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Mare monstrum 2001 I NUMERI E LE STORIE DELLASSALTO ALLE COSTE Roma, 26 giugno 2001

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Mare monstrum 2001

I NUMERI E LE STORIE

DELL’ASSALTO ALLE COSTE

Roma, 26 giugno 2001

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IL "CHI E'" DI LEGAMBIENTE

LEGAMBIENTE è l'associazione ambientalista italiana con la diffusione più capillare sul territorio (1000 gruppi locali, 20 comitati regionali, 110000 tra soci e sostenitori). Nata nel 1980 sull’onda delle prime mobilitazioni antinucleari, LEGAMBIENTE è un'associazione completamente apartitica, aperta ai cittadini di tutte le idee politiche, religiose, morali, che si finanzia con i contributi volontari dei soci e dei sostenitori delle campagne. E' riconosciuta dal Ministero dell'Ambiente come associazione d'interesse ambientale, fa parte del "Bureau Européen de l'Environnement", l'unione delle principali associazioni ambientaliste europee, e della “International Union for Conservation of Nature”. Campagne e iniziative Tra le iniziative più popolari di LEGAMBIENTE vi sono grandi campagne di informazione e sensibilizzazione sui problemi dell’inquinamento: "Goletta Verde", il “Treno Verde”, l'"Operazione Fiumi", che ogni anno "fotografano" lo stato di salute del mare italiano, la qualità dell'aria e la rumorosità nelle città, le condizioni d'inquinamento e cementificazione dei fiumi; "Salvalarte", campagna di analisi e informazione sullo stato di conservazione dei beni culturali; “Mal’Aria”, la campagna delle lenzuola antismog stese dai cittadini alle finestre e ai balconi per misurare i veleni presenti nell’aria ed esprimere la rivolta del “popolo inquinato”. LEGAMBIENTE promuove anche grandi appuntamenti di volontariato ambientale e di gioco che coinvolgono ogni anno centinaia di migliaia di persone (“Clean-up the World/Puliamo il Mondo” l’ultima domenica di settembre, l’operazione “Spiagge Pulite” l’ultima Domenica di maggio, i campi estivi di studio e recupero ambientale, “Caccia ai tesori d’Italia” all’inizio della primavera), ed è fortemente impegnata per diffondere l'educazione ambientale nelle scuole e nella società (sono numerose le Bande del Cigno che aderiscono all'associazione e molte centinaia gli insegnanti che collaborano attivamente in programmi didattici, educativi e formativi). L’azione sui temi dell’economia e della legalità Da alcuni anni LEGAMBIENTE dedica particolare attenzione ai temi della riconversione ecologica dell’economia e della lotta all’illegalità: sono state presentate proposte per rinnovare profondamente la politica economica e puntare per la creazione di nuovi posti di lavoro e la modernizzazione del sistema produttivo su interventi diretti a migliorare la qualità ambientale del Paese nei campi della manutenzione urbana e territoriale, della mobilità, del risanamento idrogeologico, della gestione dei rifiuti; è stato creato un osservatorio su “ambiente e legalità” che ha consentito di alzare il velo sul fenomeno delle “ecomafie”, branca recente della criminalità organizzata che lucra migliaia di miliardi sullo smaltimento illegale dei rifiuti e sull'abusivismo edilizio. Gli strumenti Strumenti fondamentali dell'azione di LEGAMBIENTE sono il Comitato Scientifico, composto di oltre duecento scienziati e tecnici tra i più qualificati nelle discipline ambientali; i Centri di Azione Giuridica, a disposizione dei cittadini per promuovere iniziative giudiziarie di difesa e tutela dell'ambiente e della salute; l'Istituto di Ricerche Ambiente Italia, impegnato nel settore della ricerca applicata alla concreta risoluzione delle emergenze ambientali. LEGAMBIENTE pubblica ogni anno "Ambiente Italia", rapporto sullo stato di salute ambientale del nostro Paese, e invia a tutti i suoi soci il mensile “La Nuova Ecologia”, “voce” storica dell’ambientalismo italiano.

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MARE MONSTRUM

INDICE 1. Premessa 1 2. I numeri del mare illegale 7 3. Le bandiere nere di Legambiente ai nuovi pirati del mare 11 4. E la nave va: l’illegalità del “popolo dei naviganti” 16 5. Liberiamo gli accessi al mare 18 6. Cemento in spiaggia 22 7. Fronte del porto 38 8. L’erosione della costa 54 9. La pesca di frodo 65 10. Prevenire spigola pazza 80 11. Il mare inquinato 86 12. L’onda nera 109 13. 20.000 bombe in fondo al mar 120

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Ringraziamenti Il dossier “Mare monstrum 2001” è stato realizzato dall’Ufficio Ambiente e Legalità, dall’Ufficio Aree Protette e Territorio, dall’Ufficio Campagne e dall’Ufficio Stampa di Legambiente Nazionale. Hanno collaborato: Francesca Biffi, Stefano Ciafani, Tiziano Granata, Nunzio Cirino Groccia, Lucia Fazzo, Enrico Fontana, Marina Girolami, Maurizio Manna, Rossella Muroni, Antonio Nicoletti, Carla Quaranta, Luca Ramacci, Simone Ramella, Peppe Ruggiero, Sebastiano Venneri, Lucia Venturi. Si ringraziano per i contributi forniti: il Comando generale delle Capitanerie di porto, il Comando generale dell’Arma dei Carabinieri, il Comando Carabinieri per la Tutela dell’Ambiente, il Comando generale della Guardia di Finanza, il Corpo Forestale dello Stato che hanno fornito i dati statistici relativi alle attività di controllo in materia di tutela ambientale; Agci Pesca, Fias di Lecce, Lega Pesca; Ezio Amato, ricercatore Icram; Roberto Giangreco, Legambiente Sub; Enzo Incontro, Legambiente Sub; Toni Mira, giornalista dell’Avvenire; Alberico Simioli, direttore dell’Area Protetta di Punta Campanella; Alberto Vignali, giornalista de La Nazione de La Spezia; Andrea Costantini, Fias Gallipoli; Dante Matelli, de L’Espresso; Giancarlo Bussetti; Giulietta Rak; Chiara Della Mea; Il capitolo Onda nera è tratto dal dossier “I traffici marittimi petroliferi - Regole, strumenti, soluzioni - Riflessioni a dieci anni dall’incidente Haven”, realizzato da Legambiente e WWF.

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1. Premessa

Società che cambiano repentinamente denominazione sociale, altre che dichiarano fallimento prima ancora di aver concluso i lavori, villaggi turistici abbattuti dalle ruspe del Genio Militare con i turisti costretti a raccogliere asciugamani ed effetti personali dalle loro stanze, prima che queste vengano travolte dalle macerie. E poi ancora, operai che lavorano senza salario per mesi, pareri delle Soprintendenze ignorati grazie a ricorsi ai TAR, pagamenti effettuati con tratte non autorizzate e quindi non protestabili, il solito gioco di appalti e sub appalti, piccole imprese artigiane strozzate dai debiti e pagate addirittura con prosciutti e mortadelle. E su tutto l’ombra del riciclaggio del denaro sporco e della malavita organizzata. Sono queste alcune delle caratteristiche che disegnano il profilo della nuova imprenditoria che ha lanciato l’assalto in questi anni ai tratti di costa più belli del nostro Paese. Un’imprenditoria arruffona e stracciona ha soppiantato, nel tempo, le società dell’Aga Khan o dei gruppi imprenditoriali del nord Italia che pure consumarono, negli anni passati, il primo “sacco delle coste”. E così, alle lottizzazioni in stile Costa Smeralda, agli esempi cementificatori che hanno prodotto i vari Porto Cervo e Porto Rotondo si vanno sostituendo interventi estemporanei, gestiti da società scarsamente affidabili che difficilmente riescono a portare a termine l’intervento previsto e che, in molti casi, lasciano dietro di loro una costa irrimediabilmente deturpata e una scia di fallimenti in un mare di debiti.

Dalla Sardegna al Salento, dalle coste siciliane a quelle calabresi, è tutto un fiorire di interventi speculativi, di lottizzazioni, di villette “fronte mare” pronte in pochi mesi che spesso si traducono in anni di attesa per l’incauto acquirente sulla carta. E’ di qualche giorno fa la notizia del fuoriprogramma a base di ruspe per quanti stavano trascorrendo una vacanza acquistata all’Hotel Baia delle Ginestre, sulla costa di Teulada, a ovest di Cagliari. Sotto accusa in questo caso la società Baia delle Ginestre degli Antonioli di Bormio, titolare di un hotel sul quale da tempo la Cassazione aveva emesso il suo ultimo parere: oltre 10.000 metri cubi del complesso erano da abbattere perché costruiti abusivamente; 110 camere, la piscina, il ristorante, i campi da tennis, la sala congressi operavano da 10 anni senza licenza e sotto la spada di Damocle dell’ordinanza di demolizione.

Un altro esempio eclatante di questa “nuova” imprenditoria è quello offerto dal Bagaglino Country Village, un megacomplesso turistico parzialmente abusivo sorto a Stintino, proprio di fronte all’isola dell’Asinara. In questo caso la titolarità dell’intervento fa capo all’industriale bresciano Mario Bertelli, la cui società è stata dichiarata fallita dal tribunale di Brescia dopo aver massacrato la costa di Punta Su Torrione con 7.000 posti letto in 1.400 villette per un totale di 322.000 metri cubi. Un facile rapporto con le banche, fin troppo disponibili a finanziare l’impresa, un complesso di società che rende difficile ai creditori l’individuazione delle responsabilità, e poi un

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intrigo di sub appalti a piccole società artigiane saldate con modalità di pagamento quanto meno discutibili: si parla di cambiali, di tratte non autorizzate e quindi non protestabili, di appartamenti in permuta supervalutati, senza considerare che in alcuni casi la società capofila ha cercato la transazione offrendo ai creditori, secondo quanto riferito da un quotidiano locale, partite di biciclette e di computer, mobili per uffici e addirittura prosciutti e mortadelle.

Fallimento dichiarato anche per la Crg Village, una società salentina che aveva avviato una lottizzazione sul confine demaniale a Torre Mozza, nei pressi di Ugento (LE). Ci sono voluti nove anni perché un’altra società rilevasse la titolarità dell’intervento portando a termine il complesso turistico su un sistema dunale attualmente Sito di Interesse Comunitario. Il lavoro della magistratura e le conclusioni della conferenze di servizi stanno invece tenendo al palo le lottizzazioni previste a sud di Gallipoli: in questo caso la società titolare dell’intervento è stata costretta a cambiare denominazione sociale (prima Praia del Sole, ora Praia del Sud) e, nonostante l’accordo di programma preveda un finanziamento Cipe di ben 60 miliardi, gli interventi previsti, che ricadono in parte su un’area protetta regionale, sono ancora bloccati, a dieci anni dalla loro progettazione.

E l’elenco potrebbe continuare. Dai parcheggiatori abusivi di Porto Cesareo (LE) che, senza alcuna concessione, delimitano aree di sosta massacrando per qualche migliaio di lire a posto macchina il tratto dunale più bello della costa jonica salentina, ai datterai di Punta Campanella, una cinquantina in tutto, che ogni anno distruggono ettari e ettari di fondali dell’area marina protetta armati di scalpelli e martelli pneumatici.

Nessuna idea di futuro insomma, solo la pratica del “mordi e fuggi”, dell’intervento slegato da qualsiasi disegno di sviluppo del territorio, tutto improntato al ritorno economico immediato per i soliti pochi furbi. Sotto attacco sono le aree più pregiate del nostro Paese, dalla Sardegna al Salento. Per quest’ultima zona in particolare, cui abbiamo dedicato un intero paragrafo di questo dossier, si parla, non a caso, di una sorta di “via albanese allo sviluppo”, a sottolineare le caratteristiche di un’imprenditoria più vicina alle pratiche levantine intrecciate alla malavita organizzata, piuttosto che a quelle di una classe imprenditoriale di un paese occidentale.

Ma gli abusi sul mare non si limitano al cemento sulla costa e agli “ecomostri”. Anche quest’anno abbiamo passato in rassegna i reati ambientali che si sono consumati sul territorio mare, dagli sversamenti deliberati di idrocarburi alle forme di pesca illegale, dai reati nel settore della depurazione alla pratica della privatizzazione delle spiagge, a rischio ambientali connessi con il diluvio di nuovi approdi turistici. In definitiva, tutto quanto rischia di trasformare quello che per millenni è stato conosciuto come Mare nostrum in Mare monstrum. Ai responsabili dei tanti misfatti che si sono compiuti nel corso dell’ultimo anno lungo le nostre coste Legambiente ha voluto assegnare quest’anno la Bandiera Nera, proprio quella dei pirati con teschio e tibie incrociate. Sono venti casi esemplari di saccheggio della costa operati da amministratori locali, società private, grossi nomi o illustri sconosciuti

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accomunati da un modus operandi discutibile, spesso spregiudicato, che rischia di cambiare il profilo delle nostre coste e trasformarle in un bene disponibile solo a pochi.

I numeri del “mare illegale”

Ma veniamo ai numeri del “mare illegale”. Sono ben 22.973 i reati accertati con un incremento del 19% rispetto allo scorso anno. Una classifica del demerito che vede al primo posto le infrazioni al codice della navigazione (8.524 infrazioni, pari al 45% del totale), seguono i reati relativi alla pesca illegale con il 26% (4.885 reati) ed infine quelli relativi all’abusivismo edilizio sul demanio marittimo (2.829, pari al 15%) e quelli per scarichi abusivi e depuratori non funzionanti (2.616, pari al 14%), praticamente raddoppiati rispetto allo scorso anno.

La classifica regionale in valori assoluti vede le posizioni del podio assegnate nell’ordine a Sicilia (4.530 infrazioni), Campani (3.022 infrazioni) e Puglia (2.649 infrazioni). L’ordine cambia totalmente se si rapportano le infrazioni ai chilometri di costa di ogni regione. In questo caso al primo posto sale il Veneto (9,3 infrazioni per chilometro di costa) seguito dalle Marche (8 infrazioni per chilometro) e dalla Campania (6,5 infrazioni per chilometro).

Gli accessi negati

Sono piccoli e grandi i soprusi rintracciabili lungo le coste italiane: dal grande ecomostro si passa così al cancello abusivo che impedisce l’accesso ad una spiaggia pubblica. Anche sugli accessi al mare negati, una delle novità del dossier di quest’anno, Legambiente ha voluto puntare un riflettore per evidenziare un malcostume, anzi un vero e proprio reato, tutto italiano. Nonostante la Cassazione, con una sentenza dello scorso febbraio, abbia decretato che “nessuna proprietà privata e per nessun motivo può impedire l’accesso al mare alla collettività”, sono ancora numerosi i casi di privatizzazione di fatto operati da villaggi turistici, ville di privati, condomini e stabilimenti balneari. Si passa da Lerici, in Liguria, a Itri nel Lazio, da Capo d’Arco sull’isola d’Elba a Capo Gallo in Sicilia. Anche in questo caso venti casi esemplari segnalati da Legambiente e raccolti da comunicazioni di privati cittadini, dai circoli locali e censiti durante il viaggio di Goletta Verde. Ma l’elenco potrebbe continuare: per questo Legambiente ha lanciato da quest’anno la campagna “Liberiamo gli accessi al mare”, per invitare i cittadini a segnalare gli abusi di cui sono a conoscenza.

I nuovi “ecomostri”

E intanto il cemento illegale continua a devastare le coste italiane con i reati sul demanio marittimo e i tanti “ecomostri”, quei casi esemplari di cemento abusivo che deturpano il paesaggio costiero. Un fenomeno che non risparmia neppure le zone dove la natura è protetta, tanto che quest’anno sono state evidenziate ben 78 infrazioni nelle area marina protetta di Capo Rizzuto, 27 in quella delle Egadi e 26 nell’Arcipelago della Maddalena.

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La regione dove si registra più abusivismo sul demanio marittimo è la Calabria con 652 infrazioni registrate nel 2000, seguita dalla Sicilia (480 infrazioni) e Campania (416 infrazioni).Al fianco di tanti episodi di illegalità perpetrati da privati e piccole imprese, ci sono i casi più eclatanti, quelli che Legambiente definisce “ecomostri”. Anche quest’anno abbiamo voluto evidenziare 20 storie esemplari di aggressione alle coste del Belpaese, dall’abusivismo nella riserva di Capo Rizzuto a quello nella Baia di Copanello, sempre in Calabria, dalle minacce speculative su Capo Rossello al “sacco del Salento”, dalla “saracinesca” di Punta Perotti allo “scheletro” di Punta Licosa. Vere e proprie ferite sulle nostre coste contro le quali la Goletta Verde di Legambiente lancerà, anche quest’anno, i “Demolition day”, i blitz per fermare l’abusivismo e lo scempio sulle coste.

Porti a perdere

Continua intanto la corsa alla costruzione di nuovi porti turistici, senza alcuna logica programmatoria che non sia quella di realizzare strutture sottoutilizzate che preludono a prossime speculazioni immobiliari o tenere aperti cantieri che garantiscano un flusso costante di denaro pubblico. E’ quanto accaduto in Sardegna, dove in 20 anni sono stati sperperati oltre 600 miliardi per realizzare appena 250 posti barca. In questa regione un posto barca è costato in media 240 milioni di fondi pubblici, cinque volte il costo di realizzazione di un posto barca nel Tirreno.

Negli ultimi 4 anni si sono realizzati 36 porti turistici contro i 44 costruiti nei 50 anni precedenti. 35 altri progetti (17.000 posti barca) hanno già ottenuto un sì definitivo all’apertura dei cantieri, mentre altre 50 richieste (per altri 20.000 posti barca) attendono il parere delle conferenze di servizi. Un vero e proprio diluvio di nuovi porti, un’offerta di nuovi posti barca che non troverà sicuramente domanda se è vero che gli stessi imprenditori del settore considerano sufficiente, in molte regioni, la disponibilità di posti barca attuale. Dietro la corsa ai nuovi approdi si nascondono in realtà altrettanti progetti di speculazione immobiliare sui terreni retrostanti. E’ l’esempio Baleari che sembra riproporsi su casi come quello di Tarquinia, nel Lazio, o di Serra Cicora, in Puglia.

La spiaggia scomparsa

Un metro di spiaggia ogni anno. E’ questo il ritmo implacabile con cui procede l’erosione in gran parte della penisola. La destabilizzazione dell’ambiente costiero è il risultato perverso di diversi fattori, dall’intensa antropizzazione delle coste, all’impoverimento dell’apporto di materiale solido dai fiumi a causa dell’eccessiva attività estrattiva dagli alvei. Un fenomeno che assume dimensioni drammatiche in regioni, come la Calabria con il 67% di litorali in crisi o la Campania (58% di spiagge colpite) che rischiano di perdere per sempre una delle loro principali risorse. Tra i casi più significativi vale la pena segnalare quanto avviene a Ischia, dove in quarant’anni i metri quadrati di spiaggia sono passati da 192.400 agli attuali 69.850, con una

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riduzione percentuale del 65%. Dimezzato anche il litorale dell’isola di Procida, passato dai 63.750 metri quadrati degli anni “50 agli attuali 32.100. Uno studio realizzato per conto dei comuni isolani ha cercato di stimare la perdita economica generata da questo fenomeno: per Ischia il mancato introito derivante dai problemi dell’erosione è stato stimato in ben 147 miliardi, mentre per Procida i quattrini persi nella sabbia ammonterebbero a circa 25 miliardi.

I bracconieri del mare

Sono quasi 5.000 le infrazioni accertate per la pesca di frodo nel nostro Paese, con il record detenuto dalla Sicilia (1.039 infrazioni), seguita da Puglia e Marche, una pratica inevitabilmente intrecciata con l’attività della malavita organizzata. Secondo gli inquirenti c’è la longa manus della camorra dietro i cinquanta datterai della Penisola sorrentina, ognuno dei quali preleva in media 10 kg di datteri al giorno rivendendoli a 40.000 lire al kg. Un fatturato annuo di 4/5 miliardi esentasse, senza considerare i proventi della vendita al dettaglio che, in periodi particolari, può raggiungere le 150.000 lire al kg.

Allarme malavita anche per quanto avviene nella laguna di Venezia dove la raccolta di vongole in zone proibite intreccia la pratica della pesca di frodo con la commercializzazione di un prodotto fortemente contaminato dai veleni della laguna. Le vongole pescate abusivamente vengono immesse sul mercato con certificazione sanitaria contraffatta e, secondo dati della Guardia di Finanza, per ogni camion di vongole abusive si possono guadagnare fino a 200 milioni di lire solo dall’evasione dell’IVA. Ancora più impressionanti i dati che spuntano da un procedimento in corso contro 10 pescatori abusivi che in pochi mesi avevano commercializzato 600.000 kg di vongole per un guadagno pari a due miliardi e mezzo di lire.

Cresce infine il timore in Campania per il cosiddetto pesce “all’acqua pazza”, quello cioè scongelato con acqua inquinata. Nel dossier sono riportati alcuni casi che si sono conclusi con il sequestro di quintali e quintali di pesce e frutti di mare scongelati con l’acqua prelevata a pochi metri dalla bocca del collettore fognario. Non è un caso che, secondo i dati dell’Asl, i casi di epatite in provincia di Napoli siano ritornati ai livelli della meta degli anni ottanta, dopo dieci anni di relativo calo.

La depurazione può attendere

Stabile, tendente al peggioramento, la situazione sul fronte della qualità delle acque e della depurazione degli scarichi: in Italia risultano vietati alla balneazione per inquinamento ben 392,4 chilometri di costa, dei quali 269,1 vietati in modo permanente; la regione con il maggior numero di coste “proibite” è la Campania (92,5 km). I reati per inquinamento dei mari rispetto al 1999 sono più che raddoppiati arrivando ad un totale di 2616. Il maggior numero di infrazioni riscontrate dalle forze dell’ordine e dalle Capitanerie di Porto sul fronte dell’inquinamento marino si registra, invece, in Calabria (535), seguita dalla Sicilia (401) e dalla Puglia (399).

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A questo si aggiunge un grave deficit di depurazione. L’Italia, seppure con lieve miglioramento negli ultimi anni, è caratterizzata da un grave deficit di depurazione, che oscilla dai 29 milioni di abitanti equivalenti secondo il censimento dell’ISTAT, ai 41 milioni, dell’indagine realizzata da Proaqua. Questo deficit di depurazione si concentra soprattutto nel Sud (con notevoli e clamorose eccezioni, a cominciare da Milano, ancora priva di impianti).

La marea nera

Si stima che ogni anno vengano sversate nel Mediterraneo circa un milione di tonnellate di idrocarburi, che determinano una concentrazione di catrame pari a 38 milligrammi per metro cubo, la più alta tra i bacini del Pianeta; questa situazione è determinata da un insostenibile “carico” di trasporti petroliferi: in un mare che costituisce lo 0,8% della superficie delle acque mondiali si svolge più del 20% del traffico mondiale marittimo di petrolio quantificabile in 360 milioni di tonnellate annue. Soltanto per ciò che riguarda il nostro Paese, nel 1999 sono state importante, secondo i dati dell’Unione Petrolifera, 80.369.000 tonnellate di greggio, con una movimentazione di circa 2 milioni di barili al giorno, il 65% dei quali è transitato attraverso i quattro maggiori porti italiani (Augusta, Cagliari, Genova e Trieste).

E le emergenze sui nostri mari potrebbero ancora continuare. Dalla

pesante eredità degli ordigni dei grandi conflitti mondiali a quella più recente delle bombe sganciate in Adriatico dagli aerei della Nato durante il conflitto nel Kosovo, dai veleni che il Sarno continua a scaricare nel Golfo di Napoli ai rischi ambientali connessi all’attività di acquacoltura. Minacce altrettanto gravi rispetto a quelle riassunte in questa premessa, che rimandano tutte a precise responsabilità. Di fronte ai numeri del “mare monstrum”, come l’ha ribattezzato Legambiente, la classe politica di questo paese è chiamata a scelte chiare e inequivoche, assai simili a quelle che Legambiente sollecita per quanto riguarda la lotta alla criminalità ambientale, da un lato, e la scelta strategica dell’ecosviluppo dall’altro: “tollerenza zero” nei confronti degli eco-criminali, attraverso norme più severe anche a tutela dell’ecosistema marino; abbandono di scellerate politiche di cementificazione ulteriore delle nostre coste; promozione dei parchi e delle riserve marine; rilancio delle attività di pesca tradizionali, come volano economico e culturale di molte comunità locali.

Riconquistare il mare di nessuno al controllo e alla legalità è l’obiettivo che come Legambiente vogliamo perseguire nei prossimi anni. Accendere i riflettori su questa terra di confine, su chi ci vive, sulle economie sane che operano sul mare: anche questo farà parte dell’attività di Goletta Verde di quest’anno. Per un mare più pulito. E più ricco.

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2. I numeri del “mare illegale”

L’assalto dei nuovi “pirati” continua senza sosta. I nostri mari e le nostre coste sono sempre più minacciate dall’abusivismo edilizio sulle aree demaniali, dallo sversamento di scarichi civili e industriali non depurati, dalla pesca di frodo e dalle numerose violazioni alla normativa da diporto e al codice della navigazione. Lo dicono i numeri sulle illegalità compiute ai danni del mare, forniti da Arma dei carabinieri, Guardia di Finanza, Corpo forestale dello Stato e regionale e Capitanerie di porto ed elaborati da Legambiente: lo scorso anno sono state 22.973 le infrazioni accertate dalle forze dell’ordine, 8.879 le persone denunciate o arrestate e 6.418 i sequestri effettuati.

Rispetto ai dati presentati nel Dossier di un anno fa il numero dei reati accertati e dei sequestri compiuti è in aumento (rispettivamente dai 19.324 del 1999 ai 22.973 del 2000 e dai 4.744 del ’99 ai 6.418 dello scorso anno), mentre è in diminuzione il numero delle persone denunciate o arrestate (da 10.159 a 8.879).

Entrando nel dettaglio dei numeri per ciascuna forza dell’ordine, si segnala il forte aumento delle infrazioni accertate dalle Capitanerie di porto rispetto all’anno precedente (a fronte di un aumento percentuale dei controlli dello scorso anno rispetto al 1999 pari a circa il 33%, i reati accertati sono aumentati di ben il 63%), l’aumento più contenuto per ciò che concerne i risultati dell’attività dell’Arma dei carabinieri (4.425 reati accertati lo scorso anno rispetto ai 4.180 del ’99) e la flessione nei numeri riguardanti la Guardia di Finanza e il Corpo forestale dello Stato e regionale.

IL QUADRO GENERALE DEL “MARE ILLEGALE” (2000) Arma dei

carabinieri* Gdf** Cfs - Cfr*** Capitanerie

di porto TOTALE

Infrazioni accertate 4.425 4.077 652 13.819 22.973 Persone denunciate oarrestate

2.957 730 414 4.778 8.879

Sequestri effettuati 400 3.336 155 2.527 6.418 Fonte: elaborazione Legambiente su dati delle forze dell’ordine e Capitanerie di porto *: i dati dell’Arma dei carabinieri si riferiscono all’Operazione Mare pulito

2000 (giugno - settembre); **: i dati della Guardia di Finanza si riferiscono ai settori Pesca e Codice della

navigazione ed all’abusivismo su aree demaniali; ***: i dati dei Cfr si riferiscono a Sicilia e Sardegna.

Disaggregando i dati nazionali a scala regionale si ottiene una

classifica, per numero di reati in valore assoluto, che decreta la “leadership”

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della Sicilia (4.530 infrazioni accertate), che scavalca la Campania (3.092), prima regione nella classifica dello scorso anno. Nella regione siciliana va segnalato l’operato della Capitaneria di porto che ha rilevato 3.455 reati, denunciato 845 persone e compiuto 894 sequestri. In Campania invece è stata rilevante l’attività dell’Arma dei carabinieri (974 infrazioni accertate, 759 persone denunciate e 154 sequestri effettuati).

LA CLASSIFICA DEL MARE ILLEGALE IN ITALIA: VALORI ASSOLUTI (2000) Regione Infrazioni

accertate Persone denunciate

o arrestate Sequestri effettuati

1 Sicilia ↑ 4.530 1.129 993 2 Campania ↓ 3.092 1.586 537 3 Puglia ↑ 2.649 991 602 4 Lazio ↓ 2.098 477 326 5 Calabria ↓ 2.062 1.508 167 6 Liguria ↑ 1.605 475 177 7 Veneto ↔ 1.479 478 517 8 Marche ↑ 1.396 451 539 9 Toscana ↑ 1.133 402 162 10 Sardegna ↓ 1.082 522 2.018 11 Emilia Romagna ↓ 657 237 110 12 Abruzzo ↔ 581 318 157 13 Friuli Venezia Giulia ↑ 329 154 31 14 Molise ↓ 142 32 66 15 Basilicata ↔ 138 119 16 Totale 22.973 8.879 6.418

Fonte: elaborazione Legambiente su dati Carabinieri (Operazione Mare pulito 2000), Guardia di Finanza, Corpo forestale dello Stato e regionale e Capitanerie di porto.

Considerando l’incidenza dei reati accertati per chilometro di costa di ciascuna regione, la classifica cambia totalmente. Il Veneto e le Marche, che nella classifica per valori assoluti erano al settimo e all’ottavo posto, salgono in prima e seconda posizione, rispettivamente con 9,31 e 8,07 infrazioni per chilometro di costa.

In Veneto il settore dove si concentra il maggior numero di illeciti è, come lo scorso anno, quello della nautica da diporto (873 reati, dei quali 329 riscontrati dalla Guardia di Finanza), seguito dalla pesca di frodo (294).

Nelle Marche invece è la pesca di frodo (672 infrazioni) a farla da padrona nella classifica delle diverse tipologie di reato. Seguono il codice della navigazione (con 353 reati) e l’inquinamento dovuto a scarichi illegali (148).

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Al terzo posto la “solita” Campania che vanta 6,58 reati per chilometro di costa, con 1.014 infrazioni al codice della navigazione, 472 reati in materia di pesca illegale e 416 per abusivismo su aree demaniali.

