?». In quel momento capii che mia madre aveva ricominciato a vivere.

Dopo tre o quattro mesi dal suo arrivo raggiungemmo la serenità. Con la sua collaborazione le giornate divennero meno frenetiche. L’attività procedeva bene, ci consentiva di pagare Candelaria ogni mese e di tenere per noi abbastanza denaro da assicurarci un certo benessere, senza doverci ammazzare di fatica. Ricominciammo a capirci, anche se nessuna delle due era più quella di una volta ed entrambe sapevamo di avere davanti una donna diversa. La forte Dolores era diventata vulnerabile, la piccola Sira era ormai indipendente. Ma ci accettavamo, ci apprezzavamo e, una volta definiti bene i ruoli, non vi furono più tensioni fra noi.

Il trambusto della mia prima tappa a Tetuàn mi sembrava ormai un ricordo remoto, come se appartenesse a un momento della mia vita trascorso da secoli. Mi ero lasciata alle spalle le incertezze e le peripezie, le uscite fino all’alba e il vivere senza rendere conto a nessuno; mi ero lasciata alle spalle tutto per fare spazio alla tranquillità. E, a volte, anche alla grigia normalità. La memoria del passato, però, era sempre con me. Anche se a poco a poco il peso dell’assenza di Marcus si attenuò, il suo ricordo restava con me come una compagnia invisibile di cui solo io potevo distinguere i contorni. Quante volte mi rammaricai di non essermi spinta più in là nella mia relazione con lui, quante volte mi maledissi per aver adottato un atteggiamento così rigido, quanto sentii la sua mancanza. Ma in fondo ero contenta di non essermi lasciata travolgere dai

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sentimenti: se lo avessi fatto, la sua lontananza probabilmente sarebbe stata molto più dolorosa.

Non interruppi i contatti con Félix, ma l’arrivo di mia madre portò con sé la fine delle sue visite serali e anche il passaggio da una porta all’altra, le strambe lezioni di cultura generale e la sua compagnia invadente e affettuosa.

Anche il mio rapporto con Rosalinda cambiò: il soggiorno del marito si protrasse molto più a lungo del previsto, risucchiando il suo tempo e la sua salute come una sanguisuga. Per fortuna, dopo quasi sette mesi Peter Fox si era chiarito le idee e aveva deciso di tornare in India. Nessuno saprà mai come i fumi dell’alcol avessero permesso a un lampo di lucidità di farsi strada nella sua mente, ma una mattina, quando sua moglie era ormai sull’orlo di una crisi, aveva preso la decisione. La sua partenza, però, portò poche cose buone, al di là di un sollievo infinito. Ovviamente non si convinse mai che la cosa più sensata fosse avviare una volta per tutte le pratiche per il divorzio e farla finita con la farsa di quel matrimonio. Anzi, in teoria sarebbe andato a liquidare i suoi affari a Calcutta per tornare a stare definitivamente con la moglie e il figlio, in modo da godersi una pensione anticipata nel pacifico ed economico Protettorato spagnolo. E perché i suoi familiari non si abituassero prima del tempo alla bella vita, decise che, dopo anni senza cambiamenti, neanche quella volta avrebbe aggiunto una sterlina all’assegno di mantenimento.

«In caso di necessità, fatti aiutare dal tuo caro amico Beigbeder» suggerì a mo’ di addio.

Per fortuna di tutti, non tornò mai in Marocco. Ma il logorio provocato da quella convivenza costò a Rosalinda quasi sei mesi di convalescenza: in quelli successivi alla partenza di Peter rimase a letto e uscì di casa non più di tre o quattro volte. L’alto commissario in pratica trasferì il proprio ufficio nella sua camera da letto, dove entrambi trascorrevano lunghe ore, lei a leggere adagiata sui cuscini e lui a lavorare alle sue carte su un tavolino accanto alla finestra.

La prescrizione medica di rimanere a letto fino a raggiungere la normalità non limitò del tutto la sua vita sociale, ma la diminuì parecchio. Ciò nonostante, non appena il suo organismo cominciò a mostrare i primi segni di recupero, Rosalinda si sforzò per aprire la casa agli amici e cominciò a dare qualche piccola festa senza uscire da sotto le lenzuola. Partecipai a quasi tutte, la mia amicizia con lei era immutata. Ma niente fu più uguale a prima.

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CAPITOLO 32 L’1 aprile 1939 fu pubblicato l’ultimo bollettino di guerra; a partire da quel momento

non ci furono più fazioni né soldi né uniformi a dividere la Spagna. O perlomeno così ci fu detto. Io e mia madre accogliemmo la notizia con sentimenti confusi, incapaci di prevedere che cosa avrebbe portato con sé quella pace.

«Cosa succederà adesso a Madrid, mamma? E noi che facciamo?» Parlavamo quasi sussurrando, inquiete, guardando dal balcone l’animazione della

folla che si riversava in strada a fiumi. Ci arrivavano da vicino le grida, le esplosioni di euforia e nervosismo.

«Vorrei proprio saperlo» fu la sua cupa risposta. Le notizie volavano in fretta. Si diceva che sarebbe stato ripristinato il transito delle

navi passeggeri sullo Stretto, che presto i treni sarebbero arrivati di nuovo a Madrid. Il cammino verso il nostro passato sembrava sgombro, niente ci costringeva a rimanere in Africa, ormai.

«Tu vuoi tornare?» mi chiese alla fine. «Non lo so.» Ed era la verità. Di Madrid conservavo un baule pieno di nostalgia: scene

dell’infanzia e della giovinezza, sapori, odori, i nomi delle vie e il ricordo delle persone. Ma, nel profondo, non sapevo se fosse sufficiente a forzare un ritorno che comportava il disfare tutto quello che avevo costruito con tanto sforzo a Tetuàn, la città bianca dove avevo mia madre, i miei nuovi amici e l’atelier che ci dava da mangiare.

«Forse, all’inizio, faremmo meglio a restare» suggerii. Non rispose: si limitò ad annuire, lasciò il balcone e tornò al lavoro, a rifugiarsi tra i

fili per non pensare alla portata di quella decisione. Nasceva un nuovo Stato: una Nuova Spagna all’insegna dell’ordine, dissero. Per

qualcuno erano arrivate la pace e la vittoria; ma davanti a qualcun altro si spalancava il più nero degli abissi. La maggior parte dei governi stranieri legittimò il trionfo dei nazionalisti e riconobbe senza indugio il regime. Le infrastrutture belliche cominciarono a essere smantellate e le istituzioni iniziarono a lasciare Burgos, preparando il ritorno alla capitale. Si venne delineando un nuovo assetto amministrativo. Si iniziò la ricostruzione di quanto era stato devastato; si accelerarono i processi di epurazione degli individui indesiderabili, e chi aveva collaborato alla vittoria si mise in fila per ricevere la propria fetta di torta. Il governo militare rimase in carica ancora qualche mese per mettere a punto decreti, provvedimenti e ordinanze: il rimpasto dovette attendere fino a estate inoltrata. Ma io ne venni a conoscenza a luglio, non appena la notizia arrivò in Marocco.

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E prima che la voce oltrepassasse i muri dell’Alto Commissariato e si spargesse nelle vie di Tetuàn, prima ancora che il nome e la foto comparissero sui giornali e tutta la Spagna si domandasse chi era quel signore bruno dai baffi scuri e gli occhiali rotondi; prima di tutto ciò, io sapevo già chi era stato designato dal Caudillo per sedere alla sua destra nelle sedute del primo Consiglio dei ministri in tempo di pace: Juan Luis Beigbeder y Atienza, in qualità di nuovo ministro degli Affari esteri, l’unico militare del gabinetto con un grado inferiore a quello di generale.

La notizia inaspettata suscitò in Rosalinda sentimenti contrastanti. Soddisfazione per tutto ciò che un incarico del genere implicava; tristezza in

previsione di un abbandono definitivo del Marocco. Emozioni confuse che accompagnavano le giornate frenetiche trascorse dall’alto commissario fra la penisola e il Protettorato, imbastendo operazioni da una parte e chiudendone dall’altra, archiviando definitivamente la situazione precaria generata dai tre anni di conflitto e cominciando a gettare le basi delle nuove relazioni della Spagna con l’estero.

Il 10 agosto ci fu l’annuncio ufficiale e l’11, attraverso la stampa, divenne pubblica la composizione del gabinetto destinato a compiere i destini storici sotto il segno trionfante del generale Franco. Conservo ancora, ingiallite e fragili, sul punto di sbriciolarsi, due pagine strappate da una copia di “Abc” di quei giorni, con le foto e un profilo biografico dei ministri. Al centro della prima, come il sole nell’universo, c’era l’immagine tronfia di Franco in un ritratto rotondo. Alla sua sinistra e alla sua destra, al posto d’onore ai due angoli superiori, Beigbeder e Serrano Suner: Esteri e Interni, i portafogli migliori. Nella seconda pagina erano riportate le generalità dei neonominati e se ne elencavano le virtù secondo la retorica magniloquente dell’epoca. Beigbeder era definito “illustre africanista e profondo conoscitore dell’Islam”; si lodavano la sua padronanza dell’arabo, la solida formazione, la lunga residenza in paesi musulmani e l’eccellente lavoro come addetto militare a Berlino. “La guerra ha rivelato al grande pubblico il nome del colonnello Beigbeder” diceva “Abc”. “Ha organizzato il Protettorato e, in nome di Franco e sempre in accordo con il Caudillo, ha ottenuto la splendida collaborazione del Marocco, rivelatasi di grande importanza.” E come premio: ecco a lei, signore, il ministero migliore. Di Serrano Suner si elogiavano la prudenza e l’energia, le straordinarie capacità lavorative e il riconosciuto prestigio. Per lui, visti i meriti accumulati, il ministero degli Interni: responsabile di tutti gli affari interni della patria nella nuova era.

Il fautore dell’entrata in quel governo dell’anonimo Beigbeder fu, come venimmo a sapere in seguito, lo stesso Serrano. Durante la visita in Marocco era rimasto impressionato dall’atteggiamento del colonnello verso la popolazione musulmana: la vicinanza affettiva, il dominio della lingua, l’apprezzamento entusiastico della cultura, le campagne di reclutamento e, paradossalmente, anche le simpatie per le spinte indipendentiste della popolazione. Un lavoratore e un uomo entusiasta, questo Beigbeder, poliglotta, capace di trattare con gli stranieri e fedele alla causa, doveva aver pensato il cognato; di sicuro non ci creerà problemi. Quando venni a sapere la notizia,

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mi tornarono in mente come in un lampo la serata del ricevimento e la fine della conversazione che avevo origliato nascosta dietro il divano. Non avevo mai chiesto a Marcus se avesse trasmesso all’alto commissario le informazioni che avevo carpito ma, per il bene di Rosalinda e dell’uomo che amava così tanto, sperai che la fiducia riposta in lui da Serrano si fosse consolidata con il passare del tempo.

Il giorno successivo a quello in cui il suo nome si era guadagnato un posto sui giornali e sulle onde radio, Beigbeder si trasferì a Burgos, e così finirono per sempre i contatti istituzionali con il suo Marocco felice. Tutta Tetuàn andò a dirgli addio: arabi, cristiani ed ebrei senza distinzione. In nome dei partiti politici marocchini, Sidi Abdeljalak Torres pronunciò un partecipato discorso e consegnò al nuovo ministro una pergamena incorniciata d’argento, nella quale si poteva leggere nero su bianco che era stato nominato fratello prediletto dei musulmani. Beigbeder, visibilmente commosso, rispose con frasi piene di affetto e gratitudine. Rosalinda versò un po’ di lacrime, che durarono poco più del tempo che il bimotore impiegò a decollare dall’aerodromo di Sania Ramel, a volare basso sopra Tetuàn a mo’ di addio e ad allontanarsi per varcare lo Stretto. Era profondamente dispiaciuta per la partenza del suo Juan Luis, ma la fretta di raggiungerlo il prima possibile la spronava a darsi da fare.

Nei giorni seguenti, a Burgos, Beigbeder assunse il portafoglio ministeriale che era stato del deposto conte de Jordana, entrò nel nuovo governo e cominciò a ricevere una raffica di visite ufficiali.

Rosalinda, nel frattempo, andò a Madrid a cercare una casa che sarebbe stata la base per la nuova tappa che l’attendeva. Trascorse così la fine di agosto dell’anno della vittoria: lui riceveva le congratulazioni di ambasciatori, arcivescovi, addetti militari, sindaci e generali, mentre lei trattava le condizioni di un nuovo affitto, smantellava la bella casa di Tetuàn e organizzava il trasloco dei suoi innumerevoli beni, di cinque domestici arabi, di una dozzina di galline ovaiole e di tutti i sacchi di riso, zucchero, tè e caffè di cui riuscì a fare incetta a Tangeri.

La residenza scelta era in calle Casado del Alisal, fra il Parque del Retiro e il Museo del Prado, a due passi dalla chiesa dei Jerónimos. Si trattava senza dubbio di un appartamento adeguato all’amante del più inatteso dei nuovi ministri; un immobile alla portata di chiunque fosse disposto a pagare quasi mille pesetas al mese, somma giudicata ridicola da Rosalinda, e per la quale la maggioranza dei madrileni affamati del primo dopoguerra avrebbe dato volentieri tre dita di una mano.

Intendevano organizzare la loro convivenza come avevano fatto a Tetuàn. Ciascuno avrebbe conservato la sua residenza, - lui in una palazzina scalcinata

annessa al ministero, lei nel suo nuovo appartamento - ma avrebbero trascorso insieme più tempo possibile. Prima di andarsene definitivamente, Rosalinda organizzò un’ultima festa in una casa ormai quasi vuota nella quale rimbombava l’eco delle voci: vi si ritrovarono pochi spagnoli, diversi europei e una manciata di arabi insigni per dare l’addio a quella donna che, nella sua apparente fragilità, era entrata nella vita di tutti noi con la forza di un uragano. Nonostante il periodo incerto che le si prospettava, e

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sforzandosi di allontanare dalla mente le notizie che giungevano dall’Europa, la mia amica non volle separarsi in maniera triste da quel Marocco in cui era stata tanto felice. Fra un brindisi e l’altro ci fece promettere che le avremmo fatto visita a Madrid non appena si fosse sistemata e ci assicurò che, in cambio, lei sarebbe tornata spesso a Tetuàn.

Quella sera me ne andai per ultima, non volevo farlo prima di avere salutato a tu per tu la persona che aveva significato così tanto in quella tappa della mia vita africana.

«Prima di andare voglio darti una cosa» dissi. Le avevo preparato una scatoletta araba d’argento trasformata in un contenitore da cucito.

«Così ti ricorderai di me quando dovrai cucire un bottone e non mi avrai a portata di mano.»

L’aprì piena di entusiasmo, adorava i regali, anche quelli insignificanti. Dentro trovò dei piccolissimi rocchetti di vari colori, un minuscolo portaspilli e un tubetto di aghi, un paio di forbicine che sembravano per bambini e un piccolo assortimento di bottoni di madreperla, osso e vetro.

«Preferirei averti accanto per risolvere problemi di questo genere, ma il regalo mi piace tantissimo» disse abbracciandomi. «Ogni volta che aprirò la scatola spunterai fuori come il genio della lampada di Aladino.»

Ridemmo: avevamo scelto di affrontare quell’addio in modo che il buon umore vincesse la tristezza; la nostra amicizia non meritava una fine amara. E con uno spirito positivo, decisa a non cancellare il sorriso dal volto, Rosalinda partì il giorno dopo con il figlio per raggiungere la capitale in aereo, mentre il personale di servizio e i bagagli attraversavano sussultando i campi della Spagna meridionale sotto il telone verde oliva di un veicolo militare. L’ottimismo però durò poco.

Il giorno successivo alla sua partenza, il 3 settembre 1939, di fronte al rifiuto tedesco di ritirarsi dalla Polonia invasa, la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania, e la patria di Rosalinda Fox entrò in quello che sarebbe diventato il secondo conflitto mondiale, il più sanguinoso della storia.

Il governo spagnolo alla fine si stabilì a Madrid, e lo stesso fecero le delegazioni diplomatiche dopo aver ristrutturato le loro sedi, ancora offuscate da una patina di guerra e abbandono. E così, mentre Beigbeder prendeva confidenza con i bui uffici della sede ministeriale - il vecchio palazzo Santa Cruz - Rosalinda non sprecò neanche un secondo e si immerse con uguale entusiasmo nel duplice compito di sistemare la nuova dimora e di tuffarsi nella vasca delle relazioni sociali della Madrid più elegante e cosmopolita: un’oasi inaspettata di abbondanza e distinzione; un’isola grande come un’unghia che galleggiava nel bel mezzo dell’oceano nero della capitale devastata dopo la sconfitta.

Forse una donna con un carattere diverso avrebbe scelto di aspettare con prudenza che l’influente compagno cominciasse a intessere legami con i potenti di cui si sarebbe inevitabilmente circondato. Ma Rosalinda era di un’altra pasta, e per quanto adorasse Juan Luis non aveva certo intenzione di diventare un’amante sottomessa aggrappata alla scia del suo incarico. Era stata sballottata in giro per il mondo prima ancora di compiere

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vent’anni, e anche se i contatti del suo amato avrebbero potuto aprirle un’infinità di porte, decise ancora una volta di fare da sola.

Per riuscirci ricorse alle strategie di avvicinamento di cui era ormai maestra: contattò vecchi conoscenti di altri tempi e altre geografie, e tramite quelle persone e i loro amici arrivarono facce nuove, altri pezzi grossi e altri titoli con nomi stranieri o lunghi cognomi composti, nel caso degli spagnoli. Nella sua buca delle lettere giunsero presto i primi inviti a ricevimenti e balli, pranzi, cocktail e battute di caccia. Prima ancora che Beigbeder riuscisse a sollevare la testa dalla montagna di carte e responsabilità accumulate fra le quattro pareti del suo lugubre ufficio, Rosalinda si era già introdotta in una rete di relazioni sociali che le avrebbe permesso di divertirsi nella situazione inedita in cui l’aveva condotta la sua vita movimentata.

Nei primi mesi trascorsi a Madrid, però, non tutto fu positivo al cento per cento. Per ironia della sorte, nonostante le sue eccezionali doti nelle relazioni pubbliche, Rosalinda non riuscì a stabilire il minimo legame di stima con i suoi compatrioti. Sir Maurice Peterson, l’ambasciatore inglese, fu il primo a snobbarla. Dietro sua iniziativa la mancata accettazione si estese presto a quasi tutti i membri del corpo diplomatico britannico assegnati alla capitale. In Rosalinda Fox non riuscirono o non vollero vedere una potenziale fonte di informazioni di prima mano provenienti da un membro del governo spagnolo, e neppure una connazionale da invitare formalmente a feste e celebrazioni. La percepirono solo come una presenza scomoda che ostentava l’onore indegno di condividere la vita con un ministro del nuovo regime filogermanico, verso il quale il governo della loro graziosa maestà non manifestava la minima simpatia.

Quei giorni non si rivelarono un percorso cosparso di rose e fiori nemmeno per Beigbeder. Il fatto di essersi tenuto lontano per l’intera durata della guerra dalle macchinazioni politiche fece sì che in diverse occasioni non venisse preso in considerazione come ministro, a favore di altri dignitari con maggiore peso ufficiale e potere effettivo. Per esempio, Serrano Suner: quel Serrano ormai potentissimo, di cui tutti diffidavano e che, in fondo, riscuoteva scarse simpatie. «Tre sono le cose in Spagna che mi fanno perdere la pazienza: il sussidio, la Falange e il cognato di sua eccellenza» ironizzava un detto popolare madrileno.

«Scende lungo la via Nostro Signore del Gran Poder: prima era il Nazareno e oggi è Serrano Suner» si diceva che cantassero scherzosamente a Siviglia, cambiando l’accento del secondo cognome per esigenze di rima.

Proprio quel Serrano che aveva avuto un’impressione così positiva dell’alto commissario durante la visita in Marocco stava diventando il suo fustigatore più violento via via che i rapporti tra Spagna e Germania si facevano più stretti e le mire espansionistiche di Hitler strisciavano per l’Europa a una velocità inaudita. Il cognatissimo cominciò presto a soffiare sul fuoco: non appena la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania, Serrano capì di essersi sbagliato radicalmente suggerendo a Franco di nominare Beigbeder agli Affari esteri. Era ormai convinto che fosse stato un errore non pretendere il ministero per sé invece di lasciarlo a quello sconosciuto

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proveniente dai territori africani, malgrado le sue doti nei rapporti interculturali e le numerose lingue che dominava. Beigbeder, a suo parere, non era l’uomo adatto a quel posto. Non era abbastanza schierato a favore dei tedeschi, sosteneva la posizione neutrale della Spagna nella guerra europea e non sembrava intenzionato a sottomettersi ciecamente alle pressioni e alle esigenze del ministero degli Interni. Inoltre, aveva un’amante inglese, quella bionda giovane e attraente che lui aveva conosciuto personalmente a Tetuàn. In breve: non gli serviva. Quindi, appena un mese dopo la costituzione del nuovo Consiglio dei ministri, il proprietario della testa più privilegiata e dell’ego più smisurato del governo cominciò a estendere implacabilmente i propri tentacoli sul territorio altrui come un polpo vorace, accaparrandosi tutto e impadronendosi a piacimento delle competenze del ministero degli Esteri, senza prendersi neanche la briga di interpellarne il titolare e, dato che c’era, senza perdere occasione di rinfacciargli che i suoi capricci amorosi rischiavano di trasformarsi in un prezzo altissimo da pagare nei rapporti della Spagna con i paesi amici.

In quell’intrico di opinioni discordanti, nessuno sembrava conoscere fino in fondo il terreno in cui si muoveva davvero l’ex alto commissario. Per gli spagnoli e i tedeschi, convinti dalle macchinazioni di

Serrano, era un filobritannico che si mostrava tiepido nelle simpatie verso i nazisti e riservava i propri sentimenti a un’inglese frivola e manipolatrice. Per i britannici, che lo snobbavano, era un ministro filogermanico appartenente a un governo che appoggiava con entusiasmo il Terzo Reich. Rosalinda, come al solito molto idealista, lo considerava il potenziale fautore di un cambiamento politico: un mago capace di orientare diversamente il corso del governo, se si fosse impegnato a farlo. Lui, dal canto suo, con uno humour ammirevole, vista la triste situazione, si vedeva come un semplice commerciante e cercava di mostrarsi così anche a lei.

«Quanto potere credi che abbia in questo governo, per favorire un avvicinamento al tuo paese? Poco, amore mio, pochissimo. Sono solo uno dei tanti all’interno di un gabinetto in cui quasi tutti sono a favore della Germania e di un eventuale intervento spagnolo nella guerra europea a fianco dei tedeschi. Dobbiamo al Reich soldi e favori; il destino della nostra politica estera era segnato ancor prima che finisse il conflitto, prima che fossi scelto per questo incarico.

Credi che abbia il potere di orientare le nostre iniziative in un’altra direzione? No, mia cara Rosalinda, nel modo più assoluto. Il mio incarico di ministro di questa Nuova Spagna non è in veste di stratega o di negoziatore diplomatico; è solo quello di un commerciante di alimentari o di un venditore ambulante allo Zoco del Pan. Il mio lavoro consiste nell’ottenere prestiti, nel trattare accordi commerciali, nell’offrire ai paesi stranieri olio, arance e uva in cambio di grano e petrolio, e anche per questo devo lottare ogni giorno all’interno del mio gabinetto, mi tocca combattere contro i falangisti per poter agire al di fuori dei loro vaneggiamenti autarchici. Forse riuscirò a spuntarla perché il popolo quest’inverno non muoia di fame e freddo, ma non posso fare niente, assolutamente niente, per modificare le posizioni del governo su questa guerra.»

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Quei mesi per Beigbeder passarono così, soffocato dalle responsabilità, impegnato a combattere dentro e fuori, ai margini delle macchinazioni del potere reale, ogni giorno più solo in mezzo ai suoi. Per non sprofondare nella disperazione più nera, in quei giorni terribili cercava rifugio nella nostalgia per il Marocco che si era lasciato alle spalle. Quel mondo gli mancava tanto che al ministero, sulla scrivania del suo ufficio, teneva sempre aperto un Corano, e ogni tanto ne recitava qualche versetto in arabo a voce alta, lasciando esterrefatto chiunque si trovasse nei dintorni. Rimpiangeva a tal punto quella terra che la sua residenza ufficiale nel Palacio de Viana era piena di indumenti marocchini, e non appena vi faceva ritorno, sul far della sera, si toglieva il noioso abito grigio e indossava una gellaba di velluto; tanto che prendeva il cibo con tre dita direttamente dal piatto di portata, alla maniera araba, e ripeteva in continuazione a chiunque volesse ascoltarlo che i marocchini e gli spagnoli erano fratelli. E a volte, quando finalmente restava solo dopo aver litigato su mille questioni nel corso della giornata, tra lo sferragliare dei tram stracolmi di persone che percorrevano le strade sudice, gli sembrava di sentire la musica di flauti, dulciane e tamburelli. E nelle mattinate più grigie gli pareva addirittura che, confuso tra gli olezzi maleodoranti che salivano dalle fogne, arrivasse al suo naso un profumo di fiori d’arancio, gelsomino e menta; in quei momenti si vedeva camminare di nuovo fra i muri imbiancati a calce della medina di Tetuàn, all’ombra dei rampicanti che filtravano la luce, con il gorgoglio dell’acqua che sgorgava dalle fontane e il rumore del vento che cullava i canneti.

Si aggrappava alla nostalgia come un naufrago si afferra a un’asse di legno nel bel mezzo di una bufera, ma in agguato accanto a lui, come l’ombra di una falce, c’era la lingua acida di Serrano, sempre pronta a distoglierlo dalle sue fantasticherie.

«Benedetto Iddio, Beigbeder, la smetta una volta per tutte di dire che noi spagnoli siamo tutti mori. Ho per caso la faccia da arabo? Il Caudillo ha la faccia da arabo? La smetta con queste assurdità, cazzo, ne ho piene le scatole di sentire sempre la stessa cantilena tutto il santo giorno.»

Furono giorni difficili. Per entrambi. Nonostante l’impegno indefesso di Rosalinda per ingraziarsi l’ambasciatore Paterson, nei mesi successivi le cose non andarono per il verso giusto. Alla fine dell’anno della vittoria, l’unico gesto che era riuscita a ottenere dai suoi connazionali era stato un invito a unirsi alle altre madri che accompagnavano i figli nei canti di Natale intorno al pianoforte dell’ambasciata. Perché le cose prendessero una piega diversa dovette aspettare il maggio 1940, quando Churchill fu nominato ministro e decise di sostituire immediatamente il rappresentante diplomatico britannico in Spagna. A partire da quel momento la situazione cambiò. In maniera radicale. Per tutti.

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CAPITOLO 33 Sir Samuel Hoare arrivò a Madrid alla fine di maggio del 1940 sfoggiando il pomposo

titolo di ambasciatore straordinario in missione speciale. Non aveva mai messo piede in Spagna, non parlava una parola di spagnolo e non

mostrava la minima simpatia verso Franco e il suo regime, ma Churchill aveva piena fiducia in lui e lo aveva spinto ad accettare l’incarico: la Spagna era un posto strategico per le sorti della guerra europea e voleva avere lì un uomo forte a sostenere la propria bandiera.

Per gli interessi britannici era fondamentale che il governo spagnolo mantenesse una posizione neutrale, per preservare Gibilterra dalle invasioni e impedire che i porti dell’Atlantico cadessero in mano ai tedeschi. Per ottenere un minimo di cooperazione, gli inglesi avevano esercitato pressioni sulla Spagna affamata mediante il commercio estero, riducendole le forniture di petrolio e soffocandola con la strategia del bastone e la carota. Ma le truppe tedesche avanzavano in Europa, e quanto era stato fatto fino a quel momento non fu più sufficiente: bisognava impegnarsi a Madrid in modo più attivo, più operativo. E con quell’obiettivo scritto a chiare lettere sull’agenda, atterrò nella capitale un uomo basso, provato, dall’aspetto insignificante; Sir Sam per i collaboratori più stretti, don Samuel per i pochi amici che sarebbe riuscito a farsi in Spagna.

Hoare non aveva assunto l’incarico all’insegna dell’ottimismo: la destinazione non era di suo gradimento, il temperamento spagnolo gli era del tutto estraneo, e non conosceva nessuno in quel paese devastato e polveroso. Sapeva che non sarebbe stato ben accolto e che il governo di Franco era apertamente antibritannico: perché gli fosse chiaro fin dall’inizio, la mattina del suo arrivo i falangisti organizzarono una manifestazione urlante davanti all’ingresso della sua ambasciata e lo accolsero con lo slogan: «Gibilterra spagnola!».

Dopo la presentazione ufficiale delle proprie credenziali al cospetto del Generalissimo, cominciò la penosa via crucis in cui si sarebbe trasformata la sua vita durante i quattro anni del mandato. Si pentì cento volte di aver accettato l’incarico: si sentiva terribilmente a disagio in quell’ambiente ostile, in una posizione molto più scomoda rispetto a tutte le sue altre destinazioni. L’atmosfera era opprimente, il caldo insopportabile. Le agitazioni falangiste di fronte all’ambasciata erano il pane quotidiano: pietre lanciate contro le finestre, bandierine e insegne delle auto ufficiali strappate, insulti al personale britannico, senza che le autorità spagnole incaricate dell’ordine pubblico battessero ciglio. La stampa intraprese una campagna aggressiva in cui la Gran Bretagna veniva additata come responsabile della fame che pativa la Spagna. L’ambasciatore riscuoteva simpatie solo in una ridotta cerchia di monarchici

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conservatori, una manciata di nostalgici della regina Vittoria Eugenia, con scarso potere d’azione sul governo e legati a un passato ormai morto e sepolto.

Si sentiva solo, brancolava nel buio. Madrid era davvero troppo per lui; trovava l’aria della capitale assolutamente irrespirabile: era oppresso dal funzionamento farraginoso della macchina burocratica, osservava incredulo le strade affollate di poliziotti e falangisti armati fino ai denti e vedeva i tedeschi, arroganti e minacciosi, agire indisturbati.

Ma fece di necessità virtù e tenne fede ai doveri imposti dal suo incarico: fin da subito cominciò a intessere relazioni con il governo spagnolo, in particolare con i tre membri principali: il generale Franco e i ministri Serrano Suner e Beigbeder. Li incontrò tutti e tre, li sondò e ricevette risposte molto diverse da ciascuno.

Ottenne un’udienza dal Generalissimo a El Pardo in una soleggiata giornata estiva. Franco però lo ricevette con le tende tirate e la luce accesa, seduto dietro una scrivania sulla quale spiccavano in tutta la loro arroganza un paio di fotografie di Hitler e Mussolini. Durante l’incontro in cui parlarono a turno per mezzo di un interprete e senza la minima possibilità di instaurare un dialogo, Hoare rimase colpito dalla stupefacente fiducia in se stesso dimostrata dal capo di Stato: dall’autocompiacimento di chi si credeva scelto dalla provvidenza per salvare la patria e creare un mondo nuovo.

Se le cose con Franco erano andate male, con Serrano Suner finirono ancora peggio: un vero disastro. Il potere del cognatissimo era all’apice del suo sfolgorante splendore, Serrano aveva il paese nelle sue mani: la Falange, la stampa, la polizia e un contatto personale e illimitato con il Caudillo, nei confronti del quale, a parere di molti, nutriva un certo disprezzo per la minore statura intellettuale. Mentre Franco, rinchiuso a El Pardo, si lasciava vedere a stento, Serrano sembrava onnipresente: era come il prezzemolo, così diverso dall’uomo che aveva fatto visita al Protettorato nel bel mezzo della guerra, che si era chinato a raccogliere il mio portacipria e di cui avevo contemplato a lungo le caviglie nascosta sotto un divano. Come rinato con il regime, venne fuori un nuovo Ramon Serrano Suner: impaziente, arrogante, veloce come il fulmine nelle parole e negli atti, con gli occhi da gatto sempre all’erta, la divisa della Falange inamidata e i capelli quasi bianchi pettinati all’indietro come un divo del cinema.

Sempre teso, squisitamente sprezzante con qualunque rappresentante di quelle che chiamava “plutodemocrazie”. Né in quel primo incontro né durante i tanti che avrebbero avuto nel corso del tempo Hoare e Serrano riuscirono a trovare un terreno prossimo all’empatia.

L’unico dei tre dignitari con cui l’ambasciatore riuscì a capirsi fu Beigbeder. Fin dalla prima visita al Palacio de Santa Cruz la comunicazione fu fluida. Il ministro ascoltava, agiva, si sforzava per risolvere questioni e sciogliere nodi. Di fronte a Hoare si dichiarò apertamente a favore del non intervento in guerra, non fece mistero delle necessità spaventose della popolazione affamata e si prodigò in uno sforzo sfibrante per favorire accordi e negoziare patti miranti a porvi rimedio. Di fatto quel personaggio, all’inizio,

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apparve un tantino pittoresco all’ambasciatore, addirittura eccentrico a volte: con la sua sensibilità, la sua cultura, le sue maniere e la sua ironia risultava del tutto incongruente rispetto alla brutalità della Madrid con il braccio alzato e dell’ordeno y mando, l’espressione usata nelle delibere ufficiali di Franco. Beigbeder, agli occhi di Hoare, si sentiva evidentemente a disagio di fronte all’aggressività dei tedeschi, alle fanfaronate dei falangisti, all’atteggiamento dispotico del suo governo e alle miserie quotidiane della capitale. Forse proprio per quello, per la sua anomalia rispetto a un mondo di pazzi, Beigbeder risultò simpatico a Hoare: una specie di balsamo con cui alleviare le ferite provocate dalle frustate inferte dai colleghi di quel singolare ministro dalla tempra africana. Ebbero qualche disaccordo, certo: punti di vista opposti e discussioni su certi interventi diplomatici; reclami, lamentele e decine di crisi che cercarono di risolvere insieme. Come quando le truppe spagnole entrarono a Tangeri in giugno, cancellando di colpo il suo statuto di città internazionale. O quando si stava per autorizzare una sfilata di truppe tedesche nelle vie di San Sebastiàn. E in tanti altri attriti che si verificarono in quei tempi disordinati e turbolenti. Ma i rapporti fra Beigbeder e Hoare divennero sempre più cordiali e stretti, fino a rappresentare per l’ambasciatore l’unico rifugio in quel terreno difficile dove i problemi spuntavano ovunque come la gramigna.

A mano a mano che si adattava al paese, Hoare capì fino in fondo l’influenza esercitata dai tedeschi sulla vita spagnola, le loro estese ramificazioni in quasi tutti gli ambiti della vita pubblica. Impresari, dirigenti, agenti di commercio, produttori cinematografici; persone impegnate in varie attività in ottimi rapporti con l’amministrazione e il potere lavoravano come agenti al servizio dei nazisti. Presto venne a conoscenza anche della pesante influenza che esercitavano sui mezzi di comunicazione. L’ufficio stampa dell’ambasciata tedesca, con piena autorizzazione di Serrano Suner, decideva quotidianamente le informazioni sul Terzo Reich da pubblicare in Spagna, le parole e le modalità, inframmezzate a suo piacimento di propaganda nazista su tutta la stampa nazionale, e in modo più sfacciato e militante sul quotidiano “Arriba”, l’organo della Falange, che monopolizzava la maggior parte della poca carta disponibile per i giornali in quei tempi di penuria. Le campagne contro i britannici erano violente e continue, disseminate di menzogne, insulti e manipolazioni perverse. La figura di Churchill ispirava caricature malevole e l’Impero britannico era bersaglio di una satira costante. Un semplice incidente in una fabbrica o su un treno postale in una qualunque provincia spagnola veniva attribuito senza pudore a un sabotaggio dei perfidi inglesi. E le lamentele dell’ambasciatore di fronte a simili soprusi cadevano immancabilmente nel vuoto.

E mentre Sir Samuel Hoare si adattava bene o male al suo destino, l’antagonismo fra il ministero degli Interni e quello degli Esteri si faceva sempre più evidente. Serrano, dalla sua posizione di onnipotenza, organizzò a modo suo una campagna strategica: diffuse voci velenose su Beigbeder, alimentando l’idea che solo lui sarebbe riuscito a sistemare la situazione. E mentre la stella dell’ex alto commissario declinava, Franco e Serrano, Serrano e Franco, entrambi del tutto impreparati in fatto di politica

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internazionale, senza aver visto il mondo neanche dal buco di una serratura, si sedettero a bere cioccolata con fettine di pane fritto a El Pardo mentre disegnavano, mano nella mano, il nuovo ordine mondiale sulla tovaglia della merenda, con l’incoscienza sorprendente cui possono portare solo l’ignoranza e la superbia.

Finché Beigbeder scoppiò. Sarebbe stato cacciato e lo sapeva. Avrebbero fatto a meno di lui, gli avrebbero dato un calcio nel didietro e lo avrebbero sbattuto in strada: non era più utile alla loro gloriosa crociata. Lo avevano strappato al suo Marocco felice e gli avevano assegnato un incarico molto ambito per poi legargli le mani e ficcargli uno straccio in bocca. Non avevano mai tenuto conto delle sue opinioni, probabilmente non gliele avevano neanche mai chieste. Non aveva potuto prendere una sola iniziativa e non aveva mai avuto voce in capitolo, lo avevano voluto solo per riempire con il suo nome un fascicolo ministeriale e perché agisse come un funzionario servile, pusillanime e muto. Beigbeder comunque, pur non essendo affatto contento della situazione, aveva rispettato la gerarchia e lavorato con piglio instancabile per fare quanto gli veniva richiesto, sopportando con fermezza i maltrattamenti sistematici cui lo aveva sottoposto Serrano per mesi. Prima erano venuti i pestoni, le spinte, i “levati che passo io”. Ma in poco tempo gli spintoni si erano trasformati in umilianti pacche sulla nuca. E queste erano diventate calci nei reni, e i calci, alla fine, coltelli puntati alla giugulare. Poi Beigbeder capì che il passo successivo di Serrano sarebbe stato mettergli i piedi in testa, e allora esplose.

Era stanco, stufo delle impertinenze e dell’alterigia del cognatissimo, dell’oscurantismo delle decisioni di Franco; stufo di nuotare controcorrente e di sentirsi escluso da tutto, di trovarsi al comando di una nave che fin dall’inizio della traversata aveva seguito una rotta sbagliata. Perciò decise di prendere il coraggio a due mani o, come si dice in Spagna, legarsi la coperta sulla testa, forse nel tentativo di emulare ancora una volta gli amati amici musulmani con il turbante arabo. Era tempo che l’amicizia con Hoare, fino a quel momento discreta, venisse alla luce e diventasse pubblica: che uscisse dalle stanze private, dagli uffici e dai salotti in cui era stata coltivata. E facendone un vessillo, Beigbeder si gettò in strada, senza protezione.

All’aria aperta, sotto il caldo sole estivo. I due cominciarono a pranzare insieme quasi ogni giorno ai tavoli più in vista dei ristoranti più noti. Poi, come due arabi che percorrono le strette viuzze della medina di Tetuàn, Beigbeder prendeva a braccetto l’ambasciatore e lo chiamava “fratello Samuel”; passeggiavano con una flemma ostentata sui marciapiedi di Madrid. Beigbeder con il suo atteggiamento di sfida, provocatorio, quasi donchisciottesco. Un giorno, quello dopo, quello successivo, a chiacchierare in un’intima vicinanza con il rappresentante dei nemici, a dimostrare in modo arrogante il suo disprezzo verso i tedeschi e i loro simpatizzanti. Passavano davanti alla Segreteria generale del Movimento in calle Alcalà; alla sede del giornale “Arriba” e all’ambasciata tedesca in paseo de la Castellana; davanti all’entrata del Palace o del Ritz, veri e propri covi di nazisti. Perché tutti potessero vedere come se la intendevano il ministro di Franco e l’ambasciatore degli sgraditi inglesi. Intanto Serrano,

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sull’orlo di una crisi di nervi, consumato dall’ulcera, si strappava i capelli e si chiedeva urlando dove volesse arrivare quel demente di Beigbeder con il suo comportamento scriteriato.

Sebbene gli sforzi di Rosalinda avessero risvegliato in lui una certa simpatia per la Gran Bretagna, il ministro non era tanto impudente da gettarsi fra le braccia di un paese straniero per puro romanticismo, come faceva ogni sera tra quelle dell’amata. Grazie a lei aveva sviluppato una certa simpatia per quella nazione, certo. Ma se si espose apertamente accanto a Hoare, se così facendo si tagliò tutti i ponti alle spalle, fu per altre ragioni. Forse era un utopista e riteneva che nella Nuova Spagna le cose non andassero come sarebbero dovute andare secondo lui. Forse era l’unico modo che aveva di mostrare apertamente la propria obiezione all’entrata in guerra a fianco dell’Asse. Forse la sua era una reazione di rifiuto per chi lo aveva umiliato oltre misura, l’uomo con il quale in teoria avrebbe dovuto lavorare fianco a fianco per risollevare la patria in rovina, demolita anche grazie all’impegno di tutti loro. Ma forse si avvicinò a Hoare soprattutto perché si sentiva solo, immensamente solo in un ambiente duro e ostile.

Non venni a sapere tutte queste cose per averlo vissuto in prima persona, ma perché Rosalinda, nel corso di quei mesi, mi tenne informata grazie a una sfilza di lunghe lettere che ricevevo a Tetuàn come una manna dal cielo. Nonostante la sua turbolenta vita sociale, la malattia la costringeva a rimanere a letto molte ore, e lei le impiegava a scrivere lettere e a leggere quelle che le mandavamo noi amici. Iniziammo così una consuetudine che ci mantenne legate con un filo invisibile nel tempo e nello spazio. Nella sua ultima missiva, di fine agosto 1940, diceva che i giornali di Madrid parlavano dell’imminente uscita dal governo del ministro degli Affari esteri. Ma perché avvenisse dovemmo aspettare qualche settimana, sei o sette. Nel corso delle quali accaddero cose che alterarono per sempre, ancora una volta, il corso della mia vita.

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CAPITOLO 34 Una delle attività che mi accompagnarono fin dall’arrivo di mia madre a Tetuàn fu la

lettura. Dolores aveva l’abitudine di andare a letto presto, Félix non attraversava più il pianerottolo, e la sera cominciai ad avere fin troppe ore libere. Finché il mio dirimpettaio trovò, ancora una volta, la soluzione per riempire la mia noia. Aveva il nome di due donne e una copertina rigida: Fortunata e Giacinta di Benito Pérez Galdós. Da quel momento dedicai il tempo libero alla lettura dei romanzi che il mio vicino aveva in casa. Con il passare dei mesi li finii tutti e attaccai con gli scaffali della biblioteca del Protettorato. Quando l’estate del 1940 stava ormai volgendo al termine, avevo fatto fuori i venti o trenta romanzi della piccola biblioteca locale e mi chiedevo con che cosa mi sarei intrattenuta in seguito. Fu proprio allora che, in modo del tutto inaspettato, arrivò un nuovo scritto alla mia porta. Non sotto forma di romanzo, bensì di un telegramma azzurro. E non perché potessi godere della sua lettura, ma perché agissi secondo le indicazioni che vi erano riportate: «Invito personale. Festa privata a Tangeri. Aspettano amici di Madrid. Primo settembre. Sette di sera.

Dean’s Bar». Mi vennero i crampi allo stomaco, ma non riuscii a trattenere una risata. Sapevo chi

aveva inviato il messaggio, non occorreva la firma. Decine di ricordi si affacciarono in massa alla mia memoria: musica, risate, cocktail,

necessità urgenti e inattese, parole straniere, piccole avventure, gite con la capote dell’auto abbassata, voglia di vivere.

Paragonai quei giorni del passato con il presente piatto in cui le settimane

trascorrevano monotone fra cuciture e prove, commedie radiofoniche e passeggiate con mia madre sul far della sera. L’unico momento vagamente emozionante di quel periodo arrivò con qualche film che Félix mi trascinò a vedere, e con le disavventure e gli amori dei personaggi dei libri che sera dopo sera divoravo per scacciare la noia. Sapere che Rosalinda mi aspettava a Tangeri mi diede una sferzata di allegria. Magari per poco, ma l’entusiasmo si era rimesso in moto.

Nel giorno e all’ora stabilita, però, non trovai nessuna festa al bar dell’hotel El Minzah, solo quattro o cinque gruppetti isolati di sconosciuti e un paio di bevitori solitari al bancone. Dietro al quale, peraltro, non c’era Dean. Forse era troppo presto per il pianista, ma l’atmosfera era smorta, diversa dalle nostre serate di altri tempi. Mi misi ad aspettare seduta a un tavolino discreto e rimandai indietro il cameriere che si avvicinò. Sette e dieci, sette e un quarto, sette e venti. La festa non era ancora

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cominciata. Alle sette e mezzo mi avvicinai al bancone e chiesi di Dean. Non lavorava più lì, mi dissero.

Ha aperto un locale suo, il Dean’s Bar. Dove? In rue Amérique du Sud. Volai. Nel giro di due minuti ero arrivata; i due locali distavano appena un centinaio

di metri. Dean, secco e scuro come sempre, mi intravide da dietro il bancone non appena la mia silhouette si profilò all’entrata. Il suo bar era più animato rispetto a quello dell’hotel: i clienti non erano numerosi, ma le conversazioni avevano un tono più alto, più disteso, e si sentiva qualche risata. Il proprietario non mi salutò: con un breve sguardo nero come la pece mi indicò una tenda in fondo al locale. Andai in quella direzione. Velluto verde, pesante. La scostai ed entrai.

«Sei arrivata in ritardo alla mia festa.» Le pareti sudice, la luce fioca della triste lampadina, le casse di bevande e i sacchi di

caffè impilati intorno non toglievano neanche un briciolo di glamour alla mia amica. Forse lei, o Dean, o loro due insieme, prima di aprire il bar quella sera avevano

trasformato temporaneamente il piccolo magazzino in uno spazio esclusivo per un incontro privato. Così privato che c’erano solo due sedie separate da un barile coperto da una tovaglia bianca. Sopra, un paio di bicchieri, uno shaker da cocktail, un pacchetto di sigarette turche e un posacenere. In un angolo, in equilibrio su una montagna di casse, la voce di Billie Holiday cantava Summertime da un grammofono portatile.

Non ci vedevamo da un anno, quello trascorso da quando Rosalinda era partita per Madrid. Era ancora scheletrica, con la pelle diafana e quell’onda bionda sempre sul punto di caderle sull’occhio. Ma la sua espressione non era più quella dei giorni spensierati, e neanche quella dei momenti più duri della convivenza con il marito o della successiva convalescenza. Non riuscii a capire esattamente in che cosa consistesse il cambiamento, ma tutto in lei si era un po’ trasformato. Sembrava più vecchia, più matura. Stanca, forse. Nelle sue lettere mi aveva informata delle difficoltà che lei e Beigbeder avevano dovuto affrontare nella capitale. Non mi aveva detto, in compenso, di avere in programma un viaggio in Marocco.

Ci abbracciammo, ridemmo come scolarette, elogiammo in modo esagerato i rispettivi abiti e ridemmo di nuovo. Mi era mancata tanto. Avevo mia madre, certo. E Félix. E Candelaria. E il mio atelier e la mia nuova passione per la lettura. Ma avevo sentito molto la sua mancanza: i suoi arrivi improvvisi, il suo modo di vedere le cose da una prospettiva diversa rispetto al resto del mondo. Le sue trovate, le sue piccole eccentricità, la sua parlantina confusa. Volli sapere tutto e la sottoposi a una raffica di domande: come le andava la vita a Madrid, come stava Johnny, come se la cavava Beigbeder, per quale motivo era tornata in Africa. Rispose con discorsi vaghi e aneddoti, evitando di accennare alle difficoltà. Finché smisi di torturarla con la mia curiosità e lei, finalmente, mentre riempiva i bicchieri, parlò chiaro.

«Sono venuta a proporti un lavoro.» Risi. «Ce l’ho già, un lavoro.»

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«Te ne voglio proporre un altro.» Risi ancora e bevvi. Pink Gin, come tante altre volte. «E cosa dovrei fare?» dissi allontanando il bicchiere dalle labbra. «Quello che fai adesso, però a Madrid.» Mi resi conto che diceva sul serio e mi si congelò la risata. Cambiai tono anch’io. «A Tetuàn sto bene. Le cose vanno sempre meglio. Anche a mia madre piace stare

qui. Il nostro atelier funziona che è una meraviglia; di fatto, stiamo pensando di assumere un’apprendista per farci aiutare. Non abbiamo mai pensato di tornare a Madrid.»

«Non parlo di tua madre, Sira, solo di te. E non sarebbe necessario chiudere l’atelier di Tetuàn; sicuramente si tratterebbe di un trasferimento provvisorio. O almeno spero. Quando sarà tutto finito, potresti tornare.»

«Quando sarà finito cosa?» «La guerra.» «La guerra è finita da più di un anno.» «La vostra sì. Ma adesso ce n’è un’altra.» Si alzò, cambiò il disco e aumentò il volume. Ancora jazz, ma strumentale. Cercava di

fare in modo che la nostra conversazione non si sentisse al di là della tenda. «C’è un’altra guerra terribile in corso. Il mio paese è coinvolto e il tuo potrebbe

esserlo da un momento all’altro. Juan Luis ha fatto di tutto perché la Spagna ne rimanesse fuori, ma a quanto pare, visto come si stanno mettendo le cose, sarà molto difficile. Quindi vogliamo dare il nostro contributo, in ogni modo, per ridurre al minimo la pressione della Germania sulla Spagna. Se ci riusciremo, la vostra nazione rimarrà fuori dal conflitto e noi avremmo più possibilità di vincere.»

Continuavo a non capire che cosa c’entrasse il mio lavoro con quello che stava dicendo, ma non la interruppi.

«Io e Juan Luis» proseguì «stiamo cercando di sensibilizzare alcuni nostri amici perché collaborino secondo le loro possibilità. Lui non è riuscito a fare pressione sul governo attraverso il ministero, ma certe cose si possono fare anche da fuori.»

«Che genere di cose?» chiesi con un filo di voce. Non avevo la minima idea di quello che le passava per la testa. La mia espressione dovette sembrarle comica, perché finalmente scoppiò a ridere.

«Don’t panic, darling. Non spaventarti. Non stiamo parlando di mettere bombe all’ambasciata tedesca o di sabotare grandi operazioni militari.

Mi riferisco a campagne di resistenza discrete. Osservazione. Infiltrazioni. Ottenere informazioni attraverso piccole brecce here and there, qua e là.

Io e Juan Luis non siamo soli in questa cosa. Non siamo due idealisti in cerca di amici temerari da coinvolgere in un complotto fantasioso.»

Riempì i bicchieri e alzò ancora il volume del grammofono. Accendemmo altre due sigarette. Tornò a sedersi e affondò i suoi occhi chiari nei miei. Erano circondati da occhiaie nere che non le avevo mai visto.

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«Stiamo dando il nostro contributo per allestire una rete di collaboratori clandestini a Madrid, collegati ai servizi segreti britannici. Persone svincolate dalla vita politica, diplomatica o militare. Gente poco nota che, sotto l’apparenza di una vita normale, si procuri informazioni per riferirle al SOE.»

«Cos’è il SOE?» mormorai. «Special Operations Executive. Una nuova organizzazione all’interno dei servizi

segreti creata recentemente da Churchill, per risolvere problemi relativi alla guerra al di fuori dei soliti canali. Stanno contattando gente in tutta Europa. Diciamo che si tratta di un servizio di spionaggio poco ortodosso. Non convenzionale.»

«Non capisco» continuavo a sussurrare. Ed era vero. Servizi segreti. Collaboratori clandestini. Canali. Spionaggio. Infiltrati. Non avevo mai sentito parlare di cose del genere in vita mia. «Be’, non credere che io sia abituata a questa terminologia. In pratica è tutto nuovo

anche per me, ho dovuto imparare un mucchio di cose a tappe forzate. Negli ultimi tempi Juan Luis, come ti dicevo nelle lettere, si è avvicinato molto al nostro ambasciatore Hoare. E adesso che ha i giorni contati al ministero hanno deciso di lavorare insieme.

Hoare però non controlla direttamente le operazioni dei servizi segreti a Madrid. Diciamo che le supervisiona, è il responsabile ultimo, ma non le coordina in prima persona.»

«E chi lo fa, allora?» Mi aspettavo che dicesse che lo faceva lei, rivelandomi finalmente che era tutto uno

scherzo. Così saremmo scoppiate a ridere e saremmo andate a cenare e a ballare a Villa Harris, come tante altre volte. Ma non andò così.

«Alan Hillgarth, il nostro naval attaché, l’addetto navale presso l’ambasciata: si occupa di tutto lui. E un tipo molto particolare, ha seguito le orme di una famiglia con una lunga tradizione nella Marina e ha sposato una signora dell’alta aristocrazia coinvolta anche lei nelle sue attività. E’ arrivato a Madrid insieme a Hoare per coordinare in segreto, sotto la copertura dell’incarico ufficiale, le attività del SOE e del SIS, il Secret Intelligence Service.»

SOE, Special Operations Executive. SIS, Secret Intelligence Service. Era tutto sconosciuto per me. Insistetti nel chiedere spiegazioni.

«Il SIS, Secret Intelligence Service, conosciuto anche come MI6, Directorate of Military Intelligence, Section 6: la sesta sezione dell’intelligence militare, l’agenzia che svolge le operazioni dei servizi segreti fuori dalla Gran Bretagna. Attività di spionaggio extraterritoriali, per intenderci. Opera da prima della Grande guerra, e il suo personale, che di solito ha una copertura diplomatica o militare, è coinvolto in operazioni discrete, in genere tramite strutture di potere già stabilite, per mezzo di individui o autorità influenti nei paesi in cui agisce. Il SOE, invece, è una cosa nuova. E più arrischiato perché non utilizza solo professionisti, ma proprio per questo è molto più flessibile. E’ un dispositivo di emergenza per questi nuovi tempi di guerra, se vogliamo definirlo in

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qualche modo. L’organizzazione è stata creata da poco e Hillgarth, il responsabile per la Spagna, deve reclutare agenti. Con urgenza. Perciò sta sondando persone di cui si fida, che lo mettano in contatto con altre persone che, a loro volta, possano aiutare direttamente gli inglesi. Diciamo che io e Juan Luis siamo questo genere di intermediari.

Hoare è arrivato di recente, conosce pochissime persone. Hillgarth per l’intera durata della guerra civile è stato viceconsole a Maiorca, ma anche lui è nuovo a Madrid e non conosce ancora bene il terreno su cui si muove. A Juan Luis e a me, a lui in quanto ministro apertamente filobritannico e a me in quanto cittadina britannica, non è stato chiesto un coinvolgimento in prima persona: sanno che siamo troppo esposti e potremmo risultare sospetti. Ma si sono rivolti a noi perché gli procuriamo dei contatti. E fra gli altri ho pensato a te. Ecco perché sono venuta a trovarti.»

Preferii non chiederle che cosa volesse esattamente da me. Me lo avrebbe detto in ogni caso e il panico sarebbe stato lo stesso, così decisi di concentrarmi nel riempire di nuovo i bicchieri. Lo shaker però era vuoto. Mi alzai e cercai tra le casse impilate contro la parete. Era tutto troppo forte, a stomaco vuoto. Tirai fuori una bottiglia che si rivelò di whisky, tolsi il tappo e buttai giù un lungo sorso a canna.

Poi la passai a Rosalinda. Che fece lo stesso e me la restituì. Continuò a parlare. Nel frattempo io mi feci un altro sorso.

«Abbiamo pensato che potresti aprire un atelier a Madrid e lavorare per le mogli delle alte cariche naziste.»

Mi si strozzò la gola, e il sorso di whisky che stava scendendo tornò in bocca e fuoriuscì sparato in mille spruzzi. Mi pulii il viso con il dorso della mano. Quando riuscii finalmente ad articolare qualche parola, ne uscirono solo tre.

«Voi siete pazzi.» Rosalinda fece finta di niente e proseguì. «Prima si vestivano tutte a Parigi, ma da quando l’esercito tedesco ha invaso la

Francia, in maggio, la maggioranza delle case d’alta moda ha chiuso; sono ben poche quelle che vogliono continuare a lavorare nella Parigi occupata. La Maison Vionet, la Maison Chanel in rue Chambon, il negozio di Elsa Schiaparelli in place Vendòme: quasi tutti i grandi se ne sono andati.»

Le allusioni di Rosalinda all’alta moda parigina, forse coadiuvate dal mio nervosismo, dai cocktail e dalle sorsate di whisky, mi strapparono una risata roca.

«E vorresti che io sostituissi quegli stilisti a Madrid?» Non riuscii a contagiarla con la mia risata, proseguì seria. «Potresti provare a farlo a modo tuo, in scala ridotta. E’ il momento migliore, perché

non ci sono tante alternative: Parigi è out of the question e Berlino troppo lontana. O si vestono a Madrid, o non potranno sfoggiare i loro modelli nella stagione che sta per cominciare; e sarebbe una tragedia, visto che la loro esistenza adesso ruota tutta intorno alla vita sociale. Mi sono informata: sono diversi gli atelier madrileni di nuovo attivi che si preparano per l’autunno. Correva voce che Balenciaga volesse riaprire quest’anno, ma alla fine non l’ha fatto.

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Ho con me i nomi di quelli che prevedono di entrare in funzione» disse tirando fuori un foglietto piegato dal taschino della giacca. «Flora Villareal; Brigida al 37 di carrera de San Jerónimo; Natalio al 18 di calle Lagasca; Madame Raguette in calle Bàrbara de Braganza, 2; Pedro Rodriguez in calle Alcalà, 62; Cottret in calle Fernando VI, 8.»

Alcuni nomi mi erano familiari, altri no. Mi aspettavo un accenno alla sartoria della signora Manuela, ma Rosalinda non la menzionò: forse non aveva riaperto. Quando finì di leggere l’elenco, strappò l’appunto in mille pezzi che buttò nel posacenere ormai colmo di mozziconi.

«Nonostante gli sforzi per presentare nuove collezioni e offrire i disegni migliori, tutti hanno lo stesso problema, lo stesso limite.

Quindi non sarà facile per nessuno avere successo.» «Quale limite?» «La scarsità di tessuti; l’assoluta scarsità di tessuti. La Spagna di Franco non fabbrica

stoffe per questo tipo di abiti; le aziende tessili che non hanno chiuso sono impegnate a soddisfare i bisogni fondamentali della popolazione o a produrre materiale bellico.

Con il cotone fanno uniformi; con il filo, bende: ogni tessuto ha una destinazione prioritaria rispetto alla moda. Tu potresti ovviare a questo problema portandoti le stoffe da Tangeri. Qui si commercia, non ci sono problemi per le importazioni come nella penisola. Arrivano prodotti americani e argentini, ci sono ancora parecchi stock di stoffe francesi e di lane inglesi, di sete indiane e cinesi degli anni scorsi; puoi portare con te di tutto. E se dovessi avere bisogno di altra merce, faremo in modo di procurartela. Se arrivi a Madrid con tessuti e idee, e se io faccio girare la voce attraverso i miei contatti, puoi diventare la creatrice di moda del momento. Non avrai concorrenza, Sira, saresti l’unica in grado di offrire alle tedesche quello che cercano: ostentazione, lusso, frivolezza assoluta, come se il mondo fosse una sala da ballo e non il campo di battaglia insanguinato in cui proprio loro l’hanno trasformato. E le mogli dei nazisti, tutte, piomberebbero da te come avvoltoi.»

«Ma mi assocerebbero a te...» dissi, cercando un appiglio per non essere travolta da quel progetto delirante.

«Assolutamente no. Nessuno avrebbe motivo di farlo. Quasi tutte le tedesche di Madrid sono arrivate da poco e non hanno contatti con quelle che risiedono in Marocco; nessuno deve sapere che noi ci conosciamo.

Comunque, l’esperienza che ti sei fatta cucendo per le loro connazionali a Tetuàn ti sarà di grande aiuto: conosci i loro gusti, sai come trattarle e come comportarti.»

Mentre parlava, chiusi gli occhi e mi limitai a scuotere la testa da una parte all’altra. Per qualche secondo tornai con la mente ai primi mesi del mio soggiorno a Tetuàn, alla notte in cui Candelaria mi aveva mostrato le pistole e mi aveva proposto di venderle per aprire l’atelier. La sensazione di panico era la stessa e la scena simile: due donne nascoste in una stanzetta, una che esponeva un piano pericoloso congegnato minuziosamente e l’altra, terrorizzata, che si rifiutava di approvarlo. Ma c’erano anche differenze. Grandi differenze. Il progetto che mi proponeva Rosalinda apparteneva a

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un’altra dimensione. La sua voce mi strappò al passato, mi fece abbandonare la misera cameretta in cui

dormivo nella pensione di calle de La Luneta, e tornai alla realtà del piccolo magazzino dietro il bancone del Dean’s Bar.

«Ti creeremo un nome, sappiamo come muoverci. Ho buoni contatti con i circoli che ci interessano a Madrid, faremo girare la voce per farti conoscere senza che nessuno ti ricolleghi a me. Il SOE sosterrebbe tutte le spese iniziali: l’affitto del locale, l’allestimento dell’atelier e i soldi per comprare le scorte di tessuti e materiali. Juan Luis potrebbe risolvere la faccenda delle pratiche doganali e ti fornirebbe i permessi necessari per trasportare la merce da Tangeri in Spagna; dovrebbe essere un carico considerevole, perché una volta che sarà uscito dal ministero le pratiche diventeranno più difficili. Tutti i proventi dell’attività andrebbero a te. Dovresti solo continuare a fare quello che fai ora in Marocco, ma prestando più attenzione alle parole delle clienti tedesche, o spagnole vicine al potere e legate ai nazisti. Anche queste sarebbero molto importanti, se riuscissi a farle diventare tue clienti. Le tedesche non hanno assolutamente nulla da fare, hanno soldi a palate e il tuo atelier potrebbe diventare un punto d’incontro perfetto. Saresti al corrente dei posti in cui si trovano i mariti, delle persone che frequentano, dei piani che fanno e delle visite che ricevono dalla Germania.»

«Parlo il tedesco a stento.» «Sei in grado di comunicare abbastanza per farle sentire a loro agio con te. Enough.» «Conosco poco più dei numeri, i saluti, i colori, i giorni della settimana e una

manciata di frasi sparse» insistetti. «Non importa; abbiamo pensato anche a questo. Conosciamo qualcuno che potrebbe

aiutarti. Tu dovresti solo raccogliere i dati e farli arrivare a destinazione.» «Come?» Si strinse nelle spalle. «Te lo dirà Hillgarth, se accetti. Io non so come funzionano queste operazioni;

immagino che metterebbero a punto qualcosa apposta per te.» Scossi di nuovo la testa. Avevo mille motivi per non imbarcarmi in quell’impresa

assurda, ma preferii condensarli tutti in un’unica negazione. No. Non l’avrei fatto. Decisamente no. Bevvi un altro sorso di whisky dalla bottiglia; aveva un sapore orribile.

«Perché no, darling? Perché hai paura, right?» Parlava di nuovo sottovoce e in tono sicuro. La musica era finita; si sentivano solo il rumore della puntina che raschiava la superficie del disco e le voci e le risate provenienti dalla sala oltre la tenda. «Abbiamo tutti paura, moriamo tutti di paura» mormorò. «Ma non è una buona giustificazione.

Dobbiamo impegnarci, Sira. Dare il nostro contributo. Tu, io, tutti, ciascuno come può. Dobbiamo aggiungere il nostro granello di sabbia per fermare questa follia.»

«E poi non posso tornare a Madrid. Ho delle questioni in sospeso. Sai di cosa parlo.» La faccenda delle denunce che risalivano ai tempi con Ramiro non si era ancora

risolta. Ne avevo parlato un paio di volte con il commissario Vàzquez dopo la fine della guerra, e lui aveva cercato di informarsi sulla situazione a Madrid, ma senza concludere

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niente. E’ ancora tutto confuso, lasciamo passare un po’ di tempo, aspettiamo che le cose si calmino, mi diceva. E io, che non avevo intenzione di tornare, aspettavo. Rosalinda conosceva la situazione, gliel’avevo spiegata.

«Abbiamo pensato anche a questo. A questo e al fatto che devi essere coperta, protetta in ogni circostanza. La nostra ambasciata non potrebbe farsi carico di te se ci fosse qualche problema, e la cosa, in questo momento, è rischiosa per una cittadina spagnola, vista la situazione.

Juan Luis però ha avuto un’idea.» Volevo chiedere quale fosse, ma la voce non mi uscì. Non fu necessario: me la riferì

subito. «Può procurarti un passaporto marocchino.» «Un passaporto falso» precisai. «No, sweetie: autentico. Continua ad avere ottimi amici in Marocco. Potresti diventare una cittadina marocchina in poche ore. Con un altro nome,

obviously.» Mi alzai e mi accorsi che faticavo a mantenere l’equilibrio. Nel mio cervello, tra fiumi

di gin e whisky, beccheggiavano disordinatamente quelle parole sconosciute. Servizi segreti, agenti, dispositivi. Nome falso, passaporto marocchino. Mi appoggiai alla parete e cercai di recuperare la lucidità.

«Rosalinda, no. Non continuare, per favore. Non posso accettare.» «Non devi per forza decidere adesso. Pensaci.» «Non c’è niente a cui pensare. Che ore sono?» Guardò l’orologio, io cercai di fare lo stesso, ma i numeri mi si confondevano davanti

agli occhi. «Le dieci meno un quarto.» «Devo tornare a Tetuàn.» «Avevo organizzato tutto perché venisse a prenderti una macchina alle dieci, ma

credo che tu non sia nelle condizioni di andare da nessuna parte. Rimani a dormire a Tangeri. Mi occupo io di trovarti una camera all’hotel El Minzah e di far avvisare tua madre.»

Un letto in cui dormire per dimenticare quella sinistra conversazione mi parve una proposta allettante. Un letto grande con le lenzuola bianche, in una bella camera dove mi sarei svegliata il giorno dopo per scoprire magari che l’incontro con Rosalinda era stato solo un incubo. Uno strano incubo spuntato fuori dal nulla. Ma nell’angolo più remoto del mio cervello si fece largo all’improvviso un brandello di lucidità.

«Non è possibile avvisare mia madre. Non abbiamo il telefono, lo sai.» «Farò chiamare Félix Aranda, glielo dirà lui. Farò anche in modo che vengano a

prenderti domani mattina per portarti a Tetuàn.» «E tu dove alloggi?» «A casa di amici, in rue de Hollande. Non voglio che si sappia che mi trovo a

Tangeri. Mi hanno accompagnato in auto direttamente da casa loro, non ho neanche

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messo piede in strada.» Rimase in silenzio per qualche minuto, poi ricominciò a parlare in tono più basso. Più

basso e più grave. «Le cose si sono messe molto male per Juan Luis e per me, Sira. Siamo sorvegliati di

continuo.» «Da chi?» chiesi con voce roca. Fece un mezzo sorriso carico di tristezza. «Da tutti. Dalla polizia. Dalla Gestapo. Dalla Falange.» Manifestai la mia paura in una domanda appena sussurrata con la voce impastata. «E sorveglieranno anche me?» «Non lo so, darling, non lo so.» Sorrise di nuovo, stavolta apertamente. Ma non riuscì a evitare che un’ombra di

disperazione trapelasse agli angoli della bocca.

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CAPITOLO 35 Qualcuno bussò alla porta ed entrò senza aspettare il mio permesso. Con gli occhi

semichiusi, nella penombra della stanza riuscii a distinguere una cameriera in divisa con un vassoio in mano. Lo appoggiò da qualche parte fuori dal mio campo visivo e tirò le tende. La camera si riempì all’improvviso di luce e io mi coprii la testa con il cuscino. I rumori erano attutiti, ma le mie orecchie udirono dei piccoli segnali che mi permisero di seguire i movimenti della cameriera. La porcellana della tazza che sbatteva contro il piatto, il gorgoglio del caffè che usciva dalla caffettiera, il coltello che strusciava su una fetta di pane tostato mentre la ragazza spalmava il burro. Quando fu tutto pronto, si avvicinò al letto.

«Buongiorno, signorina. La colazione è pronta. Deve alzarsi, fra un’ora troverà una macchina ad aspettarla davanti all’hotel.»

Le risposi con un grugnito. Volevo dire grazie, ho capito, lasciami in pace. Ma lei non poteva decifrare la mia intenzione di continuare a dormire e fece finta di niente.

«Mi hanno detto di rimanere qui finché non si alza.» Parlava in spagnolo con accento spagnolo. Alla fine della guerra Tangeri si era

riempita di repubblicani, e forse la cameriera apparteneva a una di quelle famiglie. Borbottai ancora qualcosa e mi girai dall’altra parte.

«Signorina, per favore, si alzi. Il caffè e il pane tostato si raffreddano.» «Chi ti ha mandato?» indagai senza tirare fuori la testa. La mia voce sembrava uscita

da una caverna, forse per la barriera di piume e stoffa che mi separava dall’esterno, forse per effetto della catastrofica notte precedente. Quando terminai di formulare la domanda, mi resi conto di quanto fosse ridicola. Come poteva sapere quella ragazza chi l’avesse mandata? Io, in compenso, non avevo il minimo dubbio.

«Ho ricevuto l’ordine dalla cucina, signorina. Sono la cameriera di questo piano.» «Allora adesso puoi andare.» «No, finché lei non si alza.» La giovane cameriera era testarda, aveva la perseveranza di chi riceve ordini da

qualcuno che sa impartirli. Alla fine tirai fuori la testa e mi tolsi i capelli dalla faccia. Scostando le lenzuola mi resi conto che indossavo una camicia da notte color albicocca non mia. La ragazza aspettava con una vestaglia intonata in mano; decisi di non chiedere da dove venisse, che ne poteva sapere lei. Intuii che Rosalinda era riuscita a farmi arrivare in camera quei due capi. In compenso non c’erano ciabatte, così mi diressi scalza verso il tavolino rotondo apparecchiato per la colazione. Il mio stomaco la accolse gorgogliando.

«Le verso il latte, signorina?» chiese mentre mi sedevo.

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Assentii con la testa, perché non potevo farlo a parole: avevo la bocca piena di pane tostato. E una fame da lupi; a quel punto ricordai che la sera prima non avevo cenato.

«Se mi dà il permesso, le preparo la vasca.» Annuii di nuovo mentre masticavo, e pochi secondi dopo sentii l’acqua che sgorgava

con forza dai rubinetti. La ragazza tornò in camera. «Puoi andare, grazie. Di’ a chi di dovere che mi sono alzata.» «Mi hanno detto di far stirare il suo vestito intanto che lei fa colazione.» Diedi un altro morso alla fetta di pane e annuii ancora senza parlare. La ragazza raccolse i miei vestiti gettati in disordine su una poltroncina. «Ha bisogno di qualcos’altro, signorina?» chiese prima di uscire. Ancora con la bocca piena mi portai un dito alla tempia, mimando quello che, senza

volere, finì per somigliare a un colpo di pistola. Mi guardò spaventata e mi resi conto che era solo una ragazzina.

«Qualcosa per il mal di testa» chiarii quando riuscii a inghiottire il boccone. Confermò di aver capito con un gesto enfatico e si volatilizzò senza aggiungere altro,

con la voglia di uscire il più presto possibile dalla stanza di quella che doveva esserle sembrata una pazza.

Feci fuori tutte le fette di pane tostato, un succo d’arancia, un paio di croissant e una cioccolata con panna. Mi versai un’altra tazza di caffè e, alzando la brocca del latte, sfiorai con il dorso della mano una busta appoggiata a un piccolo vaso con due rose bianche. Il contatto mi provocò una specie di scossa, ma non la presi. Non c’era scritto niente, ma sapevo che era per me e chi me l’aveva mandata. Finii il caffè ed entrai nel bagno saturo di vapore. Chiusi i rubinetti e cercai di distinguere la mia immagine nello specchio. Era talmente appannato che per vedermi dovetti passare un asciugamano sulla superficie.

Disastroso, fu l’unica parola che mi venne da dire quando vidi il mio riflesso. Mi spogliai ed entrai nella vasca.

Quando uscii, i resti della colazione erano spariti e la portafinestra era spalancata. Le palme del giardino, il mare e il cielo blu dello Stretto sembravano voler invadere la camera, ma non ci badai troppo, avevo fretta. Ai piedi del letto trovai i miei vestiti stirati: il tailleur, la sottoveste e le calze di seta, tutto pronto per tornare a coprire il mio corpo. E sul comodino, su un piccolo vassoio d’argento, una caraffa d’acqua, un bicchiere e un tubetto di Optalidon. Ingoiai due pastiglie insieme; ci pensai meglio e ne presi un’altra. Tornai in bagno e mi legai i capelli umidi in una crocchia bassa. Mi truccai appena, avevo con me solo il portacipria e un rossetto. Poi mi vestii. Tutto a posto, mormorai fra me.

Mi corressi subito. Quasi tutto a posto. Mancava un piccolo particolare, che mi aspettava sul tavolino dove mezz’ora prima avevo fatto colazione: la busta color crema apparentemente priva di destinatario. Sospirai e, prendendola con la punta delle dita, la misi in borsa senza guardarla.

Me ne andai. Lasciai dietro di me una camicia da notte altrui e l’impronta delle mie

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forme tra le lenzuola. La paura non volle fermarsi, venne via con me. «Il conto di mademoiselle è pagato, c’è un’auto che l’aspetta» mi disse con

discrezione il responsabile della reception. Né la vettura né il conducente mi erano familiari, ma non chiesi di chi fosse la prima né per chi lavorasse il secondo. Mi limitai ad accomodarmi sul sedile posteriore, e senza pronunciare neanche una parola lasciai che entrambi mi portassero a casa.

Mia madre non mi chiese con chi fossi andata alla festa né dove avessi passato la notte. Immaginai che chi le aveva fatto avere il messaggio la sera prima fosse stato così convincente da non lasciare spazio all’apprensione. Se anche notò la mia pessima cera, non si mostrò per niente preoccupata. Si limitò ad alzare lo sguardo dal vestito che stava cucendo e disse buongiorno. Né affettuosa né infastidita. Neutra.

«Abbiamo finito il cordoncino di seta» annunciò. «La signora Aracama vuole spostare la prova da giovedì a venerdì, e Frau Langenheim preferisce che cambiamo il taglio dell’abito di shantung.»

Mentre continuava a cucire e a parlare degli ultimi avvenimenti, misi una sedia di fronte a lei e mi sedetti; così vicino che le mie ginocchia sfioravano quasi le sue. Cominciò a dirmi qualcosa rispetto alla consegna di alcuni tagli di satin che avevamo ordinato la settimana precedente. Non la lasciai proseguire.

«Vogliono che torni a Madrid e che lavori per gli inglesi; che riferisca informazioni sui tedeschi. Vogliono che spii le loro mogli, mamma.»

La sua mano destra rimase sospesa a mezz’aria, con l’ago infilato tra un punto e l’altro. Lasciò la frase a metà, la bocca aperta. Immobile, sollevò gli occhi sopra i piccoli occhiali che ormai usava per cucire e mi fissò turbata.

Non proseguii subito. Prima tirai il fiato e sbuffai un paio di volte: con forza, facendo respiri profondi, come se mi mancasse l’aria.

«Dicono che la Spagna è piena di nazisti» continuai. «Agli inglesi serve qualcuno che li informi su quello che fanno i tedeschi: chi incontrano, dove, quando, come. Hanno pensato di aprirmi un atelier e di fare in modo che cucia per le loro mogli, per poi riferire quello che vedo e sento.»

«E tu cos’hai risposto?» La sua voce, come la mia, era appena un sussurro. «Di no. Ho detto che non posso e non voglio. Che sto bene qui, con te. Che non mi interessa tornare a Madrid. Però mi hanno chiesto di pensarci su.» Il silenzio invase la stanza, si insinuò tra le stoffe e i manichini, in mezzo ai rocchetti

di filo, alle assi per cucire. «E questo aiuterebbe la Spagna a non entrare di nuovo in guerra?» chiese alla fine. Mi strinsi nelle spalle. «In teoria tutto può aiutare, o almeno così credono» dissi senza troppa convinzione.

«Stanno cercando di organizzare una rete di informatori clandestini. Gli inglesi vogliono che noi spagnoli restiamo fuori da quello che sta succedendo in Europa, che non ci alleiamo con i tedeschi e non interveniamo; dicono che sarebbe la cosa migliore per

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tutti.» Dolores chinò la testa e si concentrò sulla stoffa a cui stava lavorando. Non disse

niente per qualche secondo: pensò, rifletté con calma mentre accarezzava il tessuto con il polpastrello del pollice.

Infine alzò lo sguardo e si tolse lentamente gli occhiali «Vuoi un consiglio, figlia mia?» chiese.

Mossi il mento con un cenno risoluto. Sì, certo che volevo il suo consiglio: avevo bisogno di una conferma, di sentirmi dire che il mio rifiuto era ragionevole; anelavo a udire dalla sua bocca che quel progetto era un’autentica assurdità. Volevo che tornasse quella di sempre, speravo mi chiedesse chi credevo di essere per pensare di giocare a fare l’agente segreto. Volevo ritrovare la Dolores risoluta della mia infanzia: la donna prudente, decisa, che sapeva sempre che cosa era giusto e che cosa era sbagliato. La donna che mi aveva cresciuta perché rigassi dritto, anche se un giorno io avevo avuto la malaugurata idea di prendere un’altra strada. Ma il mondo non era cambiato solo per me: anche i punti fermi di mia madre ormai erano altri.

«Vai con loro, figlia mia. Aiuta, collabora. La nostra povera Spagna non può entrare di nuovo in guerra, non ne ha le forze.»

«Ma mamma...» Non mi lasciò proseguire. «Tu non sai cosa significa vivere in guerra. Tu non ti sei svegliata ogni giorno con il

rumore dei mitra e lo scoppio dei mortai. Non hai mangiato lenticchie con i vermi per mesi, non hai passato un inverno senza pane né carbone né vetri alle finestre. Non hai vissuto in mezzo a famiglie distrutte e a bambini affamati. Non hai visto occhi pieni d’odio, di paura, o di entrambe le cose insieme. La Spagna intera è a terra, nessuno ha la forza per sopportare un altro incubo del genere.

L’unica cosa che il paese può fare adesso è piangere i propri morti e tirare avanti con quel poco che è rimasto.»

«Ma...» insistetti. Mi interruppe un’altra volta. Senza alzare la voce, ma in modo perentorio. «Se fossi in te, aiuterei gli inglesi, farei quello che mi chiedono. Agiscono per il loro tornaconto, non c’è dubbio, per la loro patria, non certo per la

nostra. Ma se il loro tornaconto giova anche a tutti noi, ben venga. Immagino che la richiesta arrivi dalla tua amica Rosalinda.»

«Ieri ne abbiamo parlato per ore; stamattina mi ha lasciato una lettera che non ho ancora letto. Credo che siano istruzioni.»

«In giro si sente dire che al suo Beigbeder rimangono pochi giorni al ministero. Pare che verrà cacciato proprio perché è diventato amico degli inglesi. Immagino che anche lui abbia qualcosa a che vedere con questa faccenda.»

«L’idea è di entrambi» confermai. «Be’, avrebbe potuto metterci lo stesso impegno per liberarci dall’altra guerra, quella

in cui ci hanno infilato proprio loro, ma ormai è acqua passata e non ha più senso

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parlarne; adesso bisogna guardare al futuro. Tu prendi la tua decisione, figlia mia. Mi hai chiesto un consiglio e io te l’ho dato:

non l’ho fatto a cuor leggero, ma sono sicura che sarebbe la scelta più responsabile. Sarà difficile anche per me: se te ne vai, rimarrò di nuovo sola, in balìa dell’incertezza di non sapere niente di te. Però credo di sì, credo che tu debba andare a Madrid. Io rimarrò qui e manderò avanti l’atelier. Cercherò qualcuno che mi aiuti, non devi preoccuparti di questo. E quando sarà tutto finito, Dio ci dirà che fare.»

Non riuscii a rispondere. Non avevo più scuse. Decisi di uscire e scendere in strada per prendere un po’ d’aria. Avevo bisogno di pensare.

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CAPITOLO 36 Entrai all’hotel Palace a mezzogiorno di una giornata di metà settembre, con

l’incedere sicuro di chi ha passato metà della sua vita ad attraversare sui tacchi le hall dei migliori alberghi del pianeta. Avevo un tailleur di frescolana rosso sangue e i capelli appena tagliati che cadevano sulle spalle. E poi un sofisticato cappello di feltro e piume uscito dal negozio tangerino di Madame Boissenet: una vera pièce-de-résistance, come venivano chiamati secondo lei quei copricapo dalle signore eleganti della Francia occupata. La mia mise era completata da scarpe di coccodrillo alte come trampoli, comprate nel miglior negozio di calzature di boulevard Pasteur. In mano una borsa in tinta e un paio di guanti di pelle di vitello grigio perla. Al mio passaggio vidi due o tre teste che si voltavano. Non feci una piega.

Dietro di me un facchino portava un beauty, due valigie di Goyard e altrettante cappelliere. Il resto dei bagagli, le mie cose e il carico di stoffe sarebbero arrivati via terra il giorno successivo, dopo aver attraversato lo Stretto senza problemi; impossibile averne: i permessi doganali recavano decine di timbri tra i più ufficiali dell’universo, con l’autorizzazione del ministero spagnolo degli Affari esteri. Io, invece, ero arrivata in aereo, volando per la prima volta in vita mia.

Dall’aeroporto di Sania Ramel a quello di Tablada, a Siviglia; da Tablada a Barajas. Ero uscita da Tetuàn con i miei documenti spagnoli a nome di Sira Quiroga, ma qualcuno aveva provveduto a falsificare la lista passeggeri perché non vi figurassi più come tale. Durante il volo, con le forbicine del mio nécessaire per il cucito, ridussi il vecchio passaporto in mille striscioline che nascosi dentro un fazzoletto annodato: in fin dei conti era un documento della Repubblica, e nella Nuova Spagna mi sarebbe servito a ben poco. Atterrai a Madrid con un passaporto marocchino nuovo di zecca. Accanto alla fotografia, un domicilio di Tangeri e la mia nuova identità: Arish Agoriuq. Strano? Non tanto. Erano solo il nome e il cognome di sempre al contrario. E con la h aggiunta dal mio vicino Félix nei primi tempi della mia attività al solito posto. Non era assolutamente un nome arabo, ma suonava strano e a Madrid non avrebbe destato sospetti: nessuno aveva la minima idea di come si chiamasse la gente da quelle parti, in terra araba, alla por la tierra mora, alla por tierra africana, come cantava il famoso paso doble.

Nei giorni precedenti alla partenza seguii alla lettera tutte le istruzioni contenute nella lunga missiva di Rosalinda. Contattai le persone indicate per ottenere una nuova identità. Scelsi le migliori stoffe nei negozi consigliati e le feci mandare con i relativi conti a un indirizzo locale, che non seppi mai a chi appartenesse. Tornai al bar di

Dean e ordinai un Bloody Mary. Se la mia decisione fosse stata negativa, avrei dovuto chiedere una semplice limonata. Il barman mi servì con un’espressione impassibile. Si

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mise a parlare senza troppo entusiasmo del più e del meno: disse che la bufera della notte precedente aveva distrutto una tenda, e che una nave chiamata Jason, di nazionalità statunitense, sarebbe arrivata il venerdì successivo alle dieci del mattino con un carico di merce inglese. Da quell’innocua conversazione ricavai le informazioni che mi servivano. Quel venerdì all’ora indicata mi diressi alla Legazione americana di Tangeri, una bella palazzina in stile moresco nel centro della medina. Comunicai al soldato incaricato di controllare l’accesso che volevo vedere il signor Jason. Lui alzò la pesante cornetta di un telefono interno e annunciò in inglese che la visita era arrivata. Ricevette ordini e riattaccò. Mi invitò a entrare in un cortile arabo circondato da archi imbiancati a calce. Lì venne a ricevermi un funzionario che, quasi senza parlare e a passo svelto, mi condusse attraverso un labirinto di corridoi, scale e gallerie fino a una terrazza bianca nella parte più alta dell’edificio.

«Mr Jason» disse semplicemente, indicando una figura maschile in fondo al terrazzo. Sparì all’istante trotterellando giù per le scale.

L’uomo aveva sopracciglia foltissime e il suo nome non era Jason, ma Hillgarth. Alan Hillgarth, addetto navale dell’ambasciata britannica a Madrid e coordinatore delle attività dei servizi segreti in Spagna.

Volto ampio, fronte alta, capelli scuri con la riga in mezzo, pettinati all’indietro con la brillantina. Indossava un abito di alpaca grigia la cui qualità era evidente anche da lontano. Camminava sicuro, reggendo una valigetta di pelle nera nella mano sinistra. Si presentò, mi strinse la mano e mi invitò a guardare il panorama per un momento. Era davvero eccezionale. Il porto, la baia, l’intero Stretto e una frangia di terra in fondo.

«La Spagna» disse indicando l’orizzonte. «Così vicina e così lontana. Ci sediamo?» Indicò una panchina in ferro battuto, dove ci accomodammo. Dalla tasca della giacca

estrasse una scatoletta metallica di sigarette Craven A. Ne presi una e fumammo entrambi guardando il mare. Quasi non si sentivano rumori vicino a noi, solo qualche voce di arabi che salivano dalle viuzze sottostanti e, di tanto in tanto, i versi stridenti dei gabbiani che sorvolavano la spiaggia.

«A Madrid è quasi tutto pronto per il suo arrivo» annunciò alla fine. Il suo spagnolo era eccellente. Non risposi, non avevo niente da dire: volevo solo

ricevere istruzioni. «Abbiamo affittato un appartamento in calle Nunez de Balboa, sa dov’è?» «Sì, ho lavorato da quelle parti per un certo periodo.» «La signora Fox lo sta ammobiliando e allestendo. Per mezzo di intermediari,

naturalmente.» «Capisco.» «So che è già stata informata, ma forse è meglio se glielo ricordo. Il colonnello

Beigbeder e la signora Fox si trovano in una situazione estremamente delicata. Stiamo aspettando la sospensione del colonnello dall’incarico di ministro; pare che non tarderà ad avvenire e sarà una deplorevole perdita per il nostro governo. Per il momento il

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signor Serrano Suner, ministro degli Interni, è appena partito per Berlino: incontrerà prima von Ribbentrop, l’equivalente tedesco di Beigbeder, e poi Hitler. Il fatto che il ministro degli Esteri spagnolo non partecipi a una missione del genere e rimanga a Madrid è significativo della fragilità della sua posizione attuale. Nel frattempo sia il colonnello sia la signora Fox stanno collaborando con noi, e ci procurano contatti molto interessanti. Ovviamente, tutto avviene in modo clandestino. Sono sorvegliati entrambi a vista da agenti che appartengono a organizzazioni poco amiche, se mi permette l’eufemismo.»

«La Gestapo e la Falange» buttai lì ricordando le parole di Rosalinda. «Vedo che è ben informata. E’ proprio così, in effetti. Non vogliamo che succeda lo

stesso anche a lei, anche se non posso assicurarle che riusciremo a evitarlo. Ma non si spaventi prima del tempo. A Madrid tutti sorvegliano tutti: chiunque è sospettato di qualcosa e nessuno si fida di nessuno, però per nostra fortuna la pazienza non è molto diffusa: tutti sembrano avere una gran fretta, e così, se non riescono a trovare qualcosa di interessante nel giro di pochi giorni, dimenticano l’obiettivo e passano a qualcos’altro. Comunque, se avrà l’impressione di essere sorvegliata dovrà farcelo sapere e noi cercheremo di capire chi sono. Soprattutto, non dovrà perdere la calma. Dovrà muoversi con naturalezza, non tentare di seminare gli inseguitori e non innervosirsi, ha capito?»

«Credo di sì» dissi in un tono non troppo convincente. «La signora Fox» proseguì cambiando argomento «sta muovendo i fili per preparare il

suo arrivo, credo che abbia già qualche cliente assicurata. E visto che l’autunno è alle porte, sarebbe opportuno che lei si trasferisse a Madrid il prima possibile.

Quando crede di poterlo fare?» «Quando vuole lei.» «Le sono grato per la sua disponibilità. Ci siamo presi la libertà di prenotarle un volo

aereo per martedì prossimo, può andarle bene?» Feci finta di niente e appoggiai le mani sulle ginocchia: temevo che iniziassero a

tremare. «Sarò pronta.» «Perfetto. A quanto ne so, la signora Fox le ha anticipato in parte l’obiettivo della sua

missione.» «Più o meno.» «Bene, allora entrerò nei dettagli. All’inizio lei dovrà farci avere dei rapporti periodici

su alcune donne tedesche e spagnole che, speriamo, diventeranno presto sue clienti. Come le ha riferito la sua amica, la signora Fox, la penuria di stoffe è un problema serio per le creatrici di moda spagnole, e abbiamo notizie di prima mano sul fatto che diverse signore residenti a Madrid sono ansiose di trovare qualcuno che possa fornire loro sia la confezione sia i tessuti. E qui entra in gioco lei.

Se le nostre previsioni non si riveleranno errate, la sua collaborazione sarà molto preziosa, visto che attualmente i nostri contatti con il potere spagnolo sono quasi inesistenti, a parte il colonnello Beigbeder, e comunque ancora per poco, temo. Le

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informazioni che dovrà fornirci riguardano i movimenti della comunità nazista che risiede a Madrid e alcuni spagnoli con cui intrattiene rapporti. Seguirli uno per uno sarebbe fuori dalla nostra portata; ma forse attraverso le mogli e le amiche potremmo farci un’idea dei loro contatti, delle loro relazioni e delle loro attività. Tutto chiaro, fin qui?»

«Tutto chiaro, sì.» «Il nostro interesse principale è conoscere in anticipo l’agenda sociale della comunità

tedesca di Madrid: quali eventi organizzano, con quali spagnoli e connazionali si relazionano, dove si riuniscono e con quale frequenza. Gran parte della loro attività strategica, in genere, avviene tramite incontri sociali privati, più che attraverso quello che potremmo chiamare lavoro d’ufficio, e vogliamo infiltrare persone di nostra fiducia in quel giro. In genere i rappresentanti nazisti sono soliti partecipare a questo tipo di riunioni con le mogli e le amiche, che devono vestirsi in maniera adeguata alle circostanze. Quindi speriamo che lei riesca a ottenere in anticipo informazioni sulle occasioni in cui sfoggeranno le sue creazioni. Crede che sia possibile?»

«Sì, di solito le clienti parlano di queste cose. Il problema è che il mio tedesco è molto limitato.»

«Abbiamo pensato anche a questo. Intendiamo fornirle un piccolo aiuto. Come saprà, il colonnello Beigbeder ha ricoperto per diversi anni il ruolo di addetto

militare a Berlino. All’epoca presso l’ambasciata lavorava una coppia di cuochi spagnoli; avevano due figlie e a quanto pare il colonnello si è comportato molto bene con tutti loro, li ha aiutati in qualche circostanza, si è occupato dell’istruzione delle bambine; in poche parole, hanno avuto un rapporto cordiale che si è interrotto quando a

Beigbeder è stato assegnato l’incarico in Marocco. Bene, quando ha saputo che l’ex addetto era stato nominato ministro, la famiglia,

ormai tornata in Spagna da qualche anno, si è messa in contatto con lui per richiedere di nuovo il suo aiuto. La madre è morta prima della guerra e il padre ha un’asma cronica ed esce a stento di casa; non si hanno notizie di una sua appartenenza politica, cosa molto positiva per noi. L’uomo ha chiesto a Beigbeder un lavoro per le figlie e ora noi glielo offriremo, se lei acconsente. Sono due ragazze di diciassette e diciannove anni che capiscono e parlano correntemente il tedesco. Io non le conosco di persona, ma la signora Fox ha parlato con entrambe qualche giorno fa ed è rimasta soddisfatta. Secondo lei, con loro non sentirà la mancanza di Jamila. Non so chi sia questa Jamila, ma spero che capisca il messaggio che le riferisco.»

Sorrisi per la prima volta dall’inizio della conversazione. «D’accordo. Se la signora Fox le considera adatte, per me va bene. Sanno cucire?» «Non credo, però l’aiuteranno a mandare avanti la casa e magari potrà insegnare loro

qualche rudimento di cucito. In ogni caso è molto importante che le ragazze non sappiano nulla del suo lavoro clandestino, quindi dovrà farsi aiutare, ma senza spiegare perché vuole che le traducano quello che non riesce a capire. Un’altra sigaretta?»

Tirò fuori di nuovo il pacchetto di Craven A, e io accettai un’altra volta.

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«Troverò il modo, non si preoccupi» dissi dopo aver soffiato fuori il fumo lentamente. «Allora proseguiamo. Come le dicevo, il nostro interesse fondamentale è essere

sempre informati sulla vita sociale dei nazisti a Madrid. Ma vogliamo conoscere anche i loro movimenti e i contatti che intrattengono con la Germania: se tornano nel loro paese e a quale scopo; se ricevono visite, chi sono gli ospiti, come pensano di accoglierli... Insomma, ogni tipo di informazione aggiuntiva che potrebbe rivelarsi di qualche interesse.»

«E cosa devo fare con queste informazioni, se riesco a ottenerle?» «Abbiamo pensato a un sistema con cui potrebbe trasmetterci le informazioni che

riesce a raccogliere, e crediamo di aver trovato il modo per cominciare. Forse non sarà il canale di contatto definitivo, comunque pensiamo che valga la pena sperimentarlo. Il SOE utilizza diversi sistemi di comunicazione cifrata con vari livelli di sicurezza.

Ma prima o poi i tedeschi riescono a decifrarli. E’ comune usare codici basati su opere letterarie; soprattutto poesie. Yeats, Milton, Byron, Tennyson. In questo caso però cercheremo di operare diversamente.

Ricorreremo a un mezzo più semplice ma anche più adatto alle circostanze. Ha presente l’alfabeto Morse?»

«Quello dei telegrammi?» «Esatto. E’ un codice per rappresentare lettere e numeri tramite segnali intermittenti;

segnali audio, in genere. Questi segnali audio, però, hanno anche una rappresentazione grafica semplicissima, mediante un sistema di punti e lineette orizzontali. Guardi.»

Tirò fuori dalla valigetta una busta di medie dimensioni da cui estrasse un cartoncino sul quale era raffigurato una specie di schema.

Le lettere dell’alfabeto e i numeri da zero a nove erano suddivisi in due colonne. Accanto a ciascuno compariva la corrispondente combinazione di punti e linee che lo identificava.

«Faccia conto di dover trascrivere una parola qualsiasi; Tangeri, per esempio. Lo faccia a voce alta.»

Consultai la tavola e pronunciai il nome in codice. «Linea. Punto linea. Linea punto. Linea linea punto. Punto. Punto linea punto. Punto

punto.» «Perfetto. Ora lo visualizzi. Anzi, lo metta su carta. Ecco, usi questo» disse estraendo

un portamine d’argento dalla tasca interna della giacca. «Qui, sulla busta.» Trascrissi le sette lettere seguendo di nuovo la tavola: «Ottimo. Adesso guardi con

attenzione. Le ricorda qualcosa? Le è familiare?» Osservai il risultato. Sorrisi. Certo. Certo che mi era familiare. Come poteva non

essermi familiare, era una cosa che facevo da tutta la vita. «Sembra un’impuntura» dissi sottovoce. «Esatto» confermò. «E’ qui che volevo arrivare. Vede, la nostra idea è che ogni

informazione che dovrà trasmettere sia codificata con questo sistema. Ovviamente dovrà

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affinare la sua capacità di sintesi per esprimere quello che deve dire con il minor numero possibile di parole, altrimenti ogni sequenza sarebbe interminabile. E voglio che mascheri il risultato in modo che sembri un cartamodello, un bozzetto o qualcosa del genere: qualunque cosa, purché possa essere associata a una sarta senza destare sospetti. Non è necessario che sia qualcosa di reale, basta che lo sembri. Mi sono spiegato?»

«Direi di sì.» «Bene, facciamo una prova.» Tirò fuori dalla valigetta una cartellina piena di fogli bianchi; ne prese uno, chiuse la

cartellina e la posò sul ripiano di pelle. «Faccia conto che il messaggio sia “Cena a casa della baronessa Petrino il 5 febbraio

alle otto. Parteciperà la contessa Ciano con il marito”. Le spiegherò dopo chi sono queste persone, non si preoccupi. La prima cosa che deve fare è eliminare tutti i termini superflui: articoli, preposizioni e così via. In questo modo accorceremo di molto il messaggio. Guardi: “Cena casa baronessa Petrino 5 febbraio otto sera.

Partecipano contessa Ciano e marito”. Da diciotto a tredici parole, un risparmio notevole. Dopo aver eliminato i termini superflui, procediamo a invertire l’ordine. Invece di trascrivere il codice da sinistra a destra, come avviene di solito, lo faremo da destra a sinistra. E inizierà sempre dall’angolo inferiore destro della superficie su cui lavora, dal basso verso l’alto. Immagini un orologio che segna le quattro e venti; poi immagini la lancetta dei minuti che si muove all’indietro, mi segue?»

«Sì, mi faccia provare, per favore.» Presi la cartellina che mi passava e me la misi sulle gambe. Con il portamine disegnai

una forma apparentemente amorfa che copriva la maggior parte del foglio. Circolare su un lato, dritta agli estremi. Impossibile da interpretare per un profano. «Cos’è?» «Aspetti» dissi senza sollevare lo sguardo. Finii di disegnare la figura, posizionai la mina nella parte interna dell’estremità

inferiore e, seguendo il contorno, trascrissi le lettere nell’alfabeto Morse, sostituendo i punti con lineette più brevi. Linea lunga, linea corta, di nuovo linea lunga, poi due corte. Quando finii, sul perimetro interno del disegno era comparso un profilo che sembrava un’innocente impuntura.

«Finito?» chiese. «Non ancora.» Dal piccolo nécessaire per il cucito che portavo sempre con me tirai

fuori le forbici e tagliai i contorni della figura lasciando un bordo di circa un centimetro attorno.

«Non ha detto che voleva qualcosa che si potesse associare a una sarta?» dissi porgendogli il disegno. «Bene, ecco il cartamodello di una manica a palloncino. Che contiene il messaggio all’interno.»

La linea retta delle sue labbra strette si trasformò a poco a poco in un sorriso appena

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accennato. «Fantastico» mormorò. «Posso preparare cartamodelli di pezzi diversi ogni volta che mi metterò in contatto

con lei. Maniche, davanti, colli, corpetti, polsini, fianchetti; dipenderà dalla lunghezza del messaggio. Posso disegnare tante forme quanti sono i messaggi che devo trasmettere.»

«Fantastico, davvero» ripeté in tono monocorde con il ritaglio fra le dita. «Adesso deve dirmi come dovrò consegnarle i cartamodelli.» Si prese ancora qualche secondo per osservare la mia opera con una vaga espressione

ammirata. Alla fine la mise dentro la valigetta. «D’accordo, andiamo avanti. Salvo contrordini, dovrà trasmetterci le informazioni

due volte la settimana. In teoria, il mercoledì nelle prime ore del pomeriggio e il sabato mattina. Abbiamo pensato che la consegna debba avvenire in due posti diversi, entrambi pubblici. E in nessun caso ci sarà un contatto fra lei e chi le riceverà.»

«Non sarà lei?» «No, se posso farne a meno. E soprattutto, mai nel luogo designato per le consegne del mercoledì. Sarebbe un po’

difficile per me: si tratta del salone di bellezza di Rosa Zavala, vicino all’hotel Palace. Al momento è il migliore nel suo genere a Madrid, o almeno il più rinomato fra le straniere e le spagnole più distinte. Deve diventare una cliente assidua e frequentarlo con regolarità. In realtà, sarebbe auspicabile che lei si riempisse la vita di abitudini, in modo che i suoi movimenti siano molto prevedibili e appaiano del tutto naturali. In quel salone c’è un vano appena dopo l’entrata, sulla destra, dove le clienti lasciano borse, cappelli e abiti pesanti. Una parete della stanza è completamente occupata dagli armadietti individuali dove le signore possono sistemare le loro cose. Lei userà sempre l’ultimo, all’angolo con la parete di fondo. In genere all’entrata c’è una ragazza giovane non troppo sveglia: il suo lavoro consiste nell’aiutare le clienti a depositare le loro cose, ma molte preferiscono fare da sole e rifiutano il suo aiuto, quindi non sembrerà strano che lo faccia anche lei; alla fine le lasci una mancia e l’inserviente sarà soddisfatta. Quando aprirà l’armadietto per riporre i suoi oggetti, sarà nascosta quasi completamente dalla porta: i suoi movimenti saranno intuibili, ma nessuno potrà vedere cosa fa e cosa lascia lì dentro. A quel punto tirerà fuori i cartamodelli che deve farci avere, arrotolati a forma di tubo. Impiegherà pochi secondi. Dovrà lasciarli sul ripiano superiore dell’armadietto. Si assicuri di spingerli fino in fondo, in modo che da fuori non siano visibili.»

«Chi li prenderà?» «Una persona di fiducia, non si preoccupi. Una donna che quello stesso pomeriggio,

poco dopo che lei sarà uscita, entrerà nel salone per rifarsi l’acconciatura e userà il suo stesso armadietto.»

«E se fosse occupato?» «In genere è sempre libero perché è l’ultimo. Ma se non fosse così, utilizzi quello

subito prima. E se fosse occupato anche quello, usi il successivo. E via di seguito. E’

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chiaro? Mi ripeta tutto, per favore.» «Parrucchiere il mercoledì nel primo pomeriggio. Uso l’ultimo armadietto, apro la

porta e, mentre lascio le mie cose, tiro fuori dalla borsa o da dove li ho messi tutti i cartamodelli che le devo consegnare.»

«Li leghi con un nastro o con un elastico. Scusi l’interruzione, vada avanti.» «Lascio il tubo sul ripiano in alto e lo spingo fino in fondo. Poi chiudo l’armadio e

vado a rifarmi l’acconciatura.» «Molto bene. Passiamo alla consegna del sabato. Per questa abbiamo scelto il Museo

del Prado: abbiamo un infiltrato fra i guardarobieri. La cosa migliore è che lei arrivi al museo con una di quelle cartelle che usano gli artisti, ha presente?»

Ricordai quella che usava Félix per le sue lezioni di pittura alla scuola di Bertuchi. «Sì, me ne procurerò una, non c’è problema.» «Perfetto. La porti con sé e ci metta dentro quanto serve per disegnare: un quaderno,

qualche matita; insomma, cose che può trovare dappertutto. Ci infilerà anche quello che deve consegnarmi, questa volta piegato dentro una busta

aperta. Perché sia riconoscibile, ci attacchi un ritaglio di stoffa di un colore vistoso, appuntandolo con uno spillo.

Andrà al museo ogni sabato verso le dieci del mattino; è un passatempo molto comune fra gli stranieri che risiedono nella capitale. Arrivi con la cartella nella quale avrà messo il materiale e una serie di cose che la identifichino, se qualcuno dovesse controllarla: altri disegni fatti in precedenza, bozzetti di vestiti; cose legate alla sua attività, insomma.»

«D’accordo. E cosa devo fare con la cartella, quando arrivo?» «La lascerà al guardaroba. Dovrà depositarla sempre insieme a qualcos’altro: un

cappotto, un impermeabile, qualche acquisto; cerchi di non lasciare mai soltanto la cartella, in modo che non dia troppo nell’occhio. Poi si diriga in una delle sale, passeggi senza fretta, si goda i dipinti. Dopo una mezz’oretta torni al guardaroba e si faccia riconsegnare la cartella. La porti con sé in una sala e si sieda a disegnare per un’altra mezz’ora almeno. Osservi i vestiti che compaiono nei quadri, faccia finta di ispirarsi per le sue creazioni future; insomma, cerchi di sembrare convincente, ma soprattutto si assicuri che all’interno della cartella non ci sia più la busta. In caso contrario dovrà tornare di domenica e ripetere l’operazione, ma non credo che sarà necessario: la copertura del parrucchiere è nuova, ma quella del Prado l’abbiamo già usata in precedenza e i risultati sono sempre stati soddisfacenti.»

«Non saprò neanche in questo caso chi porterà via i cartamodelli?» «Sempre una persona di fiducia. Il nostro intermediario al guardaroba si occuperà di

trasferire la busta dalla sua cartella a qualcosa che avrà lasciato il nostro contatto quella mattina stessa. E’ facilissimo. Ha fame?»

Guardai l’ora. Era l’una passata. Non sapevo se avevo fame o no: mi ero talmente concentrata per memorizzare ogni sillaba delle istruzioni che non mi ero quasi accorta del tempo che passava. Guardai di nuovo il mare, sembrava di un colore diverso. Tutto il

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resto era esattamente uguale: la luce sulle pareti bianche, i gabbiani, le voci arabe in strada. Hillgarth non aspettò la mia risposta.

«Ha fame di sicuro. Prego, venga con me.»

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CAPITOLO 37 Mangiammo da soli in una dépendance della Legazione americana, che

raggiungemmo percorrendo di nuovo tratti di corridoio e salendo altre scale. Mentre camminavamo Hillgarth mi spiegò che quella sede era il risultato di varie aggiunte a un’antica costruzione centrale; si giustificava così la struttura poco uniforme. La stanza in cui arrivammo non era esattamente una sala da pranzo; si trattava piuttosto di un salotto con pochi mobili e numerosi quadri di battaglie antiche con le cornici dorate. Le finestre, chiuse ermeticamente nonostante la giornata magnifica, si affacciavano su un cortile interno. Al centro della stanza c’era un tavolo apparecchiato per due. Un cameriere con un taglio di capelli militare ci servì una bistecca di vitello al sangue con patate al forno e insalata. Su un tavolino lasciò due macedonie di frutta e un servizio da caffè. Quando ebbe finito di riempire i bicchieri dell’acqua e del vino, scomparve chiudendosi la porta alle spalle, senza fare il minimo rumore. A quel punto la conversazione riprese.

«Quando arriverà a Madrid alloggerà per una settimana al Palace, abbiamo prenotato una camera a suo nome; al suo nuovo nome, voglio dire. Una volta arrivata, entri ed esca di continuo, si faccia vedere in giro.

Giri per negozi e si rechi nella sua nuova casa, in modo che le diventi familiare. Passeggi, vada al cinema; insomma, faccia quello che vuole.

Con un paio di restrizioni.» «Quali?» «Non oltrepassi i confini della Madrid più esclusiva. Non esca dal perimetro delle

zone eleganti e non entri in contatto con persone estranee a quell’ambiente.» «Mi sta dicendo che non devo mettere piede nel mio quartiere e non devo vedere

vecchi amici e conoscenti, giusto?» «Esatto. Nessuno deve poterla collegare al suo passato. Lei è nuova nella capitale:

non conosce nessuno e nessuno conosce lei. Se qualcuno dovesse riconoscerla, faccia in modo di negare. Sia insolente se necessario, ricorra a qualunque strategia, ma non lasci trapelare che non è quella che finge di essere.»

«Me ne ricorderò, non si preoccupi. E la seconda restrizione?» «Nessun contatto con persone di nazionalità britannica.» «Intende dire che non potrò incontrare Rosalinda Fox?» domandai senza riuscire a

mascherare la delusione. Sapevo che non ci saremmo potute vedere in pubblico, ma confidavo di potermi appoggiare a lei in privato, di ricorrere alla sua esperienza e alla sua intuizione se mi fossi trovata nei pasticci.

Hillgarth finì di masticare un boccone e si pulì con il tovagliolo mentre avvicinava

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alla bocca un bicchiere d’acqua. «Temo proprio di no, mi dispiace. Né lei né altri inglesi tranne me, e solo se è

assolutamente imprescindibile. La signora Fox ne è al corrente: se per caso vi incontrerete, sa che non potrà avvicinarsi a lei. Eviti anche i contatti con i cittadini americani. Sono nostri amici, come vede ci stanno trattando molto bene» disse aprendo le mani come per abbracciare la stanza. «Purtroppo non sono altrettanto amici della Spagna e dei paesi dell’Asse, perciò stia alla larga anche da loro.»

«D’accordo» assentii. La restrizione di non poter frequentare con assiduità Rosalinda non mi faceva piacere, ma sapevo di doverla accettare senza opporre resistenza.

«Per quanto riguarda i luoghi pubblici, vorrei consigliargliene alcuni dove è bene che si faccia vedere» proseguì.

«Mi dica.» «Il suo hotel, il Palace. E’ gremito di tedeschi, perciò continui a frequentarlo spesso

anche quando non vi alloggerà più. Vada a mangiare al suo grill, è molto di moda. A bere qualcosa o a incontrare qualche cliente. Nella Nuova Spagna non è ben visto che le signore escano da sole, che fumino, bevano o vestano in modo vistoso. Ma ricordi che lei non è più una spagnola, bensì una straniera proveniente da un paese un po’ esotico appena arrivata nella capitale, quindi si comporti di conseguenza. Vada spesso anche al Ritz, un altro covo di nazisti. E frequenti soprattutto l’Embassy, la sala da tè sul paseo de la Castellana, la conosce?»

«Certo» dissi. Mi guardai bene dal raccontargli di tutte le volte che da bambina avevo schiacciato il naso contro le vetrine, con l’acquolina in bocca davanti alla visione deliziosa dei dolci esposti. Le torte alla panna guarnite di fragole, i pasteles rusos crema e cioccolato, le paste al burro. Allora non mi sognavo neanche che un giorno avrei potuto tranquillamente varcare quella soglia, che quel luogo sarebbe stato alla portata del mio portafoglio. Ironia della sorte: anni dopo mi chiedevano di frequentare spesso quel locale.

«La proprietaria, Margaret Taylor, è irlandese ed è una buona amica. Al momento si può dire che l’Embassy sia il posto più interessante a livello strategico

di tutta Madrid, perché in una sala di poco più di settanta metri quadrati si riuniscono senza frizioni apparenti i membri dell’Asse e gli Alleati. Separatamente, certo, ciascuno con i suoi. Ma non è raro che il barone von Stohrer, l’ambasciatore tedesco, si ritrovi lì insieme con lo stato maggiore del corpo diplomatico britannico mentre beve il suo tè al limone, o che io stesso sia al bancone, gomito a gomito con il mio equivalente tedesco. L’ambasciata della Germania è quasi di fronte, e anche la nostra è molto vicina, all’angolo tra calle Fernando el Santo e calle Monte Esquinza. Oltre ad accogliere clienti stranieri, l’Embassy è anche il punto d’incontro di parecchi spagnoli blasonati: è difficile trovare più titoli nobiliari insieme all’ora dell’aperitivo in tutta la Spagna. Gli aristocratici che lo frequentano, perlopiù monarchici e anglofili, in genere sono dalla nostra parte e di conseguenza, per quanto riguarda le informazioni cui miriamo, non

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valgono molto. Ma sarebbe interessante se riuscisse a farsi qualche cliente in quell’ambiente, perché le tedesche ammirano e rispettano quel genere di donna. Le mogli degli alti funzionari del nuovo regime di solito sono di un altro tipo: non conoscono il mondo, sono molto più morigerate, non indossano abiti d’alta moda, si divertono meno e, ovviamente, non frequentano abitualmente l’Embassy per bere cocktail a base di champagne prima di cena, capisce cosa intendo?»

«Comincio a farmi un’idea.» «Se abbiamo la sfortuna di incappare in qualche problema serio o se pensa di dovermi

comunicare un’informazione urgente, potrà entrare in contatto con me ogni giorno della settimana all’Embassy, all’una.

Diciamo che è il mio luogo d’incontro segreto con diversi nostri agenti: è talmente in vista che sarebbe difficilissimo destare il minimo sospetto. Per comunicare utilizzeremo un codice molto semplice: se vuole incontrarmi, entri con la borsa al braccio sinistro; se è tutto a posto e va solo a prendere un aperitivo e a farsi vedere in giro, la porti al destro. E se la situazione fosse assolutamente urgente, faccia cadere la borsa appena entra; come se si trattasse di una disattenzione o di un incidente.»

«Cosa intende per situazione assolutamente urgente?» chiesi. Intuivo che dietro quella frase che non capivo fino in fondo si nascondeva qualcosa di molto spiacevole.

«Minacce dirette. Coercizioni esplicite. Aggressioni fisiche. Violazione di domicilio.» «In quel caso che ne sarebbe di me?» dissi mandando giù il nodo che mi si era

formato in gola. «Dipende. Studieremmo la situazione e agiremmo in base al rischio. In caso di gravità

estrema interromperemmo l’operazione e la faremmo rifugiare in un luogo sicuro per evacuarla il prima possibile. In situazioni intermedie adotteremmo diverse misure per proteggerla.

Comunque, stia certa che potrà sempre contare su di noi, non la lasceremo mai sola.» «La ringrazio.» «Non è il caso: è il nostro lavoro» disse mentre si concentrava per tagliare uno degli

ultimi bocconi di carne. «Siamo certi che andrà tutto bene: il piano che abbiamo ideato è molto sicuro e il materiale che lei ci passerà non comporta grandi rischi. Per il momento. Gradisce il dessert?»

Neanche quella volta aspettò che accettassi o rifiutassi l’offerta; si limitò ad alzarsi, a togliere i piatti e ad appoggiarli sul tavolino, e tornò con due macedonie di frutta. Osservai i suoi movimenti rapidi e precisi, propri di qualcuno per il quale l’efficienza era una priorità vitale; qualcuno che non era abituato a perdere neanche un secondo né a dilungarsi in minuzie e faccende di poca importanza. Si risedette, infilzò un pezzo di ananas e continuò a darmi indicazioni come se non ci fosse stata alcuna interruzione.

«Se fossimo noi ad avere bisogno di contattare lei, utilizzeremo due canali. Uno sarà il negozio di fiori Bourguignon di calle Almagro. Il proprietario, un olandese, è anche lui un buon amico. Le manderemo dei fiori. Bianchi, forse gialli; in ogni caso chiari. Quelli rossi li lasciamo ai suoi ammiratori.»

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«Molto gentile da parte vostra» commentai ironicamente. «Controlli bene il mazzo» continuò senza farmi caso. «Ci sarà un messaggio. Se sarà

una cosa innocua, troverà un semplice biglietto scritto a mano. Lo legga sempre diverse volte, cerchi di capire se le parole in apparenza banali possono avere un altro significato. Se dovremo comunicarle qualcosa di più complesso, utilizzeremo lo stesso codice che usa lei, il Morse invertito trascritto sul nastro legato intorno ai fiori: lo sciolga e interpreti il messaggio nello stesso modo in cui codifica quelli che manda a noi: da destra a sinistra.»

«Bene, e il secondo canale?» «Di nuovo l’Embassy, ma non la sala da tè, bensì i suoi cioccolatini. Se riceverà una

confezione inaspettata, sappia che viene da noi. Faremo in modo che esca dal locale con il messaggio, cifrato anche in quel caso. Osservi bene la scatola di cartone e la carta in cui sarà avvolta.»

«Quanta galanteria» dissi con un leggero sarcasmo. Hillgarth non ci fece caso o comunque non lo diede a vedere.

«Si tratta proprio di questo. Di utilizzare modalità insospettabili per lo scambio di informazioni riservate. Caffè?»

Non avevo ancora finito la frutta, ma accettai. Hillgarth riempì le tazze dopo aver svitato la parte superiore di un recipiente metallico.

Miracolosamente, ne uscì un liquido caldo. Non avevo la minima idea di che cosa fosse quell’aggeggio capace di versare un caffè che era lì almeno da un’ora come se fosse appena fatto.

«Il thermos, una grande invenzione» annunciò come se avesse intuito la mia curiosità. A quel punto estrasse dalla valigetta diverse cartelline sottili di cartoncino chiaro e le posò davanti a sé. «Adesso le presenterò i personaggi che ci stanno più a cuore, quelli che dovrà controllare più da vicino. Il nostro interesse per queste signore può aumentare o diminuire nel tempo. O magari esaurirsi, anche se ne dubito.

Probabilmente introdurremo dei nomi nuovi, le chiederemo di intensificare il controllo su alcune di queste signore in particolare, o di seguire la pista di dati concreti; insomma, la terremo aggiornata a seconda di come andranno le cose. Per il momento, però, le persone di cui vogliamo conoscere l’agenda sono queste.»

Aprì la prima cartellina e ne estrasse alcuni fogli battuti a macchina. Nell’angolo superiore c’era una foto graffata. «Baronessa de Petrino, di origine rumena. Nome da nubile: Elena Borkowska.

Sposata con Hans Lazar, addetto stampa e propaganda dell’ambasciata tedesca. Per noi il marito è un obiettivo prioritario: si tratta di una persona influente, con un potere immenso. E’ molto abile ed è in ottimi rapporti con gli spagnoli del regime, soprattutto con i falangisti più potenti. Ha anche doti eccellenti per le relazioni pubbliche: organizza feste favolose nella sua palazzina di paseo de la Castellana e ha comprato decine di giornalisti e di impresari deliziandoli con cibi e liquori che fa arrivare direttamente dalla Germania. Ha un tenore di vita scandaloso nella misera Spagna di oggi; è un edonista e

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un appassionato di antiquariato; è molto probabile che riesca a ottenere i pezzi più quotati approfittando della fame. Paradossalmente, a quanto pare è ebreo di origini turche, e cerca di nasconderlo a qualunque costo. La moglie partecipa in pieno alla sua frenetica vita sociale, è altrettanto sgargiante nelle costanti apparizioni pubbliche, e non abbiamo dubbi che sarà tra le sue prime clienti. Ci auguriamo possa essere tra quelle che le daranno più lavoro, sia nelle confezioni sia al momento di informarci sulle sue attività.»

Non mi lasciò il tempo di guardare la foto perché chiuse subito la cartellina e la fece scivolare verso di me sulla tovaglia. Stavo per aprirla, ma mi fermò.

«Lo farà più tardi. Potrà portare con sé tutte le cartelline. Dovrà memorizzare le informazioni e distruggere i documenti e le fotografie non appena sarà sicura di averli ben chiari in testa. Bruci tutto. E’ assolutamente imprescindibile che questi dossier non arrivino a Madrid e che nessuno ne conosca il contenuto all’infuori di lei. E chiaro?»

Prima che potessi annuire, aprì la cartellina successiva e continuò. «Gloria von Fürstenberg. Di origini messicane, nonostante il nome; faccia molta

attenzione a quello che dirà davanti a lei perché capirà tutto. E’ straordinariamente bella, elegantissima, vedova di un nobile tedesco. Ha due figli piccoli e una situazione economica piuttosto disastrosa, perciò è sempre a caccia di un nuovo marito ricco o, in alternativa, di un uomo disposto a intaccare la propria fortuna per consentirle di mantenere un tenore di vita elevatissimo. Quindi si accompagna a gente potente; le si attribuiscono diversi amanti, fra cui l’ambasciatore egiziano e il milionario Juan March. La sua vita sociale è inarrestabile e gravita sempre intorno alla comunità nazista. Le darà abbastanza da fare anche lei, non ne dubiti, anche se a volte potrebbe tardare a saldare i conti.»

Rimise via i documenti. Mi passò la cartellina e io la misi sopra la precedente, senza aprirla. Passò alla terza.

«Elsa Bruckmann, nata principessa di Cantacuceno. Milionaria, adora Hitler anche se è molto più vecchia di lui. Dicono che sia stata lei a introdurlo nella fastosa vita sociale berlinese. Ha donato una vera e propria fortuna alla causa nazista. Ultimamente vive a Madrid, nella villa degli ambasciatori, non ne conosciamo il motivo. Ma sembra molto a suo agio e non si perde neanche un evento sociale. Ha fama di essere un po’ eccentrica e piuttosto indiscreta, può rivelarsi un libro aperto nel fornire informazioni di rilievo. Un’altra tazza di caffè?»

«Sì, ma lasci che lo serva io. Continui, l’ascolto.» «D’accordo, grazie. L’ultima tedesca: la contessa Mechthild Podewils, alta, bella, sulla trentina, separata, molto amica di Arnold, una delle

principali spie attive a Madrid, e di un ufficiale delle SS di nome Wolf, che in genere chiama usando il diminutivo Wolfchen, lupetto. Ha ottimi rapporti sia con i tedeschi sia con gli spagnoli, questi ultimi tutti appartenenti alle cerchie aristocratiche e governative, fra cui Miguel Primo de Rivera e Sàenz de Heredia, fratello di José Antonio, il fondatore della Falange. E un’agente nazista a tutti gli effetti, anche se non lo sa. Stando a quello

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che dice, non capisce un’acca di politica e spionaggio, ma per fornire informazioni su tutto quello che vede e sente viene pagata 15.000 pesetas mensili, una vera e propria fortuna nella Spagna di oggi.»

«Non faccio fatica a crederci.» «Passiamo alle spagnole. Piedad Iturbe von Scholtz, Piedita per gli amici. Marchesa

de Belvis de las Navas e moglie del principe Max de Hohenlohe-Langenburg, austriaco, ricco proprietario terriero, membro legittimo di una casata reale europea, anche se ha trascorso metà della sua vita in Spagna. In via di principio appoggia la causa tedesca perché è quella del suo paese, ma ha contatti costanti con noi e con gli americani: gli interessiamo per i suoi affari. Sono entrambi cosmopoliti e non sembrano apprezzare per niente i deliri del Führer. In realtà formano una coppia splendida e molto benvista in Spagna, ma diciamo che si muovono a metà fra due mondi. Vogliamo tenerli d’occhio per sapere se propendono più verso i tedeschi o verso di noi, capisce?» disse chiudendo la cartellina corrispondente.

«Capisco.» «Infine, ecco la più ambita, Sonsoles de Icaza, marchesa di Llanzol. E’ l’unica che

non ci interessa per il consorte, un militare aristocratico che ha trent’anni più di lei. Il nostro obiettivo non è il marito, infatti, ma l’amante: Ramon Serrano Suner, ministro degli Interni e segretario generale del Movimento. Il ministro dell’Asse, lo chiamiamo.»

«Il cognato di Franco?» chiesi sorpresa. «Proprio lui. Hanno una relazione piuttosto sfacciata, soprattutto da parte della

marchesa, che ostenta in pubblico senza la minima discrezione il suo legame con il secondo uomo più potente di Spagna. Si tratta di una donna elegante e altezzosa, dal carattere molto forte, faccia attenzione. Ma per noi ogni informazione sui movimenti e i contatti di Serrano Suner che non sia di dominio pubblico sarebbe di capitale importanza.»

Mascherai la sorpresa causata da quel commento. Sapevo che Serrano era galante, me lo aveva dimostrato lui stesso raccogliendo da terra il portacipria che avevo lasciato cadere ai suoi piedi, ma mi era parso anche un uomo discreto e controllato; facevo fatica a immaginarlo al centro di una scandalosa relazione extraconiugale con un’appariscente signora dell’alta aristocrazia.

«Ci rimane solo una cartellina, che contiene informazioni su varie persone» proseguì Hillgarth. «Stando ai dati in nostro possesso, è meno probabile che le mogli degli uomini menzionati qui abbiano urgenza di frequentare un atelier elegante subito dopo l’apertura, ma se così non fosse sarà bene che memorizzi i loro nomi. E soprattutto impari bene quelli dei mariti, i nostri veri obiettivi. E possibile che vengano menzionati nelle conversazioni di altre clienti, stia molto attenta.

Comincio. Leggerò in fretta, poi avrà tempo di riguardarsi tutto con calma. Paul Winzer, l’uomo forte della Gestapo a Madrid. Molto pericoloso; temuto e odiato anche da diversi suoi connazionali. E’ il cane da guardia di Himmler, il capo dei servizi segreti

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tedeschi, in Spagna. Ha a malapena quarant’anni, ma è una vecchia volpe. Sguardo perso, occhiali rotondi. Ha decine di collaboratori sparsi per Madrid, stia all’occhio. Poi: Walter Junghanns, uno dei nostri incubi peggiori.

E’ il maggior sabotatore di carichi di frutta spagnola diretti in Gran Bretagna: piazza bombe che hanno già ucciso diversi lavoratori. Poi: Karl Ernst von Merck, membro in vista della Gestapo con una grande influenza nel partito nazista. Poi: Johannes Franz Bernhardt, imprenditore...»

«Lo conosco.» «Scusi?» «L’ho conosciuto a Tetuàn.» «Quanto lo conosce?» chiese scandendo bene le parole. «Poco, pochissimo. Non ci ho mai parlato, ma abbiamo partecipato entrambi a

qualche ricevimento quando Beigbeder era alto commissario.» «Lui la conosce? La riconoscerebbe in un luogo pubblico?» «Ne dubito. Non ci siamo mai rivolti la parola e non credo che ricordi quegli

incontri.» «Perché ne è così sicura?» «Perché sì. Noi donne sappiamo perfettamente quando un uomo ci osserva con

interesse o quando lo fa come se guardasse un mobile.» Rimase in silenzio per qualche istante, come se stesse riflettendo su quello che aveva

sentito. «Psicologia femminile, immagino» disse poi, in tono scettico. «Proprio così.» «E la moglie?» «Le ho fatto un tailleur una volta. Ha ragione, non è una donna sofisticata. Non è il

tipo che si preoccupa di indossare abiti della stagione passata.» «Crede che potrebbe ricordarsi di lei, che la riconoscerebbe se la incontrasse da

qualche parte?» «Non lo so. Penso di no, ma non posso assicurarglielo. In ogni caso, anche se mi

riconoscesse non credo che sarebbe un problema. La mia vita a Tetuàn non contraddice quella che farò d’ora in avanti.»

«Non creda. Lei frequentava la signora Fox e, di conseguenza, era vicina in qualche modo anche al colonnello Beigbeder. A Madrid nessuno deve saperne niente.»

«In pubblico però li avvicinavo a malapena, e dei nostri incontri in privato Beigbeder e sua moglie non devono per forza essere al corrente.

Non si preoccupi, non credo che sorgeranno problemi.» «Lo spero. In ogni caso Bernhardt è abbastanza al di fuori dalle questioni legate

all’intelligence: si occupa di affari. E’ il prestanome del governo nazista in una complicatissima rete di società tedesche che operano in Spagna: trasporti, banche, assicurazioni...»

«Ha qualcosa a che vedere con la compagnia

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HISMA?» «HISMA, Hispano-marroqui de Transportes. E’ diventata troppo piccola per lui

quando ha fatto il salto verso la penisola. Adesso lavora con la copertura di un’azienda più potente, la SOFINDUS. Ma mi dica, come mai conosce la HISMA?»

«Ne ho sentito parlare a Tetuàn durante la guerra» risposi vagamente. Non era il momento di raccontare nei particolari il negoziato fra Bernhardt e Serrano

Suner; ormai era acqua passata. «Bernhardt» continuò «paga un esercito di informatori, ma in realtà cerca soprattutto

informazioni utili dal punto di vista commerciale. Speriamo che non vi incontriate mai; di fatto non abita neanche a Madrid, ma sulla

costa di Levante; si dice che Serrano Suner in persona gli abbia comprato una casa da quelle parti come ringraziamento per i servigi resi; non sappiamo se sia vero o no. Bene, ancora una cosa molto importante su di lui.»

«Mi dica.» «Wolframio.» «Cosa?» «Wolframio» ripeté. «Un minerale di vitale importanza per la fabbricazione di

componenti per i proiettili dell’artiglieria. Crediamo che Bernhardt sia coinvolto in trattative per ottenere dal governo spagnolo

concessioni minerarie in Galizia e in Estremadura, in modo da mettere le mani su alcuni piccoli giacimenti acquistandoli direttamente dai proprietari. Dubito che nel suo atelier si arrivi a parlare di questo, ma se sentisse qualcosa in proposito ci informi subito. Ricordi: wolframio. Viene chiamato anche tungsteno. E’ scritto qui, nella sezione dedicata a Bernhardt» disse indicando il documento.

«Lo terrò a mente.» Accendemmo un’altra sigaretta. «Bene, passiamo alle cose sconsigliate. E’ stanca?» «Per niente. Continui pure.» «Per quanto riguarda le clienti, c’è un gruppetto che deve evitare a ogni costo: le

funzionarie al servizio dei nazisti. Sono facilmente riconoscibili: vistose e arroganti, spesso molto truccate, profumate e vestite in modo sgargiante. In realtà si tratta di donne prive di pedigree sociale e con una posizione professionale piuttosto modesta, ma i loro stipendi, nella Spagna di oggi, sono astronomici e loro si impegnano a spenderli sfacciatamente. Le mogli dei nazisti potenti le disprezzano, e le funzionarie, nonostante le loro borie, non hanno il coraggio di fiatare davanti ai superiori. Se si facessero vedere all’atelier, se le levi di torno senza pensarci due volte: non le convengono, allontanerebbero la clientela che ci interessa.»

«Farò come dice, non si preoccupi.» «Quanto ai locali pubblici, le sconsigliamo di frequentare posti come il Chicote, il

Riscal, il Casablanca o il Pasapoga. Sono affollati di nuovi ricchi, gente che traffica con il mercato nero, parvenu del regime e persone del mondo dello spettacolo: compagnie

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poco raccomandabili nella sua situazione. Si limiti il più possibile agli hotel che le ho indicato prima, all’Embassy e ad altri posti sicuri come il Club di Puerta de Hierro o il Casinò. E ovviamente cerchi di farsi invitare a cene e feste frequentate da tedeschi in case private; nel caso, accetti subito.»

«Lo farò» dissi. Non gli feci capire che dubitavo di essere invitata a quel genere di eventi.

Guardò l’orologio e io feci lo stesso. La luce nella stanza era ormai scarsa, eravamo avvolti nel calar della sera. Intorno a noi, neanche un rumore; solo un forte odore di chiuso. Erano le sette passate e stavamo insieme dalle dieci del mattino: Hillgarth sparava informazioni come una manichetta che non si chiude e io le assorbivo da tutti i pori, con le orecchie, il naso e la bocca pronti a cogliere ogni dettaglio, masticando dati, inghiottendoli, cercando di rimanere impregnata dalle sue parole da cima a fondo. Il caffè era finito da un pezzo e il posacenere era colmo di mozziconi.

«Bene, abbiamo quasi finito» annunciò. «Devo solo farle ancora qualche raccomandazione. La prima è un messaggio della signora Fox. Vorrebbe che, nel suo aspetto e nelle sue creazioni, lei si sforzasse di essere audace, ardita, o di puntare a un’eleganza essenziale. In ogni caso la esorta a uscire dalle convenzioni e soprattutto a non fare le cose a metà perché, se così fosse, correrebbe il rischio di vedere il suo atelier gremito di signore del regime in cerca di castigati tailleur per andare a messa la domenica con marito e figli.»

Sorrisi. Anche nei messaggi da lontano Rosalinda non si smentiva mai. «Vista la persona da cui viene il consiglio, lo seguirò a occhi chiusi» affermai.

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«E ora, come ultima cosa, i nostri suggerimenti. Primo: legga i giornali, si tenga informata sulla situazione politica spagnola ed estera, considerando che ogni informazione sarà sempre viziata dai tedeschi. Secondo: non perda mai la calma. Entri nel suo ruolo e si convinca di essere quella che finge di essere, nessun altro. Agisca senza timori e con sicurezza: non possiamo offrirle l’immunità diplomatica, ma le assicuro che, in qualunque evenienza, sarà sempre protetta. Infine, la nostra terza e ultima raccomandazione: sia molto cauta nella sua vita privata. Una donna sola, bella e straniera è una preda molto ambita da seduttori e opportunisti di ogni risma. Non può neanche immaginare quante informazioni confidenziali siano state rivelate in modo irresponsabile da agenti distratti dalla passione. Stia all’erta, per favore, non condivida niente con nessuno, assolutamente niente di ciò che ha sentito qui.»

«Non lo farò, glielo assicuro.» «Perfetto. Confidiamo in lei e speriamo che la sua missione sia del tutto

soddisfacente.» A quel punto raccolse i fogli e riordinò la valigetta. Era arrivato il momento che

temevo da tutto il giorno: stava per andarsene e io dovetti trattenermi per non chiedergli di restare con me, di continuare a parlare e a impartirmi istruzioni, di non lasciarmi volare così presto da sola. Ma lui non mi guardava più, e probabilmente non si accorse neanche della mia reazione. Si muoveva allo stesso ritmo con cui aveva sgranato le sue frasi nelle ore precedenti: veloce, diretto, metodico; arrivando al cuore di ogni problema senza perdere un attimo in banalità.

Mentre prendeva le ultime cose, mi fece le raccomandazioni finali. «Ricordi quello che le ho detto a proposito dei dossier: li studi e poi li faccia sparire

subito. Qualcuno l’accompagnerà a un’uscita laterale, dove l’aspetta una macchina per portarla a casa. Ecco il suo biglietto aereo e il denaro per le prime spese.» Mi consegnò due buste. La prima, sottile, conteneva il biglietto per attraversare i cieli fino a Madrid.

La seconda, spessa, era piena di banconote. Continuò a parlare mentre allacciava con le dita agili le fibbie della cartella.

«Questo denaro coprirà le spese iniziali. Il soggiorno al Palace e l’affitto del nuovo atelier andranno direttamente sul nostro conto, è già tutto sistemato; così come lo stipendio delle ragazze che lavoreranno per lei. I proventi del suo lavoro saranno suoi. Ma se le servisse altro contante, ce lo faccia sapere subito: abbiamo una linea aperta per queste operazioni, non c’è alcun problema di finanziamento.»

Ormai ero pronta anch’io. Stringevo le cartelline al petto, proteggendole con le braccia come se portassi il figlio che avevo perso anni prima e non un ammasso di informazioni su un mucchio di persone indesiderabili. Il mio cuore era al solito posto e ubbidiva agli ordini senza balzarmi in gola rischiando di soffocarmi. Alla fine ci alzammo dal tavolo, dove rimasero solo quelli che potevano sembrare i resti innocenti di un lungo dopopranzo: le tazze vuote, un posacenere ricolmo e due sedie fuori posto. Come se quello fosse stato il teatro di una piacevole conversazione fra amici i quali, chiacchierando rilassati fra una sigaretta e l’altra, si fossero aggiornati sulle rispettive

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vite. Salvo che io e Hillgarth non eravamo amici. E che a nessuno dei due interessava minimamente il passato dell’altro; neppure il presente.

Entrambi eravamo preoccupati solo del futuro. «Un’ultima cosa» mi avvertì. Stavamo per uscire, aveva già la mano sulla maniglia. La tolse e mi guardò fisso da

sotto le folte sopracciglia. Nonostante la lunga riunione, era uguale a quando l’avevo incontrato al mattino: il nodo della cravatta impeccabile, i polsini della camicia che spuntavano candidi dalle maniche della giacca, neanche un capello fuori posto. Il suo volto continuava a essere impassibile, né particolarmente teso né particolarmente rilassato. L’immagine perfetta di un uomo capace di un grande autocontrollo in ogni situazione. Abbassò la voce fino a emettere solo un roco mormorio.

«Lei non mi conosce e io non conosco lei. Non ci siamo mai visti. Riguardo alla sua entrata nel servizio segreto britannico, a partire da questo momento

per noi lei non è più la cittadina spagnola Sira Quiroga o la marocchina Arish Agoriuq. Sarà solo un’agente speciale del SOE, nome in codice Sidi e base delle operazioni la Spagna. E il meno convenzionale dei nostri nuovi ingaggi, ma senza ombra di dubbio una dei nostri.»

Mi tese la mano. Ferma, fredda, sicura. La più ferma, la più fredda, la più sicura che avessi mai stretto in vita mia.

«Buona fortuna, agente. Ci terremo in contatto.»

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CAPITOLO 38 Nessuno tranne Dolores venne a sapere le vere ragioni della mia partenza improvvisa.

Né le mie clienti e neppure Félix o Candelaria; a tutti ripetei la stessa scusa: andavo a Madrid per svuotare il nostro appartamento e sbrigare alcune faccende. In seguito mia madre si sarebbe ingegnata a inventare piccole bugie per giustificare il protrarsi della mia assenza: prospettive d’affari, un malessere, forse un nuovo fidanzato. Non temevamo che qualcuno potesse sospettare un intrigo o trarre qualche conclusione: anche se i trasporti e le comunicazioni erano tornati normali, i contatti fra la capitale spagnola e il Nordafrica erano ancora molto limitati.

Comunque, volli salutare i miei amici e chiedere loro, senza esprimerlo a parole, che mi augurassero buona fortuna. Per farlo organizzammo un pranzo l’ultima domenica che trascorsi a Tetuàn. Candelaria arrivò vestita da gran signora a modo suo, con la sua acconciatura “Arriba Espana” gonfia e rigida di lacca sul davanti, una collana di perle false e un vestito nuovo che le avevamo cucito qualche settimana prima. Félix attraversò il pianerottolo con la madre, non fu possibile liberarsene.

C’era anche Jamila, che mi sarebbe mancata come una sorella minore. Brindammo con vino e seltz, e ci salutammo con baci schioccanti e auguri sinceri di

buon viaggio. Solo quando chiusi la porta dietro l’ultimo ospite mi resi conto di quanto mi sarebbero mancati.

Con il commissario Vàzquez usai la stessa strategia, ma capii subito che l’inganno non aveva funzionato. Non potevo certo ingannarlo, conosceva benissimo tutte le questioni che avevo ancora in sospeso e il panico che mi avrebbe suscitato l’affrontarle. Fu l’unico a intuire che dietro il mio innocente viaggio c’era qualcosa di più complicato; qualcosa di cui non potevo parlare. Né a lui né a nessuno.

Forse proprio per quel motivo preferì non indagare. Di fatto non disse quasi niente: si limitò, come al solito, a guardarmi con i suoi occhi fulminanti e a consigliarmi di fare attenzione. Poi mi accompagnò all’uscita per proteggermi dai suoi sottoposti bavosi per l’eccitazione.

Sulla soglia del commissariato ci salutammo. Fino a quando? Nessuno dei due lo sapeva. Forse ci saremmo rivisti presto. Forse mai.

Oltre alle stoffe e agli strumenti per il cucito, comprai un buon numero di riviste e alcuni pezzi d’artigianato marocchino per dare al mio atelier madrileno un’aria esotica, in accordo con il mio nuovo nome e il mio presunto passato di prestigiosa creatrice di moda tangerina. Vassoi di rame sbalzato, lampade con vetri di mille colori, teiere d’argento, qualche ceramica e tre grandi tappeti berberi. Un pezzo d’Africa al centro della Spagna esausta.

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Quando entrai per la prima volta nel grande appartamento di calle Nunez de Balboa, tutto era pronto ad aspettarmi. Le pareti dipinte con una vernice bianca satinata, il palchetto di rovere appena lucidato. La distribuzione, l’organizzazione e l’ordine degli spazi erano una replica in grande della mia casa di calle Sidi Mandri. La prima zona consisteva in tre sale successive comunicanti, con una superficie tre volte maggiore rispetto al mio vecchio salone. I soffitti erano infinitamente più alti, i balconi più signorili. Ne aprii uno, ma quando mi affacciai non vidi il monte Dersa, né il massiccio del Gorgues, nell’aria non c’era ombra del profumo dei fiori d’arancio e gelsomino, i muri non erano imbiancati a calce, e non risuonava la voce del muezzin che chiamava alla preghiera dalla moschea. Chiusi in fretta e furia per sbarrare il passo alla malinconia. Andai avanti. Nell’ultima delle tre stanze principali c’erano i rotoli di stoffa arrivati da Tangeri, un assortimento meraviglioso di seta, dupion di seta, guipure, mussola e chiffon in tutte le tonalità immaginabili, dalla tinta che ricordava la sabbia della spiaggia fino al rosso fuoco, il rosa e il corallo, tutti i blu possibili, dal cielo di una mattina d’estate al mare agitato in una notte di tempesta. Le sale prove erano due, e sembravano grandi il doppio grazie agli specchi a tre ante con le cornici dorate. Il laboratorio, come quello di Tetuàn, occupava la zona centrale dell’appartamento, ma era infinitamente più ampio. Il grande tavolo da taglio, le assi da stiro, i manichini nudi, i fili e gli strumenti, le solite cose. In fondo alla casa, il mio spazio: immenso, eccessivo, dieci volte più grande delle mie necessità. Intuii subito la mano di Rosalinda in quell’allestimento. Solo lei sapeva come lavoravo, come avevo organizzato la mia casa, le mie cose, la mia vita.

Nel silenzio del nuovo appartamento tornò a bussare alla porta della mia coscienza la domanda che mi martellava in testa da un paio di settimane.

Perché, perché, perché? Perché avevo accettato, perché mi ero imbarcata in un’avventura incerta ed estranea, perché? Continuavo a non trovare una risposta. O perlomeno una risposta precisa. Forse avevo accettato per lealtà nei confronti di Rosalinda. Forse perché pensavo di doverlo a mia madre e al mio paese. Forse non l’avevo fatto per nessuno, o solo per me stessa. Sta di fatto che avevo detto sì, eccomi: pienamente consapevole, ripromettendomi di affrontare quell’impegno con determinazione e senza esitazioni, ripensamenti o incertezze. Ed eccomi qui, ingabbiata nella personalità dell’inesistente Arish Agoriuq, mentre giravo nel suo nuovo habitat facendo risuonare i tacchi sulle scale, con un abito di gran classe e pronta a diventare la creatrice di moda più falsa di Madrid. Avevo paura? Sì, tutta la paura del mondo concentrata alla bocca dello stomaco. Ma la tenevo a bada. L’avevo addomesticata.

Era ai miei ordini. Il portiere dell’edificio mi consegnò il primo messaggio. Le ragazze al mio servizio si

sarebbero presentate la mattina seguente. Dora e Martina arrivarono insieme, fra loro c’erano due anni di differenza. Erano simili e diverse allo stesso tempo, quasi complementari. Dora aveva un fisico più bello, Martina la superava nei tratti. Dora sembrava più sveglia, Martina più dolce. Mi piacquero entrambe. Non mi piacquero

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invece gli abiti miseri che indossavano, le facce da fame arretrata e la loro ritrosia. Le tre cose, fortunatamente, trovarono presto una soluzione. Presi subito le misure di entrambe e in poco tempo confezionai un paio di uniformi eleganti per ciascuna: erano le prime beneficiarie dell’arsenale di stoffe tangerine.

Con qualche banconota presa dalla busta di Hillgarth le mandai al mercato di La Paz a fare provviste. «Cosa dobbiamo comprare, signorina?» chiesero con gli occhi spalancati. «Quello che trovate, dicono che non ci sia granché. Vedete un po’ cosa c’è. Non avete detto che sapete cucinare? Allora forza, andate.» La timidezza tardò a scomparire, ma a poco a poco si attenuò. Perché erano così introverse, che cosa temevano? Tutto. Lavorare per la straniera africana che io ero in teoria, l’edificio imponente che ospitava il mio nuovo domicilio, la paura di non sapersela cavare in un sofisticato atelier. Ma giorno dopo giorno cominciarono a adattarsi alla nuova vita: alla casa e alle abitudini quotidiane, a me. Dora, la maggiore, aveva una buona mano per il cucito e presto cominciò ad aiutarmi. Martina, invece, era più della scuola di Jamila e della mia giovinezza: le piaceva stare per strada, fare commissioni, andare avanti e indietro in continuazione. Si occupavano della casa insieme, erano efficienti e discrete, due brave ragazze, come si diceva allora. A volte parlavano di Beigbeder; non dissi mai che lo conoscevo. Lo chiamavano il signor Juan. Lo ricordavano con affetto; lo associavano a Berlino, a un passato di cui conservavano molti ricordi e tracce della parlata. Tutto andò secondo le previsioni di Hillgarth. Più o meno. Arrivarono le prime clienti, alcune previste, altre no. Aprì la stagione Gloria von Fürstenberg, bella, maestosa, con i capelli scuri raccolti in grosse trecce che formavano una specie di corona nera da dea azteca sulla nuca. I suoi occhioni brillarono quando vide le mie stoffe.