La regione dove si registra, infine, il minor numero di reati per chilometro di costa è la Sardegna (0,63 reati per chilometro di costa, con oltre 290 infrazioni per pesca illegale, delle quali 99 accertate dal Corpo forestale), seguita dalla Toscana e dalla Basilicata.

LA CLASSIFICA DEL MARE ILLEGALE IN ITALIA: INFRAZIONI PER KM DI COSTA (2000) Regione Infrazioni accertate Km. di costa Infrazioni per Km. di costa 1 Veneto ↑ 1479 158,9 9,31 2 Marche ↑ 1396 173 8,07 3 Campania ↓ 3092 469,7 6,58 4 Lazio ↓ 2098 361,5 5,80 5 Emilia Romagna ↓ 657 131 5,02 6 Abruzzo ↑ 581 125,8 4,62 7 Liguria ↑ 1605 349,3 4,59 8 Molise ↓ 142 35,4 4,01 9 Puglia ↑ 2649 865 3,06 10 Sicilia ↑ 4530 1483,9 3,05 11 Friuli Venezia Giulia ↑ 329 111,7 2,95 12 Calabria ↓ 2062 715,7 2,88 13 Basilicata ↑ 138 62,2 2,22 14 Toscana ↓ 1133 601,1 1,88 15 Sardegna ↓ 1082 1731,1 0,63

Fonte: elaborazione Legambiente su dati Carabinieri (Operazione Mare pulito 2000), Guardia di Finanza, Corpo forestale dello Stato e regionale e Capitanerie di porto

Analizzando infine le principali categorie di reato riscontrate dalle forze

dell’ordine (codice della navigazione e nautica da di porto, abusivismo edilizio in aree demaniali, pesca di frodo e inquinamento), si può constatare come, anche nel 2000, il maggior numero di infrazioni abbia riguardato il codice della navigazione e la nautica da diporto: ben 8.524 infrazioni accertate (erano state 7.440 nel 1999), pari ad oltre il 45% del totale, 603 persone denunciate e 752 sequestri effettuati. I “marinai” italiani continuano quindi a non brillare in correttezza.

Seguono i reati relativi alla pesca illegale, con 4.885 reati (pari a circa il 26% del totale delle infrazioni accertate nei mari italiani), 648 denunciati e 752 sequestri, ed infine quelli relativi all’abusivismo edilizio sul demanio marittimo (2.829, pari al 15%) e all’inquinamento marino causato da depuratori non a norma e da scarichi fognari non trattati (2.616, pari a circa il 14%). Questi

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ultimi sono più che raddoppiati rispetto al 1999: allora le forze dell’ordine e le Capitanerie di porto avevano riscontrato 1.151 infrazioni per inquinamento dei mari.

I PRINCIPALI REATI (2000)

Reato Infrazioni accertate

Persone denunciate o arrestate

Sequestri effettuati

Abusivismo edilizio sul demanio

2.829 2.716 457

Depuratori, scarichi fognari, inquinamento da idrocarburi

2.616

2.167 45

Pesca di frodo

4.885 648 4.779

Codice navigazione e Nautica da diporto

8.524 603 752

Totale

18.854 6.134 6.033

Fonte: elaborazione Legambiente su dati Carabinieri (Operazione Mare pulito 2000), Guardia di Finanza, Corpo forestale dello Stato e regionale e Capitanerie di porto

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3. Le bandiere nere di Legambiente ai nuovi “pirati” del mare

Le Bandiere nere di Legambiente sono una sorta di “riconoscimento” che l’associazione ambientalista assegna a quei soggetti che si sono caratterizzati per iniziative ai danni del mare e della fascia costiera più in generale. Sono coloro che Legambiente individua come i “nuovi pirati” che, come quelli di salgariana memoria, assaltano le coste, ne depredano le risorse, inquinano i mari o compromettono irrimediabilmente il delicato ecosistema costiero.

L’iniziativa di Legambiente, giunta alla seconda edizione quest’anno, si inserisce in un filone che ha trovato seguito anche Oltralpe. E’ di pochi giorni fa la notizia, sulla prima pagina del quotidiano Le Monde, dell’assegnazione di 69 bandiere nere da parte di un’associazione ambientalista ad altrettanti Comuni francesi. LIGURIA La fabbrica del cromo Bandiera nera alla Stoppani di Cogoleto, l’azienda produttrice di cromo che da oltre un secolo continua ad inquinare il litorale con cromo, cadmio ed altri metalli pesanti. La fabbrica ha inquinato il torrente Larone a causa del dilavamento dei fanghi stoccati nella discarica di Molinetto, le falde sotterranee sono risultate inquinate con valori ben 24.000 volte oltre i limiti di legge e problemi di inquinamento persistente si riscontrano anche sul mare e in atmosfera. Da tempo i Comuni di Cogoleto ed Arenzano e il Consiglio Regionale della Liguria si sono espressi per una chiusura della fabbrica. Il porto di Santa Margherita Ligure Bandiera nera all’Amministrazione comunale di Santa Margherita Ligure (Ge), che ha recentemente proposto la riorganizzazione degli attuali spazi barca attraverso la realizzazione di un porticciolo all’interno della baia del paese per complessivi 450 posti barca con la realizzazione di una diga sottoflutto a ridosso dello storico “Castello Saraceno”. Il Comune si è anche distinto nella battaglia per il restringimento dei confini del Parco di Portofino. Il cemento sul Golfo dei Poeti Bandiera nera all’Autorità Portuale di La Spezia, che ha proposto la realizzazione di nuove banchine per la movimentazione di containers per un totale di 450.000 metri quadrati di nuovo cemento nel golfo dei Poeti.

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SARDEGNA Il naufragio di Porto Scuso Bandiera nera all’Ilias Shipping Corporation, la società greca armatrice della Eurobulker IV, la carboniera russa battente bandiera cambogiana e Isole St.Vincent e Grenadine, con a bordo 17.200 tonnellate di carbone affondata al largo di Portoscuso, nell’arcipelago del Sulcis, un’area naturalisticamente molto significativa. La nave, sprovvista di carte nautiche della zona, aveva un equipaggio misto e si incagliò l’8 settembre al largo delle coste sarde, affondando un mese dopo e inquinando la zona con 50 tonnellate di combustibile e il suo carico di carbone. Il villaggio di Stintino Bandiera nera al villaggio turistico Bagaglino Country Village di Stintino, una delle più grosse colate di cemento sulle coste sarde, di fronte all’isola dell’Asinara, quantificabile in 322mila metri cubi, 1400 ville per un totale di 7000 posti letto. Si tratta di un complesso turistico parzialmente abusivo che ha letteralmente sconvolto Punta Su Torrione, un’area di straordinario valore naturalistico. La società costruttrice ha da poco dichiarato fallimento. CAMPANIA I pirati dei fondali Bandiera nera ai datterai di Punta Campanella. Si calcola che siano una cinquantina i bracconieri del mare che nell’area marina protetta di Punta Campanella si dedicano al prelievo dei datteri di mare armati di scalpelli o martelli pneumatici. Ogni giorno possono prelevare fino a 500 kg di datteri desertificando in un anno un tratto di costa di 4-6 chilometri. Il giro d’affari è stimato in circa 4 miliardi all’anno. Il prelievo di datteri nel nostro paese è vietato sin dal 1988, più recentemente sono state messe al bando anche la commercializzazione e l’importazione. Il depuratore fantasma Bandiera nera all’Assemblea e al Consiglio d’Amministrazione dell’ATO (Ambito Territoriale Ottimale) 2 - Napoli - Caserta. E’ l’organismo che avrebbe dovuto affrontare la gestione dell’intero ciclo delle acque, compresa la depurazione degli scarichi, nelle due provincie con le coste più inquinate d’Italia. A quattro anni di distanza dal suo insediamento l’organismo non è mai entrato in funzione, non ha mai individuato gli organismi che avrebbero dovuto affrontare e gestire i diversi piani e, di conseguenza, l’intero ciclo delle acque (la realizzazione di acquedotti, fognature, depuratori, la gestione degli alvei dei torrenti, ecc.). CALABRIA L’assalto sulla costa degli Dei Bandiera nera al villaggio L’Olivara a Parghelia, un complesso turistico che sorge lungo la Costa degli Dei, a pochi chilometri da Tropea, che ha

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recentemente avviato i lavori di ampliamento del villaggio con conseguente sbancamento della collina che si affaccia sul mare. Un’ulteriore colata di cemento su uno dei tratti di costa più suggestivi del litorale calabrese. SICILIA La lottizzazione della Torre delle Ciavole Bandiera nera alla Giunta comunale di Piraino (Me), che sta consentendo la realizzazione di una megalottizzazione su una collina di fronte alla Torre delle Ciavole, sulla base di un vecchio Piano Regolatore. Oltre 47.000 metri cubi di alberghi e residence che andranno a stravolgere un’area paesaggisticamente rilevante. Per restare in tema di nuovi “pirati”, a realizzare il progetto ci penserà la società “Saracen Group”. Il mattone selvaggio di Capo Calavà Bandiera nera al Consiglio Comunale di Gioiosa Marea (Me) che, con una maggioranza risicata, ha approvato la lottizzazione di “Pantarei”: 30.000 metri cubi nei pressi della Rocca di Capo Calavà ponendo le basi per la distruzione di uno splendido paesaggio costiero sul fianco di un ripido pendio sulla costa settentrionale della Sicilia. Ed anche in questo caso l’approvazione dell’intervento avviene sulla base di un vecchio Piano regolatore, riesumato per l’incapacità del Consiglio Comunale di portare a compimento la sua revisione. La sanatoria all’abusivismo costiero Bandiera nera al Presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana, on. Nicola Cristaldi, e al vincitore delle elezioni regionali 2001, Totò Cuffaro. Per la volontà e la tenacia manifestata nei reiterati tentativi di porre in discussione all’ordine del giorno parlamentare una legge di sanatoria per gli abusi edilizi compiuti lungo le coste della Sicilia. La distilleria dei veleni Bandiera nera alla sig.ra Antonina Bertolino, titolare dell’omonima distilleria di Partinico (Pa). Pur essendo stata condannata con sentenza confermata in Cassazione per inquinamento del fiume Nocella, con conseguente inquinamento del golfo di Castellammare, sta tentando di aprire un’attività industriale con le stesse caratteristiche a Campobello di Mazara, nei pressi delle Cave di Tusa, in prossimità di un sito di rilevanza naturalistica ed archeologica internazionale. PUGLIA I parcheggiatori di Porto Cesareo Bandiera nera ai parcheggiatori abusivi sulle dune di Porto Cesareo. Comune simbolo dell’abusivismo edilizio selvaggio, con ben 15.000 abitazioni abusive costruite nel giro di dieci anni, Porto Cesareo sta conoscendo da tempo la pratica di quanti delimitano porzioni di territorio da destinare a parcheggio abusivo sulla fascia retrodunale. Dai parcheggi si passa spesso alla

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realizzazione di locali o, è un caso documentato, di un vero e proprio maneggio, spesso sulla fascia demaniale. Il tutto di fronte a una delle 16 aree protette marine nazionali del nostro Paese. I “pirati” del tacco Siamo nell’estremo lembo orientale del Salento, Comune di Gagliano del Capo, ma gli interventi in questo caso sono parcellizzati ed eseguiti da diversi soggetti. Locali notturni, ristoranti, privati hanno realizzato una serie di interventi inglobando antichi trulli, strutture in pietra a secco e, in un caso, addirittura un sito paleontologico e archeologico di riconosciuta importanza come la Grotta delle Prazziche, ridotta ad una tavernetta con tanto di faretti sulla volta. Abusi edilizi anche a Punta Meliso, il capo di Santa Maria di Leuca, dove una società privata sta realizzando un complesso abitativo con piscine scavate nella roccia, strade d’accesso al mare e parcheggi. Il sacco di Torre Miggiano Bandiera nera alla società S.I.S. srl, titolare dell’intervento di edificazione sulla costa a Torre Miggiano (Comune di Santa Cesarea), in provincia di Lecce. Oltre 6.000 metri cubi di piscine, ristoranti, locali ricreativi e passeggiate a mare su uno dei tratti di costa più belli della costa salentina, Sito di Interesse Comunitario. Il Colosseo di Acquaviva Bandiera nera all’Amministrazione Comunale di Diso (Le), che nel corso dell’ultimo anno ha completato l’intervento per la realizzazione di un centro servizi pubblico, in località Acquaviva, significativamente ribattezzato “il Colosseo”, per le dimensioni incongrue e per la lunga serie di archi a giorno che ne caratterizzano il prospetto. Un vero e proprio “ecomostro” realizzato dalla mano pubblica su una delle più importanti e botanicamente interessanti gravine del litorale orientale salentino. Lo scempio di Polignano Bandiera nera al’Amministrazione Comunale di Polignano a Mare (Ba) che ha recentemente approvato una delibera per “la realizzazione di attrezzature sociali, pubblici esercizi ed impianti sportivi” sulla Lama Monachile, lo scorcio più bello di Polignano a Mare, un’area peraltro tutelata dalle norme previste all’interno del Piano Urbanistico Territoriale. Il progetto prevede persino la realizzazione di un ristorante incassato nella roccia. EMILIA ROMAGNA Le dune violate Bandiera nera alla società “Villa Marina” dell’industriale Giacobazzi, che ha chiesto e ottenuto la concessione per la costruzione di una mega-struttura balneare sulla spiaggia di Marina di Ravenna che, se realizzata, stravolgerebbe l’unico tratto di spiaggia libera sulla quale si sono ancora mantenuti intatti i

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cordoni dunosi. L’area è tutelata paesaggisticamente e ambientalmente e ricade, in parte, in un Sito di Importanza Comunitaria. VENETO Il villaggio sui rifiuti Bandiera nera al Sindaco e l’Assessore all’Urbanistica di Porto Tolle (Ro). Sono i due esponenti dell’amministrazione comunale che hanno promosso e sostenuto la Variante al PRG che prevede la realizzazione, in località Forti, nel mezzo del Delta del Po, di un villaggio turistico collegato alla spiaggia da un “impianto a fune” e collocato su un terrapieno da realizzarsi con l’impiego di quasi due milioni di tonnellate di rifiuti industriali. Il tutto in un’area che la normativa in vigore definisce “inedificabile”. LOMBARDIA Una Milano da depurare Bandiera nera al Sindaco di Milano, Gabriele Albertini. Da oltre quattro anni alla guida del capoluogo lombardo e da un anno Commissario straordinario per i problemi della depurazione della città, ma di depurare i reflui di Milano ancora non se ne parla. E’ l’esempio più clamoroso in Europa di una metropoli che non depura le sue acque, ma purtroppo non è l’unico caso italiano. Per l’apertura di due dei tre cantieri per la costruzione dell’impianto si è dovuto aspettare l’aprile del 2001, ma nel frattempo la magistratura ne ha già bloccato uno. E intanto gli scarichi di Milano finiscono tal quali nel Lambro, confluiscono nel Po e sfociano in Adriatico.

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4. E la nave va: l’illegalità del “popolo dei naviganti”

C’è chi sfreccia con l’acquascooter troppo vicino alla costa, chi butta l’ancora nella zona di massima tutela di un’area protetta marina, chi naviga senza documenti, o chi imbarca troppe persone a bordo. E’ questa la fotografia dell’italico “popolo di naviganti” scattata da Legambiente sui dati forniti dalle Capitanerie di porto, dalla Guardia di finanza e dal Corpo forestale dello Stato. Il numero delle infrazioni accertate, già allarmante nel dossier dello scorso anno (erano state 7.440 nel ‘99), è aumentato nel 2000, superando la cifra da capogiro di 8.500 reati, praticamente 94,4 al giorno nel corso di un’estate. Un quadro sconcertante dei “marinai” italiani, che non sembrano certo brillare per la loro correttezza. Una “debacle” a trecentosessantagradi nei confronti della tutela dell’ambiente marino, del prossimo, ma anche verso se stessi, dal momento che la maggior parte delle infrazioni accertate sono proprio per una mancanza del rispetto delle più elementari norme di sicurezza. Il “popolo dei naviganti” continua a non rispettare il codice della navigazione e le regole della normativa da diporto. Le prime tre regioni della classifica dello scorso anno si confermano in testa anche quest’anno. La Sicilia, raddoppiando il numero dei reati al codice della navigazione (dai 1.073 del ’99 ai 2.206 dello scorso anno), sale al primo posto; seguono il Lazio (1.103) e la Campania (1.014).

LA CLASSIFICA DELL’ILLEGALITÀ DELLA NAVIGAZIONE IN MARE (2000)

Regione Infrazioni accertate

Persone denunciate o arrestate

Sequestri effettuati

1 Sicilia ↑ 2.206 25 63 2 Lazio ↔ 1.103 25 21 3 Campania ↓ 1.014 157 29 4 Veneto ↔ 873 155 41 5 Liguria ↑ 806 21 36 6 Puglia ↓ 703 90 44 7 Toscana ↑ 377 11 0 8 Marche ↔ 353 7 8 9 Sardegna ↑ 315 10 476 10 Emilia Romagna ↑ 284 46 12 11 Calabria ↓ 254 53 18 12 Friuli Venezia Giulia ↑ 143 2 3 13 Abruzzo ↓ 54 1 0 14 Molise ↔ 39 0 1 15 Basilicata ↔ 0 0 0 Totale 8524 603 752

Fonte: elaborazione Legambiente su dati delle forze dell’ordine e Capitanerie di porto

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Esaminando nel dettaglio le principali illegalità riscontrate dalle forze dell’ordine, l’infrazione che guadagna il primo posto della classifica, con il 40% delle infrazioni, è quella per mancanza di dotazioni di sicurezza, come i giubbotti salvagente, i razzi segnalatori, gli autogonfiabili. Al secondo posto, con il 35% delle infrazioni, la navigazione in zone di mare non consentite, troppo sottocosta (entro i 150 metri dagli scogli e 300 metri dalle spiagge) o nelle aree marine protette. Il 15% delle infrazioni riguarda chi non ha pagato la tassa di stazionamento, mentre il 10% è per chi trasporta un numero di persone superiore a quello consentito dalla propria imbarcazione. Per finire, un 5% punisce chi viene sorpreso a guidare senza patente.

I REATI AL CODICE DELLA NAVIGAZIONE E NAUTICA DA DIPORTO (2000) Reato Numero di

infrazioni %

Mancanza di attrezzatura di sicurezza (giubbotto salvagente, razzi segnalatori,

autogonfiabili)

3.410 40%

Navigazione in zona non consentita (sottocosta, aree marine protette)

2.983 35%

Mancato pagamento tassa di stazionamento

852 10%

Altro (p.es. trasporto di persone non consentito, sci nautico non

regolamentare, eccesso di velocità, violazioni nell’attività subacquea)

1.279 15%

Fonte: elaborazione Legambiente su dati delle Capitanerie di porto

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5. Liberiamo gli accessi al mare

Un sentiero crollato e le recinzioni costruite dai privati rendono ormai

impossibile l’accesso alla Spiaggia di Galenzana all’Isola d’Elba. Un cancello di ferro sbarra l’ingresso alla spiaggia della Vedova in pieno Parco regionale del Conero, vicino Ancona. Un biglietto d’ingresso “obbligato” regolamenta l’ingresso all’ex-spiaggia libera delle Scissure vicino Gaeta. Un club privato sbarra la deliziosa spiaggetta di Copanello in Calabria. Sono questi alcuni dei casi più eclatanti di violazione al diritto di accedere liberamente alle spiagge e alle coste. Una disputa che da anni oppone da una parte ambientalisti e comitati di cittadini che rivendicano il diritto alla spiaggia, dall’altra proprietari di residence, di villaggi vacanze, di stabilimenti balneari e di ville con annessa spiaggia privatizzata. Nonostante nel mese di febbraio la Corte di Cassazione, con la sentenza per il caso dello Sbarcatello all’Argentario abbia definitivamente messo fine alla lunghissima querelle dei liberi accessi al mare, dichiarando che “nessuna proprietà privata e per nessun motivo può impedire l’accesso al mare alla collettività se la proprietà stessa è l’unica via per raggiungere una determinata spiaggia” sono ancora molti i casi di “privatizzazone” di fatto che impediscono ai cittadini di usufruire liberamente di spiagge, cale e scogliere, anche se queste appartengano al demanio statale è sono quindi funzionalmente destinate alla pubblica fruibilità.

All’inizio della stagione balneare arriva dunque la denuncia di Legambiente per segnalare alcuni casi esemplari raccolti attraverso le comunicazioni di privati cittadini, dei circoli locali di Legambiente e durante il viaggio di Goletta Verde, la campagna estiva dell’associazione ambientalista. Vediamo nel dettaglio quali sono. LIGURIA 1) Lerici, la spiaggia libera è attigua allo stabilimento "Eco del mare". Il vecchio sentiero che conduceva alla spiaggia libera è franato circa 40 anni fa. L'unico accesso alla spiaggia libera è quello che attraversa lo stabilimento balneare e richiede il pagamento di un biglietto; TOSCANA 2) Cala dei Frati (Portoferraio), L’accesso pubblico è stato chiuso alcuni anni fa con un reticolato dai proprietari di alcune abitazioni. La spiaggia, vicinissima al centro di Portoferraio, non è raggiungibile via terra; 3) Ortano (Rio Marina) l’accesso pubblico alla spiaggia è stato privatizzato da un villaggio turistico. Questa era la spiaggia di Rio nell’Elba (paese collinare) e gli abitanti ci tenevano piccole imbarcazioni per la pesca e il diporto. Fortissima la protesta degli abitanti di Rio nell’Elba che chiedono la libertà di accesso negata dal Residence;

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4) Spiaggia di Galenzana (Campo nell’Elba) a un chilometro dal centro storico di Marina di Campo è ormai praticamente irraggiungibile: il sentiero pubblico di accesso sugli scogli è crollato e il retrospiaggia è chiuso da staccionate e reti innalzati recentemente da privati; 5) Capo d’Arco (Rio Marina), un villaggio per “VIP” e una sbarra impediscono l’accesso all’unica strada che porta alla spiaggia. Questo tratto di costa e la spiaggia sono praticamente sconosciuti agli elbani. MARCHE 6) Ancona, in località la Vedova, lungo il tratto costiero a sud di Ancona all’interno della riserva naturale del Parco regionale del Conero, il sentiero che collegava la strada provinciale alla sottostante battigia è stato sbarrato da un cancello metallico. LAZIO 7) Gaeta, alla spiaggia libera delle Scissure, una delle più suggestive del sud pontino, si accede pagando il biglietto d’ingresso. La “privatizzazione” è stata effettuata dai comproprietari del terreno sovrastante che hanno sbarrato l’unica stradina pedonale di accesso al mare. Un cartello all’ingresso vieta tassativamente di portare sulla spiaggia ombrelloni, sdraia e quanto altro, forniti ovviamente dietro pagamento dai gestori dell’attività illegale; 8) Itri, anche la spiaggia comunale di Itri, tra Sperlonga e Gaeta, è stata “privatizzata” impedendo il libero accesso al mare dei bagnanti. Ai sentieri naturali sono stati sostituiti scalette in cemento, terrazzamenti, lucchetti e cancelli spesso del tutto abusivi, per poter accedere alla spiaggia bisogna pagare la “discesa”. CAMPANIA 9) Vico Equense, uno stabilimento balneare con un muro senza varchi, come invece sarebbe previsto dalla concessione comunale, impedisce l’accesso alla spiaggia libera; 10) la spiaggia "Venione" di Nerano (Massa Lubrense) è diventata un bene esclusivo di poche persone che abitano in un complesso edilizio con tanto di cancello accuratamente sorvegliato da un guardiano; 11) Napoli, Posillipo, lungo quasi tutto il litorale di Posillipo l'accesso all'arenile è di fatto negato. Eppure, la legge demaniale, prevede un tratto di spiaggia libero, vale a dire di tutti, che invece è vietato perché mancano gli accessi. Invece cancelli, cancelletti e catene delle ville private sbarrano l’accesso all’arenile.

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PUGLIA 12) Ostuni, lungo la costa in località “Rosa Marina” l’unica strada vicinale, detta “del Procaccio”, che correva parallela alla fascia demaniale, è stata inglobata nelle lottizzazioni di Rosa Marina, sbarrando l’accesso a 2,5 chilometri di litorale; 13) Manfredonia: lungo la litoranea tra Manfredonia e Margherita di Savoia in località Ippocampo costruzioni abusive, villini e villaggi turistici hanno chiuso l’accesso al mare al pubblico su tre chilometri di litorale. Uno dei due accessi disponibili è stato recentemente cementificato da un privato in procinto di realizzare un albergo. CALABRIA 14) San Nicola Arcella, un privato ha chiuso con un cancello la strada di accesso al mare che conduce sia nella sua proprietà (che comprende anche una torre cinquecentesca!) sia ad una spiaggia, data regolarmente in concessione per organizzare stagionalmente un lido, non raggiungibile altrimenti; 15) Tra Reggio Calabria e Punta Pellaro, una barriera continua di ville e di seconde case realizzata in riva al mare nega l’accesso a più di un chilometro di litorale, e l'unico varco esistente è stato chiuso recentemente dai privati con un cancello. Lo stesso avviene nella località successiva; 16) Copanello (comune di Stalettì), una delle spiaggette più suggestive è irraggiungibile per i bagnanti comuni, da un lato vi è un club privato il cui accesso è riservato ai soli soci, mentre l’altro possibile accesso è stato recintato da privati. 17) Alle porte di Soverato, provenendo da Catanzaro, c'è una spiaggia che è accessibile solo mediante pedaggio e, proseguendo per il paese, gran parte della costa è accessibile solo ai proprietari degli alloggi, costruiti in prossimità della spiaggia. SICILIA 18) San Nicola Trabia e Alcamo Marina, due comuni dove l’abusivismo edilizio costiero tra cancelli, muretti e recinzioni, di fatto preclude la possibilità dei cittadini di accedere liberamente alle spiagge; 19) Mondello, è la spiaggia dei palermitani, il cui accesso a mare è impedito dagli stabilimenti balneari, che lungo i tre chilometri di litorale hanno lasciato aperti solo due varchi, invece di uno ogni 150 metri come prescritto dalla normativa,

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20) Capogallo: siamo in prossimità di Palermo all’interno della riserva marina di Capogallo, la strada comunale che conduce al faro e alla spiaggia è stata chiusa ed il passaggio è gestito da privati dietro pagamento del “pedaggio”.

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6. Cemento in spiaggia

I “pirati” del cemento selvaggio continuano l’assalto alle nostre coste. Dall’abusivismo sulle aree demaniali marittime (monitorato dalle forze dell’ordine e dalle Capitanerie di porto) agli “ecomostri” (molti dei quali saranno oggetto dei blitz della Goletta Verde in nome del “Demolition day”), passando per l’analisi delle colate di cemento che stanno coinvolgendo pesantemente il Salento in Puglia, passiamo in rassegna i numeri e le storie dell’assalto del cemento alle coste del Belpaese. 6.1 La classifica regionale dell’abusivismo costiero

Nella classifica dell’abusivismo edilizio sulle coste le prime quattro posizioni sono occupate da Calabria, Sicilia, Campania e Puglia, regioni caratterizzate da un mare invidiabile e allo stesso tempo dalla presenza pervasiva della criminalità organizzata.

La regione dove si concentra il maggior numero di abusi accertati sul demanio marittimo è la Calabria, che conferma il primato dello scorso anno (652 infrazioni accertate, 652 persone denunciate e 26 sequestri giudiziari operati). Al secondo posto figura la Sicilia (480 reati accertati, 480 persone denunciate e 67 sequestri effettuati), mentre al terzo e al quarto troviamo la Campania (416 infrazioni) e la Puglia (347). LA CLASSIFICA DELL’ABUSIVISMO EDILIZIO NEL DEMANIO (2000)

Regione Infrazioni accertate

Persone denunciate o arrestate

Sequestri effettuati

1 Calabria ↔ 652 652 26 2 Sicilia ↑ 480 480 67 3 Campania ↓ 416 414 206 4 Puglia ↔ 347 271 51 5 Toscana ↑ 190 198 24 6 Liguria ↓ 165 122 12 7 Marche ↑ 126 140 7 8 Sardegna ↓ 112 112 0 9 Lazio ↓ 101 101 4 10 Abruzzo ↑ 77 78 3 11 Emilia Romagna ↔ 72 68 37 12 Veneto ↓ 66 55 2 13 Molise ↔ 15 15 17 14 Friuli Venezia Giulia ↔ 9 9 0 15 Basilicata ↔ 1 1 1 Totale 2829 2716 457

Fonte: elaborazione Legambiente su dati delle forze dell’ordine e Capitanerie di porto

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Per quanto riguarda l’abusivismo edilizio su aree demaniali vale la pena citare i risultati del monitoraggio delle illegalità compiute nelle aree protette marine, effettuato dalle Capitanerie di porto. I numeri non lasciano dubbi: l’abusivismo edilizio non risparmia neanche le aree protette marine. I dati “fotografano” la situazione attuale e forniscono il censimento delle infrazioni compiute, eventualmente anche prima della costituzione delle aree protette marine. La stragrande maggioranza dei reati accertati sono casi di abusi che vanno dalla costruzione non autorizzata di un muro di cinta o di una veranda fino a vere e proprie costruzioni abusive costruite in aree demaniali o all’interno del parco, a seconda che l’abuso sia stato compiuto prima o dopo la costituzione dell’area protetta marina. Sono sicuramente da segnalare le 78 infrazioni accertate nell’area protetta di Capo Rizzuto, le 27 nelle Isole Egadi e le 26 nell’Arcipelago de La Maddalena.

6.2 Demolition day: gli ecomostri

Anche quest'anno Goletta Verde darà vita a numerosi “demolition day”: ville, villaggi turistici, alberghi e lottizzazioni abusive e non, verranno “assaltate” simbolicamente dagli equipaggi del Pietro Micca e della Catholica. Bliz anti-ecomostro verranno organizzati inoltre nelle zone in cui progetti insensati minacciano di distruggere e deturpare cornici paesaggistiche e naturali uniche al mondo.