Le osservò, le toccò e le soppesò, chiese i prezzi, ne scartò alcune subito e provò l’effetto che altre le facevano addosso. Scelse con occhio esperto i tessuti che le stavano meglio fra quelli non troppo costosi. Diede anche un’occhiata da esperta alle riviste, soffermandosi sui modelli più consoni alle sue forme e al suo stile. Quella messicana dal cognome tedesco sapeva perfettamente quello che voleva, non mi chiese consigli e io non mi disturbai a dargliene. Alla fine optò per una tunica di gazar color cioccolato e un cappotto da sera di ottoman.

La prima volta venne da sola e parlammo in spagnolo. Alla prova portò con sé un’amica, Anika Von Fries, che mi ordinò un abito lungo in crèpe georgette e una mantella di velluto color rubino con l’orlo di piume di struzzo. Quando le sentii parlare entrambe in tedesco, feci venire Dora.

Ben vestita, ben nutrita e ben pettinata, la ragazza non somigliava neanche vagamente al passerotto spaventato arrivato con la sorella poche settimane prima: era diventata un’aiutante svelta e silenziosa che immagazzinava tutto quello che coglievano le sue orecchie e usciva senza dare nell’occhio a intervalli di pochi minuti per scrivere su un quaderno ogni particolare. «Mi piace tenere un registro preciso di tutte le mie clienti» le avevo detto. «Voglio capire quello che dicono per sapere dove vanno, con chi si accompagnano e che programmi hanno. In questo modo posso trovare nuove clienti. Io

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mi occupo di tutto quello che viene detto in spagnolo, ma le conversazioni in tedesco spettano a te.» Se Dora si stupì di quel controllo stretto delle clienti, non lo diede a vedere. Con ogni probabilità pensava che fosse una richiesta ragionevole, abituale in quell’attività così nuova per lei. Ma non lo era; non lo era affatto. Annotare sillaba per sillaba i nomi, le funzioni, i luoghi e le date che uscivano dalla bocca delle clienti non era un incarico normale, eppure noi lo svolgevamo ogni giorno in modo diligente e metodico, come brave scolarette. Poi, di sera, controllavo i miei appunti e quelli di Dora, ne estraevo le informazioni che mi sembravano interessanti, le sintetizzavo in frasi brevi e alla fine le trascrivevo nel codice Morse al contrario, adattando le linee corte e lunghe ai contorni rettilinei e curvi di quei frammenti di cartamodello che non avrebbero mai formato un abito intero. I fogli con gli appunti manoscritti diventavano cenere all’alba, grazie a un semplice cerino. La mattina successiva non restava neanche una lettera delle parole scritte, ma una manciata di messaggi nascosti nel contorno di un risvolto, di un cinturino o di un carré. Venne all’atelier anche la baronessa de Petrino, la moglie del potente addetto stampa Lazar: infinitamente meno spettacolare della messicana, ma con possibilità economiche molto maggiori. Scelse le stoffe più care, concedendosi ogni capriccio. Portò altre clienti, due tedesche e anche un’ungherese. Spesso, durante la mattinata, i miei saloni divennero per loro un punto di incontro sociale, con un miscuglio di lingue in sottofondo. Insegnai a Martina a preparare il tè marocchino, con la menta che avevamo piantato in vasi di terracotta sul davanzale della cucina. La istruii su come maneggiare le teiere, come versare il liquido bollente nei bicchierini filigranati d’argento; le feci addirittura vedere come truccarsi gli occhi con il kohl e le cucii un caffettano in raso color gardenia, per darle un’aria esotica. Una copia della mia Jamila in un’altra terra, perché me la ricordasse sempre. Andava tutto bene; straordinariamente bene. Conducevo la mia nuova vita sicura di me, entravo nei locali migliori a passo deciso. Trattavo le clienti con disinvoltura e decisione, protetta dall’armatura del mio falso esotismo. Infilavo con sfacciataggine parole francesi e arabe nelle conversazioni: probabilmente dicevo una serie di stupidaggini, visto che ripetevo di continuo semplici espressioni memorizzate a forza di sentirle per le vie di Tangeri e Tetuàn, ma di cui non conoscevo il significato e l’uso preciso. Mi sforzavo perché in quella parlata poliglotta artefatta e confusa non mi scappasse una raffica dell’inglese frammentato imparato da Rosalinda. La mia condizione di straniera appena arrivata era un utile rifugio per nascondere i miei punti deboli ed evitare di addentrarmi in terreni pericolosi. Le clienti del resto non sembravano granché interessate alle mie origini: erano attratte molto di più dalle mie stoffe e da quello che ne potevo fare cucendole. Nell’atelier le donne chiacchieravano, sembravano a loro agio. Parlavano fra loro e con me di quello che avevano fatto, di quello che pensavano di fare, degli amici comuni, dei mariti e degli amanti. Io e Dora lavoravamo senza sosta: con le stoffe, con i figurini e le misure allo scoperto; con gli appunti segreti nelle retrovie. Non sapevo se i dati che trascrivevo quotidianamente avessero qualche valore per Hillgarth e la sua gente, ma per ogni evenienza mi sforzavo di essere precisa e rigorosa. Il mercoledì pomeriggio, prima

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dell’appuntamento dal parrucchiere, lasciavo il cilindro di modelli nell’armadietto concordato. Ogni sabato andavo al Prado, meravigliata da quella scoperta; tanto che a volte finivo quasi per dimenticare l’importante compito da svolgere, e che non ero lì solo per ammirare estasiata i dipinti. Non ebbi il minimo inconveniente neanche con il traffico di buste piene di cartamodelli codificati: andava tutto così liscio che non sentii mai i morsi dell’inquietudine. A prendere in consegna la mia cartellina c’era sempre la stessa persona, un inserviente calvo e magro che probabilmente aveva il compito di far uscire i miei messaggi, anche se non mi rivolse mai il minimo cenno di complicità. A volte uscivo, ma non tanto. Andai qualche volta all’Embassy, all’ora dell’aperitivo. Individuai da lontano fin dal primo giorno il capitano Hillgarth, che beveva whisky con ghiaccio seduto in mezzo a un gruppo di connazionali. Anche lui notò subito la mia presenza, ovviamente. Ma solo io me ne accorsi: la sua postura non subì il minimo cambiamento al mio arrivo. Tenni la borsa fermamente nella mano destra e fingemmo di non vederci. Salutai un paio di clienti che elogiarono pubblicamente il mio atelier davanti ad altre signore; sorseggiai un cocktail con loro, ricevetti sguardi di ammirazione da diversi uomini, e dall’alto del mio cosmopolitismo osservai senza dare nell’occhio la gente intorno a me. Classe, frivolezza e denaro allo stato puro, suddivisi fra il bancone e i tavoli di una saletta d’angolo, arredata senza ostentazione. C’erano signori con abiti di lana di ottima qualità, di alpaca e tweed, militari con la svastica al braccio e altri con divise straniere che non riconobbi, con galloni e stelle a molte punte sul bordo delle maniche. C’erano signore elegantissime in tailleur, con al collo tre giri di perle grosse come nocciole; con il rossetto impeccabile sulle labbra e cuffiette, turbanti o cappelli divini sulle teste dall’acconciatura perfetta. C’erano conversazioni in diverse lingue, risate aperte e il rumore di finestre che sbattevano. E nell’aria una scia sottile di profumi di Patou e Guerlain, la sensazione del più mondano savoir-faire e il fumo di mille sigarette bionde. In quell’ambiente sofisticato senza contrasti, la guerra spagnola appena conclusa e il conflitto brutale che devastava l’Europa sembravano aneddoti di un’altra galassia. In un angolo del bancone, eretta e dignitosa, impegnata a salutare cordialmente i clienti mentre controllava il movimento incessante dei camerieri, intravidi quella che doveva essere la proprietaria del locale, Margaret Taylor. Hillgarth non mi aveva rivelato il tipo di collaborazione che c’era fra loro, ma non avevo dubbi che andasse ben al di là di un semplice scambio di favori tra la padrona di un locale pubblico e uno dei suoi clienti abituali. La osservai mentre consegnava il conto a un ufficiale nazista dalla divisa nera, la fascia con la croce uncinata e gli alti stivali lucidi come specchi. Quella straniera dall’aspetto austero e distinto insieme, che doveva aver superato la quarantina già da qualche anno, era sicuramente un altro elemento della giostra clandestina organizzata in Spagna dall’addetto navale britannico. Non riuscii a vedere se in qualche momento lei e il capitano Hillgarth si scambiassero occhiate, qualche genere di messaggio silenzioso. Li sbirciai con la coda dell’occhio prima di andarmene. Lei parlava con discrezione a un giovane cameriere in giacca bianca, sembrava che gli stesse impartendo istruzioni. Lui era sempre al suo tavolo e ascoltava

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con attenzione il racconto di un amico. L’intero gruppo che lo circondava sembrava altrettanto interessato alle parole di un

uomo giovane con un aspetto più spigliato degli altri. Da lontano riuscii a vedere che gesticolava in modo teatrale, forse imitava qualcuno. Alla fine tutti scoppiarono a ridere e vidi che anche l’addetto navale rideva di gusto. Forse fu solo frutto della mia immaginazione, ma per un millesimo di secondo mi sembrò che spostasse lo sguardo su di me e mi strizzasse l’occhio. Mentre Madrid si avvolgeva d’autunno, il numero delle mie clienti aumentava. Non avevo ancora ricevuto fiori o cioccolatini, né da Hillgarth né da altri. Né volevo. O avevo tempo. Perché se c’era una cosa che cominciava a scarseggiare in quei giorni era proprio quello: il tempo. La fama del mio nuovo atelier si era diffusa in fretta, si era sparsa la voce che avevo stoffe spettacolari. Il numero degli ordini aumentava ogni giorno e non riuscivo più a stare dietro a tutto; a un certo punto mi vidi costretta a rimandare le ordinazioni e a diradare le prove. Lavoravo molto, moltissimo, più di quanto avessi mai fatto in vita mia. Andavo a letto piuttosto tardi, mi alzavo all’alba, non riposavo quasi mai; c’erano giorni in cui non mi toglievo dal collo il metro a nastro fino al momento di infilarmi nel letto. Il flusso di denaro nella mia piccola cassaforte era costante, ma mi interessava così poco che non mi soffermavo neanche a contare i soldi messi da parte. Era tutto diverso rispetto al vecchio atelier. Mi venivano in mente i primi tempi a Tetuàn, a cui ripensavo con un pizzico di nostalgia. Le notti passate a contare e ricontare le banconote nella camera da letto di calle Sidi Mandri, calcolando quanto mi mancava per saldare il debito. Candelaria che tornava di corsa dai cambiavalute ebrei con un rotolo di sterline nascosto nel seno. La nostra gioia quasi infantile quando ci dividevamo la somma: «Metà a me e metà a te.

Che non ci manchino mai, tesoro mio» diceva ogni mese la contrabbandiera.

Sembravano passati secoli da allora, e invece erano trascorsi solo quattro anni. Quattro anni lunghi come quattro eternità. Dov’era la Sira a cui una ragazzina araba aveva tagliato i capelli con le forbici da cucito nella cucina di una pensione di calle de La Luneta? Dov’erano le pose provate tante volte davanti allo specchio crepato della mia padrona di casa? Si erano perse nelle pieghe del tempo. Ormai mi acconciavo i capelli nel miglior salone di bellezza di Madrid, e quei gesti disinvolti erano miei tanto quanto i denti che avevo in bocca. Lavoravo parecchio e guadagnavo più soldi di quanti mi sarei mai sognata di poter ottenere con i miei sforzi. Le mie tariffe erano alte e ricevevo di continuo biglietti da cento pesetas con la faccia di Cristoforo Colombo, e da cinquecento con quella di don Giovanni d’Austria. Guadagnavo molto, certo, ma arrivò un momento in cui le mie forze si esaurirono e lo feci sapere a Hillgarth con il cartamodello di una spallina. Sul Museo del Prado quel sabato pioveva.

Mentre contemplavo estasiata i dipinti di Velàzquez e Zurbaràn, l’uomo anodino del guardaroba ritirò la mia cartellina, che conteneva una busta con undici messaggi che sarebbero arrivati poco dopo all’addetto navale.

Dieci contenevano informazioni normali abbreviate come eravamo d’accordo. “Cena

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giorno 14 residenza Walter Bastian calle Serrano, partecipano signori Lazar. Signori Bodemueller a San Sebastiàn settimana prossima. Moglie Lazar fa commenti negativi su Arthur Dietrich, aiutante marito. Gloria Fürstenberg e Anka Frier incontrano console tedesco Siviglia fine ottobre. Uomini giovani arrivati settimana scorsa da Berlino, alloggiati Ritz, Friedrich Knappe li riceve e prepara. Marito Frau Hahn non apprezza Kutschmann. Himmler arriva Spagna 21 ottobre, governo e tedeschi preparano grande accoglienza. Clara Stauffer raccoglie materiale per soldati tedeschi casa sua calle Galileo. Cena club Puerta de Hierro data non precisata partecipano conti Argillo.

Hàberlein organizza pranzo suo palazzo Toledo, Serrano Suner e marchesa Llanzol invitati.” L’ultimo messaggio, diverso, comunicava qualcosa di molto più personale: “Troppo lavoro. Manca tempo per tutto. Meno clienti o cercare aiuto. Informi per favore”. La mattina seguente arrivò alla mia porta un bel mazzo di gladioli bianchi. Lo consegnò un fattorino con la divisa grigia e il nome del fioraio ricamato sul berretto: Bourguignon. Lessi prima il biglietto. “Sempre pronto a esaudire i tuoi desideri” e uno scarabocchio come firma. Risi: facevo fatica a immaginare l’algido Hillgarth che scriveva una frase così ridicolmente mielosa. Portai il mazzo in cucina, slegai il nastro che teneva uniti i fiori; dopo aver chiesto a Martina di metterli nell’acqua, mi chiusi in camera. Il messaggio saltò subito fuori in una linea discontinua di tratti lunghi e brevi. “Assuma persona di fiducia senza passato rosso né coinvolgimento politico.” Ordine ricevuto. Poi, l’incertezza.

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CAPITOLO 39 Quando aprì la porta non dissi nulla; rimasi ferma a guardare mentre trattenevo la

voglia di abbracciarla. Mi osservò confusa, esaminandomi con lo sguardo. Poi cercò i miei occhi, ma forse la voilette del cappello non le permise di vederli. «Dica, signora» disse alla fine. Era più magra. E gli anni trascorsi avevano lasciato segni evidenti. Piccola come sempre, ma più sottile e invecchiata. Sorrisi. Non mi aveva ancora riconosciuta. «Le porto i saluti di mia madre, signora Manuela. E’ in Marocco, è tornata a cucire.» Mi guardò stupita, senza capire. Era vestita con la solita cura, ma i suoi capelli non vedevano una tinta da un paio di mesi e l’abito scuro che indossava recava le tracce di diversi inverni. «Sono Sira, signora Manuela. Sirita, la figlia della sua lavorante Dolores.» Mi squadrò dalla testa ai piedi, dai piedi alla testa. Mi chinai per mettermi alla sua altezza e sollevai la veletta del cappello perché potesse vedermi meglio in faccia. «Sono io, signora Manuela, Sira. Non si ricorda di me?» sussurrai. «Per l’amor di Dio! Sira, figlia mia, che gioia!» disse alla fine. Mi abbracciò e scoppiò a piangere mentre io mi sforzavo di non fare lo stesso. «Vieni, figliola, entra, non startene sulla porta» disse quando riuscì finalmente a contenere l’emozione. «Ma quanto sei elegante, piccola; non ti avevo riconosciuta. Entra, vieni nel salone e raccontami che fai a Madrid, come vanno le tue cose, come sta tua madre.» Mi condusse nella stanza principale e sentii di nuovo i morsi della nostalgia. Quante volte, da bambina, ero entrata in quella sala per mano a mia madre il giorno dell’Epifania, quante emozioni avevo provato cercando di indovinare il regalo che mi aspettava in casa della signora Manuela. Ricordavo il suo appartamento di calle Santa Engracia come una dimora ampia e lussuosa; non tanto come quello in calle Zumbrano che ospitava l’atelier, ma infinitamente meno modesto del nostro in calle de la Redondilla. Durante quella visita, invece, mi resi conto che i ricordi d’infanzia avevano impregnato la mia memoria di una percezione distorta della realtà. La casa in cui la signora Manuela aveva vissuto tutta la sua vita di donna nubile non era né grande né opulenta. Si trattava di un appartamento di medie dimensioni e mal distribuito, freddo, buio e pieno di mobili pesanti e tendoni di velluto antiquato che lasciavano entrare a stento la luce; una casa normale con macchie di umidità, stampe scolorite alle pareti e tristi centrini di pizzo in ogni angolo. «Siediti, figliola, siediti. Vuoi qualcosa da bere? Ti preparo un caffè? In realtà non è caffè ma cicoria, sai bene quanto è difficile trovare cibo di questi tempi; se ci metti un po’ di latte il sapore si confonde, anche se viene fuori sempre più acquoso; ma cosa dobbiamo fare? Zucchero non ce n’è, ho dato la mia tessera annonaria a una vicina per i suoi bambini; alla mia età non è così importante...» La interruppi prendendole una mano. «Non voglio niente, signora Manuela, non si preoccupi. Sono solo venuta a trovarla perché devo chiederle

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una cosa.» «Dimmi, allora.» «Cuce ancora?» «No, figliola, no. Da quando abbiamo chiuso l’atelier, nel ‘35, non ho più cucito. Faccio qualche lavoretto per le amiche o a pagamento, ma nient’altro. Se non ricordo male, il tuo abito da sposa è stato l’ultima cosa importante che ho fatto, e alla fine...» Preferivo non pensare ai ricordi che quella frase portava con sé e non la lasciai finire. «Verrebbe a cucire con me?» Per qualche secondo non rispose, sconcertata. «Intendi tornare a lavorare? Tornare alla mia vita di sempre, come una volta?» Annuii sorridendo, cercando di infondere una nota di ottimismo nel suo turbamento. Ma non rispose subito; prima spostò la conversazione su un altro argomento. «E tua madre? Perché sei venuta da me invece di cucire con lei?» «Gliel’ho detto, è ancora in Marocco. Se n’è andata durante la guerra, non so se l’ha saputo.» «Lo so, lo so...» disse sottovoce, come se avesse paura che qualcuno potesse sentirla e violare il segreto. «E’ comparsa un pomeriggio all’improvviso, inaspettata come te oggi. Mi ha detto che avevano organizzato tutto per portarla in Africa, che tu eri lì ed eri riuscita a fare in modo che qualcuno la tirasse fuori da Madrid. Non sapeva che fare, era spaventata. Era venuta per avere un consiglio, voleva sapere cosa ne pensavo.» Il mio trucco impeccabile non lasciò trasparire il turbamento che provai sentendo le sue parole: non avrei mai immaginato che mia madre fosse stata in dubbio se rimanere o andarsene. «Io le ho detto di farlo, di partire il prima possibile» proseguì. «Madrid era un inferno. Abbiamo sofferto tutti molto, figlia mia, tutti. Quelli di sinistra, che lottavano giorno e notte per non far entrare in città i nazionalisti. Quelli di destra, che aspettavano nascosti per non farsi trovare e non finire in un carcere clandestino. E quelli che non appartenevano a nessuna delle due fazioni, come me e tua madre, speravano solo che finisse quell’orrore per ricominciare a vivere in pace. E tutto senza un governo a comandare; senza nessuno a mettere un po’ d’ordine in quel caos. Quindi le ho consigliato di andarsene, di uscire da questa situazione angosciante e di non sprecare l’occasione di riabbracciarti.» Nonostante la perplessità che il suo discorso aveva suscitato in me, preferii non chiederle niente su quell’incontro ormai lontano. Ero andata a trovare la mia vecchia maestra con un progetto per l’immediato futuro e decisi di procedere in quella direzione. «Ha fatto bene a incoraggiarla, non sa quanto le sono grata, signora Manuela» dissi. «Ora sta benissimo, è contenta e lavora di nuovo. Ho aperto un atelier a Tetuàn nel ‘36, pochi mesi dopo l’inizio della guerra. La situazione lì era calma, e anche se le signore spagnole non erano in vena di feste e di moda c’erano le straniere, a cui la guerra importava pochissimo e che sono diventate mie clienti. Quando è arrivata mia madre, abbiamo continuato a cucire insieme. E ora ho deciso di tornare a Madrid per aprire un altro atelier.» «Sei tornata da sola?» «Sono sola da tempo, signora Manuela. Se si riferisce a Ramiro, la storia non è durata molto.» «Quindi Dolores è rimasta lì?» chiese sorpresa. «Ma se è andata via proprio per stare vicino a te...» «Il Marocco le piace: il clima, l’ambiente, la vita tranquilla... Abbiamo ottime clienti e si è fatta anche qualche amica. Ha preferito rimanere. Io invece sentivo la mancanza di Madrid» mentii. «Così abbiamo pensato che io sarei tornata e avrei cominciato a lavorare, e quando i due atelier saranno entrambi in funzione decideremo il da farsi.» Mi

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fissò per qualche secondo, che si rivelò eterno. Le sue palpebre erano cadenti, il volto solcato dalle rughe. Doveva avere più di sessant’anni, forse quasi settanta. La schiena curva e i calli alle mani mostravano i segni dei lunghi anni di duro lavoro con l’ago e le forbici. Prima come semplice sartina, poi come lavorante in un atelier. Più tardi come titolare di un’attività e, alla fine, inattiva, come un marinaio senza nave. Ma non era finita, anzi. I suoi occhi vivaci, piccoli e scuri come olive nere, riflettevano la lucidità di chi ha ancora la testa ben salda sul collo.

«Figliola, non mi stai dicendo tutto, vero?» chiese alla fine. Vecchia volpe, pensai con ammirazione. Avevo dimenticato quanto fosse furba. «No, signora Manuela, non le ho detto tutto» ammisi. «Non le dico tutto perché non

mi è permesso farlo. Ma posso raccontarle qualcosa. Deve sapere che a Tetuàn ho conosciuto persone importanti, gente molto influente ancora oggi. Mi hanno spinta loro a venire a Madrid, ad aprire un atelier e a cucire per clienti della classe alta. Non per le donne vicine al regime, ma soprattutto per le straniere e le signore aristocratiche e monarchiche, convinte che Franco stia usurpando il posto del re.»

«Perché?» «Perché cosa?» «Perché i tuoi amici vogliono che lavori per queste signore?» «Non posso dirglielo. Però mi serve il suo aiuto. Ho portato delle stoffe magnifiche

dal Marocco e qui i tessuti scarseggiano. Si è sparsa la voce e ho acquisito una buona fama; ma proprio per questo ho più clienti del previsto e non riesco ad accontentarle tutte da sola.»

«Perché, Sira?» ripeté lentamente. «Perché cuci per queste signore, cosa volete tu e i tuoi amici da loro?»

Strinsi le labbra con fermezza, decisa a non farmi sfuggire neanche una parola. Non potevo. Non dovevo. Ma una forza estranea parve spingere la mia voce a uscire. Come se la signora Manuela avesse ripreso il comando e io fossi solo un’apprendista adolescente; come quando aveva tutto il diritto di estorcermi spiegazioni sul perché fossi scappata dal lavoro per un’intera mattinata mentre andavo a comprare tre dozzine di bottoni di madreperla in plaza de Pontejos. A

parlare furono le mie viscere e il passato, non io. «Lavoro per ottenere da loro informazioni su quello che fanno i tedeschi in Spagna.

Poi le passo agli inglesi.» Mi morsi il labbro inferiore non appena ebbi pronunciato l’ultima sillaba, consapevole

della mia imprudenza. Mi dispiacque aver tradito la promessa fatta a Hillgarth di non rivelare a nessuno la mia missione, ma ormai non potevo tornare indietro. Pensai di chiarire la situazione: aggiungere che il bene della Spagna era restare neutrale, che non eravamo nelle condizioni di affrontare un’altra guerra; tutte le cose su cui avevano tanto insistito. Ma non fu necessario: prima che potessi dire altro notai una luce strana negli occhi della signora Manuela. Una luce negli occhi e un sorriso appena accennato a un angolo della bocca.

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«Al fianco dei connazionali della regina Vittoria Eugenia, figlia mia, tutto quello che serve. Dimmi solo quando vuoi che cominci.»

Parlammo per l’intero pomeriggio. Ci organizzammo per suddividerci il lavoro e alle nove del mattino del giorno successivo era a casa mia.

Accettò molto volentieri di ricoprire un ruolo secondario nell’atelier. Non trattare direttamente con le clienti fu quasi un sollievo, per lei. Raggiungemmo un accordo perfetto: come avevano fatto per anni lei e mia madre, ma

con i ruoli invertiti. Accettò la nuova posizione con l’umiltà dei grandi: si adattò alla mia vita e al mio ritmo, andò d’accordo con Dora e Martina, apportò la sua esperienza e un’energia che tante donne con trent’anni di meno avrebbero voluto avere. Mi lasciò senza problemi la conduzione dell’attività, si adeguò alle mie linee e alle mie idee poco convenzionali e a svolgere mille compiti che tante volte avevano eseguito le apprendiste che lavoravano per lei. Tornare sulla breccia dopo i duri anni di inattività fu per lei un dono del cielo, e come i papaveri di un campo bagnato dalle piogge d’aprile si lasciò alle spalle i giorni spenti e tornò alla vita.

Con la signora Manuela al comando delle retrovie, le giornate di lavoro nell’atelier divennero più tranquille. Continuavamo a cucire entrambe per lunghe ore, ma potei finalmente iniziare a muovermi in modo meno precipitoso e a godermi un po’ di tempo libero. La mia vita sociale si intensificò: le clienti mi chiedevano di assistere a mille eventi, ansiose di esibirmi come la grande scoperta del momento. Accettai l’invito a un concerto di bande militari tedesche al Parque del Retiro, a un cocktail presso l’ambasciata turca, a una cena in quella austriaca e a qualche pranzo in posti alla moda. Gli uomini cominciarono a ronzarmi intorno come mosconi: celibi di passaggio, sposati con la pancia e abbastanza soldi da mantenere tre amanti, o pittoreschi diplomatici provenienti dai più esotici confini del mondo. Me li toglievo di torno dopo due bicchieri e un ballo: l’ultima cosa di cui avevo bisogno in quel momento era una presenza maschile nella mia vita.

Eppure non ci furono solo feste e divertimenti, anzi. La signora Manuela aveva alleviato la mia esistenza quotidiana, ma il suo arrivo non aveva portato con sé una tranquillità definitiva. Poco dopo che mi ero tolta dalle spalle il pesante fardello del lavoro solitario, all’orizzonte comparve un altro nuvolone. Il semplice fatto di camminare con meno premura per strada, di potermi fermare davanti a qualche vetrina e rallentare il ritmo dei miei andirivieni, mi fece notare qualcosa di cui non mi ero resa conto fino ad allora; una cosa di cui Hillgarth mi aveva avvisato nel lungo dopopranzo a Tangeri. Mi accorsi che qualcuno mi seguiva. Forse avveniva da molto tempo e la mia fretta costante mi aveva impedito di rendermene conto. O forse era una novità, che per combinazione coincideva con l’inserimento della signora Manuela da Chez Arish. Di fatto sembrava che nella mia vita fosse entrata un’ombra. Non un’ombra permanente, neanche quotidiana e neppure completa; forse per quello avevo fatto fatica a rendermi pienamente conto della sua vicinanza. In un primo momento pensai che fosse uno scherzo della mia immaginazione. Era autunno, Madrid era affollata di uomini che

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portavano un cappello e un impermeabile con il colletto rialzato. In effetti era un’immagine maschile molto comune nel dopoguerra, e cento repliche quasi identiche affollavano ogni giorno le strade, gli uffici e i caffè della città. La figura dell’uomo che si bloccò con il volto girato nel momento in cui mi fermai per attraversare paseo de la Castellana non doveva per forza corrispondere a quella che un paio di giorni dopo aveva finto di chinarsi per fare l’elemosina a un cieco coperto di stracci mentre io guardavo un paio di scarpe in un negozio. Non c’era una buona ragione perché il suo impermeabile fosse lo stesso che mi aveva seguito quel sabato all’entrata del Prado. O perché corrispondesse alla schiena che si era nascosta facendo finta di niente dietro una colonna nel grill del Ritz, dopo aver controllato con chi pranzavo quando avevo appuntamento con la mia cliente Agata Ratinborg, una presunta principessa europea dalle origini alquanto dubbie. Non esisteva un metodo scientifico per avere la conferma che tutti quegli impermeabili sparsi per le strade e i giorni convergessero in un unico individuo, eppure il mio batticuore mi diceva che appartenevano a un uomo solo, sempre lo stesso.

Il tubo di cartamodelli da lasciare al salone di bellezza che avevo preparato quella settimana conteneva sette messaggi convenzionali di media lunghezza e uno personale che consisteva solo in due parole: “Mi seguono”. Finii tardi, era stata una lunga giornata di prove e cucito.

La signora Manuela e le ragazze se n’erano andate alle otto passate; terminai un paio di conti che dovevano essere pronti per l’inizio della mattinata, feci un bagno e, avvolta in una lunga vestaglia di velluto granata, mangiai in piedi un paio di mele e bevvi un bicchiere di latte, appoggiata al lavello della cucina. Ero così stanca che avevo poca fame; appena finito mi sedetti a codificare i messaggi e, una volta riassunti e bruciati gli appunti del giorno, cominciai a spegnere le luci prima di andare a letto. A metà del corridoio mi fermai di colpo. In un primo momento mi sembrò di sentire un colpo isolato, poi due, tre, quattro.

Poi silenzio. Finché ricominciarono. La provenienza era chiara: qualcuno bussava alla porta. Batteva con le nocche contro il legno, senza suonare il campanello. Colpi secchi e sempre più frequenti, che si trasformarono in un ticchettio ininterrotto. Rimasi immobile, attanagliata dalla paura, incapace di muovere un passo.

Ma i colpi non cessavano e la loro insistenza mi fece reagire: chiunque fosse, non aveva la minima intenzione di andarsene senza avermi parlato. Annodai stretta la cintura della vestaglia e mi diressi lentamente verso l’entrata. Deglutii, mi avvicinai alla porta.

Pianissimo, senza fare il minimo rumore e ancora terrorizzata, guardai dallo spioncino.

«Entri, Dio mio, entri!» fu l’unica cosa che riuscii a sussurrare dopo aver aperto. Entrò precipitosamente, nervoso. Sconvolto. «E’ finita, è finita. Sono fuori, è tutto finito.» Non mi guardava neanche; farneticava come se fosse completamente andato, come se

parlasse a se stesso, al vento o al nulla. Lo condussi in fretta nel salone, quasi spingendolo, preoccupata all’idea che qualcuno nell’edificio potesse averlo visto. La

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stanza era in penombra, ma prima di accendere una luce cercai di farlo sedere perché si calmasse un po’.

Non volle. Continuò a camminare da un capo all’altro della camera, stravolto, ripetendo mille volte le stesse parole.

«E’ finita, è finita; è tutto finito, è tutto finito.» Accesi una piccola lampada in un angolo e senza neanche chiederglielo gli versai una

generosa dose di cognac. «Tenga» dissi, costringendolo a prendere il bicchiere con la mano destra. «Lo beva»

gli ordinai. Ubbidì tremante. «E adesso si sieda, cerchi di calmarsi e mi racconti cos’è successo.»

Non avevo la minima idea della ragione che lo aveva spinto a presentarsi da me a mezzanotte passata e, anche se ero sicura che si fosse mosso con discrezione, la sua alterazione mi fece pensare che forse non gliene importava granché. Non lo vedevo da più di un anno e mezzo, dal giorno del suo addio ufficiale a Tetuàn. Preferii non chiedere niente per non metterlo sotto pressione. Ovviamente non si trattava di una visita di cortesia, ma decisi che sarebbe stato meglio aspettare che si calmasse: forse mi avrebbe raccontato spontaneamente che cosa voleva da me. Si sedette con il bicchiere in mano, bevve ancora. Era vestito in borghese, di scuro, con la camicia e una cravatta a righe; senza il cappello con la visiera, i galloni e la fascia sul petto che gli avevo visto indossare tante volte durante le cerimonie ufficiali, e di cui si liberava non appena terminava l’evento che richiedeva quell’abbigliamento. A un certo punto, quando fu un po’ più calmo, si accese una sigaretta. Fumò con lo sguardo perso nel vuoto, avvolto dal fumo e immerso nei suoi pensieri. Io nel frattempo non dissi nulla; mi limitai a sedermi su una poltrona vicina a lui, accavallai le gambe e mi misi ad aspettare. Quando finì la sigaretta si tirò su un attimo per spegnerla nel posacenere. E da quella posizione alzò finalmente lo sguardo e parlò.

«Mi hanno fatto fuori. Domani sarà di dominio pubblico. La notizia è già stata inviata al Bollettino ufficiale dello Stato e alla stampa, fra sette o al massimo otto ore si saprà anche per strada. Sa con quante parole mi liquideranno? Diciannove. Le ho contate, guardi.»

Tirò fuori dalla tasca della giacca un appunto scritto a mano. Me lo mostrò; erano solo un paio di righe che mi recitò a memoria.

«“Don Juan Beigbeder Atienza, cui esprimo il riconoscimento per i servizi prestati, lascia l’incarico di ministro degli Affari esteri.” Sono diciannove parole, se togliamo il “don” davanti al mio nome, che probabilmente sarà abbreviato; altrimenti sarebbero venti. Poi comparirà quello del Caudillo. Mi esprime la sua gratitudine per i servizi prestati, è inaudito.»

Si scolò il cognac in un sorso e gliene versai un altro. «Sapevo da mesi che la mia situazione era in bilico, ma non mi aspettavo un colpo

così improvviso. E così denigratorio.» Accese ancora una sigaretta e continuò a parlare fra una boccata e l’altra.

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«Ieri pomeriggio ho incontrato Franco a El Pardo; è stata una riunione lunga e distesa, non si è mai mostrato critico né ha accennato a un possibile cambio di guardia. Lei deve sapere che la situazione è stata tesissima negli ultimi tempi, da quando ho cominciato a farmi vedere in giro con l’ambasciatore Hoare. Dopo il colloquio me ne sono andato soddisfatto, convinto di lasciarlo a meditare sulle mie idee; forse aveva deciso finalmente di dare un po’ di credito alle mie opinioni. Non potevo immaginare che non appena avessi messo piede fuori di lì lui avrebbe affilato il coltello per conficcarmelo nella schiena il giorno dopo. Gli avevo chiesto un’udienza per parlare del suo prossimo colloquio con Hitler a Hendaya, in particolare dell’umiliazione costituita per me dal fatto che non mi avesse chiesto di accompagnarlo.

Comunque, volevo parlare con lui, riferirgli alcune informazioni importanti avute tramite l’ammiraglio Canaris, il capo della Abwehr, il servizio di intelligence militare tedesco. Sa chi è?»

«Ne ho sentito parlare, sì.» «Il posto che occupa può sembrare poco simpatico, ma Canaris è un uomo affabile e

carismatico, e abbiamo ottimi rapporti. Apparteniamo entrambi a quel genere di militare un po’ sentimentale che non ama molto le divise, le decorazioni e le caserme. In teoria è agli ordini di Hitler, ma non si sottomette ciecamente ai suoi piani e agisce in modo abbastanza autonomo. Tanto che, a quanto si dice, ha anche lui, come ho avuto io per mesi, una spada di Damocle sulla testa.»

Si alzò, fece due passi e si diresse verso un balcone. Le tende erano aperte. «E’ meglio se non si avvicina» gli intimai in tono perentorio. «Possono vederla dalla

strada.» Percorse diverse volte il salone da un’estremità all’altra, continuando a parlare. «Io lo chiamo il mio amico Guillermo, in spagnolo; parla benissimo la nostra lingua,

ha vissuto per un periodo in Cile. Qualche giorno fa abbiamo pranzato insieme a Casa Botin; adora il maialino arrosto. Mi è sembrato più lontano che mai dall’influenza di Hitler; tanto che non mi stupirei se cospirasse contro il Führer a fianco degli inglesi. Abbiamo parlato del fatto che la Spagna non deve assolutamente entrare in guerra al fianco dell’Asse, e durante il pranzo abbiamo stilato un elenco di condizioni che Franco avrebbe dovuto sottoporre a Hitler per l’entrata in guerra della Spagna. Io conosco perfettamente le nostre necessità strategiche e Canaris è al corrente delle deficienze tedesche, quindi abbiamo stilato insieme una lista di richieste che la Spagna avrebbe dovuto presentare come condizione indispensabile per la propria adesione, e che la Germania non sarebbe stata in grado di soddisfare neppure sul medio periodo. La proposta era un susseguirsi di pretese impossibili: alcuni territori nel Marocco francese e la regione di Orano, in Algeria, quantità esorbitanti di cereali e armi, oltre alla conquista di Gibilterra per mano di soldati esclusivamente spagnoli; tutto, come dicevo, assolutamente impossibile da ottenere. Canaris mi ha anche fatto sapere che non era consigliabile iniziare subito la ricostruzione di tutto ciò che è stato distrutto durante la guerra civile: conveniva lasciare i binari ferroviari fuori uso, i ponti crollati e le strade

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dissestate, perché i tedeschi si rendessero conto dello stato pietoso in cui si trovava il paese e vedessero quanto sarebbe stato difficile attraversarlo per le loro truppe.»

Si sedette di nuovo e buttò giù un’altra sorsata di cognac. L’alcol, per fortuna, lo stava rilassando. Io, in compenso, ero assolutamente sconcertata, e non capivo il motivo per cui Beigbeder fosse venuto a cercare me a quell’ora e in quello stato per parlarmi di faccende che non mi riguardavano, come i suoi incontri con Franco e i suoi contatti con i militari tedeschi.

«Sono arrivato a El Pardo con quelle informazioni e le ho riferite al Caudillo nei particolari» proseguì. «Mi ha ascoltato con grande attenzione, si è tenuto il documento e mi ha ringraziato per quello che avevo fatto. Era davvero cordiale con me e ha addirittura accennato ai vecchi tempi vissuti insieme in Africa. Io e il Generalissimo ci conosciamo da parecchi anni, sa? Di fatto, a parte il suo ineffabile cognato, credo di essere, anzi, di essere stato, l’unico membro del gabinetto a cui dava del tu. Franquito al comando del glorioso Movimento nazionale, chi lo avrebbe mai detto? Non siamo mai stati grandi amici, a dire il vero; in effetti credo di non essergli mai piaciuto: non capiva il mio scarso ardore militare, o perché aspirassi a destinazioni urbane, amministrative, se possibile all’estero. E io non ero affascinato da lui, cosa vuole che le dica, sempre così serio, così rigido e noioso, così competitivo e ossessionato dalle promozioni e dalla gerarchia; una vera lagna d’uomo, se devo proprio dirla tutta. Ci siamo trovati insieme a Tetuàn, lui era già comandante, io ancora capitano. Vuole sapere un aneddoto? Verso sera noi ufficiali di solito ci incontravamo in un piccolo caffè di plaza de Espana per bere un tè. Ricorda quei piccoli caffè?»

«Perfettamente» confermai. Come potevo cancellare dalla memoria le sedie di ferro battuto sotto le palme, l’odore degli stuzzichini e del tè alla menta, il viavai di gellabe e abiti europei attorno al chiosco centrale con le sue tegole di terracotta e gli archi moreschi imbiancati a calce? Per la prima volta da quando era arrivato fece un breve sorriso, dettato dalla nostalgia. Accese un’altra sigaretta e si appoggiò alla spalliera del divano. Parlavamo quasi al buio, la piccola lampada all’angolo era l’unica fonte di luce. Io ero ancora in vestaglia: non avevo trovato un momento per scusarmi e correre a cambiarmi, non intendevo lasciarlo solo neanche per un attimo finché non lo avessi visto del tutto sereno.

«Un pomeriggio ha smesso di passare da lì e tutti abbiamo iniziato a fare congetture sulla sua assenza. Siamo arrivati alla conclusione che si fosse innamorato e abbiamo deciso di indagare; sa, stupidaggini da giovani ufficiali che hanno troppo tempo libero e poco da fare. Ce la siamo giocata a morra cinese ed è toccato a me spiarlo. Il giorno dopo ho risolto il mistero. Quando è uscito dalla cittadella l’ho seguito fino alla medina e l’ho visto entrare in una tipica casa araba. Anche se facevo fatica a crederci, all’inizio ho pensato che avesse una storia con una ragazzina musulmana. Mi sono introdotto nella casa con una scusa, non ricordo quale. E cosa crede che abbia trovato? Il nostro uomo che prendeva lezioni di arabo; ecco cosa faceva. Perché il grande generale africanista, l’insigne e invitto Caudillo di Spagna, il salvatore della patria, non parla arabo,

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nonostante gli sforzi. Non capisce il popolo marocchino e non gliene importa niente di quella gente. A me sì, invece. A me sì che importa, e molto. E ci capiamo, perché gli arabi sono miei fratelli. Che si tratti di parlare l’arabo classico, il cherja, la parlata delle popolazioni berbere del Rif, quello che sia. E questo infastidiva moltissimo il comandante spagnolo più giovane, l’orgoglio delle truppe africane. Il fatto che sia stato proprio io a scoprirlo mentre cercava di rimediare alla sua mancanza lo ha innervosito ancora di più. Insomma, stupidaggini di gioventù.»

Disse qualche frase in arabo che non capii, quasi a dimostrarmi il suo dominio della lingua. Come se non ne fossi già a conoscenza. Bevve di nuovo e io gli riempii il bicchiere per la terza volta.

«Sa cos’ha detto Franco quando Serrano ha fatto il mio nome per il ministero? “Stai dicendo che vuoi che metta Juanito Beigbeder agli Esteri? Ma se è matto da legare!” Non so per quale motivo mi abbia appiccicato quell’etichetta, forse perché è un uomo freddo come il ghiaccio e chiunque sia un po’ più passionale di lui gli sembra il colmo della follia. Matto io, figuriamoci.»

Bevve ancora. Parlava quasi come se non ci fossi, vomitando la sua amarezza in un monologo ininterrotto. Parlava e beveva, parlava e fumava. Con rabbia e senza sosta, mentre io ascoltavo in silenzio, senza capire perché mi raccontasse tutte quelle cose. In passato ci eravamo trovati a tu per tu molto di rado, Beigbeder non aveva mai scambiato più di quattro parole con me in assenza di Rosalinda; quasi tutto quello che sapeva di me glielo aveva riferito lei. Ma in quel momento così speciale della sua vita e della sua carriera, in quell’istante che segnava drasticamente la fine di un’epoca, per qualche ragione sconosciuta aveva scelto me come confidente.

«Franco e Serrano dicono che sono impazzito, che sono vittima dell’influsso pernicioso di una donna. Pensi che stupidaggini bisogna sentire in momenti come questo, cazzo. Forse il cognatissimo vuole impartirmi lezioni di moralità; proprio lui, che lascia la moglie a casa con sei o sette creature mentre passa le giornate a letto con una marchesa che poi scarrozza alla corrida su una decappottabile. E come se non bastasse, stanno pensando di inserire il delitto di adulterio nel codice penale, roba da morire dal ridere. Ovvio che mi piacciono le donne, come potrebbero non piacermi. Con mia moglie non viviamo sotto lo stesso tetto da anni; non devo rendere conto a nessuno dei miei sentimenti, né sono tenuto a riferire con chi vado a letto o con chi mi alzo, ci mancherebbe altro. Ho avuto le mie avventure, tutte quelle che ho potuto, a essere sincero. E allora? Sono una mosca bianca nell’esercito e nel governo? No. Sono come tutti gli altri, ma hanno deciso di appiccicarmi addosso l’etichetta di viveur frivolo ammaliato dal fascino di un’inglese. Bisogna essere proprio imbecilli. Volevano la mia testa per dimostrare la loro lealtà ai tedeschi, come ha fatto Erode con quella di Giovanni Battista. Ora ce l’hanno, spero che siano soddisfatti. Ma non c’era bisogno di umiliarmi.»

«Cosa le hanno fatto?» chiesi allora. «Hanno diffuso su di me ogni genere di falsità: mi hanno costruito un’infamante

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leggenda nera di donnaiolo depravato capace di vendersi la patria per una bella scopata, mi perdoni la volgarità. Hanno sparso la voce che Rosalinda mi ha sedotto e costretto a tradire il mio paese, che Hoare mi ha plagiato, che ricevo soldi dagli ebrei di Tetuàn per tenere una posizione antitedesca. Mi seguono giorno e notte, sono addirittura arrivato a temere per la mia incolumità fisica, e non creda che siano mie fantasie. E tutto questo solo perché ho cercato di agire in modo sensato in veste di ministro, esponendo le mie idee di conseguenza. Ho detto che non possiamo troncare di colpo i rapporti con i britannici e gli americani: è da loro che dipende l’arrivo dei rifornimenti di grano e petrolio indispensabili perché questo povero paese non muoia di fame; ho insistito nel sostenere che non dobbiamo permettere alla Germania di interferire nei nostri affari nazionali, che dobbiamo opporci ai piani interventisti dei tedeschi, che non ci conviene impantanarci nella loro guerra al loro fianco, neanche in cambio dell’impero coloniale che qualcuno crede di poter ottenere. Pensa che abbiano valutato minimamente le mie opinioni? Per niente: non solo non mi hanno dato retta nel modo più assoluto, ma mi hanno anche accusato di essere un demente perché penso che non dobbiamo piegarci davanti a un esercito che passeggia vittorioso in tutta Europa. Sa qual è l’ultima trovata geniale del sublime Serrano? Sa qual è la frase che ripete in continuazione adesso? “Guerra con pane o senza pane!” Che gliene pare? E il pazzo sarei io, porca miseria. La mia resistenza mi è costata il posto e chissà che non finisca per costarmi anche la vita. Sono rimasto solo, Sira, solo. L’incarico di ministro, la carriera militare e i miei rapporti personali: sono riusciti a infangare tutto. E ora mi mandano a Ronda agli arresti domiciliari, o magari pensano di convocare un Consiglio di guerra e liquidarmi all’alba fucilandomi contro un muro.»

Si tolse gli occhiali e si strofinò gli occhi. Sembrava affaticato. Esausto. Vecchio. «Sono confuso, sfinito» disse sottovoce. Poi fece un sospiro profondo. «Non so cosa darei per tornare indietro, per non aver mai abbandonato il mio

Marocco felice. Non so cosa darei perché questo incubo non fosse mai cominciato. Solo Rosalinda potrebbe consolarmi, ma se n’è andata. Sono venuto proprio per questo: per pregarla di aiutarmi a farle avere mie notizie.»

«Dov’è adesso?» Me lo chiedevo da settimane, senza sapere come trovare una risposta. «A Lisbona. E’ dovuta partire in fretta e furia.» «Perché?» chiesi allarmata. «Abbiamo saputo che aveva la Gestapo alle calcagna, è stata costretta a lasciare la

Spagna.» «E lei come ministro non ha potuto fare niente?» «Con la Gestapo? Né io né nessun altro, mia cara. I miei rapporti con tutti i

rappresentanti tedeschi sono stati molto tesi nell’ultimo periodo: alcuni membri del governo si sono presi la briga di riferire all’ambasciatore e ai suoi il mio parere contrario a un eventuale intervento spagnolo nella guerra e all’eccessiva amicizia ispano-

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germanica. Ma probabilmente non avrei ottenuto niente neppure se fossi stato in buoni rapporti con loro, perché la Gestapo agisce per conto proprio, al di fuori delle istituzioni ufficiali. Abbiamo saputo che Rosalinda era sulle loro liste nere grazie a una soffiata. Così ha preparato le sue cose in una notte e ha preso un aereo per il Portogallo; il resto glielo abbiamo spedito dopo. Ben Wyatt, l’addetto navale americano, è stato l’unico ad accompagnarci all’aeroporto; è un ottimo amico. Nessun altro sa dove si trova. O almeno, non dovrebbe saperlo nessun altro. Ora però voglio che lo sappia lei. Mi scusi se le ho invaso la casa a quest’ora e in queste condizioni, ma domani mi portano a Ronda e non so quando riuscirò a mettermi in contatto con Rosalinda.»

«Cosa vuole che faccia?» chiesi intuendo finalmente l’obiettivo di quella strana visita. «Vorrei che cercasse un modo per far arrivare queste lettere a Lisbona nella valigia

diplomatica dell’ambasciata britannica. Le dia a Hillgarth, so che è in contatto con lui» disse mentre tirava fuori tre grosse buste dalla tasca interna della giacca. «Le ho scritte nelle ultime tre settimane, ma sono stato sottoposto a una sorveglianza strettissima e non ho osato spedirle in nessun modo; come avrà capito, pare che mi abbiano concesso una tregua, che abbiano abbassato un po’ la guardia. Per questo sono riuscito ad arrivare qui senza farmi seguire.»

«Ne è sicuro?» «Sicurissimo, non si preoccupi» affermò dissipando i miei timori. «Ho preso un taxi,

non ho voluto usare l’auto ufficiale. Non ci ha seguiti nessuna vettura durante tutto il tragitto, ho controllato. E inseguirmi a piedi sarebbe stato impossibile. Sono rimasto nel taxi finché il portiere è uscito con la spazzatura; solo allora sono entrato nel palazzo; non mi ha visto nessuno, stia tranquilla.»

«Come sapeva dove abito?» «Come potevo non saperlo? E’ stata Rosalinda a scegliere questa casa, e mi ha riferito

passo a passo come procedevano i lavori. Era così contenta del suo arrivo e della sua collaborazione alla causa del suo paese...» sorrise di nuovo con la bocca chiusa, tendendo appena le labbra. «L’ho amata molto, sa? L’ho amata moltissimo, Sira. Non so se la rivedrò, ma se così non fosse, le dica che avrei dato la vita per averla accanto in questa notte così triste. Le spiace se mi verso un altro bicchiere?»

«Prego, non c’è bisogno di chiedere.» Avevo perso il conto dei cognac che aveva bevuto; cinque o sei, probabilmente. Il

momento di malinconia passò con il sorso successivo. Si era rilassato e non sembrava intenzionato ad andarsene. «A Lisbona Rosalinda sta bene, comincia ad ambientarsi. Sa com’è lei, si adegua a

tutto con estrema facilità.» Rosalinda Fox, nessuno era capace di reinventarsi e cominciare da zero come sapeva

fare lei ogni volta che era necessario. Che strana coppia, quei due. Quanto erano diversi, Beigbeder e Rosalinda, eppure ben assortiti.

«Quando può vada a trovarla a Lisbona, sarebbe molto felice di trascorrere qualche giorno con lei. Il suo indirizzo è sulle lettere che le ho dato: non se ne liberi prima di

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averlo copiato.» «Ci proverò, glielo prometto. Pensa di andare anche lei in Portogallo? Cosa intende

fare quando questa faccenda sarà finita?» «Quando finirà la detenzione? Non ne ho idea, può durare anni; può anche darsi che

non ne esca vivo. La situazione è molto incerta, e non so nemmeno quali capi d’accusa presenteranno contro di me. Ribellione, spionaggio, tradimento della patria: qualunque assurdità. Ma se la baraka gira dalla mia parte e questa cosa si conclude presto, credo che andrò all’estero. Dio solo sa che non sono un liberale, ma mi ripugna il totalitarismo megalomane con cui Franco è uscito dalla vittoria; il mostro che ha generato e che molti di noi hanno contribuito a nutrire. Non sa quanto mi pento di aver aiutato a far crescere la sua figura in Marocco, durante la guerra. Questo regime non mi piace, non mi piace per niente. Credo che non mi piaccia neanche la Spagna; perlomeno non mi piace questo orrore dell’”una, grande e libera” che stanno cercando di propinarci. Ho trascorso più anni della mia vita fuori da questo paese che dentro; qui mi sento un forestiero, ci sono troppe cose che mi sono estranee.»

«Potrebbe sempre tornare in Marocco...» suggerii. «Con Rosalinda.» «No, no» rispose seccamente. «Il Marocco appartiene al passato. Lì non c’è futuro per

me; dopo che sono stato alto commissario non potrei ricoprire un incarico inferiore. Per quanto mi costi ammetterlo, credo che l’Africa ormai sia un capitolo chiuso nella mia vita. A livello professionale, intendo, perché nel mio cuore resterò legato a quella terra finché vivo. Inshallah. Così sia.»

«Allora?» «Tutto dipende dalla mia situazione militare: sono nelle mani del Caudillo,

Generalissimo di tutti gli eserciti per grazia di Dio; davvero insopportabile, come se Dio avesse qualcosa a che vedere con queste tortuose faccende. Magari revoca l’arresto nel giro di un mese, oppure sceglie l’esecuzione da pubblicizzare a mezzo stampa. Chi l’avrebbe detto vent’anni fa: la mia vita nelle mani di Franquito.»

Si tolse di nuovo gli occhiali e si strofinò gli occhi. Riempì ancora una volta il bicchiere, accese un’altra sigaretta.

«E’ molto stanco» dissi. «Perché non va a dormire?» Mi guardò con l’aria di un bambino impaurito. Con l’aria di un bambino impaurito

con più di cinquantanni sulle spalle, che aveva ricoperto l’incarico più alto dell’amministrazione coloniale spagnola, e una carriera ministeriale crollata rovinosamente. Rispose con una sincerità sconcertante.

«Non voglio andarmene, non sopporto l’idea di ritrovarmi di nuovo da solo nel casermone lugubre che è stato il mio domicilio ufficiale fino a oggi.»

«Può rimanere a dormire qui, se vuole» gli proposi. Sapevo che invitarlo a passare la notte da me era un’imprudenza, ma intuivo che se gli avessi chiuso le porte di casa mia e lo avessi lasciato vagare da solo per le vie di Madrid in quello stato, avrebbe potuto commettere una pazzia.

«Temo che non riuscirò a chiudere occhio» riconobbe con un mezzo sorriso carico di

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tristezza, «ma le sarei molto grato se mi lasciasse riposare un po’; non la disturberò, glielo assicuro. Sarà come un rifugio durante una tempesta: non può immaginare quanto sia amara la solitudine del ripudiato.»

«Faccia come se fosse a casa sua. Le do una coperta se per caso vuole sdraiarsi un po’. Si tolga la giacca e la cravatta, si metta comodo.»

Seguì le mie istruzioni mentre andavo a prendere un plaid. Quando tornai era in maniche di camicia e stava riempiendo di nuovo il bicchiere di cognac.

«L’ultimo» dissi in tono autoritario portando via la bottiglia. Lasciai un posacenere pulito sul tavolo e la coperta sulla spalliera del divano. Mi

sedetti accanto a lui e gli strinsi dolcemente un braccio. «Passerà, Juan Luis, ci vuole tempo. Prima o poi, alla fine passa tutto.» Gli posai la testa sulla spalla e lui mi prese la mano. «Spero che Dio l’ascolti, Sira, spero proprio che Dio l’ascolti» sussurrò. Lo lasciai in compagnia dei suoi fantasmi e andai a letto. Mentre percorrevo il

corridoio diretta in camera mia, sentii che parlava da solo in arabo; non capii quello che diceva. Faticai a addormentarmi, dovevano essere le quattro passate quando riuscii a conciliare un sonno inquieto e strano. Mi svegliai sentendo la porta d’ingresso che si chiudeva in fondo al corridoio. Guardai l’ora della sveglia. Le otto meno venti. Non lo rividi mai più.

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CAPITOLO 40 Dopo quella notte il mio timore di essere seguita passò in secondo piano, come se

all’improvviso non fosse più fondamentale. Prima di disturbare Hillgarth con supposizioni forse prive di fondamento, dovevo mettermi subito in contatto con lui per informarlo delle lettere. La situazione di Beigbeder era molto più importante delle mie paure: per lui, per la mia amica e per tutti quanti. Perciò quel mattino strappai in mille pezzi il cartamodello preparato per rivelare i miei sospetti su un presunto inseguimento e lo sostituii con uno nuovo: “Beigbeder a casa mia stanotte. Fuori ministero, molto nervoso. Mandano detenuto a Ronda.

Teme per sua vita. Mi consegna lettere da inviare sig.ra Fox Lisbona con valigia diplomatica ambasciata. Aspetto istruzioni urgenti”.

Presi in considerazione l’idea di andare all’Embassy a mezzogiorno per attirare l’attenzione di Hillgarth. Anche se la notizia della destituzione ministeriale gli era giunta certamente nelle prime ore del mattino, ero sicura che i particolari rivelati dal colonnello fossero di enorme interesse. E sapevo anche di dovermi disfare il prima possibile delle lettere indirizzate a Rosalinda: conoscendo la situazione del mittente, ero convinta che quei fogli andassero ben al di là di una corrispondenza sentimentale; contenevano senza dubbio un arsenale di rabbiose rivelazioni politiche che non dovevano assolutamente rimanere in mano mia. Ma era mercoledì, e come ogni mercoledì sarei andata al salone di bellezza, quindi decisi di utilizzare il canale informativo usuale prima di dare l’allarme adottando un protocollo d’emergenza, che peraltro avrebbe anticipato l’informazione solo di un paio d’ore. Al mattino mi sforzai di lavorare, ricevetti le clienti, mangiucchiai di malavoglia e alle quattro meno un quarto uscii di casa diretta dal parrucchiere, con il tubo di cartamodelli avvolto in un foulard di seta nella borsa.

Sembrava dovesse piovere, ma decisi di non andare in taxi: avevo bisogno di prendere una boccata d’aria per allontanare il turbamento che mi attanagliava. Mentre camminavo, ricordai i particolari della sconcertante visita notturna di Beigbeder e provai a immaginare il piano che Hillgarth e i suoi avrebbero messo a punto per entrare in possesso delle lettere. Persa nei miei pensieri, non notai se qualcuno mi stava seguendo; probabilmente ero così distratta dalle mie preoccupazioni che anche se qualcuno lo fece non me ne resi conto.

Nascosi i messaggi nell’armadietto senza che la ragazza dai capelli ricci addetta a quella specie di guardaroba mostrasse la minima complicità incrociando il mio sguardo. o era una collaboratrice formidabile, o non aveva idea di quello che accadeva sotto i suoi occhi. Le parrucchiere mi pettinarono come ogni settimana, e mentre mi arricciavano i capelli che ormai mi arrivavano alle spalle finsi di essere assorta nella lettura dell’ultimo

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numero di una rivista mensile. Quella pubblicazione femminile piena di rimedi farmaceutici, storielle mielose con la morale e un reportage sulle cattedrali gotiche mi interessava pochissimo, ma la lessi da cima a fondo, senza alzare gli occhi dalle pagine per evitare il contatto con le altre donne presenti, le cui conversazioni non mi attiravano per niente. Se non mi capitava di incontrare qualche mia cliente - cosa piuttosto frequente - non ero affatto interessata a chiacchierare con nessuno.

Uscii dal parrucchiere senza i cartamodelli, con un’acconciatura perfetta e l’umore ancora cupo. Il pomeriggio era uggioso, ma decisi di fare una passeggiata invece di tornare subito a casa: preferivo distrarmi un po’ e stare lontano dalle lettere di Beigbeder finché Hillgarth non mi avesse comunicato le sue istruzioni. Avanzai senza meta lungo calle Alcalà fino alla Gran Via; inizialmente la passeggiata fu tranquilla e sicura, ma a mano a mano che procedevo notavo che aumentava la densità delle persone sui marciapiedi, dove si mescolavano passanti ben vestiti e lustrascarpe, gente che raccoglieva le cicche buttate da altri e mendicanti invalidi che mostravano senza pudore le proprie menomazioni chiedendo la carità.

Mi resi conto che stavo oltrepassando il perimetro indicato da Hillgarth: mi addentravo in un terreno pericoloso, dove avrei potuto incontrare qualcuno che un tempo conoscevo. Probabilmente non avrebbe mai immaginato che quella donna avvolta in un elegante cappotto di lana grigia aveva sostituito la sartina di anni prima, ma nel dubbio decisi di entrare in un cinema per far passare il resto del pomeriggio e, già che c’ero, evitare di espormi più del dovuto.

Il Palacio de la Musica era la sala e Rebecca il film. La proiezione era già cominciata, ma non me ne importava: non ero interessata alla trama, volevo solo un po’ di intimità per far passare le ore finché qualcuno non avesse fatto arrivare a casa mia le istruzioni su come avrei dovuto agire. La maschera mi accompagnò a una delle ultime file laterali, mentre Lawrence Olivier e Joan Fontaine percorrevano a tutta velocità una strada piena di curve a bordo di una decappottabile. Non appena mi abituai al buio, notai che la platea era quasi al completo; nella mia fila e in quelle intorno, però, data la lontananza dallo schermo, c’erano solo alcune persone sparse qua e là. Alla mia sinistra notai diverse coppiette; alla mia destra non c’era nessuno. Ma solo per poco: appena un paio di minuti dopo di me, mi accorsi che qualcuno si sedeva in fondo alla fila, a non più di dieci o dodici sedili di distanza da me. Un uomo. Solo. Un uomo solo del quale non potevo distinguere il volto al buio. Un uomo qualunque che non avrebbe mai attirato la mia attenzione se non avesse indossato un impermeabile chiaro con il colletto alzato, identico a quello dell’individuo che mi seguiva da più di una settimana. Un uomo con l’impermeabile dal colletto sollevato al quale, a giudicare dalla direzione in cui guardava, interessavo più io che il film.

Mi vennero i sudori freddi. Di colpo ebbi la certezza che i miei sospetti non erano infondati ma reali: quell’individuo era lì per me, probabilmente mi aveva seguita fin da quando avevo lasciato il parrucchiere, forse da casa mia; aveva camminato dietro di me per centinaia di metri, mi aveva osservato mentre pagavo il biglietto al botteghino,

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percorrevo l’atrio, entravo nella sala e prendevo posto. Ma osservarmi senza essere visto non gli era bastato: una volta individuato il posto in cui ero seduta, si era piazzato a pochi metri da me bloccandomi l’uscita. E io, incauta e sconcertata dalla destituzione di Beigbeder, all’ultimo momento avevo deciso di non comunicare a Hillgarth i miei sospetti, anche se con il passare dei giorni erano aumentati. La prima idea che mi venne fu quella di scappare, ma vidi subito che ero incastrata. Non potevo arrivare al corridoio di destra senza che lui mi lasciasse passare; e se avessi deciso di uscire a sinistra avrei dovuto disturbare una manciata di spettatori che avrebbero protestato infastiditi per l’interruzione, costretti ad alzarsi o a spostare le gambe per farmi posto. In quel modo lo sconosciuto avrebbe avuto il tempo di lasciare la poltrona e seguirmi. Allora ricordai i consigli di Hillgarth durante il pranzo alla Legazione americana: se avessi sospettato di essere seguita, avrei dovuto mantenere la calma, comportarmi in modo sicuro e apparentemente normale.

La sfacciataggine dell’estraneo con l’impermeabile però non prometteva niente di buono: quello che fino ad allora era stato un pedinamento mascherato e discreto sembrava aver lasciato bruscamente il posto a una dichiarazione ostentata. Sono qui perché mi veda, sembrava dire senza bisogno di parlare. Perché sappia che la controllo e so dove va; perché sia consapevole che posso entrare nella sua vita con estrema facilità: vede, oggi ho deciso di seguirla in un cinema e bloccarle il passaggio; domani posso fare di lei quello che voglio.

Finsi di non prestargli attenzione e mi sforzai di concentrarmi sul film, ma non ci riuscii. Davanti ai miei occhi scorrevano scene prive di senso e incoerenti: una magione tetra e maestosa, una governante dall’aria maligna, una protagonista che faceva sempre la cosa sbagliata e il fantasma di una donna affascinante che fluttuava nell’aria.

L’intera sala sembrava rapita; ma le mie preoccupazioni erano incentrate su qualcosa di più vicino. Mentre passavano i minuti e sullo schermo si avvicendavano immagini cangianti in bianco e nero, lasciai cadere varie volte la chioma sul lato destro del viso e cercai di scrutare lo sconosciuto nascosta dai capelli. Non riuscii a distinguerne i tratti, a quella distanza e al buio non era possibile. Fra noi però si stabilì una specie di rapporto muto e teso, come se fossimo uniti dal comune disinteresse per il film. Nessuno dei due trattenne il fiato quando la protagonista senza nome ruppe la statuetta di porcellana, e non fummo presi dal panico quando la governante cercò di convincerla a gettarsi nel vuoto; non ci si gelò il sangue sapendo che forse la moglie perversa era stata assassinata proprio da Max de Winter.

Dopo l’incendio di Manderley comparve la parola FINE e la sala fu inondata di luce. La mia reazione immediata fu coprirmi il volto: per qualche assurda ragione mi sembrava che l’assenza di buio mi avrebbe resa più vulnerabile agli occhi del mio inseguitore. Inclinai la testa, lasciai che i capelli mi nascondessero ancora una volta il viso e finsi di concentrarmi per cercare qualcosa nella borsa. Quando alla fine sollevai lo sguardo di qualche centimetro e sbirciai alla mia destra, l’uomo era scomparso. Rimasi in platea finché lo schermo diventò bianco, con la paura che mi formava un nodo alla

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bocca dello stomaco. Si accesero tutte le luci, gli ultimi spettatori abbandonarono la sala, le maschere entrarono in cerca di rifiuti e oggetti dimenticati tra le poltroncine. Solo allora, ancora spaventata, presi il coraggio a due mani e mi alzai.

Il grande atrio era ancora animato e chiassoso: in strada c’era un acquazzone e gli spettatori che aspettavano di uscire si mescolavano con quelli che attendevano l’inizio dello spettacolo successivo. Mi riparai seminascosta dietro una colonna in un angolo appartato e, tra la calca, le voci e il fumo denso di mille sigarette, mi sentii anonima e momentaneamente in salvo. Ma la fragile sensazione di sicurezza durò pochi minuti, solo finché la folla cominciò a disperdersi. I nuovi arrivati entrarono finalmente in sala per perdersi nelle disavventure dei De Winter e dei loro fantasmi; gli altri - i più previdenti protetti da ombrelli e cappelli, i più sprovveduti con giacche alzate sopra la testa e giornali, e i più coraggiosi dotati solo di impeto - abbandonarono a poco a poco il mondo fastoso del cinema e uscirono in strada per affrontare la realtà di tutti i giorni, una realtà che quella sera d’autunno si presentava con una densa cortina d’acqua che cadeva inclemente dal cielo.

Trovare un taxi era una battaglia persa in partenza, perciò, come le centinaia di individui che mi avevano preceduta, mi armai di coraggio e, con un foulard di seta sui capelli e il collo del cappotto sollevato, mi preparai a tornare a casa sotto la pioggia. Procedevo a passo svelto, per ripararmi il prima possibile sia dall’acquazzone sia dalle decine di sospetti che mi aggredirono lungo la strada. Giravo in continuazione la testa: all’improvviso mi sembrava di essere seguita, poi di colpo pensavo che avessero smesso. Qualunque individuo con l’impermeabile mi spingeva ad allungare il passo, anche se la sua sagoma non corrispondeva affatto all’uomo che temevo. Qualcuno passò veloce accanto a me, e sentendomi sfiorare il braccio corsi a rifugiarmi vicino alla vetrina di una farmacia chiusa; un mendicante mi tirò la manica chiedendo la carità e come elemosina ricevette un urlo spaventato. Cercai di tenere il passo di diverse coppie rispettabili ma le insospettii con la mia vicinanza ossessiva, e si allontanarono. Le pozzanghere mi riempirono le calze di schizzi, il tacco sinistro rimase incastrato in un tombino. Camminavo in fretta, angosciata, senza prestare attenzione al traffico. Le luci di un’auto mi abbagliarono mentre attraversavo; poco dopo un camion mi suonò il clacson e rischiai di finire sotto un tram; pochi metri più avanti riuscii a scostarmi con un balzo da una macchina scura che stava per investirmi e che probabilmente non mi aveva vista per via della pioggia. O forse sì.

Arrivai fradicia e affannata; il portiere, la guardia notturna, un gruppetto di vicini e cinque o sei curiosi si accalcavano a pochi metri dal mio portone, per valutare i danni causati dall’acqua che si era infiltrata nelle cantine dell’edificio.

Salii gli scalini due alla volta senza che nessuno mi vedesse, liberandomi del foulard

bagnato mentre cercavo le chiavi, sollevata perché ero riuscita ad arrivare senza incontrare il mio inseguitore. Non vedevo l’ora di immergermi nella vasca per togliermi di dosso il freddo e il panico con un bagno caldo.

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Ma il sollievo fu breve. Breve quanto i secondi che impiegai a raggiungere la porta, entrare e rendermi conto di quello che mi aspettava.

Che ci fosse una lampada accesa nel salone quando la casa sarebbe dovuta essere al buio era anormale, ma poteva esserci una spiegazione: anche se di solito la signora Manuela e le ragazze spegnevano tutto prima di andarsene, forse quel pomeriggio avevano dimenticato di fare un ultimo controllo. Però non fu la luce a sembrarmi fuori posto, bensì quello che vidi nell’ingresso. Un impermeabile. Chiaro, da uomo. Appeso all’attaccapanni, gocciolava acqua con sinistra lentezza.

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CAPITOLO 41 Il proprietario dell’impermeabile mi aspettava seduto nel salone. Non riuscii a dire

una parola per un periodo di tempo che credevo sarebbe durato fino alla fine del mondo. Neppure l’ospite inatteso parlò subito.

Ci limitammo a fissarci in un vortice confuso di ricordi e sensazioni. «Ti è piaciuto il film?» chiese alla fine. Non risposi. Di fronte a me c’era l’uomo che mi seguiva da giorni. Lo stesso uomo

che cinque anni prima era uscito dalla mia vita avvolto in un impermeabile simile; le stesse spalle che si erano allontanate nella nebbia trascinando una macchina da scrivere quando aveva saputo che l’avrei lasciato perché mi ero innamorata di un altro. Ignacio Montes, il mio primo fidanzato, era rientrato nella mia vita.

«Abbiamo fatto progressi, eh, Sirita?» aggiunse alzandosi e venendo verso di me. «Che ci fai qui, Ignacio?» riuscii finalmente a sussurrare. Non mi ero ancora tolta il cappotto; vidi che l’acqua gocciolava formando piccole

pozze ai miei piedi, ma non mi mossi. «Sono venuto a trovarti» rispose. «Asciugati e cambiati; dobbiamo parlare.» Sorrideva, e con il sorriso malediceva la voglia che aveva di sorridere. Sapevo di essere ad appena un paio di metri dalla porta da cui ero entrata; forse avrei

potuto tentare di fuggire, scendere gli scalini tre alla volta, raggiungere il portone, uscire in strada, mettermi a correre. Scartai l’ipotesi: non mi conveniva reagire in modo sconveniente prima di sapere che cosa mi aspettava, quindi mi avvicinai semplicemente a lui per affrontarlo.

«Cosa vuoi, Ignacio? Come sei entrato, cosa sei venuto a fare, perché mi segui?» «Piano, Sira, piano. Fai le domande una alla volta, non innervosirti. Ma prima, se non

ti spiace, vorrei che ci mettessimo comodi. Sono un po’ stanco, sai? Ieri mi hai fatto stare sveglio fino a tardi. Ti spiace se mi verso da bere?»

«Una volta non bevevi» dissi cercando di mantenere la calma. Una risata fredda come il filo delle mie forbici squarciò l’aria del salone. «Vedo che hai buona memoria. Con tutte le storie interessanti che ti saranno capitate

in questi anni, è incredibile che ricordi ancora cose così semplici.» Era incredibile, certo, però le ricordavo. Ricordavo quello e molto altro ancora. I

lunghi pomeriggi passati a passeggiare senza meta, i balli fra i lumicini delle fiere. Il suo ottimismo e la sua tenerezza di allora; io che a quei tempi ero solo un’umile sartina senza altre prospettive se non sposare l’uomo che in quel momento mi suscitava timore e

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incertezza. «Cosa vuoi bere?» chiesi alla fine. Mi sforzavo di apparire calma, di non lasciar

trasparire la mia inquietudine. «Whisky, cognac, fa lo stesso. Quello che offri agli altri tuoi ospiti.» Riempii un bicchiere finendo la bottiglia bevuta la notte prima da Beigbeder; ne erano

rimaste solo due dita. Quando mi voltai verso di lui vidi che indossava un abito grigio comune: confezionato con un taglio e una stoffa migliore di quelli che portava quando stavamo insieme, ma peggiore rispetto agli uomini che ero ormai abituata ad avere intorno.

Posai il bicchiere sul tavolo accanto a lui e solo in quel momento vidi una confezione di cioccolatini dell’Embassy, avvolta nella carta argentata e legata con un vistoso nastro rosa.

«Un ammiratore ti ha mandato un pensiero» disse sfiorando la scatola con la punta delle dita.

Non risposi. Non ci riuscivo, mi mancava il fiato. Sapevo che da qualche parte nel pacchetto di quell’inatteso regalo c’era un messaggio cifrato di Hillgarth; un messaggio concepito per passare inosservato per chiunque tranne me.

Mi sedetti lontano, in un angolo del divano, tesa e ancora fradicia. Finsi di non far caso ai cioccolatini e osservai in silenzio Ignacio mentre mi scostavo i

capelli bagnati dal viso. Era ancora magrissimo, ma il suo volto era cambiato. A poco più di trent’anni, gli erano già comparsi i primi capelli bianchi sulle tempie. Aveva le occhiaie, le rughe agli angoli della bocca e l’aria stanca di chi non conduce una vita tranquilla.

«Ma pensa, Sira, ne è passato di tempo.» «Cinque anni» specificai tagliente. «E adesso, per favore, dimmi perché sei venuto.» «Per vari motivi» disse. «Ma prima preferisco che ti metta qualcosa di asciutto. E

quando torni, per favore, portami i tuoi documenti. Chiederteli all’uscita del cinema mi sembrava un po’ maleducato, nella tua attuale

situazione.» «Perché dovrei mostrarti i miei documenti?» «Perché, da quanto ho saputo, adesso sei cittadina marocchina.» «E a te che importa? Non hai il diritto di intrometterti nella mia vita.» «E chi te l’ha detto?» «Io e te non abbiamo nulla da spartire. Sono un’altra persona, Ignacio, non ho più

niente a che vedere con te né con il tempo in cui siamo stati insieme. Nella mia vita sono capitate tante cose, in questi anni, non sono più quella di una volta.»

«Nessuno di noi due è quello di una volta, Sira. Dopo una guerra come quella che ci è toccata, nessuno rimane uguale a prima.»

Scese il silenzio. Nella mia mente tornarono come gabbiani impazziti mille scene del passato, mille sentimenti che si scontravano senza che riuscissi a dominarli. Avevo di fronte quello che sarebbe potuto diventare il padre dei miei figli, un uomo buono che

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non aveva fatto altro che adorarmi, e al quale io avevo conficcato un pugnale nel cuore. Di fronte a me avevo anche l’individuo capace di trasformarsi nel mio peggiore incubo, che forse aveva trascorso gli ultimi cinque anni a masticare rancore e avrebbe fatto qualunque cosa per farmela pagare. Per esempio denunciarmi, accusarmi di non essere quella che dicevo di essere, riportare a galla i miei conti in sospeso con il passato.

«Dove hai trascorso gli anni della guerra?» chiesi quasi con paura. «A Salamanca. Ero andato a trovare mia madre per qualche giorno proprio quando c’è

stato l’alzamiento. Mi sono unito ai nazionalisti, non avevo altra scelta. E tu?» «A Tetuàn» dissi senza pensarci. Forse non avrei dovuto essere così esplicita, ma era

troppo tardi per tornare indietro. Stranamente, sembrava contento della mia risposta. Sulle sue labbra si disegnò un lieve sorriso.

«Certo» disse sottovoce. «Certo, ora ha senso.» «Cos’è che ha senso?» «Una cosa che avevo bisogno di sapere di te.» «Tu non hai bisogno di sapere niente di me, Ignacio. Devi solo dimenticarmi e

lasciarmi in pace.» «Non posso» disse in tono tagliente. Non gli chiesi perché. Temevo le spiegazioni, avevo paura che mi rimproverasse

l’abbandono e mi sbattesse in faccia il male che gli avevo fatto. O ancora peggio: che mi dicesse che mi amava ancora e mi supplicasse di tornare con lui.

«Devi andartene, Ignacio, devi smettere di pensare a me.» «Non posso, tesoro» ripeté con una punta amara di sarcasmo. «Non desidero altro che

dimenticare per sempre la donna che mi ha distrutto, ma non posso. Lavoro per la Direzione generale di sicurezza del ministero degli Interni. Ho l’incarico di sorvegliare e seguire gli stranieri che attraversano le nostre frontiere, specialmente quelli che si trasferiscono a Madrid con l’intenzione di restarci. Fra gli altri ci sei anche tu, in cima alla lista.»

Non sapevo se ridere o piangere. «Cosa vuoi da me?» chiesi quando riuscii a parlare di nuovo. «Documenti» mi intimò. «Passaporto e certificati doganali per tutte le cose

provenienti dall’estero che ci sono in questa casa. Ma prima cambiati.» Parlava con freddezza, sicuro di sé. Professionale, del tutto diverso dall’immagine di

un altro Ignacio, tenero e quasi infantile, che conservavo nel mio cassetto dei ricordi. «Hai qualche credenziale da mostrarmi?» dissi sottovoce. Avevo capito che non stava

mentendo, ma volevo prendere tempo per assimilare fino in fondo l’evidenza. Estrasse un portafoglio dalla tasca interna della giacca. Lo aprì usando la stessa mano

con cui lo teneva, esibendo la disinvoltura di chi è abituato a identificarsi di continuo. In effetti c’erano il suo cognome, il suo nome accanto all’incarico e l’organismo che aveva menzionato.

«Un momento» mormorai. Andai in camera mia; tirai fuori dall’armadio una camicetta bianca e una gonna blu,

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aprii il cassetto della biancheria intima per prendere gli indumenti puliti. Sfiorai con le dita le lettere di Beigbeder, nascoste fra le sottovesti piegate. Rimasi in dubbio per qualche secondo, indecisa sul da farsi: se lasciarle dov’erano o cercare in fretta un posto più sicuro. Esaminai tutta la stanza con uno sguardo avido: forse sopra l’armadio, o sotto il materasso. Magari fra le lenzuola. O dietro lo specchio della pettiniera. O in una scatola di scarpe.

«Sbrigati, per favore» gridò Ignacio da lontano. Spinsi le lettere in fondo, le nascosi completamente sotto una decina di indumenti e

chiusi il cassetto con un colpo secco. Tutti i posti si equivalevano, tanto valeva non sfidare la sorte.

Mi asciugai, mi cambiai, presi il passaporto dal comodino e tornai nel salone. «Arish Agoriuq» lesse lentamente quando glielo consegnai. «Nata a Tangeri e

residente a Tangeri. Compie gli anni lo stesso giorno in cui li compi tu, che coincidenza.» Non risposi. All’improvviso mi era venuta voglia di vomitare, ma mi trattenni. «Si può sapere a cosa è dovuto questo cambiamento di nazionalità?» La mia mente ordì una bugia in un batter d’occhio. Non avrei mai pensato di trovarmi

in una situazione del genere, e neppure Hillgarth. «Mi hanno rubato il passaporto e non ho potuto richiederne un altro a Madrid perché

eravamo nel pieno della guerra. Un amico è riuscito a farmi avere la nazionalità marocchina per poter viaggiare senza problemi. Non è un passaporto falso, puoi controllare.»

«Già fatto. E il nome?» «Hanno pensato che fosse meglio cambiarlo per farlo sembrare più arabo.» «E Arish Agoriuq sarebbe arabo?» «E’ cherja» mentii. «Il dialetto delle tribù berbere del Rif» aggiunsi rispolverando le

competenze linguistiche di Beigbeder. Rimase in silenzio per qualche secondo, continuando a guardarmi. Avevo ancora lo

stomaco sottosopra, ma mi sforzai di calmarmi per non dover correre in bagno. «Ho bisogno di sapere anche il motivo del tuo soggiorno a Madrid» chiese alla fine. «Sono venuta per lavorare. Per cucire, come sempre» risposi. «Questa è una sartoria.» «Fammi vedere.» Lo accompagnai nel salone in fondo e gli mostrai senza parlare i rotoli di stoffa, i

figurini e le riviste. Poi lo condussi lungo il corridoio e aprii le porte di tutte le stanze. Le sale prove in perfetto ordine. Il bagno per le clienti. Il laboratorio pieno di ritagli di stoffa, cartamodelli e manichini con abiti montati a metà. La stireria con diversi vestiti che attendevano il loro turno. E infine il magazzino.

Camminavamo insieme, affiancati, come avevamo percorso tanti tratti di vita in passato. Ricordai che allora gli arrivavo alla spalla; in quel momento la differenza sembrava minore. Non era la memoria, però, ad avermi giocato un brutto tiro: quando ero solo un’apprendista sarta e lui un aspirante funzionario portavo le scarpe basse;

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cinque anni dopo, invece, con i tacchi gli arrivavo all’altezza del naso. «Cosa c’è lì in fondo?» chiese. «La mia camera da letto, due bagni e quattro stanze; due sono per gli ospiti e le altre

due sono vuote. Poi la sala da pranzo, la cucina e la zona di servizio» recitai come se ripetessi una lezione a memoria.

«Voglio vedere tutto.» «Perché?» «Non sono tenuto a darti spiegazioni.» «D’accordo» mormorai. Gli mostrai le camere una per una con lo stomaco contratto, fingendo una freddezza

che distava anni luce dal mio stato reale e cercando di non fargli notare la mano tremante con cui premevo gli interruttori e abbassavo le maniglie. Le lettere di Beigbeder indirizzate a Rosalinda erano rimaste nell’armadio della mia camera da letto, sotto la biancheria intima; mi tremavano le gambe all’idea che gli venisse in mente di aprire quel cassetto e potesse trovarle. Quando entrò, lo guardai con il cuore in gola mentre percorreva lentamente la camera.

Fingendosi interessato sfogliò il romanzo che tenevo sul comodino, poi lo rimise al suo posto; passò le dita sul letto, sollevò una spazzola che c’era sulla pettiniera e si affacciò al balcone per qualche secondo.

Speravo con ansia che con quel gesto considerasse terminata la visita, ma non fu così. Quello che temevo di più doveva ancora venire. Aprì un’anta dell’armadio, dove c’erano gli abiti pesanti. Toccò la manica di un giaccone e la cintura di un altro, poi la richiuse. Aprì l’altra anta e io trattenni il fiato. Davanti ai suoi occhi comparve una fila di cassetti. Aprì quello in alto: fazzoletti. Alzò un angolo del primo, del secondo e del terzo, poi richiuse il cassetto. Aprì il secondo e io deglutii: calze. Lo chiuse. Quando le sue dita toccarono il terzo sentii che il pavimento mi cedeva sotto i piedi. Lì, nascosti dalle sottovesti di seta, c’erano i documenti manoscritti che esponevano nei particolari e in prima persona le circostanze del clamoroso cambio di guardia ministeriale che era sulla bocca di tutta la Spagna.

«Mi sembra che tu stia esagerando, Ignacio» riuscii a sussurrare. Tenne le dita sulla manopola del cassetto ancora per qualche secondo, come se stesse

valutando il da farsi. Sentivo caldo, freddo, angoscia. Pensavo che fosse arrivata la fine. Finché vidi che le sue labbra si schiudevano per

parlare. «Continuiamo» disse soltanto. Chiuse l’anta dell’armadio mentre io trattenevo un sospiro di sollievo e una voglia matta di scoppiare in lacrime. Dissimulai il mio stato come meglio potevo e ripresi il ruolo di guida a cui mi aveva costretto. Vide il bagno in cui mi lavavo e il tavolo su cui mangiavo, la dispensa dove conservavo il cibo, il lavatoio dove le ragazze facevano il bucato.

Forse non aveva proseguito per rispetto nei miei confronti, forse per semplice pudore o perché il protocollo del suo lavoro gli imponeva dei limiti che non aveva osato superare: non lo seppi mai. Tornammo nel salone senza dire una parola mentre io

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ringraziavo il cielo per quella perquisizione, che non era stata accurata fino in fondo. Si risedette sulla stessa poltrona e io di fronte a lui. «E’ tutto a posto?» «No» affermò categorico. «Non va bene niente; proprio niente.» Abbassai le palpebre, le strinsi con forza e le rialzai. «Cosa c’è che non va?» «Tutto. Niente è come dovrebbe essere.» All’improvviso mi parve di intravedere una piccola luce. «Cosa credevi di trovare, Ignacio? Cosa volevi trovare che non hai trovato?» Non rispose. «Pensavi che l’atelier fosse solo una copertura, vero?» Non rispose neanche questa volta, ma riportò la conversazione su un terreno a lui

familiare, riprendendo in mano le redini. «So benissimo chi ha messo su questa cosa.» «Quale cosa?» «Questa farsa della sartoria.» «Non è affatto una farsa. Qui si lavora duro. Per più di dieci ore al giorno, sette giorni

su sette.» «Ne dubito» disse acido. Mi alzai, mi avvicinai alla sua poltrona. Mi sedetti su un bracciolo e gli presi la mano

destra. Non fece resistenza, ma non mi guardò. Passai la sua mano sul mio palmo, sulle mie dita, piano, in modo che la sua pelle sentisse ogni millimetro della mia. Volevo solo mostrargli le prove del mio lavoro, le callosità e le durezze che le forbici, gli aghi e i ditali avevano lasciato nel corso degli anni. Mi accorsi che mentre lo sfioravo rabbrividì.

«Queste sono le mani di una donna che lavora, Ignacio. Immagino cosa credi che sia e cosa sospetti che faccia, ma voglio che ti sia ben chiaro che queste non sono le mani di una mantenuta. Mi dispiace tantissimo di averti fatto del male, non sai quanto. Non mi sono comportata bene con te, ma il passato è passato e non si può tornare indietro; non guadagnerai niente intromettendoti nella mia vita in cerca di fantasmi inesistenti.»

Smisi di sfiorargli le dita, ma gli tenni ancora stretta la mano. Era gelata. A poco a poco si riscaldò.

«Vuoi sapere che ne è stato di me quando me ne sono andata?» chiesi sottovoce. Ignacio annuì senza parlare. Continuava a non guardarmi. «Siamo andati a Tangeri. Sono rimasta incinta e Ramiro mi ha abbandonata. Ho perso

il bambino. Mi sono ritrovata all’improvviso da sola in una terra straniera, malata, senza soldi, con i debiti che lui aveva lasciato a nome mio e senza un posto dove andare. La polizia mi teneva d’occhio, ho avuto tutta la paura del mondo, sono stata coinvolta in faccende illegali. E poi ho messo su un atelier grazie all’aiuto di un’amica e ho ricominciato a cucire. Ho lavorato giorno e notte e mi sono fatta degli amici, persone molto diverse da me. Sono diventata più simile a loro e sono entrata in un mondo estraneo, senza mai smettere di lavorare. Ho conosciuto anche un uomo di cui mi sarei

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potuta innamorare e con il quale magari sarei stata felice un’altra volta, un giornalista straniero, ma sapevo che presto o tardi se ne sarebbe andato e non ho voluto tuffarmi in una nuova relazione per paura di tornare a soffrire, perché ero terrorizzata al pensiero di sentire ancora lo strazio provato quando Ramiro se n’è andato senza di me. Ora sono tornata a Madrid, da sola, e continuo a lavorare, hai visto i materiali che ci sono in questa casa. E rispetto a quello che è successo tra noi, il peccato ha portato con sé la penitenza, stanne certo. Non so se potrà bastarti o no, ma sappi che tutto il male che ti ho fatto l’ho pagato caro. Se esiste una giustizia divina, la mia coscienza è tranquilla sapendo che, fra quello che ho fatto a te e quello che poi è stato fatto a me, la bilancia è assolutamente in equilibrio.»

Non capii se quello che gli avevo detto lo aveva ferito, tranquillizzato o confuso ancora di più. Rimanemmo in silenzio per qualche minuto, la sua mano tra le mie, i corpi vicini, consapevoli della presenza dell’altro. Dopo un po’ mi staccai da lui e tornai al mio posto.

«Cosa c’è fra te e il ministro Beigbeder?» volle sapere. Parlava senza acredine. Senza acredine ma senza traccia di debolezza, a metà strada fra l’intimità di qualche istante prima e la distanza infinita dell’inizio. Notai che si sforzava di riacquistare un atteggiamento professionale. E notai anche che, purtroppo, ci riusciva senza troppa fatica.

«Juan Luis Beigbeder è un amico dei tempi di Tetuàn.» «Che genere di amico?» «Non è il mio amante, se è quello che pensi.» «Ieri ha passato la notte con te.» «L’ha passata a casa mia, non con me. Non devo renderti conto della mia vita privata,

ma preferisco chiarire questa cosa perché tu non abbia dubbi: io e Beigbeder non abbiamo una relazione. Ieri notte non siamo andati a letto insieme. Né ieri notte né mai. Io non ho nessun ministro che mi mantenga.»

«E allora perché?» «Perché non andiamo a letto insieme o perché non mi mantiene nessun ministro?» «Perché è venuto qui e ci è rimasto quasi fino alle otto del mattino.» «Perché aveva appena saputo di essere stato destituito e non voleva stare da solo.» Si alzò e si diresse verso un balcone. Ricominciò a parlare mentre guardava fuori con le mani in tasca. «Beigbeder è un cretino. Un traditore venduto ai britannici; un demente infoiato per

una troia inglese.» Risi di malavoglia. Mi alzai, mi avvicinai a lui alle sue spalle. «Non immagini neanche la verità, Ignacio. Ubbidisci agli ordini di chiunque lavori al

ministero degli Interni, e ti avranno incaricato di insinuare la paura in tutti gli stranieri che passano per Madrid, ma non hai la minima idea di chi sia il colonnello Beigbeder e del motivo per cui si è comportato come si è comportato.»

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«So quello che devo sapere.» «Cioè?» «Che è un cospiratore sleale nei confronti della patria. E un ministro incompetente. Lo

dicono tutti, a cominciare dalla stampa.» «Come se di questa stampa ci si potesse fidare...» commentai ironica. «E allora di chi dovremmo fidarci? Dei tuoi nuovi amici stranieri?» «Forse. Sanno molte più cose di voi.» Si girò e fece qualche passo deciso arrivando a pochi centimetri dalla mia faccia. «Cosa sanno?» chiese con voce roca. Capii che era meglio tacere e lo lasciai proseguire. «Per caso sanno che posso farti deportare domani mattina? Sanno che posso farti

sbattere in prigione, stracciare il tuo passaporto marocchino e portarti fuori dal paese con gli occhi bendati all’insaputa di tutti? Il tuo amico Beigbeder non è più al governo, sei rimasta senza protettore.»

Era così vicino a me che potevo vedere nitidamente quanto gli era cresciuta la barba dalla rasatura mattutina. Vedevo il suo pomo d’adamo salire e scendere, riuscivo a percepire ogni minimo movimento di quelle labbra che tante altre volte mi avevano baciata e che in quel momento pronunciavano crudeli minacce.

Risposi giocandomi l’unica carta che avevo a disposizione. Una carta falsa tanto quanto me.

«Beigbeder non c’è più, ma ho comunque appoggi che non immagini neanche. Le clienti per cui cucio hanno mariti e amanti potenti, e sono molto vicina ad alcuni di

loro. Possono offrirmi asilo in mezza dozzina di ambasciate, se solo lo chiedo, a cominciare da quella tedesca, dove puoi stare certo che tengono ben stretto per i coglioni il tuo ministro.

Posso salvarmi la pelle con una semplice telefonata. Chi non ci riuscirà, se non la smetti di impicciarti di cose che non ti competono, forse sei tu.»

Non avevo mai mentito a nessuno con tanta insolenza; forse proprio la menzogna spropositata mi aveva indotto a parlare in quel tono arrogante.

Non sapevo se mi aveva creduto. Forse sì: la storia era inverosimile tanto quanto la traiettoria della mia esistenza, ma io ero lì davanti a lui; la sua ex fidanzata trasformata in una suddita marocchina, prova evidente del fatto che anche le cose più incredibili possono diventare realtà in qualunque momento.

«Questo è tutto da vedere» sputò fra i denti. Si allontanò da me e tornò a sedersi. «Non mi piace la persona che sei diventato, Ignacio» sussurrai alle sue spalle. Scoppiò in una risata amara. «E chi sei tu per giudicarmi? Ti credi superiore perché durante la guerra eri in Africa

e sei tornata dandoti arie da gran signora? Pensi di essere migliore di me perché accogli in casa tua dei ministri che hanno smarrito la strada e ti lasci adulare con i cioccolatini mentre a tutti noi vengono razionati anche il pane nero e le lenticchie?»

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«Ti giudico perché tengo a te e perché ti auguro tutto il bene possibile» gli feci presente con un filo di voce.

Rispose con un’altra risata. Ancora più amara della precedente. Ma altrettanto sincera. «A te non importa di nessun altro all’infuori di te, Sira. Io, a me, me, con me. Io ho

lavorato, io ho sofferto, io ho pagato la mia colpa: io, io, io, io. Non ti interessa nessun altro, nessuno. Ti è mai venuto in mente di tornare nel tuo quartiere avvolta in uno dei tuoi vestiti eleganti per chiedere delle persone che ci vivono, per vedere se qualcuno ha bisogno di aiuto? Sai cos’è successo ai tuoi vicini di casa e alle tue amiche in questi anni?»

Le sue domande risuonavano come sferzate nella coscienza, come una manciata di sale lanciata a tradimento negli occhi aperti. Non avevo risposte: non sapevo nulla perché avevo deciso di non saperlo. Avevo eseguito gli ordini, ero stata ligia. Mi avevano detto di non uscire da una certa area e non lo avevo fatto. Mi ero sforzata di non vedere l’altra Madrid, quella reale, quella autentica. Avevo concentrato i miei spostamenti entro i confini di una città idilliaca, costringendomi a non guardarne l’altra faccia: quella delle vie piene di voragini, degli edifici con i segni lasciati dalle bombe, delle finestre senza vetri e delle fontane asciutte. Avevo preferito non soffermarmi sulle famiglie intere che frugavano nella spazzatura in cerca di bucce di patate, non posare lo sguardo sulle donne vestite a lutto che camminavano sui marciapiedi con i neonati attaccati al petto avvizzito; e non avevo guardato le frotte di bambini sporchi e scalzi che pullulavano intorno a loro, con le facce impiastricciate di moccio secco e le piccole teste rapate disseminate di croste, e tiravano per la manica i passanti per chiedere la carità, signore, un’elemosina, per quello che ha di più caro, signorina, mi dia una moneta, che Dio la benedica. Ero stata un’agente eccezionale e ubbidiente al servizio dell’intelligence britannica. Scrupolosamente ubbidiente. Disgustosamente ubbidiente.

Avevo seguito alla lettera le istruzioni ricevute: non ero tornata nel mio quartiere e non avevo messo piede nelle vie del passato. Avevo evitato di sapere che cosa ne era stato della mia gente, delle mie amiche d’infanzia. Non ero andata a vedere la mia piazza, non avevo calpestato l’acciottolato della mia strada stretta e non avevo salito la scala di casa mia. Non avevo suonato alla porta dei miei vicini, non avevo voluto sapere come stavano, che cosa ne era stato delle loro famiglie durante la guerra e dopo. Non avevo cercato di capire quanti di loro fossero morti, quanti ancora vivi. Non mi interessava che mi raccontassero quali avanzi malandati mettevano in pentola, né che i loro figli erano tisici, denutriti o scalzi. Non mi preoccupavano le loro misere esistenze piene di pidocchi e geloni. Ormai appartenevo a un altro mondo: quello delle cospirazioni internazionali, dei grandi alberghi, dei parrucchieri di lusso e dei cocktail all’ora dell’aperitivo. Quell’universo miserabile color grigio topo che puzzava di urina e coste bollite non aveva più niente a che fare con me. O almeno così credevo.

«Non ne sai nulla, vero?» continuò Ignacio lentamente. «Allora ascoltami bene, te lo racconto io. Il tuo vicino Norberto è caduto durante la battaglia di Brunete, il figlio maggiore è stato fucilato appena è entrato nelle truppe nazionaliste di Madrid, anche se,

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a quanto si dice, era stato coinvolto anche in episodi di repressione dell’altra parte. Quello di mezzo sta spaccando pietre a Cuelgamuros e quello piccolo nel

penitenziario di El Dueso: era entrato nel partito comunista, quindi probabilmente non uscirà per un bel po’, se uno di questi giorni non lo giustiziano. La madre, la signora Engracia, quella che si occupava di te e ti trattava come una figlia quando eri ancora una bambina e tua madre andava a lavorare, adesso è rimasta sola: è quasi cieca e gira per le strade frastornata, muovendo con un bastone tutto quello che trova. Nel tuo quartiere non sono rimasti né colombi né gatti, se li sono mangiati tutti. Vuoi sapere cosa ne è stato delle amiche con cui giocavi in plaza de la Paja? Posso dirti anche questo: Andreita è stata centrata da un obice un pomeriggio, mentre attraversava calle Fuencarral diretta alla sartoria dove lavorava...»

«Non voglio sapere altro, Ignacio, hai reso l’idea» dissi cercando di nascondere il turbamento. Ma sembrava che non mi avesse sentito, continuò a enumerare orrori.

«Sole, quella della latteria, è stata messa incinta di due gemelli da un miliziano che si è dileguato senza riconoscerli; e siccome non poteva occuparsi dei bambini perché non sapeva come mantenerli, se li sono portati via quelli del brefotrofio e non se n’è saputo più niente.

Dicono che si vende agli scaricatori del mercato della Cebada, chiedendo una peseta per ogni servizio che fa proprio lì, contro il muro di mattoni; dicono che va in giro senza mutande e alza la gonna quando i camion cominciano ad arrivare all’alba.»

Le lacrime cominciarono a rigarmi le guance. «Stai zitto, Ignacio, basta, per l’amor di Dio» sussurrai. Non mi fece caso. «Agustina e Nati, le figlie del pollivendolo, sono entrate in un comitato di infermiere

laiche e durante la guerra hanno lavorato all’ospedale San Carlos. Quando è finita, sono andate a cercarle a casa, le hanno fatte salire su un camion e da allora si trovano nel carcere di La Ventas; sono state giudicate dal tribunale di Las Salesas e condannate a trent’anni e un giorno. Trini, la panettiera...»

«Stai zitto, Ignacio, smettila...» supplicai. Finalmente cedette. «Potrei raccontarti molte altre storie, le conosco quasi tutte. Ogni giorno viene a

trovarmi qualcuno che ho conosciuto a quei tempi. Arrivano tutti con la stessa cantilena: “Una volta ho parlato con lei, signor Ignacio,

quando era il fidanzato di Sirita, la figlia della signora Dolores, la sarta che viveva in calle de la Redondilla”...»

«Perché vengono da te?» riuscii a chiedere tra le lacrime. «Tutti per la stessa cosa: per chiedermi di aiutarli a tirare fuori qualche familiare dal

carcere, per vedere se posso usare i miei contatti per salvare qualcuno dalla pena di morte, perché trovi un qualunque lavoro per loro, anche misero, purché sia... Non immagini come sono le giornate alla Direzione generale: nelle anticamere, nei corridoi e per le scale si affolla una massa di disperati che aspettano di essere ricevuti, disposti a sopportare qualunque cosa pur di ottenere una briciola di quello che sono venuti a

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chiedere: sperano di essere ascoltati, ricevuti, di trovare una pista di qualche caro disperso, un’indicazione su chi supplicare per ottenere la liberazione di un parente... Vengono soprattutto molte donne, moltissime. Non hanno di che vivere, sono rimaste da sole con i figli e non sanno come tirare avanti.»

«E tu puoi fare qualcosa per loro?» dissi cercando di fronteggiare l’angoscia. «Poco. Quasi niente. Dei delitti di guerra se ne occupano i tribunali penali. Da me

vengono alla disperata, così come assillano qualunque conoscente che lavori nell’amministrazione.»

«Ma tu sei del regime...» «Io sono solo un semplice funzionario senza il minimo potere, uno scalino come un

altro della gerarchia» disse. «Non posso fare altro che ascoltare le loro miserie, dirgli dove devono andare, quando lo so, e dargli una decina di pesetas quando le vedo sull’orlo della disperazione. Non sono neppure membro della Falange: ho fatto la guerra dove mi è toccato, e il destino ha voluto che alla fine mi sia ritrovato dalla parte dei vincitori. Per quello sono rientrato al ministero e ho svolto le funzioni che mi hanno assegnato. Ma non sto dalla parte di nessuno: ho visto troppi orrori e non rispetto più nessuno. Mi limito a eseguire gli ordini per avere da mangiare. Chiudo la bocca, chino la testa e sgobbo per mandare avanti la famiglia, tutto qui.»

«Non sapevo che avessi famiglia» dissi mentre mi asciugavo gli occhi con il fazzoletto che lui mi aveva teso.

«Mi sono sposato a Salamanca, e quando la guerra è finita siamo venuti a Madrid. Ho una moglie, due figli piccoli e una casa dove almeno qualcuno mi aspetta alla fine della giornata, per quanto dura e disgustosa sia stata. Il posto dove viviamo non assomiglia per niente a questo, ma ci sono sempre un fuoco acceso e le risate dei bambini nel corridoio. I miei figli si chiamano Ignacio e Miguel, mia moglie Amalia. Non l’ho mai amata come ho amato te, non muove il sedere con grazia quando cammina per la strada, e non l’ho mai desiderata neanche un quarto di quanto ho desiderato te stasera mentre mi tenevi la mano. Però affronta le difficoltà con il sorriso, canta quando è in cucina a preparare il poco che c’è, e mi abbraccia nel cuore della notte, quando mi tormentano gli incubi e grido e piango perché sogno di essere ancora al fronte e ho paura di essere ucciso.»

«Mi dispiace, Ignacio» dissi con un filo di voce. Il pianto mi impediva quasi di parlare.

«Può darsi che io sia un conformista e un mediocre, un servo fedele di uno Stato revanscista» aggiunse guardandomi negli occhi con l’aria ferma, «ma tu non puoi permetterti di dirmi se ti piace o non ti piace l’uomo che sono diventato. Non puoi permetterti di impartirmi lezioni di morale, Sira, perché se io sono cattivo, tu sei comunque peggio di me.

Almeno a me è rimasta una goccia di compassione nel cuore; a te neanche quella, credo. Non sei altro che un’egoista, abiti in una casa immensa che trasuda solitudine in ogni angolo; sei una sradicata che rinnega le proprie origini e non sa pensare a qualcuno

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al di fuori di se stessa.» Volevo gridargli di tacere, di lasciarmi in pace e di uscire dalla mia vita per sempre,

ma non potei pronunciare neanche la prima sillaba: dalle viscere mi salì una cascata di singhiozzi incontenibili, come se qualcosa mi straziasse dentro. Piansi. Coprendomi il volto piansi lacrime inconsolabili, infinite. Quando riuscii a smettere e tornai alla realtà, era mezzanotte passata e Ignacio non c’era più. Se n’era andato senza far rumore, con la stessa delicatezza con cui mi aveva trattato sempre. Ma la paura e l’inquietudine causate dalla sua presenza mi rimasero addosso. Non sapevo che conseguenze avrebbe avuto quella visita, non sapevo che cosa ne sarebbe stato di Arish Agoriuq dopo quella sera. Forse l’Ignacio di qualche anno prima avrebbe avuto pietà della donna che aveva amato così tanto e avrebbe deciso di lasciarla andare in pace per la sua strada. O forse il suo animo di perfetto funzionario della Nuova Spagna avrebbe deciso di riferire ai superiori i sospetti sulla mia falsa identità; forse - come aveva minacciato - sarei finita in carcere. O deportata. O sarei scomparsa.

Sul tavolo era rimasta una scatola di cioccolatini assai meno innocente di quanto la sua apparenza lasciasse pensare. La aprii con una mano mentre con l’altra mi asciugavo le ultime lacrime. Dentro trovai solo due dozzine di cioccolatini al latte. Esaminai l’involto finché, nel nastro rosa che chiudeva il pacchetto, scoprii una leggera punteggiatura quasi impercettibile. La decifrai nel giro di tre minuti. «Riunione urgente. Ambulatorio medico dottor Rico. Caracas, 29. Undici del mattino. Precauzioni estreme.»

Accanto ai cioccolatini era rimasto il bicchiere che qualche ora prima avevo riempito di cognac. Intatto. Come aveva detto Ignacio, nessuno di noi era più la persona di un tempo. Ma anche se la vita ci aveva cambiati, lui continuava a non bere.

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CAPITOLO 42 Varie centinaia di individui ben nutriti e vestiti ancor meglio accolsero il 1941 nel

Salone Reale del Casinò di Madrid al suono di un’orchestra cubana. Fra gli altri, come una di loro, c’ero anch’io.

Avevo intenzione di trascorrere quella serata da sola, forse avrei invitato la signora Manuela e le ragazze a dividere con me un cappone e una bottiglia di sidro, ma la tenace insistenza di due clienti, le sorelle Alvarez-Vicuna, mi costrinse a cambiare i miei programmi. Non ero particolarmente entusiasta, però mi impegnai per prepararmi con cura alla serata: mi feci fare una crocchia bassa e mi truccai mettendo in risalto gli occhi con il kohl marocchino, per dare allo sguardo quel falso aspetto da raro esemplare d’importazione che dovevo essere per tutti. Disegnai una specie di tunica color argento con le maniche ampie e una cintura alta che fasciava la vita; una mise a metà strada fra un esotico caffettano marocchino e l’eleganza di un abito da sera europeo.

Il fratello celibe delle mie clienti verme a prendermi a casa: un tale Ernesto di cui non seppi mai niente, tranne che aveva una faccia da volatile e che mi trattò con untuosa deferenza. Quando arrivai, salii con sicurezza la grande scalinata di marmo e, una volta entrata, finsi di non soffermarmi sulla magnifica sala né sulle diverse paia di occhi che mi trapassarono senza preoccuparsi di nasconderlo. Non mostrai di fare caso neanche ai giganteschi lampadari di cristallo di La Granja che pendevano dai soffitti, né agli stucchi che decoravano le pareti incorniciando grandiosi dipinti. Sicurezza, dominio di me stessa: ecco che cosa sprigionava la mia immagine. Come se la sontuosità di quel luogo fosse il mio ambiente naturale. Come se fossi un pesce e quell’opulenza l’acqua.

Ma non era così. Sebbene vivessi circondata di tessuti magnifici come quelli che sfoggiavano le signore intorno a me, il ritmo dei mesi precedenti non era stato precisamente un cadenzato lasciarsi portare, bensì un susseguirsi di giorni e notti in cui le mie due occupazioni avevano succhiato come insetti tutto il tempo che avevo, sempre più ridotto.

La riunione con Hillgarth due mesi prima, subito dopo l’incontro con Beigbeder e Ignacio, aveva segnato un prima e un dopo nel mio comportamento. Sul primo avevo fornito informazioni particolareggiate; il secondo, invece, non l’avevo nominato. Forse avrei dovuto farlo, ma qualcosa me lo aveva impedito: pudore, insicurezza, timore, forse. Ero consapevole che la visita di Ignacio era frutto della mia imprudenza: avrei dovuto mettere al corrente l’addetto navale del pedinamento ai primi sospetti, e forse in quel modo avrei evitato che un rappresentante del ministero degli Interni entrasse in casa mia così facilmente e mi aspettasse seduto nel salone. Ma l’incontro era stato troppo personale, troppo emotivo e doloroso per trovare posto nei freddi ingranaggi dei servizi

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segreti. Tacendolo contravvenivo al protocollo che mi era stato imposto e saltavo a piè pari le norme più elementari del mio incarico, certo. Ciò nonostante rischiai. E poi non era la prima volta che nascondevo qualcosa a Hillgarth: non gli avevo detto nemmeno che la signora Manuela apparteneva a quel passato cui lui mi aveva proibito di tornare. Per fortuna, né l’assunzione della mia vecchia maestra né la visita di Ignacio avevano avuto conseguenze immediate: alla porta dell’atelier non erano arrivati ordini di deportazione, nessuno mi aveva convocato per interrogarmi in un ufficio tetro, e i fantasmi con l’impermeabile avevano finalmente smesso di assillarmi. Se si trattava di una liberazione definitiva o solo di un sollievo transitorio era ancora da vedere.

Durante la riunione urgente che aveva convocato dopo la destituzione di Beigbeder, Hillgarth si era mostrato impassibile come il giorno in cui l’avevo conosciuto, ma il suo interesse per conoscere nei minimi particolari la visita del colonnello mi fece sospettare che l’ambasciata fosse scossa e sconcertata dalla notizia della destituzione.

Trovai senza problemi l’indirizzo dell’appuntamento, al primo piano di un palazzo d’epoca: in apparenza, niente di sospetto. Dopo aver suonato il campanello, dovetti aspettare solo qualche secondo perché la porta si aprisse e un’anziana infermiera mi facesse accomodare.

«Sono attesa dal dottor Rico» annunciai seguendo le istruzioni contenute nel nastro dei cioccolatini.

«Venga con me, prego.» Come mi aspettavo, quando entrai nell’ampia stanza nella quale mi accompagnò non

trovai un medico, ma un uomo inglese dalle sopracciglia folte che svolgeva un lavoro ben diverso. Anche se in varie occasioni l’avevo visto con l’uniforme blu della Marina, quel giorno era in borghese: camicia chiara, cravatta a pois e un elegante abito grigio di flanella. A prescindere dagli indumenti, la sua figura era assolutamente fuori posto in quell’ambulatorio, dotato di tutti gli elementi tipici di una professione che non era la sua: un paravento metallico con pannelli di tela, armadi a vetri stipati di boccette e strumenti, una branda accostata alla parete laterale, titoli e diplomi alle pareti. Mi diede una vigorosa stretta di mano e non perdemmo altro tempo in saluti e convenevoli.

Ci accomodammo e cominciai subito a parlare. Ripercorsi secondo per secondo la notte di Beigbeder, sforzandomi di non dimenticare alcun particolare. Ripetei tutto quello che avevo sentito dire all’ex ministro, descrissi con precisione il suo stato, risposi a decine di domande e consegnai a Hillgarth le lettere per Rosalinda. Il mio rapporto durò più di un’ora, nel corso della quale lui mi ascoltò seduto immobile con il volto tirato, mentre fumava metodicamente, sigaretta dopo sigaretta, un pacchetto intero di Craven A.

«Non abbiamo ancora idea delle conseguenze che questo cambiamento ministeriale avrà per noi, ma la situazione è tutt’altro che rosea» chiarì alla fine, spegnendo l’ultima sigaretta. «Abbiamo informato Londra, che per il momento non ci ha ancora risposto; quindi siamo in attesa. La prego dunque di essere estremamente cauta e di non commettere errori. Ricevere Beigbeder a casa sua è stata un’autentica imprudenza;

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capisco che non potesse impedirgli di entrare e ha fatto bene a calmarlo, per evitare che il suo stato portasse a esiti ancora più problematici, ma il rischio che ha corso è stato elevatissimo. D’ora in poi, per favore, agisca con la massima cautela, e in futuro cerchi di non trovarsi in situazioni simili. E stia attenta alle presenze sospette intorno a lei, in particolare nei pressi del suo domicilio: non escluda la possibilità di essere sorvegliata.»

«Lo farò, non si preoccupi.» Intuii che forse sospettava qualcosa di Ignacio e del pedinamento cui mi aveva sottoposta, ma preferii non indagare.

«Le acque si intorbidiranno ancora di più; per il momento è tutto quello che sappiamo» aggiunse mentre mi tendeva la mano per salutarmi prima che me ne andassi. «Ora che la Germania si è liberata del ministro più scomodo, prevediamo che la sua pressione sul territorio spagnolo aumenterà; quindi stia all’erta e si tenga pronta a qualunque imprevisto.»

Nel corso dei mesi successivi agii di conseguenza: ridussi i rischi, cercai di comparire in pubblico il meno possibile e mi concentrai sui miei impegni tenendo gli occhi ben aperti. Continuavamo a cucire, molto, sempre di più. La relativa tranquillità raggiunta con l’arrivo della signora Manuela all’atelier durò appena qualche settimana: la clientela in aumento e l’approssimarsi del periodo natalizio mi costrinsero a dedicare di nuovo il cento per cento del mio tempo al cucito. Fra una prova e l’altra, però, continuavo a svolgere una diversa mansione: quella clandestina, parallela. Così, mentre aggiustavo i fianchi di un abito da cocktail, raccoglievo informazioni sugli invitati al ricevimento offerto dall’ambasciata tedesca in onore di Himmler, il capo della Gestapo, e mentre prendevo le misure del nuovo tailleur per una baronessa venivo a conoscenza dell’entusiasmo con cui la comunità tedesca aspettava l’imminente trasferimento a Madrid del ristorante berlinese di Otto Horcher, il locale preferito dalle alte cariche naziste. Di tutto quello e di molto altro informai Hillgarth in modo rigoroso: frammentando il materiale minuziosamente, scegliendo le parole più adatte, camuffando i messaggi in mezzo a quelle che sembravano innocenti impunture e recapitandoli con puntualità. Seguii il suggerimento dell’addetto navale e rimasi sempre all’erta e concentrata, attenta a tutto quello che accadeva intorno a me. E grazie a quel comportamento mi accorsi che qualcosa stava cambiando: piccoli particolari che forse erano la conseguenza della nuova situazione, o semplici coincidenze frutto del caso. Un sabato al Museo del Prado non incontrai il solito uomo calvo che aveva sempre preso in consegna la mia cartellina piena di cartamodelli codificati; non lo vidi mai più.

Alcune settimane dopo la ragazza del guardaroba dal parrucchiere fu sostituita da

un’altra donna: più matura, più robusta e altrettanto ermetica. Notai anche una maggiore vigilanza nelle strade e nei locali, e imparai a distinguere le figure che se ne facevano carico: tedeschi imponenti come armadi, muti e minacciosi, con il cappotto lungo quasi fino ai piedi; spagnoli asciutti che fumavano nervosamente davanti a un portone, accanto a un locale, dietro un cartello. Anche se in teoria non ero l’oggetto delle loro missioni, cercavo di evitarli cambiando direzione o marciapiede non appena li scorgevo. A volte,

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per evitare di passare accanto a loro o per non trovarmene uno di fronte, mi rifugiavo in un negozio qualunque o mi fermavo davanti a un venditore di caldarroste o a una vetrina. In altre occasioni, tuttavia, mi era impossibile schivarli, perché me li trovavo davanti all’improvviso, senza un margine d’azione per invertire il senso di marcia. In quei casi mi armavo di coraggio: formulavo un muto “andiamo”, allungavo il passo con decisione e guardavo dritto di fronte a me. Sicura, indifferente, quasi sdegnosa, come se quello che avevo in mano fosse un acquisto capriccioso o un nécessaire per cosmetici e non un carico di dati cifrati sull’agenda privata delle figure più rilevanti del Terzo Reich in Spagna.

Mi tenevo informata anche sulla situazione politica. Come ero solita fare con Jamila a Tetuàn, ogni mattina mandavo Martina a comprare i giornali: “Abc”, “Arriba”, “El Alcazar”. Mentre facevo colazione, tra un sorso di caffellatte e l’altro, divoravo le cronache degli avvenimenti spagnoli ed europei. In quel modo venni a sapere che Serrano Suner era stato nominato ministro degli Esteri, e seguii parola per parola le notizie relative al viaggio durante il quale Franco e il nuovo ministro avevano incontrato Hitler a Hendaye. Lessi anche del patto tripartito fra Germania, Italia e Giappone, dell’invasione della Grecia e dei mille eventi che si succedevano in modo vertiginoso in quei tempi convulsi.

Lessi, cucii, informai. Informai, cucii e lessi: nell’ultima parte di quell’anno che stava per finire le mie giornate trascorrevano tutte allo stesso modo. Per quel motivo accettai la proposta di festeggiare il capodanno al Casinò: un po’ di svago mi avrebbe aiutato a scaricare la tensione.

Marita e Teté Alvarez-Vicuna si avvicinarono al fratello e a me non appena ci videro entrare nel salone. Elogiammo vicendevolmente gli abiti e le acconciature, parlammo di frivolezze e banalità e lasciai cadere come sempre qualche parola in arabo e qualche espressione posticcia in francese. Nel frattempo esaminai la sala con la coda dell’occhio e individuai diversi volti familiari, varie uniformi e alcune svastiche.

Mi chiesi quanti degli individui che si muovevano in quel luogo con aria rilassata fossero, come me, spie e agenti in incognito. Intuii che potessero essere molti e decisi di non fidarmi di nessuno e di tenere gli occhi aperti; forse avrei ottenuto qualche dato interessante per Hillgarth e i suoi. Mentre la mia mente elucubrava quei piani e io fingevo di seguire la conversazione, la mia cliente Marita si allontanò per qualche istante. Quando tornò era sottobraccio a un uomo, e capii subito che la serata aveva preso un’altra piega.

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CAPITOLO 43 «Arish, cara, voglio presentarti il mio futuro suocero, Gonzalo Alvarado. Gli

piacerebbe molto parlare con te dei suoi viaggi a Tangeri e degli amici che aveva lì, magari ne conosci qualcuno.»

In effetti davanti a me c’era Gonzalo Alvarado, mio padre. In frac e con in mano un bicchiere di whisky a metà. Nel momento in cui ci guardammo negli occhi per la prima volta capii che sapeva benissimo chi ero. Un attimo dopo intuii anche che l’idea di invitarmi a quella festa era partita da lui. Quando mi prese la mano e l’avvicinò alla bocca simulando un baciamano, nessuno in quella sala avrebbe potuto neanche immaginare che le cinque dita che quell’uomo stringeva appartenevano a sua figlia. Ci eravamo visti soltanto per un paio d’ore in tutta la vita, ma dicono che il richiamo del sangue sia talmente forte da far capitare cose del genere, a volte. A pensarci bene, però, forse la sua perspicacia e la sua buona memoria erano prevalse sull’istinto paterno.

Era più magro e con più capelli bianchi, ma continuava ad avere un bell’aspetto. L’orchestra cominciò a suonare Aquellos ojos verdes e lui mi invitò a ballare.

«Non sai quanto sono felice di rivederti» disse. Nel suo tono di voce colsi qualcosa di simile alla sincerità.

«Anch’io» mentii. In realtà non sapevo se ero felice o no; ero ancora troppo turbata dall’incontro inaspettato per elaborare un giudizio razionale.

«E così hai un altro nome, un altro cognome e saresti marocchina. Immagino che non mi rivelerai il motivo di questi cambiamenti.» «No, credo che non lo farò. Del resto, credo che non le interesserebbero più di tanto,

sono cose mie.» «Dammi del tu, per favore.» «Come preferisci. Vorresti anche che ti chiamassi papà?» chiesi con una punta di

sarcasmo. «No, grazie. Gonzalo basta.» «D’accordo. Come stai, Gonzalo? Credevo che fossi stato ucciso durante la guerra.» «Sono sopravvissuto, come vedi. E’ una lunga storia, troppo tetra per la sera di

capodanno. Come sta tua madre?» «Bene. Adesso vive in Marocco, abbiamo un atelier a Tetuàn.» «Quindi alla fine mi avete dato retta e avete lasciato la Spagna in tempo?» «Più o meno. Anche la nostra è una storia lunga.» «Forse un altro giorno ti andrà di raccontarmela. Possiamo vederci per parlare un po’;

permettimi di invitarti a pranzo» suggerì. «Non credo di potere. Non faccio tanta vita sociale, ho troppo lavoro.

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Oggi sono venuta per compiacere due clienti. Che ingenua, pensavo che la loro insistenza fosse del tutto disinteressata. Ma ora vedo che dietro un cortese e innocente invito rivolto alla creatrice di moda più in voga del momento c’era qualcos’altro. Perché l’idea è venuta da te, vero?»

Non disse né sì né no, ma l’affermazione fluttuò nell’aria, sospesa fra le note del bolero.

«Marita, la fidanzata di mio figlio, è una brava ragazza: affettuosa ed entusiasta come poche, anche se non particolarmente sveglia. In ogni caso l’apprezzo molto: è l’unica che sia riuscita a far mettere la testa a posto a quello scriteriato di tuo fratello Carlos: lo porterà all’altare tra un paio di mesi.»

Guardammo entrambi verso la mia cliente. Stava parlottando con la sorella Teté; entrambe indossavano modelli usciti da Chez Arish e non ci staccavano gli occhi di dosso. Con un sorriso tirato sulle labbra, mi ripromisi di non fidarmi più delle clienti capaci di raggirare con canti di sirena i cuori solitari in serate tristi come quella di un anno che se ne sta andando.

Gonzalo, mio padre, continuò a parlare. «Ti ho visto tre volte in autunno. La prima volta stavi scendendo da un taxi ed entravi

all’Embassy; io ero con il mio cane a cinquanta metri dall’ingresso, ma non te ne sei accorta.»

«No, non me ne sono accorta, certo. Sono quasi sempre di fretta.» «Mi sembravi tu, ma ti ho visto solo per qualche secondo e ho pensato che forse era

stato un abbaglio. La seconda volta era un sabato mattina, al Museo del Prado; mi piace farci un giro, ogni tanto. Ti ho seguita da lontano mentre attraversavi diverse sale; non ero ancora del tutto sicuro che fossi tu. Poi sei andata al guardaroba per prendere una cartellina e ti sei seduta a disegnare davanti al ritratto di Isabella del Portogallo di Tiziano. Io mi sono piazzato all’angolo opposto della sala e sono rimasto lì, a osservarti, finché non hai raccolto le tue cose. A quel punto me ne sono andato, ormai convinto di non essermi sbagliato. Eri tu con uno stile diverso: più matura, più sicura ed elegante, ma indubbiamente la stessa figlia che avevo conosciuto spaventata come un coniglio poco prima che cominciasse la guerra.»

Non volli lasciare il benché minimo spazio alla malinconia e intervenni immediatamente.

«E la terza?» «Appena un paio di settimane fa. Camminavi in calle Velàzquez, io ero in macchina

con Marita, la stavo accompagnando a casa dopo un pranzo da alcuni amici; Carlos aveva da fare. Ti abbiamo vista entrambi nello stesso momento e con mia grande sorpresa lei ti ha indicato e mi ha detto che eri la sua nuova creatrice di moda, che venivi dal Marocco e ti chiamavi Arish qualcosa.»

«Agoriuq. In realtà è il mio cognome di sempre al contrario. Quiroga, Agoriuq.» «Suona bene. Beviamo qualcosa, signorina Agoriuq?» chiese con un’espressione

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ironica. Ci facemmo largo tra la gente, prendemmo due coppe di champagne dal vassoio

d’argento che un cameriere ci porse e ci spostammo su un lato del salone, mentre l’orchestra attaccava una rumba e la pista si riempiva un’altra volta di coppie.

«Preferisci che non riveli a Marita il tuo vero nome e la nostra relazione, immagino» disse quando ci allontanammo dal trambusto. «Come ti ho detto è una brava ragazza, ma va pazza per i pettegolezzi e la discrezione non è certo il suo forte.»

«Ti sarei grata se non dicessi niente a nessuno. In ogni caso, voglio che tu sappia che il mio nuovo nome è ufficiale e il passaporto marocchino è autentico.»

«Immagino che tu abbia le tue buone ragioni per questo cambiamento.» «Certo. In questo modo acquisto un’aura esotica agli occhi delle clienti ed evito di

avere la polizia alle calcagna per la denuncia che tuo figlio ha sporto contro di me.» «Carlos ti ha denunciata?» La mano che reggeva il bicchiere era rimasta sospesa in

aria, la sua sorpresa sembrava assolutamente autentica. «Non Carlos, l’altro tuo figlio, Enrique. Poco prima che iniziasse la guerra. Mi ha

accusata del furto del denaro e dei gioielli che mi hai dato.» Sorrise senza dischiudere le labbra, con amarezza. «Enrique è stato ucciso tre giorni dopo l’alzamiento. Una settimana prima avevamo

avuto una discussione terribile. Era molto politicizzato, intuiva che a breve sarebbe successo qualcosa di grosso e voleva portare fuori dalla Spagna tutto il denaro che avevamo in contanti, i gioielli e gli oggetti di valore. Ho dovuto dirgli che ti avevo consegnato la tua parte di eredità; in effetti potevo anche tacere, ma ho preferito non farlo. E così gli ho raccontato la storia di Dolores e gli ho parlato di te.»

«E l’ha presa male» lo anticipai. «E’ diventato una belva e mi ha rivolto insulti di ogni genere. Poi ha chiamato

Servanda, la vecchia domestica, immagino che la ricorderai. Le ha fatto il terzo grado su di voi. E lei gli ha raccontato che tu eri uscita di corsa con un pacchetto in mano; a quel punto deve avere elaborato quest’assurda versione del furto. Dopo la lite se n’è andato di casa sbattendo la porta così forte da far tremare tutto il palazzo.

L’ho rivisto solo undici giorni dopo, nel deposito dell’Estadio Metropolitano, con un proiettile in testa.»

«Mi dispiace.» Si strinse nelle spalle con aria rassegnata. Nei suoi occhi percepii un dolore immenso. «Era scriteriato, folle, ma era mio figlio. Il nostro rapporto negli ultimi tempi era stato

difficile e turbolento; apparteneva alla Falange, e a me questo non piaceva. E dire che a guardarla oggi, la Falange di allora era quasi una benedizione. Almeno si basava su ideali romantici e principi un po’ utopistici ma in qualche misura razionali. I membri erano un’accolita di illusi viziati, una massa di perdigiorno, perlopiù, ma avevano ben poco a che vedere con gli opportunisti di oggi, quelli che urlano Cara al sol con il braccio alzato e la vena del collo gonfia, invocando l’assente come se fosse l’ostia benedetta, quando non avevano neanche sentito nominare José Antonio Primo de Rivera

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prima che iniziasse la guerra. Non sono altro che una banda di sgherri arroganti e grotteschi...»

Tornò di colpo alla realtà dei lampadari di cristallo luccicanti, del suono delle maracas e delle trombe, dei corpi che si muovevano al ritmo di El manisero. Tornò alla realtà e a me, mi toccò il braccio, mi fece una lieve carezza.

«Scusa, a volte mi infervoro più del dovuto. Ti sto annoiando, non è il momento di parlare di queste cose. Vuoi ballare?»

«No, non ne ho voglia, grazie. Preferisco continuare a parlare con te.» Si avvicinò un cameriere, lasciammo sul suo vassoio i bicchieri vuoti e ne

prendemmo due pieni. «Eravamo rimasti al punto in cui Enrique ti ha denunciato...» disse allora. Non lo lasciai proseguire; prima volevo chiarire un dubbio che mi frullava in testa da

quando ci eravamo incontrati. «Prima che ti racconti, dimmi una cosa. Dov’è tua moglie?» «Sono rimasto vedovo. Prima della guerra, poco dopo aver visto te e tua madre nella

primavera del ‘36. Maria Luisa era nel Sud della Francia con le sorelle. Una di loro aveva una Hispano-Suiza e un autista a cui piaceva un po’ troppo la vita notturna. Una mattina è passato a prenderle per portarle a messa; probabilmente era stato sveglio tutta la notte e in un assurdo momento di distrazione è andato fuori strada. Due sorelle, Maria Luisa e Concepción, sono morte. Il conducente ha perso una gamba, mentre la terza sorella, Soledad, è rimasta illesa. Era la più vecchia, ironia della sorte.»

«Mi dispiace molto.» «A volte penso che per lei sia stata la cosa migliore. Era insicura, aveva un carattere

tremendamente pavido; ogni piccolo incidente domestico le provocava un grande turbamento. Credo che non avrebbe retto la guerra, né in Spagna né all’estero. E certo non avrebbe superato la morte di Enrique. Perciò, forse la divina provvidenza le ha fatto un favore portandosela via prima del tempo. E ora continua a raccontarmi; parlavamo della denuncia. Sai qualcos’altro, hai idea di come stiano le cose adesso?»

«No. In settembre, prima di venire a Madrid, il commissario di polizia di Tetuàn ha cercato di informarsi.»

«Per incriminarti?» «No, per aiutarmi. Il commissario Vàzquez non è propriamente un amico, ma mi ha

sempre trattato bene. Devi sapere che tua figlia si è messa in qualche pasticcio.» Il tono della mia voce gli fece capire che parlavo seriamente. «Dimmi qualcosa di più. Mi piacerebbe poterti aiutare.» «Per il momento non credo che ce ne sia bisogno, adesso è più o meno tutto a posto,

ma grazie per la proposta. In ogni caso, forse hai ragione: una volta dovremmo vederci e parlare con calma. In parte i miei problemi riguardano anche te.»

«Anticipami qualcosa.» «Non ho più i gioielli di tua madre.» Non sembrò turbato.

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«Hai dovuto venderli?» «Me li hanno rubati.» «E i soldi?» «Anche.» «Tutti?» «Fino all’ultimo centesimo.» «Dove?» «In un albergo di Tangeri.» «Chi?» «Un disgraziato.» «Lo conoscevi?» «Sì. E adesso, se non ti spiace, cambiamo discorso. Un altro giorno, con più calma, ti

racconterò i particolari.» Mancava poco a mezzanotte e nel salone c’erano sempre più frac, più uniformi di

gala, più abiti da sera e scollature piene di gioielli. Predominavano gli spagnoli, ma c’era anche un buon numero di stranieri. Tedeschi, inglesi, americani, italiani, giapponesi; un pot-pourri di paesi in guerra,

immersi in una rete di rispettabili e danarosi cittadini spagnoli, indifferenti per qualche ora alla selvaggia distruzione dell’Europa e alla miseria di un popolo devastato che stava per dire addio a uno degli anni più terribili della sua storia. Le risate risuonavano ovunque e le coppie continuavano a scivolare al ritmo di congas e guarcichas interpretate senza posa dall’orchestra di musicisti neri. I lacchè in livrea che ci avevano accolto ai piedi delle scale cominciarono a distribuire i cestini con i grappoli d’uva, e invitarono gli ospiti a dirigersi verso la terrazza per mangiarli seguendo i rintocchi scanditi dal vicino orologio della Puerta del Sol.

Mio padre mi offrì il braccio e io lo accettai: anche se eravamo arrivati ciascuno per conto suo, in qualche modo c’era un tacito accordo per accogliere il nuovo anno insieme. Sulla terrazza raggiungemmo alcuni amici, suo figlio e le mie clienti intriganti. Mi presentò Carlos, il mio fratellastro, simile a lui e per niente a me. Non avrebbe certo potuto intuire che aveva davanti la sartina parvenu con il suo stesso sangue, quella denunciata dal fratello per aver sottratto a entrambi una fettina di eredità.

Nessuno sembrava badare al freddo intenso della terrazza: il numero di persone era aumentato parecchio e i camerieri circolavano tra gli ospiti senza posa, svuotando bottiglie di champagne avvolte in grandi tovaglioli bianchi. Le conversazioni animate, le risate e il tintinnare dei bicchieri sembravano sospesi nell’aria, sul punto di sfiorare il cielo invernale nero come il carbone. Dalla strada, intanto, come un ruggito roco saliva il suono delle voci di una massa di poveracci; quelli che la malasorte aveva destinato a rimanere per strada, a condividere un litro di vino scadente o una bottiglia di grappa che graffiava la gola come sabbia.

Cominciarono a risuonare i rintocchi di campana, prima i quarti, poi quelli definitivi. Mi concentrai a mangiare gli acini d’uva: dong, uno, dong, due, dong, tre, dong, quattro.

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Al quinto mi accorsi che Gonzalo mi aveva messo il braccio intorno alle spalle e mi attirava a sé; al sesto gli occhi mi si riempirono di lacrime. Inghiottii il settimo, l’ottavo e il nono acino alla cieca, sforzandomi di reprimere il pianto. Al decimo ci riuscii, con l’undicesimo mi ricomposi e quando risuonò l’ultimo rintocco mi girai e abbracciai mio padre per la seconda volta in vita mia.

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CAPITOLO 44 A metà gennaio incontrai Gonzalo Alvarado per riferirgli nei particolari il furto della

sua eredità. Mi sembrò che credesse alla storia; se non era così, lo nascose bene. Pranzammo da Lhardy e mi propose di continuare a vederci. Rifiutai senza avere un buon motivo per farlo; forse pensai che fosse troppo tardi per recuperare tutto ciò che non avevamo mai vissuto insieme.

Lui continuò a insistere, non sembrava disposto ad accettare facilmente il mio rifiuto.

E in parte la ebbe vinta: il muro della mia resistenza a poco a poco crollò. Pranzammo di nuovo insieme altre volte, andammo a teatro e a un concerto al Real, una domenica mattina passeggiammo anche al Parque del Retiro come aveva fatto con mia madre trent’anni prima. Aveva parecchio tempo, non lavorava più; alla fine della guerra era riuscito a riprendere il controllo della fonderia, ma aveva deciso di non riaprirla. Poi aveva venduto i terreni su cui sorgeva la fabbrica cominciando a vivere di rendita. Perché non aveva voluto continuare? Perché non aveva rimesso in piedi la sua azienda dopo la fine del conflitto? Per pura disillusione, credo. Non mi raccontò mai nei particolari le vicissitudini di quegli anni, ma i commenti inseriti nelle conversazioni di allora mi permisero di ricostruire a grandi linee il suo doloroso periplo. Comunque, non sembrava un uomo risentito: era troppo razionale per permettere che le viscere prendessero il sopravvento sulla sua vita. Sebbene appartenesse alla classe dei vincitori, era molto critico nei confronti del nuovo regime. Era ironico, un buon conversatore, e riuscimmo a creare un rapporto speciale con cui non intendevamo compensare la sua assenza durante gli anni della mia infanzia e della mia giovinezza, ma cominciare un’amicizia fra adulti. Nella sua cerchia si mormorò su di noi, si speculò sulla natura del legame che ci univa, e alle sue orecchie giunsero mille assurde supposizioni di cui mi mise a parte divertito, e che non si preoccupò di chiarire a nessuno.

Gli incontri con mio padre mi aprirono gli occhi su un aspetto della realtà che non conoscevo. Grazie a lui venni a sapere che il paese, anche se i giornali non lo raccontavano, viveva una crisi di governo permanente, dove le voci di destituzioni e dimissioni, le sostituzioni ministeriali, le rivalità e le cospirazioni si moltiplicavano come i pani e i pesci. La caduta di Beigbeder dopo quattordici mesi dal giuramento a Burgos era stata la più fragorosa, ma non certo l’unica.

Mentre la Spagna iniziava lentamente la ricostruzione, i diversi gruppi che avevano contribuito alla vittoria, lungi dal convivere in armonia, si tiravano le cose in testa come in una farsa da avanspettacolo.

L’esercito contro la Falange, la Falange arrabbiata a morte con i monarchici, i

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monarchici indemoniati perché Franco non si impegnava per la restaurazione; e il Caudillo dentro El Pardo, appartato e indefinito, che firmava sentenze con il polso fermo e senza sbilanciarsi a favore di nessuno; Serrano Suner sopra tutti, e tutti a loro volta contro Serrano; alcuni a brigare a favore dell’Asse, altri per gli Alleati, ognuno a scommettere alla cieca senza sapere alla lunga quale fazione sarebbe riuscita a chiudere le capre nel recinto, come avrebbe detto Candelaia, cioè l’avrebbe avuta vinta.

I tedeschi e i britannici continuavano il costante tira e molla, tanto sulla carta geografica del mondo quanto nelle strade della capitale spagnola. E per disgrazia della causa a cui la sorte mi aveva avvicinato, l’apparato di propaganda dei tedeschi sembrava molto più potente ed efficace. Come mi aveva detto Hillgarth a Tangeri, l’arduo lavoro dei nazisti era gestito dall’ambasciata, con mezzi economici più che generosi e una squadra formidabile guidata dal famoso Lazar, che poteva contare anche sulla compiacenza del regime. Avevo notizie di prima mano sulla sua vita sociale infaticabile: nel mio atelier gli accenni alle sue cene e feste erano continui da parte delle tedesche e di alcune spagnole, e nelle sale della sua villa sfilava ogni sera qualche mio modello.

Sempre più di frequente comparivano sui giornali campagne destinate ad accrescere il prestigio dei tedeschi. Allo scopo si utilizzavano annunci vistosi ed efficaci che pubblicizzavano con uguale entusiasmo nuovi motori a benzina e coloranti per tingere i vestiti. La propaganda era costante e mescolava idee e prodotti, persuadendo la gente che l’ideologia dei tedeschi era capace di ottenere progressi irraggiungibili per gli altri paesi del mondo. Il tono in apparenza tecnico degli annunci non occultava il messaggio: la Germania era pronta a dominare il pianeta e voleva farlo sapere ai buoni amici che aveva in Spagna. E perché non ci fossero dubbi, di solito nelle loro campagne spiccavano disegni di grande impatto, enormi scritte e pittoresche carte geografiche dell’Europa in cui la Germania e la penisola iberica erano collegate da frecce appariscenti, mentre la Gran Bretagna sembrava sprofondata al centro della Terra.

Nelle farmacie, nei caffè e nelle botteghe dei barbieri si distribuivano gratuitamente riviste satiriche e giornaletti di enigmistica regalati dai tedeschi; le barzellette e i fumetti si mescolavano a resoconti di operazioni militari vittoriose, e la soluzione corretta dei rompicapo e dei rebus era sempre politica, a favore della causa nazista. Succedeva lo stesso con i fascicoli informativi destinati ai professionisti, le storie d’avventura per ragazzi e bambini, e addirittura con i fogli parrocchiali di centinaia di chiese. Si diceva inoltre che le strade fossero affollate di informatori spagnoli, assoldati dai tedeschi per realizzare un lavoro di propaganda diretta alle fermate dei tram e alle code davanti ai negozi e ai cinema. A volte gli slogan erano in qualche modo credibili, spesso del tutto assurdi. Circolavano fandonie sempre sfavorevoli agli inglesi e a chi li sosteneva: stavano rubando l’olio d’oliva agli spagnoli per trasportarlo a Gibilterra con veicoli diplomatici; la farina donata dalla Croce Rossa americana era talmente cattiva da far ammalare gli spagnoli; nei mercati non c’era pesce perché i pescatori iberici erano bloccati da navi della Marina britannica; la qualità del pane era pessima perché i sudditi di Sua Maestà affondavano le imbarcazioni argentine cariche di grano; gli americani, in

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collaborazione con i russi, preparavano un’imminente invasione della penisola. I britannici, intanto, non rimanevano certo impassibili. La loro reazione consisteva in

primo luogo nell’addossare con qualunque mezzo al regime spagnolo tutte le calamità che colpivano la popolazione, insistendo soprattutto sui punti dolenti: la scarsità di cibo, la fame che favoriva le malattie delle persone che mangiavano avanzi raccolti fra l’immondizia, le famiglie intere che correvano disperate dietro i camion dell’Auxilio Social, e le madri che si ingegnavano chissà come a friggere senza olio, a preparare frittate senza uova, dolci senza zucchero e uno strano insaccato senza traccia di maiale e con un sospetto sapore di baccalà. Anche gli inglesi aguzzavano l’ingegno per fomentare le simpatie spagnole verso la causa alleata. L’ufficio stampa dell’ambasciata redigeva a Madrid una pubblicazione fatta in casa che gli stessi funzionari si impegnavano a distribuire sui marciapiedi vicini alla loro sede, guidati dall’addetto stampa, il giovane Tom Burns. Era entrato in funzione da poco l’Istituto britannico, diretto da un tale Walter Starkie, un cattolico irlandese che alcuni chiamavano “don Gitano”, dal titolo di una sua opera. A quanto si diceva, l’apertura non aveva avuto altro permesso da parte delle autorità spagnole oltre alla parola sincera ma ormai indebolita di Beigbeder nei suoi ultimi colpi di coda come ministro. In apparenza si trattava di un centro culturale in cui si impartivano lezioni di inglese e si organizzavano conferenze, incontri e altri eventi, alcuni dei quali più sociali che meramente intellettuali. Ma sotto sotto, a quanto pareva, era uno strumento di propaganda mascherato più sofisticato rispetto alle strategie dei tedeschi.

Trascorse così l’inverno, laborioso e teso, duro per quasi tutti: per i paesi e per gli esseri umani. E quasi senza che me ne rendessi conto, mi piombò addosso la primavera. Con la bella stagione arrivò anche un nuovo invito di mio padre. Sarebbe stato inaugurato l’ippodromo di La Zarzuela, perché non lo accompagnavo? Quando ero solo una giovane apprendista presso la casa di moda della signora Manuela, sentivamo parlare di continuo dell’ippodromo frequentato dalle nostre clienti. Probabilmente erano pochissime le signore interessate alle corse in sé, ma ci andavano a gareggiare, come i cavalli. Se non in velocità, almeno in eleganza. L’ippodromo allora si trovava alla fine di paseo de la Castellana ed era un luogo di ritrovo per l’alta borghesia, l’aristocrazia e anche la casa reale: Alfonso XIII era spesso presente nel palco d’onore. Poco prima della guerra era iniziata la costruzione di un impianto più moderno; ma il conflitto aveva bloccato di colpo il progetto del nuovo recinto ippico. Dopo due anni di pace, la sede, ancora da finire, apriva le porte sulla collina di El Pardo.

L’inaugurazione occupava i titoli dei giornali da settimane ed era sulla bocca di tutti. Mio padre passò a prendermi in auto, gli piaceva guidare. Durante il tragitto mi illustrò il processo di costruzione dell’ippodromo con la sua originale tettoia ondulata e mi comunicò l’entusiasmo di migliaia di madrileni per il fatto di riavere le vecchie corse. Io, in cambio, gli raccontai i miei ricordi alle corse di Tetuàn e l’imponente scena del califfo che attraversava a cavallo plaza de Espana per andare dal suo palazzo alla moschea ogni venerdì. E parlammo tanto che non ebbe neanche il tempo di dirmi che

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quel pomeriggio aveva programmato di incontrare qualcun altro. Ma nel momento in cui entrammo nella nostra tribuna, mi resi conto che assistendo a quell’evento in apparenza innocente mi ero cacciata nella tana del lupo.

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CAPITOLO 45 La folla presente era immensa: masse umane assiepate davanti alle biglietterie, code

di decine di metri per le scommesse, e le gradinate e la zona vicina alla pista stipate da scoppiare di un pubblico euforico e vociferante. I privilegiati che occupavano i palchi riservati, invece, fluttuavano in una dimensione diversa: senza fastidi né urla, comodi su vere sedie e non sugli scalini di cemento, e serviti da solerti camerieri in giacca bianca pronti a soddisfarli.

Quando entrammo nel palco, sentii dentro di me qualcosa di simile al morso di una tenaglia. Mi ci vollero pochi secondi per cogliere la portata dello sproposito che mi aspettava: in quello spazio c’era solo un ridottissimo gruppo di spagnoli mescolati con un gran numero di inglesi, uomini e donne che, bicchiere in mano e armati di binocolo, fumavano, bevevano e chiacchieravano nella loro lingua aspettando la corsa dei cavalli. E perché non ci fossero dubbi sulla loro posizione e la loro provenienza, erano protetti da una grande bandiera britannica esposta sulla ringhiera.

Speravo che la terra mi inghiottisse, ma non era ancora il momento: la mia capacità di stupirmi non aveva toccato il fondo. Mi bastò fare qualche passo e spostare lo sguardo sulla sinistra. Nel palco vicino, ancora semideserto, sventolavano tre stendardi mossi dal vento: sul fondo rosso di ciascuno campeggiava un cerchio bianco con la svastica nera al centro. Il palco dei tedeschi, separato dal nostro da un parapetto alto poco più di un metro, attendeva l’arrivo dei suoi occupanti. Per il momento c’erano solo un paio di soldati che sorvegliavano l’accesso e alcuni camerieri che organizzavano il vettovagliamento, ma, vista l’ora e la premura con cui procedevano ai preparativi, ero sicura che il pubblico atteso avrebbe tardato ben poco.

Prima di tranquillizzarmi abbastanza da poter reagire e decidere il modo più veloce per uscire da quell’incubo, Gonzalo si preoccupò di spiegarmi all’orecchio l’identità di quei sudditi della sua graziosa maestà.