Una campagna che, oltre a denunciare vecchi e nuovi attacchi al patrimonio paesaggistico del Belpaese, vuole dare un segnale preciso per quanto riguarda la lotta all’abusivismo edilizio. Dopo la demolizione del Fuenti, quelle nell’Oasi del Simeto a Catania, Eboli, la collina del disonore di Pizzo Sella a Palermo, la Valle dei Templi di Agrigento e sul lungomare di Rossano, le ruspe demolitrici, dopo una fase di stallo, hanno riacceso i motori proprio in questi giorni, andando all’attacco dell’hotel Baia delle Ginestre a Porto Malu a pochi chilometri da Teulada, definito “l’alveare”, uno dei simboli del cemento selvaggio in Sardegna. Tuttavia gli altri segnali raccolti in quest’ultimo anno non sono stati incoraggianti, per usare un eufemismo. La così tanto desiderata legge anti-abusivismo, che consentirebbe di rendere più efficace e tempestivo l’intervento dello Stato, non è riuscita a vedere la luce nella legislatura appena terminata. E come se non bastasse la Giunta regionale siciliana di centro-destra si è resa protagonista di una nuova proposta di sanatoria per tutte le costruzioni che si affacciano entro la fascia dei 300 metri dal mare camuffandola come “riordino delle spiagge”. Un’iniziativa che ha scatenato un duro attacco da parte di tutte le associazioni ambientaliste alla Giunta Siciliana e che fortunatamente è rimasta tale.

L'abusivismo, intanto, continua ad “erodere” territorio e paesaggi anche se i numeri dimostrano una flessione del cemento selvaggio: secondo le stime elaborate dal Cresme, nel Duemila sono state immesse sul mercato edilizio del nostro Paese ben 28.938 case abusive (tra nuove costruzioni e trasformazioni

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d’uso illegali) rispetto alle 33.571 del ‘99, per un valore immobiliare di 3.548 miliardi di lire. In un anno è stata ricoperta di cemento una superficie complessiva di 3.941.900 metri quadrati. Il 55% di questa enorme massa di cemento illegale (ovvero 15.829 case abusive per 2.137 miliardi di lire) si concentra, e non è un caso, nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa: Campania, Puglia, Calabria e Sicilia.

Soltanto negli ultimi tre anni, grazie alla martellante campagna di Legambiente contro gli ecomostri, sono stati demoliti almeno mille edifici fuorilegge, una cifra forse superiore alle demolizioni realizzate negli ultimi 20 anni.

Di seguito vengono riassunte venti storie esemplari di pezzi di Belpaese aggrediti dal cemento selvaggio. 6.2.1 Abusivismo edilizio, cemento legale, progetti insensati: 20

storie esemplari di aggressione al Belpaese 1) L’abusivismo edilizio nella Riserva marina di Capo Rizzuto

Ben 57 costruzioni abusive (10 nel comune di Crotone e 47 in quello di Capo Rizzuto) per 48.600 metri cubi, sono state individuate dalla Capitaneria di porto di Crotone, nell’area di demanio costiero della Riserva di Capo Rizzuto e nella fascia di rispetto.

Una morsa di cemento illegale, fatto di moli che si protendono in mare, porticcioli, fabbricati, muri di recinzione, piattaforme in cemento armato, porticati, che stringe e avvolge la stupenda riserva marina di Capo Rizzuto, in provincia di Crotone. Tutte le gare fatte finora per demolire gli immobili sono andate deserte e nessuno, a cominciare dall’Ente gestore della Riserva, ha risposto alla stessa Capitaneria di porto, che aveva dato la propria disponibilità a provvedere agli abbattimenti. E ancora oggi non si registrano novità volte a liberare questi luoghi.

2) Baia di Copanello

Siamo nel Comune di Stalettì, in provincia di Catanzaro, sulla costa ionica della Calabria. In uno scenario di straordinaria bellezza, “convivono” i due estremi, negativi e positivi, di tante aree del Mezzogiorno: l'ecomostro di cemento di Villaggio Lo Pilato, che con i suoi 16mila metri cubi deturpa la baia da oltre vent'anni; la tomba di Cassiodoro, il grande senatore e letterato romano del Vivarium, abbandonata a sé stessa nella più totale incuria e a pochi metri da un “illuminante” caso di scempio urbanistico. Sul Villaggio pende una ordinanza di demolizione del 1987, mai eseguita, e una gara di demolizione andata deserta. Alcuni mesi fa Legambiente ha presentato una denuncia le cui indagini sono ancora in corso.

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3) Capo Rossello Capo Rossello è una baia nel tratto più bello della costa meridionale

della Sicilia, nel comune di Realmonte (Agrigento). E’ un luogo di grande suggestione, reso unico da uno scoglio, chiamato, per via di una antica leggenda, “Do zitu e da zita”, cioè del fidanzato e della fidanzata, che si trova nel mare a trecento metri dalla spiaggia. La spiaggia di Capo Rossello, proprio per la sua straordinaria bellezza, è stata al centro delle mire speculative di un gruppo di politici e di imprenditori, denunciati e condannati dopo la pubblicazione di un dossier di Legambiente Sicilia. Nei primi anni Novanta, utilizzando uno strumento urbanistico scaduto ed in violazione del vincolo paesistico, alcuni assessori del Comune di Realmonte rilasciarono a sé stessi una serie di concessioni edilizie per realizzare palazzine in riva al mare, piantando i piloni nella sabbia e sbancando la costa di pietra bianca che completava il tratto costiero. Nel febbraio ’94, dopo la denuncia di Legambiente, l’intera Giunta Municipale, la commissione edilizia ed alcuni imprenditori furono tratti in arresto, processati e condannati. Si attende ancora, che il Comune demolisca lo scempio, fortunatamente bloccato. 4) Assalto alla baia dei Turchi

Sempre in territorio di Realmonte (Ag), a pochi chilometri da Capo Rossello, in località Baia dei Turchi, si trova un altro monumento alla speculazione edilizia, realizzato illegalmente da un altro gruppo di palazzinari grazie a concessioni edilizie compiacenti. Si tratta del progetto di un albergo sul mare, su quel tratto di costa dove, come dice il nome, un millennio fa sbarcarono gli ottomani. L’intervento di Legambiente, obbligò la Regione ad annullare la concessione ed a bloccare i lavori. Anche in questa baia ancora oggi si attende l’arrivo delle ruspe demolitrici. 5) Villaggio Sindona (Isola di Lampedusa)

Dodici scheletri di cemento armato in stato di completo abbandono che sfregiano una delle aree costiere più belle e interessanti dell’isola: è questo il Villaggio Sindona di Lampedusa. Siamo nel Vallone di Cala Galera, in zona A della Riserva naturale. La costruzione dell’ecomostro isolano risale al 1973 su un’area del demanio comunale, soggetta a vincolo paesaggistico ai sensi della legge 1497/39. Nel 1968 il Comune vende l’area alla società Interfinanza s.p.a. di Michele Sindona, che avrebbe dovuto realizzarci un villaggio turistico. Nel 1986 viene emanato un decreto dell’Assessore Regionale al Territorio e Ambiente per l’apposizione del vincolo di inedificabilità assoluta su un’ampia fascia costiera, che comprende anche l’area di Cala Galera. Nel 1991 viene approvato il piano regionale dei Parchi e delle Riserve che prevede l’istituzione della Riserva di Lampedusa. Nel 1996, l’istituzione della Riserva Naturale Orientata “Isola di Lampedusa” conclude definitivamente il processo di tutela e chiude ogni possibilità di sfruttamento edilizio di queste aree, in cui nel frattempo sono sorti i dodici scheletri. Due anni fa il Sindaco di Lampedusa rigetta la domanda di sanatoria presentata nel 1986 dall’attuale proprietario ai

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sensi della legge regionale 37/85 e firma l’ordinanza di demolizione. Qualche mese fa, anche, il Consiglio comunale si è pronunciato per l’abbattimento. Legambiente si augura che l’ordinanza venga al più presto eseguita senza ulteriori ritardi restituendo Cala Galera al suo paesaggio naturale. 6) Vico Equense

Gli scheletri dell'ecomostro di Alimuri, uno schiaffo all'immagine e al paesaggio naturalistico della penisola sorrentina, dal 1971 presidia maestoso una delle conche più belle del golfo di Napoli. Nel 1964 viene rilasciata la licenza per costruire, sulla spiaggia della conca di Alimuri, un albergo di 100 vani Nel 1967 la licenza viene rinnovata per la costruzione di 50 vani più accessori per un altezza massima di 5 piani. Nel 1971 la Soprintendenza ordina la sospensione dei lavori ma il ministero della Pubblica Istruzione accoglie il ricorso proposto dal titolare della licenza. Nel 1976 la Regione Campania annulla le licenze rilasciate dal Comune perché in contrasto con il Programma di Fabbricazione, ma il Tar Campania nel 1979 ed il Consiglio di Stato nel 1982 annullano gli atti adottati dalla Regione. Nel 1986 i lavori sono sospesi dal Comune di Vico Equense perché si rendono necessari lavori di consolidamento del costone roccioso retrostante. Da allora, lo scheletro dell’albergo diventa un punto di ritrovo per la piccola delinquenza locale e per lo spaccio di stupefacenti, mentre tra i pilastri di cemento armato sorge spontanea una vera e propria discarica. Completare l'ecomostro di Alimuri avrebbe un duplice “effetto”: dare corso all'ennesimo assalto al patrimonio ambientale della penisola sorrentina e rendersi responsabili di un’opera a rischio, costruita alle pendici di un costone roccioso fragile, inserito nella zona rossa, quella a maggior rischio, dell'ultimo piano d’intervento per il dissesto idrogeologico realizzato dall'Autorità di Bacino del Sarno. Basti pensare che i solai del complesso di Alimuri risultano attualmente sfondati da numerosi "fori" del diametro anche superiore al metro provocati da ripetuti crolli di blocchi lapidei staccatisi dal costone. L'amministrazione comunale di Vico Equense ha fatto rientrare l'area tra quelle di maggior pericolosità, censite nel nuovo Piano di Protezione Civile Comunale. Il passaggio successivo è quello di predisporre tutte le procedure amministrative per arrivare all'abbattimento. 7) L’isola dei Ciurli di Fondi

L’isola dei Ciurli, un'area agricola di grande valore paesistico, 21 scheletri in cemento armato illegali aspettano da decenni di essere demoliti. Il Tar di Latina con una sentenza dell’ottobre 1997 ha giudicato l'intero complesso abusivo. Il Comune di Fondi, anziché avviare le procedure per l’acquisizione della lottizzazione al patrimonio pubblico e prevedere un piano di demolizione degli edifici, ha invitato i titolari della lottizzazione a sospendere i lavori e a presentare una proposta di lottizzazione. Il 29 settembre 1998 il Consiglio comunale di Fondi ha approvato il “progetto di lottizzazione convenzionato e relativo schema di convenzione”. Questo è l’ultimo passaggio di una lunga storia iniziata nel 1968 che attraverso provvedimenti di

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sospensione dei lavori, sequestri giudiziari e ordinanze di sanatorie si è trascinata fino ai nostri giorni. Il Circolo Legambiente di Fondi, da tempo in prima linea contro l’ecomostro, ha presentato contro la decisione del Comune un esposto alla Procura della Repubblica di Latina. 8) Gli scheletri di Agrigento

Dopo la demolizione di uno degli edifici di proprietà di un mafioso che, da tempo deturpavano una delle aree archeologiche più importanti e suggestive d’Italia e del mondo, si è aperta agli inizi di quest’anno una nuova stagione di abbattimenti. Il Ministero dei Lavori Pubblici e il comitato istituito presso il provveditorato per le Opere Pubbliche della Sicilia, con il positivo contributo dell’Assessore ai Beni Culturali e Ambientali regionale, Fabio Granata, e dell’allora Sottosegretario ai Lavori Pubblici, Antonio Mangiacavallo, hanno dato il via libera all’abbattimento di altri sei scheletri nella Valle dei Templi, sbloccando una situazione di stallo che si protraeva da tempo. Purtroppo resta ancora tanto da fare per liberare il Parco archeologico dal cemento. Sono circa 600, infatti, le abitazioni realizzate illegalmente nell'area sottoposta a vincolo di inedificabilità assoluta. 9) Simeto: un'oasi a rischio

Complessivamente sono 550 le case abusive da demolire, realizzate all’interno dell’Oasi del Simeto in Provincia di Catania. Ad oggi ne sono state abbattute, dalla precedente amministrazione guidata da Enzo Bianco, circa 60. Una colata di cemento per un totale di 250mila metri cubi, ossia 6 volte la volumetria del Fuenti. Un altro segnale positivo nella vicenda è arrivato dal Tar siciliano, che ha sospeso il Decreto regionale con il quale si riduceva drasticamente la zona B di pre-riserva, determinando di fatto la sanatoria anche delle costruzioni abusive assolutamente incompatibili con i valori naturalistici della riserva. L’Oasi del Simeto, alla foce dell’omonimo fiume, è una delle aree umide di maggior pregio ambientale d’Italia, dove ancora oggi transitano e nidificano rare specie di uccelli migratori. Legambiente chiede che si prosegua, senza ripensamenti, l’opera di abbattimento delle costruzioni illegali e di recupero dell’Oasi. 10) Le ville di Pizzo Sella

Un milione di metri quadri di collina scoscesa e rocciosa sottoposta a vincolo idrogeologico e paesaggistico lottizzati abusivamente, 314 concessioni edilizie rilasciate illegittimamente dal Comune di Palermo in una zona destinata a verde agricolo, l59 unità immobiliari realizzate, il tutto corredato da opere di urbanizzazione primaria, strade, fognature, impianto di illuminazione, ecc.

Si tratta delle ville di Pizzo Sella, a Palermo, un altro ecomostro il cui caso è quasi chiuso: le case abusive costruite sul promontorio palermitano di Pizzo Sella, ribattezzata la collina del disonore, vanno confiscate e il danno ambientale prodotto deve essere risarcito. Lo ha stabilito la sentenza emessa il

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29 gennaio 2000 dal giudice Lorenzo Chiaramonte, che ha condannato dieci tecnici, funzionari comunali e imprenditori, accusati di aver partecipato a vario titolo ad un’enorme speculazione edilizia. Diversi lotti di terreno con rispettiva villetta sono stati "donati" ad alcuni tecnici e funzionari comunali, per facilitare e rendere possibile il rilascio delle concessioni. In particolare, il progettista del complesso edilizio allo stesso tempo faceva parte della commissione edilizia che dava il parere sulle concessioni e naturalmente aveva esercitato la sua influenza affinché i progetti fossero approvati senza problemi. Particolare non trascurabile, infine, le concessioni edilizie figuravano intestate alla sorella del noto boss mafioso Michele Greco il "papa della mafia". Una colossale speculazione immobiliare che nasconde un’imponente operazione di riciclaggio di denaro “sporco” da parte di Cosa Nostra. Dopo la demolizione dei primi scheletri, la sentenza apre adesso una pagina completamente nuova in questa vicenda, premessa indispensabile per la demolizione delle oltre 300 costruzioni illegali che da più di vent'anni deturpano la collina.

11) La “saracinesca” di Bari

Il 29 gennaio scorso la Corte di Cassazione ha reso definitiva la sentenza emessa nel 1999 dal giudice per le indagini preliminari di Bari, Maria Mitola: l’ecomostro di Punta Perotti, 300mila metri cubi di cemento costruiti sul lungomare di Bari, è abusivo, annullando, così la sentenza della Corte d’Appello di Bari che aveva assolto gli imputati perché il fatto non sussisteva e restituito l’ecomostro di Punta Perotti ai proprietari La sentenza, definitiva, prevede l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dei due grattacieli e delle aree di sedime in cui sono stati realizzati e, soprattutto, non lascia margini di equivoco sul futuro della Saracinesca: le costruzioni devono essere abbattute. Spetta ora all’amministrazione comunale dare corso all’ultimo atto di una lunga vertenza, che ancora tarda a venire.

Nel frattempo Legambiente, in collaborazione col Ministero dei beni culturali, ha inserito Punta Perotti tra le aree oggetto di un concorso internazionale di progettazione, al fine di promuovere idee per la riqualificazione del tratto costiero violato dalla “Saracinesca”.

Una vertenza cominciata, grazie anche all’impegno dei Centri di azione giuridica di Legambiente Puglia, subito dopo l’avvio dei cantieri, nei primi anni Novanta, e che è proseguita, tra alti e bassi fino al gennaio scorso: prima la decisione del Gip di Bari, poi la revoca della sentenza in Corte di appello; infine la decisione della Terza sezione penale della Cassazione, che ha posto la parola fine a questa sorta di “telenovela” giudiziaria. Resterà comunque alta, in attesa della demolizione dei due grattacieli, l’attenzione verso le scelte che la Regione Puglia e l’amministrazione comunale di Bari porteranno avanti sotto il profilo urbanistico. Troppo a lungo, infatti, in questa terra, accanto ai fenomeni squisitamente illegali, è prevalsa la logica delle cementificazioni a tutti i costi, anche in barba ai vincoli previsti dalle normative nazionali, legge Galasso in testa.

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12) La “Pietra” di Polignano a Mare Nel febbraio del 1998 è scattata l'operazione “Pietra Igea”, condotta

dagli uomini del Coordinamento provinciale del Corpo forestale di Bari su delega del sostituto procuratore Roberto Rossi contro una lottizzazione abusiva nel Comune di Polignano a Mare. L'area, in località Ripagnola, si estende su quattro ettari, e al momento del blitz già ospitava un volume complessivo di oltre 20.000 metri cubi di cemento: un complesso turistico, con albergo e villini annessi. Diciannove i “corpi di fabbrica” già sequestrati nell'area soggetta a vincolo paesaggistico, sette gli avvisi di garanzia emessi nei confronti dei responsabili di questo scempio. 13) Punta Licosa: la Baia degli scheletri

Oltre 10 ettari devastati, un intero bosco di rarissimi pini d'Aleppo distrutto per fare spazio a 80.000 metri cubi di cemento: è il complesso residenziale Baia Punta Licosa di Montecorice, in provincia di Salerno. Una vicenda lunga oltre vent’anni, nella quale, come capita spesso nel nostro Paese, lo scempio edilizio si fonda anche su concessioni e licenze “regolarmente” rilasciate, che determinano un lunghissimo strascico giudiziario. In questo caso, infatti, la licenza di costruzione fu concessa nel 1976, ma i primi lavori per la realizzazione del villaggio ebbero inizio dieci anni dopo, nell’86, ritardati da una serie di provvedimenti di sospensione dei cantieri e da un sequestro disposto dal pretore di Agropoli. Nel 1989 il sindaco Giuseppe Tarallo emette un provvedimento con il quale annulla la proroga della licenza concessa dalla vecchia amministrazione, dichiara decaduta quella dell’76 e ordina la demolizione delle opere realizzate. La società impugna il provvedimento al Tar che da ragione al sindaco. Si aspetta adesso la decisione del Consiglio di Stato. Nel frattempo la società ricorre ad un lodo arbitrale che condanna il comune a pagare 11 miliardi di lire a titolo di risarcimento danni. L’ufficiale giudiziario ha pignorato dalle casse comunali 250 milioni di lire per pagare le parcelle degli arbitri. Il Comune però non demorde, infatti, il 3 maggio 2001 emana una ordinanza di demolizione delle opere costruite abusivamente entro 90 giorni, sulla base di una sentenza passata in giudicato emessa dal Consiglio di Stato. Risultato giudiziario innescato dal provvedimento emesso nell’agosto del 1986 dal Ministero dei Beni Culturali, che prevedeva la sospensione dei lavori e il ripristino dello stato dei luoghi. 14) Villaggio Coppola: un paese abusivo

Dune mobili e una splendida pineta di proprietà demaniale costituivano la cornice di uno stupendo paesaggio unico nel suo genere: si presentava così il litorale domiziano in provincia di Caserta. Ora su quella dune c'è un “paese privato” di oltre 15.000 abitanti, il Villaggio Coppola “Pinetamare”, un mostro di pietre e cemento lungo quattro chilometri costituito da otto grattacieli identici di dodici piani, con almeno ottanta appartamenti l'uno, 1300 posti auto, hotel e residence, pizzerie e rosticcerie, un porto privato per seicento posti barca, una chiesa e un cinema.

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La lottizzazione risale ai primi anni '60. A realizzarla fu la Società immobiliare Fontana Blu di proprietà dei fratelli Coppola, di Aversa. Nel 1995 scattano i sequestri disposti dal sostituto procuratore Donato Ceglie, inizio di una lunga vicenda giudiziaria che non ha ancora visto la parola fine. Nel frattempo le ruspe (pagate da chi aveva costruito abusivamente) hanno terminato d’abbattere la sopraelevata del Parco Saraceno, 800 metri di asfalto abusivo che collegavano la darsena con le strade principali. Una nuova primavera per il Villaggio Coppola, sul quale pendono ben 165 procedimenti penali, è iniziata. Questa accelerazione è dovuta, in buona parte, all'insediamento dell’allora Commissario Straordinario di Governo per le aree del territorio di Castel Volturno, il Prefetto Mario Ciclosi. Finalmente si passa ad una nuova fase, più incisiva, nella gestione della vicenda: sono nominati due Comitati operativi, nazionale e periferico, per coordinare le diverse attività e gli interventi. Nel frattempo 101 ettari della Pineta Grande, sopravvissuti al degrado, sono stati affidati al Corpo Forestale per un periodo sperimentale di tre anni, in modo che siano garantiti manutenzione e ripristino del verde. Ma il progetto di recupero del Villaggio Coppola non si deve fermare: una torre è già stata abbattuta, ma occorre demolire le altre sette torri abusive e dare corso al progetto di riqualificazione dell’intera area. Gli interventi per il ripristino della legalità in una zona già tanto danneggiata, passa necessariamente attraverso il rigoroso rispetto della legge sull’abusivismo e il divieto assoluto di nuove concessioni. 15) Lo Spalmatoio di Giannutri

Una lunga fila di fatiscenti immobili in cemento armato per circa 11.000 metri cubi, fa bella mostra di sé da oltre 10 anni nell'insenatura dello Spalmatoio a Giannutri, isola che fa parte del Parco nazionale dell'Arcipelago Toscano. Delle costruzioni, iniziate negli anni '80 dalla società Val di Sol e poi interrotte, rimangono oggi alcuni scheletri in cemento e qualche villetta in completo stato di abbandono. Dopo oltre 10 anni di oblio, la nuova società che ha acquisito gli immobili ha chiesto al Consiglio direttivo dell'Ente Parco il nulla-osta per “recuperare” il complesso. L'Ente Parco è in attesa di documentazione aggiuntiva dal Comune del Giglio (nel cui territorio rientra Giannutri) per chiarire una vicenda che presenta diversi lati oscuri. 16) Il complesso residenziale di Fossa Maestra

"A trenta metri dall'incantevole spiaggia di Marina di Carrara, la Società Casa Fiorita 2 sta costruendo un complesso immobiliare denominato Residence Paradiso, formato da tre piccoli gruppi di ville a schiera immersi nel verde": così nel dicembre del '92 veniva pubblicizzato su alcuni giornali la costruzione del complesso residenziale di "Fossa Maestra", in un'area dove il Piano regolatore prevedeva "attrezzature collettive balneari". Il circolo Legambiente di Carrara nell'aprile '93 ha presentato un esposto alla magistratura; nel luglio '95 il pretore ha condannato i responsabili a 20 milioni di multa "per aver realizzato un albergo in contrasto con quanto previsto dal

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Prg e per aver realizzato l'edificio in difformità rispetto alla concessione edilizia rilasciata dal comune". La sentenza è stata successivamente confermata in Cassazione. Sono passati quattro anni ma lo scheletro è ancora in piedi, impedendo ogni possibilità di ripristino e recupero dell'area umida, prevista dal Piano strutturale in vigore. Quest’anno Legambiente Carrara ha organizzato nella stessa spiaggia l’operazione spiagge pulite per chiedere al Comune di abbattere, che continua a fare “orecchie da mercante”. 17) Lo "scheletrone" di Palmaria

Circa 10.000 metri cubi di cemento incombono sul paesaggio del Parco Regionale delle Cinque Terre. Uno scheletro abusivo alto 30 metri nel Comune di Portovenere di cui Legambiente chiede la demolizione e il recupero dell'area, tra le più suggestive di Palmaria.

La vicenda inizia nel 1975 quando il Sindaco di Portovenere rilascia una concessione edilizia per la realizzazione di un albergo e di un residence di 45 appartamenti, con annessi servizi e infrastrutture. Nello stesso anno la Pretura blocca la speculazione, mette sotto sequestro il manufatto e rinvia a giudizio i titolari della società lottizzatrice, il Sindaco e l'impresa. La sentenza è poi confermata anche in appello. Si attende ancora un intervento della Giunta regionale. La Giunta comunale di Portovenere ha votato una delibera che rigetta definitivamente la richiesta di condono presentata dai proprietari. Legambiente attende dal Comune l’ultimo atto di questa vicenda: l’ordinanza di demolizione 18) L’Hotel Castelsandra nel Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diana (Comune di Castellabate – Salerno)

Un nuovo ecomostro si aggiunge all’elenco. Un vasto complesso immobiliare a destinazione alberghiera costruito su di una collina, nel cuore del Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diana. Siamo nel comune di Castellabate in provincia di Salerno dove, a partire dalla meta degli anni ’80, in assenza di qualsivoglia lecito titolo concessorio, in una zona incontaminata soggetta a vincolo di inedificabilità e destinato all’uso civico boschivo, è stato costruito l’Hotel Castelsandra. Il complesso alberghiero è stato confiscato perché ritenuto oggetto di reinvestimento e di riciclaggio di attività illecite e criminali da parte del clan camorristico dei Nuvoletta. Tuttora è in corso, da parte del Commissario straordinario del Governo per la gestione dei beni confiscati alle organizzazioni criminali, il procedimento per individuare la sorte dell’ecomostro di Santa Maria di Castellabate. Ci auguriamo che il suo destino sia l’abbattimento e il ripristino del paesaggio devastato. 19) Le villette abusive di Piscina Rey a Muravera

Dopo una lunga vicenda giudiziaria fatta di appelli e riforme parziali di sentenze, il 9 aprile 1999 la Corte di Cassazione ha confermato l’ordinanza di demolizione per un complesso immobiliare di villette a schiera per migliaia di

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metri cubi costruito in un’area ad uso civico lungo la costa di Muravera. Dopo sette pronunce giurisdizionali non è stato ancora demolito nulla. 20) Il “moncone in cemento armato” a Mondragone

Lungo il lungomare di Mondragone continua a fare bella mostra di se da oltre vent’anni un moncone di cemento armato mai ultimato, un pontile d’attracco che parte dalla terra ferma, attraversa l’intero arenile e si protrae per qualche decina di metri nel mare. Il progetto originario risalente al 1971, prefigurava un pontile di attracco per piccole imbarcazioni, che si sarebbe dovuto addentrare per oltre 256 metri nel mare e consentire così, anche, una gradevole passeggiata panoramica. I lavori partiti agli inizi degli anni ’80 non sono mai stati ultimati, non solo per lungaggini tecnico-burocratiche, ma soprattutto per lo stop decretato il 20 settembre 1990 dall’allora Ministro dei Beni Culturali e Ambientali che ritenne l’opera incompatibile con la vocazione turistico-balneare dell’area. Una colata di cemento senza futuro che continua a sfregiare e deturpare il litorale: dopo la pronuncia del Consiglio comunale per l’abbattimento si attende, auspichiamo al più presto, l’emissione dell’ordinanza di demolizione per liberare il litorale dal moncone di cemento. 6.3 Il “sacco” del Salento

Tra le situazioni a rischio cemento nel nostro Paese vale la pena di

soffermarsi su quanto sta accadendo in questi mesi sulle coste del Salento, la provincia di Lecce, un territorio per buona parte ancora ben conservato sul quale sembrano essersi concentrati considerevoli appetiti speculativi. Complice una sostanziale deregulation urbanistica e un sistema di controlli a maglie larghe, nel Salento si assiste da tempo ad un’inquietante apertura di cantieri che stanno cambiando il profilo costiero di un territorio producendo opere e infrastrutture spesso inutili che rischiano di compromettere le potenzialità turistiche dell’area.

Si tratta inoltre di interventi puntuali, episodici e scollegati da qualsiasi disegno imprenditoriale che sembrano far rivivere il destino di questa regione, da sempre terra di conquista e di predoni. E poco potranno, in questo caso, le torri d’avvistamento che punteggiano i tratti più esposti della costa, contro questi nuovi pirati.

Si sta assistendo insomma ad una sorta di “via albanese allo sviluppo turistico”, un vero e proprio saccheggio della costa operato da un’imprenditoria “stracciona” che non si fa scrupolo di alienare le parti più pregiate del territorio compromettendo le opportunità di futuro per un’area che da tempo contava sul turismo come occasione di sviluppo e di emancipazione.

A rendere il quadro più difficile concorre una normativa regionale confusa che, da una parte emana la legge quadro sulle aree protette L.R. 19/97 e promuove con “Parchi 2000” l’istituzione delle aree individuate (come la costa tra Otranto e S. Maria di Leuca ) e dall’altra si preoccupa, piuttosto, di

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introdurre criteri di deroga agli strumenti urbanistici e ai vincoli di tutela del territorio. Vale la pena ricordare la famigerata legge 3/98, che inaugurò la stagione della deregulation totale sulla pianificazione territoriale e in virtù della quale i Comuni approvarono progetti in deroga ai piani regolatori e alla legge Galasso. Nonostante la legge 3 sia stata revocata dalla Regione, ha superato indenne l’esame della Corte Costituzionale salvando dall’illeggittimità tutti i progetti approvati fino alla data della revoca.

Ecco di seguito un elenco dei casi più significativi di aggressione alla fascia costiera salentina censiti da Legambiente:

Progetto “Quadrifoglio”: si tratta di un insediamento turistico-

alberghiero nel Comune di Gagliano del Capo. 6.500 mq di superficie coperta a ridosso della costa alta a strapiombo sul mare, caratterizzata dalla presenza di grotte sommerse di enorme interesse scientifico.

Gravina del Ciolo (pressi di Leuca): in questo caso si prevede

l’ampliamento progressivo del Gibò, noto locale notturno, struttura già in origine abusiva e poi in parte sanata che ha portato alla costruzione di un vero insediamento che ingloba, tra l’altro, un sito paleontologico e archeologico di riconosciuta importanza quale è la Grotta delle Prazziche, ridotta ad una tavernetta con buona pace della stratigrafia del fondo e degli antichi abbeveratoi.