«Mi sono dimenticato di dirti che avremmo incontrato alcuni vecchi amici che non vedo da tempo. Sono ingegneri inglesi delle miniere di Rio

Tinto arrivati con alcuni loro connazionali da Gibilterra e immagino che ci sarà anche qualcuno dell’ambasciata. Sono tutti entusiasti per la riapertura dell’ippodromo; come saprai, sono grandi appassionati di corse.»

Non lo sapevo e non mi interessava: in quel momento avevo altre priorità ben più impellenti delle passioni di quegli individui. Per esempio, evitarli come la peste. La frase pronunciata di Hillgarth alla Legazione americana di Tangeri mi risuonava ancora nelle orecchie: zero contatti con gli inglesi. E meno che mai - avrebbe potuto aggiungere - sotto il naso dei tedeschi. Quando gli amici di mio padre si accorsero della nostra

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presenza, cominciarono gli affettuosi saluti a Gonzalo old boy e alla sua giovane e inattesa accompagnatrice. Li ricambiai con poche parole, cercando di nascondere il nervosismo dietro un sorriso debole e falso insieme, mentre soppesavo senza dare nell’occhio la portata del rischio. E così, intanto che stringevo le mani che i volti anonimi mi tesero, osservai tutto quello che c’era intorno a me, in cerca di un varco da cui sparire senza far fare brutta figura a mio padre. Ma non era facile. Per niente. A sinistra c’era la tribuna dei tedeschi con le loro grandiose insegne; quella di destra era occupata da un gruppetto di individui con pance voluminose e vistosi anelli d’oro, che fumavano sigari grandi come siluri in compagnia di donne dai capelli ossigenati e con labbra rosse come papaveri, alle quali non avevo cucito neanche un fazzoletto nel mio atelier. Distolsi lo sguardo: i trafficanti del mercato nero e le loro appariscenti amanti non mi interessavano affatto.

Bloccata a sinistra e a destra, e con una ringhiera di fronte che si affacciava sul vuoto, l’unica soluzione possibile era scappare da dove eravamo entrati, anche se sarebbe stata un’imprudenza, e lo sapevo benissimo. C’era un’unica via di accesso per raggiungere i palchi, me n’ero resa conto entrando: una specie di corridoio coperto largo appena tre metri. Se avessi deciso di tornare indietro da lì, avrei corso il rischio di trovarmi faccia a faccia con i tedeschi. E fra gli altri avrei incontrato le persone che mi spaventavano di più: le clienti con le loro bocche incaute, da cui spesso cadevano appetitosi frammenti di informazione che io raccoglievo con il più sleale dei sorrisi per riferirli ai servizi segreti del paese nemico; le signore che mi sarei dovuta fermare a salutare e che, senza dubbio, si sarebbero chieste come mai la loro couturière marocchina stava fuggendo come un’indemoniata da un palco affollato di inglesi.

Non sapevo che fare, così lasciai Gonzalo a distribuire saluti e mi sedetti nell’angolo più protetto della tribuna con le spalle curve, i risvolti alzati e la testa leggermente chinata, sforzandomi, o illudendomi, di passare inosservata in uno spazio aperto dove sapevo benissimo che era inutile nascondersi.

«Stai bene? Sei pallida» disse mio padre mentre mi porgeva un cocktail alla frutta. «Mi gira un po’ la testa, ma ora mi passa» mentii. Se nella gamma dei colori ne esistesse uno più scuro del nero, il mio animo sarebbe

stato sul punto di sfiorarlo non appena nel palco tedesco aumentò il movimento. Vidi con la coda dell’occhio che stavano entrando altri soldati; dietro di loro arrivò un superiore robusto che impartiva ordini segnalando qua e là e lanciava sguardi carichi di disprezzo verso il palco degli inglesi. Lo seguirono diversi ufficiali con gli stivali lucidi, i berretti militari con la visiera e l’immancabile svastica al braccio. Non si degnarono di guardare nella nostra direzione: erano altezzosi e distanti, per manifestare con il loro atteggiamento altero un evidente disprezzo nei confronti degli occupanti della tribuna vicina. In seguito arrivarono degli individui in borghese, e rabbrividendo notai che alcuni di quei volti mi erano familiari.

Probabilmente tutti, militari e civili, venivano da un altro evento precedente a cui avevano partecipato insieme, riuniti in gruppi già formati, giusto in tempo per assistere

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alla prima corsa. Per il momento c’erano solo uomini, ma avrei sbagliato di grosso pensando che le mogli non li avrebbero raggiunti presto.

L’ambiente si stava animando sempre di più, proporzionalmente all’aumento della mia angoscia: il gruppo di britannici era cresciuto, i binocoli passavano di mano in mano e le conversazioni vertevano con la stessa familiarità sul turf, il paddock e i jockeys o sull’invasione della Iugoslavia, gli atroci bombardamenti di Londra e l’ultimo discorso di Churchill alla radio. E proprio in quel momento lo vidi. Lo vidi e lui mi vide. E all’improvviso mi sentii mancare il fiato. Il capitano Alan Hillgarth era entrato nel palco con un’elegante donna bionda sottobraccio: probabilmente la moglie. Posò gli occhi su di me appena un decimo di secondo, poi, reprimendo un’impercettibile espressione allarmata e sconcertata che notai solo io, gettò un’occhiata verso il palco tedesco, dove continuavano ad arrivare lentamente altre persone.

Lo evitai alzandomi in modo da non doverlo guardare in faccia; ero convinta che fosse la fine: non avevo modo di sfuggire alla trappola.

Non avrei potuto prevedere una fine più patetica per la mia carriera di collaboratrice dell’intelligence britannica: stavo per essere smascherata in pubblico, davanti alle mie clienti, al mio superiore e a mio padre. Mi aggrappai alla ringhiera stringendo le dita e desiderai con tutte le mie forze che quel giorno non fosse mai venuto: non essere mai uscita dal Marocco, non aver mai accettato quell’assurda proposta che aveva fatto di me una cospiratrice imprudente e inetta come non mai. Esplose il colpo di pistola della prima corsa, i cavalli si lanciarono in un galoppo febbrile, e risuonarono le grida entusiastiche del pubblico. Il mio sguardo sembrava rivolto alla pista, ma i miei pensieri trottavano indifferenti agli zoccoli dei cavalli. Immaginai che a quel punto le tedesche avessero cominciato ad affollare il palco e intuii il malessere di Hillgarth, che cercava di affrontare l’imminente disastro che ci attendeva. Ma proprio allora, come un lampo, mi si presentò davanti agli occhi la soluzione, quando vidi un paio di barellieri della Croce Rossa appoggiati pigramente a un muro in attesa di eventuali problemi. Se non potevo uscire sulle mie gambe da quel palco avvelenato, qualcuno avrebbe dovuto tirarmi fuori di lì.

La giustificazione poteva essere l’emozione del momento o la stanchezza accumulata negli ultimi mesi, forse il nervosismo o la tensione. Ma nessuna di quelle era la causa reale. Ebbi quell’improvvisa reazione solo per puro istinto di sopravvivenza. Scelsi il luogo adatto: il lato destro della tribuna, quello più lontano dai tedeschi. E calcolai il momento giusto: appena pochi secondi dopo la fine della prima corsa, quando regnava il trambusto ovunque e le urla di entusiasmo si mescolavano con espressioni sonore di delusione. In quel preciso istante mi lasciai cadere. Con un movimento premeditato girai la testa e feci in modo che i capelli mi coprissero la faccia una volta a terra, se per caso qualche sguardo curioso del palco contiguo si fosse infilato tra le gambe che mi circondarono subito. Rimasi immobile, con gli occhi chiusi e il corpo abbandonato; l’udito, in compenso, stava all’erta, pronto ad assorbire tutte le voci che si alzavano intorno a me. Svenimento, aria, Gonzalo, presto, acqua, aria, presto, presto, stanno

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arrivando, valigetta del pronto soccorso, e altre parole in inglese che non capii. I portantini arrivarono in pochi minuti. Mi trasferirono dal pavimento sulla barella e

mi coprirono con una coperta fino al collo. Uno, due, tre, issa, mi resi conto che mi sollevavano.

«L’accompagno» sentii dire da Hillgarth. «Se occorre possiamo chiamare il medico dell’ambasciata.»

«Grazie, Alan» rispose mio padre. «Non credo che sia qualcosa di grave, un semplice malore. Per ora andiamo in infermeria, poi vedremo.»

I portantini avanzavano a passo sostenuto lungo il tunnel di accesso, tenendomi in bilico sulla barella; dietro ci seguivano, cercando di tenere l’andatura, mio padre, Alan Hillgarth e un altro paio di inglesi che non riconobbi, compagni o luogotenenti dell’addetto navale. Una volta sdraiata sulla barella avevo cercato di nascondere almeno in parte il viso con i capelli, ma prima che mi portassero fuori dal palco riconobbi la mano ferma di Hillgarth che mi tirava la coperta sulla fronte. Non vidi altro, ma sentii nitidamente tutto quello che avvenne dopo.

Nei primi metri di corridoio non incrociammo nessuno, ma a metà percorso la situazione cambiò, confermando i miei più oscuri presagi. Prima sentii altri passi e voci di uomini che parlavano concitati in tedesco.

Schnell, schnell, die haben bereits begonnen. Procedevano in senso contrario rispetto a noi, stavano quasi correndo. Dal passo deciso intuii che dovevano essere militari; la sicurezza e l’aggressività nel tono delle parole mi fecero supporre che si trattasse di ufficiali.

Immaginai che la vista dell’addetto navale nemico che scortava una barella con un corpo coperto potesse generare un certo allarme, ma non si fermarono; scambiarono un saluto secco con gli inglesi e proseguirono risoluti verso il palco contiguo a quello che avevamo abbandonato.

Appena qualche secondo dopo mi arrivò all’orecchio un rumore di tacchi e di voci femminili. Sentii che si avvicinavano con passo fermo e impetuoso. Inibiti da quello sfoggio di determinazione, i barellieri si scostarono, fermandosi qualche istante per lasciar passare le donne; arrivammo quasi a sfiorarci. Trattenni il respiro e sentii il cuore pompare con forza; poi udii che si allontanavano. Non riconobbi nessuna voce in concreto e non riuscii a determinare quante fossero, ma erano almeno cinque o sei. Sei tedesche, forse sette o più; alcune forse erano mie clienti: quelle che sceglievano le stoffe più care e mi pagavano con banconote ma anche con notizie appena sfornate.

Finsi di riprendere i sensi qualche minuto dopo, quando i rumori e le voci si erano attutiti e immaginai di essere finalmente al sicuro. Dissi qualche parola per tranquillizzare gli uomini intorno a me. Arrivammo in infermeria; Hillgarth e mio padre congedarono gli accompagnatori inglesi e i portantini: dei primi si occupò l’addetto navale con brevi ordini nella sua lingua; dei secondi Gonzalo, con una mancia generosa e un pacchetto di sigarette.

«Ora ci penso io, Alan, grazie» disse alla fine mio padre quando rimanemmo noi tre

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soli. Mi prese il polso e vide che stavo abbastanza bene. «Non credo sia necessario chiamare un medico. Cercherò di arrivare qui vicino con la macchina: l’accompagno a casa.»

Mi accorsi che Hillgarth esitava per qualche secondo. «D’accordo» disse poi. «Le terrò compagnia finché torna.» Non mi mossi fino a quando pensai che mio padre fosse abbastanza lontano da non

rimanere sorpreso dalla mia reazione. Solo allora mi armai di coraggio e mi alzai in piedi per affrontarlo.

«Sta bene, vero?» chiese rivolgendomi un’occhiata severa. Avrei potuto dirgli di no, che ero ancora debole e confusa; avrei potuto fingere di non

essermi ancora ripresa dagli effetti del presunto svenimento. Ma sapevo che non mi avrebbe creduto. A ragione.

«Perfettamente» risposi. «Lui sa qualcosa?» domandò riferendosi a mio padre e alla sua conoscenza della mia

collaborazione con gli inglesi. «Nella maniera più assoluta.» «Faccia in modo che continui a non sapere nulla. E non si lasci assolutamente vedere

in faccia quando esce» ordinò. «Si sdrai sul sedile posteriore dell’auto e rimanga coperta per tutto il tempo. Quando arrivate a casa, si assicuri che non vi abbia seguito nessuno.»

«Non si preoccupi. Qualcos’altro?» «Venga da me domani. Stesso posto, stessa ora.»

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CAPITOLO 46 «Un’interpretazione magistrale, all’ippodromo» fu il suo saluto. Nonostante l’apparente complimento, il suo volto non mostrava la minima traccia di

soddisfazione. Mi aspettava di nuovo nell’ambulatorio del dottor Rico, nello stesso posto in cui ci eravamo riuniti mesi prima per parlare del mio incontro con Beigbeder dopo la destituzione.

«Non avevo altra scelta, mi creda, mi spiace molto» dissi sedendomi. «Non potevo immaginare che saremmo andati alle corse nel palco degli inglesi. Né

che i tedeschi avrebbero occupato quello accanto.» «Capisco. E ha agito bene, con freddezza e in fretta. Ma ha corso un rischio enorme e

stava per scatenare una crisi assolutamente insensata. Non possiamo permetterci imprudenze di questa entità, vista la situazione complicata

in cui ci troviamo.» «Si riferisce alla situazione in generale o alla mia in particolare?» chiesi in un

involontario tono arrogante. «A entrambe» tagliò corto, aggressivo. «Senta, non intendiamo immischiarci nella sua

vita privata, ma a fronte di quanto è successo, credo che dobbiamo farle presente una cosa.»

«Gonzalo Alvarado» lo anticipai. Non rispose subito; si prese qualche secondo per accendere una sigaretta. «Gonzalo Alvarado, infatti» disse dopo aver soffiato fuori il fumo della prima

boccata. «Quello di ieri non è un evento isolato: sappiamo che vi fate vedere insieme in pubblico con una certa assiduità.»

«Se le interessa e prima che continui, mi lasci chiarire che non ho una relazione con lui. E che, come le ho detto ieri, non è al corrente della mia attività.»

«La natura della relazione che c’è fra voi è una questione assolutamente personale che non ci riguarda nel modo più assoluto» chiarì.

«E allora?» «La prego di non prenderla come un’invasione indebita nella sua vita privata, ma deve

capire che la situazione è molto tesa e che non abbiamo altra scelta, dobbiamo metterla in guardia.» Si alzò e fece qualche passo con le mani in tasca e lo sguardo concentrato sulle piastrelle del pavimento, mentre continuava a parlare senza guardarmi. «La settimana scorsa abbiamo saputo che c’è un attivo gruppo di informatori spagnoli che collabora con i tedeschi per redigere schede di individui filotedeschi e filoalleati. Stanno raccogliendo dati su tutti gli spagnoli segnalati per le loro relazioni con l’una o l’altra parte, e sul grado del loro coinvolgimento.»

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«E pensate che io figuri in quelle schede...» «No, non lo pensiamo, ne siamo assolutamente certi» disse trapassandomi con lo

sguardo. «Alcuni collaboratori infiltrati ci hanno informato che lei compare tra i filotedeschi. Per il momento in modo del tutto pulito, com’era prevedibile: può contare su diverse clienti vicine alle alte cariche naziste, le riceve nel suo atelier, cuce begli abiti per loro, e quelle donne, in cambio, non solo la pagano, ma si fidano di lei; tanto che nella sua sartoria parlano in libertà di molte cose di cui non dovrebbero parlare e che lei poi ci riferisce puntualmente.»

«E Alvarado cosa c’entra?» «Anche lui compare nelle schede. Ma dall’altra parte, nella lista dei cittadini spagnoli

affini ai britannici. E ci è giunta notizia che esistono ordini tedeschi per tenere sotto massima sorveglianza alcuni spagnoli attivi in certi settori che hanno rapporti con noi: banchieri, impresari, liberi professionisti... Cittadini agiati e influenti disposti a sostenere la nostra causa.»

«Immagino saprà che non lavora più, non ha riaperto l’azienda dopo la guerra» gli feci notare.

«Non importa. Ha ottimi contatti e si fa vedere spesso con membri dell’ambasciata e della comunità britannica a Madrid. A volte persino con me, come avrà visto ieri. Conosce benissimo la situazione industriale spagnola e per questo ci consiglia in modo disinteressato su questioni importanti. A differenza di lei, però, non è un agente sotto copertura, ma solo un buon amico del popolo inglese che non nasconde le sue simpatie verso la nostra nazione. Perciò, che lei si faccia vedere in sua compagnia in maniera continuativa può cominciare a risultare sospetto, ora che i nomi di entrambi compaiono in schede contrapposte.

Di fatto, girano già alcune voci in proposito.» «Su cosa?» domandai con una punta di insolenza. «Su cosa diavolo ci fa in pubblico una persona così vicina alle mogli degli alti

comandi tedeschi insieme a un fedele collaboratore dei britannici» rispose scaricando un pugno sul tavolo. Poi addolcì il tono, scusandosi subito della reazione. «Mi perdoni, la prego: siamo tutti sotto pressione, ultimamente, inoltre siamo consapevoli che lei non era al corrente della situazione e non poteva prevedere il rischio. Ma mi creda quando le dico che i tedeschi stanno pianificando una fortissima campagna contro la propaganda britannica in Spagna. Questo paese continua a essere cruciale per l’Europa, e può entrare in guerra da un momento all’altro. Di fatto il governo continua ad aiutare l’Asse in modo sfacciato: permettono loro di usare liberamente i porti spagnoli, li autorizzano a sfruttare le miniere che più gli aggradano e stanno addirittura usando i prigionieri repubblicani per allestire installazioni militari che possono facilitare un eventuale attacco tedesco a Gibilterra.»

Spense la sigaretta e rimase in silenzio per qualche secondo, concentrato su quello che stava facendo. Poi proseguì.

«La nostra posizione è di evidente svantaggio e l’ultima cosa che vogliamo è

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complicarla ulteriormente» disse con calma. «La Gestapo qualche mese fa ha intrapreso una serie di azioni intimidatorie che cominciano a dare i loro frutti: la sua amica Fox, per esempio, ha dovuto lasciare la Spagna per questo motivo. E purtroppo ci sono stati anche altri casi. Senza andare troppo lontano, l’ex medico dell’ambasciata, che era anche un mio grande amico. Le pressioni future si annunciano ancora peggiori. Più dirette e aggressive. Più pericolose.»

Non intervenni; rimasi a osservarlo aspettando che terminasse le sue spiegazioni. «Non so se sia consapevole fino in fondo di quanto sia compromessa ed esposta»

disse abbassando il tono. «Arish Agoriuq è una persona molto conosciuta fra le tedesche che risiedono a Madrid, ma se si comincia ad avvertire un cambiamento nella sua posizione come stava per succedere ieri può essere coinvolta in situazioni molto incresciose. E non ci conviene. Né a lei né a noi.»

Mi alzai e camminai verso una finestra, senza osare avvicinarmi al vetro. Dando le spalle a Hillgarth guardai fuori da lontano. I rami degli alberi, carichi di foglie, arrivavano al primo piano. C’era ancora luce, i pomeriggi si erano allungati. Cercai di riflettere sulla portata di quello che avevo appena sentito. Nonostante lo scenario cupo che avevo davanti, non ero spaventata.

«Credo che farei meglio a smettere di collaborare con voi» dissi infine, senza guardarlo. «Eviteremmo tanti problemi e vivremmo più tranquilli.

Io, lei, tutti.» «Assolutamente no» protestò in modo brusco alle mie spalle. «Le cose che le ho detto

sono solo avvertenze preventive e suggerimenti per il futuro. Non abbiamo dubbi che saprà adeguarsi alle circostanze, quando sarà il momento. Ma non vogliamo assolutamente perderla, e meno che mai adesso. Deve accettare una nuova missione altrove.»

«Scusi?» chiesi attonita mentre mi voltavo. «Abbiamo un altro incarico. Ci hanno chiesto collaborazione direttamente da Londra.

All’inizio abbiamo soppesato altre opzioni, ma alla luce di quanto è successo questo fine settimana abbiamo deciso di assegnarlo a lei. Crede che la sua aiutante possa farsi carico dell’atelier per un paio di settimane?»

«Mah... non so... forse» balbettai. «Sono sicuro di sì. Faccia girare la voce fra le sue clienti che starà via per qualche

giorno.» «Dove devo dire che andrò?» «Non è necessario mentire, dica semplicemente la verità: deve andare a Lisbona per

sistemare certe faccende.»

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CAPITOLO 47 Il Lusitania Express mi lasciò alla stazione di Santa Apolonia una mattina di metà

maggio. Avevo due valigie enormi con i miei abiti migliori, poche istruzioni precise e un carico invisibile di sangue freddo; confidavo che potessero bastare per affrontare con fermezza quel frangente.

Avevo indugiato a lungo prima di convincermi ad accettare l’incarico. Avevo riflettuto, soppesato le opzioni e valutato le alternative. Sapevo che la

decisione spettava a me: solo io potevo scegliere se continuare a condurre quella vita torbida o lasciarmi tutto alle spalle per tornare alla normalità.

La seconda opzione, probabilmente, sarebbe stata più sensata. Ero stanca di ingannare tutti, di non poter essere sincera con nessuno; di eseguire ordini scomodi e di vivere sempre all’erta. Stavo per compiere trent’anni, ero diventata un’impostora senza scrupoli e la mia storia personale non era altro che un mucchio di sotterfugi, non detti e menzogne. E nonostante l’aura sofisticata che circondava la mia esistenza, alla fine della giornata - come si era preso la briga di farmi notare Ignacio qualche mese prima - l’unica cosa che rimaneva di me era un fantasma solitario che abitava una casa piena di ombre. Mentre uscivo dalla riunione con Hillgarth avevo sentito una raffica di ostilità verso di lui e i suoi. Mi avevano coinvolto in un’avventura sinistra e a me estranea che in teoria avrebbe dovuto favorire il mio paese, ma i mesi passavano, e sembrava che nulla si stesse risolvendo per il meglio; il timore che la Spagna entrasse in guerra era sempre nell’aria a ogni angolo di strada. Ma io avevo rispettato le condizioni senza trasgredire le norme: mi avevano costretta a diventare egoista e insensibile, a inserirmi in una Madrid fuori dal mondo e a comportarmi in modo sleale nei confronti della mia gente e del mio passato. Mi avevano fatto sprofondare nella paura e nel turbamento, in un’esistenza fatta di notti insonni, di ore d’angoscia infinita. E come se non bastasse ora pretendevano che mi allontanassi anche da mio padre, l’unica presenza che apportava un po’ di luce nel buio susseguirsi dei miei giorni.

Ero ancora in tempo per dire di no, per fermarmi e gridare adesso basta. Al diavolo i servizi segreti britannici e le loro stupide esigenze. Al diavolo l’ascolto

nelle sale prova, la ridicola vita delle mogli dei nazisti e i messaggi cifrati nei cartamodelli. Non mi importava chi avrebbe vinto in quel conflitto lontano; se i tedeschi avrebbero invaso la Gran Bretagna e si sarebbero mangiati i bambini crudi, o se gli inglesi avrebbero bombardato Berlino fino a raderla al suolo. Quello non era il mio mondo: al diavolo per sempre tutti quanti.

Lasciar perdere e tornare alla normalità: sicuramente l’opzione migliore. Il problema era che non sapevo più dove trovarla. La normalità era in calle de la Redondilla, la via

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della mia giovinezza, fra le ragazze con cui ero cresciuta e che continuavano a lottare per tornare a galla dopo aver perso la guerra? Se l’era portata via Ignacio Montes il giorno che era uscito dalla mia piazza trascinando una macchina da scrivere con il cuore spezzato, o forse me l’aveva rubata Ramiro Arribas quando mi aveva lasciata sola, incinta e rovinata fra le quattro pareti dell’hotel Continental? La normalità era forse nella Tetuàn dei primi mesi, in mezzo agli ospiti tristi della pensione di Candelaria, o si era dissolta nei sordidi traffici con cui eravamo riuscite a tirare avanti? L’avevo lasciata nella casa di calle Sidi Mandri, appesa ai fili della sartoria che avevo allestito con tanti sforzi? Se n’era appropriato Félix Aranda in una delle tante notti di pioggia, o se l’era portata via Rosalinda Fox quando era uscita dal magazzino del Dean’s Bar per smarrirsi come un’ombra silenziosa nelle vie di Tangeri? La normalità era accanto a mia madre, nel lavoro silenzioso dei pomeriggi africani? L’aveva eliminata un ministro destituito e arrestato o se l’era trascinata via un giornalista che non avevo osato amare per pura vigliaccheria? Dov’era, quando l’avevo persa, che ne era stato?

L’avevo cercata ovunque: nelle tasche, negli armadi e nei cassetti; fra le pieghe e le

cuciture. Quella notte mi addormentai senza averla trovata. Il giorno successivo mi svegliai con una lucidità diversa; la percepii non appena aprii

gli occhi: vicina, con me, sulla mia pelle. La normalità non era nei giorni che mi ero lasciata alle spalle: si trovava in quello che la sorte mi metteva davanti ogni mattina. In Marocco, in Spagna o in Portogallo, a capo di una sartoria o al servizio dell’intelligence britannica: la mia normalità sarebbe stata nel luogo verso il quale avrei voluto indirizzare la mia vita; dove avrei piazzato i puntelli della mia esistenza. Tra le ombre, sotto le palme di una piazza che odorava di menta, nel fulgore dei saloni illuminati dai lampadari di cristallo o nelle acque torbide della guerra. La normalità era solo quello che la mia volontà, il mio impegno e la mia parola avrebbero accettato che fosse, e per quel motivo sarebbe stata sempre con me. Cercarla altrove o volerla ritrovare nel passato non aveva il minimo senso.

Andai all’Embassy a mezzogiorno con le idee chiare e la mente sgombra. Vidi che Hillgarth stava bevendo un aperitivo con i gomiti sul bancone mentre parlava

con alcuni militari in divisa. Lasciai cadere la borsa in terra con frivola sfacciataggine. Quattro ore dopo ricevetti i primi ordini sulla nuova missione: avevo appuntamento per un trattamento al viso la mattina seguente, nel salone di bellezza dove andavo ogni settimana. Cinque giorni dopo arrivai a Lisbona.

Scesi sulla banchina con un abito di voile stampato, guanti bianchi primaverili e un’enorme pamela: una bolla di glamour in mezzo al carbone delle locomotive e alla grigia fretta dei viaggiatori. Mi attendeva un’auto anonima per condurmi alla mia destinazione: Estoril.

Attraversammo una Lisbona piena di vento e di luce, senza tessere annonarie né tagli di corrente, con fiori, azulejos e banchi di frutta e verdura fresca per le strade.

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Senza zone invase dalle macerie né mendicanti vestiti di stracci; senza i segni dei bombardamenti, senza braccia alzate, né gioghi né frecce - i simboli del franchismo - dipinti sui muri. Passammo in zone nobili ed eleganti con ampi marciapiedi di pietra e edifici signorili sorvegliati da statue di re e navigatori; attraversammo anche zone popolari con tortuose viuzze piene di rumori, gerani e odore di sardine. Fui sorpresa dalla maestosità del Tago, dall’ululare delle sirene del porto e dallo sferragliare dei tram.

Rimasi conquistata da Lisbona, una città né in pace né in guerra: nervosa, inquieta, pulsante.

Ci lasciammo alle spalle l’Alcantara, Belém e i suoi monumenti. Le onde sferzavano il litorale mentre avanzavamo sulla Estrada Marginal. A destra la strada era fiancheggiata da antiche ville protette da recinzioni in ferro battuto coperte di rampicanti fioriti. Tutto sembrava diverso e attraente, ma forse in un senso differente da come appariva. Ero stata avvertita: la pittoresca Lisbona che avevo contemplato dal finestrino di un’auto e la Estoril a cui sarei arrivata nel giro di qualche minuto pullulavano di spie. Qualsiasi diceria aveva un prezzo, e chiunque avesse due orecchie era un informatore potenziale; dalle alte cariche di una qualunque ambasciata ai camerieri, i negozianti, le domestiche e i tassisti. «Aumenti al massimo la prudenza» era stato l’ordine ricevuto, ancora una volta.

Avevo una camera prenotata all’hotel Do Parque, una sistemazione magnifica per una clientela in gran parte internazionale, composta di solito da tedeschi più che da inglesi. Vicino, molto vicino, all’hotel Palacio, capitava l’opposto. Poi, nelle serate al Casinò, si riunivano tutti sotto lo stesso tetto: in quel paese in teoria neutrale, il gioco e l’azzardo non volevano saperne di guerre. Non appena la macchina frenò, comparve un inserviente in divisa ad aprire la portiera, mentre un altro si occupava dei bagagli. Entrai nella hall come se camminassi su un tappeto di sicurezza e leggerezza, togliendomi gli occhiali scuri che mi proteggevano da quando avevo lasciato il treno. Osservai la grandiosa reception con studiata noncuranza. Non mi mostrai impressionata dal marmo lucido, dai tappeti e dai velluti delle tappezzerie, né dalle colonne che si elevavano fino ai soffitti, immensi come quelli di una cattedrale. E non mi soffermai sugli ospiti eleganti che, isolati o in gruppo, leggevano i giornali, chiacchieravano, sorseggiavano un cocktail o guardavano passare la vita. La mia reazione di fronte a quel glamour era più che sperimentata: non feci il minimo caso a tutte quelle cose e mi limitai a dirigermi con passo sicuro a registrare il mio arrivo.

Mangiai da sola al ristorante dell’albergo, poi trascorsi un paio d’ore in camera, sdraiata a guardare il soffitto. Alle sei meno un quarto il telefono mi distolse dai miei pensieri. Lo lasciai suonare tre volte, deglutii, sollevai la cornetta e risposi. E tutto si mise in moto.

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CAPITOLO 48 Le istruzioni mi erano arrivate giorni prima a Madrid, attraverso un canale assai poco

convenzionale. Per la prima volta non era stato Hillgarth a trasmettermele, ma qualcuno ai suoi ordini. L’inserviente del salone di bellezza in cui mi recavo tutte le settimane mi accompagnò diligentemente in una delle salette interne dove si facevano i trattamenti di bellezza. Delle tre poltrone reclinabili previste per le clienti, quella di destra, quasi in posizione orizzontale, era già occupata da una donna di cui non riuscii a distinguere i tratti. Un asciugamano le copriva i capelli a mo’ di turbante e un altro le avvolgeva il corpo dal décolleté alle ginocchia. Sul volto aveva una spessa maschera di bellezza bianca che lasciava scoperti solo la bocca e gli occhi. Chiusi.

Mi cambiai dietro il paravento e mi sedetti sulla poltrona accanto a lei, con la stessa mise. Dopo aver reclinato lo schienale con un pedale e avermi applicato la maschera, l’estetista uscì in silenzio chiudendo la porta dietro di sé. Solo a quel punto sentii la voce accanto a me.

«Siamo lieti che alla fine abbia accettato la missione. Confidiamo in lei, crediamo che possa fare un buon lavoro.»

Parlava senza muoversi, sottovoce e con un forte accento inglese. Come Hillgarth, utilizzava il plurale. Non si presentò.

«Ci proverò» replicai guardandola con la coda dell’occhio. Sentii il clic dell’accendino e un odore familiare impregnò l’ambiente. «Ci hanno chiesto rinforzi direttamente da Londra» continuò. «Sospettano che un nostro presunto collaboratore portoghese stia facendo il doppio

gioco. Non è un agente, ma ha ottimi rapporti con il nostro corpo diplomatico di Lisbona ed è coinvolto in diversi affari con imprese britanniche. Però, secondo alcuni indizi pare che in parallelo abbia iniziato a stringere relazioni anche con i tedeschi.»

«Che tipo di relazioni?» «Commerciali. E molto importanti, probabilmente a favore dei tedeschi, se non mirate

a boicottarci. Non si sa di preciso. Alimenti, minerali, armamenti, forse: prodotti chiave per la guerra. Come le ho detto, per il momento si tratta solo di sospetti.»

«E io cosa dovrei fare?» «Ci serve una straniera che non desti sospetti per quanto riguarda i rapporti con gli

inglesi. Qualcuno che si muova su un terreno più o meno neutrale, che sia assolutamente estraneo al nostro paese e si dedichi a qualcosa che non abbia niente a che vedere con le operazioni commerciali in cui è coinvolto il sospetto, ma che nello stesso tempo possa avere bisogno di andare a Lisbona per procurarsi qualcosa di concreto. E lei corrisponde perfettamente al profilo.»

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«Quindi si suppone che andrò a Lisbona a comprare stoffe o qualcosa del genere?» l’anticipai rivolgendole uno sguardo che non ricambiò.

«Esatto. Stoffe e merce collegata al suo lavoro» confermò senza muoversi di un millimetro. Era nella stessa posizione in cui l’avevo trovata entrando, con gli occhi chiusi e quasi perfettamente orizzontale. «Andrà con la copertura di una creatrice di moda intenzionata ad acquistare stoffe che non riesce a trovare nella Spagna ancora devastata.»

«Potrei farmele mandare da Tangeri...» interruppi. «Anche» disse dopo aver soffiato fuori il fumo di una nuova boccata. «Ma non per

questo deve tralasciare alternative diverse. Per esempio, le sete di Macao, la colonia portoghese in Asia. Uno dei settori in cui il sospetto fa buoni affari è l’import-export tessile. In genere lavora su vasta scala, solo con grossisti e non con acquirenti privati, ma siamo riusciti a fare in modo che la riceva personalmente.»

«Come?» «Grazie a una rete di individui in incognito che copre diversi settori: una cosa comune

nell’azione che portiamo avanti, ma ora non è il caso di scendere nei dettagli. In questo modo lei non arriverà solo a Lisbona libera da ogni sospetto di affinità con i britannici, ma anche con l’appoggio di contatti che hanno una linea diretta con i tedeschi.»

Quella diffusa rete di relazioni mi sfuggiva, perciò decisi di chiedere il meno possibile e aspettare che la sconosciuta continuasse a fornirmi informazioni e indicazioni.

«Il sospetto si chiama Manuel da Silva. E’ un imprenditore abile, con ottime relazioni, e a quanto pare intende accrescere la propria fortuna con questa guerra, anche se per farlo sarà costretto a tradire quelli che finora sono stati suoi amici. Entrerà in contatto con lei e le fornirà le stoffe migliori disponibili al momento in Portogallo.»

«Parla spagnolo?» «Perfettamente. E inglese. Forse anche tedesco. Conosce tutte le lingue che gli

servono per i suoi affari.» «E io cosa dovrei fare?» «Entrare nella sua vita. Si mostri affascinante, si guadagni le sue simpatie, faccia in

modo che la inviti a uscire con lui e soprattutto cerchi di farsi invitare a qualche riunione con i tedeschi. Se alla fine riesce ad avvicinarli, deve fare molta attenzione e captare tutte le informazioni rilevanti che le arriveranno agli occhi e alle orecchie.

Rediga un rapporto il più completo possibile: nomi, affari, imprese e prodotti che menzioneranno; piani, azioni e ogni altro dato che riterrà rilevante.»

«Sta dicendo che mi mandate a Lisbona per sedurre un individuo su cui avete dei sospetti?» chiesi incredula, drizzandomi sulla poltrona.

«Utilizzi tutti i mezzi che le sembreranno opportuni» rispose, confermando la veridicità delle mie supposizioni. «A quanto pare Da Silva è uno scapolo impenitente, e gli piace frequentare donne senza avere relazioni stabili. Gli piace farsi vedere con signore attraenti ed eleganti; meglio se straniere.

Stando alle informazioni in nostro possesso, comunque, si relaziona con il genere

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femminile come un perfetto cavaliere portoghese d’altri tempi, perciò non si preoccupi: non pretenderà più di quello che lei sarà disposta a concedergli.»

Non sapevo se offendermi o scoppiare a ridere. Mi mandavano a sedurre un seduttore, era quella la mia appassionante missione portoghese. Ma per la prima volta in tutta la conversazione sembrava che la mia vicina sconosciuta mi avesse letto nel pensiero.

«La prego di non interpretare il suo compito come una missione frivola che qualunque bella donna potrebbe compiere in cambio di qualche banconota. Si tratta di un’operazione delicata e sarà lei a occuparsene perché confidiamo nelle sue capacità. Certo, il suo fisico, le sue presunte origini e la sua condizione di donna senza legami possono aiutare, ma il suo compito va ben al di là della semplice seduzione.

Dovrà guadagnarsi la fiducia di Da Silva misurando con attenzione ogni passo, dovrà calcolare i movimenti e dosarli con precisione. Sarà lei stessa a valutare le situazioni, a dettare i tempi, a soppesare i rischi e a decidere come procedere a seconda del momento. Per noi la sua esperienza nel captare in modo sistematico le informazioni e la sua capacità di improvvisare in circostanze impreviste è preziosissima: non è stata scelta per questa missione a caso, ma perché ha dimostrato di avere i mezzi per cavarsela brillantemente in situazioni difficili. E per quanto riguarda la sfera personale, come le ho detto non dovrà spingersi al di là dei limiti che lei stessa imporrà. Ma, per favore, cerchi di reggere la tensione il più possibile, finché avrà ottenuto le informazioni necessarie. Fondamentalmente il suo compito non sarà molto diverso dal lavoro che svolge a Madrid.»

«Solo che qui non devo flirtare con nessuno né intrufolarmi in riunioni» chiarii. «Certo, cara. Ma saranno solo pochi giorni con un uomo che, a quanto pare, non

manca di attrattive.» Il suo tono mi sorprese: non cercava di sminuire la faccenda, si limitava semplicemente a constatare con freddezza un fatto che considerava oggettivo. «Ancora una cosa importante» aggiunse poi. «Agirà senza copertura, perché a Londra non vogliono che a Lisbona nasca il minimo sospetto sul suo incarico. Ricordi che non ci sono prove evidenti dei rapporti di Da Silva con i tedeschi, ed è proprio per questo che la sua presunta slealtà nei confronti degli inglesi è ancora da confermare: tutto quello che le ho detto per ora è solo mera speculazione, e non vogliamo che lui nutra sospetti sui nostri connazionali presenti in Portogallo. Quindi, nessuno degli agenti assegnati lì saprà chi è lei né conoscerà i suoi rapporti con noi: sarà una missione breve, rapida, pulita, al termine della quale informeremo direttamente Londra da Madrid. Si introduca nella vita di Da Silva, raccolga i dati necessari e torni a casa. A quel punto seguiremo le cose da qui. Niente di più.»

Feci fatica a rispondere, la maschera si era solidificata sulla pelle del viso. Alla fine ci riuscii senza quasi schiudere le labbra.

«E niente di meno.» In quel momento si aprì la porta. Rientrò l’estetista, che si concentrò sul viso

dell’inglese. Lavorò più di venti minuti, nel corso dei quali non scambiammo una parola. Quando finì, la ragazza uscì di nuovo e la mia sconosciuta istruttrice andò a vestirsi

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dietro il paravento. «Sappiamo che ha una cara amica a Lisbona, ma non ci sembra prudente che vi

vediate» disse da lontano. «La signora Fox sarà avvisata di comportarsi come se non vi conosceste, caso mai vi incontraste da qualche parte. La preghiamo di fare lo stesso.»

«D’accordo» mormorai con le labbra rigide. L’ordine non mi piaceva per niente, sarei stata contentissima di rivedere Rosalinda. Ma capivo che era sconveniente e avrei ubbidito: non si poteva fare altrimenti.

«Domani le comunicheremo le istruzioni dettagliate per il viaggio, magari includeremo qualche informazione addizionale. Il tempo previsto per la sua missione è di due settimane al massimo: se per qualche ragione importante dovesse fermarsi di più, mandi un cablogramma al fiorista Bourguignon con la richiesta di inviare un mazzo di fiori a un’amica inesistente per il suo compleanno. Si inventi il nome e l’indirizzo; i fiori non usciranno mai dal negozio, ma se arriverà una richiesta da Lisbona saremo avvisati. A quel punto, ci metteremo in contatto con lei in qualche modo, stia tranquilla.»

La porta si riaprì e l’estetista entrò con una pila di asciugamani. Si sarebbe dedicata a me. La lasciai fare con apparente docilità, mentre mi sforzavo di vedere la donna che si era appena vestita e stava per uscire da dietro il paravento. Non ci volle molto, ma quando ricomparve fece in modo di non girare il viso verso di me. Vidi che aveva i capelli chiari e ondulati, e che indossava un tailleur di tweed tipicamente inglese.

Allungò il braccio per prendere una borsa di pelle posata su una piccola panca addossata alla parete, una borsa che mi sembrò familiare: l’avevo vista a qualcuno di recente e non era il tipo di accessorio che allora si vendeva comunemente nei negozi spagnoli. Poi allungò la mano e prese un pacchetto rosso di sigarette lasciato su uno sgabello. E io capii: la signora che fumava le Craven A e che usciva dalla saletta limitandosi a mormorare un vago arrivederci era la moglie del capitano Alan Hillgarth.

La donna che avevo visto di recente per la prima volta, sottobraccio al marito, quando l’algido capo dei servizi segreti in Spagna, vedendomi all’ippodromo, si era preso uno degli spaventi più grandi della sua carriera.

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CAPITOLO 49 Manuel da Silva mi aspettava al bar dell’hotel. Il bancone era affollato: gruppi,

coppie, uomini soli. Capii qual era appena varcai la doppia porta d’ingresso. E lui chi ero io.

Snello e attraente, bruno, con le tempie che iniziavano a ingrigire e uno smoking dalla giacca chiara. Le mani curate, gli occhi scuri, i movimenti eleganti. In effetti, aveva i modi e il comportamento del conquistatore. Ma c’era qualcos’altro in lui, che intuii non appena ci scambiammo il primo saluto e mi cedette il passo sulla balconata che dava sul giardino. Qualcosa che fece subito scattare un campanello d’allarme. Intelligenza. Sagacia. Determinazione. Esperienza. Per ingannare quell’uomo non mi sarebbero bastati qualche sorriso incantevole e un repertorio di smorfiette e battiti di ciglia.

«Mi dispiace moltissimo di non poter cenare con lei, ma come le ho detto al telefono ho un impegno fissato da settimane» disse, tenendo cavallerescamente lo schienale della mia poltroncina.

«Non si preoccupi» risposi mentre mi accomodavo con finti modi languidi. Il voile color zafferano del vestito sfiorò quasi il pavimento; con un gesto studiato

scostai indietro i capelli sulle spalle nude e accavallai le gambe scoprendo una caviglia, il collo del piede e la punta affilata della scarpa. Notai che Da Silva non mi staccava gli occhi di dosso. «E poi» aggiunsi «sono un po’ stanca per il viaggio; andare a letto presto mi farà bene.»

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Un cameriere mise un secchiello per lo champagne accanto a noi e due bicchieri sul tavolo. La terrazza si affacciava su un giardino rigoglioso, pieno di alberi e piante; era l’imbrunire, ma splendevano ancora gli ultimi raggi di sole. Una brezza leggera ricordava che il mare era vicinissimo. C’era odore di fiori, di profumo francese, salsedine e vegetazione. Un piano suonava all’interno dell’albergo e dai tavoli vicini arrivavano conversazioni rilassate in diverse lingue. La Madrid secca e polverosa che mi ero lasciata alle spalle meno di ventiquattro ore prima mi sembrò di colpo un cupo incubo d’altri tempi.

«Devo confessarle una cosa» disse il mio ospite appena lo champagne fu servito. «Mi dica» replicai portandomi il bicchiere alle labbra. «Lei è la prima donna marocchina che conosco. In questa zona al momento ci sono

parecchi stranieri di mille nazionalità diverse, ma vengono tutti dall’Europa.» «Non è mai stato in Marocco?» «No, e mi dispiace molto; soprattutto se tutte le marocchine sono come lei.» «E’ un paese affascinante con gente meravigliosa, ma temo che sia difficile trovare

molte donne come me. Sono una marocchina atipica, mia madre è originaria della Spagna. Non sono musulmana e la mia lingua materna non è l’arabo ma lo spagnolo. Però adoro il Marocco, e inoltre ci vive la mia famiglia, ci sono la mia casa e i miei amici. Anche se ora abito a Madrid.»

Bevvi di nuovo, soddisfatta di aver dovuto dire solo qualche inevitabile bugia. Le menzogne sfacciate erano diventate una costante della mia vita, ma mi sentivo più sicura quando non ero costretta a ricorrere a inganni eccessivi.

«Anche lei parla un ottimo spagnolo» osservai. «Ho lavorato parecchio con gli spagnoli; per anni mio padre ha avuto un socio

madrileno prima della guerra. La guerra di Spagna, intendo. Andavo spesso a Madrid per lavoro; negli ultimi tempi mi dedico più ad affari di altro tipo e ci vado meno di frequente.»

«Probabilmente non è un buon momento.» «Dipende» disse con una punta di ironia. «A quanto pare, le cose a lei vanno molto

bene.» Sorrisi di nuovo mentre mi chiedevo che cosa diavolo gli avessero raccontato di me. «Vedo che è ben informato.» «Ci provo.» «Sì, devo ammetterlo: la mia piccola attività non va affatto male. Come saprà, sono

qui proprio per questo.» «Intenzionata a portare con sé in Spagna le stoffe migliori per la nuova stagione.» «E’ quello che vorrei, in effetti. Mi hanno detto che lei ha sete cinesi meravigliose.» «Vuole la verità?» chiese con una strizzatina d’occhio complice. «Certo, la prego» dissi abbassando il tono e cercando di stare al gioco. «La verità è che non lo so» chiarì con una risata. «Non ho idea di come siano

esattamente le sete che importiamo da Macao; non me ne occupo di persona. Il settore

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tessile...» Un uomo giovane e magro con un paio di baffetti sottili, forse il suo assistente, si

avvicinò con discrezione, chiese scusa in portoghese e si chinò per mormorare all’orecchio sinistro del suo capo qualcosa che non riuscii a sentire. Finsi di rivolgere lo sguardo al sole che tramontava dietro il giardino. Le sfere bianche dei lampioni si erano appena accese, le conversazioni animate e gli accordi del piano continuavano a fluttuare nell’aria. La mia mente, tuttavia, invece di rilassarsi davanti a quella scena paradisiaca, era concentrata su quanto accadeva fra i due uomini. Intuii che l’interruzione imprevista era stata concordata in precedenza: se la mia presenza non gli fosse stata gradita, Da Silva avrebbe avuto un pretesto per dileguarsi subito, adducendo come scusa un evento inatteso. Al contrario, se avesse deciso che valeva la pena dedicarmi il suo tempo, avrebbe congedato l’uomo.

Per fortuna preferì la seconda opzione. «Come le dicevo» proseguì dopo che l’aiutante se n’era andato, «non mi occupo

personalmente dei tessuti che importiamo; sono al corrente delle cifre e dei dati, ma non so nulla dell’estetica, e credo sia l’aspetto che a lei interessa di più.»

«Magari potrà aiutarmi un suo dipendente» suggerii. «Sì, certo; il mio personale è molto efficiente. Ma mi piacerebbe occuparmene di

persona.» «Non vorrei arrecarle...» lo interruppi. Non mi lasciò finire. «Sarà un piacere poterla aiutare» disse mentre accennava al cameriere di tornare a

riempirci i bicchieri. «Quanto pensa di fermarsi da noi?» «Un paio di settimane. Oltre ai tessuti voglio approfittare del viaggio per fare visita ad

alcuni fornitori, forse laboratori e commercianti. Calzaturifici, negozi di cappelli, di biancheria, mercerie... In Spagna, come certo

saprà, non si trova quasi niente di decente in questo periodo.» «Le fornirò tutti i contatti di cui ha bisogno, non si preoccupi. Mi lasci pensare:

domani mattina parto per un breve viaggio, credo che sarà questione di un paio di giorni, non di più. Le va bene se ci vediamo giovedì mattina?»

«Certo, ma ripeto, non voglio disturbarla...» Si staccò dallo schienale della poltrona e mi guardò negli occhi. «Lei non potrebbe mai disturbarmi.» Questo lo credi tu, pensai in un lampo. Con la bocca, invece, mi limitai a regalargli un

altro sorriso. Continuammo a parlare del più e del meno; dieci minuti, forse un quarto d’ora.

Quando ritenni che fosse arrivato il momento di considerare terminato l’incontro, simulai uno sbadiglio e subito dopo mormorai una scusa imbarazzata.

«Mi perdoni. La notte in treno è stata sfiancante.» «Allora la lascio andare a riposare» disse alzandosi. «E poi lei ha una cena.»

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«Ah, certo, la cena.» Non si disturbò neppure a guardare l’orologio. «Immagino che mi staranno aspettando» aggiunse senza entusiasmo. Intuii che

mentiva. O forse no. Camminammo fino alla hall mentre lui salutava gente tutto intorno a sé, cambiando

lingua con stupefacente facilità. Una stretta di mano a no, una pacca sulla spalla a un altro; un affettuoso bacio sulla guancia a una fragile signora anziana con l’aria da mummia e una strizzata d’occhio maliziosa a due donne appariscenti cariche di gioielli dalla testa ai piedi.

«Estoril è piena di vecchie befane che un tempo erano ricche» mi sussurrò all’orecchio. «Ora non lo sono più, ma continuano ad aggrapparsi al passato con le unghie e con i denti, e preferiscono mangiare pane e sardine piuttosto che svendere il poco che è rimasto degli antichi splendori. Sono coperte di perle e brillanti, avvolte in visoni ed ermellini anche in piena estate, ma hanno le ragnatele nella borsa perché non ci mettono mai dentro e non tirano fuori neanche un soldo.»

La semplice eleganza del mio abito non stonava affatto con l’ambiente, e lui fece in modo che lo avvertissero tutti quelli che ci circondavano.

Non mi presentò a nessuno e non mi disse chi erano le persone che incontravamo: si limitò a camminare al mio fianco seguendo il mio passo, come se mi scortasse; sempre attento, sfoggiandomi.

Mentre ci dirigevamo verso l’uscita feci un rapido bilancio dell’incontro. Manuel da Silva era venuto a salutarmi, mi aveva offerto una coppa di champagne e, soprattutto, mi aveva valutato: voleva verificare con i propri occhi se valesse la pena seguire personalmente quella richiesta proveniente da Madrid. Qualcuno, attraverso qualcun altro, tramite un altro ancora, gli aveva chiesto il favore di trattarmi bene, ma la cosa poteva essere affrontata in due modi. Una soluzione consisteva nel delegare l’incombenza: fare in modo che mi seguisse un sottoposto competente, liberandolo dall’impegno. L’altra era lasciarsi coinvolgere. Il suo tempo valeva oro e i suoi impegni erano sicuramente innumerevoli. Il fatto che si fosse offerto di occuparsi di persona delle mie insignificanti richieste voleva dire che la mia missione procedeva a gonfie vele.

«Mi metterò in contatto con lei il prima possibile.» Mi tese la mano per salutarmi. «Grazie mille, signor Da Silva» dissi allungando le mie. Non una, entrambe. «Mi chiami Manuel, per favore» suggerì. Mi accorsi che stringeva le mie mani

qualche secondo più del necessario. «Allora io sarò Arish.» «Buonanotte, Arish. E’ stato un vero piacere conoscerla. Fino a quando non ci

rivedremo riposi e si goda il nostro paese.» Entrai nell’ascensore e lo guardai negli occhi finché le due porte dorate cominciarono

a chiudersi, restringendo progressivamente la mia vista sulla hall. Manuel da Silva rimase di fronte all’ascensore finché la sua figura - prima le spalle, poi le orecchie e il collo, infine il naso - scomparve insieme allo sfondo.

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Quando capii di essere fuori dalla portata del suo sguardo e cominciammo a salire, sospirai così profondamente che il giovane ascensorista stava per chiedermi se mi sentissi bene. La prima tappa della mia missione era terminata: prova superata.

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CAPITOLO 50 Scesi a fare colazione di buon’ora. Succo di frutta, cinguettii di uccellini, pane bianco

e burro, l’ombra fresca di una tettoia, pandispagna e un ottimo caffè. Prolungai il più possibile la permanenza nel giardino: in confronto al trambusto che segnava l’inizio delle mie giornate a Madrid, mi sembrava di essere in paradiso. Quando tornai in camera, trovai una composizione di fiori esotici sullo scrittoio. Per pura abitudine, prima di tutto slegai rapidamente il nastro che lo adornava in cerca di un messaggio cifrato. Non trovai né punti né linee per trasmettere istruzioni, bensì un biglietto scritto a mano.

Gentile Arish, il mio chauffeur Joào è a sua completa disposizione per rendere il suo soggiorno più confortevole.

A giovedì, Manuel da Silva Aveva una calligrafia elegante e vigorosa, e nonostante la buona impressione che

pensavo di avergli fatto la sera precedente il messaggio non era affatto adulatorio, neppure ossequioso. Cortese, ma sobrio e fermo. Meglio così. Per il momento.

Joào si rivelò un uomo con i capelli e la divisa grigi, baffi folti e sessantanni compiuti almeno da un decennio. Mi aspettava davanti alla porta dell’hotel, chiacchierando con altri colleghi più giovani mentre fumava compulsivamente in attesa di qualcosa da fare. Il signor Da Silva lo aveva mandato per accompagnare la signorina dove voleva, annunciò mentre mi esaminava spudoratamente dalla testa ai piedi. Immaginai che non fosse la prima volta che riceveva un incarico del genere.

«A far compere a Lisbona, per favore.» In realtà, più che le vie e i negozi mi interessava ammazzare il tempo in attesa che Manuel da Silva si facesse rivedere.

Capii subito che Joào era molto diverso dal classico autista discreto e concentrato sul lavoro. Non appena mise in moto la Bentley nera fece un commento sul tempo; un paio di minuti dopo si lamentò delle condizioni della strada; più tardi mi sembrò di capire che sbraitasse a proposito dei prezzi. Di fronte alla sua voglia evidente di parlare, avrei potuto assumere due atteggiamenti: quello della signora altezzosa per la quale i domestici sono esseri inferiori che non ci si degna neanche di guardare, o quello della straniera elegante e simpatica che, pur mantenendo le distanze, sa esibire il suo fascino anche con le persone di servizio. Adottare la prima personalità sarebbe stato più comodo, avrei passato la giornata chiusa nel mio mondo senza le interferenze di quel vecchietto chiacchierone, ma sapevo di non doverlo fare, perché un paio di chilometri dopo l’autista accennò ai cinquantatre anni trascorsi al servizio dei Da Silva. Il ruolo della signora sdegnosa sarebbe stato comodissimo, certo, ma la seconda opzione si sarebbe rivelata assai più utile. Per quanto potesse essere sfiancante, mi interessava che Joào continuasse a parlare: se era al corrente del passato di Da Silva, magari conosceva

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anche qualcosa del suo presente. Procedevamo sulla Estrada Marginai con il mare che ruggiva sulla destra, e quando

cominciammo a intravedere i dock di Lisbona mi ero ormai fatta un’idea sulla vicenda imprenditoriale del clan. Manuel da Silva era figlio di Manuel da Silva e nipote di Manuel da Silva: tre uomini di tre generazioni, la cui fortuna era iniziata con una semplice osteria al porto. Dal servire il vino dietro un bancone, il nonno era passato a venderlo sfuso in botti; l’attività si era poi trasferita in un magazzino scalcinato in disuso, che Joào mi indicò quando vi passammo vicino. Il figlio aveva raccolto il testimone espandendo l’impresa: al vino aveva aggiunto la vendita all’ingrosso di altre merci, e poco dopo i primi tentativi di commercio con le colonie. Quando le redini erano passate al terzo anello della saga, gli affari erano già prosperi, ma il consolidamento definitivo era arrivato proprio con l’ultimo Manuel, che io avevo appena conosciuto. Cotone di Capo Verde, legno del Mozambico, sete cinesi di Macao. Ultimamente aveva ricominciato a occuparsi anche dei commerci nazionali: viaggiava nell’interno del paese, anche se Joào non fu in grado di dirmi che cosa trattasse da quelle parti.

Il vecchio autista in pratica era in pensione: un nipote l’aveva sostituito anni prima come chauffeur personale del terzo Da Silva. Però si manteneva ancora attivo svolgendo incombenze minori per incarico del padrone: piccoli viaggi, commissioni, mansioni di poca importanza. Per esempio, portare a spasso per Lisbona una sarta disoccupata in una mattina di maggio.

In un negozio del Chiado comprai varie paia di guanti, difficilissimi da trovare a Madrid. In un altro una dozzina di calze di seta, il sogno impossibile delle spagnole nel duro dopoguerra. Un po’ più avanti un cappello primaverile, saponette profumate e due paia di sandali; poi cosmetici americani: mascara, rossetto e creme da notte con profumi deliziosi. Che paradiso in confronto alla mia povera Spagna: tutto era accessibile, attraente e vario, a portata di mano, bastava solo tirare fuori il portafoglio dalla borsa. Il diligente Joào mi portò da un posto all’altro, caricò i miei acquisti, aprì e chiuse un milione di volte la portiera posteriore perché potessi salire e scendere dall’auto comodamente, mi consigliò di pranzare in un ristorante incantevole e mi mostrò vie, piazze e monumenti. E, fra l’altro, mi ricompensò con quello cui ambivo di più: un incessante susseguirsi di piccole pennellate su Da Silva e la sua famiglia. Alcune non mi interessavano: la nonna era stata il vero motore degli affari iniziali, la madre era morta giovane, la sorella maggiore aveva sposato un oculista e quella minore era entrata in un convento di carmelitane scalze.

Altri accenni, però, erano più intriganti. Il veterano chauffeur li enumerò con ingenua disinvoltura; mi bastava fare una piccola pressione qua e là sulla scia di un qualunque commento innocente: il signor Manuel aveva molti amici, portoghesi e stranieri, inglesi, certo, e ultimamente anche qualche tedesco; sì, riceveva molto in casa: di fatto gli piaceva che fosse sempre tutto pronto nel caso avesse deciso di arrivare con qualche ospite a pranzo o a cena, a volte nella sua villa di Lapa a Lisbona, a volte nella Quinta da Fonte, la casa di campagna.

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Nel corso della giornata ebbi anche modo di osservare la fauna umana che abitava in città: lisboneti di ogni tipo e condizione, uomini in abito scuro e signore eleganti, nuovi ricchi appena arrivati nella capitale dalla campagna per comprare orologi d’oro e farsi mettere denti finti, donne vestite a lutto come corvi, tedeschi che incutevano timore, rifugiati ebrei che camminavano a capo chino o facevano la coda per ottenere un biglietto di viaggio che assicurasse loro la salvezza, e stranieri dai mille accenti che fuggivano dalla guerra e dai suoi effetti devastanti. Fra gli altri immaginavo che ci fosse anche Rosalinda. Su mia richiesta, come se si trattasse di un semplice capriccio, Joào mi mostrò la bella avenida da Liberdade, con la pavimentazione di pietre bianche e nere e gli alberi alti quasi quanto gli edifici che fiancheggiavano l’ampio corso. La mia amica inglese viveva lì, al 114; l’indirizzo compariva sulle lettere che Beigbeder aveva portato a casa mia in quella che probabilmente era stata la notte più amara della sua vita. Cercai il numero e lo vidi su un grande portone di legno incassato in una facciata imponente, ricoperta di azulejos. Che nostalgia, pensai con una punta di malinconia.

Nel pomeriggio continuammo la visita della città, ma intorno alle cinque mi sembrava di svenire. La giornata era stata calda ed estenuante, e con le chiacchiere incessanti di Joào mi sentivo la testa come un pallone.

«Ancora una tappa, qui vicino» mi propose quando gli dissi che era ora di tornare. Fermò l’auto di fronte a un caffè dall’entrata liberty in rua Garrett. A Brasileira.

«Nessuno può lasciare Lisbona senza aver preso un buon caffè» aggiunse. «Joào, è tardissimo...» protestai in tono lamentoso. «E’ questione di cinque minuti. Entri e chieda un bico, non se ne pentirà.» Entrai di malavoglia: non volevo contrariare quell’insperato informatore che poteva

tornarmi utile. Nonostante l’arredo sovraccarico e il gran numero di clienti, il locale era fresco e piacevole. Il bancone sulla destra, i tavolini a sinistra; un orologio di fronte, stucchi dorati sul soffitto e grandi quadri alle pareti. Mi servirono una tazzina di ceramica bianca e assaggiai con cautela un sorso della bevanda. Caffè nero, forte, eccellente. Joào aveva ragione: un vero e proprio ricostituente. Mentre aspettavo che si raffreddasse, ne approfittai per ripercorrere la giornata. Richiamai alla memoria i particolari sui Da Silva, li valutai e classificai. Quando nella tazzina era rimasto solo il fondo, lasciai una banconota sul tavolino e mi alzai.

L’incontro fu così inatteso, brusco e intenso che non riuscii a reagire. Tre uomini entravano chiacchierando nell’esatto momento in cui io stavo per uscire:

tre cappelli, tre cravatte, tre volti stranieri che parlavano in inglese. Due di loro sconosciuti, il terzo no. Più di tre erano anche gli anni passati da quando ci eravamo detti addio. Nel frattempo Marcus Logan era cambiato pochissimo.

Lo vidi prima che lui vedesse me: quando si accorse della mia presenza, io, angosciata, avevo spostato lo sguardo verso la porta.

«Sira...» mormorò. Nessuno mi chiamava così da molto tempo. Mi si chiuse lo stomaco e rischiai di

vomitare il caffè sul pavimento di marmo.

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Di fronte a me, a poco più di due metri di distanza, con l’ultima lettera del mio nome ancora sulle labbra e la sorpresa dipinta sul volto, c’era l’uomo con cui avevo diviso timori e gioie; l’uomo con cui avevo riso, conversato, passeggiato, ballato e pianto, quello che era riuscito a restituirmi mia madre e del quale non mi ero voluta innamorare fino in fondo nonostante le settimane intense in cui ci aveva unito qualcosa di molto più forte di una semplice amicizia. Il passato scese all’improvviso come un fondale: Tetuàn, Rosalinda, Beigbeder, l’hotel Nacional, il mio vecchio atelier, le giornate piene e le notti infinite; quello che sarebbe potuto accadere e non accadde, in un tempo che non sarebbe più tornato. Avevo voglia di abbracciarlo, di dirgli sì, Marcus, sono io. Avevo voglia di chiedergli di nuovo portami via da qui, avevo voglia di correre tenendolo per mano come avevamo fatto una volta al buio in un giardino africano: tornare in Marocco, dimenticare l’esistenza di una cosa chiamata servizi segreti, ignorare il losco lavoro che dovevo svolgere e una Madrid triste e grigia a cui tornare.

Ma non feci niente del genere, perché la lucidità, con un grido d’allarme più potente della mia volontà, mi avvisò che potevo solo fingere di non conoscerlo. E io ubbidii.

Non risposi al mio nome e non mi degnai di guardarlo. Come se fossi sorda e cieca, come se quell’uomo non avesse mai significato nulla nella mia vita, come se non gli avessi imbevuto il bavero di lacrime mentre gli chiedevo di non andarsene. Come se l’affetto profondo che avevamo costruito tra noi fosse sbiadito nella mia memoria. Mi limitai a ignorarlo, puntai lo sguardo verso l’uscita e avanzai in quella direzione con fredda determinazione.

Joào mi aspettava con la portiera posteriore aperta. Per fortuna era distratto da un piccolo incidente in corso sul marciapiede opposto, una lite di strada che coinvolgeva un cane, una bicicletta e diversi passanti che discutevano vivacemente. Si rese conto del mio arrivo solo quando glielo feci sapere.

«Andiamo subito via, Joào; sono esausta» sussurrai mentre mi accomodavo. Quando fui dentro la macchina chiuse la portiera; si sistemò subito dietro il volante e

mise in moto mentre mi chiedeva come mi era sembrato il suo ultimo consiglio. Non risposi: mi stavo concentrando per tenere Lo sguardo fisso di fronte a me senza girare la testa. E ci ero quasi riuscita. Ma quando la Bentley cominciò a scivolare sul selciato, qualcosa di irrazionale prese il sopravvento sulle mie resistenze e mi costrinse a fare quello che non dovevo: girarmi a guardarlo.

Marcus era uscito dalla porta ed era immobile, dritto, con il cappello ancora in testa e l’espressione assorta; mi guardava andare via con le mani sprofondate nelle tasche dei calzoni. Forse si chiedeva se la donna che aveva visto era quella che un giorno stava per iniziare ad amare o soltanto il suo fantasma.

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CAPITOLO 51 Quando arrivammo all’hotel chiesi allo chauffeur di non aspettarmi il giorno

successivo: Lisbona era una città piuttosto grande, ma non volevo correre il rischio di incontrare di nuovo Marcus Logan. Addussi la stanchezza come scusa e mentii dicendo che avevo un inizio di mal di testa: immaginavo che la notizia sarebbe arrivata a Da Silva, il quale sarebbe stato informato prontamente sulla mia intenzione di non uscire il giorno dopo; non doveva pensare che rifiutassi la sua gentilezza senza una buona ragione. Trascorsi il resto del pomeriggio immersa nella vasca da bagno e gran parte della serata seduta in terrazzo, a contemplare assorta le luci sul mare. Durante quelle lunghe ore non riuscii a smettere di pensare a Marcus neanche un attimo: a lui come uomo, a quello che aveva significato per me il tempo passato accanto a lui, e alle conseguenze in cui sarei incappata se si fosse verificato un altro incontro in un momento inopportuno. Quando andai a letto stava albeggiando. Avevo lo stomaco vuoto, la bocca secca e il cuore a pezzi.

Il giardino e la colazione erano uguali al giorno precedente, ma anche se mi sforzai di comportarmi con altrettanta naturalezza non riuscii a godermeli allo stesso modo. Mi costrinsi a mangiare molto pur non avendo fame, indugiai il più possibile sfogliando diversi giornali in lingue che non capivo e mi alzai solo quando erano rimasti pochi ospiti ritardatari sparsi nei tavoli. Non erano ancora le undici del mattino: avevo davanti una giornata intera e nulla con cui riempirla al di là dei miei pensieri.

Tornai nella mia camera, che era stata già rifatta. Mi sdraiai sul letto e chiusi gli occhi. Dieci minuti. Venti. Trenta. Non arrivai a quaranta: non riuscivo a sopportare di pensare in continuazione alla stessa cosa un secondo di più. Mi cambiai: indossai una gonna leggera, una camicetta bianca di cotone e un paio di sandali bassi. Mi coprii la testa con un foulard stampato, mi riparai dietro un paio di grossi occhiali da sole e uscii dalla camera evitando di vedermi riflessa negli specchi: non volevo notare l’espressione cupa che mi si era dipinta in faccia.

In spiaggia non c’era quasi nessuno. Le onde, larghe e piatte, si infrangevano monotone una dietro l’altra. Nelle vicinanze c’erano una specie di castello e un promontorio con ville maestose; di fronte un oceano grande quasi quanto il mio malessere. Mi sedetti sulla sabbia a contemplarlo e, con lo sguardo fisso sul movimento ritmico della schiuma, persi la nozione del tempo e mi lasciai trasportare. Ogni onda portava con sé un ricordo, una scena del passato: memorie della ragazza che ero stata, dei miei successi e dei miei timori, degli amici che mi ero lasciata indietro in qualche angolo del tempo; scene di altre terre, di altre voci. E soprattutto, quella mattina, il mare mi portò sensazioni dimenticate nelle pieghe della memoria: la carezza di una mano

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amata, la fermezza di un braccio amico, la gioia delle cose condivise e l’anelito di quelle desiderate.

Erano quasi le tre del pomeriggio quando mi scrollai la sabbia dalla gonna. Era ora di tornare, un’ora buona come un’altra. O cattiva, chissà. Attraversai la strada per raggiungere l’hotel; passavano pochissime macchine. Un’auto si stava allontanando, un’altra si avvicinava a passo lento. L’ultima mi sembrò vagamente familiare. Un pungolo di curiosità mi fece rallentare finché mi passò accanto. A quel punto seppi di che auto si trattava e chi la guidava. La Bentley di Da Silva con Joào al volante. Che caso, che incontro fortuito. O no, pensai rabbrividendo all’improvviso.

Probabilmente c’erano un sacco di ragioni per cui il vecchio chauffeur stava percorrendo a velocità ridotta le strade di Estoril, ma il mio istinto mi disse che cercava me. Sveglia, ragazza, sveglia! mi avrebbero detto Candelaria e mia madre. E siccome loro non c’erano, me lo dissi da sola. Dovevo stare all’erta, sì: stavo abbassando la guardia. L’effetto dell’incontro con Marcus era stato violento e aveva dissotterrato un milione di ricordi e sensazioni, ma non era il momento di lasciarsi andare alla nostalgia. Avevo un compito, un impegno: un ruolo da impersonare, un’immagine da proiettare e una missione da svolgere. Stare seduta a contemplare le onde non mi avrebbe portato a niente, se non a perdere tempo e sprofondare nella malinconia. Era arrivato il momento di tornare alla realtà.

Allungai il passo e mi sforzai di mostrarmi agile ed energica. Anche se Joào era ormai scomparso, altri occhi potevano osservarmi dietro qualsiasi angolo per conto di Da Silva. Era assolutamente impossibile che sospettasse qualcosa di me, ma forse da uomo potente qual era, abituato ad avere tutto sotto controllo, voleva sapere esattamente che cosa stava facendo la marocchina che era venuta a fargli visita invece di servirsi della sua auto. E io dovevo mostrarglielo.

Salii in camera mia da una scala laterale; mi sistemai e ricomparvi. La gonna leggera e la blusa di cotone che indossavo mezz’ora prima avevano lasciato posto a un elegante tailleur color mandarino, e i sandali bassi a un paio di scarpe in pelle di serpente con il tacco alto. Gli occhiali erano spariti e mi ero truccata con i cosmetici comprati il giorno precedente. I capelli, liberi dal foulard, cadevano sciolti sulle spalle. Scesi dalla scala centrale con un incedere armonioso e passeggiai senza fretta sulla balconata del piano superiore che si apriva sull’ampia hall. Raggiunsi il pianoterra senza dimenticare di sorridere a chiunque incrociassi. Salutai le signore inclinando il capo con estrema eleganza: non importava la loro età, la lingua che parlavano o se si disturbavano a rispondere alla mia gentilezza. Sbattei più volte le ciglia con gli uomini, pochi del posto, parecchi stranieri; a qualcuno particolarmente decrepito dedicai anche una civettuola moina. Chiesi a un impiegato dell’albergo di farmi un cablogramma per la signora Manuela e gli diedi il mio indirizzo.

“Portogallo meraviglioso, acquisti ottimi. Oggi mal di testa e riposo. Domani incontro con gentile fornitore. Cordiali saluti, Arish Agoriuq.” Scelsi poi una

delle poltrone distribuite in gruppi di quattro nell’ampia hall, mi sforzai di trovarla in un

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luogo di passaggio e ben in vista. Accavallai le gambe, chiesi due aspirine e una tazza di tè e occupai il resto del pomeriggio nel farmi vedere.

Sopportai la noia cercando di dissimularla per quasi tre ore, finché il mio stomaco cominciò a brontolare. Fine dello spettacolo: meritavo di tornare nella mia stanza e chiedere il servizio in camera. Stavo per alzarmi quando un inserviente si avvicinò con un piccolo vassoio d’argento. E una busta sopra. Che conteneva un biglietto.

Gentile Arish, spero che il mare abbia attenuato il suo malessere. Joào passerà a prenderla domani mattina alle dieci per accompagnarla nel mio ufficio.

Buon riposo, Manuel da Silva Le notizie volavano, in effetti. Ero tentata di girarmi in cerca dello chauffeur o dello

stesso Da Silva, ma mi trattenni. Anche se probabilmente uno dei due si trovava nei paraggi, simulai un freddo disinteresse e finsi di concentrarmi di nuovo su una rivista americana con cui avevo fatto trascorrere parte del pomeriggio. Nel giro di mezz’ora, quando l’ingresso era ormai semideserto e la maggioranza degli ospiti si era distribuita fra il bar, il terrazzo e la sala da pranzo, tornai in camera, decisa a togliermi Marcus dalla testa e a concentrarmi sulla complessa giornata che mi aspettava alla fine della notte.

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CAPITOLO 52 Joào gettò per terra la sigaretta, disse bom dia mentre la spegneva con la suola della

scarpa e mi tenne aperta la portiera. Mi squadrò di nuovo dalla testa ai piedi. Ma in quel caso non avrebbe avuto occasione di anticipare al padrone qualcosa di me, perché l’avrei incontrato di persona mezz’ora dopo.

Gli uffici di Da Silva si trovavano nella centrale rua do Ouro, la via dell’oro che collegava il Rossio con praga do Comercio nella Baixa.

L’edificio era elegante senza essere appariscente, anche se tutto lì intorno sprigionava un intenso aroma di denaro, transazioni e affari floridi. Banche, fondi di previdenza, uffici, uomini in giacca e cravatta, impiegati frettolosi e fattorini affannati componevano il panorama esterno.

Quando scesi dalla Bentley fui ricevuta dallo stesso uomo che aveva interrotto la nostra conversazione la sera in cui Da Silva era venuto a conoscermi. Cordiale e silenzioso, mi strinse la mano e si presentò educatamente come Joaquim Gamboa; subito dopo mi indicò con reverenza l’ascensore. All’inizio credevo che gli uffici dell’impresa occupassero uno dei piani, ma poco dopo mi resi conto che in realtà la sede si estendeva in tutto l’edificio. Gamboa, comunque, mi accompagnò direttamente al primo piano.

«Il signor Manuel la riceverà subito» annunciò prima di scomparire. L’anticamera in cui mi fece accomodare aveva le pareti foderate di legno lucido che

sembrava appena incerato. Sei poltrone di pelle costituivano la zona d’attesa; un po’ più in là, vicino alla porta a doppio battente che si apriva sull’ufficio di Da Silva, c’erano due scrivanie: una occupata e l’altra deserta. Dietro la prima lavorava una segretaria sulla cinquantina, che a giudicare dal saluto formale con cui mi accolse e la diligenza perfetta con cui annotò qualcosa su un grosso quaderno doveva essere una lavoratrice efficiente e discreta, il sogno di qualunque principale. La sua collega, abbastanza più giovane, tardò un paio di minuti a farsi vedere: comparve dopo avere aperto una delle due porte dell’ufficio di Da Silva ed essere uscita insieme a un uomo dall’aspetto anodino. Un cliente, un contatto commerciale, probabilmente.

«Il signor Da Silva l’aspetta, signorina» disse la seconda segretaria in tono brusco. Finsi di non farci caso, ma mi bastò un semplice sguardo per valutarla. La mia età, anno più anno meno. Con gli occhiali da vista, i capelli e la pelle chiari, vestita con cura anche se con abiti dozzinali. Non riuscii a osservarla oltre perché proprio in quel momento Manuel da Silva uscì a ricevermi nell’anticamera.

«E’ un vero piacere averla qui, Arish» disse nel suo eccellente spagnolo. Lo ricompensai tendendogli la mano con calcolata lentezza, per dargli il tempo di

guardarmi e decidere se ero ancora degna delle sue attenzioni.

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A giudicare dalla reazione, immaginai di sì. Mi ero sforzata per fare in modo che così fosse: per quell’incontro d’affari avevo scelto un tailleur color mercurio con la gonna a tubo, la giacca aderente e un fiore bianco sul risvolto che rendesse meno sobria la tonalità dell’abito. Il risultato fu ricompensato da uno sguardo di apprezzamento e da un sorriso galante.

«Avanti, prego. Mi hanno portato stamattina tutto quello che volevo mostrarle.» In un angolo dell’ampio ufficio, sotto un grande planisfero, c’erano vari rotoli di

stoffa. Sete. Sete naturali, brillanti e lisce, magnifiche, tinte in colori lucenti. Mi bastò toccarle per immaginare come sarebbero caduti bene i capi che avrei potuto cucire.

«Sono all’altezza delle sue aspettative?» La voce di Manuel da Silva risuonò alle mie spalle. Per qualche secondo, forse per

qualche minuto, mi ero dimenticata di lui e del suo mondo. Il piacere provato nel constatare la bellezza delle stoffe, nel toccarne la morbidezza e nell’immaginare gli abiti finiti mi aveva allontanato per un momento dalla realtà. Per fortuna non dovetti fare alcuno sforzo per elogiare la merce che voleva propormi.

«Le superano. Sono meravigliose.» «Le consiglio di prendere tutti i metri che può; temo che presto non ne avremo più.» «Avete così tanta richiesta?» «Immaginiamo che sarà così. Anche se non saranno usate nel campo della moda.» «E per cosa, allora?» chiesi sorpresa. «Per altre necessità più urgenti, di questi tempi: per la guerra.» «Per la guerra?» ripetei fingendomi incredula. Sapevo che era così in altri paesi,

Hillgarth mi aveva informata a Tangeri. «Usano la seta per confezionare i paracadute, per proteggere la polvere da sparo e

addirittura per le gomme delle biciclette.» Simulai una risatina. «Che spreco assurdo! Con tutta la seta che ci vuole per fare un paracadute si

potrebbero cucire almeno dieci abiti da sera.» «Sì, ma sono tempi difficili. E i paesi in guerra presto saranno disposti a pagare

qualunque prezzo per averla.» «E lei a chi venderà questa stoffa divina, ai tedeschi o agli inglesi?» chiesi in tono

ironico, come se non prendessi del tutto sul serio quello che mi aveva detto. Io stessa mi meravigliai della mia sfacciataggine, ma lui stette allo scherzo.

«Noi portoghesi abbiamo accordi commerciali con gli inglesi, ma in giorni turbolenti come questi non si sa mai...» Concluse l’inquietante risposta con una risata, ma prima di darmi il tempo di interpretarla spostò il discorso su questioni più pratiche e immediate. «Ecco una cartellina con i dati particolareggiati delle stoffe: articoli, qualità, prezzi; le solite cose, insomma» disse mentre si avvicinava alla sua scrivania. «Se la porti in hotel, si prenda il tempo di cui ha bisogno e quando avrà deciso cosa le interessa compili un foglio d’ordine e io mi occuperò di farle mandare tutto direttamente a Madrid; arriverà in meno di una settimana. Può disporre il pagamento da lì una volta che avrà ricevuto la

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merce, non si preoccupi. E non dimentichi di calcolare su ogni prezzo il venti per cento di sconto, cortesia della casa.»

«Ma...» «E qui» aggiunse senza lasciarmi finire «c’è un’altra cartellina dove sono indicati i

fornitori locali di strumenti e merce che possono interessarle. Filati, passamanerie, bottoni, pelli conciate... Mi sono preso la libertà di fissarle un appuntamento con tutti e qui c’è il programma, in questa colonna, guardi: oggi pomeriggio l’aspettano i fratelli Soares, che hanno i migliori filati di tutto il Portogallo; domani, venerdì, sarà ricevuta in mattinata alla Casa Barbosa, dove producono bottoni d’avorio africano. Sabato mattina è prevista una visita al pellettiere Almeida; poi non avrà altri appuntamenti fino a lunedì. Ma si prepari, perché la settimana prossima sarà piena di impegni.»

Studiai il foglio suddiviso in caselle e nascosi la mia ammirazione per l’eccellente organizzazione.

«Oltre a domenica, vedo che mi lascia riposare anche domani pomeriggio» dissi senza sollevare lo sguardo dal foglio.

«Temo che si sbagli.» «Credo di no. Nella pianificazione la seconda parte della giornata è rimasta in bianco,

guardi.» «In effetti la casella è vuota perché ho chiesto alla mia segretaria di lasciarla così, ma

ho in mente un modo per riempirla. Vuole cenare con me domani sera?» Presi la seconda cartellina dalle sue mani e non risposi. Prima mi soffermai a

osservare il contenuto: diverse pagine fitte di nomi, dati e numeri che finsi di esaminare con interesse, anche se in realtà mi limitai a far scorrere lo sguardo sui caratteri, senza leggere.

«D’accordo, va bene» confermai dopo averlo lasciato per qualche lungo secondo in attesa di una risposta. «Ma solo se prima mi fa una promessa.»

«Certo, sempre che sia in grado di mantenerla.» «Bene, ecco la mia condizione: cenerò con lei se mi assicura che nessun soldato

salterà nel vuoto con queste belle stoffe attaccate alla schiena.» Rise di gusto confermando un’altra volta che aveva una bella risata. Maschile, potente, ma anche elegante. Ricordai le parole della moglie di Hillgarth:

Manuel da Silva, in effetti, era un uomo attraente. A quel punto, fugace come una cometa, l’ombra di Marcus Logan mi passò di nuovo davanti.

«Farò il possibile, stia tranquilla, ma sa come sono gli affari...» disse stringendosi nelle spalle mentre lasciava trapelare una smorfia ironica agli angoli della bocca.

Uno squillo improvviso gli impedì di finire la frase. Il suono proveniva dalla sua scrivania, da un apparecchio grigio su cui si era accesa una luce verde intermittente.

«Mi scusi un attimo, per favore.» Sembrava aver riacquistato di colpo la serietà. Premette un pulsante e la voce della segretaria giovane uscì distorta dall’apparecchio.

«L’aspetta Herr Weiss. Dice che è urgente.» «Lo faccia accomodare in sala riunioni» rispose in tono aspro. Il suo atteggiamento

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era cambiato radicalmente: l’impresario freddo aveva fagocitato l’uomo affascinante. O forse era il contrario. Non lo conoscevo abbastanza per sapere quale dei due fosse il vero Manuel da Silva.

Si girò verso di me e si sforzò di recuperare il tono affabile, ma non ci riuscì del tutto. «Mi perdoni, ma a volte il lavoro si accumula.» «Mi scusi lei se le ho rubato troppo tempo...» Non mi lasciò finire: anche se cercava di nasconderlo, trasudava una certa

impazienza. Mi tese la mano. «Verrò a prenderla domani alle otto, va bene?» «Perfetto.» I saluti furono frettolosi, non era il caso di civettare. L’ironia e la frivolezza erano

ormai svanite; le avremmo recuperate in un altro momento. Mi accompagnò alla porta. Quando uscii nell’anticamera cercai quell’Herr Weiss, ma vidi solo le due segretarie: una batteva a macchina coscienziosa, l’altra introduceva una pila di lettere nelle rispettive buste. Notai solo che mi salutarono con una gentilezza diversa: avevo altre cose ben più urgenti in testa.

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CAPITOLO 53 Da Madrid mi ero portata un blocco da disegno con l’intenzione di trascrivere ogni

particolare interessante che avessi scoperto, e quella sera cominciai a trasferire sulla carta quanto avevo visto e sentito fino a quel momento. Organizzai i dati nel modo più ordinato possibile e li sintetizzai al massimo. “Da Silva scherza su possibili relazioni commerciali con tedeschi, impossibile capire grado di veridicità.

Prevede richiesta di seta per fini militari. Carattere mutevole secondo circostanze. Confermata relazione con tedesco Herr Weiss. Tedesco compare senza preavviso e pretende riunione immediata. Da Silva teso, evita che Herr Weiss sia visto.”

Poi disegnai diversi cartamodelli che non sarebbero mai diventati abiti e finsi di bordarli con un’impuntura tracciata a matita. Cercai di fare in modo che la differenza tra le linee corte e quelle lunghe fosse minima, che solo io potessi notarla; ci riuscii senza problemi, ero più che allenata. Distribuii le informazioni e, quando terminai, bruciai i fogli scritti a mano nel bagno, li buttai nel water e tirai l’acqua.

Lasciai il blocco da disegno nell’armadio: né particolarmente nascosto né troppo in vista. Se qualcuno avesse deciso di frugare tra le mie cose, non avrebbe mai sospettato che avessi intenzione di occultarlo.

Ora avevo parecchi impegni e il tempo volava. Percorsi ancora varie volte la Estrada Marginai fra Estoril e Lisbona con Joào al volante, scelsi decine di rocchetti dei migliori fili, bottoni bellissimi di mille forme e misure, e fui trattata come la migliore delle clienti. Grazie alle raccomandazioni di Da Silva, tutti furono cortesi, pronti a offrirmi opzioni di pagamento vantaggiose, sconti e ossequi. E senza quasi rendermene conto, arrivò il momento di cenare con lui.

L’incontro fu simile a quelli precedenti: sguardi prolungati, sorrisi conturbanti e ammiccamenti per nulla velati. Anche se dominavo la parte ed ero diventata un’attrice consumata, Manuel da Silva mi spianava la strada con il suo atteggiamento. Mi fece sentire di nuovo come l’unica donna al mondo capace di suscitare il suo interesse e io mi comportai ancora come se l’essere oggetto di attenzioni da parte di un uomo ricco e attraente fosse il mio pane quotidiano. Ma non lo era, e la mia cautela doveva essere doppia. Non dovevo lasciarmi trasportare dalle emozioni, a qualunque costo: era lavoro, solo dovere. Sarebbe stato tutto più facile se mi fossi potuta rilassare, godermi l’uomo e il momento, ma sapevo di dover restare fredda e mettere da parte i sentimenti.

«Ho prenotato un tavolo al Wonderbar, il club del Casinò: hanno un’orchestra favolosa a due passi dalla sala da gioco.»

Lo raggiungemmo camminando tra le palme; non era ancora completamente buio e le luci dei lampioni brillavano come punti d’argento nel cielo viola. Da Silva tornò l’uomo

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che avevo conosciuto nei momenti buoni: piacevole e affascinante, senza traccia della tensione provocata dalla presenza del tedesco nel suo ufficio.

Anche lì, tutti sembravano conoscerlo: dai camerieri ai posteggiatori, ai clienti più distinti. Ancora una volta distribuì saluti come la prima sera: pacche cordiali sulle spalle, strette di mano e abbracci accennati agli uomini; baciamano, sorrisi e complimenti spropositati alle signore.

Mi presentò alcune persone che incrociammo e io presi nota mentalmente dei loro nomi per trasferirli nei profili dei miei disegni.

L’atmosfera del Wonderbar era simile a quella dell’hotel Do Parque: per il novanta per cento

cosmopolita. L’unica differenza, notai con un fondo di inquietudine, era che i tedeschi non erano più in maggioranza: si sentiva parlare anche inglese ovunque. Cercai di scacciare le preoccupazioni e di concentrarmi sul mio ruolo. La mente lucida, occhi e orecchie ben aperti: era l’unica cosa di cui mi dovevo occupare. Oltre a esibire tutto il mio fascino, ovviamente.

Il maitre ci accompagnò a un piccolo tavolo riservato nell’angolo migliore della sala: un posto strategico per vedere ed essere visti.

L’orchestra suonava In the Mood e diverse coppie ballavano sulla pista, mentre altre cenavano: si sentivano conversazioni, saluti, risate, si respirava un’atmosfera rilassata e glamour. Manuel rifiutò la carta e ordinò senza esitare per entrambi. Poi, come se aspettasse quel momento da tutto il giorno, mostrò di volermi dedicare tutte le sue attenzioni.

«Bene, Arish, mi dica, come l’hanno trattata i miei amici?» Gli raccontai gli incontri aggiungendo un pizzico di sale e pepe. Esagerai le situazioni, riferii i particolari con ironia, imitai le voci in portoghese, lo

feci ridere e segnai un altro punto a mio favore. «E a lei com’è andata la fine della settimana?» chiesi. Era arrivato finalmente il mio turno di ascoltare e immagazzinare. E, se la sorte mi

avesse sorriso, anche di farlo parlare. «Lo saprai solo se mi dai del tu.» «D’accordo, Manuel. Dimmi, come ti sono andate le cose dall’ultima volta che ci

siamo visti, ieri mattina?» Non poté raccontarmelo subito: qualcuno ci interruppe. Altri saluti, altri scambi

cordiali. Se non erano autentici, di certo lo sembravano. «Il barone von Kempel, un uomo straordinario» commentò quando l’attempato nobile

dalla chioma leonina si allontanò dal nostro tavolo con passo incerto. «Bene, eravamo rimasti a come mi erano andati questi ultimi giorni, ma per definirli mi bastano due parole: tremendamente noiosi.»

Sapevo che stava mentendo, ovviamente, ma assunsi un tono compassato. «Almeno hai un ufficio confortevole dove sopportare il tedio e due segretarie

competenti che ti aiutano.»

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«Non mi posso lamentare, hai ragione. Sarebbe più duro lavorare come scaricatore di porto senza nessuno per darmi una mano.»

«Sono con te da molto?» «Le segretarie, dici? Elisa Somoza, la più vecchia, da più di trent’anni: è entrata in

azienda ai tempi di mio padre, ancora prima che iniziassi a lavorarci io. Beatriz Oliveira, la più giovane, l’ho assunta solo tre anni fa, quando ho visto che gli affari erano in espansione ed Elisa non riusciva a stare dietro a tutto. La simpatia non è il suo forte, ma è precisa, responsabile e se la cava bene con le lingue.

Immagino che alla nuova classe lavoratrice non piaccia mostrarsi affettuosa con il padrone» disse alzando il bicchiere per brindare.

La battuta non mi divertì, ma gli feci compagnia nascondendo il mio disappunto in un sorso di vino bianco. Al nostro tavolo si avvicinò una coppia: una splendida signora matura avvolta in un vestito di shantung viola lungo fino ai piedi, con un accompagnatore che le arrivava alla spalla. Interrompemmo ancora una volta la conversazione, passando al francese; mi presentò e salutai con un’espressione simpatica e un breve enchantée.

«I Mannheim, ungheresi» mi spiegò quando si allontanarono. «Sono tutti ebrei?» chiesi. «Ebrei ricchi che aspettano la fine della guerra o un visto per andare in America.

Balliamo?» Da Silva si rivelò un ballerino fantastico. Rumba, habanera, jazz e paso doble: non

aveva problemi con nessun ballo. Mi lasciai portare: era stata una giornata lunga e i due bicchieri di vino del Duero con cui avevo accompagnato l’aragosta probabilmente mi avevano dato alla testa.

Le coppie sulla pista si riflettevano moltiplicate mille volte negli specchi delle colonne e delle pareti, faceva caldo. Chiusi gli occhi per un istante, due secondi, tre, forse quattro. Quando li riaprii i miei timori avevano preso forma, una forma umana.

Avvolto in uno smoking impeccabile e pettinato all’indietro, con le gambe leggermente divaricate, di nuovo le mani in tasca e una sigaretta appena accesa in bocca: ecco Marcus Logan che mi guardava ballare.

Allontanarmi, dovevo allontanarmi da lui: fu la prima cosa che mi venne in mente. «Ci sediamo? Sono un po’ stanca.» Cercai di lasciare la pista dal lato opposto a quello in cui si trovava Marcus, ma non

servì a niente: con un’occhiata furtiva vidi che si stava spostando nella direzione in cui procedevamo. Noi schivavamo le coppie che ballavano e lui quelle che cenavano ai tavoli, ma alla fine avanzavamo in parallelo verso lo stesso luogo. Mi accorsi che mi tremavano le gambe, il calore di quella serata di maggio divenne improvvisamente insopportabile. Quando era a pochi metri da noi, si fermò a salutare qualcuno e pensai che forse la sua meta era quella, ma si accomiatò e continuò ad avvicinarsi, risoluto e sicuro. Raggiungemmo il nostro tavolo tutti e tre insieme, io e Manuel da destra, lui da sinistra. Pensai che fosse la fine.

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«Logan, vecchia volpe, dove sei finito? E’ un secolo che non ci vediamo!» esclamò Da Silva non appena lo vide. Con mio grande stupore si diedero a vicenda una pacca affettuosa sulla spalla.

«Ti ho chiamato mille volte, ma non ti trovo mai» disse Marcus. «Permettimi di presentarti Arish Agoriuq, un’amica marocchina arrivata pochi giorni

fa da Madrid.» Tesi la mano cercando di non tremare, non osando guardarlo negli occhi. Me la strinse con forza, come a dire sono io, sono qui, reagisci. «Molto lieta.» La mia voce suonò roca e brusca, quasi spezzata. «Siediti, bevi qualcosa con noi» propose Manuel. «No, grazie, sono con degli amici, volevo solo salutarti e ricordarti che dobbiamo

vederci.» «Uno di questi giorni, promesso.» «Non dimenticartene, dobbiamo parlare.» Poi si rivolse a me. «E’ stato un piacere

conoscerla, signorina...» disse inchinandosi. Non potei fare a meno di guardarlo in faccia. Sul viso non c’erano più i segni delle ferite con cui l’avevo conosciuto, ma l’espressione era la stessa: i tratti affilati e gli occhi complici che mi chiedevano senza parole che diavolo ci fai tu qui con quel nome.

«Agoriuq» riuscii a dire come se sputassi una pietra. «Signorina Agoriuq, certo, mi perdoni. E stato un piacere conoscerla. Spero che ci rivedremo.» Lo guardammo mentre si allontanava. «Una brava persona, quel Logan.» Bevvi un lungo sorso d’acqua. Avevo bisogno di rinfrescarmi la gola, ruvida come

carta vetrata. «Inglese?» chiesi. «Sì; abbiamo avuto dei rapporti d’affari.» Bevvi ancora per mandare giù lo sconcerto. Dunque non era un giornalista. Le parole

di Manuel mi distolsero dai miei pensieri. «Fa troppo caldo qui. Tentiamo la sorte alla roulette?» Finsi di nuovo un atteggiamento naturale di fronte all’opulenza della sala. I magnifici

lampadari erano appesi a catene dorate sopra i tavoli, intorno ai quali vorticavano centinaia di giocatori che parlavano tutte le lingue dei paesi presenti sulla carta geografica della vecchia Europa. Il pavimento rivestito di moquette attutiva il suono dei movimenti umani e accresceva quelli tipici di quel paradiso del gioco d’azzardo: le fiches che sbattevano l’una contro l’altra, le roulette che giravano, le palline d’avorio che ballavano impazzite e le urla dei croupier che dichiaravano chiuse le giocate con il grido rieri ne va plus! I clienti che puntavano seduti ai tavoli coperti dal tappeto verde erano numerosi, ma erano molti di più quelli intorno, in piedi, che osservavano attenti il gioco. Aristocratici che in altri tempi erano abituati a perdere e a vincere senza scomporsi nei Casinò di Baden Baden, Montecarlo e Dauville, mi spiegò Da Silva.

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Borghesi impoveriti, pezzenti arricchiti, individui rispettabili caduti in disgrazia e autentici disgraziati travestiti da signori.

Ce n’erano di vestiti a festa, trionfanti e sicuri di sé, uomini con il colletto rigido e la camicia inamidata, donne che sfoggiavano boriose lo splendore dei loro gioielli. C’erano anche tipi dall’aspetto decadente, intimoriti o furtivi, a caccia di qualche conoscente a cui chiedere denaro, forse aggrappati all’illusione di una notte di gloria alquanto improbabile; individui pronti a giocarsi al tavolo del baccarà l’ultimo gioiello di famiglia o la colazione della mattina seguente. I primi erano mossi unicamente dalla febbre del gioco, dalla voglia di divertirsi, dalla vertigine o dalla cupidigia; i secondi, solo dalla nuda disperazione.

Girammo per qualche minuto osservando i diversi tavoli; lui continuò a distribuire saluti e a scambiare frasi cordiali. Io parlai a malapena: volevo solo uscire da lì, chiudermi in camera mia e dimenticare il mondo; desideravo solo che quel giorno maledetto finisse, una buona volta.

«Si direbbe che oggi non hai voglia di diventare milionaria.» Accennai un lieve sorriso. «Sono sfinita» dissi. Cercai di fare in modo che nella mia voce risuonasse una

sfumatura di dolcezza; non volevo che percepisse la mia preoccupazione. «Vuoi che ti accompagni all’hotel?» «Te ne sarei grata.» «Dammi solo un secondo.» Subito dopo si allontanò di qualche passo per tendere la

mano a un conoscente che aveva appena visto. Rimasi immobile, assente, senza prendermi neanche la briga di distrarmi con

l’affascinante trambusto della sala. Allora, come un’ombra, mi accorsi che si avvicinava. Dietro di me, silenzioso, sul punto di sfiorarmi. Facendo finta di niente, quasi senza fermarsi, mi afferrò la mano destra, mi aprì le dita con destrezza e vi mise dentro qualcosa. E io lo lasciai fare. Poi, senza dire una parola, se ne andò. Fingendo di fissare un tavolo, palpai ansiosa quello che mi aveva lasciato: un pezzo di carta piegato diverse volte. Lo nascosi sotto l’ampia cintura del vestito proprio nel momento in cui Manuel si allontanava dai suoi conoscenti e tornava verso di me.

«Andiamo?» «Devo solo andare un attimo alla toilette.» «D’accordo, ti aspetto qui.» Cercai di individuarlo mentre camminavo, ma non si vedeva più da nessuna parte.

Nella toilette non c’era nessuno, solo una nera anziana dall’aria sonnacchiosa che sorvegliava la porta. Tirai fuori il foglietto dal nascondiglio e lo aprii muovendo velocemente le dita.

“Che ne è stato della S. che ho lasciato a T.?” S. era Sira e T. era Tetuàn. Dov’era il mio vecchio io dei tempi africani? mi chiedeva Marcus. Aprii la borsa per cercare un fazzoletto e una risposta mentre gli occhi mi si riempivano di lacrime. Trovai la prima cosa che cercavo; non la seconda.

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CAPITOLO 54 Il lunedì ripresi i miei giri in cerca di materiale per l’atelier. Mi avevano combinato un

appuntamento con un commerciante di cappelli in rua da Prata, a due passi dall’ufficio di Da Silva: la scusa perfetta per capitare da lui e fargli un saluto. E, di sfuggita, per dare un’occhiata e vedere chi si muoveva nel suo territorio.

Trovai solo la segretaria giovane e antipatica; Beatriz Oliveira, ricordai che si chiamava.

«Il signor Da Silva è via per lavoro» disse senza aggiungere altro. Come durante la visita precedente, non dimostrò alcun interesse a mostrarsi gentile

con me; ma pensai che quella potesse essere l’unica occasione per trovarmi a quattr’occhi con quella donna, e non volli sprecarla. A giudicare dal suo atteggiamento cupo e dalla parsimonia delle sue parole, sembrava molto difficile riuscire a strapparle anche solo una briciola di qualcosa che valesse la pena, ma non avevo di meglio da fare e decisi di provarci.

«Che peccato. Volevo chiedergli alcune cose sulle stoffe che mi ha mostrato l’altro giorno. Sono ancora nel suo ufficio?» chiesi.

Il mio cuore cominciò a battere forte all’idea di potermi introdurre là dentro senza avere Manuel vicino, ma lei stroncò la mia illusione ancor prima che riuscisse a prendere forma.

«No, le hanno riportate in magazzino.» Pensai velocemente. Primo tentativo fallito; bene, dovevo riprovarci. «Le spiace se mi siedo un minuto? Sono stata in piedi tutta la mattina a vedere

cappellini, turbanti e pamele; ho bisogno di riposare un po’.» Non le diedi il tempo di rispondere: prima che potesse aprire bocca, mi lasciai cadere

su una poltrona di cuoio simulando una stanchezza esagerata. Rimanemmo in silenzio a lungo e nel frattempo lei continuò a scorrere con una matita un documento di varie pagine, sul quale di tanto in tanto faceva un piccolo segno o un appunto.

«Una sigaretta?» chiesi dopo due o tre minuti. Non ero una grande fumatrice, ma portavo sempre un portasigarette in borsa. Da usare in momenti come quello, per esempio.

«No, grazie» disse senza guardarmi. Continuò a lavorare mentre io ne accendevo una. La lasciai proseguire per un paio di minuti.

«E’ stata lei a trovare i fornitori, a combinare gli appuntamenti e a prepararmi la cartellina con questi dati, vero?»

Finalmente alzò lo sguardo per un attimo. «Sì, sono stata io.»

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«Un ottimo lavoro; non immagina quanto mi sia utile.» Mormorò un breve grazie e si concentrò di nuovo su quello che stava facendo. «Al signor Da Silva non mancano certo i contatti» continuai. «Dev’essere stupendo

avere rapporti commerciali con tante aziende diverse. E soprattutto con tanti stranieri. In Spagna è tutto più noioso.»

«Non mi stupisce» mormorò. «Scusi?» «Dico che non mi stupisce che sia tutto noioso, visto chi vi comanda» riprese a denti

stretti, fingendo di essere concentrata sul documento. Avvertii una fulminea sensazione di gioia lungo la schiena: alla diligente segretaria

interessava la politica. Bene, bisognava cercare di arrivare a lei da quel lato. «Sì, certo» risposi mentre spegnevo lentamente la sigaretta. «Cosa ci si può aspettare

da uno che pretende che le donne stiano a casa a preparare da mangiare e a mettere al mondo figli?»

«E che ha le carceri piene di prigionieri e nega la minima compassione ai vinti» aggiunse tagliente. «A quanto pare è proprio così.» La cosa stava prendendo una piega inattesa, dovevo

agire con molta cautela per guadagnarmi la sua fiducia e portarla sul mio terreno. «Lei conosce la Spagna, Beatriz?»

Fu sorpresa dal fatto che sapessi il suo nome. Finalmente si decise a posare la matita e mi guardò.

«Non ci sono mai stata, ma so cosa sta succedendo da quelle parti. Ho degli amici che me lo raccontano. Ma lei probabilmente non sa di cosa parlo; appartiene a un altro mondo.»

Mi alzai, mi avvicinai alla sua scrivania e mi sedetti sfacciatamente sul bordo. La guardai da vicino per vedere che cosa c’era sotto quel vestito di stoffa a buon prezzo che sicuramente le aveva cucito qualche vicina anni prima in cambio di pochi escudos. Dietro gli occhiali vidi due occhi intelligenti e, al di là della rabbiosa dedizione con cui affrontava il lavoro, intuii uno spirito combattivo che mi risultò vagamente familiare. Io e Beatriz Oliveira non eravamo poi tanto diverse. Due ragazze che lavorano di origini simili: umili e coraggiose.

Due traiettorie partite da punti vicini che successivamente si erano divaricate. Il tempo aveva fatto di lei un’impiegata meticolosa; di me un’entità falsa. Ma forse le cose in comune erano molto più reali delle differenze. Io alloggiavo in un hotel di lusso e lei probabilmente viveva in una casa piena d’infiltrazioni d’acqua in un quartiere popolare, ma entrambe sapevamo che cosa significa combattere per evitare che la malasorte ti perseguiti per tutta la vita.

«Conosco molta gente, Beatriz; gente molto diversa» dissi sottovoce. «Ora frequento persone potenti perché il mio lavoro lo esige e perché alcune

circostanze impreviste mi hanno portato a muovermi in questo ambiente, ma so cosa significa avere freddo in inverno, mangiare fagioli un giorno sì e l’altro pure, e uscire di

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casa prima che sorga il sole per guadagnare un misero salario. E, se le interessa, neanche a me piace la Spagna che ci stanno costruendo. Adesso posso offrirle una sigaretta?»

Allungò la mano senza rispondere e ne prese una. La feci accendere e ne accesi una anch’io.

«Come vanno le cose in Portogallo?» chiesi a quel punto. «Male» disse dopo aver soffiato fuori il fumo. «Forse l’Estado Novo, il nuovo Stato

di Salazar, non è repressivo come la Spagna di Franco, ma l’autoritarismo e la mancanza di libertà non sono molto diversi.»

«Perlomeno qui sembra che rimarrete neutrali nella guerra europea» dissi cercando di avvicinarmi al mio terreno. «In Spagna le cose non sono molto chiare.»

«Salazar ha stretto accordi con gli inglesi e con i tedeschi, in uno strano equilibrio. I britannici sono sempre stati amici del popolo portoghese, quindi è piuttosto sorprendente che si mostri così generoso con i tedeschi concedendo loro permessi di esportazione e altri benefici.»

«Be’, non è poi così strano, di questi tempi. Sono faccende delicate in un momento turbolento. Io non capisco granché di politica internazionale, a dire il vero, ma immagino che sia questione di interessi.» Cercai di fare in modo che il mio commento suonasse banale, come se non fossi particolarmente preoccupata da quelle cose: era arrivato il momento di varcare il confine tra la dimensione pubblica e quella privata e dovevo essere cauta. «Immagino che sia così anche nel mondo degli affari» aggiunsi. «L’altro giorno, senza andare troppo lontano, mentre ero nell’ufficio del signor Da Silva lei stessa gli ha annunciato l’arrivo di un tedesco.»

«Sì, certo, ma questa è una faccenda diversa.» Aveva un’espressione disgustata e non sembrava disposta a spingersi oltre.

«L’altra sera il signor Da Silva mi ha invitato a cena al Casinò di Estoril e mi ha stupito per la quantità di persone che conosce. Salutava sia gli inglesi e gli americani, sia i tedeschi e un buon numero di europei di altri paesi. Non avevo mai visto nessuno andare così d’accordo con tutti.»

Mostrò di nuovo un’espressione contrariata. Ma non disse niente, e io non potei far altro che sforzarmi di continuare a parlare perché la conversazione non si spegnesse del tutto.

«Mi hanno fatto pena gli ebrei che hanno dovuto abbandonare le loro case e i loro affari per fuggire dalla guerra.»

«Le hanno fatto pena gli ebrei del Casinò di Estoril?» chiese con un sorriso cinico. «A me per niente: vivono come se stessero facendo una vacanza di lusso. Mi fanno pena i poveri disgraziati che sono arrivati con una misera valigia di cartone e passano le giornate in coda davanti ai consolati e agli uffici degli armatori, in attesa di un visto o di un passaggio in nave per l’America che forse non otterranno mai; mi fanno pena le famiglie che dormono ammucchiate in pensioni immonde e frequentano i refettori per gli indigenti, le povere ragazze che si vendono agli angoli delle strade in cambio di pochi escudos e i vecchi che ammazzano il tempo nei caffè di fronte a tazze sporche

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ormai vuote da ore, finché un cameriere non li butta fuori per fare posto a qualcun altro: sono queste le persone che mi fanno pena. Quelli che si giocano ogni sera un po’ delle loro ricchezze al Casinò non mi fanno pena per niente.»

Aveva detto cose toccanti, ma non potevo distrarmi: ero sulla buona strada e dovevo continuare così. Anche a costo di far leva sulla sua coscienza.

«Ha ragione; la situazione è molto più drammatica per quella povera gente. E poi, dev’essere doloroso per loro vedere tanti tedeschi che si muovono liberamente dappertutto.»

«Immagino di sì...» «E soprattutto sarà duro sapere che il governo del paese in cui sono venuti è così

compiacente nei confronti del Terzo Reich.» «Sì, credo di sì...» «E che ci sono addirittura impresari portoghesi che stanno espandendo gli affari a

forza di trattative succulente con i nazisti...» Pronunciai l’ultima frase in tono cupo, avvicinandomi a lei e abbassando la voce. Ci

guardavamo negli occhi, nessuna delle due riusciva a distogliere lo sguardo. «Chi è lei?» chiese alla fine con un filo di voce. Si era tirata indietro, scostandosi dal

tavolo per appoggiarsi allo schienale della sedia, come se volesse prendere le distanze da me. Il suo tono esitante era carico di timore; ma i suoi occhi non si staccavano dai miei.

«Sono una sarta» sussurrai. «Una donna semplice che lavora, come lei. E a cui non piace quello che ci sta succedendo intorno, proprio come non piace a lei.»

Mi accorsi che allungava il collo mentre deglutiva, e formulai due domande. Lentamente. Molto lentamente.

«Cosa fa Da Silva con i tedeschi, Beatriz? In cosa è coinvolto?» Deglutì di nuovo e sembrò che la sua gola cercasse di inghiottire un elefante. «Io non ne so niente» riuscì finalmente a mormorare. Una voce affannata risuonò dalla porta. «Ricordami di non tornare più a mangiare in rua do Sào Juliào. Ci hanno messo più di

un’ora a servirci, con tutto quello che ho da fare prima che torni il signor Manuel! Ah, mi scusi signorina Agoriuq, non sapevo che fosse qui...»

«Me ne stavo andando» dissi con falsa spensieratezza mentre prendevo la borsa. «Sono venuta per fare una sorpresa al signor Da Silva, ma la signorina Oliveira mi ha detto che è via. Tornerò un altro giorno.»

«Dimentica le sigarette» sentii dire alle mie spalle. Beatriz Oliveira aveva ancora un tono cupo. Quando tese il braccio per darmi il

portasigarette, le afferrai la mano e la strinsi con forza. «Ci pensi.» Evitai l’ascensore e ricostruii la scena mentre scendevo le scale. Forse era stato un

azzardo espormi in modo così precipitoso, ma l’atteggiamento della segretaria mi aveva fatto capire che sapeva qualcosa: qualcosa che non mi aveva raccontato più per diffidenza nei miei confronti che per lealtà verso il principale. Da Silva e la sua

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segretaria non erano fatti della stessa pasta e avevo la certezza che lei non gli avrebbe mai riferito il contenuto di quella strana visita. Lui teneva i piedi in due scarpe; e non solo gli era capitata una falsa marocchina che curiosava nelle sue faccende, ma come se non bastasse si era infilata nell’organico della sua azienda una sinistrorsa sovversiva. Dovevo riuscire a vederla di nuovo da sola. Ma non avevo la minima idea di come, dove e quando.

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CAPITOLO 55 Il martedì mi svegliai che stava piovendo e ripetei la trafila degli ultimi giorni: entrai

nella parte dell’acquirente e lasciai che Joào mi accompagnasse a destinazione, in quel caso una fabbrica tessile in periferia. Lo chauffeur venne a prendermi davanti alla porta tre ore dopo.

«Joào, per favore, mi porti alla Baixa.» «Se pensa di andare a trovare il signor Manuel, non è ancora tornato.» Perfetto, pensai. Non avevo intenzione di incontrare Da Silva, cercavo un modo per

parlare di nuovo con Beatriz Oliveira. «Non importa, voglio parlare con le segretarie. Devo solo fare qualche domanda sul

mio ordine.» Speravo che la più anziana fosse di nuovo uscita a mangiare e che la sua frugale

compagna stesse lavorando, ma mi trovai davanti la situazione esattamente opposta, come se qualcuno si fosse impegnato con tutte le sue forze per ribaltare i miei desideri. La veterana era al suo posto, stava confrontando dei documenti con gli occhiali sulla punta del naso.

Della giovane neanche l’ombra. «Boa tarde, signora Somoza. Vedo che l’hanno lasciata sola.» «Il signor Manuel è ancora via e la signorina Oliveira oggi non è venuta a lavorare.

Come posso aiutarla, signorina Agoriuq?» Sentivo in bocca il sapore della contrarietà mescolato con una punta di allarme, ma li

mandai giù come potevo. «Spero che stia bene» dissi senza rispondere alla sua domanda. «Sì, di sicuro non è niente di grave. Stamattina è venuta sua sorella per dirmi che era

indisposta e aveva un po’ di febbre, ma spero che domani sia di ritorno.» Esitai per qualche secondo. Presto, Sira, pensa in fretta: agisci, chiedi dove vive, cerca

di localizzarla, mi ordinai. «Magari, se mi dà il suo indirizzo, posso mandarle un mazzo di fiori. E’ stata così gentile con me combinandomi le visite con i fornitori...» Nonostante la sua naturale discrezione, la segretaria non poté evitare un sorriso

condiscendente. «Non deve disturbarsi, signorina. Non credo sia necessario, davvero. Qui non siamo

abituati a ricevere fiori quando manchiamo un giorno in ufficio. Sarà solo un po’ di influenza o un malessere passeggero. Se posso esserle d’aiuto io...»

«Ho perso un paio di guanti» improvvisai. «Pensavo che magari li ho dimenticati qui

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ieri.» «Quando sono arrivata non li ho visti da nessuna parte, ma forse li hanno trovati le

donne che vengono a fare le pulizie la mattina presto. Non si preoccupi, chiederò.» L’assenza di Beatriz Oliveira mi lasciò di un umore simile alla giornata che trovai

uscendo di nuovo in rua do Ouro: nuvolosa, ventosa e cupa. E fra l’altro mi aveva fatto passare la fame, quindi ordinai solo una tazza di tè e un dolce nel vicino Café Nicola e continuai con i miei impegni. Per quel pomeriggio la segretaria efficiente aveva previsto un incontro presso una ditta che importava prodotti esotici dal Brasile, pensando che le piume di alcuni uccelli tropicali potessero servirmi per le mie creazioni. E aveva ragione. Magari si fosse presa lo stesso disturbo per aiutarmi in altre faccende.

Con il passare delle ore il tempo non migliorò, e il mio umore nemmeno. Sulla strada del ritorno verso Estoril feci un bilancio delle informazioni ottenute dal

mio arrivo, ma anche sommandole tutte il risultato era disastroso. I commenti iniziali di Joào alla lunga non si erano rivelati per niente utili, erano semplici pennellate di fondo ripetute all’infinito con la pigra verbosità di un vecchietto annoiato che da troppo tempo era lontano dalla routine quotidiana del padrone. Sugli incontri con i tedeschi menzionati dalla moglie di Hillgarth non avevo sentito neanche una parola. E l’unica persona che poteva diventare mia confidente mi sfuggiva come l’acqua tra le dita, adducendo una falsa malattia. Se a quello si aggiungeva il doloroso incontro con Marcus, il risultato del viaggio si profilava come un fallimento assoluto su tutti i fronti.

Eccetto che per le mie clienti, naturalmente, che al mio ritorno avrebbero trovato un vero e proprio arsenale di meraviglie impensabile nella misera Spagna delle tessere annonarie. Dominata da quella prospettiva cupa, consumai una cena leggera al ristorante dell’hotel e decisi di ritirarmi presto.

Come ogni sera la cameriera di turno aveva provveduto a preparare con cura la camera, lasciandola pronta per il mio riposo: le tende chiuse, la tenue luce del comodino accesa, il copriletto ben disteso e la rimboccatura piegata al millimetro su un angolo. Forse quelle lenzuola di batista svizzero stirate di fresco erano l’unica nota positiva della giornata: mi avrebbero aiutata a perdere conoscenza e a dimenticare almeno per qualche ora la frustrazione. Fine della giornata. Risultato: zero.

Stavo per mettermi a letto quando sentii una corrente d’aria fredda. Mi avvicinai scalza al balcone, scostai la tenda e vidi che la finestra era aperta. Una dimenticanza del servizio, pensai mentre la chiudevo. Mi sedetti sul letto e spensi la luce: non avevo voglia di leggere neanche una riga. Ma mentre allungavo le gambe sotto le lenzuola, il piede sinistro mi rimase impigliato in qualcosa di strano e leggero. Trattenni un grido soffocato, cercai l’interruttore della lampada ma la feci cadere a terra urtandola involontariamente; la raccolsi con mani tremanti, tentai di riaccenderla con il paralume ancora storto e quando finalmente ci riuscii tirai via le coperte. Che cosa diavolo era quel fagotto di tessuto nero che avevo toccato con il piede? Non osai neppure sfiorarlo finché non lo ebbi esaminato bene con lo sguardo.

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Sembrava un velo: un velo nero da messa. Lo presi con due dita e lo alzai: il groviglio di tessuto si disfece e dal suo interno cadde qualcosa che sembrava una stampa. La sollevai per un angolo con cautela, quasi temendo che potesse disfarsi se l’avessi toccata con più energia.

L’avvicinai alla luce e riconobbi la facciata di una chiesa. E’ l’immagine di una Madonna. E due righe stampate: “Igreja de Sào Domingos. Novena em louvor a Nossa Senhora de Fatima”. Sul retro c’era un appunto scritto a mano con una grafia sconosciuta. “Mercoledì, sei del pomeriggio. Lato sinistro, decima fila dal fondo.” Mancava la firma, ma non era necessaria.

Per tutto il giorno successivo evitai l’ufficio di Da Silva, anche se gli incontri previsti per la giornata erano in centro.

«Passi a prendermi stasera, Joào. Alle sette e mezzo di fronte alla stazione del Rossio. Prima vado in chiesa, è l’anniversario della morte di mio padre.»

Lo chauffeur ricevette il mio ordine abbassando gli occhi con un’espressione di profondo cordoglio e io sentii una punta di rimorso per aver liquidato Gonzalo Alvarado con tanta leggerezza. Ma non avevo tempo di pentirmi, pensai mentre mi coprivo la testa con il velo nero: erano le sei meno un quarto e la novena sarebbe iniziata a breve. La chiesa di Sào Domingos era accanto alla piazza del Rossio, in pieno centro. Quando arrivai, insieme all’ampia facciata di intonaco chiaro e pietra, trovai il ricordo di mia madre che aleggiava sulla porta. Le ultime volte che ero andata a messa ero con lei a Tetuàn, quando l’accompagnavo nella piccola chiesa della piazza. Sào Domingos, in confronto, era spettacolare, con le enormi colonne di pietra grigia che si elevavano fino al soffitto color seppia. E gremita di gente, molta gente, alcuni uomini e una folla di donne, fedeli parrocchiani accorsi a esaudire il volere della Madonna recitando il rosario.

Avanzai lungo il corridoio laterale sinistro con le mani giunte, il capo chino e a passo lento, simulando raccoglimento mentre contavo le file con la coda dell’occhio. Quando arrivai alla decima, attraverso il velo che mi copriva gli occhi individuai una figura vestita a lutto seduta su un lato. Indossava una gonna e uno scialle neri e rozze calze di lana: l’abbigliamento tipico di tante donne umili di Lisbona. Non portava il velo, ma un foulard legato sotto il mento, tirato in avanti sul volto al punto che era impossibile vederla in faccia. Accanto a lei c’era un posto libero, ma per qualche secondo esitai sul da farsi.

Finché notai una mano chiara e curata spuntare da sotto la gonna. Una mano che si posò sul posto vuoto vicino alla sua proprietaria. Si sieda qui, sembrava mi dicesse. Ubbidii subito.

Rimanemmo in silenzio mentre i fedeli occupavano pian piano i posti liberi, i chierichetti trafficavano intorno all’altare e in sottofondo si udiva il ronzio di un mare di mormorii sommessi. Guardai varie volte la donna vestita di nero con la coda dell’occhio, ma il foulard mi impedì di vedere i suoi tratti. In ogni caso non ce n’era bisogno: sapevo perfettamente chi era. Decisi di rompere il ghiaccio con un sussurro.

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«La ringrazio per avermi fatto venire, Beatriz. La prego di non temere: nessuno a Lisbona saprà mai di questa conversazione.»

Tardò qualche secondo a rispondermi. Quando lo fece tenne lo sguardo fisso in grembo e parlò con un filo di voce.

«Lavora per gli inglesi, vero?» Inclinai leggermente la testa in modo affermativo. «Non sono sicura che le servirà a qualcosa, è molto poco. So solo che Da Silva sta

trattando con i tedeschi per qualcosa che riguarda le miniere della Beira, la zona interna del paese. Non aveva mai combinato affari da quelle parti. E’ una cosa recente, questione di pochi mesi. Ora ci va quasi tutte le settimane.»

«Di cosa si tratta?» «La chiamano “bava di lupo”. I tedeschi vogliono l’esclusiva: pretendono che Da

Silva si svincoli radicalmente dai britannici. Inoltre, deve fare in modo che i proprietari delle miniere confinanti si uniscano a lui e smettano anche loro di vendere agli inglesi.»

Il sacerdote entrò da una porta laterale e si avvicinò all’altare; un punto in lontananza. L’intera chiesa si alzò in piedi, e noi facemmo lo stesso.

«Chi sono questi tedeschi?» sussurrai dietro il velo. «In ufficio è venuto solo Weiss, tre volte. Da Silva non parla mai al telefono con loro,

pensa che possa essere controllato. So che fuori dall’ufficio ha incontrato anche un altro, Wolters. Questa settimana aspettano qualcun altro che arriva dalla Spagna. Ceneranno tutti insieme nella sua casa di campagna giovedì: il signor Manuel, i tedeschi e i portoghesi della Beira proprietari delle miniere vicine. Intendono concludere la trattativa lì: da settimane discute con questi ultimi perché soddisfino solo le richieste dei tedeschi. Parteciperanno tutti con le mogli, e a lui conviene trattarle bene: lo so perché mi ha fatto ordinare fiori e cioccolatini per accoglierle.»

Il sacerdote concluse il suo intervento e l’intera chiesa si risedette tra fruscii di abiti, sospiri e scricchiolii di legno antico.

«Ci ha detto» continuò chinando di nuovo la testa «di non passargli le telefonate di diversi inglesi con cui prima era in buoni rapporti. E stamattina ha incontrato due uomini nel magazzino dei sotterranei, due ex detenuti che a volte usa per farsi proteggere; in passato è stato coinvolto in faccende torbide. Sono riuscita a sentire solo la fine della conversazione. Ha ordinato di controllare quegli inglesi e, nel caso, di neutralizzarli.»

«Cosa intendeva per “neutralizzarli”?» «Toglierli di mezzo, suppongo.» «Come?» «Lo immagini.» I fedeli si rialzarono in piedi e noi li imitammo ancora una volta. Intonarono un canto con voci ferventi e io sentii il sangue che mi pulsava nelle

tempie. «Conosce i nomi di quegli inglesi?» «Li ho scritti qui.»

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Mi consegnò in silenzio un foglio piegato che strinsi con forza nella mano. «Non so niente di più, giuro.» «Mandi di nuovo qualcuno se viene a sapere qualcos’altro» dissi ricordando il

balcone aperto. «Lo farò. E lei, per favore, non faccia il mio nome. E non ritorni in ufficio.» Non mi diede il tempo di prometterglielo, perché come un corvo nero si alzò in volo e

si dileguò. Io rimasi ancora a lungo, protetta fra le colonne di pietra, i canti stonati e le litanie in sottofondo. Quando riuscii a superare il turbamento causato da ciò che avevo sentito, aprii il foglio ed ebbi la conferma che i miei timori non erano infondati.

Beatriz Oliveira mi aveva passato una lista con cinque nomi. Il quarto era quello di Marcus Logan.

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CAPITOLO 56 Come tutti i pomeriggi a quell’ora, la hall dell’hotel era vivace e affollata. Gremita di

stranieri, di signore con collane di perle e uomini con abiti di lino o in divisa; di conversazioni, aroma di tabacco di buona qualità e inservienti indaffarati. Probabilmente, gremita anche di persone indesiderate. E una di quelle aspettava me. Anche se simulai una reazione di gradita sorpresa, vederlo mi fece accapponare la pelle.

In apparenza era lo stesso Manuel da Silva dei giorni precedenti: sicuro di sé con il suo abito impeccabile e i primi capelli bianchi che lasciavano presagire la maturità, cordiale e sorridente. Sembrava lo stesso uomo, certo, ma la sua semplice vista mi provocò un tale rifiuto che dovetti reprimere l’impulso di voltarmi e uscire di corsa. Per scappare in strada, in spiaggia, alla fine del mondo. In qualunque posto purché lontano da lui. Prima erano solo sospetti, c’era ancora spazio per la speranza che dietro quell’aspetto gradevole ci fosse un essere decente. Ma ora sapevo che non era così; purtroppo le supposizioni peggiori erano vere. I sospetti degli Hillgarth erano stati confermati sulla panca di una chiesa: in tempo di guerra l’integrità e la lealtà non andavano d’accordo con gli affari, e Da Silva si era venduto ai tedeschi. E come se non bastasse, aveva aggiunto alla trattativa un’ulteriore nota sinistra: se i vecchi amici disturbavano, bisognava toglierli di mezzo. Ricordare che Marcus era su quella lista nera mi fece sentire tante piccole punture di spillo nelle viscere.

Il mio corpo mi chiedeva di scappare da lui, ma non potevo farlo, e non solo perché un carrello carico di bauli e di valigie bloccava momentaneamente la grande porta girevole dell’hotel, ma per altre ragioni ben più decisive. Avevo saputo che ventiquattro ore dopo Da Silva intendeva ricevere i suoi interlocutori tedeschi. Era di sicuro la riunione di cui mi aveva parlato la moglie di Hillgarth, e probabilmente durante quell’incontro si sarebbe parlato di tutti i dettagli che gli inglesi erano smaniosi di conoscere. Il mio obiettivo successivo era cercare a ogni costo di farmi invitare, ma il tempo era contro di me.

Non mi restava che tentare una fuga in avanti. «Ti sono vicino, cara Arish.» Per un paio di secondi non capii a cosa si riferisse. Forse aveva interpretato il mio

silenzio come una reazione emotiva. «Grazie» dissi appena capii. «Mio padre non era cristiano, ma a me piace onorare la

sua memoria con qualche minuto di raccoglimento in chiesa.» «Te la senti di bere qualcosa? Forse non è un buon momento, ma mi hanno detto che

sei passata dal mio ufficio un paio di volte e sono venuto a ricambiare la visita. Ti prego di perdonare le mie continue assenze: ultimamente sono costretto a viaggiare più di

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quanto vorrei.» «Credo che bere qualcosa mi farà bene, grazie, è stata una giornata lunga. E sì, sono

passata dal tuo ufficio, ma volevo solo salutarti; tutto il resto è andato benissimo.» Feci buon viso a cattivo gioco e riuscii a chiudere la frase con un sorriso.

Ci dirigemmo verso la terrazza della prima sera e fu tutto di nuovo come allora. O quasi. Lo scenario era lo stesso: le palme cullate dalla brezza, l’oceano sullo sfondo, la luna d’argento e lo champagne alla temperatura ideale. Ma c’era qualcosa di stonato. Osservai Manuel mentre salutava i clienti attorno a noi e a quel punto capii che il particolare stridente in quello scenario armonioso era lui. Non si comportava con naturalezza.

Si sforzava di apparire gentile e sciorinava come al solito un repertorio di frasi

amichevoli e gesti cordiali, ma quando la persona a cui si era rivolto si voltava la sua bocca assumeva una smorfia seria e concentrata, che scompariva automaticamente non appena ricominciava a parlare con me.

«E così hai comprato altre stoffe...» «E anche fili, accessori, guarnizioni e un milione di articoli di merceria.» «Le tue clienti saranno contentissime.» «Soprattutto le tedesche.» Avevo lanciato il sasso. Dovevo indurlo a reagire: era l’ultima opportunità che avevo

per farmi invitare a casa sua; se non ci fossi riuscita, fine della missione. Alzò un sopracciglio con espressione interrogativa.

«Le clienti tedesche sono le più esigenti, quelle che apprezzano di più la qualità» chiarii. «Le spagnole si preoccupano dell’aspetto finale del capo, ma le tedesche si concentrano sulla perfezione di ogni dettaglio, sono più puntigliose. Per fortuna sono riuscita a adattarmi molto bene a loro e ci capiamo senza problemi. Anzi, credo di avere un talento speciale per accontentarle» conclusi la frase ammiccando con malizia.

Mi portai il bicchiere alle labbra e dovetti sforzarmi per non scolarmi il contenuto d’un fiato. Dài, Manuel, pensai. Reagisci, invitami: posso esserti utile, so come intrattenere le accompagnatrici dei tuoi ospiti mentre voi vi accordate sulla bava di lupo e trovate il modo di liberarvi degli inglesi.

«Ci sono parecchi tedeschi anche a Madrid, vero?» chiese allora. Non era un’innocente domanda sull’ambiente sociale del paese vicino, bensì un

interesse concreto riguardo le mie conoscenze e le mie relazioni con loro. Mi stavo avvicinando. Sapevo quello che dovevo dire e come farlo: nomi chiave, posizioni importanti e una falsa aria distaccata.

«Moltissimi» aggiunsi in tono neutro. Mi appoggiai allo schienale lasciando cadere la mano con falsa noncuranza, accavallai di nuovo le gambe, bevvi un altro sorso di champagne. «Proprio la baronessa Stohrer, la moglie dell’ambasciatore, l’ultima volta che è venuta nel mio atelier diceva che Madrid è diventata un luogo ideale per i tedeschi. Alcune, a dire il vero, ci danno moltissimo lavoro; per esempio Elsa Bruchmarut, che a

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quanto dicono è un’amica personale di Hitler, viene due o tre volte la settimana. All’ultima festa a casa di Hans Lazar, l’addetto stampa e propaganda...»

Riferii un paio di aneddoti frivoli e lasciai cadere qualche altro nome. Con nonchalance, senza dare loro troppa importanza. E, mentre fingevo indifferenza,

mi accorsi che Da Silva era sempre più concentrato sulle mie parole, come se il mondo intorno a lui si fosse fermato. Non fece quasi caso ai saluti che gli arrivarono da varie parti, non sollevò il bicchiere dal tavolo e la sigaretta gli si consumò tra le dita, con la cenere che formava una specie di baco da seta. Finché decisi di smettere di tirare la corda.

«Scusa, Manuel; immagino che tutto questo per te sia tremendamente noioso: feste, vestiti e capricci di donne che non hanno niente da fare.

Raccontami qualcosa tu: com’è andato il tuo viaggio?» Conversammo per un’altra mezz’ora, durante la quale nessuno dei due menzionò più i

tedeschi. Il loro odore, però, sembrava ancora aleggiare nell’aria. «Credo che ormai sia ora di cena» disse guardando l’orologio. «Ti andrebbe...» «Sono sfinita. Ti spiace se rimandiamo a domani?» «Domani non è possibile.» Mi accorsi che esitava per un attimo e trattenni il fiato; poi

continuò: «Ho un impegno». Dài, dài, forza. Mancava solo una piccola spinta. «Che peccato, sarebbe stata la nostra ultima serata...» La mia delusione sembrava

autentica, quasi quanto l’ansia di sentirgli chiedere quello che aspettavo da tanti giorni. «Ho intenzione di tornare a Madrid venerdì, la prossima settimana ho tantissimo lavoro. La baronessa de Petrino, la moglie di Lazar, dà una festa giovedì e ho una mezza dozzina di clienti tedesche che aspettano...»

«Ti va di venire?» Credevo che il cuore mi si sarebbe fermato. «Sarà una semplice riunione fra amici. Tedeschi e portoghesi. A casa mia.»

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CAPITOLO 57 «Quanto vuole per portarmi a Lisbona?» L’uomo guardò da una parte e dall’altra per assicurarsi che nessuno ci osservasse. Poi

si tolse il berretto e si grattò furiosamente la testa. «Dieci escudos?» disse con la sigaretta in bocca. Gli diedi un biglietto da venti. «Andiamo.» Avevo cercato di dormire ma non ci ero riuscita: sentimenti e sensazioni mi si

confondevano in testa rimbalzando contro le pareti del cervello. Soddisfazione perché la missione finalmente si muoveva, agitazione per quello che

ancora mi aspettava, dispiacere per la triste certezza di cui avevo avuto conferma. E per di più, oltre a tutto il resto, il timore di sapere che Marcus Logan era incluso in una lista nera, l’intuizione che probabilmente lui non lo sapeva, e la frustrazione perché non potevo informarlo. Non avevo idea di dove si trovasse, l’avevo incrociato soltanto in due posti diversi e distanti fra loro. Forse l’unico luogo dove avrebbero potuto fornirmi qualche notizia su di lui era l’ufficio di Da Silva, ma non dovevo più parlare con Beatriz Oliveira e meno che mai in quel momento, quando il suo capo era tornato.

L’una di notte, l’una e mezzo, le due meno un quarto. A tratti sentivo caldo, poi freddo. Le due, le due e dieci. Mi alzai varie volte, aprii e chiusi la portafinestra, bevvi un bicchiere d’acqua, accesi la luce, la spensi. Le tre meno venti, le tre, le tre e un quarto. Poi, all’improvviso, pensai di avere trovato la soluzione. O almeno qualcosa che le si avvicinava.

Indossai gli abiti più scuri che trovai nell’armadio: un vestito di mohair nero, un giaccone grigio piombo e un cappello a tesa ampia che mi calcai in testa fino alle sopracciglia. La chiave della stanza e qualche banconota furono le uniche cose che presi con me. Non avevo bisogno d’altro, a parte la fortuna.

Scesi in punta di piedi dalla scala di servizio, era tutto calmo e semibuio. Camminai senza avere un’idea chiara di dove stessi andando, lasciandomi condurre dall’istinto. Le cucine, le dispense, i lavatoi, i locali con le caldaie. Raggiunsi la strada da una porta di servizio del sotterraneo. Di certo non era la migliore delle opzioni: mi ero appena resa conto che era l’uscita per i rifiuti. Ma almeno era immondizia di gente ricca.

Era notte fonda, le luci del Casinò brillavano a un centinaio di metri e ogni tanto si sentivano i rumori degli ultimi nottambuli: un saluto, una risata soffocata, il motore di un’auto. Poi, silenzio. Rimasi ad aspettare con il bavero del giaccone alzato e le mani in tasca, seduta su un muretto e protetta da una pila di casse di sifoni. Venivo da un quartiere di lavoratori, sapevo che non poteva mancare molto al momento in cui sarebbe

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iniziato il movimento: erano numerose le persone che si alzavano all’alba per rendere migliore la vita di coloro che potevano permettersi il lusso di dormire fino a tardi. Prima delle quattro si accesero le prime luci nei sotterranei dell’albergo, poco dopo uscirono un paio di dipendenti. Si fermarono ad accendere una sigaretta sulla porta, proteggendo il fuoco con le mani, e si allontanarono senza fretta. Il primo veicolo che arrivò era una specie di camioncino: fece scendere senza avvicinarsi una decina di donne giovani e se ne andò. Le passeggere entrarono morte di sonno; le cameriere del nuovo turno, immaginai. Il secondo motore apparteneva a un motocarro. Ne uscì un individuo magro e mal rasato che cominciò a trafficare nel vano posteriore per prendere la merce. Poi lo vidi entrare nelle cucine con un grande cesto di vimini che conteneva qualcosa di leggero, ma al buio e da lontano non riuscii a distinguere. Quando finì, si diresse di nuovo verso il piccolo veicolo e in quel momento lo avvicinai.

Cercai di pulire con un fazzoletto la paglia sparsa sul sedile, ma non ci riuscii. L’abitacolo puzzava di galline e c’erano piume ovunque, gusci rotti e resti di escrementi. Le uova della colazione arrivavano agli ospiti fritte o strapazzate con cura su un piatto di porcellana con il bordo dorato. Il veicolo in cui venivano trasportate dai pollai alle cucine dell’hotel era molto meno elegante. Mentre procedevamo traballando sullo scoppiettante motocarro mi sforzai di non pensare ai soffici sedili in pelle della Bentley guidata da Joào. Ero seduta a destra dell’uomo che consegnava le uova, stretti sul sedile anteriore che misurava appena mezzo metro. Nonostante il contatto fisico, non scambiammo una parola per l’intero tragitto, salvo lo stretto necessario per comunicargli l’indirizzo a cui doveva portarmi.

«E’ qui» disse quando arrivammo. Riconobbi la facciata. «Le do altri cinquanta escudos se passa a prendermi fra due ore.» Non dovette parlare per confermare che ci sarebbe stato: bastò il gesto di toccarsi il

berretto per farmi capire che l’affare era fatto. Il portone era chiuso, mi sedetti su una panchina di pietra ad aspettare il sorvegliante.

Con il cappello calcato in testa e il bavero ancora alzato, cercai di sopportare l’incertezza togliendo a uno a uno i fili di paglia e le piume che mi erano rimasti attaccati addosso. Per fortuna non dovetti attendere troppo: in meno di un quarto d’ora arrivò l’uomo che aspettavo con un grande anello di chiavi. Si bevve la storia su una borsa dimenticata che gli raccontai a pezzi e bocconi e mi lasciò entrare. Cercai il nome nelle buche delle lettere, salii correndo due rampe di scale e bussai alla porta con un batacchio in bronzo a forma di pugno più grande della mia mano.

All’interno qualcuno si svegliò poco dopo. Prima sentii dei passi lenti nel corridoio, come di chi trascina un paio di vecchie ciabatte.

Lo spioncino si aprì e dall’altro lato vidi un occhio scuro pieno di cispe e stupore. Poi udii un suono di passi più dinamici e composti. E voci, voci basse e affannate. Per quanto fosse attutita dallo spessore della robusta porta di legno, ne riconobbi una. Quella che cercavo. Ne ebbi la conferma quando un nuovo occhio, vivace e azzurro, si affacciò

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dal piccolo foro. «Rosalinda, sono Sira. Apri, per favore.» Un chiavistello. Un altro. L’incontro fu concitato, pieno di gioia contenuta e sussurri confusi. «What a marvellous surprise! Ma cosa ci fai qui in piena notte, my dear! Mi hanno

detto che saresti venuta a Lisbona ma che non potevo vederti; come va a Madrid? Come vanno...»

Anche la mia felicità era immensa, ma il timore mi fece ritrovare la prudenza. «Ssst...» dissi cercando di calmarla. Non mi diede retta e proseguì la sua entusiastica

cerimonia di benvenuto. Anche tirata giù dal letto all’alba era affascinante come al solito. L’ossatura delicata e la pelle diafana coperta da una vestaglia di seta color avorio lunga fino ai piedi, i capelli ondulati forse un po’ più corti, la bocca piena di parole che si accalcavano e si mescolavano come sempre in inglese, spagnolo e portoghese.

Sentirla così vicina diede il via libera a un milione di domande trattenute. Che ne era stato di lei nei mesi successivi alla fuga precipitosa dalla Spagna? Com’era riuscita a tirare avanti? Come aveva preso la destituzione di Beigbeder? La sua casa trasudava lusso e agio, ma io sapevo quanto fossero ridotti i suoi mezzi, che non le avrebbero certo consentito di pagarsi una dimora del genere. Preferii non chiedere niente. Per quanto fossero stati duri i colpi e buie le circostanze, Rosalinda Fox continuava a irradiare la stessa vitalità positiva di sempre, un ottimismo capace di far crollare ogni barriera, superare qualsiasi scoglio e far alzare un morto, se solo avesse voluto.

Percorremmo il lungo corridoio a braccetto, sussurrando al buio. Arrivammo in camera sua, lei chiuse la porta dietro di sé e il ricordo di Tetuàn mi

investì all’improvviso come una folata d’aria africana. Il tappeto berbero, un lampadario arabo, i quadri.

Riconobbi un acquerello di Bertuelli: le pareti imbiancate a calce della medina, le

rifenas che vendevano arance, un mulo carico, haik e gellabe e, sullo sfondo, il minareto di una moschea che si stagliava contro il cielo marocchino.

Distolsi lo sguardo; non era il momento di lasciarsi andare alla nostalgia. «Devo rintracciare Marcus Logan.» «Ma pensa, che coincidenza. E’ venuto a trovarmi qualche giorno fa: voleva sapere di

te.» «Cosa gli hai detto?» chiesi allarmata. «Solo la verità» disse alzando la mano destra come se dovesse prestare giuramento.

«Che ti avevo visto per l’ultima volta l’anno scorso a Tangeri.» «Sai dove trovarlo?» «No. Ha detto solo che sarebbe ripassato da El Galgo.» «Cos’è El Galgo?» «Il mio club» disse ammiccando mentre si distendeva sul letto. «Un locale fantastico

che ho aperto insieme a un amico. Stiamo diventando ricchi» disse con una risata. «Ma

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ti racconterò tutto in un altro momento, ora concentriamoci su questioni più urgenti. Non so dove rintracciare Marcus, darling. Non so dove abita e non ho il suo numero di telefono. Ma vieni, siediti qui vicino a me e raccontami tutta la storia, magari ci viene in mente qualcosa.»

Che consolazione ritrovare la Rosalinda di sempre. Stravagante e imprevedibile, ma efficiente, veloce e risoluta anche nel cuore della notte. Superata la sorpresa iniziale, appena le fu chiaro che la mia visita aveva un obiettivo concreto, non perse tempo con domande inutili, non volle sapere della mia vita a Madrid né di che cosa facessi agli ordini dei servizi segreti in cui mi aveva spinto a entrare.

Comprese che c’era una questione da risolvere con urgenza e cercò di aiutarmi. Le feci un riassunto della storia di Da Silva e della posizione di Marcus in quella

faccenda. Eravamo illuminate solo dalla tenue luce di un paralume di seta plissettata, entrambe distese nel suo grande letto.

Anche se sapevo di contravvenire agli ordini di Hillgarth, secondo cui non avrei dovuto mettermi in contatto con Rosalinda per nessuna ragione, non esitai a renderla partecipe dei segreti della mia missione: mi fidavo di lei a occhi chiusi ed era l’unica persona a cui potevo rivolgermi. Fra l’altro, erano stati proprio loro a spingermi a cercarla: mi avevano mandata in Portogallo senza protezione, senza appoggi, e non avevo avuto altra scelta.

«Vedo Marcus molto di rado: a volte passa al club, in qualche occasione ci siamo incontrati al ristorante dell’hotel Aviz, e un paio di sere, come è successo a te, al Casinò di Estoril. E sempre gentile, ma un po’ sfuggente riguardo al suo lavoro: non ha mai chiarito a cosa si dedica adesso, ma dubito molto che faccia il giornalista. Ogni volta che ci incontriamo parliamo per un paio di minuti e ci salutiamo con affetto promettendo di vederci più spesso, ma non lo facciamo mai. Non ho idea di cosa si occupi, darling. Non so se quello che fa è pulito o se avrebbe bisogno di passare in lavanderia. Non ho idea se abita in pianta stabile a Lisbona, o se va e viene da Londra o da qualche altra parte.

Ma se mi dai un paio di giorni, posso cercare di scoprire qualcosa.» «Credo che non ci sia tempo. Da Silva ha già impartito istruzioni per toglierlo di

mezzo e lasciare via libera ai tedeschi. Devo avvisarlo il prima possibile.» «Fa’ attenzione, Sira. Forse anche lui è coinvolto in qualcosa di poco chiaro che tu

non puoi sapere. Non ti hanno detto che tipo di affari lo legavano a Da Silva, ed è passato parecchio tempo da quando lo frequentavamo in Marocco; non sappiamo che ne è stato della sua vita da quando se n’è andato a oggi. Di fatto, non ne sapevamo granché neanche allora.»

«Ma è riuscito a far arrivare mia madre...» «E’ stato solo un mediatore, e inoltre lo ha fatto in cambio di qualcosa. Non era un

favore disinteressato, ricordalo.» «E sapevamo che era un giornalista...» «Era quello che pensavamo, ma in verità non abbiamo mai visto pubblicata la famosa

intervista con Juan Luis che in teoria lo aveva spinto a Tetuàn.»

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«Forse...» «E neanche il reportage sul Marocco spagnolo per cui si era fermato settimane.» C’erano mille possibili giustificazioni per tutto quello, e di sicuro facili da trovare, ma

non potevo perdere tempo a cercarle. L’Africa era il passato, il Portogallo il presente. E la fretta era nel presente.

«Devi aiutarmi a trovarlo» insistetti, vincendo i sospetti. «Da Silva ha già allertato i suoi uomini, e bisogna almeno avvisare Marcus; lui saprà cosa fare.»

«Ovviamente cercherò di trovarlo, my dear, stai tranquilla. Però ti chiedo di agire con cautela e di considerare che tutti noi siamo cambiati molto; nessuno è più quello che era. Nella Tetuàn di qualche anno fa tu eri una giovane sarta e io l’amante spensierata di un uomo potente; guarda cosa siamo diventate adesso, pensa a dove siamo entrambe e a come dobbiamo vederci. Anche Marcus e la sua situazione saranno cambiati: è la legge della vita, a maggior ragione di questi tempi. E se sapevamo poco di lui allora, adesso ne sappiamo ancora meno.»

«Ora si dedica agli affari, me lo ha fatto sapere lo stesso Da Silva.» Reagì alla mia spiegazione con una risata ironica. «Non essere ingenua, Sira. La parola “affari” oggi è una specie di grande ombrello

nero che può coprire qualunque cosa.» «Mi stai dicendo che non dovrei aiutarlo?» domandai cercando di non apparire

confusa. «No. Ti sto solo consigliando di fare molta attenzione e di non rischiare più del

dovuto, perché non sai neanche con certezza chi sia l’uomo che vorresti proteggere e in cosa sia coinvolto. Sono strani i casi della vita, non trovi?» continuò con un mezzo sorriso, allontanando dal viso l’eterna ciocca bionda. «Lui era pazzo di te a Tetuàn e tu non ti sei lasciata andare fino in fondo, nonostante la grande attrazione che vi univa. E adesso, dopo tanto tempo, per proteggerlo rischi di farti smascherare, di mettere in pericolo la tua missione e chissà cos’altro, e tutto questo in un paese dove sei sola e non conosci quasi nessuno. Non riesco ancora a capire perché sei stata così restia a iniziare una relazione seria con Marcus, ma il segno che ha lasciato in te deve essere molto profondo, se adesso ti esponi per lui in questo modo.»