Comune di Patù: in zona vincolata domina l’ennesimo complesso

alberghiero targato L.R. 3/98. In un’area caratterizzata dalla diffusa presenza di testimonianze archeologiche risalenti alla civiltà messapica, si ergono i due piani del fabbricato con relativo seminterrato, nonostante la Soprintendenza avesse vietato lo sbancamento del terreno. E sempre nella marina di San Gregorio, il Comune di Patù si inventa una improbabile passeggiata panoramica a soli due metri dalla battigia, nell’area dove tuttora sorge l’impianto dell’antico porto messapico, ancora oggetto di ricerche da parte della Facoltà di Beni Culturali dell’Università di Lecce. Ancora una volta l’alibi della pubblica utilità in nome di un improbabile sviluppo turistico permette di devolvere aree di interesse paesaggistico, naturalistico e archeologico all’industria del cemento.

Passeggiata in riva al mare anche a Tricase: l’insensata colata di

cemento sul litorale costiero, già sotto i riflettori di Legambiente, che lo inserisce tra gli ecomostri, rimane uno scempio esemplare realizzato grazie “al preciso intendimento dell’Amministrazione Comunale di perseguire la realizzazione dell’opera pubblica che migliorerebbe di molto la vivibilità di Tricase Porto dotandolo di un ampio lungomare” (delibera C.C. n°18/98). Con la benedizione della L.R. 3/98 si è approvato il progetto in variante agli strumenti urbanistici (e ai vincoli), senza necessità di controllo e di autorizzazione regionale.

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Porto Miggiano (Comune di Santa Cesarea Terme): qui è stato

approvato un progetto di oltre 6000 mc di cemento, sponsorizzato dall’ente locale e attuato ad oltranza nonostante il perentorio diniego della Soprintendenza ai B.A.A.A.S.S. di Bari. Il T.A.R. di Lecce, a seguito del ricorso proposto dal Comune di Santa Cesarea e dalla S.I.S. s.r.l. (la società titolare dell’intervento), ha concesso la sospensiva del provvedimento di diniego, ridando così efficacia al provvedimento di nulla osta paesaggistico sindacale, in barba alla direttiva Habitat della Commissione Europea, che individua la piana di Porto Miggiano come zona S.I.C. Di fatto quindi l’insediamento, che prevede piscine, ristoranti, parcheggi, negozi e quant’altro sulla splendida piana, poggia su un nullaosta paesaggistico del Sindaco di Santa Cesarea Terme, che non ha tenuto in nessun conto la salvaguardia e la tutela del territorio sia sotto l’aspetto paesaggistico sia sotto l’aspetto morfologico. Non può trascurarsi infatti il dato incontrovertibile che il sito è altamente soggetto a cedimenti e frane. In attesa che il TAR di Lecce si pronunci nel merito, le ruspe lavorano indisturbate, cancellando per sempre un paesaggio da cartolina!

Sempre sul litorale adriatico, il Comune di Diso ha pianificato e in

parte realizzato una serie di opere lungo la fascia costiera, particolarmente pesanti dal punto di vista dell’impatto ambientale e paesaggistico. In particolare, il centro servizi pubblico in località Acquaviva, mega opera significativamente ribattezzata “il Colosseo” per le dimensioni incongrue e per la lunga serie di archi a giorno che ne caratterizzano il prospetto. La struttura sorge all’interno di una delle più importanti e botanicamente interessanti gravine del litorale orientale salentino, riconosciuto Sito di Interesse Comunitario per la tutela degli habitat minacciati.

Salve: incantevoli spiagge bianche protette da splendidi cordoni dunali

minacciati dall’adozione, da parte dell’Amministrazione Comunale, di un piano spiagge che prevede servizi, villette, chioschi, viabilità, parcheggi e piantumazione di alberi d’alto fusto, giusto a ridosso delle dune, su un’inestimabile area umida.

Ugento: è un dato la situazione di gravissimo arretramento della linea

di costa prevalentemente attribuibile alle strutture a mare abusive a suo tempo realizzate. Il progetto di approdo turistico appena approvato dal Consiglio Comunale ricalca le linee dell’attuale struttura, accentuandone e amplificandone gli effetti di erosione costiera e di deposito abnorme di sabbia e posidonia morta all’interno dell’ansa portuale, nonché creando un gravissimo deficit di ricambio, con drastico peggioramento della qualità delle acque. Tutto questo in assenza dei pareri di rito e con una relazione di impatto ambientale risibile, in un’area dalle valenze archeologiche (l’intervento insiste interamente sull’area del porto messapico) e naturalistiche notevoli (siamo al limite di un

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Sito di Interesse Comunitario protetto dalle norme dell’U.E.). Nell’area immediatamente a ridosso della costa riprendono intanto quota i progetti di lottizzazione Orex e quelli del Gruppo Andidero, a ridosso dell’area protetta richiesta dall’Amministrazione Comunale e al vaglio della Regione.

Nardò: il Comune ha avviato un procedimento amministrativo, su

istanza della società ICOS s.r.l., per l’approvazione del “progetto definitivo” del porto turistico “Marina di Torre Inserraglio”, da realizzarsi in località “Serra Cicora”. Il progetto prevede un’area totale d’intervento di 72.000 mq; escavazione di un bacino interno di 42.000 mq; un canale di accesso di 55 m. di lunghezza per 35 m. di larghezza; due moli foranei a mare aventi lunghezza l’uno pari a 148 m e l’altro di 15 m; infrastrutture a terra (superficie totale di 27.000 mq, area parcheggio per oltre 300 posti auto, strade di collegamento e due edifici per servizi). La zona prescelta per l’intervento è situata a circa Km. 4 dal SIC IT9150013-Palude del Capitano, a circa Km 1,100 dal SIC IT9150007-Torre Uluzzu, e contigua al SIC IT9150024-Torre Inserraglio. Lo scavo del canale di accesso al porto interesserà un tratto di scogliera caratterizzato da un habitat di interesse Comunitario ai sensi della Direttiva 92/43/CEE. Ad una distanza di circa Km. 2,500 si trova la Zona A – Riserva Integrale dell’Area Marina Protetta di Porto Cesareo. Il porto dovrebbe nascere a soli 20 metri dal Parco Regionale attrezzato di Porto Selvaggio ed ai piedi di un importantissimo sito archeologico, oggetto da oltre tre anni di una campagna di scavi condotti dal Dipartimento di Paleontologia dell'Università di Lecce. Nella stessa zona sorge il Residence "Torre Inserraglio" in piena zona SIC ( la SOVIVA, proprietaria del residence, fa parte insieme alla ICOS, dello stesso gruppo di società che ha presentato il contratto di programma). Nello stabilimento balneare del residence è stato sbancato, senza alcuna autorizzazione, un tratto di scogliera per creare uno scivolo in cemento per barche, senza che sia stata effettuata nessuna verifica di impatto od incidenza ambientale. Il residence, insomma, è un espediente continuo per alterare in modo definitivo la zona.

Gallipoli: il Porto turistico, inserito nel PRGC adottato, prevede 693

posti barca interessando un fronte costiero di circa un km. La carenza di VIA da parte del progetto non costituisce solo un difetto formale, ma incide su un'area estremamente significativa per gli aspetti geologico e paleontologico, botanico e zoologico e archeologico, che verrebbero cancellati senza appello dalle opere in progetto. A rischio anche un particolarissimo ecosistema dalle condizioni di salinità intermedie che permette, caso unico in area urbana nell'intera Regione Puglia, il pascolo e lo stazionamento anche diurno, di un contingente ornitico di pregio naturalistico, comprendente l'Airone bianco, la Garzetta, la Beccaccia di mare e numerosi uccelli di ripa.

Insediamenti Punta Pizzo in area parco (Comune di Gallipoli): volume

edificato oltre 204.000 mc. pari a 200 palazzine da tre piani alte 10 metri,

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ciascuna di circa 100 mq., per una superficie urbanizzata di 928.400 mq., un’area pari a circa 150 campi da calcio regolamentari. E ancora: 9 campi da tennis, 4 piscine 1 anfiteatro e ben due campi da golf a distanza di 3 Km l’uno dall’altro. Questa, in sintesi, la Gallipoli Futura, come è stato battezzato il Contratto di Programma che vorrebbe rifare i connotati alla città, e non sarebbe che l’anticipo di quanto previsto nella Variante al P.R.G. adottata nel 1997, nel quale è stato proposto il mutamento della destinazione urbanistica di ancor più vasta area prospiciente il litorale sud di Gallipoli (dal Lido S. Giovanni a Torre Pizzo), al fine di realizzarvi altri insediamenti turistico - ricettivi, perfino a 30 metri dal mare!

Se da una parte si registra l’avvio della fase istitutiva dell’area protetta, con la iniziale assenza ingiustificata del Comune di Gallipoli, cui ha fatto seguito un sostanziale rifiuto "perché non è compatibile con il Piano Regolatore Comunale adottato, dall'altra l'assenso del CIPE al finanziamento globale degli accordi di programma apre la strada al più che probabile finanziamento da 60 miliardi destinati a Valtur.

La conferenza di servizi per l'acquisizione preventiva dei pareri, ai sensi della l447 sullo "sportello unico" delle imprese, ha messo in luce la precarietà dei fondamenti tecnico-giuridici dei progetti in area parco, cui hanno fatto puntualmente riscontro i pareri negativi della Soprintendenza ai BAAAS. Inoltre, l’assessorato all’ambiente della Regione Puglia, anche su sollecito del Ministero, ha già diffidato più volte il Comune di Gallipoli dall'approvare progetti all'interno delle aree SIC/ZPS in assenza di verifica della Valutazione di Incidenza e di Valutazione di Impatto Ambientale. Preoccupante la richiesta di sospensiva dei vincoli derivanti dal SIC/ZPS per insussistenza delle condizioni di qualità ambientale rilevate dalla UE, presentata al TAR di Lecce dalla Praia del Sud S.r.l.. Come dire, dopo aver distrutto gli habitat premiateci con l'abolizione dei vincoli!!!

E lo stato delle acque…? Il disordine urbanistico territoriale si ripercuote, inevitabilmente, sullo

stato delle acque di balneazione. Il mare salentino viene sottoposto a scarichi di qualsiasi genere che ne compromettono la sua naturale capacità depurativa.

E’ nota la natura “carsica” del sottosuolo salentino ed è facile constatare che i reflui, sebbene vengano scaricati a 200 mt di profondità in falda salata, riemergono in superficie dal mare. Questo succede mentre numerosi nuovi impianti di depurazione consortili, Andrano-Diso-Spongano-Marittima, Gagliano-Patù-Castrignano, Morciano-Salve, costati miliardi alla Regione Puglia con i progetti Puglia 2, sono fermi da anni. Attualmente dei circa 40 impianti di depurazione comunali esistenti sul territorio della Provincia, l’80% scarica fuori dai limiti della Tab.A della legge Merli e di questi, oltre la metà risulta fuori dai limiti della Tab.C.

Tra i casi più significativi quello delle Amministrazioni comunali di Neviano, Scorrano, Castrignano, Cursi, Ruffano e Sogliano Cavour che consentono ancora che i loro rispettivi impianti, peraltro scarsamente efficienti,

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abbiano lo sbocco in voragini naturali, in comunicazione con falde d’acqua dolce.

E’ c’è da scommettere che la situazione si aggraverà quando, per effetto del Dl.gvo 155/99, entro Maggio 2002 gli scarichi dovranno essere portati obbligatoriamente a mare.

L’Assessorato regionale alla Sanità non ha mai avvertito l’esigenza di risolvere le principali cause e contenere la diffusione dei reflui inquinanti nella falda e nel mare, impegnandosi realmente alla messa in funzione dei nuovi impianti di depurazione, fermi da anni, né di verificare l’efficienza della rete organizzativa.

Manca il necessario coordinamento tra le diverse strutture sanitarie di vigilanza periferiche (distretti sanitari, vigilanza urbana, capitanerie di porto, forze dell’ordine…) e quelle preposte ai controlli ambientali (Dipartimenti di prevenzione delle ASL LE1 e LE2, Presidio Multizonale di Prevenzione), che dovrebbe esplicarsi attraverso una pianificazione degli interventi sul territorio.

Assolutamente carente è il controllo delle autorità comunali e sanitarie sul territorio, in primo luogo quelle dei Distretti delle AUSL che confinano con il mare (Tricase, Ugento, Poggiardo, Gallipoli).

A tutto questo si aggiunga che la Regione Puglia non ha ancora attivato l’A.R.P.A (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale).

6.4 L’Orso braccato - Palau

Dal Salento al nord della Sardegna per segnalare un altro caso di cementificazione della costa.

Un Orso sempre più circondato, braccato, soffocato non dai cacciatori ma dal cemento selvaggio. È questo il triste destino di Capo d’Orso e dell’intero tratto di costa circostante, uno dei simboli costieri della Gallura e dell’intera Sardegna. Una testimonianza straordinaria delle capacità artistiche della natura. Il tratto di costa che si snoda dalla Collina di Barage fino al Golfo delle Saline nel comune di Palau, è al centro di diverse lottizzazioni per una volumetria complessiva di 1,5milioni di metri cubi di cemento, in parte già realizzate, che se fossero tutte ultimate sconvolgerebbero completamente il profilo dell’intero tratto costiero. Si tratta di lottizzazioni contemplate all’interno degli strumenti urbanistici approvati dalle amministrazioni comunali di Palau che si sono succedute negli ultimi anni, che non tengono assolutamente conto della valorizzazione e salvaguardia del territorio.

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7. Fronte del porto

In epoca antica, i porti marittimi rappresentavano una risorsa importante per i territori che li ospitavano, essendo il crocevia dei percorsi dei mercanti, depositari di beni e conoscenze di difficile reperibilità in un mondo tutt’altro che globalizzato. Con l’avvento della società contemporanea questo ruolo è andato progressivamente sbiadendo, ma i porti per molte località del litorale italiano continuano a costituire una ricchezza molto importante. Non solo dal punto di vista commerciale, ma anche, e soprattutto, come volano dell’industria che ruota attorno al turismo.

Dietro a questo scenario idilliaco, però, spesso si cela una realtà ben diversa. Una realtà in cui i porti si trasformano nell’ennesima occasione per speculazioni a molti zeri, ai danni delle casse pubbliche, e in una vera e propria aggressione ai danni del patrimonio naturale. Così in alcuni casi decine di porti e porticcioli spuntano lungo la costa a poche decine di chilometri l’uno dall’altro come funghi dopo un temporale, in barba alla logica e a qualsiasi seria valutazione di impatto ambientale. In altri casi, invece, strutture portuali progettate per rispondere a reali o presunte esigenze finiscono impantanate nella palude della burocrazia e dei ritardi incomprensibili, che trasformano vaste porzioni di territorio in un cantiere in pianta stabile. In altri casi ancora, porti realizzati facendo ricorso a stanziamenti dell’erario finiscono inspiegabilmente nelle mani di privati che li gestiscono a proprio piacimento. Il risultato è quasi sempre lo stesso: fiumi di denaro pubblico gettati al vento e nelle tasche degli speculatori, mentre il mare e i litorali agonizzano, insidiati sempre di più dal cemento. E’ quanto avvenuto, per esempio, in Sardegna, dove, in assenza di un adeguato controllo, gli interessi di progettisti e imprese costruttrici hanno spinto verso la realizzazione di infrastrutture sovradimensionate, spesso inadatte al loro ruolo.

Se da un lato il diporto nautico va considerato come una componente significativa dell’economia turistica delle aree costiere, dall’altro è evidente che le proposte di piani per la portualità turistica presentati fino ad oggi sono condizionati da alcune presunte esigenze che tendono ad appesantire più del necessario il livello delle infrastrutture presenti lungo il litorale. E’ opinione comune, infatti, che i porti turistici debbano avere una grande dimensione, pari ad almeno 700-800 posti barca, per ragioni di economia di gestione. Accettare indiscriminatamente questo principio significa ignorare la netta distinzione di funzione tra i porti stanziali, destinati a servire da basi logistiche permanenti, ed i porti di scalo, da utilizzare su base stagionale come semplici punti di tappa durante le crociere estive. I porti del secondo tipo non richiedono, in realtà, né le dimensioni, né l’insieme di servizi che devono essere presenti nei porti stanziali. Deve essere sfatata anche la presunta esigenza di attrezzare l’intero sviluppo costiero del nostro paese con una catena ininterrotta di porti da disporre a distanze di 20-30 miglia, vale a dire ad una normale giornata di navigazione l’uno dall’altro. Già oggi, infatti, è molto elevato il numero delle

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imbarcazioni che dai porti della Liguria, della Toscana e del Lazio migrano per le vacanze verso la Corsica e la Sardegna, coprendo tratte in mare aperto anche nell’ordine del centinaio di miglia, così come è considerato normale nell’Adriatico un trasferimento verso le coste della Dalmazia, di lunghezza poco inferiore.

E’ essenziale, perciò, che dagli sforzi volti ad avviare un processo di sviluppo della nautica nel nostro paese non emerga un approccio simile a quello proposto in passato con il progetto Bonifica per il Ministero della Marina Mercantile (“Sistema di Approdi nel Mezzogiorno”), che accettava in modo acritico i due postulati appena messi in discussione, vale a dire quello della dimensione dei porti, considerati tutti obbligatoriamente di grandi dimensioni, e quello delle distanze tra loro. Un simile modo di procedere si tradurrebbe in un’ulteriore cementificazione della fascia costiera o in uno spreco di risorse pubbliche. Appena ci si allontana dai principali bacini di utenza, infatti, la possibilità di realizzare dei porti turistici utilizzando esclusivamente capitali privati sussiste solo quando alla realizzazione di porti vengono abbinate grosse operazioni immobiliari. Un esempio chiaro in questo senso è rappresentato da quanto accaduto nelle isole Baleari, ed in particolare a Mallorca, dove i numerosissimi porti turistici sono, in realtà, soltanto i “garage da barche” dei complessi turistici realizzati a filo di costa.

Anche se lo sviluppo della nautica può avere delle ripercussioni positive dal punto di vista economico, c’è dunque il rischio concreto che dietro l’obiettivo ufficiale di tale sviluppo possano nascondersi interessi non dichiarati per operazioni immobiliari sul litorale o per la costruzione di porti inutili a carico di tutta la collettività. Innanzitutto è necessario fare chiarezza sui numeri: si è spesso parlato di 800mila barche, ma le dimensioni reali della flotta da diporto italiana si aggirano tra le 80-90mila unità. Il resto è composto da gommoni, lancette, derive e patini, che con i porti non hanno nulla a che fare. La “densità nautica media” non è unque di una barca ogni 70 abitanti, ma di una ogni 700. La domanda di posti barca permanenti potrà dunque registrare una certa crescita ma sarà sempre difficile convincere i diportisti a scegliere come porti di armamento delle località lontane dalla loro residenza, e magari anche difficili da raggiungere.

E invece negli ultimi quattro anni sono stati realizzati nel nostro Paese 36 nuovi porti turistici contro i 44 costruiti nei cinquant’anni precedenti. Sono 35 i progetti (per un totale di 17mila posti barca) che hanno già ottenuto l’autorizzazione, mentre altre 50 richieste (altri 20mila posti barca) attendono il sì definitivo dalle Conferenze di servizi. Il tutto si andrà a sommare ai 110mila posti barca già esistenti.

Senza riportare documenti di fede ambientalista, che potrebbero essere sospettati di faziosità, vale la pena riportare quanto contenuto nel Documento sulla portualità turistica nel Mezzogiorno, curato dall’Ucina, l’organismo della Confindustria che raggruppa gli imprenditori della nautica. A detta dell’Ucina su intere regioni del nostro Paese la disponibilità attuale dei posti barca sarebbe più che sufficiente a soddisfare le esigenze della domanda: è il caso del Lazio,

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dell’Abruzzo e della Puglia. Al contrario, se si legge il Piano porti della Regione Lazio si scopre la volontà di realizzare nel prossimo periodo ben 10mila nuovi posti barca. In Abruzzo, se si portassero in porto, è il caso di dire, i progetti presentati, si conterebbe un approdo ogni 13 chilometri, senza considerare quanto sta accadendo in Puglia dove si prevede di realizzare un porticciolo, quello di Serra Cicora, a due passi da due aree protette, ma soprattutto a tre chilometri da un porto già esistente (porto Cesareo).

Queste valutazioni devono anche tenere in considerazione il tenore di vita che caratterizza le diverse aree della penisola: non a caso la grande maggioranza della flotta è concentrata nel mar Ligure, nell’Alto Tirreno e nell’Alto Adriatico. Lo sviluppo del turismo nautico nel Mezzogiorno dipenderà dunque in misura significativa dalla capacità o meno di attirare una clientela proveniente dall’Italia settentrionale e dal Nord Europa. Ciò implica l’abilità nell’attirare una clientela disposta a lasciare permanentemente la propria imbarcazione nel sud, dato che la maggior parte dei diportisti durante le crociere estive non si allontana più di 150-200 miglia dal porto di armamento.

L’acquisizione di una clientela stanziale può però venire solo a rimorchio di un massiccio sviluppo turistico a terra, oppure da un reale interesse nautico delle coste, come in Grecia, Turchia o in Croazia. Una prospettiva che, sulla scorta di quanto avvenuto in passato, può far venire i brividi: è auspicabile, infatti, che nell’Italia meridionale non si ripeta la tentazione di costruire più abitazioni sulla costa nella speranza di attirare più barche, e la demolizione di Coppola Pinetamare sembra dare un segnale positivo in questo senso. D’altra parte, molti tratti della costa del Mezzogiorno, per quanto dotati di grande potenziale turistico, hanno caratteristiche che le rendono poco attraenti da un punto di vista nautico, a causa soprattutto del carattere lineare e poco articolato delle coste. Si giustifica così un approccio più selettivo, che concentri l’attenzione sulle zone più interessanti come bacini di vacanze nautiche, rifiutando la tesi del porto di grandi dimensioni ogni 20 o 30 miglia lungo il litorale. Abruzzo: nel 2000 bandiera nera per Fossacesia

Il Comune abruzzese di Fossacesia lo scorso anno si è meritato una delle bandiere nere di Legambiente, un riconoscimento in negativo assegnato dall’associazione alle amministrazioni locali che si sono caratterizzate nel corso degli ultimi anni per iniziative di carattere piratesco ai danni della fascia costiera. Il motivo? La realizzazione di un porticciolo turistico per circa 400 imbarcazioni di lunghezza variabile dai sei ai 12 metri, su uno degli ultimi tratti di costa non cementificata del litorale adriatico, in prossimità della foce del fiume Sangro, all’interno dell’istituendo Parco Nazionale della Costa Teatina.

Gli strali congiunti di Legambiente, Wwf e Italia Nostra, che si sono mobilitati per impedire la costruzione del porto, non sono serviti a bloccare i lavori, estesi su una superficie di 100mila metri quadrati ad un centinaio di metri dalla foce del Sangro e a due passi dalla Lecceta di Torino di Sangro. Al contrario, l’ennesimo attentato all’ambiente, in un’area interessata da flussi

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migratori avi faunistici, è stato favorito dall’atteggiamento pilatesco dell’amministrazione regionale, che dopo aver riconosciuto il valore naturalistico della zona, in un secondo momento, per consentire la realizzazione del porto, l’ha declassata. Il tutto per fare spazio ad un porto che oltre ai posti barca prevede bar, ristoranti, minimarket, negozi e stutture di pronto intervento.

Come testimoniato dai dati dell’Ucina, l’unione di cantieri, industrie nautiche e affini che aderisce a Confindustria, la domanda della navigazione da diporto poteva essere soddisfatta dalle vicine strutture di Pescara, Ortona e Vasto, ma grazie al furore cementificatorio di Regione ed enti locali, il litorale abruzzese rischia di raggiungere in un brevissimo arco di tempo una densità di aree portuali da Guinness dei Primati: una ogni 13 chilometri. Nella stessa fascia di litorale, infatti, è già in programma la costruzione di nuovi attracchi, sebbene gli stessi operatori economici del settore abbiano già espresso la propria perplessità rispetto a nuovi progetti. Calabria: il porto “fantasma” di Crotone

Il porto di Crotone si va progressivamente spegnendo. Paradossalmente, proprio ora che Crotone può contare su un porto attrezzato e su chilometri di banchine, non ci sono più imbarcazioni, mentre in passato spesso si creava la fila di quelle costrette ad attendere il proprio turno per poter sbarcare e imbarcare il proprio carico. L’anno scorso è stato registrato un calo del 23,56 per cento del movimento delle merci, con un valore in assoluto pari a meno 73.507 tonnellate. Il maggior calo è stato registrato nelle merci sbarcate, meno 33,37 per cento, mentre quelle imbarcate, i cui volumi però sono inferiori, hanno fatto registrare un incremento del 17,86 per cento. A quest’ultimo risultato ha contribuito la chiusura dello stabilimento Pertusola: circa 50mila tonnellate di ferriti, 4.600 di cemento di rame e 1.550 di calamina calcinata, rappresentano infatti, i residui di lavorazione dello stabilimento metallurgico e costituiscono da sole poco meno dell’80 per cento del totale delle merci imbarcate.

Il crepuscolo del porto di Crotone si stava delineando da almeno un decennio, e si è aggravato ulteriormente negli ultimi due anni, senza che ci fosse alcuna iniziativa per attrarre un volume di traffici più consistente. La soluzione del problema, come spesso accade, sembra dover passare ancora una volta dal cemento. La dotazione delle banchine, infatti, è destinata ad aumentare di 570 metri lineari, facendo del sistema portuale crotonese una struttura di notevoli dimensioni. Il tutto ad un costo complessivo pari a circa 32 miliardi. Altri ingenti investimenti, dunque, come se l’ampliamento di un porto già scarsamente utilizzato bastasse di per sé a rilanciare l’economia locale.

In effetti, a questa eventualità non sembrano credere in molti, tanto che già si punta sul turismo per lo sviluppo del territorio. Così fioriscono nuovi progetti, a cominciare da quello del porto turistico nel bacino sud (porto Vecchio), che prevede la sistemazione dell’intera area con l’apertura verso il quartiere marina e la costruzione di edifici per servizi. In questo contesto si

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inserisce anche la richiesta della società Aeroporto Sant’Anna di utilizzare una parte del bacino nord, banchina di riva e radice dell’attiguo molo foraneo, come approdo turistico riservato ad imbarcazioni di maggiore stazza. Sta prendendo corpo, inoltre, l’ipotesi della realizzazione di un approdo per navi da crociera, inserendo la città negli itinerari turistici.

Tutti questi progetti sembrano preludere all’ulteriore esborso di quattrini pubblici per la realizzazione di opere la cui effettiva utilità resta tutta da dimostrare. Visti gli errori compiuti in passato, sarebbe dunque preferibile cercare di far funzionare una volta per tutte le strutture già realizzate. A meno che non si pensi di rilanciare l’economia locale attraverso la continua apertura di nuovi cantieri fini a se stessi. Campania: pronto il progetto scempio del porto di Anacapri

Un vero e proprio attentato alle bellezze naturalistiche dell'isola azzurra. Dopo un periodo che sembrava ormai sorpassato e non più in uso, quasi come se fosse stato una tempesta che aveva le sue ragioni politiche e sociali, il periodo dei mega progetti purtroppo si riaffaccia sulla scena dell’isola delle sirene. Capri ritorna d’incanto, malauguratamente, a fare i conti con chi, partendo dai politici e finendo alle grosse società d’impresa senza scrupolo alcuno, presenta progetti faraonici per far divenire Capri un blocco di cemento. L’allarme grave non è la “pazzia degli ambientalisti” ma una realtà che ha visto il suo apice nella presentazione di un progetto della società finanziaria immobiliare marittima SO.F.I.M., per la realizzazione di un porto turistico, ad Anacapri precisamente Cala Marmolata, tra Punta Carena e Cala Ventrosa. La società si accredita alla costruzione ed alla gestione del secondo porto turistico di Capri. Uno piano che fa già gridare allo scandalo, con la realizzazione di uno scalo per 283 posti e 30 miliardi di investimento. Un progetto che stravolgerebbe l'intero territorio e che ha visto già la bocciatura del Comune di Anacapri che ha convocato per il prossimo 4 luglio la conferenza dei servizi. Una lunga parete di roccia che partendo dal Belvedere della Migliera sino allo specchio sottostante dovrebbe essere attraversata da ben tre ascensori. E poi ancora: 50mila metri cubi di costa sarebbero divisi tra piazzali portuali, bacini, partendo da Punta Marmolata a circa 30 metri dall'imboccatura della Grotta della Vela. Moli frangiflutti, banchine per gli approdi, una miriade di spazi e supporti per alla zona portuale lungo aree di scogliera con un estensione a mare variabili larghi da 44 a 62 metri. Insomma il cemento di moli ed banchine andranno a coprire uno specchio d'acqua di incomparabile bellezza naturalistica. A tutto questo si deve aggiungere la realizzazione di spazi attrezzati per la manutenzione degli scafi, oltre alle previste realizzazione opere di urbanizzazione primaria. Previsti blocchi per il cantiere nautico, l’officina ma anche la banca, il minimarket, agenzie di viaggio e tutto ciò che serve per far fronte al business ed ai bisogni del turismo legato alla nautica. Questo mastodontico progetto potrebbe essere utilizzato solo da 300 diportisti. La preoccupazione che sta assalendo adesso anche gli

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amministratori di Anacapri è evitare di far scattare il pericoloso silenzio-assenso previsto dalla legge.

Lazio: il caso di Tarquinia

La teoria che sia sufficiente costruire un porto per promuovere lo sviluppo turistico di una zona sembra aver fatto proseliti anche nel Lazio. E’ il caso, almeno, di Tarquinia, culla della civiltà etrusca, dove è in progetto la realizzazione di una struttura portuale per imbarcazioni da diporto all’altezza della foce del fiume Marta. Un vasto terreno, distante circa due chilometri alla foce del fiume, è infatti oggetto da tempo di una tentata variante urbanistica per trasformare 43 ettari di zona agricola ad alto valore paesaggistico in zona portuale, in grado di ospitare più di mille imbarcazioni.