«Te l’ho detto mille volte. Non volevo una nuova relazione perché la storia con Ramiro era recente e le mie ferite erano ancora aperte.»

«Ma era passato del tempo...» «Non abbastanza. Pensare di tornare a soffrire mi faceva venire il panico, Rosalinda,

avevo tanta paura... La vicenda di Ramiro era stata così dolorosa, così cruenta, così, così tremenda... Sapevo che prima o poi Marcus se ne sarebbe andato e non volevo passarci di nuovo.»

«Lui però non ti avrebbe mai lasciata in quel modo. Prima o poi sarebbe tornato, magari potevi andare con lui...»

«No. Tetuàn non era il suo posto, era il mio, con mia madre che stava per arrivare, le denunce che gravavano su di me e la Spagna in piena guerra. Ero ancora confusa, ferita

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e sconvolta dalla mia storia precedente, ansiosa di sapere qualcosa di mia madre, e mi stavo costruendo una personalità falsa per attirare clienti in una terra straniera. Ho eretto una barriera per evitare di innamorarmi perdutamente di Marcus, certo. Ma lui è riuscito a superarla. Si è infilato negli interstizi e mi ha raggiunta. Non ho più amato nessuno da allora, e non mi sono neanche mai sentita attratta da qualcuno in particolare. Il suo ricordo mi è servito per farmi forza, per affrontare la solitudine, e credimi, Rosalinda, sono stata molto sola in questi ultimi tempi. Poi, quando pensavo che non lo avrei rivisto mai più, la vita lo ha messo sulla mia strada nel momento peggiore. Non voglio recuperarlo né tendere un ponte sul passato per riavere le cose perdute, so che è impossibile in questo mondo folle in cui viviamo. Ma se posso aiutarlo perché non finisca ammazzato in qualche vicolo, devo provarci.»

Probabilmente notò che mi tremava la voce, perché mi afferrò una mano e la strinse forte.

«Bene, concentriamoci sul presente» disse con fermezza. «Quando farà giorno metterò in moto i miei contatti. Se è ancora a Lisbona, riuscirò a trovarlo.»

«Io non voglio vederlo e non voglio neanche che ci parli tu. Usa un intermediario, qualcuno che gli faccia arrivare l’informazione senza che lui sappia che proviene da te. L’unica cosa che deve sapere è che Da Silva non solo non vuole più avere a che fare con lui, ma ha anche impartito l’ordine di toglierlo di mezzo se comincia a dare fastidio. Io comunicherò a Hillgarth gli altri nomi non appena arriverò a Madrid.

Anzi, no» mi corressi. «Fai arrivare a Marcus tutti i nominativi, segnateli, li so a memoria. Sarà lui a diffondere la notizia, probabilmente li conosce tutti.»

Sentivo una stanchezza infinita, quasi come l’angoscia che mi portavo dentro da quando Beatriz Oliveira mi aveva passato quella tetra lista nella chiesa di Sào Domingos. La giornata era stata atroce: la novena e tutto quello che aveva portato con sé, l’incontro successivo con Da Silva e lo sforzo estenuante per farmi invitare a casa sua; poi la veglia di ore, l’attesa al buio vicino al deposito rifiuti dell’hotel, il tortuoso viaggio fino a Lisbona appiccicata al corpo maleodorante del fattorino che consegnava le uova. Guardai l’orologio. Mancava ancora mezz’ora prima che venisse a prendermi con il motocarro. Chiudere gli occhi e accoccolarmi nel letto disfatto di Rosalinda mi sembrò la più attraente delle tentazioni, ma non era il momento di pensare a dormire.

Prima dovevo informarmi sulla vita della mia amica, sia pur brevemente: poteva essere il nostro ultimo incontro.

«Adesso raccontami tu, in fretta; non voglio andare via senza sapere qualcosa di te. Come te la sei cavata da quando hai lasciato la Spagna, che ne è stato della tua vita?»

«I primi tempi sono stati duri, da sola, senza soldi e consumata dall’incertezza per la sorte di Juan Luis a Madrid. Ma non potevo sedermi a piangere su quello che avevo perso: dovevo guadagnarmi da vivere. A tratti è stato addirittura divertente, ho vissuto scene degne delle commedie più sofisticate: un paio di milionari decrepiti mi hanno proposto di sposarli e ho addirittura conquistato un ufficiale nazista che si diceva pronto a disertare, se solo avessi accettato di fuggire con lui a Rio de Janeiro. A volte è stato

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spassoso; altre, a dirla tutta, non tanto. Ho incontrato antichi ammiratori che hanno finto di non conoscermi e vecchi amici che mi hanno voltato le spalle; persone che un tempo ho aiutato e che all’improvviso sembravano colte da amnesia, e imbroglioni che simulavano di navigare in cattive acque per evitare di dovermi prestare qualcosa. La cosa peggiore, però, non era questa: in quei momenti, era non avere contatti con Juan Luis. Abbiamo smesso di telefonarci quando abbiamo scoperto che ci spiavano, poi abbiamo abbandonato la posta. E subito dopo sono arrivati la destituzione e l’arresto. Le ultime lettere in tanto tempo sono state quelle che ti ha consegnato e che tu hai dato a Hillgarth. Poi nient’altro.»

«E come sta adesso?» Fece un respiro profondo prima di rispondere e si scostò di nuovo i capelli dalla

faccia. «Abbastanza bene. Lo hanno mandato a Ronda ed è stato quasi un sollievo, perché

all’inizio pensava che si sarebbero liberati definitivamente di lui accusandolo di alto tradimento della patria. Ma alla fine non hanno convocato il Consiglio di guerra, più per interesse che per compassione: liquidare in quel modo un ministro nominato un anno prima avrebbe avuto un impatto molto negativo sul popolo spagnolo e sull’opinione pubblica internazionale.»

«E’ ancora a Ronda?» «Sì, ma adesso è agli arresti domiciliari. Vive in un albergo e sembra che cominci a

godere di una certa libertà di movimento. Si sta di nuovo entusiasmando per una serie di idee, sai quanto è inquieto, non è capace di stare fermo, deve sempre essere coinvolto in qualcosa di interessante, ingegnarsi e progettare. Spero che possa venire presto a Lisbona e poi we’ll see. Vedremo» concluse, con un sorriso pieno di malinconia.

Non osai chiederle quali fossero i nuovi progetti di Beigbeder dopo che era precipitato nel pozzo di chi ha perso la gloria. L’ex ministro amico degli inglesi aveva ben poco a che fare con quella Nuova Spagna che mostrava di simpatizzare con l’Asse; le cose sarebbero dovute cambiare molto perché il potere bussasse un’altra volta alla sua porta.

Guardai di nuovo l’orologio, mi rimanevano dieci minuti. «Raccontami ancora di te, come hai fatto a tirare avanti?» «Ho conosciuto Dimitri, un russo dell’Armata Bianca fuggito a Parigi dopo la

rivoluzione bolscevica. Siamo diventati amici e l’ho convinto a prendermi come socia nel club che voleva aprire. Lui ci avrebbe messo il denaro, io l’arredamento e i contatti. El Galgo è stato un successo fin dall’inizio, e allora, poco dopo averlo aperto, mi sono messa a cercare casa per lasciare finalmente la stanzetta dove mi avevano sistemata degli amici polacchi. E ho trovato questo appartamento, se si può chiamare così una casa di ventiquattro stanze.»

«Ventiquattro stanze, che sproposito!» «Non credere, l’ho fatto con l’intenzione di tirarci fuori qualcosa, obviously. Lisbona

è affollata di espatriati con poco denaro liquido che non possono permettersi un lungo soggiorno in un grande albergo.»

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«Non mi dire che hai deciso di aprire una pensione.» «Una cosa del genere. Per ospiti eleganti, gente di mondo che, per quanto sofisticata,

rischia di trovarsi sul lastrico. Metto a disposizione la mia casa e mi ricambiano con il loro capitale, nei limiti del possibile. Non ho fissato prezzi: c’è chi ha usato una stanza per due mesi senza pagarmi un escudo, e chi per alloggiare una settimana mi ha regalato un braccialetto rivière di brillanti, o una spilla Lalique. Io non presento il conto a nessuno: ciascuno contribuisce secondo le sue possibilità.

Sono tempi duri, darling, bisogna tirare avanti come si può.» Bisognava tirare avanti, in effetti. E per me la sopravvivenza immediata significava

risalire su un motocarro che puzzava come un pollaio per raggiungere la mia camera all’hotel Do Parque prima che fosse giorno fatto. Mi sarebbe piaciuto moltissimo continuare a parlare con Rosalinda fino alla fine dei nostri giorni, sdraiate sul suo grande letto, senza altre preoccupazioni se non suonare un campanello per farci servire la colazione. Ma era arrivata l’ora di andarsene, di tornare alla realtà, malgrado si prospettasse nera. Mi accompagnò alla porta; prima di aprirla, mi abbracciò con il suo corpo leggero e mi sussurrò un consiglio all’orecchio.

«Conosco appena Manuel Da Silva, ma a Lisbona la sua fama è nota a tutti: un grande impresario, seduttore e affascinante, ma anche freddo come il ghiaccio, spietato nei confronti degli avversari, capace di vendersi l’anima per un buon affare. Fai molta attenzione, stai giocando con il fuoco, è un individuo pericoloso.»

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CAPITOLO 58 «Asciugamani puliti» annunciò la voce fuori dalla porta del bagno. «Li lasci pure sul letto, grazie» gridai. Non avevo chiesto degli asciugamani ed era strano che venissero a portarli a quell’ora

del pomeriggio, ma immaginai che fosse un semplice contrattempo di servizio. Finii di mettermi il mascara sulle ciglia di fronte allo specchio. Avevo terminato il

trucco: dovevo solo vestirmi e mancava quasi un’ora prima che Joào venisse a prendermi. Ero in accappatoio. Avevo cominciato a prepararmi presto per riempire in qualche modo il pomeriggio e smettere di immaginare conclusioni funeste per la mia breve carriera, ma avevo ancora un sacco di tempo. Uscii dal bagno e mentre mi allacciavo la cintura pensai indecisa al da farsi. Avrei aspettato un po’ prima di vestirmi. O magari no, avrei potuto almeno infilarmi le calze. O forse no, forse sarebbe stato meglio... Lo vidi, e in quel preciso istante tutte le calze del mondo smisero di esistere.

«Cosa ci fai qui, Marcus?» balbettai. Non credevo ai miei occhi. Qualcuno l’aveva lasciato entrare con gli asciugamani. O forse no: esaminai la stanza

con lo sguardo e non vidi asciugamani da nessuna parte. Non rispose alla mia domanda. Non mi salutò neanche e non si disturbò a giustificare

l’audacia di invadere in quel modo la mia stanza. «Smettila di vedere Manuel Da Silva, Sira. Allontanati da lui, sono venuto solo per

dirti questo.» Parlò con un tono imperioso. Era in piedi, con il braccio sinistro appoggiato sullo

schienale di una poltrona, in un angolo. Con la camicia bianca e l’abito grigio, né teso né rilassato: sobrio. Come se avesse un obbligo e il fermo proposito di portarlo a termine.

Non riuscii a rispondere: non mi uscivano le parole. «Non so che genere di rapporto hai con lui» proseguì, «ma sei ancora in tempo per

non farti coinvolgere. Vattene da qui, torna in Marocco...» «Adesso vivo a Madrid» riuscii a dire alla fine. Ero in piedi sul tappeto, immobile,

scalza, non sapevo che fare. Ricordai le parole di Rosalinda della notte precedente: dovevo fare attenzione a Marcus, non conoscevo il mondo in cui si muoveva e gli affari in cui era coinvolto.

Rabbrividii. Non lo sapevo in quel momento e forse non l’avrei mai saputo. Sperai che continuasse a parlare per valutare fino a che punto ero in grado di capire e quanto dovevo essere cauta; quanto spazio potevo lasciare alla Sira che lui conosceva, e fino a che punto dovevo impersonare il ruolo distaccato di Arish Agoriuq.

Si allontanò dalla poltrona e si avvicinò di qualche passo. Il suo volto era sempre lo stesso, e i suoi occhi anche. Il corpo agile, l’attaccatura dei

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capelli, il colore della pelle, il profilo della mascella. Le spalle, le braccia a cui mi ero aggrappata tante volte, le mani che avevano stretto le mie dita, la voce. Di colpo era tutto così vicino, intimo. E insieme così estraneo.

«Vattene il prima possibile, non rivederlo» insistette. «Non meriti un tipo del genere. Non ho la minima idea del perché tu abbia cambiato nome, né perché tu sia venuta a Lisbona, o cosa ti abbia fatto avvicinare a lui. E non so neanche se la vostra relazione è nata spontaneamente o se qualcuno ti ha coinvolto in questa storia, ma ti assicuro...»

«Non c’è niente di serio tra noi. Sono venuta in Portogallo a fare acquisti per il mio atelier; alcune persone che conosco a Madrid mi hanno messo in contatto con lui e ci siamo visti qualche volta. E solo un amico.»

«No, Sira, ti sbagli» tagliò corto. «Manuel Da Silva non ha amici. Ha conquiste, conoscenti e adulatori, e rapporti professionali interessati, tutto qui. E ultimamente le sue frequentazioni non sono delle più opportune. Si sta infilando in faccende torbide; ogni giorno che passa si sa qualcosa di nuovo, e tu dovresti restarne fuori. Non è un uomo per te.»

«Allora neanche per te. Eppure sembravate buoni amici la sera del Casinò...» «Ci interessiamo a vicenda per questioni puramente commerciali. O meglio, ci

interessavamo. Stando alle ultime notizie che ho avuto, non ne vuole più sapere di me. Né di me né di nessun altro inglese.»

Tirai un respiro di sollievo: dalle sue parole avevo capito che Rosalinda era riuscita a scovarlo e a fare in modo che qualcuno gli trasmettesse il mio messaggio. Eravamo ancora in piedi, uno di fronte all’altra, ma senza rendercene conto avevamo accorciato le distanze. Un passo avanti io, uno lui. Un altro lui, un altro io. Quando avevamo cominciato a parlare ci trovavamo ai due estremi opposti della stanza, come due lottatori sospettosi e guardinghi, temevamo entrambi la reazione dell’avversario. Con il passare dei minuti ci eravamo avvicinati, forse inconsciamente, fino ad arrivare al centro della camera, tra i piedi del letto e lo scrittoio. Uno alla portata dell’altro, sarebbe bastato un movimento.

«Saprò badare a me stessa, stai tranquillo. Nel biglietto che mi hai dato al Casinò mi chiedevi che ne era stato della

Sira di Tetuàn. Lo vedi: è diventata più forte. E anche più diffidente e più disillusa. Ora ti rivolgo la stessa domanda, Marcus Logan: che ne è stato del giornalista che è arrivato distrutto in Africa per fare una lunga intervista all’alto commissario che non è mai...»

Non potei terminare la frase, fui interrotta da una serie di colpi alla porta. Qualcuno bussava da fuori. Inatteso e con precisione. Mi afferrai istintivamente al suo braccio.

«Chiedi chi è» sussurrò. «Sono Gamboa, l’aiutante del signor Da Silva. Le ho portato una cosa da parte sua»

annunciò la voce dal corridoio. Con tre falcate silenziose Marcus scomparve in bagno. Io mi avvicinai lentamente alla

porta, misi la mano sulla maniglia e feci diversi respiri. Poi aprii fingendo naturalezza e

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mi trovai davanti Gamboa che teneva in mano qualcosa di leggero e ingombrante, avvolto in diversi strati di carta velina. Allungai le mani per prendere quell’oggetto che ancora non avevo identificato, ma non me lo diede.

«Meglio che le appoggi su una superficie piana, sono molto delicate. Orchidee» chiarì. Esitai per qualche secondo. Anche se Marcus era nascosto in bagno, lasciare che

quell’uomo entrasse nella stanza era un’imprudenza, ma se non l’avessi fatto accomodare poteva sembrare che nascondessi qualcosa.

E in quel momento l’ultima cosa che volevo era destare sospetti. «Prego» dissi alla fine. «Le appoggi sullo scrittoio, per favore.» A quel punto me ne resi conto. E avrei voluto che il pavimento si aprisse sotto i miei

piedi e mi inghiottisse tutta intera. Assorbita di colpo, aspirata, cancellata per sempre. Così non avrei dovuto affrontare le conseguenze di quello che avevo appena visto. Al centro del piccolo tavolo, fra il telefono e una lampada dorata, c’era un oggetto inopportuno. Una cosa che nessuno avrebbe dovuto vedere. Meno che mai l’uomo di fiducia di Da Silva.

Mi corressi non appena me ne accorsi. «No, meglio se le mette qui, sulla panca ai piedi del letto.» Ubbidì senza fare commenti, ma capii che anche lui se n’era accorto. Certo. Sul legno levigato dello scrittoio c’era una cosa così anomala e incongruente in

una camera occupata da una donna sola che doveva per forza avere attirato la sua attenzione: un cappello da uomo.

Marcus uscì dal suo nascondiglio non appena sentì che la porta si richiudeva. «Vattene. Vattene da qui, per favore» insistetti mentre mi sforzavo di calcolare

mentalmente quanto tempo ci avrebbe messo Gamboa a riferire al capo quello che aveva visto. Se Marcus si era reso conto del disastro che il suo cappello avrebbe potuto scatenare, non lo diede a vedere. «Smettila di preoccuparti per me: domani sera torno a Madrid.

Oggi è il mio ultimo giorno, a partire da...» «Davvero te ne vai domani?» chiese afferrandomi per le spalle. Nonostante l’inquietudine e il timore, sentii una sensazione che non provavo da tempo

lungo la schiena. «Domani sera, sì, con il Lusitania Express.» «E non tornerai in Portogallo?» «Per il momento non ho in programma di tornare.» «E in Marocco?» «Neanche. Rimarrò a Madrid, dove ho il mio nuovo atelier e la mia vita.» Rimanemmo in silenzio per qualche secondo. Probabilmente stavamo pensando

entrambi la stessa cosa: che sfortuna che i nostri destini si fossero incrociati di nuovo in un momento così turbolento, che tristezza doverci mentire così.

«Abbi cura di te.»

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Annuii senza dire una parola. A quel punto avvicinò la mano al mio viso e mi accarezzò delicatamente la gota con un dito.

«E’ un peccato che non ci siamo avvicinati di più a Tetuàn, vero?» Mi alzai in punta di piedi e accostai la bocca al suo volto per dargli un bacio d’addio.

Quando sentii il suo odore e lui il mio, quando la mia pelle sfiorò la sua e il mio fiato si riversò nel suo orecchio, sussurrai la risposta.

«Un peccato enorme e assoluto.» Uscì senza far rumore e io rimasi indietro, in compagnia delle orchidee più belle che

mai avrei visto in vita mia; strappandomi di dosso la voglia di corrergli dietro per abbracciarlo mentre cercavo di valutare le conseguenze di quel passo falso.

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CAPITOLO 59 Mentre ci avvicinavamo vidi che c’erano già diverse auto parcheggiate parallele di

fianco alla casa. Grandi, lucide, scure. Imponenti. La residenza di Da Silva era in campagna, non troppo lontano da Estoril, ma

abbastanza perché non potessi tornare in albergo da sola. Mi soffermai su alcune indicazioni: Guincho, Malveira, Colares, Sintra. Ma non avevo comunque la minima idea di dove fossimo.

Joào frenò dolcemente e le gomme stridettero sulla ghiaia. Aspettai che mi aprisse la portiera. Tirai fuori prima un piede, piano; poi l’altro.

A quel punto vidi la sua mano tesa verso di me. «Benvenuta alla Villa da Fonte, Arish.» Uscii dall’auto lentamente. Ero avvolta in un abito di lamé dorato che modellava la

mia figura, nei capelli avevo una delle tre orchidee che mi aveva fatto recapitare da Gamboa. Cercai l’assistente con un’occhiata rapida mentre scendevo, ma non c’era.

Gli aranci e la frescura dei cipressi profumavano la serata, i lampioni della facciata emanavano una luce che sembrava sciogliersi sulle pietre della grande villa. Mentre salivo le scale del portico tenendolo a braccetto, vidi un monumentale stemma araldico sulla porta d’entrata.

«L’emblema della famiglia Da Costa, immagino.» Sapevo benissimo che difficilmente il nonno oste si sarebbe potuto sognare uno scudo

nobiliare, ma non pensavo che avrebbe colto l’ironia. Gli ospiti aspettavano in un ampio salone pieno di mobili pesanti, con un grande

camino spento su un lato. Le composizioni di fiori freschi sparse nella stanza non riuscivano a rendere meno freddo l’ambiente. E neppure l’imbarazzato silenzio che aleggiava tra i presenti contribuiva a creare una sensazione di calore. Li contai rapidamente. Due, quattro, sei, otto, dieci. Dieci persone, cinque coppie. E Da Silva. E io. In totale dodici. Come se mi leggesse nel pensiero, Manuel annunciò: «Manca ancora qualcuno, un altro ospite tedesco che non dovrebbe tardare.

Vieni, Arish, ti presento gli altri». Il rapporto, per il momento, era quasi equilibrato: tre coppie di portoghesi e due di

tedeschi, più quello che aspettavamo. Ma la simmetria si fermava lì; si limitava a quello, perché tutto il resto era completamente dissonante. I tedeschi erano vestiti di scuro, sobri, discreti, intonati al luogo e all’evento. Le loro mogli, senza esibire un’eleganza eccessiva, sfoggiavano i loro abiti con classe e trasudavano savoir-faire. I portoghesi, invece, erano farina di un altro sacco.

Uomini e donne, tutti. Anche se gli uomini indossavano abiti di tessuti pregiati, la

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qualità delle confezioni era attenuata dalla scarsa prestanza delle figure che li portavano: corpi di campagnoli, con le gambe corte, i colli robusti e le mani ampie con le unghie spezzate e i calli. Tutti e tre esibivano fiammanti penne stilografiche nel taschino della giacca, e se accennavano un sorriso le loro bocche luccicavano di denti d’oro. Le mogli, dai fisici altrettanto rozzi, si sforzavano di stare in equilibrio sulle lucide scarpe con il tacco che contenevano a fatica i piedi gonfi; una portava un cappellino messo malamente; dalla spalla di un’altra pendeva un’enorme stola di pelliccia che strusciava per terra di continuo. La terza si puliva la bocca con il dorso della mano ogni volta che mangiava una tartina.

Prima di arrivare, avevo pensato erroneamente che Manuel mi avesse invitato alla sua festa per sfoggiarmi con gli ospiti: un oggetto decorativo esotico per rafforzare la sua posizione di maschio potente, che forse gli sarebbe potuto servire per intrattenere le signore presenti parlando di moda, raccontando aneddoti sulle alte cariche tedesche in Spagna e altre banalità simili.

Ma mi bastò cogliere l’atmosfera della riunione per capire che mi ero sbagliata. Anche se mi aveva ricevuto come un’ospite, Da Silva non mi aveva chiamato per fare la comparsa, ma perché lo affiancassi nel ruolo di maestra di cerimonie e lo aiutassi a pascolare con garbo quella fauna peculiare. Il mio ruolo sarebbe stato quello di cerniera fra le tedesche e le portoghesi; avrei dovuto tendere un ponte senza il quale le signore dei due gruppi non sarebbero state in grado di scambiarsi più di qualche sguardo in tutta la serata. Se aveva questioni importanti da risolvere, di certo l’ultimo dei suoi desideri era avere intorno donne annoiate e di cattivo umore, ansiose di farsi portare via dai mariti. Per quello mi aveva voluto, perché gli dessi una mano. Io gli avevo lanciato il guanto il giorno precedente e lui l’aveva raccolto: avremmo potuto guadagnare qualcosa entrambi.

Bene, Manuel, ti darò quello che vuoi, pensai. Spero che tu farai lo stesso con me, dopo. E perché tutto funzionasse come aveva previsto, con le mie paure feci una palla compatta, la ingoiai e tirai fuori il lato più incantevole della mia falsa personalità. All’insegna di quel proposito, sprigionai il mio presunto fascino all’infinito e cominciai a sprizzare simpatia, distribuendola in modo equilibrato fra le due nazionalità. Elogiai il cappello e la stola delle donne della Beira, tirai fuori un paio di battute facendo ridere tutti, mi lasciai sfiorare il didietro da un portoghese ed esaltai le eccellenze del popolo tedesco. Senza pudore.

Finché dalla porta entrò una nube nera. «Perdonatemi, amici» annunciò Da Silva. «Voglio presentarvi Johannes Bernhardt.» Era invecchiato, ingrassato, con meno capelli, ma senza ombra di dubbio era lo stesso

Bernhardt di Tetuàn. Quello che passeggiava spesso in calle Generassimo sottobraccio a una signora che in quel momento non era con lui. Quello che aveva negoziato con Serrano Suner l’installazione delle antenne tedesche in territorio marocchino e si era accordato con il cognatissimo per lasciare Beigbeder all’oscuro di tutto. Quello che non aveva mai saputo di me dietro il divano, in ascolto sdraiata a terra.

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«Scusate il ritardo. L’auto è rimasta in panne e abbiamo dovuto fare una lunga sosta a Elvas.»

Cercai di nascondere il mio turbamento accettando il bicchiere che un cameriere mi offrì, mentre facevo in fretta qualche conto: quando era stata l’ultima occasione in cui ci eravamo incontrati da qualche parte, quante volte l’avevo incrociato per strada, per quanto tempo l’avevo visto quella sera all’Alto Commissariato? Quando Hillgarth mi aveva annunciato che Bernhardt si era trasferito in Spagna e dirigeva la grande compagnia che gestiva gli interessi economici nazisti nella penisola, gli avevo detto che probabilmente non mi avrebbe riconosciuta, se ci fossimo incontrati. Ma in quel momento non ne ero più tanto sicura.

Cominciarono le presentazioni e io diedi le spalle agli uomini che parlavano fra loro; in apparenza mi stavo facendo in quattro per mostrarmi gentile con le signore. Il nuovo argomento di conversazione era l’orchidea che avevo tra i capelli, e mentre piegavo le gambe e giravo la testa perché tutte potessero ammirarla mi concentrai per cogliere frammenti di informazioni. Registrai di nuovo i nomi per ricordarli con maggior sicurezza: Weiss e Wolters erano i tedeschi che Bernhardt, appena arrivato dalla Spagna, non conosceva. Almeida, Rodrigues e Ribero i portoghesi. Portoghesi della Beira, uomini di montagna. Proprietari di miniere; no, più precisamente piccoli proprietari di pessime terre in cui la divina provvidenza aveva piazzato un giacimento. Di che cosa? Non lo sapevo ancora: in quel momento non avevo idea di che cosa fosse la bava di lupo che Beatriz Oliveira aveva menzionato in chiesa. Ma infine ecco la parola tanto attesa: wolframio.

Dai meandri della memoria recuperai in fretta i dati che Hillgarth mi aveva fornito a Tangeri: si trattava di un minerale fondamentale per la fabbricazione di proiettili. E, agganciato a quel ricordo, ne ripescai anche un altro: Bernhardt era implicato nell’acquisto di quell’elemento su vasta scala. Hillgarth però mi aveva parlato del suo interesse per i giacimenti in Galizia e in Estremadura; probabilmente allora non poteva prevedere che i tentacoli del tedesco avrebbero finito per oltrepassare la frontiera, arrivando in Portogallo, per trattare con un impresario traditore deciso a tagliare i rifornimenti agli inglesi per compiacere le domande dei loro nemici. Manuel da Silva non era coinvolto nelle compravendite di seta, legno o qualche altro prodotto coloniale altrettanto innocuo, ma in qualcosa di ben più pericoloso e sinistro: i suoi nuovi traffici si basavano su un metallo che sarebbe servito ai tedeschi per rafforzare gli armamenti e aumentare la loro capacità di uccidere ancora.

Le ospiti mi distolsero dai miei pensieri reclamando la mia attenzione. Volevano sapere da dove veniva quel fiore meraviglioso che spuntava dietro il mio

orecchio sinistro, mi chiedevano se era naturale e come si coltivava: mille domande che non mi coinvolgevano per niente ma alle quali non potevo evitare di rispondere. Era un fiore tropicale; sì, naturale, certo; no, non avevo idea se la Beira fosse un buon posto per coltivare orchidee.

«Signore, permettetemi di presentarvi il nostro ultimo ospite» ci interruppe di nuovo

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Manuel. Trattenni il respiro finché non arrivò il mio turno. Ero l’ultima. «E questa è una mia amica, la signorina Arish Agoriuq.» Mi guardò senza battere ciglio per un secondo. Due. Tre. «Ci conosciamo?» Sorridi, Sira, sorridi, mi ordinai. «No, mi pare di no» dissi allungando languidamente la mano destra. «A meno che non vi siate incontrati da qualche parte a Madrid» osservò Manuel. Per

fortuna non conosceva Bernhardt abbastanza da sapere che per un certo periodo aveva vissuto in Marocco.

«Forse all’Embassy?» suggerii. «No, no; ultimamente sto pochissimo a Madrid. Viaggio di frequente e a mia moglie

piace il mare, perciò abitiamo a Denia, vicino a Valencia. No, il suo viso mi è familiare per via di qualche altro posto, ma...» Fui salvata dal maggiordomo. «Signore, signori, la cena è servita.» In mancanza di una consorte, Da Silva trasgredì il galateo e mi fece sedere a

capotavola. Lui prese posto di fronte a me. Cercai di nascondere l’inquietudine dedicandomi anima e corpo a intrattenere gli ospiti, ma la sensazione di angoscia era tale che non toccai quasi cibo.

Allo spavento provocato dalla visita di Gamboa in camera si erano uniti l’arrivo inatteso di Bernhardt e la conferma dell’oscuro traffico in cui era coinvolto Da Silva.

Come se non bastasse, si pretendeva da me anche che assumessi l’atteggiamento e i modi di una perfetta padrona di casa.

La minestra arrivò in una zuppiera d’argento, il vino fu servito in decanter di cristallo e i frutti di mare su enormi vassoi colmi di crostacei. Mi feci in quattro per essere cordiale con tutti. Indicai alle portoghesi quali posate bisognava usare in ogni momento e scambiai qualche frase con le tedesche: certo che conoscevo la baronessa Stohrer; sì, anche Gloria von Fürstenberg; sì, certo che sapevo che Horcher stava per aprire a Madrid. La cena trascorse senza incidenti e Bernhardt, per fortuna, non si occupò più di me.

«Bene, signore, adesso, se non vi dispiace, noi uomini ci ritiriamo a parlare» annunciò Manuel dopo il dessert.

Mi trattenni, torcendo la tovaglia tra le dita. Non era possibile, non poteva farmi una cosa del genere. Io avevo fatto la mia parte, ed era arrivato il mio turno di ricevere. Avevo compiaciuto tutti e mi ero comportata come una padrona di casa esemplare senza esserlo, meritavo una ricompensa. Non potevo lasciarmeli sfuggire proprio nel momento in cui stavano per concentrarsi su quello che mi interessava di più. Per fortuna il vino aveva accompagnato i piatti senza moderazione e gli animi erano ormai rilassati. Soprattutto quelli dei portoghesi.

«No, Da Silva, accidenti!» gridò uno di loro dandogli una sonora pacca sulla spalla. «Non sia così antiquato, amico mio! Al giorno d’oggi, nella capitale, uomini e donne

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vanno insieme dappertutto!» Manuel esitò per un attimo; con tutta evidenza avrebbe preferito che la conversazione

si tenesse in privato, ma gli uomini della Beira non gli lasciarono scelta: si alzarono rumorosamente dal tavolo e si diressero di nuovo nel salone con l’aria esaltata. Uno di loro passò un braccio intorno alle spalle di Da Silva, un altro ne offrì uno a me. Sembravano esultanti, una volta superata la ritrosia iniziale di vedersi ricevuti nella grande villa di un uomo ricco. Quella sera avrebbero concluso un accordo che avrebbe permesso loro di chiudere la porta in faccia alla miseria propria, dei propri figli e dei figli dei propri figli; non c’era ragione di farlo lontano dalle mogli.

Furono serviti caffè, liquori, tabacco e cioccolatini; ricordai che dell’acquisto si era occupata Beatriz Oliveira. Anche delle composizioni di fiori, eleganti senza ostentazione. Immaginai che fosse stata lei a scegliere le orchidee che avevo ricevuto quel pomeriggio, e ricordando l’improvvisa visita di Marcus sentii di nuovo un brivido. Un brivido doppio. Di affetto e gratitudine nei suoi confronti perché si preoccupava tanto per me; di timore per il ricordo dell’incidente del cappello scoperto dall’aiutante. Gamboa non si era ancora fatto vedere; chissà, con un po’ di fortuna stava mangiando uno stufato fatto in casa con la famiglia, ascoltava le lamentele della moglie per i prezzi della carne e aveva dimenticato di avere scoperto un altro uomo nella camera della straniera corteggiata dal suo principale.

Anche se non riuscì a separarci in stanze diverse, Manuel fece comunque in modo che ci sedessimo in zone distinte. Gli uomini a un estremo dell’ampia sala, su poltrone in pelle di fronte al camino spento. Le donne accanto a una grande vetrata che dava sul giardino.

Cominciarono a parlare mentre noi elogiavamo la qualità dei cioccolatini. I tedeschi iniziarono la conversazione esponendo le loro posizioni in tono contenuto, mentre io mi sforzavo di aguzzare l’orecchio e registravo mentalmente tutto quello che sentivo da lontano.

Pozzi, concessioni, permessi, tonnellate. I portoghesi ponevano domande e obiezioni, alzavano il volume, parlavano in modo concitato.

Probabilmente i primi volevano estorcere loro anche l’anima, e gli uomini della Beira, rudi montanari abituati a non fidarsi nemmeno del padre, non erano disposti a lasciarsi comprare a qualunque prezzo.

L’atmosfera, per mia fortuna, si stava scaldando. Le voci erano perfettamente udibili, a volte addirittura esplosive. E la mia testa, come una macchina, registrò ininterrottamente tutto quello che dicevano.

Non avevo ancora un quadro completo di ciò che si stava negoziando, ma riuscii a immagazzinare una grande quantità di dati isolati. Gallerie, sporte, camion, perforazioni, vagoncini. Wolframio libero e wolframio controllato. Wolframio di qualità, senza quarzo né piriti. Imposte sulle esportazioni. Seicentomila escudos a tonnellata, tremila tonnellate l’anno. Pagherò, lingotti d’oro e conti a Zurigo. Ottenni anche qualche trancio succulento, porzioni complete di informazioni. Come il fatto che Da Silva stava

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muovendo abilmente i fili da settimane per riunire i principali proprietari di giacimenti e convincerli a trattare esclusivamente con i tedeschi. E se tutto fosse andato secondo le previsioni, entro due settimane avrebbero interrotto di colpo e tutti insieme le vendite agli inglesi.

Le somme di denaro che menzionavano mi consentirono di capire l’aria da nuovi ricchi dei fornitori di wolframio e delle loro mogli. Quella cosa stava trasformando umili contadini in facoltosi proprietari senza neanche il bisogno di lavorare: le penne stilografiche, i denti d’oro e le stole di pelliccia erano solo una piccola dimostrazione dei milioni di escudos che avrebbero guadagnato permettendo ai tedeschi di perforare le loro terre senza ostacoli.

La serata proseguiva e, a mano a mano che nella mia mente si profilava l’effettiva portata di quell’affare, aumentavano anche i miei timori. Quello che stavo sentendo era così privato, così atroce e compromettente, che preferivo non immaginare le conseguenze che avrei dovuto affrontare se Manuel da Silva avesse scoperto chi ero e per chi lavoravo. La riunione degli uomini si protrasse per quasi due ore, ma a mano a mano che la loro conversazione si infervorava quella delle donne si spegneva. Se mi accorgevo che le trattative maschili si erano arenate e non stavano portando a niente di nuovo, tornavo a concentrarmi sulle mogli. Anche se le donne portoghesi non mi davano più retta da tempo e non ricompensavano i miei sforzi per intrattenerle: ormai incapaci di reprimere il sonno, avevano le teste ciondolanti. Nelle loro dure giornate rurali probabilmente si ritiravano al tramonto del sole e si alzavano all’alba per dare da mangiare agli animali e lavorare nei campi e in cucina; quella serata a base di vino, cioccolatini e opulenza superava di gran lunga ciò che erano in grado di sopportare. Mi dedicai allora alle tedesche, che non sembravano troppo comunicative neanche loro: esauriti i luoghi comuni, mancavano le affinità e le capacità linguistiche per mantenere viva la conversazione.

Ero quasi rimasta senza pubblico e senza risorse: il mio ruolo di padrona di casa sostituta si stava esaurendo, dovevo preoccuparmi di non far morire del tutto la conversazione, mentre continuavo a rimanere all’erta per captare informazioni. Proprio allora, in fondo, nella zona maschile della sala, scoppiò una grande risata collettiva. Poi vennero le strette di mano, gli abbracci e le congratulazioni. La trattativa era conclusa.

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CAPITOLO 60 «Vagone di prima classe, scompartimento numero otto.» «Sei sicura?» Gli mostrai il biglietto. «Perfetto, ti accompagno.» «Non è necessario, davvero.» Non mi diede retta. Alle valigie con cui ero arrivata a Lisbona si erano aggiunti diverse cappelliere e due

grandi borsoni da viaggio carichi di capricci; era tutto uscito in anticipo dall’hotel nel pomeriggio. Il resto delle compere sarebbe arrivato all’atelier nei giorni successivi, spedito direttamente dai fornitori. Come bagaglio a mano mi era rimasta soltanto una valigetta con l’occorrente per la notte in treno. E qualcos’altro: il blocco da disegno fitto di informazioni.

Quando scendemmo dall’auto, Manuel insistette per portare la valigetta. «Non pesa quasi niente, non occorre» dissi cercando di non separarmene. Ma era una battaglia persa in partenza, sapevo di non poter insistere. Entrammo nell’atrio come la coppia più elegante della stazione: io avvolta in tutto il

mio fascino, e lui che trasportava senza saperlo le prove del suo tradimento. La stazione di Santa Apolónia, con la sua aria da casermone, accoglieva i viaggiatori che arrivavano alla spicciolata per prendere il treno notturno diretto a Madrid. Coppie, famiglie, amici, uomini soli. Alcuni sembravano pronti ad andarsene con la freddezza o l’indifferenza di chi si allontana da qualcosa che non gli ha lasciato tracce; altri, invece, versavano lacrime, distribuivano abbracci, sospiri e promesse per il futuro che forse non avrebbero mai mantenuto. Io non rientravo in nessuna delle due categorie: né fra i distaccati né fra i sentimentali. La mia natura era un’altra. Quella di chi fugge; di chi non vede l’ora di prendere il largo, scuotere la polvere dai calzari e dimenticare per sempre quello che si lascia alle spalle.

Avevo trascorso la maggior parte della giornata in camera, a prepararmi per il ritorno. In teoria. Avevo tolto i vestiti dalle grucce, svuotato i cassetti e sistemato tutto nelle valigie, certo. Ma quell’attività non mi aveva portato via troppo tempo; il resto delle ore passate chiusa nella stanza lo avevo dedicato a qualcosa di più importante: trasferire in mille piccoli punti a matita tutte le informazioni captate in casa di Da Silva.

Il lavoro era durato ore interminabili. Avevo iniziato non appena tornata in hotel

all’alba, quando il ricordo di quello che avevo ascoltato era ancora fresco in mente; c’erano decine di particolari, e gran parte delle informazioni correva il pericolo di

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confondersi nell’oblio se non l’avessi annotata subito. Avevo dormito solo tre o quattro ore; al risveglio ero pronta per completare l’opera. Nel corso della mattinata e nelle prime ore del pomeriggio, dato per dato, appunto per appunto, avevo svuotato la testa sulla carta fino a formare un arsenale di messaggi brevi e rigorosi. Ne risultarono oltre quaranta cartamodelli fitti di nomi, cifre, date, luoghi e operazioni, accumulati fra le pagine del mio innocente blocco da disegno. Cartamodelli di maniche, polsini, spalle, cinturini, corpini e davanti; profili di parti e sezioni di abiti che non avrei mai cucito, nei bordi dei quali si nascondevano i segreti di una macabra transazione finanziaria destinata a facilitare l’avanzata devastante delle truppe tedesche.

A metà mattinata squillò il telefono. La chiamata mi allarmò, al punto che la lineetta telegrafica che stavo tracciando in quel momento si trasformò in un tratto brusco e storto che poi dovetti cancellare.

«Arish? Buongiorno, sono Manuel. Spero di non averti svegliata.» Ero più che lucida: già lavata, attiva e all’erta; lavoravo da diverse ore, ma camuffai la

voce per sembrare assonnata. Dovevo evitare a ogni costo di fargli capire che le cose viste e sentite la sera prima avevano comportato una valanga di lavoro indefesso.

«Non preoccuparti, sarà già tardissimo...» mentii. «E’ quasi mezzogiorno. Ti chiamavo solo per ringraziarti per aver partecipato alla

riunione di ieri sera e per come ti sei comportata con le mogli dei miei amici.» «Non devi ringraziarmi. E’ stata una serata molto piacevole anche per me.» «Davvero? Non ti sei annoiata? Ora mi pento di non essere stato un po’ di più con te.» Attenzione, Sira, attenzione. Ti sta mettendo alla prova, pensai. Gamboa, Marcus, il cappello dimenticato, Bernhardt, il wolframio, la Beira, tutto si

accumulava nella mia testa con la freddezza di un vetro gelato mentre continuavo a fingere una voce spensierata e ancora assonnata.

«No, Manuel, non preoccuparti, davvero. La conversazione con le mogli dei tuoi amici è stata molto piacevole.»

«Bene, e come intendi trascorrere il tuo ultimo giorno in Portogallo?» «Senza fare assolutamente niente. Voglio solo concedermi un lungo bagno e preparare

i bagagli. Non ho intenzione di mettere piede fuori dall’hotel.» Speravo che la risposta lo compiacesse. Se Gamboa lo aveva informato e lui

sospettava che mi vedessi con un uomo alle sue spalle, forse la prolungata permanenza tra le pareti dell’hotel avrebbe dissipato i suoi sospetti. Ovviamente, la mia parola non gli sarebbe bastata: avrebbe incaricato qualcuno di tenere d’occhio la mia camera e magari controllare anche le telefonate, ma a parte lui non intendevo parlare con nessuno. Avrei fatto la brava ragazza: non mi sarei mossa dall’hotel, non avrei usato il telefono e non avrei ricevuto visite. Mi sarei fatta vedere da sola e annoiata al ristorante, alla reception e nelle sale, e al momento di andarmene l’avrei fatto sotto lo sguardo di clienti e inservienti, accompagnata soltanto dai miei bagagli. O almeno così pensavo finché non mi propose una soluzione diversa.

«Meriti un po’ di riposo, certo. Ma non voglio che te ne vada senza salutarti. Lascia

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che ti accompagni alla stazione, a che ora parte il tuo treno?» «Alle dieci» risposi. Non avevo nessuna voglia di rivederlo. «Allora passo dal tuo hotel alle nove, d’accordo? Mi piacerebbe venire prima, ma

sono occupato tutto il giorno...» «Non preoccuparti, Manuel, mi ci vorrà del tempo per organizzare le cose. Farò

portare i bagagli in stazione a metà pomeriggio, poi ti aspetterò.» «Allora, alle nove.» «Alle nove sarò pronta.» Invece della Bentley di Joào trovai una fiammante Aston Martin sportiva. Sentii un groppo di angoscia quando vidi che il vecchio chauffeur non c’era: l’idea di

trovarmi a tu per tu con Da Silva mi suscitava una reazione di inquietudine e rifiuto. Per lui, apparentemente, non era così.

Non percepii cambiamenti nel suo atteggiamento; Da Silva non mostrò il minimo segnale di diffidenza: sempre gentile, piacevole e seducente, come se tutto il suo mondo girasse intorno ai rotoli di bella seta di Macao che mi aveva mostrato nel suo ufficio, e non avesse niente a che vedere con l’oscurità oscena delle miniere di wolframio. Percorremmo per l’ultima volta la Estrada Marginai e attraversammo velocemente le vie di Lisbona facendo voltare i passanti. Raggiungemmo il binario venti minuti prima della partenza e insistette per salire con me sul treno e accompagnarmi allo scompartimento. Avanzammo nel corridoio laterale, io davanti, lui dietro, a un passo dalla mia schiena, ancora con la valigetta nella quale le prove della sua sporca slealtà si mescolavano con innocenti prodotti da toilette, cosmetici e biancheria.

«Numero otto, siamo arrivati» annunciai. La porta aperta lasciava intravedere uno scompartimento elegante e lindo. Pareti

rivestite di legno, tende tirate, il sedile al suo posto e il letto ancora da preparare. «Bene, mia cara Arish, è arrivato il momento di salutarci» disse mentre posava la

valigetta a terra. «E’ stato un vero piacere conoscerti, e non sarà per niente facile abituarmi a non averti vicino.»

Il suo affetto sembrava sincero; forse le mie congetture sull’accusa di Gamboa erano prive di fondamento. Forse l’aiutante non aveva mai avuto intenzione di riferire qualcosa al principale, la cui stima nei miei confronti era intatta.

«E’ stato un soggiorno indimenticabile, Manuel» dissi tendendo le mani verso di lui. «Non potevo immaginare un viaggio più fruttuoso, le mie clienti rimarranno impressionate. E tu hai fatto in modo di rendere tutto così facile e piacevole che non so come ringraziarti.»

Mi afferrò le mani e le tenne fra le sue. In cambio ricevette il più splendido dei miei sorrisi, che dissimulava una voglia immensa di far calare il sipario su quella farsa. Nel giro di tre minuti il capostazione avrebbe fischiato, avrebbe abbassato la bandierina e il Lusitania Express avrebbe cominciato ad avanzare sui binari e ad allontanarsi dall’Atlantico, diretto al centro della penisola. Manuel da Silva e i suoi macabri affari, la chiassosa Lisbona e tutto quell’universo di estranei sarebbero rimasti indietro per

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sempre. Gli ultimi viaggiatori salirono sul treno affannati, dovevamo cedere loro il passo di

continuo appoggiandoci alle pareti del vagone. «Sarà meglio che tu scenda, Manuel.» «Mi sa di sì, devo proprio andare.» Era arrivato il momento di farla finita con quella pantomima d’addio, di entrare nello

scompartimento e ritrovare la mia intimità. Avevo solo bisogno che lui svanisse, tutto il resto era sistemato. Ma, inaspettatamente, sentii la sua mano sinistra sulla nuca, il suo braccio destro che mi circondava le spalle, il sapore caldo e sconosciuto della sua bocca sulla mia e un brivido lungo tutto il corpo, dalla testa ai piedi. Fu un bacio intenso; un bacio intenso e lungo che mi lasciò confusa, disarmata, incapace di reagire.

«Buon viaggio, Arish.» Non riuscii a rispondere, non me ne diede il tempo. Prima che trovassi le parole, se

n’era andato.

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CAPITOLO 61 Mi abbandonai sul sedile mentre nella mia testa si riproponevano come su uno

schermo cinematografico gli avvenimenti degli ultimi giorni. Ricordai gli intrecci e le scenografie, mi chiesi quanti dei personaggi di quello strano

film sarebbero rientrati nella mia vita e quali non avrei rivisto mai più. Ricapitolai le conclusioni di ciascuna vicenda: in minima parte liete, per la maggior parte incompiute. E quando la pellicola era ormai alla fine, l’ultima scena prese il sopravvento su tutto il resto: il bacio di Manuel da Silva. Avevo ancora in bocca il suo sapore, ma ero incapace di attribuirgli un aggettivo. Spontaneo, appassionato, cinico, sensuale. Forse erano tutti calzanti. Forse nessuno.

Mi raddrizzai sul sedile e guardai fuori dal finestrino, cullata dal dolce sferragliare del treno. Davanti ai miei occhi passarono velocemente le ultime luci di Lisbona, che si facevano sempre meno dense e più diffuse, diradandosi fino a riempire il paesaggio di oscurità. Mi alzai, avevo bisogno di fare un giro. Era ora di cena.

Il vagone ristorante era quasi pieno. Pieno di persone, di odore di cibo, rumore di stoviglie e conversazioni. I camerieri mi fecero accomodare subito; scelsi le pietanze e ordinai del vino per festeggiare la mia libertà. Ingannai l’attesa immaginando l’arrivo a Madrid e figurandomi la reazione di Hillgarth di fronte ai risultati della mia missione. Probabilmente non pensava che sarebbe stata così produttiva.

Il vino e il cibo arrivarono al mio tavolo nel giro di poco tempo, ma quando successe ero ormai certa che la cena non sarebbe stata piacevole. Per mia sfortuna ero capitata vicino a un paio di maleducati che non mi avevano tolto gli occhi di dosso fin dal momento in cui mi ero seduta. Due individui rozzi che stonavano con l’atmosfera serena intorno a noi. Sul tavolo avevano un paio di bottiglie di vino e un mucchio di portate che divoravano come se il mondo dovesse finire proprio quella notte. Riuscii a godermi a malapena il bacalimi à bràs: la tovaglia di cotone, il bicchiere decorato e la cerimoniosa diligenza dei camerieri passarono presto in secondo piano. La mia priorità divenne ingurgitare il prima possibile il cibo per tornare nel mio scompartimento e liberarmi di quella sgradevole compagnia.

Lo trovai con le tende tirate e il letto fatto, pronto per la notte. Il treno sarebbe rimasto a poco a poco silenzioso, tranquillo; quasi senza rendercene conto avremmo lasciato il Portogallo e attraversato la frontiera. Solo in quel momento mi accorsi del sonno arretrato che avevo accumulato. Avevo trascorso la notte precedente quasi in bianco a trascrivere i messaggi, quella ancora prima a parlare con Rosalinda. Le mie povere membra avevano bisogno di un po’ di riposo, quindi decisi di mettermi subito a letto.

Aprii il bagaglio a mano, ma non ebbi il tempo di tirare fuori niente, perché qualcuno

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mi interruppe bussando alla porta. «Biglietti» sentii. Aprii con cautela e vidi che era il controllore. L’uomo non se ne rese conto, ma io mi accorsi che non era solo nel corridoio. Alle

spalle del coscienzioso ferroviere, a pochi metri di distanza, intravidi due ombre che sussultavano seguendo il movimento del treno. Due ombre inconfondibili: quelle dei due uomini che mi avevano importunato durante la cena.

Diedi il chiavistello non appena il controllore se ne andò, con il fermo proposito di non riaprire fino al mio arrivo a Madrid. Dopo la dura esperienza di Lisbona l’ultima cosa che mi ci voleva era un paio di viaggiatori impertinenti senza niente di meglio da fare che passare la notte a importunarmi. Finalmente potevo prepararmi a dormire; ero sfinita nel corpo e nello spirito, avevo bisogno di dimenticare tutto, anche solo per qualche ora.

Cominciai a tirar fuori dal nécessaire quello che mi serviva: lo spazzolino da denti, un portasapone, la crema da notte. Dopo pochi minuti mi accorsi che il treno stava perdendo velocità; ci avvicinavamo a una stazione, la prima del tragitto. Scostai la tenda del finestrino.

ENTRONCAMENTO lessi. Pochi secondi dopo sentii un’altra volta qualcuno che bussava alla porta con le

nocche. Con forza, con insistenza. Non era il modo di bussare del controllore. Rimasi immobile con la schiena incollata alla porta, decisa a non rispondere. Pensavo che potessero essere i due uomini del vagone ristorante e non avevo alcuna intenzione di aprire.

Ma bussarono di nuovo. Ancora più forte. E udii il mio nome dall’altra parte. Riconobbi la voce.

Tirai il chiavistello. «Devi scendere dal treno. A bordo ci sono due uomini di Da Silva. Cercano te.» «Il cappello?» «Il cappello.»

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CAPITOLO 62 Il panico si accompagnava alla voglia di farmi una risata. Una risata amara e tetra.

Che strane le sensazioni, quanto sono ingannevoli. Un semplice bacio di Manuel da Silva aveva fatto vacillare le mie convinzioni sulla sua immoralità, e appena un’ora dopo scoprivo che aveva dato ordine di farmi fuori e di gettare il mio cadavere nella notte giù dal finestrino di un treno. Il bacio di Giuda.

«Non prendere niente, solo i documenti» mi disse Marcus. «Recupererai tutto il resto a Madrid.»

«C’è una cosa che non posso lasciare.» «Non puoi portare niente, Sira. Non c’è tempo, il treno sta per ripartire; se non ci

sbrighiamo dovremo saltare in corsa.» «Solo un secondo...» mi avvicinai alla valigetta e tirai fuori il contenuto alla rinfusa.

La camicia da notte di seta, una ciabatta, la spazzola per capelli, una boccetta d’acqua di colonia: rimase tutto sparso sul letto e sul pavimento, come se fosse passato uno squilibrato in preda a un attacco o un violento tornado. Finché non trovai quello che cercavo, in fondo: il blocco da disegno con i falsi cartamodelli, le millimetriche prove impunturate del tradimento di Da Silva a danno dei britannici. Me lo strinsi forte al petto.

«Andiamo» dissi mentre afferravo la borsa con l’altra mano. Non potevo lasciare nemmeno quella, c’era il passaporto.

Nel momento in cui udimmo il fischio del capostazione uscimmo di corsa in corridoio; quando raggiungemmo la porta, la locomotiva aveva ormai risposto con un altro fischio e il treno si stava mettendo in marcia. Marcus scese per primo, mentre io buttavo sulla banchina il blocco, la borsa e le scarpe; impossibile saltare con i tacchi, atterrando mi sarei rotta una caviglia. Mi tese la mano, la afferrai e balzai giù.

Dopo un istante sentimmo le urla furibonde del capostazione e lo vedemmo correrci incontro gesticolando.

Uscirono due ferrovieri, richiamati dalle sue grida; il treno, intanto, indifferente a

quello che si lasciava dietro, acquistava velocità. «Forza, Sira, dài, dobbiamo andarcene di qui» mi incalzò Marcus. Raccolse una delle mie scarpe e me l’allungò, poi l’altra. Le tenni in mano ma non le

rimisi: ero concentrata su qualcos’altro. I tre ferrovieri, intanto, erano accorsi intorno a noi e condivano la ramanzina con la loro personale visione dell’incidente, mentre il capostazione ci accusava con grida e gesti bruschi. Un paio di mendicanti si avvicinarono a curiosare e pochi secondi dopo la padrona dell’osteria e un giovane

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cameriere si aggiunsero al gruppo chiedendo che cosa fosse successo. A quel punto, in una confusione concitata, fra animi surriscaldati e voci sovrapposte,

sentimmo il rumore stridente del treno che frenava. Tutta la banchina rimase di colpo muta e immobile, come coperta da un velo di

silenzio, mentre le ruote fischiavano sui binari provocando un suono acuto e prolungato. Marcus parlò per primo. «Hanno tirato la maniglia dell’allarme.» La sua voce si era fatta grave e imperiosa.

«Si sono accorti che siamo saltati giù. Forza, Sira, dobbiamo andarcene subito.» L’intero gruppo si rimise in azione automaticamente. Tornarono i bramiti, gli ordini, i

passi senza meta e i gesti furibondi. «Non possiamo andarcene» replicai mentre giravo su me stessa, esaminando il suolo.

«Non trovo il mio blocco.» «Smettila di pensare a quel maledetto blocco, perdio!» gridò furibondo. «Stanno

cercando te, Sira, hanno l’ordine di ucciderti!» Mi afferrò il braccio e mi strattonò, deciso a portarmi via di lì anche a costo di

dovermi trascinare. «Non capisci, Marcus: devo trovarlo, non possiamo lasciarlo qui» insistetti mentre

continuavo a cercare. Finché scorsi qualcosa. «E’ lì, lì» gridai cercando di liberarmi mentre indicavo l’oggetto intravisto nell’oscurità. «Lì, sui binari!»

Il suono stridente dei freni si indebolì e il treno alla fine si fermò, con tante teste affacciate ai finestrini. Le voci e le urla dei passeggeri si sommarono ai lamenti incessanti dei ferrovieri. Proprio allora li vedemmo. Due ombre precipitate da un vagone che correvano verso di noi.

Calcolai le distanze e i tempi. Potevo ancora scendere a prendere il blocco, ma risalire sulla banchina sarebbe stato molto più difficile: l’altezza era considerevole e forse le mie gambe non ce l’avrebbero fatta. In ogni caso bisognava tentare: dovevo recuperare i cartamodelli a ogni costo, non potevo tornare a Madrid senza quello che avevo trascritto su quei fogli. Mi accorsi che le braccia di Marcus mi afferravano fermamente la schiena. In un battibaleno mi spostò dal bordo e saltò sui binari.

Dal momento esatto in cui presi il blocco, fu un susseguirsi di corse folli. Corse in diagonale sulla banchina, corse che risuonavano sul pavimento dell’atrio vuoto, corse attraverso lo spiazzo buio di fronte alla stazione. Fino ad arrivare all’auto. Per mano nella notte, come in quel tempo che ci eravamo lasciati alle spalle.

«Cosa diavolo c’è di così importante in questo blocco da farci rischiare la vita?» chiese mentre cercava di riprendere fiato e partiva con una potente accelerata.

Respirando affannosamente, mi misi in ginocchio sul sedile per guardare dietro. In mezzo alla polvere sollevata dalle ruote posteriori scorsi i due uomini del treno che correvano verso di noi con tutta l’energia che avevano in corpo. All’inizio erano a pochi metri, ma a poco a poco la distanza si stava allungando. Finché vedemmo che si arrendevano.

Prima uno, che rallentò i movimenti fino a rimanere fermo e stordito, con le gambe

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divaricate e le mani sulla testa, come se non riuscisse a credere a quello che era successo. L’altro resistette ancora per qualche metro, ma non tardò a perdere velocità. L’ultima cosa che vidi fu che si piegava in avanti e, tenendosi il ventre, vomitava quello che aveva mangiato poco prima con tanta voracità.

Quando ebbi la certezza che non ci seguivano più, mi risedetti e, ancora affannata, risposi alla domanda di Marcus.

«I migliori cartamodelli che ho fatto in vita mia.»

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CAPITOLO 63 «In effetti Gamboa ha sospettato qualcosa quando ti ha portato le orchidee, quindi si è

nascosto e ha aspettato per capire chi fosse il proprietario del cappello posato sullo scrittoio. E mi ha visto uscire dalla tua stanza. Mi conosce bene, sono stato negli uffici dell’azienda varie volte. Poi è andato dal capo per riferirgli l’informazione, ma lui non l’ha ricevuto; gli ha fatto dire che era occupato con una questione importante e che avrebbero parlato la mattina successiva. Così si sono visti oggi. E quando Da Silva ha saputo di cosa si trattava, è andato su tutte le furie, lo ha congedato ed è subito passato all’azione.»

«E tu come l’hai saputo?» «Oggi pomeriggio Gamboa è venuto a cercarmi. E’ sconvolto, ha una paura tremenda

e cerca disperatamente qualcuno che lo protegga; per questo ha pensato che magari sarebbe stato più al sicuro avvicinandosi agli inglesi, con i quali c’erano prima ottimi rapporti. Non sa in cosa è coinvolto Da Silva, che tiene nascosto tutto anche alla gente di cui si fida, ma il suo atteggiamento mi ha fatto temere per te. Dopo aver parlato con Gamboa sono venuto al tuo hotel, ma te n’eri già andata.

Sono arrivato alla stazione nel momento in cui il treno stava partendo e, vedendo Da Silva solo sulla banchina, ho pensato che fosse tutto a posto. Fino a quando, all’ultimo momento, ho notato che faceva un gesto a due uomini affacciati a un finestrino.»

«Quale gesto?» «Un otto. Con cinque dita di una mano e tre dell’altra.» «Il numero del mio scompartimento...» «Era l’unico dettaglio mancante. Sul resto si erano già accordati.» Fui pervasa da una strana sensazione: paura mischiata al sollievo, debolezza e insieme

ira. Il sapore del tradimento, forse. Ma sapevo che non avevo motivi per sentirmi tradita. Avevo ingannato

Manuel camuffandomi dietro un atteggiamento frivolo e seducente, e lui aveva cercato di farmela pagare senza sporcarsi le mani né perdere neanche un briciolo della sua eleganza. Slealtà per slealtà, le cose funzionavano così.

Continuavamo ad avanzare lungo strade polverose, superando buche e avvallamenti, attraversando paesi addormentati, villaggi desolati e terreni incolti. L’unica luce che vedemmo nel giro di parecchi chilometri era quella dei fari della nostra macchina che si faceva strada nella fitta oscurità; non c’era neanche la luna. Marcus sapeva che gli uomini di Da Silva non sarebbero rimasti alla stazione e forse avrebbero trovato il modo di seguirci. Quindi continuò a guidare senza ridurre la velocità, come se avessimo ancora quelle due canaglie attaccate ai parafanghi.

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«Sono quasi sicuro che non oseranno mettere piede in Spagna: per loro è un territorio sconosciuto, dove non dominano le regole del gioco. Ma non dobbiamo abbassare la guardia finché non avremo superato la frontiera.»

A rigor di logica Marcus avrebbe dovuto chiedermi le ragioni che avevano spinto Da Silva a volermi eliminare in modo così sordido dopo avermi riservato un trattamento decisamente ossequioso nei giorni precedenti.

Ci aveva visto cenare e ballare al Casinò, sapeva che usavo la sua macchina ogni giorno per spostarmi e che ricevevo i suoi regali in albergo. Forse si aspettava un commento sulla natura della mia relazione con quell’uomo, una spiegazione su ciò che c’era stato fra noi, un chiarimento che facesse un po’ di luce su quell’ordine spietato quando stavo per uscire dal suo paese e dalla sua vita. Ma dalla mia bocca non uscì neanche una parola.

Lui continuò a parlare senza distogliere lo sguardo dalla strada, aggiungendo commenti e interpretazioni in attesa che io mi decidessi a dire finalmente qualcosa.

«Da Silva» proseguì «ti ha spalancato le porte di casa sua e ha permesso che presenziassi a tutto quello che è accaduto lì la notte scorsa, che io peraltro non so.»

Non replicai. «E che tu non sembri intenzionata a raccontare.» Infatti, non lo ero. «Ora è convinto che tu sia entrata in contatto con lui perché lavori per qualcuno e

sospetta che tu non sia una semplice creatrice di moda straniera comparsa per caso nella sua vita. Crede che tu l’abbia avvicinato per indagare sui suoi traffici, ma non ha capito per chi lavori: dopo la spiata di Gamboa è convinto che tu sia al mio servizio.

In ogni caso vuole che tu tenga la bocca chiusa. Se possibile, per sempre.» Continuai a non dire niente; preferivo nascondere i miei pensieri dietro una presunta

incoscienza. Finché il mio silenzio si fece insopportabile per entrambi. «Grazie per la protezione, Marcus» mormorai. Non riuscii a ingannarlo. Non lo ingannai e non lo intenerii, non lo commossi con il

mio falso candore. «Con chi stai, Sira?» chiese lentamente, senza distogliere gli occhi dalla strada. Mi girai e osservai il suo profilo nella penombra. Il naso affilato, la mascella

pronunciata; la stessa determinazione, la stessa sicurezza. Sembrava lo stesso uomo dei giorni condivisi a Tetuàn. Sembrava. «E tu con chi stai, Marcus?» Nel sedile posteriore, invisibile ma vicino, prese posto un altro passeggero: il

sospetto. Superammo la frontiera dopo la mezzanotte. Marcus mostrò il suo passaporto

britannico e io il mio marocchino. Vidi che lo guardava, ma non fece domande. In apparenza non c’era traccia degli uomini di Da Silva; avevamo davanti solo un paio di poliziotti assonnati con poca voglia di perdere tempo con noi.

«Forse adesso che siamo in Spagna e sappiamo che non ci hanno seguiti e neppure

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preceduti dovremmo trovare un posto dove dormire qualche ora. Domani posso prendere un treno e tu puoi tornare a Lisbona» suggerii. «Preferisco arrivare fino a Madrid» rispose a denti stretti. Continuammo ad avanzare senza incrociare automobili, ognuno immerso nei suoi

pensieri. Il sospetto aveva portato con sé la diffidenza, e la diffidenza il silenzio; un silenzio palpabile e imbarazzante, impregnato di sfiducia. Un silenzio ingiusto. Marcus mi aveva salvata dalla situazione peggiore in cui mi fossi mai trovata, avrebbe guidato per tutta la notte solo per portarmi sana e salva a destinazione, e io lo ripagavo nascondendo la faccia e rifiutandomi di dargli un qualunque indizio che lo aiutasse a uscire dallo sconcerto. Ma non potevo parlare.

Non era ancora il momento delle rivelazioni, prima dovevo ricevere conferma di un sospetto che nutrivo da quando Rosalinda mi aveva aperto gli occhi, durante la nostra conversazione notturna. O forse sì. Forse potevo dirgli qualcosa. Rivelargli qualche frammento della notte precedente, qualche scampolo, qualche informazione cruciale. Qualcosa che poteva servire a entrambi: a lui per saziare almeno in parte la sua curiosità, e a me per concimare il terreno in attesa di confermare i miei presentimenti.

Avevamo superato Badajoz e Mérida. Stavamo in silenzio da quando avevamo passato la frontiera, trascinando la mutua sfiducia sulle strade dissestate e sui ponti romani.

«Ricordi Bernhardt, Marcus?» Mi parve che i muscoli delle sue braccia si tendessero e che le dita stringessero il

volante con più forza. «Certo che lo ricordo.» L’abitacolo scuro dell’auto si riempì all’improvviso delle immagini e degli odori di

quel giorno condiviso, a partire dal quale niente, fra noi, era stato più come prima. Una serata estiva marocchina nella mia casa di Sidi Mandri, un presunto giornalista che mi aspettava accanto al balcone. Le strade gremite di Tetuàn, i giardini dell’Alto Commissariato, la banda del califfo che eseguiva gli inni con brio, gelsomini e aranci, galloni e uniformi. Rosalinda assente e un Beigbeder entusiasta che faceva gli onori di casa senza sapere che, con il passare del tempo, la persona a cui stava rendendo omaggio avrebbe finito per tagliargli la testa facendola rotolare per terra. Un gruppo di schiene tedesche formava un cerchio attorno all’ospite con gli occhi da gatto, e il mio accompagnatore mi aveva chiesto aiuto per captare informazioni di nascosto. Altri tempi, un altro paese, ma tutto il resto quasi uguale, in fondo. Quasi.

«Ieri ho cenato con lui nella villa di campagna di Da Silva. Poi hanno discusso fino all’alba.»

Mi accorsi che si stava trattenendo, ma voleva saperne di più: aveva bisogno di dati e particolari che non osava chiedere perché non si fidava fino in fondo di me. Non ero più la dolce Sira che aveva conosciuto, in effetti.

Alla fine però non riuscì a resistere. «Hai sentito di cosa parlavano?»

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«Assolutamente no. Sai cosa potrebbero avere in comune?» «Non ne ho la minima idea.» Mentivo, e lui lo sapeva. Mentiva, e io lo sapevo. Nessuno dei due era disposto a

scoprire le carte, ma quel piccolo avvicinamento aveva allentato la tensione. Forse perché ci aveva riportato alla mente un tempo in cui probabilmente non avevamo ancora perso del tutto l’innocenza. Forse perché quel ricordo ci aveva fatto ritrovare uno scampolo di complicità, costringendoci a ricordare che qualcosa ci univa al di là delle menzogne e l’inquietudine.

Cercai di rimanere attenta alla strada e vigile, ma l’agitazione degli ultimi giorni, il sonno accumulato e la tensione nervosa per tutte le cose vissute quella notte mi avevano debilitato al punto che una stanchezza immensa cominciò a impadronirsi di me. Camminavo da troppo tempo in equilibrio su un filo.

«Hai sonno?» mi chiese. «Dài, appoggiati alla mia spalla.» Circondai il suo braccio destro con le mie e mi accoccolai vicino a lui per sentire il

calore del suo corpo. «Dormi. Siamo a buon punto» sussurrò. Precipitai in un pozzo buio e torbido, dove rivissi scene recenti filtrate da una lente

deformante. Uomini che mi seguivano brandendo un coltello, il lungo bacio umido di un serpente, le mogli dei portoghesi del wolframio che ballavano su un tavolo, Da Silva che contava con le dita, Gamboa in lacrime, io e Marcus che correvamo al buio per le viuzze della medina di Tetuàn.

Non avevo idea di quanto tempo fosse passato quando aprii gli occhi. «Svegliati, Sira. Stiamo entrando a Madrid. Devi dirmi dove abiti.» La vicinanza della sua voce mi strappò al sonno e cominciai a poco a poco a uscire

dal torpore. Mi resi conto che gli ero ancora addosso, aggrappata al suo braccio. Raddrizzare il corpo intorpidito e separarmi da Marcus mi sarebbe costato uno sforzo infinito. Lo feci lentamente: avevo il collo irrigidito e tutte le articolazioni doloranti. Anche la sua spalla doveva essere anchilosata, ma non lo diede a vedere. Ancora senza parlare, guardai dal finestrino mentre tentavo di pettinarmi con le dita. Su Madrid stava albeggiando. Le luci erano ancora accese.

Poche, rare, tristi. Ricordai Lisbona e il suo potente dispiegamento di illuminazione notturna. Nella Spagna delle restrizioni e della miseria si viveva ancora quasi al buio.

«Che ora è?» chiesi alla fine. «Quasi le sette. Hai dormito un bel po’.» «E tu devi essere stravolto» dissi ancora intontita. Gli diedi l’indirizzo e gli chiesi di parcheggiare accanto al marciapiede di fronte, a

qualche metro di distanza dal portone. Era quasi chiaro e per le strade cominciavano a passare le prime persone.

Gli addetti alle consegne, un paio di ragazze di servizio, qualche dipendente, qualche cameriere.

«Cosa intendi fare?» chiesi mentre osservavo il movimento dietro i vetri. «Prendere

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una stanza al Palace, per il momento. E quando mi sveglierò manderò a lavare questo vestito e mi comprerò una camicia. Il carbone dei binari mi ha ridotto in uno stato pietoso.»

«Però hai recuperato il mio blocco...» «Non so se ne è valsa la pena: non mi hai ancora detto cosa contiene.» Feci finta di non aver sentito. «E dopo che ti sarai messo qualcosa di pulito cosa farai?» Parlavo senza guardarlo, ancora concentrata sulla strada, in attesa del momento adatto

per fare il passo successivo. «Andrò alla sede della mia impresa» rispose. «Abbiamo degli uffici qui a Madrid.» «E hai intenzione di scappare un’altra volta in fretta e furia come quando te ne sei

andato dal Marocco?» chiesi mentre osservavo il trambusto mattutino. Rispose con un mezzo sorriso. «Non lo so ancora.» In quel momento vidi uscire il portiere, diretto in latteria. Via libera. «Nel caso tu voglia dileguarti anche questa volta, ti invito a colazione» gli dissi

aprendo in fretta la portiera della macchina. Mi afferrò un braccio cercando di trattenermi. «Solo se mi dici in cosa sei coinvolta.» «Solo quando avrò saputo chi sei.» Salimmo le scale per mano, decisi a concederci una tregua. Sporchi e sfiniti, ma vivi.

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CAPITOLO 64 Senza bisogno di aprire gli occhi, capii che Marcus non era più accanto a me. Del suo

passaggio a casa mia e nel mio letto non era rimasta la minima traccia visibile. Né un indumento dimenticato, né un biglietto d’addio: solo il suo sapore dentro di me. Ma sapevo che sarebbe tornato.