Contro il progetto si sono schierate le principali associazioni ambientaliste, che hanno sottolineato come sulla costa di Tarquinia siano già stati costruiti in passato un milione e mezzo di metri cubi di cemento in seconde case ed alberghi, mentre l’amministrazione comunale si è già attivata per consentire altre operazioni simili nelle lottizzazioni di San Giorgio, del Lido di Tarquinia e di Marina Velca.

Il progetto di Tarquinia non tiene conto, inoltre, dell’estrema vicinanza di un altro porto, progettato alla foce del fiume Fiora e inserito nel Piano dei Porti della Regione Lazio nel contratto d’area Tarquinia-Montalto di Castro. L’aver progettato due strutture portuali alla distanza di circa 10 chilometri l’una dall’altra, per di più insistenti su pianure alluvionali e servite da fiumi con scarso apporto idrico, sembra preludere alla distruzione delle due foci fluviali. Le dimensioni della variante sono anche del tutto incompatibili con l’attività balneare delle spiagge del Lido, a causa dell’inquinamento atmosferico e acustico, e dell’intorbidimento delle acque derivante dalla presenza del porto.

Il sospetto è che il progetto del porto possa in realtà rappresentare uno stratagemma per cambiare la destinazione d’uso dei terreni interessati. Il solo passaggio da zona agricola a zona portuale, infatti, ha determinato un aumento istantaneo del valore dei terreni pari a 40 miliardi di lire. Così, se il progetto della nuova area portuale sarà bocciato, basterà una piccola variante per dare il via alla costruzione di nuove seconde case. Liguria: molti progetti, molti dubbi

Anche sul litorale ligure la situazione della portualità minore presenta alcune situazioni a rischio. Una di queste è quella di Levanto, dove il Piano Regionale della Costa prevede un porto con funzioni di rifugio, a mezza via tra il Tigullio e il Golfo della Spezia. Le caratteristiche della baia di Levanto implicano però dei costi elevatissimi a causa della necessità di fissare la diga su fondali oltre i 10 metri. Dato che il porto sarebbe molto piccolo, con 200-250 posti barca, il solo modo per realizzare l’opera sarebbe quello di abbinarla ad un’operazione immobiliare, contraddicendo così uno dei principi alla base del Piano: niente condomini con la scusa che servono a coprire i costi dei porti. In

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attesa che si chiarisca la fattibilità del porto rifugio, il Comune ha autorizzato la costruzione di un miniporto, realizzato con mezzi di fortuna, che rappresenta una vera e propria baraccopoli nautica.

Procedendo verso Genova, va segnalato il caso di Chiavari-Lavagna, da citare come esempio classico delle cose da non fare, con due porti collocati ai lati della foce del fiume che alimentava le spiagge circostanti. Oggi le spiagge sono in crisi e i due porti si insabbiano. L’unica attenuante è costituita dal fatto che si tratta di opere realizzate da tempo, prima che i problemi dell’equilibrio costiero fossero tenuti nella dovuta attenzione. Per lo meno a Chiavari il Comune ha preso in carico un’opera abbozzata dal Genio Civile Opere Marittime e lo ha trasformato in un porto ben gestito ed accogliente. Tutto sbagliato, invece, a Lavagna: localizzazione, progetto, costruzione (i pontili stanno sprofondando e la diga è in cattive condizioni), e modalità di gestione (la società realizzatrice è fallita clamorosamente). La “fame” di posti barca in questo tratto di litorale è nota, ma si sarebbe potuto provvedere ricorrendo a soluzioni più rispettose del contesto costiero.Sempre nel Tigullio sta montando una grossa polemica sull’ipotesi di sistemazione del porto di Santa Margherita. Le obiezioni, in particolare, si concentrano sulla realizzazione di una diga di sottoflutto a ridosso del castello, che gli autori del progetto ritengono indispensabile per garantire la tranquillità dello specchio d’acqua protetto. L’ammissibilità del progetto dovrà dunque essere valutata alla luce dei risultati della valutazione di impatto ambientale.

Merita attenzione anche il progetto di Noli-Spotorno, che ha messo d’accordo le aspirazioni dei due Comuni proponendo un porto a cavallo tra i loro territori. In quel punto, però, i fondali scendono rapidamente, tanto da limitare drasticamente la larghezza del bacino, nonostante la presenza di una diga posta in più di 10 metri d’acqua. Quattrini pubblici a disposizione non ce ne sono e il valore stimato dei posti d’acqua difficilmente arriverà a bilanciare il costo della costruzione. Ancora una volta, dunque, c’è il rischio concreto che per far quadrare i conti alla realizzazione del porto venga abbinata una speculazione edilizia sulle colline retrostanti.

La situazione non è rosea neppure a Loano. Il porto, infatti, sembra destinato a creare problemi reali alle spiagge di Pietra Ligure. Per di più, i lavori di Loano sono rimasti a metà per molti anni, con risultati paesaggistici facilmente immaginabili. A Diano Marina, invece, è in progetto un ampliamento del porticciolo attuale che, a causa del suo rilevante aggetto dalla linea di costa, rischia di bloccare i flussi di sedimenti che provengono da un torrente e alimentano la spiaggia a ponente del porto. Al termine della spiaggia, già sotto Capo Berta, è possibile “ammirare” uno dei migliori mostri litoranei della Liguria, costituito da un’orrenda roulottopoli sovrastata dai resti incompiuti di un complesso immobiliare abbarbicato alla falesia sovrastante.

Sospiro di sollievo per Imperia, il cui piano regolatore portuale inizialmente prevedeva l’occupazione di tutto il tratto di costa tra Oneglia e Porto Maurizio. Fortunatamente, trattandosi di un porto anche commerciale, la procedura di Via era di competenza nazionale ed il gruppo di valutazione lo ha

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bocciato. La revisione del piano che ne è conseguita ha notevolmente ridotto l’impatto delle opere previste. Va segnalato anche il caso di Sanremo, dove si vorrebbe saldare completamente Portosole con il vecchio porto pubblico, eliminando il tratto di spiaggia che si colloca tra i due bacini. Sebbene la spiaggia non abbia più un ruolo dal punto di vista balneare, dal punto di vista urbanistico è il solo elemento che evita la completa chiusura della città sul lato a mare, e dunque meriterebbe di essere conservata. Puglia: cresce il rischio speculazione

La Regione Puglia, pur priva di un piano organico dei porti e degli approdi turistici, ha inserito una serie di opere portuali in delibere funzionali all’accesso ai fondi strutturali (ex POP, ora POR), che per la provincia di Lecce comprendono, tra le altre, strutture portuali incongrue sia dal punto di vista dell’impatto paesaggistico e ambientale, sia per il loro dimensionamento. Si tratta dei porti di Santa Cesarea Terme, Ugento e Gallipoli.

Nel caso della struttura di Ugento-Torre San Giovanni i posti barca previsti sono ben 733. Il progetto, però, dopo essere stato approvato dal Consiglio Comunale è stato bocciato dalla Regione. Per quanto riguarda Gallipoli, invece, la tipologia di intervento prevede una stazione marittima in grado di ospitare 650 imbarcazioni, affiancata da spazi espositivi, aggregativi e di servizio. Nel complesso banchine e moli avranno un’estensione di 2.500 metri e le opere foranee di mille metri. Il contratto di programma per la realizzazione del porto è in via di completamento, ma il progetto è ancora privo della valutazione di impatto ambientale. Considerato che i porti di Sibari e Leuca sono già sottoutilizzati e ultrastagionali, e che ad essi si aggiungerà quello in programma a Taranto, queste strutture appaiono del tutto slegate da logiche di mercato, ma volte piuttosto ad alimentare il sottobosco delle tangenti e a valorizzare singoli insediamenti privati.

Al di là di questa bozza di pianificazione fioriscono poi, su istanza di ogni singola frazione “balneare”, tutta una serie di altri approdi di cui pullulano le coste salentine. Create quasi sempre come semplici scali d’alaggio con frangiflutti, in seguito queste strutture si trasformano di fatto in porti “abusivi” da condonare. In altri casi, come quello ormai tristemente famoso del porto turistico “Marina di Torre Inserraglio”, da realizzarsi nel Comune di Nardò, in località Serra Cicora, la società che possiede un villaggio turistico propone un porto per cui l’amministrazione comunale indice immediatamente una delle famigerate conferenze di servizi, tuttora in corso, per valorizzare la sua struttura e creare il precedente infrastrutturale per l’urbanizzazione turistica di un tratto di costa incantevole, non a caso tutelato dall’Unione Europea. Il progetto del porto di Serra Cicora prevede un’area totale d’intervento di 72mila metri quadrati, l’escavazione di un bacino interno di 42mila metri quadrati, un canale di accesso di 55 metri di lunghezza per 35 metri di larghezza, due dighe foranee a mare lunghe rispettivamente 148 e 15 metri, oltre ad infrastrutture a terra che comprendono un’area parcheggio per oltre 300 posti auto, strade di collegamento e due edifici per servizi. L’impatto che una struttura simile

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avrebbe sull’ambiente circostante sarebbe senza dubbio devastante, e per questa ragione in molti tra associazioni ambientaliste, politici e privati cittadini si sono attivati per impedirne la realizzazione. Sardegna: troppi soldi gettati a mare

L’amministrazione regionale sarda negli ultimi 20 anni ha erogato finanziamenti a fondo perduto corrispondenti a più di 600 miliardi di lire di oggi per la realizzazione di porti turistici, senza riuscire tuttavia ad innescare un reale processo di sviluppo. Forse in nessuna regione come in questa, infatti, i soldi pubblici sono stati sperperati in decine di interventi inutili nella migliore delle ipotesi, ma spesso dannosi e convenienti solo per chi doveva speculare sulla costa. Un’indagine curata dall’ingegner Bussetti, un esperto del settore nautico e nella progettazione di opere portuali, ha portato a conclusioni sconfortanti: secondo Bussetti, infatti, il costo complessivo di un porto di medie dimensioni (500 posti barca) è di circa 30 miliardi, ovvero 60 milioni a posto barca, assumendo di operare in situazioni estreme, ovvero in litorali aperti e privi di ridossi naturali, anche se il costo medio di costruzione di un posto barca lungo il Tirreno non supera di norma i 50 milioni. Con queste cifre di riferimento, i 600 miliardi spesi in Sardegna avrebbero dovuto produrre qualcosa come 10-13mila posti barca. Se le cose fossero andate davvero così, l’isola italiana avrebbe doppiato la disponibilità offerta dai vicini corsi, sempre invidiati per i loro 5.900 posti barca ben distribuiti lungo tutto il litorale. In realtà, i posti barca messi insieme dal piano di intervento pubblico in Sardegna sono soltanto 2.500 e spesso di qualità discutibile. In pratica, dunque, ogni posto barca pubblico in Sardegna è costato alla Regione 240 milioni, quasi cinque volte il costo medio sul Tirreno. Dopo 15 anni di lavori, tutti i porti avviati sull’isola sono ancora cantieri in costruzione, secondo una pratica diffusa fatta di varianti in corso d’opera, contenziosi fra imprese e amministrazioni locali, e altri giochi di prestigio a spese dell’erario. In effetti, l’estrema frammentazione dei centri d’investimento sembra un meccanismo creato ad arte per mantenere costantemente aperti i canali di erogazione dei fondi pubblici. Un cantiere aperto, infatti, è il modo migliore per far continuare a scorrere i rubinetti dei finanziamenti.

Se da un lato i porti del nord-est dell’isola sono cresciuti al seguito di un’escalation immobiliare simile a quella delle Baleari, dall’altro i centri maggiori sono ancora privi di basi nautiche di buone dimensioni e di buon livello qualitativo. Cagliari, Alghero, Porto Torres e Olbia, infatti, dispongono solo di strutture precarie, di dimensione limitata ed incapaci di attirare una clientela qualificata. In compenso lungo il litorale dell’isola sono stati progettati, e spesso realizzati magari in forma incompiuta, porti disegnati come se dovessero sorgere in Liguria o in Costa Azzurra. Gli esempi di questo tipo non mancano. Alla Maddalena il Comune spinge per un porto con più di mille posti barca e c’è chi pensa di trasformare l’arsenale della Marina in un centro di manutenzione per grandi unità da diporto. Resta però da spiegare come un progetto di questo genere possa conciliarsi con il parco marino.

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A Palau, invece, è prevista un’espansione del porto che finirebbe per eliminare tutta la spiaggia e la pineta ad est dell’abitato. E’ probabile che in questo caso la domanda di ormeggi sia reale, ma la loro realizzazione non può prescindere dalla valutazione dell’impatto delle infrastrutture sull’ambiente. Sulla costa di levante esiste effettivamente un buco di copertura tra Siniscola (La Caletta) e la zona di Arbatax, in quanto Cala Gonone è caratterizzata da dimensioni ridotte e durante la stagione è strapiena, tanto da essere stata ribattezzata Cala Gommone. Un’espansione del porto sul lato nord sarebbe però demenziale dal punto di vista dei costi, mentre a sud i danni alle spiagge recentemente risistemate sarebbero quasi certi. Se non si trova un’alternativa migliore dalle parti di Orosei sarebbe dunque preferibile lasciare le cose come stanno.

Un vero e proprio caso di follia pianificatoria è quello di Porto Corallo. Realizzare un porto da quasi 700 posti barca con grandi piazzali ed altre infrastrutture di supporto, in una zona lontana da qualunque centro abitato, è stata un’operazione priva di qualunque significato. Il sospetto è che il porto sia stato utilizzato come grimaldello per far saltare i vincoli urbanistici della zona, ma la questione merita di essere approfondita. A Villasimius il porto è stato completato, ma stenta a trovare clienti. Evidentemente invece di costruire un porto stanziale da 650 posti sarebbe stato più ragionevole realizzare uno scalo stagionale di minore impatto, ma in tal caso non si sarebbero potuti spendere gli oltre 70 miliardi che si mormora siano stati investiti nella struttura di Villasimius. Che sia questa la ragione che ha fatto propendere per il porto stanziale?

Sulla costa meridionale non emergono casi macroscopici a proposito della portualità turistica. Spicca soltanto l’assenza a Cagliari di una base nautica importante, che dovrebbe diventare uno dei poli portanti dell’ipotetico sistema regionale. Sempre a Cagliari bisogna però ricordare il Porto Canale, opera ciclopica destinata a diventare una sorta di Porto Marghera della chimica, che invece col passare del tempo si è trasformata in un porto di trasbordo per contenitori. Il porto, infatti, è finito, con tanto di gru di banchina e mezzi di piazzale, ma di navi non se ne vede traccia, se si escludono le unità di cabotaggio della Tarros che ne utilizzano solo una piccola porzione. Una considerazione che sicuramente non interessa a chi attorno al Porto Canale è riuscito a spendere centinaia di miliardi di denaro pubblico. A Oristano la situazione è simile: il porto industriale, diventato famoso negli anni Ottanta come unico porto italiano sottratto al monopolio delle compagnie portuali, è una struttura macroscopica che sta manifestando in pieno la sua inutilità.

Tornando alle strutture turistiche, quella di Porto Teulada è stata lasciata a metà, e potrebbe forse essere completata in modo più congruo rispetto a quanto previsto dal progetto iniziale. Il porto è in una zona deserta, col paese a parecchi chilometri nell’entroterra, tanto che sulla diga già completata sono stati rubati rubinetti dell’acqua, lampade, fili elettrici degli impianti e quant’altro potesse servire ai costruttori di casette abusive della zona. Girato l’angolo si giunge a Carloforte, dove il piano regolatore del porto

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commerciale prevede un bacino protetto di dimensioni faraoniche, come se invece dei traghetti locali si dovesse accogliere tutto il traffico del porto di Genova. Il traffico commerciale è stato incredibilmente sopravvalutato, ed è dunque auspicabile che la realizzazione del piano regolatore venga bloccata.

Un altro caso eclatante è quello di Buggerru, una piccola località del Fluminese, sulla costa occidentale della Sardegna, in provincia di Cagliari. Collegata al resto del mondo da poche stradine tortuose, Buggerru non dispone di alberghi, né e facile trovare da dormire nel raggio di una ventina di chilometri. Eppure proprio qui,15 anni fa, la Regione decise di avviare i lavori di realizzazione di un porticciolo turistico. Avrebbe dovuto ospitare 150 barche, ma neppure nei periodi di maggiore affluenza turistica si registra il tutto esaurito. Anzi, chi conosce il porto lo evita: l’entrata, in caso di mare mosso, rappresenta un’ardua impresa anche per i marinai più esperti. Per non parlare dell’uscita: una volta entrati, infatti, non è raro ritrovarsi insabbiati. Nessuno sa come rimediare, ma in attesa di trovare una soluzione si è provveduto ad avviare la pavimentazione delle banchine con quadrotti di granito lucidato. Ovvero, quando l’apparenza conta più della sostanza...

Un altro caso di “faraonismo progettuale” è quello di Bosa, a metà strada tra Oristano e Alghero. L’idea è quella di trasformare l’attuale porto fluviale in una struttura importante e agibile in ogni condizione meteo. Con questo obiettivo, è stata ipotizzata la realizzazione di una di una diga monumentale che dovrebbe sorgere a ridosso di tutta la zona della foce del Temo, con implicazioni paesaggistiche ed economiche del tutto sproporzionate rispetto alla possibile utilità dell’opera. E’ evidente, infatti, che Bosa non può rappresentare altro che un porto di scalo, oltre che una base per i natanti leggeri dei villeggianti. Per il primo scopo sarebbe sufficiente proteggere meglio il porto esterno già esistente, mentre per il secondo non è necessari alcun intervento. Anche nel caso di Bosa, però, la spinta a spendere quattrini pubblici è difficilmente contrastabile.

La febbre dell’espansionismo ha colpito anche sulla costa settentrionale dell’isola. A Stintino, infatti, la situazione è a rischio perché come al solito si ipotizza un’espansione di Porto Mannu di dimensioni e caratteristiche esagerate. Il caso più clamoroso rimane comunque quello di Porto Torres, dove il porto industriale non è mai entrato in servizio e apparentemente non è neppure convertibile in porto turistico. Il piano regolatore portuale prevede, infatti, una grande espansione del vecchio porto commerciale. Sicilia: il cantiere di Capo d’Orlando compie 29 anni

Il cantiere del porto di Capo d’Orlando, aperto da più di un quarto di secolo, è riuscito nella poco invidiabile impresa di coniugare lo spreco di risorse pubbliche (10 i miliardi spesi finora) con il degrado dell’ambiente circostante. I lavori per la costruzione del porto, infatti, hanno determinato lo sconvolgimento di tutto il litorale nella zona di sottoflutto: a Brolo, a Piraino e a Gioiosa Marea intere spiagge sono state spazzate via dalla realizzazione del molo, che ha interrotto il trasporto litoraneo della sabbia e ridisegnato il profilo

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della costa, portando le onde fino a lambire le case e la litoranea. Anche in questo caso la soluzione al problema nelle menti degli amministratori locali prende corpo sotto forma di un raddoppio del progetto esistente. Così, invece di creare le condizioni per ultimare una buona volta i lavori avviati nel 1972, il Comune di Capo d’Orlando vorrebbe ampliare il porto.

Pochi chilometri più in là ecco Sant’Agata di Militello, 13mila abitanti per buona parte dediti alla pesca artigianale. Le barche tirate faticosamente a secco sulle spiagge convinsero l’Amministrazione Comunale della necessità di avviare anche qui la realizzazione di un porticciolo. I lavori sono partiti nel lontano 1979 e non se ne vede ancora la fine. Nel frattempo la realizzazione del molo ha determinato l’erosione della spiaggia. Oggi la spiaggia non c’è più e i pescatori sono costretti a tirare a secco le loro barche direttamente sulla strada. A Giardini Naxos la costruzione di un porticciolo avrebbe dovuto ospitare i diportisti, attirati magari dalla prospettiva di prendere il sole sulla spiaggia con lo sfondo del teatro greco, ma anche qui la costruzione del molo ha cancellato la spiaggia ed ora chi attracca nel porto va a fare il bagno a Taormina, portando i quattrini altrove e lasciandosi alle spalle le case abusive di Giardini. Nelle intenzioni dell’amministrazione provinciale, però, il futuro continua ad essere pieno di approdi.

Anche in Sicilia, dunque, la febbre dei Comuni per i porti è altissima: ognuno reclama il proprio approdo, ogni frazione confida nelle potenzialità di riscatto rappresentate dal cemento di una banchina. Eppure uno studio elaborato dal mensile Nautica qualche anno fa fra i 67 porti e approdi dell’isola ne aveva individuati 14 che avrebbero potuto essere attrezzati da subito con pontili galleggianti all’interno, creando così circa 3.500 posti barca a fronte di un investimento di circa 15 miliardi, meno del costo di realizzazione di un singolo porto. Si tratta dei cosiddetti “porti verdi”, ovvero dell’aumento di capacità dei porti esistenti realizzata attraverso strutture mobili o mediante la razionalizzazione ed il recupero delle vecchie strutture. Una soluzione abbondantemente praticata all’estero, ma ancora lontana da entrare nella mentalità dei nostri amministratori, forse perché il giro d’affari creato dalla costruzione di un porto è troppo ghiotto per essere ignorato. Toscana: sull’isola d’Elba progetti ad alto impatto ambientale

Un progetto che desta grande preoccupazione dal punto di vista ambientale, paesaggistico e idrogeologico è quello che prevede la creazione di un porto turistico nel Comune di Marciana, vicino al confine con Campo dell’Elba e nelle immediate vicinanze del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano. L’area portuale, in base a quanto previsto dal Piano Strutturale del Comune, dovrebbe essere ottenuta scavando il fondo granitico della foce del fosso di Pomonte, fino a spingersi nell’entroterra con un canale. Oltre a non rispondere ad alcuna necessità di carattere economico, questa infrastruttura rappresenterebbe un danno per l’ambiente e non è contenuta né nel Piano dei Porti e degli Approdi Turistici della Regione Toscana né nell’accordo di Programma Quadro per lo sviluppo locale delle Isole Minori, che sottolinea

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come l’obiettivo sia quello di potenziare le strutture esistenti, dotandole di tutti i servizi richiesti dall’utenza. I nuovi progetti per il diportismo nautico, secondo quanto previsto dal Programma Quadro, possono essere presi in considerazione solo se fattibili economicamente e di basso impatto ambientale. Il porto canale di Pomonte, al contrario, sarebbe devastante per l’ambiente e incomprensibile dal punto di vista economico: si tratterebbe, infatti, di investire diversi miliardi per realizzare una piccola struttura adatta solo ad imbarcazioni di dimensioni ridotte e per un esiguo numero di utenti, con una ricaduta occupazionale irrisoria. Del resto, i vicini porti di Campo nell’Elba e di Marciana Marina rappresentano già rifugi sicuri per le piccole imbarcazioni in difficoltà. Lo stesso Piano Strutturale di Marciana riconosce che “poiché l’intervento ricade in area definita a rischio idraulico molto elevato (v. misure di salvaguardia, ai sensi della L. 183/89) per la sua attuabilità ne deve essere riconosciuta l’importanza essenziale e la non delocalizzabilità, a seguito della quale l’intervento deve essere realizzato in condizioni di sicurezza idraulica e purché la sua realizzazione non precluda la possibilità di attenuare o eliminare le cause che determinano le condizioni di rischio, e risulti comunque coerente con la pianificazione di interventi di emergenza di protezione civile, previo parere favorevole del Comitato tecnico di Bacino competente”. Meglio, dunque, avere il coraggio di rinunciare ad un porto irrealizzabile e dannoso per l’ambiente, e puntare invece su strutture leggere (scalo d’alaggio per le piccole imbarcazioni locali, campi boe), che potrebbero più facilmente ottenere il consenso della Regione Toscana e dell’opinione pubblica.

Quello di Pomonte non è, però, l’unico porto canale progettato all’interno del Comune di Marciana. Alla foce del Fosso del Gualdarone, nei pressi di un relitto di una nave romana del II secolo, è prevista infatti la costruzione di un porto turistico e dei servizi connessi, oltre a 47 nuove abitazioni. Il progetto prevede la realizzazione di un molo che, partendo dal territorio del promontorio della Guardiola, dovrebbe chiudere lo specchio d’acqua ad est dell’imboccatura del porto canale. Anche in questo caso, però, il nuovo porto, che in base ai dati del Documento Unico Programmatico Isole Minori dovrebbe ospitare una cinquantina di piccole imbarcazioni, non è contemplato dal Piano dei Porti e degli Approdi Turistici della Regione Toscana. Le previsioni non sembrano tenere conto né dell’altissimo pregio ambientale e paesaggistico dell’area del promontorio della Guardiola, interamente inserita nel Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano, né della grande importanza dei reperti archeologici presenti nella zona, sottoposta a precisi vincoli da parte della Soprintendenza e della Capitaneria di Porto di Portoferraio. Il porto canale alla foce del Fosso del Gualdarone presenterebbe, dunque, costi altissimi se rapportati alla modesta funzione di ricovero di piccole imbarcazioni, anche perché nelle vicinanze sono presenti l’attrezzato porto rifugio di Marciana Marina, nel quale è prevista la prossima realizzazione di un approdo turistico per 350 barche, e un frequentato campo boe. Senza dimenticare che la presenza del porto canale e del molo della Guardiola comprometterebbero la balneazione, vietata nelle aree portuali e nelle

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immediate vicinanze, in tutta la zona orientale della spiaggia di Procchio. Anche in questo caso sarebbe dunque preferibile rinunciare al progetto e optare per soluzioni più leggere, individuando per esempio un’area per il rimessaggio delle imbarcazioni facilmente raggiungibile dalla spiaggia di Procchio.

Come se non bastasse, ha ripreso insistentemente a circolare l’ipotesi, già bocciata in passato, di un porto turistico per oltre 600 barche a Marina di Campo, nel territorio del Comune di Campo nell’Elba. Di fatto il porto dovrebbe essere realizzato distruggendo l’intera costa di Galenzana, spese di una spiaggia selvaggia rimasta finora intatta, che non a caso Legambiente ha piazzato al terzo posto tra quelle più belle della nostra penisola. La Regione Toscana, in ogni caso, non ha incluso questa ipotesi nel Piano dei Porti e degli Approdi Turistici, e prevede solo un piccolo approdo turistico all’interno del porto già esistente. Il Dupim 2000-2006: un mare di porti nelle isole minori

Si chiama Dupim, acronimo che sta per Documento Unico Programmatico Isole Minori, è stato redatto a cura dell’Ancim, l’Associazione Nazionale Comuni Isole Minori, ed è la lettura preferita di tutti coloro che sognano un mare pullulante di strutture portuali. Dalla lettura di questo documento si rileva, infatti, che quasi tutte le piccole isole del nostro paese dovrebbero essere dotate di almeno un approdo turistico.

Nella prima prima parte di analisi del fenomeno, le considerazioni del Dupim sono del tutto condivisibili. E’ vero, cioè, che si assiste ad un progressivo spopolamento delle isole minori italiane e che per controbilanciare questa tendenza si devono opporre una serie di misure che puntino a valorizzare le risorse tipiche di queste aree, quali il turismo, l’agricoltura e la pesca. Le misure da intraprendere dovranno perciò favorire processi di “destagionalizzazione” dei flussi turistici, di qualificazione in questo senso degli operatori economici locali, di individuazione di interventi che aumentino la qualità dei servizi per i residenti, e di valorizzazione delle risorse locali.

Le misure concrete individuate dal Dupim per mettere in atto questo progetto sembrano però contraddire clamorosamente le premesse iniziali. In primo luogo va sottolineato un deficit insito nel metodo che ha portato alla definizione del documento. L’Ancim, che pure è firmataria del documento in questione, si è limitata infatti a registrare le esigenze dei singoli Comuni, ma non ha provveduto a fare uno sforzo per inserire in un ambito più generale le richieste da essi avanzate. Le singole iniziative vanno approfondite una ad una e richiedono una valutazione più puntuale che il Ministero dell’Ambiente dovrebbe riservarsi di effettuare a cura di propri tecnici.

In ogni caso balza agli occhi uno squilibrio evidente a favore degli approdi turistici. Uno squilibrio che suscita più di una perplessità perché se da un lato è opportuno mettere a punto misure di “destagionalizzazione”, dall’altro è evidente che infrastrutture come i porti turistici rappresentano un forte elemento di “stagionalizzazione” dei flussi del turismo, tanto più che non viene neppure presa in considerazione l’ipotesi di porti di transito. Nel

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complesso gli stanziamenti necessari per la realizzazione o l’ampliamento dei porti delle isole minori ammontano a più di mille miliardi, 600 per le strutture di tipo turistico e 400 per quelle commerciali e da pesca. Un vero e proprio inno alla cementificazione, che rappresenta il leit-motiv del documento curato dall’Ancim, condito da alcune stravaganze, come la realizzazione di un ippodromo a Sant’Antioco o il campo da gol da 27 buche a Campo nell’Elba. Brillano invece per l’esiguità dei fondi previsti a loro favore, l’attività di formazione (23 miliardi) e gli interventi sociali (56 miliardi, 40 dei quali per una struttura sanitaria alla Maddalena). Davvero un modo bizzarro di bloccare l’esodo dei residenti, tanto più che nel documento non è contenuto alcun riferimento a progetti per la realizzazione di marchi o per il varo di altri strumenti di qualificazione dei prodotti e delle risorse delle isole minori italiane.

Una politica volta a promuovere il turismo di qualità per avere successo deve creare prima di tutto gli strumenti per la qualificazione e la valorizzazione delle risorse locali, ma gli estensori del Dupim sembrano non essersene accorti. O forse si illudono che basterà qualche colata di cemento per trattenere gli abitanti sulle isole e attirare frotte di turisti.

Dupim (Documento Unico Programmatico Isole Minori) 2000-2006 Interventi per la portualita’ turistica

Descrizione sintetica dei progetti

Costo previsto

ARCIPELAGO TOSCANO COMUNE DI CAMPO NELL’ELBA

Porto di Marina di Campo: costruzione del molo di sottoflutto 3.500.000.000 Realizzazione del Porto turistico (750 imbarcazioni ) 40.000.000.000 COMUNE DI CAPRAIA Isola di Capraia: Sistemazione area portuale commerciale e realizzazione del porto turistico 8.500.000.000 COMUNE DI ISOLA DEL GIGLIO Giglio Porto: ristrutturazioni porti e approdi turistici 10.500.000.000 COMUNE DI MARCIANA Patresi: ripristino del molo e dello scalo di alaggio S. Andrea, Chiessi: realizzazione dello scalo di alaggio

700.000.000

Procchio: porto canale foce fosso Gualderone ( 50 barche ) Pomonte: porto canale alla foce del fosso di Pomonte

7.300.000.000

COMUNE DI MARCIANA MARINA Approdo turistico di Marciana Marina ( 350 imbarcazioni ) 12.500.000.000 COMUNE DI PORTO AZZURRO Approdo turistico di Porto Azzurro ( 400 imbarcazioni ) 8.000.000.000 COMUNE DI PORTOFERRAIO Ristrutturazione della Rada di Portoferraio (600 imbarcazioni) 30.000.000.000 Approdo turistico di Magazzini (150 imbarcazioni) 2.500.000.000 Approdo turistico del Grigolo (150 imbarcazioni) 2.700.000.000 COMUNE DI RIO MARINA Approdo turistico di Rio Marina (350 imbarcazioni) 4.500.000.000 Approdo turistico di Cavo (350 imbarcazioni) 14.500.000.000

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ISOLE PARTENOPEE COMUNE DI ANACAPRI Strutture per la nautica da diporto 5.400.000.000 COMUNE DI CAPRI Completamento del Porto turistico 13.500.000.000 Porto turistico: Separazione funzioni commerciale e turistica 33.500.000.000 COMUNE DI FORIO Completamento del porto turistico-peschereccio 11.900.000.000 COMUNE DI ISCHIA Ischia Ponte: realizzazione del porto turistico 28.000.000.000 COMUNE DI PROCIDA M. Chiaiolella: ampliamento del porto turistico 18.000.000.000 M. Grande: completamento funzionale del porto turistico 7.000.000.000 ISOLE SARDE COMUNE DI CALASETTA Completamento del porto turistico (500 imbarcazioni) 15.000.000.000 COMUNE DI CARLOFORTE Sistemazione Darsena Nord e miglioramento Canale Saline 13.000.000.000 COMUNE DI S.ANTIOCO Approdi turistici in località Calalunga e Maladroxia 60.000.000.000

ISOLE SICILIANE COMUNE DI FAVIGNANA Marettimo e Levanzo: realizzazione porti turistico-commerciali 21.000.000.000 COMUNE DI LENI Molo Lazzaro: Completamento struttura e infrastrutture nautico 5.000.000.000 COMUNE DI LIPARI Marina Corta: ristrutturazione ampliamento struttura portuale 30.700.000.000 Porto Pignattaro: ristrutt. e ampliamento struttura portuale 29.000.000.000 Approdo di Ponticello: Opere di funzionalizzazione e arredo 1.500.000.000 loc. Acquacalda: arredo strutture e realizzazione porto turistico 10.000.000.000 Vulcano: arredo, funzionalizzazione e adeguamento approdi 12.000.000.000 Scari, Ficogrande, Ginostra: arredo strutture; difesa della costa 15.000.000.000 Filicudi –funzion. e arredo Filicudi Pecorini e di Filicudi Porto 10.000.000.000 Alicudi –funzion. e arredo Alicudi Porto e difesa costiera 2.000.000.000 Panarea – funzion. e arredo approdo S.Pietro e Iditella 12.000.000.000 COMUNE DI MALFA Scalo Galera – Opere di miglioramento fruizione mare 4.530.000.000 COMUNE DI PANTELLERIA Completamento porto turistico di Pantelleria 110.000.000.000 COMUNE DI S. MARINA SALINA Lavori di completamento della Darsena 2.100.000.000 COMUNE DI USTICA Realizzazione della diga foranea di Levante 9.827.000.000 Realizzazione di uno scalo di alaggio 500.000.000 TOTALE 625.657.000.000

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8. L’erosione della costa

Un metro di spiaggia in meno ogni anno. E’ questo il ritmo implacabile con cui procede l’erosione di gran parte dei circa 7.500 chilometri di coste della nostra penisola. Un fenomeno che assume ormai dimensioni drammatiche, determinato da un utilizzo delle aree costiere da parte dell’uomo spesso eccessivo e traumatico. La destabilizzazione dell’ambiente costiero è il frutto bacato di diversi fattori, a partire dall’intensa antropizzazione a fini turistici e industriali, e dall’impoverimento dell’apporto di materiale solido dei fiumi al mare, determinato dalla massiccia estrazione di materiale dagli alvei e dagli interventi di regimazione dei corsi d’acqua, che in molti casi si sono rivelati inutili o dannosi.

Normalmente, infatti, l’azione continua delle onde sulla riva viene bilanciata dalla formazione di nuove spiagge e banchi di sabbia, a seguito dei sedimenti trasportati dai fiumi e quindi deposti dal mare sulla costa, oppure dall’interazione di onde e vento con gli ambienti dunali e rocciosi. Questo processo naturale di reintegrazione viene però notevolmente ostacolato dalle attività umane. Quando si costruisce una diga lungo un fiume, per esempio, i sedimenti un tempo trasportati fino al mare vengono trattenuti nel bacino artificiale. Sul banco degli imputati, dunque, la cementificazione dissennata del territorio che in molti tratti ha interrotto, o ridotto in misura drastica, il processo naturale di ripascimento delle spiagge. L’attacco alle coste procede simultaneamente dalla terra ferma e dal mare: all’effetto delle infrastrutture realizzate sui fiumi e delle escavazioni condotte nei loro letti, infatti, si somma l’impatto di porti e porticcioli protesi sull’acqua, che modificando il gioco delle correnti marine hanno privato delle loro spiagge zone tradizionalmente ricche di sabbia. Fanno eccezione alcuni tratti in ripascimento, il più delle volte a scapito di altri tratti di litorale, come conseguenza della realizzazione di opere artificiali che hanno modificato la dinamica dei sedimenti.

Questa vera e propria aggressione ai danni dei litorali italiani si traduce in una costante riduzione delle aree umide della costa e delle dune sabbiose. Così dei circa 700mila ettari di paludi costiere esistenti in Italia all’inizio del XX secolo, nel 1972 ne restavano 192mila e nel 1994 meno di 100mila. Stesso discorso sul fronte dei sistemi dunari, la cui perdita è stata altissima in tutti gli Stati che si affacciano sul Mediterraneo, Italia in testa: quattro quinti delle dune della penisola, infatti, nel periodo compreso tra il 1900 e il 1990 sono state perdute. L’erosione delle coste interessa tutte le regioni bagnate dal mare, ma la situazione risulta essere particolarmente grave in Calabria e Campania, dove la maggioranza della fascia costiera è caratterizzata da un rischio molto elevato. Arenili che in passato godevano di notevoli spazi in profondità per stabilimenti balneari e file di ombrelloni, infatti, a distanza di pochi decenni sono ridotti a strette lingue di sabbia.

Di fronte a questo quadro a tinte fosche, le istituzioni, come troppo spesso accade, invece di svolgere il ruolo di vigilanza di loro competenza, in

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molti casi hanno finito per avallare facili speculazioni, contribuendo alla distruzione di un patrimonio naturale di valore inestimabile. Nonostante la gravità della situazione, si continua così ad assistere alla realizzazione di interventi di regimazione idraulica in piena contraddizione con le indicazioni prodotte dalle stesse amministrazioni pubbliche. E’ evidente, in ogni caso, che una gestione sostenibile delle aree costiere e dei processi di degradazione della costa travalica i confini comunali ed investe i bacini idrografici e settori della costa anche lontani da quelli in cui il fenomeno si manifesta. Fino ad oggi, però, a fronte della complessità del fenomeno si è intervenuti solo parzialmente e settorialmente, a causa della stratificazione e della sovrapposizione non coordinata di norme che hanno portato nel tempo ad una frammentazione delle competenze. Abruzzo

I tratti di costa abruzzese minacciati dal rischio di erosione più elevato sono quelli all’altezza del settore centrale e delle foci dei fiumi. Il litorale è costituito da brevi tratti di costa alta, ubicati nella parte più meridionale, e da un centinaio di chilometri di spiagge, in molti casi letteralmente assediate da insediamenti turistici, centri urbani, vie di comunicazione di interesse nazionale, e impianti industriali, realizzati a ridosso della battigia. Per questa ragione, il 25 per cento del litorale è a rischio molto elevato e un altro quarto a rischio elevato.

Basilicata

Gli insediamenti turistici, realizzati sfruttando tutto lo spazio disponibile, rappresentano il fattore più grave all’origine dell’erosione del tratto tirrenico del litorale della Basilicata. Il 92 per cento della costa situata su questo versante risulta così essere a rischio elevato. Si tratta, in ogni caso, di una piccola porzione di territorio. La costa tirrenica della regione, estesa per 17 chilometri, si compone infatti soprattutto di coste alte, mentre le spiagge occupano solo due settori, a nord e a sud, per circa quattro chilometri. Radicalmente diversa la situazione del settore ionico, costituito quasi esclusivamente da spiagge (36 chilometri su 38), alimentate dai numerosi fiumi che scorrono lungo la “Fossa bradanica”. I tratti a rischio elevato e molto elevato sono pari a circa 24 chilometri, con un’erosione che provoca un arretramento della linea di riva di oltre cinque metri all’anno. Tale fenomeno è dovuto all’impoverimento degli apporti solidi per i pesanti interventi antropici sui bacini fluviali e all’asporto di sedimenti che dalle spiagge, attraverso canyon sottomarini, raggiungono fondali molto profondi.

Calabria

Il litorale della Calabria che si affaccia sul mare Tirreno si estende per 246 chilometri, 188 dei quali di costa bassa, ed è in condizioni piuttosto precarie. Il 64 per cento delle spiagge, infatti, è a rischio molto elevato di erosione per la realizzazione, a breve distanza dalla battigia, di strutture

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connesse ad insediamenti urbani. Lungo il versante ionico, costituito da 56 chilometri di costa alta e da 384 di spiagge, il fenomeno erosivo risulta essere meno diffuso e più recente: i tratti a rischio molto elevato, pari al 44 per cento dei litorali sabbiosi, sono concentrati nella zona più meridionale, dove le spiagge sono fortemente irrigidite dagli insediamenti urbani e dalle vie di comunicazione, mentre nella zona settentrionale la situazione è più tranquilla. In questa area, caratterizzata da una scarsa diffusione di insediamenti urbani, il 30 per cento delle spiagge è, infatti a rischio basso. Emilia Romagna

La riduzione del trasporto solido fluviale e dei fenomeni di subsidenza si sono sommati lungo il litorale romagnolo agli effetti provocati da manomissioni profonde dell’assetto naturale della costa. Ben 77 chilometri dei 130 di litorale sono difesi da opere di vario tipo, e la Regione ha stanziato di recente quasi 20 miliardi per finanziare il piano di interventi elaborato dalle province di Ferrara e Ravenna allo scopo di combattere l’arretramento delle spiagge, che in alcuni punti procede ad un ritmo preoccupante. Il 13 per cento dei litorali è considerato a rischio molto elevato e i tratti che suscitano più timori sono quelli in corrispondenza delle Valli di Comacchio, fra i fiumi Savio e Rubicone e a nord del fiume Conca. Nel complesso, sono 32 i chilometri di costa interessati dall’arretramento, ma d’altro canto altri 98 chilometri sono stabili o, addirittura, in accrescimento. All’erosione contribuisce anche l’estrazione del gas al largo dell’Adriatico, che interessa diversi punti davanti alle coste romagnole. Friuli Venezia Giulia

Il rischio erosione in Friuli Venezia Giulia riguarda principalmente la fascia costiera che si estende dai litorali lagunari al lembo più occidentale della regione. Lungo tutto il litorale della regione, costituito da una quindicina di chilometri a costa alta, nel settore orientale, e da 90 chilometri di costa bassa e sabbiosa, non sono comunque presenti tratti a rischio molto elevato. La modesta intensità di rischio, che a est delle lagune di Marano e Grado è addirittura nullo o basso, è dovuta al fatto che i due maggiori centri urbano-portuali, vale a dire Trieste-Muggia e Monfalcone, sono protetti rispetto alle mareggiate più violente, mentre i centri turistici possono contare sull’ampiezza della spiaggia, è il caso di Lignano, o su opere quali frangiflutti e dighe, come avviene a Grado. I lidi delle lagune, inoltre, sono pressoché disabitati e comunque dissipativi nei confronti dell’energia del moto ondoso grazie alla presenza di estesi banchi sabbiosi sui fondali antistanti. Lazio

Nel Lazio i fenomeni erosivi e l’arretramento degli arenili si presentano con caratteristiche generalizzate su tutto il litorale, anche se con forme e connotati diversificati. Si tratta di una situazione che, oltre a compromettere grandi valori ambientali, mette a rischio porzioni rilevanti dell’economia

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costiera, che nel turismo balneare ha uno dei suoi punti di forza, e talvolta pone dei problemi anche per la salvaguardia delle infrastrutture e degli abitati. L’estensione del litorale è di circa 290 chilometri, suddivisi in 70 chilometri di coste rocciose e in 220 di spiagge. Per quanto riguarda quest’ultime, il 18 per cento è minacciato da un rischio molto elevato e il 42 per cento da un rischio elevato. Tra i tratti più esposti, i settori costieri a cavallo della foce del Tevere: nel tratto Fregene-Fiumicino l’erosione interessa il 76 per cento della costa, e tra Fiumicino e Ostia questa percentuale sale all’87 per cento. Punte significative si registrano anche tra Nettuno e Sabaudia, e tra San Felice Circeo e Sperlonga. Il fenomeno erosivo e l’arretramento dell’ arenile si manifesta anche su tutta la costa del Comune di Ladispoli. Particolarmente critica è la situazione che riguarda il tratto antistante Torre Flavia, sottoposta alla salvaguardia dei Beni Culturali, dove i problemi derivanti dal fenomeno di erosione della costa hanno raggiunto un livello tale che richiede interventi urgenti per contenere il fenomeno. Le cause di questa situazione e del suo progressivo aggravamento in tutto il litorale laziale spaziano dalle opere che determinano erosioni localizzate, strutture e moli portuali prima di tutto, alla edificazione incontrollata di ampie zone costiere. La causa decisiva, tuttavia, va individuata nella drastica diminuzione degli apporti solidi fluviali, quelli del Tevere in testa, dovuta alle escavazioni in alveo, alle dighe, e agli stessi interventi di controllo dei fenomeni erosivi dell’entroterra. Il deficit di ripascimento, nel complesso dello sviluppo costiero laziale, oscilla così tra un minimo di 600mila metri cubi all’anno ed un massimo di oltre un milione di metri cubi. Liguria

In Liguria su un totale di 211 chilometri di spiagge, sono 32 quelli a rischio molto elevato, concentrati in misura prevalente a sud-ovest di Capo Noli e lungo le spiagge del settore appenninico (Lavagna e Marinella). L’alternanza di scogliere e piccole spiagge comporta una grande ricchezza e varietà sia paesaggistica che naturalistica. Purtroppo, però, questo patrimonio è stato pesantemente influenzato e modificato dall’attività umana, tanto che oggi alcuni problemi risultano strettamente legati alla presenza di infrastrutture e alle modifiche ambientali del passato: molte delle spiagge liguri, infatti, sono soggette ad erosione a causa della modifica della linea di costa, della diminuzione degli apporti solidi causata dallo stravolgimento degli alvei fluviali, della artificialità delle spiagge stesse, talvolta costruite per scopi turistici. L’instabilità delle falesie richiede continuamente nuovi interventi a causa delle opere, viarie e insediative, da cui sono state colonizzate. I fenomeni erosivi sono dunque direttamente legati ai processi di intensa urbanizzazione che hanno caratterizzato gli ultimi decenni, tanto più che oggi oltre l’80 per cento della popolazione vive in permanenza in prossimità del litorale. Lungo le scogliere della regione sono stati rilevati numerosi fenomeni di instabilità, il più delle volte generati dall’azione erosiva del moto ondoso. Una delle vicende più note è quella del crollo quasi totale della Grotta di Byron, che costituisce il

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logico riferimento di tutti gli aspetti culturali e turistici del Comune di Portovenere. Marche

Nonostante la presenza di opere di difesa di vario tipo, in particolare quelle realizzate per proteggere la Strada Statale 16 e la linea ferroviaria, la situazione lungo il litorale marchigiano continua a destare preoccupazione.Con la sola esclusione dei promontori di Gabicce e Ancona, la fascia litoranea, ampia 200 metri a ridosso delle spiagge, presenta infatti un tasso di urbanizzazione media pari a circa il 45 per cento. I 145 chilometri di spiagge della regione presentano dunque alcune situazioni dove il rischio di erosione è molto elevato. E’ il caso, per esempio, delle zone a nord delle foci dei fiumi Tronto, Potenza, Esino e Cesano e, nel complesso, l’intensità più grave del fenomeno interessa il 14 per cento delle coste basse. Sardegna

L’assenza di insediamenti e di vie di comunicazione lungo la costa ha reso quasi immune al fenomeno erosivo il versante occidentale della Sardegna. Le spiagge nell’isola coprono solo 457 dei quasi duemila chilometri di costa, e quelli a rischio molto elevato sono solo sette sulla costa orientale e nove sulla costa meridionale, mentre le spiagge del versante occidentale, malgrado siano battute spesso dal maestrale, restano quasi immuni dai processi erosivi per l’assenza d’insediamenti e di vie di comunicazioni lungo la costa. Sicilia

Il litorale siciliano si estende per un totale di 998 chilometri, isole escluse, ed è caratterizzato dall’alternanza di coste alte, pari a 375 chilometri, e di spiagge sia sabbiose che ciottolose, che raggiungono i 621 chilometri di lunghezza. Lungo la costa settentrionale i tratti a rischio molto elevato si estendono per 73 chilometri e sono localizzati soprattutto nel settore centrale e in quello orientale. Sul versante a est e a sud dell’isola, invece, i chilometri a rischio molto elevato sono rispettivamente 32 e 29. Toscana

Dei 190 chilometri di spiagge della Toscana, circa la metà è soggetta a erosione. I tratti in cui il rischio è molto elevato sono pari al 17 per cento e si concentrano soprattutto sulle ali deltizie dei fiumi Arno e Ombrone, e in corrispondenza delle foci dei fiumi minori. Un caso esemplare è quello rappresentato dalla spiaggia dell’Uccellina a Marina di Alberese, nel Parco Regionale della Maremma, dove il mare sta erodendo la costa penetrando nella pineta: in questo stesso punto, dove i gli alberi cadono sotto l’azione delle onde, fino a pochi decenni fa c’erano alcune centinaia di metri di terreno in più. Nel bacino superiore dell’Ombrone si continua infatti ad intervenire negli alvei e a sottrarre materiale inerte. Materiale che viene dunque sottratto a questa stessa spiaggia.

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Veneto

Le spiagge del litorale veneto, caratterizzato dalla totale assenza di coste alte, si estendono per circa 160 chilometri, 12 dei quali a rischio di erosione molto elevato: due chilometri immediatamente a sud della foce del Tagliamento e 10 chilometri in prossimità del lido di Pellestrina, all’estremità meridionale della Laguna Veneta. Nel primo tratto le mareggiate hanno destabilizzato l’area protetta del delta, che continua a subire l’aggressione marina. Il litorale di Pellestrina mostra invece segni di cedimento dei murazzi dal 1966. Il recente intervento di ripascimento artificiale della spiaggia potrebbe abbassare il livello del rischio, ma molto dipenderà dall’efficacia dell’opera successiva di manutenzione. Da alcuni anni si sta inoltre verificando e intensificando il processo di erosione di tutti gli scanni del Delta del Po. Prima era un fenomeno che si localizzava in qualche parte, in relazione alla mobilità delle terre nuove (gli scanni), che sono in continua evoluzione per il gioco di correnti e di carichi di materiali portati dal fiume. Ora il processo è visibile a occhio nudo e vede, da un anno all’altro, la sparizione di pezzi rilevanti di spiaggia. Lo scorso anno il faro di Goro era lontano dal mare 15-20 metri. Alla fine dell’estate sono stati installati i tubi che Regione, Magistrato del Po e Consorzi di Bonifica (ente operativo) ritengono la tecnologia risolutiva da più di 20 anni. Risultato: dopo due mesi sabbia non se ne era accumulata, i tubi erano o sommersi o strappati, e il faro oggi ha il mare che gli batte sul muro di cinta. In 10 anni circa sono spariti 50-100 metri di spiaggia. Sempre a sud c’è il caso dello scanno di fronte alla sacca di Goro: in espansione in passato, perché la sabbia sottratta a nord si accumulava a sud, da due-tre anni subisce anch’esso una forte erosione. Risalendo a nord, è semidistrutto lo scanno di fronte alla Sacca di Scardovari, alla foce del Po delle Tolle. I tubi messi 20 anni fa sono stati un vero e proprio fallimento tecnologico e finanziario. Per di più, con una decisione assurda, lo scanno è stato tagliato per aumentare l’ossigenazione della sacca che pure gode di un’entrata dieci volte più larga. L’ossigenazione, invece, non è aumentata, le mareggiate si sono mangiate più sabbia e lo scanno si è ridotto. D’altro canto, la Sacca non riesce ad alimentare le colture di mitili perché non riceve più sabbia dal fiume e il fondo si copre di strati sempre più spessi di materiale organico che aumenta l’anossia delle acque. Gli scanni intorno alle Bocche di Pila erano fino a poco tempo fa i più riforniti di sabbia, oggi non lo sono più. La velocizzazione del fiume, in seguito alle rettifiche del suo corso, spinge infatti i materiali più a largo e li sottrae così alla costa. A nord la spiaggia di Boccasette è sparita per i due terzi in due anni, ovvero qualcosa come venti metri circa di sabbia. L’erosione alle bocche dell’Adige è in atto da molti anni e divora ormai la base delle dune, una volta retrostanti la spiaggia. Destino o sottrazione fraudolenta di milioni di metri cubi di ghiaia e sabbia dal bacino del Po? Un altro caso particolare e molto dibattuto è quello relativo alla laguna di Venezia, dove si registra un aumento progressivo delle acque alte, dovuto all’innalzamento del livello del mare, pari a 8,8-10,5 centimetri nel corso del

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XX secolo, e al fenomeno della subsidenza, nella misura di 9,5-13 centimetri, indotta soprattutto dalla grande estrazione di acqua dal sottosuolo per le industrie di Marghera, sospesa dopo l’alluvione del 1966. Ogni intervento in un’area vasta rischia di provocare un’ulteriore subsidenza che rischia di comportare l’allagamento permanente di piazza San Marco. Ulteriori conseguenze sarebbero rappresentate dall’indebolimento delle “difese a mare” e dall’innesco di processi di erosione della costa più consistenti, oltre al dissesto delle fondazioni degli edifici di Venezia e Chioggia, e allo sconvolgimento del sistema delle valli da pesca. Alla luce di queste considerazioni, risulta dunque necessario valutare l’impatto dell’estrazione di gas sull’assetto di questa area. Da quasi 50 anni, infatti, l’Eni ha acquisito l’esclusiva di ricerca ed estrazione di idrocarburi in Alto Adriatico, ed ha previsto l’installazione di 15 piattaforme di produzione insieme alla perforazione di 79 pozzi produttori di metano. Le preoccupazioni per il destino della costa comportarono nel 1995 l’obbligo dello studio di impatto ambientale, che l’Agip presentò l’anno seguente. Lo studio è stato però bocciato da un gruppo di lavoro nominato dal Comune di Venezia, perché i parametri scelti non tenevano nel debito conto gli effetti di subsidenza lungo le coste. Il lavoro di una commissione di esperti e l’esame della commissione Via hanno portato al decreto del 5 dicembre 1999, che vieta l’attività di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi entro 12 miglia nautiche dalla linea di costa, pari a circa 22 chilometri. Il provvedimento legislativo non prende però in considerazione la concatenazione di eventi che un inizio di estrazione metterebbe in moto: non solo quelli evidenti e misurabili di abbassamento del suolo, ma anche gli “effetti imbuto” che si ripercuoterebbero sugli equilibri costieri anche in tempi più lontani. D’altro canto, il modello ingeneristico adottato dall’Agip è troppo semplificato. Tace, perché non può certificarlo, sulle dimensioni del cono di subsidenza, ma soprattutto non tiene conto che gli effetti continuerebbero anche dopo la sospensione delle estrazioni. Questo perché la scelta compiuta dall’Agip è quella di estrarre acqua metanifera in strati di sabbia pliocenica non consolidata, che inevitabilmente finirà per comportare un effetto di compattazione, conseguente all’estrazione di acqua e non di metano secco. Infine, nessun cenno alla mappa del Cnr di Trieste del 1987, che prova la presenza di discontinuità tettoniche che dalla pianura veneta si prolungano in laguna e nel golfo di Venezia. Queste faglie, tra l’altro, attraversano i giacimenti, dove si rilevano pure epicentri di sismi avvenuti nella zona dell’Alto Adriatico. Il “gioco” non sembra valere la candela. La posta energetica in palio, infatti, ammonta secondo l’Agip a 30 miliardi di metri cubi da estrarre in 25 anni, con investimenti di 1.200 miliardi. L’apporto di questa attività, frazionata in un quarto di secolo, non sembra compensare il prezzo ambientale, economico e sociale che la comunità nazionale sarebbe costretta a pagare. E’ senza dubbio preferibile, dunque, dirottare le stesse risorse verso investimenti di risparmio energetico e di potenziamento delle fonti di energia rinnovabili.

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REGIONE TOTALE KM DI COSTA COSTA A RISCHIO MOLTO ELEVATOAbruzzo 125 25% Basilicata 53 57% Calabria 690 67% Campania 350* 58% Emilia Romagna 130 13% Friuli Venezia Giulia 100 4,2% Lazio 290 18% Liguria 355 15% Marche 145 16% Sardegna 1.900 1,5% Sicilia 996* 12% Toscana 470 17% Veneto 160 7,5% Totale 5764 - * isole escluse Fonte: dati tratti da uno studio di Leandro D’Alessandro, del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Chieti, e di Giovanni Battista La Monica, del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università “La Sapienza” di Roma.

8.1 Un caso esemplare: la Campania

Spiagge risucchiate dal mare, costruzioni di cemento armato piegate dall'onde, alberghi come palafitte. Sono 95 i chilometri di costa campana a rischio di erosione molto elevato. Dei 350 chilometri di litorale della regione, 170 sono di costa alta e 162 di spiagge, cui vanno sommati altri 16 chilometri coperti da banchine e strutture portuali. L'emergenza riguarda in particolar modo la costa salernitana, il litorale domizio flegrea e l'isola di Ischia. Secondo uno studio della Provincia di Salerno, i salernitani ogni anno perdono circa un metro di spiaggia all'anno. Il fenomeno dell'erosione costiera della provincia salernitana diventa sempre di più un fenomeno allarmante, con un metro di spiaggia inghiottita ogni anno inesorabilmente dai flutti. A rischio il litorale sabbioso, che va da Salerno a sud, con maggiori problemi verso Eboli, dove in alcuni punti il mare lambisce la strada provinciale costiera mentre nel Cilento, dove i ritmi di erosione, superano sicuramente di gran lunga i valori di un metro all'anno. Nel tratto salernitano compreso tra piazza della Concordia fino alla foce del fiume Fuorni, negli ultimi 25 anni, si è assistito ad un arretramento generalizzato con punte massime di 15 metri. Qui sotto accusa il consistente prelievo di "inerti". Andando verso la litoranea, caso emblematico ai confini del comune di Pontecagnano dove il mare lambisce addirittura la strada

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provinciale che va verso Paestum. Meno grave il problema nella costiera amalfitana, dove nelle insenatura in cui sono presenti le spiagge, il fenomeno esiste ma in misura minore anche perché i torrenti a monte non riforniscono più come un tempo le spiagge stesse. Significativi arretramenti si registrano nel tratto Casalvelino - Ascea, alla foce del fiume Mingardo, a Palinuro, e da capo San Marco al promontorio del castello di Agropoli, dove in quest'ultimo tratto vi è pericolo di crolli di prismi rocciosi. Risultato di tutto ciò, danno all'ambiente, distruzione del territorio, perdite ingenti dal punto di vista occupazionale ed di indotto economico. Secondo una proiezione della Confcommercio di Salerno si stima, che nel caso di interventi migliorativi solo sulle spiagge cittadine, si potrebbe avere un aumento occupazionale del 114%. In base ai dati dell'Università degli Studi di Napoli e dell'Autorità di Bacino del Liri-Garigliano e Volturno risulta che ogni anno dalle spiagge alla foce del fiume Volturno spariscono circa 200.000 mc di materiale. Negli ultimi 30 anni questa zona ha perso 6 milioni di mc di spiaggia, con arretramenti di varie centinaia di metri ed una sostanziale modifica morfologica della linea di costa. Ad alto impatto ambientale le opere di difesa messe in atto che riducono di molto l'appetibilità turistica della zona e i cui effetti sono visibilmente discutibili. Le radicali modificazioni di questa fascia costiera risalgono a partire dagli anni'70. In particolare in destra Foce Volturno, in un'area pari a 3 milioni di mq, vengono realizzati circa 5.000 piccoli fabbricati. Le modificazioni sono dovute oltre all'intensa urbanizzazione anche alla realizzazione di opere portuali e di difesa costiera. Interessate dal fenomeno la piana del Sele e le foci dei fiumi Alento, Mingardo e Bussento. In queste aree la riduzione delle superfici a spiaggia è avvenuta a partire dalla fine degli anni '70 con un' accelerazione repentina del fenomeno negli anni '90. Gli arretramenti complessivi sono stati anche di 80 metri, come si è verificato alla foce del fiume Alento e, in particolare nel corso degli ultimi cinque anni, sono state registrate riduzioni dell'ordine dei 6 metri per anno.