Prima o poi, nel momento più impensabile, sarebbe ricomparso. Mi sarebbe piaciuto rimandare il momento di alzarmi. Un’altra ora, forse addirittura

mezz’ora, sarebbe stata sufficiente: il tempo necessario per ripercorrere con calma quanto era accaduto negli ultimi giorni, soprattutto nell’ultima notte: quello che avevo vissuto, percepito, sentito. Avrei voluto rimanere tra le lenzuola per rivivere ogni secondo delle ore precedenti, ma non era possibile. Dovetti riattivarmi: mi aspettavano mille impegni, dovevo cominciare a darmi da fare. Perciò mi feci una doccia e iniziai. Era sabato, e anche se le ragazze e la signora Manuela quel giorno non sarebbero venute a lavorare, era tutto pronto e in vista perché potessi sapere chi era passato dalla sartoria in mia assenza. A quanto pareva le cose erano andate bene: c’erano alcuni modelli sui manichini, misure annotate sui quaderni, scampoli e ritagli che non avevo lasciato io e appunti presi da una grafia spigolosa che riferivano chi era venuto, chi aveva telefonato e i problemi che bisognava risolvere. Non ebbi tempo per finire tutto: a mezzogiorno avevo ancora parecchie cose da sistemare, ma fui costretta a rimandarle.

L’Embassy era pieno zeppo, ma confidai nel fatto che Hillgarth avrebbe comunque visto che lasciavo cadere la borsa all’entrata. Lo feci in modo ostentato, quasi con sfacciataggine. Tre schiene galanti si chinarono subito per raccoglierla. Ma solo una ci riuscì, un alto ufficiale tedesco in divisa che proprio in quel momento si accingeva a spingere la porta per uscire in strada. Lo ringraziai con il migliore dei miei sorrisi mentre cercavo di capire se Hillgarth si era accorto del mio arrivo. Era seduto a un tavolo in fondo al locale, come al solito in compagnia. Diedi per scontato che mi avesse visto e avesse recepito il messaggio: ho bisogno di vederla urgentemente. Consultai l’orologio e simulai un’espressione sorpresa, come se mi fossi ricordata in quel preciso momento che avevo un appuntamento importantissimo da qualche altra parte. Prima delle due ero di ritorno a casa. Alle tre e un quarto arrivarono i cioccolatini. In effetti Hillgarth aveva capito.

Mi dava appuntamento alle quattro e mezzo, di nuovo all’ambulatorio del dottor Rico. La trafila fu la stessa. Arrivai da sola e non incontrai nessuno per le scale. Mi aprì la

stessa infermiera e mi accompagnò nello studio medico. «Buon pomeriggio, Sidi. Sono lieto che sia tornata. Ha fatto buon viaggio? Si dicono

meraviglie sul Lusitania Express.»

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Era in piedi accanto alla finestra, vestito con uno dei suoi abiti impeccabili. Venne verso di me per stringermi la mano.

«Buon pomeriggio, capitano. Un viaggio eccellente, grazie; gli scompartimenti di prima classe sono una vera meraviglia. Volevo vederla al più presto per metterla al corrente del mio soggiorno.»

«Le sono grato. Si sieda, prego. Una sigaretta?» Il suo atteggiamento era rilassato, sembrava non avere fretta di conoscere i risultati

del mio lavoro. L’urgenza di due settimane prima era svanita come per magia. «E’ andato tutto bene e credo di aver raccolto informazioni molto interessanti. Le

vostre supposizioni erano fondate: Da Silva ha negoziato con i tedeschi per fornire loro il wolframio. La trattativa definitiva si è conclusa giovedì sera a casa sua, in presenza di Johannes Bernhardt.»

«Ha fatto un ottimo lavoro, Sidi. Questa informazione ci sarà molto utile.» Non sembrava stupito. Né impressionato. Né riconoscente. Neutro e impassibile.

Come se la cosa non gli risultasse nuova. «Non sembra sorpreso dalla notizia» dissi. «Ne sapeva qualcosa?» Accese una Craven A e la sua risposta arrivò con la prima boccata di fumo. «Proprio stamattina ci hanno informato dell’incontro di Da Silva con Bernhardt.

Trattandosi di lui, in questo momento l’oggetto delle trattative deve per forza avere a che fare con le forniture di wolframio, e questo conferma i nostri sospetti: la slealtà di Da Silva verso di noi. Abbiamo già trasmesso un rapporto a Londra per informare i nostri colleghi.»

Rabbrividii, ma cercai di apparire naturale. Le mie supposizioni prendevano forma, ma non dovevo fermarmi.

«Quindi qualcuno vi ha informato oggi stesso, che coincidenza. Credevo che questa missione fosse stata affidata solo a me.»

«A metà mattinata abbiamo ricevuto la visita inattesa di un agente che opera in Portogallo. Non era previsto che venisse qui: è partito da Lisbona ieri notte in automobile.»

«E questo agente ha presenziato all’incontro di Bernhardt con Da Silva?» chiesi con una falsa intonazione sorpresa.

«Non di persona, ma c’era qualcuno di cui si fida.» Stavo per scoppiare a ridere. Dunque l’agente era stato informato su Bernhardt da una

persona di cui si fidava ciecamente. Bene, in fin dei conti era lusinghiero. «Bernhardt ci interessa moltissimo» proseguì Hillgarth, ignaro dei miei pensieri.

«Come le ho detto a Tangeri, è il cervello della Sofindus, la holding con cui il Terzo Reich realizza le proprie transazioni

imprenditoriali in Spagna. Sapere che sta trattando con Da Silva in Portogallo avrà un impatto enorme per noi, dal momento che...»

«Mi scusi, capitano» lo interruppi. «Mi permetta di farle un’altra domanda. L’agente che vi ha informato sulle negoziazioni di Bernhardt con Da Silva fa parte anche lui del

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SOE? E’ un nuovo acquisto come me?» Prima di rispondere, spense la sigaretta coscienziosamente. Poi alzò lo sguardo. «Perché me lo chiede?» Sorrisi con tutto il candore che la mia falsità mi consentì di sfoderare. «Niente di particolare» dissi stringendomi nelle spalle. «E’ davvero una coincidenza

che siamo comparsi entrambi con la stessa informazione esattamente lo stesso giorno; mi sembra addirittura divertente.»

«Mi spiace deluderla, ma temo che non si tratti di un agente del SOE ingaggiato di recente per la guerra. L’informazione è arrivata attraverso un uomo del SIS, il nostro servizio di intelligence convenzionale, per così dire. E non abbiamo dubbi sulla sua attendibilità: si tratta di un agente assolutamente affidabile, con diversi anni di esperienza. Un pata negra, come direste voi spagnoli, certificato come i vostri prosciutti pregiati.»

Clic. Sentii un brivido lungo la schiena. Tutti i pezzi si erano incastrati. Quello che mi aveva detto corrispondeva perfettamente alle mie ipotesi, ma la conferma, con tutta la sua forza, era come una ventata d’aria gelida nell’anima. Non era il momento di perdermi dietro alle sensazioni, tuttavia, dovevo procedere. Dovevo dimostrare a Hillgarth che anche noi agenti esterni eravamo capaci di dare il massimo nelle missioni che ci venivano affidate.

«E il suo uomo del SIS le ha fornito altre informazioni?» chiesi trapassandolo con lo sguardo.

«No, purtroppo, non ha potuto darci dettagli precisi, ma...» Non lo lasciai proseguire. «Non le ha detto come e dove ha avuto luogo il negoziato e non le ha riferito nomi e

cognomi di tutti i presenti? Non l’ha informata sui termini dell’accordo, le quantità di wolframio che prevedono di estrarre, il prezzo a tonnellata, le modalità di pagamento e gli espedienti per aggirare le tasse di esportazione? Non le ha detto che taglieranno di colpo la fornitura agli inglesi nel giro di due settimane? Non le ha riferito che Da Silva, oltre a voler tradire voi, è riuscito a portare dalla sua parte i maggiori proprietari di miniere della Beira, per poter negoziare in blocco condizioni più vantaggiose con i tedeschi?»

Sotto le sopracciglia folte lo sguardo dell’addetto navale era diventato d’acciaio. La sua voce suonò spezzata.

«Come ha saputo tutto questo, Sidi?» Sostenni il suo sguardo con orgoglio. Mi avevano costretta a camminare sull’orlo di

un burrone per più di dieci giorni ed ero riuscita ad arrivare alla fine senza precipitare: era ora di fargli sapere che cosa avevo trovato.

«Perché una sarta, quando fa bene il suo lavoro, arriva fino in fondo.» Per tutta la conversazione avevo tenuto il blocco dei cartamodelli posato con

discrezione sulle ginocchia. La copertina mezzo strappata, alcune pagine piegate e diverse macchie e resti di sporcizia testimoniavano le movimentate disavventure in cui

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era stato coinvolto da quando aveva lasciato il mio armadio nell’hotel di Estoril. Lo misi sul tavolo e vi appoggiai sopra le mani aperte.

«Qui ci sono tutti i particolari: fino all’ultima sillaba degli accordi presi quella sera. Il suo agente del SIS non le ha parlato neanche di un blocco da disegno?»

L’uomo che era appena rientrato nella mia vita in modo così travolgente era senza dubbio una spia consumata dei servizi segreti di Sua Maestà britannica, ma in quel torbido affare del wolframio ero stata io a vincere la partita.

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CAPITOLO 65 Lasciai l’edificio in cui si era svolto l’incontro segreto con qualcosa di diverso sulla

pelle. Qualcosa che non aveva ancora un nome, qualcosa di nuovo. Camminai lentamente per le strade mentre cercavo di trovare un’etichetta per quella sensazione, senza preoccuparmi di controllare se qualcuno mi stesse seguendo e indifferente alla possibilità di imbattermi in qualche individuo sgradito girando l’angolo. Nessun segno esterno mi rendeva diversa dalla donna che aveva percorso quegli stessi marciapiedi nella direzione contraria qualche ora prima, con un abito identico e i piedi infilati nelle stesse scarpe. Nessuno che mi avesse visto all’andata e al ritorno avrebbe percepito il minimo cambiamento, salvo che non avevo più con me un blocco da disegno. Ma io ero consapevole di quello che era successo. E Hillgarth anche. Entrambi sapevamo che in quel pomeriggio di fine maggio l’ordine delle cose era mutato definitivamente.

Anche se era stato parco di parole, il suo atteggiamento aveva evidenziato che i dati che gli avevo fornito formavano un copioso arsenale di informazioni preziosissime: i colleghi di Londra avrebbero dovuto analizzarli minuziosamente senza perdere un secondo. Quei particolari avrebbero fatto scattare l’allarme, avrebbero spezzato alleanze e cambiato la traiettoria di centinaia di operazioni. E immaginai che anche l’atteggiamento dell’addetto navale fosse cambiato in modo radicale. Nei suoi occhi avevo visto delinearsi un’immagine diversa di me: l’agente assoldato nel modo più temerario, la sarta inesperta dal potenziale promettente ma incerto, si era trasformata dalla sera alla mattina in una persona capace di risolvere questioni delicate con il coraggio e i risultati di un professionista. Forse mi mancava il metodo e non avevo conoscenze tecniche; e non ero una di loro per ambiente, patria e lingua. Ma avevo risposto in modo molto più efficace del previsto, e questo ai suoi occhi mi metteva in una nuova posizione.

Non era neanche precisamente gioia quella che sentivo nelle ossa mentre gli ultimi raggi di sole accompagnavano i miei passi verso casa. E nemmeno entusiasmo o emozione. Forse la parola che si adattava meglio al sentimento che mi pervadeva era: orgoglio. Per la prima volta da parecchio tempo, forse per la prima volta in vita mia, ero orgogliosa di me stessa. Orgogliosa delle mie capacità e della mia resistenza, di aver superato brillantemente le aspettative che gli altri nutrivano su di me.

Orgogliosa di sapermi capace di apportare il mio granello di sabbia per fare di quel mondo di folli un posto migliore. Orgogliosa della donna che ero diventata.

Hillgarth mi aveva spronato, certo, e mi aveva spinto sull’orlo di certi limiti che mi avevano dato le vertigini. Ed era anche vero che Marcus mi aveva salvato la vita tirandomi fuori da un treno in corsa, e che senza il suo aiuto forse non sarei vissuta

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abbastanza da ricordarlo. Tutto vero, certo. Ma era anche vero che avevo contribuito personalmente, con il mio coraggio e il mio impegno, perché la missione che mi era stata assegnata andasse a buon fine. Tutte le mie paure, il mio zelo e i miei salti senza rete erano serviti a qualcosa, finalmente: non solo a captare informazioni utili per la sporca arte della guerra, ma anche, e soprattutto, per dimostrare a me stessa e a chi mi circondava fin dove potevo arrivare.

Così, prendendo coscienza del mio valore, capii anche che era arrivato il momento di smettere di camminare alla cieca seguendo le coordinate che gli altri avevano deciso per me. Hillgarth aveva pensato di mandarmi a Lisbona, Manuel da Silva aveva deciso di farmi fuori, Marcus Logan aveva optato per venire a salvarmi. Ero passata di mano in mano come una semplice marionetta: nel bene o nel male, perché qualcuno mi facesse ascendere alla gloria o precipitare all’inferno; avevano tutti deciso al posto mio e mi avevano manipolato come chi muove una pedina su una scacchiera. Nessuno era stato chiaro con me, nessuno mi aveva mostrato apertamente le sue intenzioni: era ora di pretendere che venissero alla luce. Era arrivato il momento di prendere in mano le redini della mia esistenza, di scegliere la mia strada, di decidere come e con chi l’avrei percorsa. Davanti a me avrei trovato ostacoli ed errori, vetri rotti, passi falsi e pozzanghere di fango nero. Non mi aspettava un futuro tranquillo, lo sapevo bene. Ma era arrivato il momento di non procedere più senza conoscere il terreno su cui mi muovevo e i rischi che avrei dovuto correre ogni mattina al risveglio. Senza essere padrona, in definitiva, della mia vita.

Quei tre uomini, Marcus Logan, Manuel da Silva e Alan Hillgarth, ciascuno a modo suo e probabilmente senza che nessuno di loro lo sapesse, mi avevano fatto crescere nel giro di pochi giorni. O forse stavo crescendo piano piano da tempo, e fino ad allora non ero stata consapevole della mia nuova statura. Era probabile che non avrei più rivisto Da Silva, invece ero sicura che avrei avuto vicino Hillgarth e Marcus per parecchio tempo. Da uno di loro, in particolare, desideravo con ardore una vicinanza identica a quella vissuta nelle prime ore della giornata: una vicinanza di sentimenti e di corpi, il cui ricordo mi faceva tremare. Ma prima avrei dovuto stabilire i limiti. Chiaramente.

Visibilmente. Come chi traccia un confine o disegna una riga per terra con il gesso. Quando arrivai a casa trovai una busta che qualcuno aveva spinto sotto la porta.

Recava il marchio dell’hotel Palace e conteneva un biglietto scritto a mano. “Parto per Lisbona. Tornerò dopodomani. Aspettami.” Certo che lo avrei aspettato.

Organizzare come e dove mi portò via solo un paio d’ore. Quella sera disubbidii alle indicazioni della rete di comando senza il minimo rimorso.

Quando nel pomeriggio, dopo più di tre ore ininterrotte, avevo finito di esporre i particolari della riunione nella villa di campagna, avevo chiesto a Hillgarth un aggiornamento sulle liste di cui mi aveva parlato durante l’incontro successivo agli eventi dell’ippodromo.

«E’ tutto immutato; per il momento, a quanto ne sappiamo, non ci sono novità.» Significava che mio padre continuava a essere fra gli amici degli inglesi e io fra quelli

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dei tedeschi. Un vero peccato, perché era arrivato il momento che le nostre strade si incrociassero di nuovo.

Andai da lui senza preavviso. I fantasmi di altri tempi si agitarono furiosi quando mi videro entrare nel portone, riportandomi alla mente il giorno in cui io e mia madre avevamo salito quella stessa scala piene di inquietudine. Se ne andarono presto, per fortuna, portandosi via ricordi sconnessi e amari che preferivo non dover affrontare.

Mi aprì la porta una domestica che non somigliava affatto alla vecchia Servanda. «Devo parlare subito con il signor Alvarado. E’ urgente. E in casa?» La donna annuì, confusa dal mio impeto. «In biblioteca?» «Sì, ma...» Prima che terminasse la frase ero dentro l’appartamento. «Non c’è bisogno che lo avverta, grazie.» Mio padre fu felice di vedermi, molto più di quanto potessi immaginare. Prima di andare in Portogallo gli avevo mandato un breve messaggio informandolo

del mio viaggio, ma probabilmente qualcosa gli era parso strano. Tutto troppo precipitoso, doveva aver pensato; troppo vicino alla curiosa scena dello svenimento all’ippodromo. Sapere che ero tornata lo tranquillizzò.

La biblioteca era come la ricordavo. Con più libri e fogli accumulati, forse: giornali, carte, pile di riviste. Erano passati anni, ma tutto il resto era come quando ci eravamo incontrati io, mio padre e mia madre: la prima volta che eravamo stati tutti e tre insieme, e anche l’ultima.

Quel lontano pomeriggio d’autunno ero arrivata piena di nervosismo e innocenza, impacciata e angosciata di fronte all’ignoto. Quasi sei anni dopo la mia sicurezza era completamente diversa. Me l’ero guadagnata a furia di batoste, a forza di lavoro, di ostacoli e desideri, ma aderiva alla mia pelle come una cicatrice, e niente me l’avrebbe potuta strappare di dosso. Per quanto i venti soffiassero forte, per quanto potessero essere duri i tempi a venire, sapevo che sarei stata in grado di affrontarli a viso aperto e di resistere.

«Devo chiederti un favore, Gonzalo.» «Tutto quello che vuoi.» «Una riunione per cinque persone. Una festicciola privata. Qui, a casa tua, martedì

sera. Io, tu e altri tre ospiti. Dovrai invitare due di loro personalmente, senza far sapere che sarò presente. Non avrai problemi, vi conoscete già.»

«E il terzo?» «Del terzo mi occupo io.» Accettò senza domande né reticenze. Nonostante il mio comportamento sconcertante,

le mie sparizioni impreviste e la mia falsa identità, sembrava fidarsi ciecamente di me. «A che ora?» chiese solo. «Io verrò a metà pomeriggio. L’ospite che ancora non conosci arriverà alle sei; devo

parlare con lui prima che ci raggiungano gli altri. Posso farlo qui in biblioteca?»

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«E’ tutta tua.» «Perfetto. Invita la coppia alle otto, per favore. Ancora una cosa: ti spiace se vengono

a sapere che sono tua figlia? Rimarrà fra noi cinque, non lo saprà nessun altro.» «Ne sarò onorato e orgoglioso.» Chiacchierammo ancora per un po’: di Lisbona e Madrid; del più e del meno, sempre

muovendoci su un terreno sicuro. Ma quando stavo per andarmene la sua abituale discrezione lo abbandonò.

«So che non ho il diritto di intromettermi nella tua vita a questo punto, Sira, ma...» Mi voltai e lo abbracciai. «Grazie di tutto. Martedì capirai.»

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CAPITOLO 66 Marcus arrivò all’ora stabilita. Gli avevo lasciato un messaggio all’hotel, e come

immaginavo l’aveva ricevuto senza problemi. Non aveva idea di chi fosse l’indirizzo: sapeva solo che lo avrei aspettato in quel luogo. E infatti ero lì, con un vestito di crèpe di seta rossa sensazionale, lungo fino ai piedi. Truccata alla perfezione, con il mio lungo collo nudo e i miei capelli scuri raccolti in una crocchia alta.

In attesa. Arrivò impeccabile con lo smoking, la camicia inamidata e il corpo segnato da mille

avventure, una più inconfessabile dell’altra. O almeno, così era stato fino ad allora. Quando suonò il campanello andai ad aprirgli. Ci salutammo nascondendo a fatica la tenerezza, vicini, quasi intimi, finalmente, dopo la sua ultima partenza improvvisa.

«Voglio presentarti una persona.» Aggrappata al suo braccio, lo trascinai nel salone. «Marcus, questo è Gonzalo Alvarado. Ti ho fatto venire a casa sua perché voglio che

tu sappia chi è. E voglio anche che lui sappia chi sei tu. Che gli sia chiaro chi siamo entrambi.» Si salutarono con cortesia, Gonzalo ci servì da bere e chiacchierammo del più e del

meno per qualche minuto, finché la domestica chiamò opportunamente il padrone di casa dalla porta perché rispondesse al telefono.

Rimanemmo soli; potevamo sembrare una coppia ideale, a prima vista. Per cogliere qualcos’altro, però, sarebbe bastato udire il mormorio roco che Marcus riversò nel mio orecchio quasi senza schiudere le labbra.

«Possiamo parlare in privato un momento?» «Certo, vieni con me.» Lo condussi in biblioteca. Il maestoso ritratto della signora Cariota continuava a

presidiare la parete dietro la scrivania, con il diadema di brillanti che per un periodo era stato mio e che ormai non avevo più.

«Chi è l’uomo che mi hai presentato, perché vuoi fargli sapere di me? Mi hai teso una trappola, Sira?» chiese con un tono aspro appena rimanemmo isolati dal resto della casa.

«E’ una trappola, sì, pensata apposta per te» dissi sedendomi su una poltrona. Accavallai le gambe e allungai il braccio destro sul bracciolo. Comoda e padrona della situazione, come se avessi passato la vita a organizzare imboscate simili. «Devo sapere se è bene che continui a far parte della mia vita, o se è meglio che non ci vediamo mai più.»

Le mie parole non gli fecero per niente piacere. «Non ha alcun senso, è meglio che me ne vada...»

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«Ti arrendi così presto? Tre giorni fa sembravi disposto a lottare per me. Hai promesso che lo avresti fatto a qualunque costo: hai detto che mi avevi perso una volta e che non avresti lasciato che accadesse di nuovo. I tuoi sentimenti si sono raffreddati così in fretta? O stavi mentendo?»

Mi guardò senza parlare, ancora in piedi, teso e freddo, distaccato. «Cosa vuoi da me, Sira?» disse alla fine. «Che tu mi chiarisca alcune cose sul tuo passato. In cambio saprai tutto quello che

devi sapere sul mio presente. E riceverai un premio.» «Quali cose del mio passato vuoi conoscere?» «Raccontami perché sei venuto in Marocco. Vuoi sapere qual è il premio?» Non rispose. «Il premio sono io. Se la tua risposta mi soddisfa, mi avrai. Se non mi convince, mi

perderai per sempre. A te la scelta.» Rimase in silenzio. Poi si avvicinò lentamente. «Che t’importa adesso quello che sono venuto a fare in Marocco?» «Una volta, anni fa, ho aperto il mio cuore a un uomo che non mi ha mostrato il suo

vero volto, e mi è costato uno sforzo infinito far cicatrizzare le ferite che mi ha lasciato nell’anima. Non voglio che succeda lo stesso con te. Non voglio più bugie né ombre. Non voglio uomini che possono disporre di me a loro piacimento, che si avvicinano e si allontanano senza avvisarmi, neanche se è questione di vita o di morte. Perciò voglio vedere le tue carte, Marcus. Ne ho scoperte alcune da sola: so per chi lavori e che non ti dedichi precisamente agli affari, e so che in passato non eri giornalista. Ma devo ancora riempire alcune lacune della tua storia.»

Si accomodò finalmente sul bracciolo di un divano. Con una gamba poggiata per terra e l’altra accavallata. La schiena eretta, il bicchiere ancora in mano, l’espressione contratta.

«D’accordo» accettò dopo qualche secondo. «Parlerò. Ma in cambio voglio che tu sia sincera con me. Completamente.»

«Dopo lo sarò, te lo prometto.» «Allora dimmi cosa sai di me.» «Che sei un membro dei servizi segreti militari britannici. Il SIS, l’M16, o come vuoi

chiamarlo.» Non si mostrò sorpreso: probabilmente a tempo debito lo avevano abituato a

nascondere le emozioni e a occultare i sentimenti. Non come me. Io non ero stata istruita in niente, né preparata, né protetta: ero stata semplicemente gettata nuda in un mondo di lupi famelici. Ma stavo imparando. Da sola e con un grande sforzo, inciampando, cadendo e rialzandomi; rimettendomi sempre a camminare: prima un piede, poi l’altro. Con passo sempre più fermo. A testa alta e guardando dritto davanti a me.

«Non so come tu abbia avuto questa informazione» si limitò a replicare. «Ma non importa: immagino che le tue fonti siano attendibili e non avrebbe senso

negare l’evidenza.»

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«Comunque, ci sono ancora alcune cose che non so.» «Da dove vuoi che cominci?» «Dal momento in cui ci siamo conosciuti, per esempio. Dalle vere ragioni che ti

hanno portato in Marocco.» «D’accordo. La ragione fondamentale era che a Londra sapevano pochissimo di

quello che succedeva nel Protettorato, e secondo diverse fonti i tedeschi vi si stavano infiltrando liberamente, con il beneplacito delle autorità spagnole. Il nostro servizio di intelligence aveva scarsissime informazioni sull’alto commissario Beigbeder: non era un militare conosciuto come gli altri, non si sapeva da che parte stava, quali fossero i suoi progetti e le sue prospettive; e soprattutto ignoravamo la sua posizione rispetto ai tedeschi, che a quanto pareva si muovevano liberamente nel territorio affidato a lui.»

«E cosa hai scoperto?» «Come pensavamo, in Marocco i tedeschi potevano fare e disfare e operavano come

volevano, a volte con il suo consenso e a volte senza. Proprio tu mi hai aiutato a ottenere questa informazione.» Tralasciai l’osservazione. «E su Beigbeder?» volli sapere. «Su di lui sono venuto a sapere quello che sai anche tu. Che era, e immagino continui

a essere, una persona intelligente, particolare e alquanto eccentrica.» «E perché hanno mandato nel Protettorato proprio te, se eri in uno stato pietoso?» «Avevamo notizie sull’esistenza di Rosalinda Fox, una connazionale unita

sentimentalmente all’alto commissario: per noi era un gioiello, un’opportunità eccezionale. Ma era troppo pericoloso avvicinarla direttamente: era così preziosa che non potevamo rischiare di giocarcela in un’operazione pianificata male. Bisognava aspettare il momento opportuno. Così, quando abbiamo saputo che cercava aiuto per far evacuare la madre di un’amica, il meccanismo si è messo in moto. Ed è stato deciso che io ero la persona giusta per svolgere quella missione, perché a Madrid ero entrato in contatto con un individuo che si occupava di far arrivare i fuoriusciti al Mediterraneo. Io stesso avevo informato puntualmente Londra sui movimenti di Lance, quindi hanno pensato che avessi un alibi perfetto per comparire a Tetuàn e avvicinare Beigbeder con la scusa di fare un favore alla sua amante. Ma c’era un piccolo problema: in quel momento ero mezzo morto al Royal London Hospital, prostrato a letto, a pezzi, semincosciente e imbottito di morfina.»

«Ma ce l’hai fatta, hai ingannato tutti e raggiunto il tuo scopo...» «Molto meglio del previsto» disse. Sulle sue labbra colsi l’ombra di un sorriso, il

primo da quando eravamo chiusi in biblioteca. Sentii un morso di emozioni confuse: finalmente era tornato il Marcus che mi era mancato tanto, che volevo avere accanto a me. «Sono stati giorni speciali» continuò. «Da più di un anno vivevo nella turbolenta Spagna in guerra, e il Marocco era la cosa migliore che potesse capitarmi. Mi sono rimesso in sesto e ho portato a termine la mia missione con un esito eccezionale. E ho conosciuto te. Non potevo chiedere di più.»

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«Come facevi?»

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«Tutte le sere comunicavo dalla mia camera dell’hotel Nacional. Avevo un piccolo apparecchio radiotrasmittente nascosto in fondo alla valigia. E scrivevo ogni giorno un resoconto criptato di tutto quello che vedevo, sentivo e facevo. Poi, appena era possibile, lo passavo a un nostro contatto a Tangeri, un dipendente di Saccone & Speed.»

«E nessuno ha mai sospettato di te?» «Ovviamente sì. Beigbeder non è affatto un imbecille, lo sai bene quanto me. La mia camera è stata

perquisita diverse volte, ma forse da qualcuno non troppo in gamba: non hanno scoperto niente. Anche i tedeschi erano diffidenti, ma neanche loro hanno avuto conferma dei sospetti. Io, per parte mia, mi sono sforzato di non fare passi falsi. Non ho contattato nessuno estraneo ai servizi ufficiali e non mi sono spinto in territori pericolosi. Al contrario: ho avuto una condotta inappuntabile, mi sono fatto vedere insieme alle persone giuste muovendomi sempre alla luce del sole. Tutto molto pulito, in apparenza. Altre domande?»

Sembrava meno teso, più vicino. Di nuovo più simile al Marcus di sempre. «Perché te ne sei andato all’improvviso? Non mi hai avvisato, sei comparso una

mattina a casa mia, mi hai dato la notizia che mia madre era in viaggio e non ti ho più rivisto.»

«Ho ricevuto l’ordine di lasciare il Protettorato immediatamente. I tedeschi erano sempre più numerosi, e si era saputo che qualcuno sospettava di me. Comunque sono riuscito a rinviare la partenza di qualche giorno, rischiando di essere scoperto.»

«Perché?» «Non volevo andarmene senza avere la conferma che l’evacuazione era avvenuta

come speravamo. Te l’avevo promesso. Più di ogni altra cosa avrei voluto rimanerti vicino, ma non era possibile: il mio mondo era un altro, ed era tempo di andare. Non era un bel momento neanche per te. Ti stavi ancora riprendendo da un tradimento e non eri pronta a fidarti del tutto di un altro uomo, meno che mai di uno che sarebbe scomparso senza essere chiaro con te fino in fondo. Questo è tutto, mia cara Sira. Fine.

E la storia che volevi sentire? La mia versione ti soddisfa?» «Mi soddisfa» dissi alzandomi e andando verso di lui. «Allora ho vinto il premio?» Non dissi nulla. Mi limitai ad avvicinarmi a lui, mi sedetti sulle sue gambe e accostai

la bocca al suo orecchio. La mia pelle truccata sfiorò il suo volto rasato di fresco; le labbra brillanti di rossetto riversarono un sussurro a mezzo centimetro dal suo lobo. Percepii la tensione provocata dalla mia vicinanza.

«Hai vinto il tuo premio, sì. Ma forse sono un boccone avvelenato.» «Chissà. Per stabilirlo ora sono io che devo sapere di te. Ti ho lasciato a Tetuàn che

eri una giovane sarta tenera e innocente, e ti ho rincontrato a Lisbona trasformata in una donna fatta, vicina a un individuo assai poco raccomandabile. Voglio sapere cosa è successo in mezzo.»

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«Lo saprai fra poco. E perché tu non abbia dubbi, te lo svelerà un’altra persona; qualcuno che credo tu conosca. Vieni con me.»

Percorremmo il corridoio abbracciati fino al salone. Sentii la voce forte di mio padre da lontano e non potei fare a meno di ricordare ancora una volta il giorno in cui lo avevo conosciuto. Quanti giri aveva fatto la mia vita da allora. Quante volte ero sprofondata restando senza fiato e quante avevo tirato su la testa. Ma tutto questo apparteneva al passato, mi ero lasciata alle spalle i giorni in cui mi guardavo indietro. Era il momento di concentrarmi solo sul presente. Di affrontarlo a viso aperto per andare verso il futuro.

Immaginai che gli altri due ospiti fossero arrivati e che tutto andasse come previsto. Quando raggiungemmo il salone sciogliemmo l’abbraccio, ma continuammo a tenerci per mano. Finché vedemmo insieme chi ci attendeva.

Io sorrisi. Marcus no. «Buonasera, signora Hillgarth; buonasera, capitano. Sono lieta di vedervi» dissi

interrompendo la conversazione. Nella stanza il silenzio si fece palpabile. Palpabile e teso, elettrico. «Buonasera, signorina» rispose Hillgarth dopo qualche secondo che sembrò eterno a

tutti. La sua voce pareva uscire da una caverna. Da una caverna scura e fredda nella quale il capo dei servizi segreti britannici in Spagna, l’uomo che sapeva tutto o avrebbe dovuto saperlo, procedeva tentoni. «Buonasera, Logan» aggiunse poi. Sua moglie, senza la maschera del salone di bellezza, rimase talmente colpita nel vederci insieme che non fu in grado di rispondere al mio saluto. «Credevo che fosse tornato a Lisbona» continuò l’addetto navale rivolgendosi a Marcus. Lasciò passare un momento interminabile di silenzio e poi aggiunse: «E non sapevo che vi conosceste».

Mi accorsi che Marcus stava per parlare, ma non glielo permisi. Strinsi con forza la mano ancora intrecciata alla mia e lui capì. Non lo guardai neppure: non volevo vedere se condivideva la perplessità degli Hillgarth, né scorgere la sua reazione nel vederli seduti in quel salone sconosciuto.

Avremmo parlato in seguito, con più calma. Confidavo che avremmo avuto molto tempo per farlo.

Nei grandi occhi chiari della signora vidi un’espressione del tutto disorientata. Era stata lei a fornirmi le indicazioni per la missione portoghese, era coinvolta fino in fondo nelle azioni del marito.

Probabilmente entrambi stavano ricombinando in fretta gli stessi frammenti di informazione rimessi insieme da me l’ultima volta che avevo visto il capitano. Da Costa e Lisbona, l’arrivo improvviso di Marcus a Madrid, la stessa informazione riferita da entrambi a poche ore di distanza. Tutte quelle coincidenze non erano certo frutto del caso.

Sicuramente si chiedevano come avevano potuto non capire. «Io e l’agente Logan ci conosciamo da anni, capitano, ma non ci vedevamo da

parecchio tempo e non ci siamo ancora del tutto aggiornati sulle rispettive attività» chiarii. «Io sono al corrente della sua posizione e delle sue mansioni; mi ha aiutato molto

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lei, di recente. Perciò ho pensato che sarebbe stato così gentile da informare anche l’agente Logan sulle mie. E già che ci siamo, potrà conoscerle anche mio padre. Ah, mi scusi! Mi ero dimenticata di dirglielo: Gonzalo Alvarado è mio padre.

Non si preoccupi, cercheremo di mostrarci insieme in pubblico il meno possibile, ma deve capire che mi sarà impossibile troncare i rapporti con lui.»

Hillgarth non rispose: ci osservò di nuovo con uno sguardo granitico, protetto dalle folte sopracciglia.

Immaginai lo sconcerto di Gonzalo; probabilmente era intenso come quello di Marcus, ma nessuno dei due pronunciò una sillaba. Si limitarono, come me, ad aspettare che Hillgarth digerisse la mia sfrontatezza. Sua moglie, sconvolta, cercò una sigaretta aprendo l’astuccio con dita nervose. Passarono alcuni secondi imbarazzanti durante i quali si udì solo lo schiocco ripetuto del suo accendino. Finché l’addetto navale, finalmente, parlò.

«Se non glielo spiego io, immagino che lo farebbe lei...» «Temo che non mi lascerebbe alternative» dissi regalandogli il migliore dei miei

sorrisi. Un sorriso nuovo: pieno, sicuro e con una lieve sfumatura di sfida. Il silenzio fu rotto soltanto dal tintinnio dei cubetti di ghiaccio contro il vetro quando

si portò alla bocca il bicchiere di whisky. Sua moglie nascose la propria confusione in una lunga boccata di Craven A.

«Immagino che sia il prezzo che dobbiamo pagare per quello che ci ha portato da Lisbona» disse alla fine.

Per quello e per tutte le missioni future in cui mi impegnerò con tutta me stessa, le do la mia parola. La mia parola di sarta e la mia parola di spia.

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CAPITOLO 67 Quella volta non ricevetti il sobrio mazzo di rose con un nastro pieno di linee

codificate che Hillgarth mi mandava quando voleva trasmettermi un messaggio. E neanche fiori esotici come quelli che mi aveva fatto consegnare Manuel da Silva prima di decidere che la cosa più conveniente per lui era eliminarmi. Quello che Marcus portò a casa mia quella sera era piccolo e quasi insignificante, un germoglio strappato da un roseto cresciuto per miracolo contro un muretto in quella primavera seguita a un inverno atroce. Un fiore piccolo, quasi squallido. Dignitoso nella sua semplicità, senza sotterfugi.

Non lo aspettavo e insieme lo aspettavo. Aveva lasciato la casa di mio padre insieme agli Hillgarth circa tre ore prima; l’addetto navale lo aveva invitato ad andare con lui, probabilmente voleva parlargli lontano da me. Ero rientrata da sola, senza sapere quando sarebbe ricomparso. Se sarebbe tornato.

«Per te» fu il suo saluto. Presi la piccola rosa e lo feci entrare. Aveva il nodo della cravatta allentato, come se

avesse deciso di rilassarsi. Raggiunse a passo lento il centro del salone; sembrava che a ogni falcata snocciolasse un pensiero e soppesasse le parole che doveva dire. Alla fine si voltò e aspettò che mi avvicinassi a lui.

«Sai cosa ci aspetta, vero?» Lo sapevo. Certo che lo sapevo. Ci muovevamo in acque torbide, in una giungla di

menzogne e ingranaggi misteriosi con spigoli taglienti come vetri. La nostra prospettiva era quella di vivere un amore clandestino in tempi di odio, privazioni, e tradimenti.

«So quello che ci aspetta, sì.» «Non sarà facile» aggiunse. «Niente è facile» aggiunsi. «Potrebbe essere duro.» «Forse.» «E pericoloso.» «Anche.» Avremmo dovuto evitare trappole, schivare rischi. Senza prospettive, far coincidere i

nostri tempi, nell’ombra: la nostra vita sarebbe stata così. Fare ricorso a tutta la nostra voglia e al nostro coraggio. Con presenza di spirito, audacia e la forza di saperci uniti in una causa comune.

Ci guardammo negli occhi e mi tornò in mente la terra africana dove tutto era iniziato. Il suo mondo e il mio mondo - prima così lontani e in quel momento così vicini - finalmente combaciavano. Marcus mi abbracciò e nel calore e nella tenerezza della

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vicinanza ebbi la certezza che non avremmo fallito neppure quella missione. EPILOGO. Questa è la mia storia, o almeno è così che la ricordo, forse ricoperta dalla patina che i

decenni e la nostalgia danno alle cose. Questa è la mia storia, sì. Ho lavorato agli ordini dei servizi segreti britannici e per quattro anni ho raccolto e riferito informazioni sui tedeschi nella penisola iberica con rigore e puntualità. Nessuno mi ha mai istruita sulla tattica militare, sulla topografia dei campi di battaglia o su come maneggiare gli esplosivi, ma i miei abiti cadevano come nessun altro e la fama della mia casa di moda mi ha blindata contro ogni sospetto. L’ho tenuta aperta fino al ‘45 e sono diventata una virtuosa del doppio gioco.

Gli avvenimenti in Spagna dopo la seconda guerra mondiale e le tracce di molte persone presenti in questo resoconto di quegli anni si trovano nei libri di storia, negli archivi e nelle emeroteche. Ma sintetizzerò lo stesso le loro vicende, nel caso a qualcuno interessasse sapere che ne è stato di loro. Cercherò di farlo come si deve; il mio lavoro, in fin dei conti, è sempre stato far combaciare le parti e mettere insieme i pezzi in modo armonico.

Inizierò da Beigbeder, forse il più sfortunato di tutti i personaggi di questo racconto. Stando alle mie informazioni, alla fine della detenzione a Ronda passò varie volte da Madrid, dove abitò anche in pianta stabile per diversi mesi. Nel corso dei quali rimase costantemente in contatto con le ambasciate inglese e americana, proponendo loro mille progetti, a volte lucidi, a volte del tutto stravaganti. Lui stesso raccontò che avevano tentato di ucciderlo in diverse occasioni, pur assicurando anche, paradossalmente, che continuava ad avere interessanti rapporti con il potere. I vecchi amici lo accolsero con cortesia, alcuni anche con un affetto sincero. Ci fu persino chi se lo tolse di torno senza nemmeno ascoltarlo; era un angelo caduto, non serviva più a niente.

Nel cortile di comari che era allora la Spagna, dove le notizie correvano di bocca in bocca, poco dopo si sparse la voce che il suo destino erratico aveva finalmente trovato una meta. Sebbene tutti pensassero che la sua carriera era ormai finita per sempre, nel 1943, quando si cominciava a capire che la vittoria tedesca era in dubbio, Franco - contro ogni aspettativa e in gran segreto - richiese di nuovo i suoi servigi. Senza affidargli un incarico ufficiale, lo promosse generale da un giorno all’altro e, con poteri di ministro plenipotenziario, gli affidò una missione alquanto vaga a Washington. Da quando ricevette l’incarico dal Caudillo al momento in cui uscì dalla Spagna per compierlo, trascorsero diversi mesi. Qualcuno mi raccontò che Beigbeder stesso, stranamente, chiese ai membri dell’ambasciata statunitense di rimandare il più possibile la concessione del visto: sospettava che l’unico obiettivo di Franco fosse farlo uscire dalla Spagna senza permettergli poi di rientrare.

Quello che fece in America non fu mai del tutto chiaro e in proposito circolarono varie voci. Secondo alcuni, il Generalissimo l’aveva mandato a riallacciare rapporti, tendere ponti e convincere gli americani dell’assoluta neutralità della Spagna nella guerra, come se lui non avesse mai avuto una foto con la dedica del Führer sul tavolo

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dello studio. Altre notizie, altrettanto degne di fede, sostenevano che il suo compito fosse decisamente più militare che diplomatico: negoziare il futuro del Nordafrica in qualità di ex alto commissario e grande conoscitore della realtà marocchina. Ci fu anche chi disse che l’ex ministro si era recato nella capitale nordamericana per discutere con il governo degli Stati Uniti le basi per la creazione di una “Spagna libera”, sulla falsariga della “Francia libera”, in previsione di una possibile entrata dei tedeschi nella penisola. Circolò anche una versione secondo cui, appena atterrato, avrebbe detto a chiunque volesse ascoltarlo di aver interrotto i rapporti con la Spagna di Franco e si sarebbe impegnato a cercare sostegno per la causa monarchica. E ci fu anche qualche voce pruriginosa secondo cui l’obiettivo di quel viaggio rispondeva solo al suo desiderio personale di immergersi in una vita dissoluta e peccaminosa fatta di vizi sfrenati. A prescindere dalla natura di quella missione, di fatto il Caudillo probabilmente non fu contento del modo in cui venne condotta a termine: anni dopo si incaricò di dire in pubblico che Beigbeder era un degenerato morto di fame che scroccava tutto quel che poteva.

Insomma, non si seppe mai con precisione che cosa avesse concluso a Washington; l’unica cosa certa è che il suo soggiorno si protrasse fino alla fine della seconda guerra mondiale. All’andata fece scalo a Lisbona e finalmente rincontrò Rosalinda. Non si vedevano da due anni e mezzo.

Trascorsero una settimana insieme, in cui lui cercò di convincerla ad accompagnarlo in America. Non ci riuscì, ma non seppi mai il perché. La mia amica giustificò la sua decisione con il fatto che non erano sposati, cosa che secondo lei avrebbe compromesso il prestigio sociale di Juan Luis presso l’elite diplomatica nordamericana. Non le credetti e immagino che non l’abbia fatto neanche lui: se era stato capace di infischiarsene nella Spagna bigotta sorta dalla vittoria, avrebbe potuto fare altrettanto dall’altro lato dell’Atlantico. In ogni caso lei non chiarì mai le vere ragioni di quella decisione inaspettata.

A partire dal suo ritorno in Spagna, nel 1945, Beigbeder fu tra i generali che passarono anni tramando invano per deporre Franco: Aranda, Kindelàn, Dàvila, Orgaz, Varela. Ebbe contatti con Giovanni di Borbone e partecipò a mille cospirazioni, tutte infruttuose e in alcuni casi addirittura un po’ patetiche, come quella guidata dal generale Aranda, volta a chiedere asilo presso l’ambasciata statunitense per crearvi un governo monarchico in esilio. Alcuni suoi compagni lo accusarono di averli traditi, di essere andato a El Pardo a svelare la cospirazione. Nessuno di quei piani per farla finita con il regime andò in porto, e la maggioranza dei protagonisti pagò l’insubordinazione con l’arresto, l’esilio o la destituzione. Tempo dopo mi dissero che durante la seconda guerra mondiale quei generali avevano ricevuto milioni di pesetas dal governo inglese attraverso l’uomo d’affari Juan March e per mano di Hillgarth, perché premessero sul Caudillo affinché la Spagna non entrasse in guerra al fianco dell’Asse.

Non ho idea se sia vero o no; forse alcuni accettarono il denaro, forse fu spartito solo tra pochi. A Beigbeder, però, non arrivò niente: finì i propri giorni “in esemplare

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povertà”, come disse di lui lo scrittore Dionisio Ridruejo. Mi giunsero anche voci riguardo alle sue avventure amorose, su presunti intrallazzi

con una giornalista francese, una falangista, una spia americana, una scrittrice madrilena e la figlia di un generale. Che gli piacessero le donne non era certo un segreto: soccombeva al fascino femminile con una facilità sconcertante e si innamorava con il fervore di un adolescente; l’avevo visto con i miei occhi nel caso di Rosalinda, e immagino che nel corso della sua vita abbia vissuto altre relazioni simili. Ma la diceria che fosse un depravato e che il suo debole per il sesso, alla lunga, avesse mandato all’aria la sua carriera è, a mio modo di vedere, un’affermazione terribilmente frivola che non gli rende giustizia.

Dal momento in cui rimise piede in Spagna, cominciò per lui un inesorabile declino. Prima di partire per Washington aveva abitato per un periodo in un appartamento affittato in calle Claudio Coello; al ritorno si sistemò all’hotel Paris, in calle Alcalà; poi visse un po’ di tempo a casa di una sorella e finì i suoi giorni in una pensione. Entrò e uscì dal governo senza un soldo e quando morì lasciò nell’armadio solo un paio di abiti logori, tre vecchie divise dei tempi africani e una gellaba. E un centinaio di fogli in cui aveva cominciato a scrivere con una grafia minuta le sue memorie. Si era fermato più o meno all’epoca della sconfitta al Barranco del Lobo, durante la guerra del Rif; non era riuscito ad arrivare neanche all’inizio della guerra civile.

Passò anni ad aspettare che la baraka gli sorridesse. Si illudeva che lo avrebbero richiamato per affidargli un incarico: una qualsiasi missione che avrebbe riempito di nuovo le sue giornate di attività e movimento. Ma non arrivò niente, e sul suo foglio di servizio, a partire dal ritorno dagli Stati Uniti, figurò solo la frase “Agli ordini dell’eccellentissimo ministro dell’Esercito”, che nel gergo militare equivale a dire che l’interessato se ne sta con le mani in mano. Nessuno lo voleva più e gli vennero a mancare le forze: non trovò le energie per prendere in mano il suo destino, e la sua mente, che in altri frangenti era stata brillante, finì per incepparsi. Passò in riserva nell’aprile 1950; un vecchio amico marocchino, Bulaix Baeza, gli offrì un lavoro che in parte lo tenne impegnato negli ultimi anni, un umile impiego amministrativo nella sua impresa immobiliare madrilena. Morì nel giugno 1957; sotto la sua lapide, al cimitero della Sacramental de San Justo, riposano sessantanove anni di vita turbolenta. I suoi fogli furono dimenticati alla pensione di Tomasa; mesi dopo passò a prenderli un vecchio conoscente di Tetuàn, che li ottenne pagando il conto di qualche migliaio di pesetas lasciato insoluto da Beigbeder. Il suo archivio personale è ancora lì, custodito gelosamente da una persona che lo ha conosciuto e stimato nel suo Marocco felice.

Ora cercherò di riassumere le notizie su Rosalinda, intrecciandole a frammenti del destino di Beigbeder che forse serviranno per completare il quadro sugli ultimi tempi dell’ex ministro. Alla fine della guerra la mia amica decise di lasciare il Portogallo e si stabilì in Inghilterra.

Voleva che suo figlio fosse educato lì, quindi con il socio Dimitri decise di cedere El Galgo. Il Jewish Joint Committee conferì ai due la Croce di Lorena della Resistenza

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francese, come riconoscimento per l’aiuto prestato ai rifugiati ebrei. La rivista americana “Time” pubblicò un articolo in cui Martha Gellhorn, la moglie di Ernest Hemingway, parlava di El Galgo e di Mrs Fox come di due delle maggiori attrattive di Lisbona. Ma lei se ne andò comunque.

Con il denaro ottenuto dalla cessione si stabilì in Gran Bretagna. Nei primi mesi andò tutto bene: la salute recuperata, molte sterline in banca, vecchi amici ritrovati e addirittura i mobili di Lisbona, fra cui sedici divani e tre pianoforti a coda, ricevuti sani e salvi. Ma proprio quando sembrava tutto a posto e la vita le sorrideva, Peter Fox, da Calcutta, le ricordò che aveva un marito. Le chiese di riprovarci. E, contro ogni aspettativa, lei accettò.

Cercò una casa di campagna nel Surrey e si dispose a fare, per la terza volta, la moglie. Lei stessa mi riassunse l’avventura in una sola parola: impossibile. Peter era lo stesso di sempre: continuava a comportarsi come se Rosalinda fosse ancora la ragazzina di sedici anni che aveva sposato un tempo, trattava i domestici a pesci in faccia, era scriteriato, egocentrico e antipatico. Dopo tre mesi dal ricongiungimento fu ricoverata all’ospedale. Venne operata, rimase in convalescenza per settimane e l’unica cosa chiara, alla fine, fu che doveva a tutti i costi lasciare il marito. Quindi tornò a Londra, affittò una casa a Chelsea e per un breve periodo aprì un club che chiamò con il pittoresco nome The Patio. Peter, nel frattempo, rimase nel Surrey, rifiutandosi di renderle i mobili di Lisbona e di concederle finalmente il divorzio. Non appena Rosalinda si rimise, cominciò a combattere per conquistare finalmente la sua libertà.

Non interruppe mai i contatti con Beigbeder. Alla fine del 1946, prima che Peter tornasse in Inghilterra, trascorsero qualche settimana insieme in Marocco. Nel 1950 tornò per un altro periodo. Io non c’ero, ma per lettera mi raccontò il dolore immenso che aveva provato nel vedere un Juan Luis ormai finito. Mascherò le sue condizioni con il consueto ottimismo: mi parlò delle importanti compagnie che dirigeva, del credito di cui godeva nel mondo imprenditoriale. Ma leggendo fra le righe capii che mi stava mentendo.

A partire da quell’anno sembrò venir fuori una nuova Rosalinda, con due sole idee fisse: divorziare da Peter e stare vicino a Juan Luis negli ultimi momenti della sua esistenza viaggiando spesso a Madrid. Lo vedeva invecchiare a passi da gigante: ogni giorno era più disilluso, più sfibrato. L’energia, l’agilità mentale, l’impeto e il dinamismo dei tempi dell’Alto Commissariato si esaurivano a vista d’occhio. Gli piaceva che lei lo portasse in giro in macchina, amava mangiare nei villaggi di montagna, nelle trattorie alla buona per strada, lontano dall’asfalto. Quando erano costretti a rimanere in città, passeggiavano.

A volte incontravano qualche vecchio dinosauro con cui Beigbeder aveva condiviso caserme e uffici. Lui la presentava come la mia Rosalinda, la cosa più sacra del mondo dopo la Madonna. E lei rideva.

Faceva fatica a capire perché fosse così malmesso pur non essendo tanto vecchio. Allora avrà avuto poco più di sessantanni, ma era ormai un uomo anziano, esaurito nello

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spirito. Era stanco, intristito, deluso. Di tutto, da tutti. Proprio allora, però, ebbe l’ultima idea geniale: trascorrere gli ultimi anni guardando il Marocco. Non dall’interno del paese, ma contemplandolo da lontano. Preferiva non tornare in Africa: le persone con cui aveva condiviso i tempi della gloria che vivevano ancora lì erano poche. Il Protettorato era finito l’anno precedente e il Marocco aveva riconquistato l’indipendenza. Gli spagnoli se n’erano andati, e dei vecchi amici marocchini pochi erano sopravvissuti. Non voleva tornare a Tetuàn, ma desiderava finire i propri giorni vedendo quella terra all’orizzonte. E glielo chiese. Vai al Sud, Rosalinda, cerca un posto per noi affacciato sul mare.

E lei lo cercò. Guadarranque. Il Sud del Sud. Nella baia di Algeciras, di fronte allo Stretto, con la vista sull’Africa e Gibilterra. Comprò casa e terreno, tornò in Inghilterra a liquidare i propri affari, a trovare il figlio e a cambiare macchina. Nel giro di due settimane intendeva tornare in Spagna, prendere Juan Luis e iniziare una nuova vita. Il decimo giorno del suo soggiorno a Londra un cablogramma dalla Spagna le annunciò che Beigbeder era morto. Fu uno strappo nell’anima, tanto che per non far perire anche il suo ricordo decise di trasferirsi da sola nel luogo che desideravano condividere. E visse lì fino all’età di novantatre anni, senza perdere mai la capacità di rialzarsi sempre dopo essere caduta mille volte, scuotendosi la polvere dal vestito e rimettendosi a camminare a passo deciso, come se non fosse successo niente. Sebbene i tempi fossero duri, non perse mai l’ottimismo con cui aveva incassato tutti i colpi e a cui era ricorsa per vedere sempre il mondo dal lato in cui il sole splende più luminoso.

Forse vi state chiedendo anche che cosa ne è stato di Serrano Suner; lasciate che ve lo racconti. I tedeschi invasero la Russia nel giugno ‘42 e lui, deciso ad appoggiare con tutto il proprio fervore i buoni amici del Terzo Reich, si affacciò al balcone della Segreteria generale del Movimento in calle Alcalà con la sahariana immacolata e l’aria da divo del cinema e gridò con ferocia: «La Russia è colpevole!». Organizzò la carovana di volontari disgraziati che formò la División Azul, addobbò la Estaciòn del Norte con le bandiere naziste e mandò migliaia di spagnoli ammassati sui treni a morire di freddo e a rischiare la vita al fianco dell’Asse, in una guerra che non era sua e per la quale nessuno gli aveva chiesto aiuto.

Non sopravvisse politicamente, tuttavia, per vedere la Germania perdere la guerra. Il 3 settembre 1942, ventidue mesi e diciassette giorni dopo Beigbeder ed esattamente con le stesse parole, il Bollettino ufficiale dello Stato annunciò la sua sospensione da tutti gli incarichi. La ragione della caduta del cognatissimo fu, a quanto pare, un violento incidente che vide coinvolti carlisti, esercito e membri della Falange.

Ci furono una bomba, dozzine di feriti e due destituzioni: quella del falangista che l’aveva piazzata - giustiziato - e quella di Serrano, deposto in qualità di presidente della Giunta politica della Falange.

Sottobanco, però, circolarono altre voci. A quanto pareva il sostegno a Serrano comportava un costo eccessivo per Franco. Era

vero che il brillante fratello politico si era caricato sulle spalle il peso dell’impalcatura

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civile del regime; e anche che aveva svolto in prima persona gran parte del lavoro sporco. Aveva organizzato l’amministrazione del nuovo Stato e criticato le insubordinazioni e le insolenze dei falangisti nei confronti del Caudillo, del quale, evidentemente, avevano scarsissima considerazione.

Aveva elucubrato, organizzato, disposto e agito in tutti gli ambiti della politica interna ed estera, e aveva lavorato e si era impegnato così tanto da stancare persino la propria ombra. I militari lo odiavano e alla gente comune era molto antipatico, al punto che il popolo addossava a lui la colpa di tutti i mali della Spagna, dall’aumento dei prezzi del cinema e degli spettacoli alla siccità che aveva devastato le campagne in quegli anni. Serrano era stato molto utile a Franco, certo, ma aveva accumulato troppo potere e troppe inimicizie. La sua presenza era diventata troppo ingombrante per tutti, e per di più la prospettiva della vittoria tedesca che aveva appoggiato con tanto entusiasmo cominciava a vacillare. Si disse che proprio per quello il Caudillo avesse approfittato dell’incidente del ramo violento dei falangisti per liberarsi di lui e, già che c’era, per attribuirgli anche l’intera responsabilità delle simpatie spagnole nei confronti dell’Asse.

Quella fu, ufficiosamente, la versione ufficiale dei fatti. E più o meno quella che venne presa per buona. Ma io sono venuta a sapere che c’era un’altra ragione, che forse aveva avuto un peso maggiore rispetto alle tensioni politiche interne, alla stanchezza di Franco e alla guerra europea. Ne sono venuta a conoscenza senza fare un passo, nella mia casa di moda, tramite le mie clienti, le spagnole altolocate sempre più numerose nelle mie sale prova. Secondo loro, la reale artefice della rovina di Serrano era stata Carmen Polo, la moglie di Franco. Spinta, a quanto dicevano, dall’indignazione perché aveva saputo che la bella e sfrontata marchesa de Llanzol, il 29 agosto, aveva dato alla luce la sua quarta figlia. A differenza degli altri rampolli, il padre di quella bambina con gli occhi da gatto non era il marito, ma Ramon Serrano Suner, l’amante. L’umiliazione e lo scandalo che il fatto costituiva non solo per la moglie di Serrano - la sorella della signora Carmen, Zita Polo - ma per l’intera famiglia Franco Polo, superarono quello che la moglie del Caudillo era disposta a sopportare. Quindi esercitò pressioni sul marito perché facesse a meno del cognato. La destituzione vendicativa fu immediata. Franco tardò tre giorni a comunicargliela in privato e un altro a renderla pubblica. Rosalinda avrebbe detto che, a partire da allora, Serrano fu totally out. Candelaria la contrabbandiera lo avrebbe formulato in un modo più spiccio: cacciato a calci nel sedere.

Si sentì dire che a breve gli sarebbe stata affidata la rappresentanza diplomatica a Roma e che forse, dopo un po’ di tempo, si sarebbe riavvicinato al potere. Ma non fu così. L’indifferenza nei confronti della sua persona da parte del cognato non cessò mai. A suo discarico comunque bisogna dire che, nonostante tutto, visse a lungo con dignità e discrezione, esercitando l’avvocatura, partecipando a imprese private e collaborando a giornali e libri di memorie un tantino parziali. Dalla dissidenza e usando sempre tribune pubbliche, si permise anche di suggerire ogni tanto al suo parente la necessità di affrontare profonde riforme politiche. Non si liberò mai del suo complesso di

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superiorità, ma quando il vento cambiò non cedette alla tentazione, come tanti altri, di dichiararsi un democratico convinto da tutta la vita. Con il passare degli anni la sua figura guadagnò un relativo rispetto nell’opinione pubblica spagnola, che durò fino alla morte, sopraggiunta quando gli mancavano pochi giorni per compiere centodue anni.

Più di tre decenni dopo avergli sottratto la carica con tanto livore, Serrano avrebbe avuto per Beigbeder parole di apprezzamento nelle sue memorie. «Era una persona strana e singolare, con una cultura superiore alla media, capace di mille follie» avrebbe detto testualmente. Un galantuomo, sarebbe stata la sentenza finale. Ma arrivò troppo tardi.

La Germania si arrese l’8 maggio 1945. Poche ore dopo la sua ambasciata a Madrid e il resto delle sedi diplomatiche furono ufficialmente chiuse e affidate ai ministeri dell’Interno e degli Esteri. Gli Alleati però non ebbero accesso agli immobili fino alla firma della resa, avvenuta il 5 luglio dello stesso anno. Quando i funzionari britannici e statunitensi poterono finalmente entrare negli edifici da cui i nazisti avevano agito in Spagna, trovarono solo i resti di un saccheggio meticoloso: le pareti spoglie, gli uffici senza mobili, gli archivi bruciati e le casseforti aperte e vuote. Nell’affanno di non lasciare traccia di quello che vi era stato, si erano portati via anche i lampadari. E tutto sotto gli occhi compiacenti degli agenti del ministero spagnolo degli Interni, incaricati della sorveglianza. Con il tempo alcuni beni furono trovati e sequestrati: tappeti, quadri, sculture antiche, porcellane e argenteria. Di molti altri, invece, si persero le tracce per sempre. E dei documenti compromettenti che testimoniavano l’intima complicità tra la Spagna e la Germania non rimasero che le ceneri. Pare, in compenso, che gli Alleati siano riusciti a recuperare il bottino più prezioso dei nazisti in Europa: due tonnellate d’oro fuso in centinaia di lingotti, senza conio né registrazione, che per un periodo erano stati nascosti nell’ufficio del responsabile della politica economica del governo. Quanto ai tedeschi influenti che erano stati così attivi durante la guerra e le cui mogli avevano sfoggiato i miei abiti durante feste e ricevimenti sfavillanti, alcuni furono deportati, altri evitarono il rimpatrio accettando di collaborare, e molti riuscirono a nascondersi, camuffarsi, fuggire, ottenere la nazionalità spagnola, sgusciare come anguille e trasformarsi misteriosamente in cittadini onesti dal passato cristallino. Nonostante l’insistenza degli Alleati e le pressioni perché la Spagna aderisse alle risoluzioni internazionali, il regime si mostrò scarsamente interessato a partecipare in modo attivo e protesse diversi collaboratori che comparivano sulle liste nere.

Quanto alla Spagna, qualcuno pensò che il Caudillo sarebbe caduto con la capitolazione della Germania. Molti credettero, illudendosi, che mancasse poco alla restaurazione della monarchia o all’arrivo di un regime più progressista. Non fu assolutamente così. Franco diede una rimodernata al governo cambiando alcuni portafogli, tagliò qualche testa nella Falange, rafforzò l’alleanza con il Vaticano e andò avanti. E i nuovi padroni del mondo, le ineccepibili democrazie che con tanto eroismo e tanto sforzo avevano sconfitto il nazismo e il fascismo, lo lasciarono fare. A quei tempi, con la Spagna impegnata nella ricostruzione, a chi poteva importare di un paese

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rumoroso e sconquassato? A chi interessavano la sua fame, le sue miniere, i porti dell’Atlantico e il pugno fermo del generale piccoletto che li governava? Hanno negato agli spagnoli l’ingresso nelle Nazioni Unite, hanno richiamato gli ambasciatori e non hanno dato loro neanche un dollaro del Piano Marshall, certo. Ma non sono neppure intervenuti. Hanno abbandonato gli spagnoli al loro destino. «Hands off» dissero gli Alleati quando arrivò la vittoria. Giù le mani, ragazzi, ce ne andiamo. Detto fatto: il corpo diplomatico e i servizi segreti fecero fagotto, si tolsero di dosso lo sporco e si rimisero sulla strada di casa. Finché, anni dopo, alcuni ebbero interesse a tornare e a ingraziarsi il regime, ma questa è un’altra storia.

Neppure Alan Hillgarth arrivò a vivere quei giorni in Spagna in prima persona. Fu trasferito come capo dell’intelligence navale alla Far East Fleet, la flotta orientale britannica, nel 1944. Si separò dalla moglie Mary dopo la guerra e si risposò con una donna giovane che non conobbi.

A partire da quel momento visse ritirato in Irlanda, lontano dalle attività segrete cui si era dedicato per anni con tanta competenza.

Del grandioso sogno imperiale su cui si era costruita la Nuova Spagna fu mantenuto solo lo stesso Protettorato di sempre. Con la pace mondiale, le truppe spagnole furono costrette ad abbandonare Tangeri, occupata arbitrariamente cinque anni prima come anticipo di un fastoso paradiso coloniale che non arrivò mai. Cambiarono gli alti commissari, Tetuàn crebbe e continuarono a conviverci marocchini e spagnoli, ciascuno secondo i propri ritmi e tutti in armonia, sotto la paterna tutela della Spagna. Nei primi anni Cinquanta, però, i movimenti anticoloniali della zona francese cominciarono a farsi sentire. Le azioni armate nel territorio divennero così violente che la Francia si vide costretta ad aprire le trattative per negoziare la cessione della sovranità. Il 2 marzo 1956 la Francia concesse al Marocco l’indipendenza. La Spagna pensò che non le sarebbe toccata una sorte simile. Nella zona del Protettorato non c’erano mai state tensioni: gli spagnoli avevano appoggiato Mohamed V, si erano opposti ai francesi e avevano protetto i nazionalisti. Che ingenui. Una volta liberi dalla Francia, i marocchini reclamarono immediatamente la sovranità sui territori assegnati alla Spagna. Il 7 aprile 1956, in fretta e furia e alla luce delle tensioni crescenti, il Protettorato ebbe fine. E mentre la sovranità passava di mano e i marocchini riconquistavano la loro terra, per decine di migliaia di spagnoli cominciò il dramma del rimpatrio. Famiglie intere di funzionari e militari, professionisti, impiegati e proprietari di esercizi commerciali smantellarono le proprie case e si diressero verso la Spagna, che molti di loro non conoscevano quasi più. Si lasciarono dietro le strade, gli odori, i ricordi accumulati e i morti sepolti nei cimiteri. Attraversarono lo Stretto con i mobili imballati e il cuore spezzato, attanagliati dall’incertezza di non sapere che cosa avrebbe portato quella nuova esistenza, e si sparsero nella penisola con la nostalgia dell’Africa sempre viva.

Queste furono le sorti dei personaggi e dei luoghi coinvolti nella storia di quei tempi turbolenti. I loro andirivieni, i loro splendori e le loro miserie costituiscono fatti obiettivi che allora riempivano i giornali, le riunioni e i capannelli, e che oggi sopravvivono in

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biblioteca e nella memoria dei più vecchi. Un po’ più indefinito fu il futuro di chi in teoria visse accanto a loro in tutti quegli anni.

A proposito dei miei genitori si potrebbero scrivere diverse conclusioni per questo racconto. In una, Gonzalo Alvarado va a Tetuàn a cercare Dolores e le propone di tornare con lui a Madrid per recuperare il tempo perduto e non separarsi mai più. In un altro finale, del tutto diverso, mio padre non si muove dalla capitale mentre mia madre conosce a Tetuàn un militare pacifico e vedovo che si innamora di lei come un adolescente, le scrive lettere commoventi e la invita a fare merenda con le paste sfoglie a La Campana, a passeggiare nel parco al tramonto. Con pazienza e impegno riesce a convincerla a sposarlo una mattina di giugno, con una cerimonia matura e sobria alla presenza di tutti i loro figli.

Può essere successo qualcosa anche nella vita dei miei vecchi amici di Tetuàn. Candelaria, alla fine, magari si è sistemata nel grande appartamento di calle Sidi Mandri quando mia madre ha chiuso l’atelier; forse lì ha allestito la migliore pensione di tutto il Protettorato. Le cose possono esserle andate tanto bene da prendere anche la casa attigua, quella lasciata da Felix Aranda quando, una notte di tormenta in cui gli sono saltati i nervi, alla fine ha ucciso la madre sciogliendo tre scatole di Optalidon in una bottiglia di Anis del Mono. Forse allora ha avuto finalmente la possibilità di volare libero: magari ha deciso di trasferirsi a Casablanca, aprire un negozio di antiquariato e avere mille amanti di mille colori diversi, mentre continua a entusiasmarsi facendo agguati e ficcanasando in giro.

Quanto a me e Marcus, forse le nostre strade si sono divise quando è finita la guerra. Forse, dopo l’amore disordinato vissuto nei quattro anni successivi, lui è tornato al suo paese e io ho vissuto a Madrid fino alla fine dei miei giorni, come un’altezzosa creatrice di moda a capo di un atelier mitico, accessibile solo a una clientela selezionata capricciosamente secondo l’umore. O forse mi sono stancata di lavorare e ho accettato la proposta di matrimonio di un chirurgo disposto a farmi ritirare e a mantenermi nella bambagia per tutta la vita. Ma potrebbe anche darsi che io e Marcus abbiamo deciso di percorrere insieme il resto del cammino e abbiamo optato per tornare in Marocco, cercando una bella casa a Tangeri sul Monte Viejo, formando una famiglia e mettendo su un’attività concreta di cui abbiamo vissuto fino a quando, dopo l’indipendenza, ci siamo trasferiti a Londra. O in qualche angolo della costa mediterranea. O nel Sud del Portogallo. O, se preferite, potrebbe anche darsi che non ci siamo mai fermati e abbiamo continuato per decenni a saltare da un paese all’altro agli ordini dei servizi segreti britannici, sotto la copertura di un avvenente addetto commerciale e la sua elegante moglie spagnola.

Forse era questo il nostro destino, o forse era un altro, totalmente diverso, perché quello che è stato di noi non compare da nessuna parte.

Forse non siamo neanche mai esistiti. O forse sì, ma nessuno si è accorto della nostra presenza. In fin dei conti, siamo sempre stati ai margini della storia, attivamente invisibili in quel tempo vissuto tra le cuciture.

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Nota dell’autrice Le convenzioni della vita accademica cui sono legata da più di vent’anni esigono che

gli autori riportino le proprie fonti in modo ordinato e rigoroso; per questa ragione ho deciso di inserire un elenco dei riferimenti bibliografici più significativi consultati per scrivere questo romanzo. Ciò nonostante, la maggior parte delle risorse cui ho fatto ricorso per ricreare gli scenari, delineare alcuni personaggi e dare coerenza alla trama oltrepassano i margini dei fogli stampati e, perché ne rimanga traccia, voglio menzionarle in questa nota di ringraziamento.

Per ricostruire gli angoli della Tetuàn coloniale mi sono servita delle numerose testimonianze raccolte nei bollettini dell’Asociación La Medina de Antiguos residentes del Protectorado espanol en Marruecos, per cui ringrazio la collaborazione dei suoi nostalgici soci e la gentilezza dei responsabili Francisco Trujillo e Adolfo de Pablos. Altrettanto utili e commoventi sono stati i ricordi marocchini rispolverati da mia madre e dalle mie zie Estrella Vinuesa e Paquita Moreno, così come i tanti contributi documentali offerti da Luis Alvarez, entusiasta di questo progetto quasi quanto me. Molto preziosa è stata anche l’indicazione bibliografica fornita dal traduttore Miguel Sàenz su una singolare opera ambientata in parte a Tetuàn, dalla quale è nata l’ispirazione per due dei grandi personaggi secondari di questa storia.

Nella ricostruzione della sfuggente traiettoria esistenziale di Juan Luis Beigbeder sono state di enorme interesse le informazioni ricevute dallo storico marocchino Mohamed Ibn Azuz, geloso custode della sua eredità. Per l’organizzazione dell’incontro con lui e per l’accoglienza presso la sede della Asociación Tetuàn-Asmir - l’antica e bella Delegazione degli Affari indigeni - ringrazio la cortesia di Ahmed Mgara, Abdeslam Chaachoo e Ricardo

Barceló. Estendo la riconoscenza anche a José Carlos Canalda per i particolari biografici su Beigbeder; a José Maria Martinez-Val per aver risposto ai miei quesiti sul suo romanzo Llegarà tarde a Hendaya, nel quale l’allora ministro appare come personaggio; a Domingo del Pino perché attraverso un articolo mi ha aperto le porte delle memorie di Rosalinda Powell Fox - decisive per lo sviluppo narrativo del romanzo - e a Michael Brufal de Melgarejo che mi ha aiutato a seguire le sue confuse tracce a Gibilterra.

Per i dati di prima mano su Hillgarth, i servizi segreti britannici in Spagna e la copertura dell’Embassy, desidero ricordare la cordialità di Patricia Martinez de Vicente, autrice di Embassy o la inteligencia de Mambru e figlia di un uomo coinvolto attivamente in quelle attività clandestine. Al professor David A. Messenger, dell’Università del Wyoming, esprimo la mia gratitudine per il suo articolo sulle attività del SOE in Spagna.

Infine, voglio esprimere la mia riconoscenza a tutti coloro che in un modo o nell’altro mi sono stati vicini nella creazione di questa storia, leggendo tutto o parte del testo, incoraggiandomi, correggendomi, fischiando e applaudendo, o semplicemente standomi accanto nel cammino dei giorni. Ai miei genitori, per il loro appoggio incondizionato. A

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Manolo Castellanos, mio marito, e ai miei figli Bàrbara e Jaime, che mi hanno ricordato quotidianamente con la loro vitalità inesauribile quali sono le cose che contano davvero. Ai miei tanti fratelli e ai molti mondi che hanno intorno, alla mia famiglia periferica, ai miei amici di in vino amicizia e alle mie affettuose colleghe della crème anglofila. A Lola Gulias, dell’agenzia letteraria Antonia Kerrigan, che ha scommesso per prima sulla mia scrittura.

E, in modo speciale, alla mia editor Raquel Gisbert per la sua eccezionale professionalità, il suo entusiasmo e la sua energia, e per aver sopportato il confronto con umorismo e impegno instancabili.

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