Il disastro dell' erosione delle coste non è un processo naturale: è un danno provocato dalla cattiva gestione del territorio. Un primo attacco viene da terra con la cementificazione dei fiumi, il prelievo sfrenato ed illegale di sabbia e ghiaia che determina lo sconvolgimento di un percorso dell'acqua naturale. Ma, non basta. In mare è stato creato un secondo ordine di problemi. Il dilagare di porti e porticcioli, di colate di cemento, di costruzioni pretese sull'acqua ha modificato anche il gioco delle correnti marine facendosi che zone ricche di sabbia si trovassero all'improvviso senza più spiaggia. Una delle aree più pregiate della nostra regione viene lentamente ma inesorabilmente limata. In questo modo si ha non solo una ovvia diminuzione dell'offerta turistica nella zona colpita, ma più in generale danno d'immagine per una Regione che si dimostra incapace di difendere uno dei suoi tesori più preziosi. Non secondario l'effetto dell'urbanizzazione selvaggia della fascia costiera con la realizzazione di mega- villaggi turistici, spesso costruiti in deroga a qualsiasi licenza edilizia, della subsidenza accelerata dei suoli, dell'errata progettazione di opere marittime e di porti, porticcioli, lingue di cemento che hanno modificato il

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gioco delle correnti marine facendo si che zone ricche di sabbia si trovassero all'improvviso senza più spiaggia. Di fronte ad una situazione di queste proporzioni, si avverte l’esigenza di provvedimenti drastici in grado di invertire la tendenza in atto. Servono misure capaci di intervenire sui vari fronti del problema, ovvero il dissesto idrogeologico, l’avanzata del mare, le frane e il danno paesaggistico. Un imponente piano di difesa del territorio da cui potrebbe derivare anche un consistente rilancio dal punto di vista occupazionale. Il danno per tutta la Campania oltre che ambientale è anche economico: nel caso delle località più rinomate, infatti, è stato calcolato che le perdite derivanti dall’abbruttimento del paesaggio possono raggiungere i due milioni di lire per metro quadrato. Moltiplicando questa cifra per le centinaia di migliaia di metri quadrati di superfici erose in tutta la regione, l’impatto del fenomeno emerge nella sua interezza, quantificabile nell’ordine di decine di miliardi. 8.1.1 Le isole di Ischia e Procida

Particolarmente grave l’entità del fenomeno dell’erosione delle spiagge sulle isole d’Ischia e Procida. Le dimensioni del fenomeno sono allarmanti sia dal punto di vista ambientale, per i gravi problemi connessi di conseguenza alla difesa del suolo e all’alterazione paesaggistica, e sia dal punto di vista economico. Oggi le attività balneari incassano meno della metà di quanto avrebbero potuto incassare se il fenomeno erosione sarebbe stato contenuto sin dall’inizio. I dati, secondo uno studio di tecnici del Comune di Barano, mostrano l’attuale consistenza delle spiagge a fronte della quantità di arenile presente negli anni cinquanta. Ad Ischia oggi abbiamo all’incirca 69.850 m² di spiagge a fronte dei 192.400 m² degli anni cinquanta. Ciò indica chiaramente che negli ultimi 40 anni abbiamo perso il 64,69 % dei nostri arenili, un dato a dir poco allarmante. La situazione di Procida è sensibilmente migliore, anche se in assoluto è anch’essa grave. Nello stesso periodo nell’isola di Procida si è passati dai 63750 m² degli anni cinquanta, ai 32.100 ² attuali. Con una perdita di circa il 49,65 % delle spiagge. Tutto ciò ha portato a dei grossi inconvenienti in campo ambientale, con diverse emergenze di difesa suolo, che hanno portato il più delle volte ad interventi che hanno alterato lo stato dei luoghi con conseguenze spesso peggiorative della situazione, vedi gli interventi con le scogliere che hanno stravolto anche l’aspetto paesaggisticamente unico delle isole d’Ischia e Procida. Un’altra grave conseguenza della perdita delle spiagge si riscontra nell’economia turistica, ed in particolare in quella balneare. Oggi, secondo i risultati di uno studio di pre-fattibilità realizzato per conto dei Comuni delle due isole, Ischia ha oggi un introito di circa £ 83.820.000.000 a fronte di uno potenziale di £ 230.880.000.000, che sarebbe possibile solo dopo un ripascimento ed una costante manutenzione delle spiagge. Procida oggi incassa circa £25.680.000.000, di fronte di un incasso potenziale stimato intorno ai £51.000.000.000.

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DATI RIEPILOGATIVI DEI M² DI ARENILE SCOMPARSI BARANO -25.000 m² CASAMICCIOLA TERME -17.900 m² FORIO -14.000 m² ISCHIA -26.300 m² LACCO AMENO -14.050 m² PROCIDA -31.650 m² SERRARA FONTANA -25.300 m²

TOTALE ARENILI SCOMPARSI -154.200 m² DATI RIEPLIOGATIVI DEI M² DI ARENILE PRESENTE BARANO 15.000 m² CASAMICCIOLA TERME 5.800 m² FORIO 18.500 m² ISCHIA 19.200 m² LACCO AMENO 9.850 m² PROCIDA 32.100 m² SERRARA FONTANA 1.500 m²

TOTALE ARENILI PRESENTI 101.950 m²

Secondo lo studio, dalla comparazione degli interventi di ripascimento effettuati finora, si è stimato che sarebbero necessari circa 600.000 metri cubi di arenile per il ripascimento delle spiagge di Ischia e Procida. In base ad esperienze passate si è accertato che attualmente una spiaggia per conservare negli anni la sua consistenza, è opportuno un ripascimento con cadenze annuali che sopperisce a quel 10% di spiaggia circa che nel corso dell’anno si perde. Ciò prevede una manutenzione costante negli anni con costi minimali, rispetto ai ricavi che si possono ottenere dallo stesso 10% di arenile aggiunto. Per l’isola d’Ischia è indispensabile un ripascimento annuo che si aggiri intorno ai 55.000 m³, mentre per l’isola di Procida sono indispensabili almeno 13.454 m³ di materiale all’anno.

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9. La pesca di frodo

Nella classifica della pesca di frodo troviamo molte conferme e qualche

sorpresa. In testa alla classifica si conferma come lo scorso anno la Sicilia, con 1.039 reati accertati (pari ad oltre il 21% del totale riguardante la pesca illegale), 43 persone denunciate e 846 sequestri. Sul “podio” si piazzano a sorpresa Puglia (750 reati accertati) e Marche (672), che lo scorso anno erano rispettivamente la quinta e la sesta regione in classifica. Chiudono in coda il Molise (65), il Friuli Venezia Giulia (18) e la Basilicata (5).

LA CLASSIFICA DELLA PESCA DI FRODO (2000) Regione Infrazioni

accertate Persone denunciate

o arrestate Sequestri effettuati

1 Sicilia ↔ 1.039 43 846 2 Puglia ↑ 750 151 472 3 Marche ↑ 672 123 521 4 Campania ↓ 472 48 145 5 Lazio ↓ 345 4 243 6 Veneto ↑ 294 104 456 7 Sardegna ↓ 292 97 1521 8 Liguria ↑ 266 48 110 9 Toscana ↑ 203 7 128 10 Calabria ↓ 181 19 85 11 Abruzzo ↓ 145 1 150 12 Emilia Romagna ↓ 138 0 44 13 Molise ↔ 65 0 46 14 Friuli Venezia Giulia ↔ 18 1 10 15 Basilicata ↔ 5 2 2 Totale 4885 648 4779

Fonte: elaborazione Legambiente su dati delle forze dell’ordine e Capitanerie di porto 9.1 L’assalto ai datteri

Il dattero di mare (Lithophaga lithophaga) è un mollusco bivalve perforatore che colonizza le rocce calcaree, fino a 35 metri di profondità. Ad eccezione di alcune zone in cui è divenuto una vera rarità, non è una specie in via di estinzione, ma la sua cattura provoca la distruzione delle scogliere in cui vive: i datteri vengono raccolti spaccando e sminuzzando la roccia con picconi, scalpelli e addirittura martelli pneumatici. Il risultato è la completa rimozione della copertura biologica dei substrati duri superficiali (da 0 a 15 metri di

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profondità), con conseguente desertificazione dei fondali. Si tratta di uno dei più gravi fenomeni di erosione della biodiversità in Mediterraneo.

Il dattero vive nel suo cunicolo scavato nella roccia, in gallerie fusiformi che costituiscono dei veri e propri microhabitat popolati da un gran numero di organismi. Gli ambienti più minacciati dalla cattura del dattero sono quelli litoranei di falesia calcarea, particolarmente abbondanti proprio nelle aree prescelte per l’istituzione di riserve marine. La coincidenza non è casuale: le falesie calcaree ospitano i popolamenti più ricchi di specie ed individui , risultato di processi evolutivi molto lunghi e complessi. A causa della pesca del dattero, siti caratterizzati dalla presenza di comunità complesse e che svolgono un’attiva funzione filtratrice dell’acqua, si trasformano in deserti rocciosi. Un dattero raggiunge 5 cm di lunghezza dopo circa 20 anni: una crescita così lenta costringe i pescatori di datteri (datterai) a cambiare continuamente luogo di raccolta, distruggendo ettari di fondale e riducendo al tempo stesso la produzione di nuove larve.

La pesca, la detenzione e la commercializzazione del dattero nel nostro paese è vietata già dal 1996 con un decreto del Ministero delle Politiche Agricole scaduto nel 1998 e prorogato fino al 2007 . In tempi più recenti, per salvaguardare le coste dell’intero bacino Mediterraneo, anche la commercializzazione e ogni forma di importazione sono state bandite. Dunque chi offre datteri, sia in pescheria che al ristorante, è di sicuro fuori legge.

Nonostante tutto, ogni anno in Italia vengono raccolte tra le 80 e le 180 tonnellate di datteri, equivalenti a 6-15 milioni di individui e a 4-10 ettari di fondali desertificati. Ogni consumatore di datteri contribuisce in maniera sostanziale a questo scempio: basti pensare che un piatto di linguine ai datteri ne contiene circa 200 grammi, pari a 16 individui: pochi rispetto ai milioni di cui si è detto, molti se si considera che per raccoglierli si è distrutto un quadrato di fondale di 33 centimetri di lato.

9.2 La Penisola Sorrentina: Punta Campanella

Un vero e proprio disastro ecologico è in atto sotto i nostri occhi nella Riserva Naturale di Punta Campanella che si estende tra i golfi di Napoli e Salerno, dal Capo di Sorrento a Punta San Germano a due passi da Positano. I datterai usano gli stratagemmi più inverosimili, affilano le armi in prossimità delle festività natalizie e si adeguano facilmente allo sviluppo tecnologico delle attrezzature subacquee. Il decreto che ne vieta la pesca e la commercializzazione si è dimostrato insufficiente a preservare i fondali dalla “catastrofe ecologica”, come viene definita dall’Enciclopedia Britannica. Un motivo, questo, che garantisce ai datterari una certa immunità e la motivazione a proseguire nella loro azione devastatrice senza che qualcuno intervenga ad interromperne gli interessi a nove zeri.

Sia nella Penisola Sorrentina che nella Costiera Amalfitana la modalità di estrazione del dattero di mare ha subito, negli anni, cambiamenti determinati

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dagli avvicendamenti dei quadri preposti al controllo ed in dipendenza dello sviluppo tecnologico delle attrezzature subacquee. Ed è proprio con il miglioramento delle tecniche e la diffusione sempre maggiore dell'immersione subacquea, che un gran numero di persone si dedicano a questa lucrosa e distruttiva attività. Oggi nella sola area della Penisola Sorrentina e Costiera Amalfitana sono circa 50 quelli che, ogni giorno, armati dei loro arnesi da lavoro (scalpello e martello) distruggono le meraviglie e la vita dei nostri mari. Questa pesca indiscriminata oltre che distruggere gran parte della biodiversità, vanto del nostro mare, danneggia tra l'altro, l'intera economia del comparto della piccola pesca, in quanto il distacco di intere pareti di roccia desertifica l'area allontanando da essa alcune specie ittiche.

La giornata dei "datterai" inizia alle prime luci dell'alba. Provvisti di piccoli scafi veloci, con tutte le dotazioni di sicurezza in perfetta regola, partono da Castellammare di Stabia (Na) nell'area denominata "acqua della madonna" ed approdano lungo tutto la costa: da Castellammare di Stabia a Salerno, isola di Capri compresa. Ma anche nei residenti non mancano quelli che si dedicano a questa criminosa attività, come nel caso di località rinomate della penisola sorrentina e costiera amalfitana: Seiano, Massa Lubrense (Recommone) e Praiano. Ogni scafista lascia uno o due subacquei sotto costa, quindi si allontana, anche per centinaia di metri ed aspetta l'ora concordata per il loro recupero che avviene di solito dopo 4/5 ore. Il datteraio, si inabissa nei fondali marini ed armato di un pesante martello bipenna, ma anche di picozze e martelli, frantuma indisturbato la parete rocciosa. E per non essere visti in superficie, lo stratagemma è semplice ed efficace: affondano il recipiente in cui sono conservati i datteri. Nella loro azione criminale, non poteva mancare il ruolo dei bambini. Infatti spesso, a bordo degli scafi, al fine di disorientare le forze dell'ordine, vi sono minorenni e signore. Un quadro perfetto per una bella gita in barca, ma con obiettivo non la tintarella o qualche tuffo in mare bensì i datteri. Il giro di affari è notevole, i rischi vicini allo zero. Ciascun datteraio preleva in media 10 kg al giorno (valore sottostimato) di prodotto che rivende al 40 mila al Kg per un guadagno di 400.000. Il periodo di attività, che un tempo era di sei mesi l’anno, ora non conosce sosta. Una colonia di datteri conta in media 150 individui per mq, ma può arrivare fino a 300 per mq. In termini ecologici questo significa la desertificazione di una fascia di costa dai 4 ai 6 km per una profondità di 15 m. Un dato allarmante se si considera, per esempio, che le falesie della penisola sorrentina amalfitana si estendono per non più di 100 km di costa.

E per ironia della sorte l'istituzione della Riserva Marina, se da un lato rappresenta un maggior controllo dell'area (finora purtroppo solo sulla carta), dall'altro ha determinato un aumento vertiginoso del prezzo dei datteri sul mercato nero. Infatti nelle festività natalizie ed in quelle pasquali e durante il mese di agosto, il prezzo dei datteri oscilla dalle 70.000 alle 150.000 al chilo. Compiuto il saccheggio, i predoni del mare ritornano alla base scaricano la preziosa merce praticamente indisturbati. Tranne le limitate ma efficaci operazioni condotte dall'Arma dei Carabinieri con nuclei subacquei ed

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elicotteristi, i controlli effettuati dalla Capitaneria di Porto si limitano alla richiesta di accertamento dei documenti dell'imbarcazione e delle dotazioni di sicurezza. A questo clima di illegalità diffusa, va aggiunta, poi, la mancanza di controlli e repressione nei luoghi di vendita, basti pensare che nei pressi di Porta Nolana, a Napoli, i datteri di mare vengono venduti alla luce del sole!! Molti datterai, annusato l’affare, si sono organizzati con veri e propri depositi, attrezzature e strutture di vendita. Ecco che nei periodi precedenti le festività indicate, comincia la conservazione dei datteri in apposite vasche (vere e propri impianti di stabulazione). I datteri sono poi venduti a prezzi vertiginosi sia al dettaglio che all'ingrosso ai ristoratori. Dietro questa organizzazione gli inquirenti sospettano la presenza dell'immancabile longa manus della camorra. E in questa grande operazione di distruzione dell'ecosistema marino, c'è anche la complicità e la responsabilità indiretta di ognuno di noi. Basti pensare che quando un ristorante ci offre nel menù il raffinato e prelibato piatto di linguine ai datteri, in quel momento dobbiamo ricordarci che quel piatto significa la distruzione di un quadrato di fondale di 33 cm di lato. Che questo meccanismo perverso e illegale stia diventando un affare interessante è noto alle Forze dell’ordine. Nel dicembre di due anni fa un'operazione condotta dalla Procura di Torre Annunziata insieme ai Carabinieri ed agli uomini della Capitaneria di Porto di Castellammare di Stabia, ha portato a quattro arresti ed al sequestro di ben 20 quintali di datteri di mare. Il reato ipotizzato, per la prima volta in Italia in un caso del genere è di associazione a delinquere finalizzata al danneggiamento aggravato ed continuato del patrimonio ecomarino dello Stato. Nel mirino della legge sono finiti, questa volta anche i ristoratori della zona: i veri committenti del prezioso frutto di mare, coloro che non vogliono far mancare sulla tavole imbandite di Natale un ingrediente tradizionale e molto richiesto dai clienti. Per procurasi le prove dei bottini proibiti gli investigatori hanno usato mezzi sofisticatissimi, seguendo per mesi gli equipaggi dei "predoni". Armati di microcamere hanno filmato i sub fuorilegge. I datterai arrestati sono stati quattro. Secondo gli inquirenti, questi bracconieri del mare avevano addirittura lottizzato la costa sorrentina, dividendola in quattro pezzi. Ognuno ne gestiva uno. Alle indagini è seguito un blitz della Guardia di Finanza di Napoli che ha sequestrato tonnellate di preziosi ricci, frutti fragili e delicati del nostro mare. Denunciati sei pescatori clandestini che rifornivano con regolarità i mercati pugliesi (qui i ricci rappresentano una specialità gastronomica irrinunciabile).

Dopo appostamenti ed indagine durati mesi, non è stato difficile risalire ad una sorta di "ponte commerciale" fra le scogliere napoletane ed i mercati ittici di Bari, Barletta, Brindisi, dove ogni mattina finivano i costosissimi ricci di mare, prelibati come condimento per gli spaghetti, nonché come antipasto. Di qui la decisione di procedere ad un blitz combinato terra-mare: in azione due vedette, che hanno sorpreso sei subacquei intenti a scippare molluschi dalle scogliere, ed alcune pattuglie mobili che hanno bloccato un furgone dei commercianti pugliesi.

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Grazie agli sforzi profusi attualmente la pesca illegale dei datteri è diminuita del 20% circa, ma c’è ancora molto da fare. 9.3 La costa di Siracusa

Il fenomeno della pesca di frodo del dattero di mare, in Sicilia assume

proporzioni devastanti soprattutto in provincia di Siracusa a causa della conformazione geologica della costa, costituita da roccia calcarea. Anche se sono aumentati i controlli da parte degli organi di sorveglianza preposti alla repressione del consumo del mollusco nei ristoranti, il prelievo doloso del dattero è ancora molto praticato.

Si stimano fra i 15 e i 25 bracconieri che quotidianamente (dati non ufficiali scaturiti da notizie fornite dalle stazioni di ricarica), armati di mazza e pinzette, in un tratto di mare che va da Brucoli – Augusta a Capo Murro di Porco, in provincia di Siracusa, praticano la pesca distruttiva del bivalve, riuscendo a raccogliere dagli 8 ai 15 chili di molluschi al giorno, su una batimetrica che va dai 3 ai 10 metri di profondità. Attraverso l’utilizzo di una bibombola di 20 litri, i datterai riescono a rimanere sott’acqua per oltre due ore, distruggendo un tratto di fondale procapite di oltre 50 metri. Da questo calcolo sono esclusi i “dilettanti”, datterai dell’ultima ora che pescano, seppur occasionalmente, con metodi molto più sbrigativi e distruttivi quali compressori e martelletti pneumatici. Gli organi di vigilanza, Capitaneria di Porto, Polizia, Guardia di Finanza ecc., sono in assoluta difficoltà nel fronteggiare tale fenomeno, anche perché, oltre al fatto che i bracconieri del mare svolgono la loro “attività” dalle sette alle dieci del mattino, mentre le motovedette cominciano la perlustrazione di turno routinaria dopo le ore 9, la pesca del dattero avviene su un fondale abbastanza basso dove le motovedette delle forze dell’ordine non possono giungere. Nel 1999 sono stati colti in fragranza di reato appena tre bracconieri e sequestrati solo 60 kg di datteri, oltre alle attrezzature subacque ( dati Questura di Siracusa). Ad oggi non ci sono novità di rilievo.

Il quadro già di per sé sconfortante, si completa se si aggiunge alla pesca al mollusco la pesca di frodo con l’autorespiratore, praticata e a volte “tollerata”, e la pesca con gli esplosivi. 9.4 Da Porto Cesareo a Gallipoli

La pesca dei datteri è uno dei problemi più gravi che interessa la zona che va da Porto Cesareo a Gallipoli, in Puglia. L’area in questione è stata oggetto di una vera e propria spartizione, cosicchè ogni pescatore di dattero ha il suo perimetro dove operare. Sembra che i datterai utilizzino circa 20 pescherecci che arrivano a raccogliere, più o meno, 25 kg di datteri a barca. La modalità di pesca è simile a molte altre zone d’Italia: due sub si immergono

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servendosi di una barca o di un gommone di appoggio che li recupera ad un’orario stabilito. Uno dei blitz effettuati dalla Capitaneria di Porto di Gallipoli, dietro segnalazione del circolo Legambiente di Porto Cesareo, ha portato al sequestro di 70 chili di datteri e 6 quintali di ricci. Durante la perquisizione delle barche i militari non riuscivano a trovare nulla: poi hanno scoperto che i recipienti con i datteri già pescati erano stati affondati e sarebbero stati trasferiti in seguito a bordo di un camion parcheggiato distante dalla riva. La manodopera era albanese. Numerose azioni si sono susseguite a questa. Nonostante la coscienza da parte delle Forze dell’ordine del problema e la volontà di contrastarne gli effetti devastanti all’ambiente marino, i mezzi a disposizione non sono ancora sufficienti per opporre una resistenza decisiva alla determinazione dei pescatori “fuori legge”. 9.5 La pesca abusiva di molluschi nella Laguna di Venezia di Luca Ramacci (Sostituto Procuratore della Repubblica di Venezia) (www.lexambiente.com)

L’esercizio dell’attività di pesca dei molluschi nella laguna di Venezia rappresenta un serio problema non solo per l’integrità dell’ambiente, ma anche per la tutela della salute dei consumatori e non interessa soltanto i veneziani.

Sono infatti di dominio pubblico le condizioni di gravissimo inquinamento in cui versa l’area lagunare a causa della compresenza di diversi fattori inquinanti rappresentati non solo dalle immissioni in atmosfera (che determinano la ricaduta di polveri) e dagli scarichi del vastissimo polo industriale di Marghera, ma anche dalle numerose vetrerie della zona di Murano e dalla caotica circolazione di imbarcazioni a motore unita agli scarichi delle abitazioni e degli insediamenti artigianali, alberghieri, ospedalieri e di altro tipo esistenti nelle zone abitate della laguna.

I dati dell’inquinamento lagunare, diffusi anni addietro e relativi all’inchiesta che portò alla chiusura dello scarico SM15 del Petrolchimico, se confrontati con i valori di inquinamento del mare Adriatico – che pure non gode di ottima salute – sono impressionanti e superano ogni immaginazione.

E’ importante ricordarli per avere un’idea dell’habitat in cui nascono e crescono le vongole pescate.

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Ecco i dati ripartiti secondo le “aree virtuali” individuate dai consulenti:

VALORI MINIMI E MASSIMI DEI DIVERSI INQUINANTI NEI SEDIMENTI SUPERFICIALI (primi 20 cm) DELLE AREE VIRTUALI NEL CORSO DEL PRIMO

STUDIO PERITALE (GIUGNO 1996) AREE

VIRTUALI AREA 1

(INDUSTRIALE)

AREA 2 (URBANA)

AREA 3 (MISTA)

AREA 4 (BASSA ESPOSIZIONE,

PESCA)

AREA 5

VALORI DI RIFERIMENT

O

LOCALITA’

PORTO MARGHERA

VENEZIA, MURANO

S. ANGELO, CHIOGGIA, FOCE DESE

E OSELLINO

ALBERONI, MALAMOCCO, PELLESTRINA,

BURANO, S. CRISTINA

VALLI DA PESC

A

MARE

ADRIATICO

Min max min max min max min max min Max IPA (ng/g) 1600 54000 8000 4800

0 150 1300 62 660 n.d. 99 2500

PCB (ng/g) 220 720 71 610 3.1 77 0.47 8.3 n.d. 2.5 27 PCDD+PCDF (pgTE/g)

23

570

4.8

23

0.48

8.5

0.8

1.8

n.d.

0.16

17

DDE (ng/g) 3.4 10 1.3 27 0.78 19 0.55 1.3 n.d. 0.59 0.94 DDT (ng/g) 0.3 5.2 0.51 24 < 0.3 10 0.059 1.3 n.d. 0.5 0.52 HCB (ng/g) 35 470 0.33 5 0.097 6.2 0.059 0.29 n.d. 0.039 44 Cd (µg/g) 2.56 22.9 0.723 5.69 0.184 1.87 0.099 1.73 n.d. 0.488 0.721 Cu (µg/g) 97.1 247 36.2 297 10.7 42.3 9.99 33.2 n.d. 9.09 13.9 Hg (µg/g) 1.52 14.2 0.531 2.08 0.023 1.94 0.194 3.33 n.d. 0.021 0.534 Pb (µg/g) 58.1 282 47.8 109 7.22 37.4 9.44 20.3 n.d. 10.4 26.2 Zn (µg/g) 248 1820 104 592 2.31 70.1 2.03 64.6 n.d. 10.1 90.2 n.d. dati non disponibili N.B. Tutti i valori sono riferiti al sedimento secco

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VALORI MINIMI E MASSIMI DEI DIVERSI INQUINANTI NEI SEDIMENTI SUPERFICIALI (primi 20 cm) DELLE AREE VIRTUALI NEL CORSO DEL SECONDO

STUDIO PERITALE (LUGLIO 1997) AREE

VIRTUALI AREA 1

(INDUSTRIALE)

AREA 2 (URBANA)

AREA 3 (MISTA)

AREA 4 (BASSA ESPOSIZIONE,

PESCA)

AREA 5

VALORI DI RIFERIMENT

O

LOCALITA’

PORTO MARGHERA

VENEZIA, MURANO

S. ANGELO, CHIOGGIA,

FOCE DESE E OSELLINO

ALBERONI, MALAMOCCO, PELLESTRINA,

BURANO, S. CRISTINA

VALLI DA PESC

A

MARE

ADRIATICO

Min max min max min max IPA (ng/g) 1000 46000 14000 140 390 130 n.d. 6.4 2300 PCB (ng/g) 56 9800 790 15 23 9.8 n.d. 1.6 26 PCDD+PCDF (pgTE/g)

1

230

14

25

25

3.3

n.d.

0.6

10

DDE (ng/g) 1.5 17 18 0.057 < 5 < 0.05 n.d. < 0.05 0.98 DDT (ng/g) < 0.5 10 7.1 0.080 < 5 < 0.05 n.d. < 0.05 0.74 HCB (ng/g) 33 2400 5.5 0.28 20 < 0.05 n.d. < 0.05 17 Cd (µg/g) 0.18 6.6 4.2 2.2 2.2 0.61 n.d. 0.06 0.77 Cu (µg/g) 41 1200 195 46 46 24 n.d. 2.4 17 Hg (µg/g) 0.26 50 4.0 2.0 2.0 0.60 n.d. 0.053 2.6 Pb (µg/g) 47 190 120 49 49 29 n.d. 5.4 55 Zn (µg/g) 350 860 700 390 390 180 n.d. 10 100 n.d. dati non disponibili N.B. Tutti i valori sono riferiti al sedimento secco NOTA: i risultati dei due studi peritali indicano che, allontanandosi dall’area industriale (AREA 1) verso il mare, i valori di contaminazione dei sedimenti diminuiscono. Va segnalata l’inattesa contaminazione di alcuni campioni di sedimento marino prelevati nella zona di mare antistante il litorale del Lido, presumibilmente dovuta allo scarico dei fanghi industriali avvenuto nel periodo 1950 - 1980.

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Ecco, infine, quello che venne trovato all’interno del pescato, sempre nelle varie zone:

VALORI MEDI DEI DIVERSI INQUINANTI RILEVATI NEI REPERTI DI BIOTA (MITILI, VONGOLE, OSTRICHE) PRELEVATI NELLE AREE VIRTUALI NEL

CORSO DEL SECONDO STUDIO PERITALE (LUGLIO 1997) AREE

VIRTUALI AREA 1

(INDUSTRIALE) AREA 2

(URBANA) AREA 3 (MISTA)

AREA 4 (BASSA ESPOSIZIONE,

PESCA)

AREA 5

VALORI DI RIFERIMENTO

LOCALITA’

PORTO

MARGHERA Zona Nuovo

Petrolchimico

VENEZIA, MURANO

S. ANGELO, CHIOGGIA, FOCE DESE E OSELLINO

ALBERONI, MALAMOCCO, PELLESTRINA,

BURANO, S. CRISTINA

VALLI DA PESC

A

MARE

ADRIATICO

IPA (ng/g) 134 (mitili) 31(vongole)

n.d. 34 (mitili) 17 (vongole)

50 (mitili) n.d. 7 (mitili) 14 (ostriche)

PCB (ng/g) 160 (mitili) 12 (vongole)

n.d. 245 (mitili) 13 (vongole)

40 (mitili) n.d. 35 (mitili) 25 (ostriche)

PCDD+PCDF (pgTE/g)

3.2 (mitili) 1.2 (vongole)

n.d. 2.3 (mitili) 0.56

(vongole)

0.68 (mitili) n.d. 0.27 (mitili) 0.66 (ostriche)

DDE (ng/g) 21.2 (mitili) 1.06 (vongole)

n.d. 17 (mitili) 0.47

(vongole)

2.1 (mitili) n.d. 2.9 (mitili) 2.2 (ostriche)

DDT (ng/g) 0.32 (mitili) 0.067 (vongole)

n.d. 0.59 (mitili) 0.097

(vongole)

0.25 (mitili) n.d. 0.89 (mitili) 0.44 (ostriche)

HCB (ng/g) 13.7 (mitili) 12 (vongole)

n.d. 10 (mitili) 3.95

(vongole)

4.4 (mitili) n.d. 5.3 (mitili) 16 (ostriche)

Cd (µg/g) 1.05 (mitili) 0.37 (vongole)

n.d. 0.80 (mitili) 0.39

(vongole)

0.56 (mitili) n.d. 0.31 (mitili) 0.9 (ostriche)

Cu (µg/g) 3.15 (mitili) 5.5 (vongole)

n.d. 2.45 (mitili) 5.68

(vongole)

2.7 (mitili) n.d. 2.5 (mitili) 38 (ostriche)

Hg (µg/g) 0.1 (mitili) 0.070 (vongole)

n.d. 0.053 (mitili) 0.040

(vongole)

0.042 (mitili) n.d. 0.030 (mitili) 0.039

(ostriche) Pb (µg/g) 0.9 (mitili)

0.79 (vongole) n.d. 0.46 (mitili)

0.45 (vongole)

0.23 (mitili) n.d. 0.25 (mitili) 0.22 (ostriche)

Zn (µg/g) 30 (mitili) 21 (vongole)

n.d. 34 (mitili) 21 (vongole)

33 (mitili) n.d. 29 (mitili) 520 (ostriche)

n.d. dati non disponibili N.B. Tutti i valori sono riferiti alla matrice fresca. Il prelievo dei mitili è avvenuto sulla colonna d’acqua, mentre vongole ed ostriche sono state raccolte nel sedimento. NOTA: i risultati di questa tabella indicano che i mitili e le vongole raccolti in prossimità della zona industriale (AREA 1) sono mediamente più contaminati rispetto a quelli raccolti in altre zone, secondo un fattore variabile da 2 a 10 volte. Va segnalata inoltre l’elevata contaminazione delle ostriche prelevate sul fondale marino

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antistante il litorale del Lido. In tali organismi sono stati registrati, per alcuni inquinanti, valori di contaminazione nettamente superiori a quelli presenti nelle vongole raccolte nel tratto lagunare antistante la zona industriale. Tale risultato, oltreché dalla contaminazione del fondale, potrebbe dipendere da una diversa capacità di accumulo dei due tipi di organismi.

Fornita dunque un’idea, peraltro incompleta, della situazione esistente va poi ricordato con quali modalità viene esercitata la pesca dei molluschi. L’attività avviene a bordo di imbarcazioni che utilizzano diverse tecniche. Le imbarcazioni di maggiori dimensioni utilizzavano dapprima il sistema del c.d. turbosoffiante, costituito da una sorta di grosso aspirapolvere che risucchia i molluschi devastando in modo irreparabile i fondali come può osservarsi in alcune foto aeree che evidenziano la presenza di lunghi solchi sotto la superficie delle acque. A questo sistema, che elimina praticamente ogni forma di vita vegetale ed animale nel sedimento lagunare, si è poi sostituito quello analogo e asseritamente meno dannoso del “rastrello vibrante”, tuttora in uso.

Altra tecnica di pesca, non meno pericolosa per i fondali, è quella della “rasca” o “giostra” effettuata con i c.d. barchini. Si tratta di imbarcazioni molto piccole (poco più di 4 – 5 metri) e leggere dotate di un potente motore fuoribordo (spesso anche di 200 Hp) e talvolta di radar, modificate mediante l’apposizione di un braccio trasversale con due supporti laterali ai quali vengono applicati altri due motori fuoribordo di minore potenza. Questi piccoli motori vengono montati in modo tale che le eliche possano girare toccando il fondo e smovendo così il sedimento lagunare. Una gabbia di ferro (la “rasca”) viene trascinata dall’imbarcazione in movimento e raccoglie le vongole.

Anche in questo caso è facile intuire quali conseguenze subisca il fondo della laguna.

Ma, come accennato in precedenza, l’attività di pesca non determina soltanto la progressiva distruzione dei fondali poiché costituisce quasi sempre un vero e proprio attentato alla salute dei consumatori. Vediamo perché.

Quasi mai le imbarcazioni che esercitano la pesca abusiva svolgono la loro attività nelle aree destinate a tale scopo. Le zone preferite sono infatti quelle in cui la pesca è vietata perché interessate da vasti fenomeni di inquinamento. Non è raro vedere, passando sul ponte che collega Mestre a Venezia, numerosi barchini “al lavoro” in prossimità degli scarichi industriali di Marghera.

Le vongole così pescate non sono, ovviamente, sottoposte ad alcun controllo di carattere sanitario e, seppure lo fossero, il controllo riguarderebbe solo parametri presi in esame dalle indagini di routine (ad esempio quelli relativi ai coliformi) e non anche quelli tesi ad individuare le sostanze presenti nelle acque dell’area industriale che, per fortuna, non si trovano normalmente nei prodotti destinati all’alimentazione umana.

Il pescato viene quasi sempre immesso sul mercato nazionale attraverso canali paralleli a quelli della normale distribuzione dei prodotti utilizzando, molto spesso, documentazione sanitaria di accompagnamento contraffatta.

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E’ un grossissimo guadagno “in nero” per i pescatori abusivi che traggono così notevoli vantaggi da questa attività incuranti del danno che arrecano agli ignari consumatori. Secondo una stima approssimativa della Guardia di Finanza, ogni camion di vongole pescate abusivamente frutta un guadagno conseguente all’evasione della sola I.V.A. pari a circa 150 - 200 milioni di lire.

Le cifre ricavate dalla vendita al dettaglio sono ancora più elevate e parlano da sole. Possono essere citati, a titolo di esempio, i dati relativi ad una recente operazione del Nucleo Antisofisticazione dei Carabinieri di Treviso.

In un procedimento che vede coinvolte poco più di dieci persone per una serie di reati connessi alla pesca abusiva delle vongole, poi distribuite per il consumo con documentazione sanitaria falsa costituita da bollettari recanti un timbro oggetto di furto in danno di una USL o, in altri casi, recanti l’impronta di altro timbro ULS falsificato, si è calcolato che in un periodo di pochissimi mesi sono stati commercializzati - lo si ripete, soltanto da una decina di persone - oltre 600.000 Kg di vongole per un corrispettivo di circa due miliardi e cinquecento milioni di lire proveniente dalla vendita al dettaglio!

L’operazione condotta dai NAS, per quanto importante, rappresenta solo una parte quasi insignificante nel giro complessivo di affari dei c.d. caparozzolanti.

Questa attività illecita, che rappresenta un danno evidente non solo economico ma anche di immagine per i pescatori “regolari”, non viene esercitata soltanto la notte quando i controlli sono resi più difficoltosi dalla scarsa visibilità, ma anche senza particolari problemi anche durante il giorno.

Spesso gruppi organizzati di pescatori dispongono di “vedette” munite di apparecchi radio o cellulari per dare l’allarme in caso di intervento delle forze dell’ordine ed i barchini, in particolare, grazie ai potentissimi motori utilizzati ed alla conoscenza della laguna di chi li conduce possono sfuggire agli inseguimenti rifugiandosi sulle numerose secche dove le imbarcazioni delle forze di polizia non possono raggiungerli.

Forse l’indifferenza al problema o, peggio, la tacita comprensione delle autorità preposte ai controlli ha per lungo tempo consentito lo sviluppo incontrollato di questo fenomeno che solo da pochi anni riceve la dovuta attenzione con interventi decisi da parte delle forse di polizia e della magistratura.

Anche in questo caso i numeri sono illuminanti. La Guardia di Finanza (Reparto operativo aereonavale di Venezia)

nell’anno 2000 ha effettuato numerose operazioni denunciando 71 persone, sequestrando 31 natanti, 39 motori, 36 attrezzi ed un quantitativo di molluschi pari a Kg 12.728, il tutto per un valore pari a L. 3.561.053.200.

L’Arma dei Carabinieri, per lo stesso periodo, fornisce i seguenti dati relativi alle violazioni penali: 45 persone denunciate, 15.541 Kg di molluschi, 7 imbarcazioni e 17 attrezzi da pesca sequestrati e, per le violazioni amministrative, 28 pescherecci sanzionati 5 attrezzi sequestrati e 2050 Kg di vongole pure sottoposte a sequestro.

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Va poi precisato che gli interventi delle forze dell’ordine non presentano facilità di esecuzione non solo per le ragioni in precedenza illustrate, ma anche perché l’area da controllare è particolarmente vasta e, molto spesso, l’intervento non può essere portato a termine con successo se non con l’appoggio determinante degli elicotteri.

A rendere ancor più difficoltosi i controlli contribuisce anche la assoluta mancanza di rispetto delle regole da parte degli equipaggi delle imbarcazioni e dei loro familiari i quali assumono atteggiamenti non solo di sfida alle autorità, ma anche estremamente violenti.

Per dare un’idea di cosa può succedere quando l’intervento delle forze dell’ordine – come spesso avviene – comporta non solo il sequestro del pescato e degli attrezzi (di valore contenuto) utilizzati per la pesca, ma anche dell’intera imbarcazione, è sufficiente ricordare alcuni episodi di cronaca.

Uno dei più significativi avvenne qualche anno fa a seguito del sequestro di un “turbosoffiante” che pescava in zona di divieto in ore notturne. L’imbarcazione, sequestrata dal personale intervenuto, venne collocata presso la Capitaneria di Porto, dunque in zona militare. Immediatamente, in piena notte, si radunarono sul posto altri pescatori unitamente a loro familiari nonostante la distanza tra le isole ove gli stessi risiedono ed il luogo dove si trovava l’imbarcazione in sequestro. La Capitaneria venne assaltata da un numero considerevole di persone ed i locali vennero letteralmente devastati (furono distrutte le suppellettili, divelti i termosifoni, e compiuti altri atti di vandalismo).

Il fatto fu talmente grave che il Procuratore Generale di Venezia ritenne di doverlo ricordare nella relazione sull’amministrazione della giustizia presentata il 15 gennaio 2000 in occasione della inaugurazione dell’anno giudiziario (pag. 13).

Sempre in quell’occasione vennero ricordati altri episodi più recenti, pure verificatisi sempre in occasione di interventi delle forze dell’ordine.

Si fece così riferimento agli innumerevoli atti di resistenza e tentativi di speronamento da parte dei pescatori abusivi ed, ancora, ad un altro significativo episodio avvenuto nell’isola di Pellestrina, una delle roccaforti dei pescatori abusivi.

Si doveva, infatti, procedere al sequestro di 84 imbarcazioni “turbosoffianti” disposto dal G.I.P. per violazione dell’articolo 1231 del codice della navigazione, trattandosi di imbarcazioni che – per la presenza di caratteristiche costruttive particolari non erano in possesso dei requisiti in tema di sicurezza della navigazione.

L’operazione, pianificata da tempo dalla Prefettura e dalla Questura, vide impegnati oltre 300 uomini appartenenti alla Polizia di Stato, la Guardia di Finanza e l’Arma dei Carabinieri provenienti anche da altre parti d’Italia. Nonostante l’imponente spiegamento di forze, i pescatori ed i loro familiari scatenarono una vera e propria azione di guerriglia urbana consentendo ai pescherecci di mollare gli ormeggi e prendere il largo.

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Vennero sequestrate solo 4 imbarcazioni su 84, mentre gli altri pescherecci dell’isola formarono un blocco navale che impedì alle imbarcazioni delle forze dell’ordine di rientrare nelle sedi di appartenenza (dovettero farlo uscendo in mare aperto ed aggirando, con un lungo percorso, il blocco che interessava l’area lagunare).

I sequestri vennero effettuati solo nei giorni successivi. All’inizio dell’anno in corso, inoltre, in un paio di occasioni alcuni

“barchini” – forti del loro numero - hanno minacciosamente occupato lo specchio d’acqua antistante la Stazione Navale della GdF nell’isola della Giudecca, praticamente di fronte a San Marco, quale reazione al sequestro di un natante dopo aver praticamente inseguito fino alla base l’imbarcazione militare che li aveva precedentemente sorpresi.

Il Procuratore Generale di Venezia, nella relazione di cui si è detto, così commentava questi avvenimenti: “Tali episodi, che richiamano altri particolarmente violenti che hanno visto protagonisti in Puglia gruppi di contrabbandieri, sono emblematici di una certa cultura dell’illegalità e delle conseguenze cui porta. Sottrarsi ripetutamente con tali modalità all’Autorità delle decisioni giudiziarie è indicativo dei rilevanti guasti prodotti nel sistema da tale “cultura”.

Non sorprenderà certo il lettore apprendere che tali affermazioni non sono state affatto gradite dai pescatori e dai loro familiari tanto che gli stessi si sono sentiti in dovere di rilasciare dichiarazioni fortemente critiche alla stampa locale.

Costoro non perdono inoltre occasione per concedere interviste o lanciare appelli attraverso i mezzi di informazione rivendicando un proprio diritto ad esercitare la pesca con le modalità descritte e trovando talvolta, purtroppo, anche chi ne giustifica l’operato.

Il fenomeno è stato oggetto di attenzione, anche recentemente, da parte dei mass media in generale e, in particolare, di un noto programma televisivo ed è assolutamente necessario che sia costantemente presente a tutti coloro che si occupano di tutela dell’ambiente e della salute non solo perché chi svolge l’attività illecita di pesca possa comprendere che non esistono “aree di extraterritorialità” dove la presenza dello Stato viene avvertita come una fastidiosa intrusione, ma anche per le gravi conseguenze che potrebbe determinare il diffondersi di un commercio clandestino di molluschi destinati al consumo umano senza i dovuti controlli sanitari.

Fortunatamente, l’attività di repressione esercitata (seppure con i limiti in precedenza evidenziati) dalle forze di polizia comincia a fornire i primi risultati. Pesanti sanzioni sono state inflitte all’equipaggio di un “barchino” che aveva opposto resistenza ad una imbarcazione della Guardia di Finanza in occasione di un controllo effettuando evoluzioni pericolose e diversi speronamenti.

Oltre al reato di resistenza a pubblico ufficiale, sanzionato dall’articolo 337 C.P., in casi del genere risultano perfezionati anche gravi reati previsti dal codice della navigazione che si aggiungono a quelli contemplati dallo stesso

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codice e conseguenti alle modifiche effettuate sulle imbarcazioni per esercitare la pesca abusiva.

Le imbarcazioni utilizzate dalle forze di polizia sono infatti qualificate come “navi da guerra” essendo dotate dei requisiti richiesti per tale categoria di natanti. Le attività finalizzate all’elusione dei controlli possono dunque configurare anche l’ipotesi di resistenza o violenza a nave da guerra punita dall’articolo 1100 con una pena da tre a dieci anni di reclusione per il comandante della nave, ovvero il meno grave reato previsto dall’articolo 1099 (rifiuto di obbedienza a nave da guerra). Inoltre, quando i tentativi di speronamento sono tali da impedire il galleggiamento o la regolare navigazione del natante delle forze di polizia, può anche configurarsi il reato di naufragio, anch’esso pesantemente sanzionato.

I reati sopra menzionati consentono anche l’arresto in flagranza dei responsabili ed a tale misura si è recentemente fatto ricorso per reprimere un fenomeno ormai eccessivamente diffuso e che merita, da parte di tutti, una continua attenzione in quanto terreno fertile per possibili infiltrazioni, sinora fortunatamente solo paventate dagli organi di stampa, da parte della criminalità organizzata. 9.6 Pesce all’”acqua pazza”

A Napoli e provincia negli ultimi anni sono sempre di più aumentati i sequestri di prodotti ittici allevati nel totale disprezzo delle norme igienico sanitario e venduti illegalmente. Un grave fenomeno che aumenta con l'avvicinarsi delle festività natalizie e con la stagione estiva. Spigole ed orate scongelate con acqua torbida, mitili, cozze, calamari immerse in vasche contenenti acqua di dubbia provenienza. Uno scandalo già ribattezzato quello del pesce all'acqua pazza.

Tra gennaio 2000 e maggio 2001 si stima, secondo le principali operazioni di Polizia, sono stati sequestrati e distrutti oltre 20 quintali di frutti di mare coltivati abusivamente o venduti privi di qualsiasi elementare requisito igienico sanitaria. Il tutto è iniziato nel dicembre del '99, i carabinieri, in seguito ad un inchiesta coordinata dai Sostituto Procuratore Arcibaldo Miller ed Alfonso Papa, individuarono un vero e proprio attentato alla salute pubblica. Acqua inquinata prelevata al Molosiglio di Napoli o sulla spiaggia di Vigliena, alla periferia orientale di Napoli veniva usata per scongelare, lavare e rinfrescare il pesce da mettere sul mercato in vista delle festività natalizie. Nei pressi del Molosiglio, un uomo aveva piazzato in mare una motopompa, e dietro compenso di 10mila lire a carico, riforniva di acqua sporca autocisterne e furgoni frigo, in alcuni casi addirittura cisterne utilizzate precedentemente come spurgo per le fogne. I carabinieri seguendo il carico scoprirono che quel liquido melmoso veniva distribuito alle pescherie della città. Il risultato delle analisi sul campione d'acqua furono drammatiche: la concentrazione dei colibatteri superava migliaia di volte la soglia prescritta dalla legge. Tutto ciò

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in barba a qualsiasi legge, basti pensare che a Napoli è in vigore un ordinanza sindacale risalente al 1976 che fa divieto di utilizzare acqua di mare raccolta sul litorale urbano, là dove non è consentita la balneazione, per lavare o tenere in fresco prodotti ittici .In seguito all'indagine , nel febbraio 2000, i carabinieri presentano le prove pesanti di tutto ciò. Le immagini girate dalle forze dell'ordine sono chiare e nitide: vengono ripresi alcuni addetti del mercato ittico ed alcuni commercianti mentre scongelavano o sciacquavano pesce con acqua altamente inquinata prelevata in alcuni casi a Vigliena, a pochi metri dalla bocca del collettore fognario. Denunciate 4 persone e sequestrato oltre 400 kg tra pesce e mitili in cattivo stato. Si cambia luogo, Castellammare di Stabia, ma il copione rimane identico. Lo scorso 21 maggio, militari della Capitaneria di Porto sequestrano e distruggono oltre 10 quintali di mitili coltivati nelle acque altamente inquinate del porto della cittadina vesuviana. Nello stesso punto in aprile furono distrutti altri 50 quintali di mitili coltivati abusivamente a pelo d'acqua. L'ultimo sequestri lo scorso 7 giugno, a Torre Annunziata, in via De Simone, sede del abituale mercatino "abusivo" privo dei più elementari requisiti igienico-sanitari. Sequestrati oltre 400 chili di frutti di mare e pesci di varie specie perchè venduti a temperatura ambiente, senza protezione, in cattivo stato di conservazione. Insomma un fenomeno che rappresenta un campanello dall'allarme per la sicurezza della salute dei consumatori. Durante in convegno dell'Istituto dei tumori "Pascale" di Napoli sono stati resi noti dei dati dell' Asl risalenti al periodo gennaio-ottobre 2000 a Napoli e provincia secondo i quali sono stati registrati 150 contagi di epatite A, una diffusione che sarebbe tornata ai livelli della metà degli anni ottanta dopo dieci anni di relativo calo.

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10. Prevenire spigola pazza

La sindrome di mucca pazza ha fatto riscoprire agli italiani il consumo di pesce. Spigole, orate, trote e sogliole hanno invaso le tavole dei consumatori, facendo registrare per questo ultimo anno un vero e proprio boom dei consumi ittici. Ma si può davvero essere sicuri del pesce che finisce nei nostri piatti? Quali sono le garanzie per i consumatori di non trovarsi a mangiare una bella spigola, allevata ad antibiotici, nutrita con mangimi di dubbia provenienza e cresciuta in vasche pulite con sostanze tossiche, se non addirittura cancerogene? Se è vero, infatti, che la produzione italiana per la maggior parte è garantita, altrettanto non si può dire per quella che arriva dall’estero - più del 60% del pesce che finisce sulle nostre tavole - dove regna, soprattutto negli allevamenti dei paesi extra-europei una totale deregulation. Per scongiurare il rischio di una nuova emergenza alimentare, è necessario che il nostro Paese si doti perciò urgentemente di una normativa più rigorosa e precisa per garantire la sicurezza dei consumatori. Da una legge che non ammetta frodi e sofisticazioni, ad una sorta di “vademecum del buon allevamento” per certificare ogni passaggio della filiera produttiva, dalla preparazione del mangime all’arrivo del prodotto sui banchi di vendita.. 10.1 L’import di prodotti ittici Si stima che una quota superiore al 60% dei prodotti ittici arrivi da oltre frontiera. In cifre questo vuol dire che nel primo semestre del 2000 sono state importate più di 405mila tonnellate di pesce, provenienti per più del 56% dai paesi dell’UE (Spagna, Danimarca, Olanda, Francia, Grecia, Regno Unito e Germania) e per il restante 44% (più di 177mila tonnellate) da altri paesi fra cui Argentina, Marocco, Thailandia e Colombia. E’ nell’importazione, soprattutto quella dai paesi extra-europei, che risiede il rischio maggiore per il pesce che consumiamo sulle nostre tavole. La garanzia di un prodotto “di qualità” in questi casi è assolutamente aleatoria e il rischio per il consumatore italiano, risiede proprio nel fatto che al momento dell’acquisto, nella maggioranza dei casi, non è assolutamente possibile distinguere il prodotto nostrano da quello proveniente da altri paesi. Ma quali sono i maggiori rischi evidenziati? In primo luogo, in molti dei paesi extra-europei importatori vige un regime da far-west, in cui è consentita qualunque frode, purché venga garantito il profitto economico. Alcuni esempi: - si utilizzano antibiotici nella fase larvale del pesce che conseguentemente

finiscono nel piatto del consumatore; - per la disinfestazione delle vasche vengono adoperate sostanze tossiche o

addirittura cancerogene come il furaltadone, il furazolidone (sostanze potenzialmente tossici), il verde malachite (nocivo per esposizione acuta, presenta gravi rischi per la salute se ingerito, inalato o portato a contatto

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con la pelle), la formalina. Anche in questo caso la catena alimentare porta queste sostanze direttamente dalle carni del pesce al piatto di chi mangia;

- negli impianti di maricoltura per la protezione delle reti vengono utilizzate vernici antifouling, che contengono stagno, altri metalli pesanti e PCB, Policlorobifenile (cancerogeno)

- si utilizzano mangimi scadenti, in alcuni casi vere e proprie concentrazioni di veleni.

Provenienza delle principali specie di importazione dell’acquacoltura Spigole ed orate dalla Grecia, Turchia, Malta e Tunisia Salmone dalla Norvegia, Scozia e Cile Mitili dalla Spagna e dalla Grecia Ostriche dalla Francia Cozze dalla Grecia e dell’Albania

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Le principali specie importate (pesca e acquacoltura - 1°semestre ‘99)

60% 40% pesci molluschi crostacei Tonni, naselli, merluzzi, salmoni, passere, pesce spada, sgombri, sogliole, alici, spigole, orate, rane pescatrici, sarde, dentici, scorfani, anguille, suri, carpe, rombi

Calamari, seppie, mitili, polpi, totani, ostriche, vongole, cappesante

Gamberetti, mazzancolle, scampi, gamberi, astici, granchi, aragoste

I principali paesi importatori (1° semestre 99) in ordine di quantitativi importati

56% 44% UE Extra UE Spagna, Danimarca, Francia, Grecia, Germania, Regno Unito, Portogallo, Svezia, Irlanda, Belgio, Austria, Finlandia, Lussemburgo

Argentina, Perù, Thailandia, Marocco, Ecuador, Colombia, Senegal, Sudafrica, Corea Del Sud, Taiwan, Usa, India, Norvegia, Tunisia, Seychelles

10.2 La situazione italiana

La garanzia dei prodotti ittici allevati nel nostro paese arriva principalmente dall’autocontrollo da parte delle cooperative di pescatori. Non solo, grazie all’introduzione della normativa Haccp destinata a tutti i produttori (Analisi del Rischio e Controllo dei Punti Critici) periodicamente gli impianti di maricoltura e pescicoltura vengono sottoposti alle ispezioni da parte delle Asl locali, dei Nas che una volta l’anno controllano i mangimi, dei Laboratori di Igiene e profilassi che due volte l’anno controllano le acque reflue.

Ma la buona volontà e lo spontaneismo dei produttori non bastano. Nel nostro paese, infatti, non esiste una reale garanzia per fermare la frode e le incertezze e il potenziale di rischio legati all’emergenza alimentare, dimostrano che non è possibile abbassare la guardia. Attualmente in Italia non esiste una legge in materia. E’ perciò urgentissimo che si istituisca un quadro normativo preciso e rigoroso che fissi, senza possibilità di deroga, quelle norme di sicurezza e garanzia irrinunciabili. Attraverso il rafforzamento dei sistemi di prevenzione ed un controllo esteso a tutta la catena produttiva, attraverso procedure di tracciabilità del prodotto, attraverso l’etichettatura di origine e adeguate clausole di cautela.

Allo stato attuale l’unico provvedimento in tal senso riguarda l’utilizzo di farine animali ed è previsto nell’emendamento alla Legge Finanziaria a favore dell’agricoltura biologica, approvato alla camera lo scorso novembre. Nell’emendamento si stabilisce che gli animali da allevamento devono essere

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nutriti compatibilmente con l’alimentazione naturale ed etologica della singola specie, e pertanto ai pesci vanno somministrate solo farine di pesce.

10.3 Le regole del buon allevamento E’ necessario istituire una piattaforma su cui impostare una normativa rigorosa in materia di allevamento ittico e che garantisca al consumatore l’acquisto di un prodotto sano e garantito e, soprattutto, scongiuri il rischio di un’emergenza alimentare. Le linee guidadovrebbero ricalcare quelle del codice FAO dell’acquacoltura responsabile. In particolare: - certificare e controllare ogni passaggio della filiera produttiva, dalla

preparazione del mangime all’arrivo del prodotto sui banchi di vendita; - vietare l’utilizzo di qualunque sostanza o procedura nell’allevamento

pericolosa per la salute del consumatore (antibiotici, sostanze tossiche, vernici antifouling, etc);

- utilizzo di mangimi selezionati e di cui si conosca la provenienza e la produzione;

- imporre la riconoscibilità del prodotto nazionale, attraverso l’etichettatura del pescato;

- garantire la catena del freddo (+4° costanti) dal momento della pesca, al trasporto, fino a quello della vendita;

- per la tutela dell’ambiente impedire l’introduzione di specie alloctone, che rischiano di compromettere l’ecosistema marino ed imporre la VIA (Valutazione di Impatto Ambientale) per la realizzazione degli impianti di maricoltura.

10.4 L’allarme diossina

La valutazione qualitativa e quantitativa della presenza di sostanze chimiche contaminanti e di altri materiali di origine antropica nei prodotti ittici rappresenta uno degli aspetti emergenti da tenere sotto osservazione in un’ottica di controllo e certificazione della qualità dei prodotti del mare e dell’acquacultura. Studi recenti evidenziano come differenti tecniche di allevamento ed ambienti marini caratterizzati da livelli diversi di inquinamento determinano condizioni di bioaccumulo di sostanze inquinanti nei tessuti. In particolare è proprio l’alimentazione attraverso mangimi artificiali e trattamenti con ormoni e farmaci a rappresentare uno dei fattori in gradi di condizionare la qualità del pesce. Secondo uno studio dell’Università di Siena, le analisi sui pesci italiani dicono che i valori di tossici equivalenti alla diossina nel Mediterraneo sono bassi, mentre è evidente che l’emergenza riguarda prevalentemente i prodotti provenienti dai Mari del Nord, dove i dati mostrano presenza di sostanze inquinanti molto superiori a quelle della nostra penisola. Ciò non toglie che bisognerà in futuro estendere la ricerca ai pesci di taglia più grande e comunque mettere in campo tutte le iniziative possibili per migliorare

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lo stato di salute del mare e per rendere ancora più incisivi i controlli sugli allevamenti. Sei le aree tenute sotto osservazione in mare aperto (Mar Ligure, Canale di Sardegna, Basso Tirreno, Ionio, Basso Adriatico, Alto Adriatico) e tre gli allevamenti di spigole e orate passati al setaccio (le vasche di Torre del Sale in Toscana e gli impianti di maricoltura di Mattinata in Puglia e di Salerno in Campania). Ebbene in tutti i casi e per tutte le specie osservate i valori, anche quelli peggiori, sono rimasti al di sotto della potenziale soglia di pericolosità per l’uomo. Per contro la presenza di sostanze contaminanti - anche se al disotto dei parametri imposti dall’UE - sottolinea l’importanza e la necessità di interventi per migliorare lo stato di salute del mare e garantire così una maggiore sicurezza alimentare e sanitaria per i consumatori.

Ma per prima cosa guardiamo cosa mettono in risalto gli esami di laboratorio, tenendo presente che la soglia di potenziale rischio per le diossine e le altre sostanze tossiche equivalenti (Teq) è fissato attualmente fra 1 e 4 picogrammi/g di prodotto (un picogrammo è pari a 10-12 grammi), che corrisponde a una dieta giornaliera di 200 grammi di muscolo e ad una assunzione quotidiana al di sotto della soglia considerata di rischio per l’uomo. Nei polpi i valori più bassi di diossina e composti simili: si va infatti dallo 0,06 pg/g del pescato del Mar Ligure allo 0,45 pg/g del Basso Tirreno. Bassi anche i valori di sostanze tossiche trovati negli scampi (0,12 e 0,13 pg/g nello Ionio e nella Sardegna sud-occidentale, 0,15 e 0,16 pg/g nel Basso e nell’Alto Adriatico fino ad un massimo di 0,36 pg/g nel Basso Tirreno). Triglie e naselli oscillano invece da un minimo di 0,27 pg/g della Sardegna sud-occidentale ad un massimo di 0,71 del Basso Tirreno. Mentre solo le sardine e solo nella zona dell’Alto Adriatico si avvicinano alla soglia di 1 pg/g con un valore di 0,99.

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LIGURELIGURE

Nasello: 0.50 pg/g p.f.Sardina: 0.80 pg/g p.f.Scampo: 0.20 pg/g p.f.Triglia: 0.50 pg/g p.f.Polpo: 0.06 pg/g p.f.

ALTO ADRIATICOALTO ADRIATICO

Nasello: 0.45 pg/g p.f.Scampo: 0.16 pg/g p.f.Sardina: 0.99 pg/g p.f.Triglia: 0.35 pg/g p.f.Polpo: 0.19 pg/g p.f.

BASSO TIRRENO

Nasello: 0.71 pg/g p.f.Sardina: 0.19 pg/g p.f.Scampo: 0.36 pg/g p.f.Triglia: 0.51 pg/g p.f.Polpo: 0.45 pg/g p.f.

IONIOIONIO

Nasello: 0.36 pg/g p.f.Sardina: 0.20 pg/g p.f.Scampo: 0.12 pg/g p.f.Triglia: 0.33 pg/g p.f.Polpo: 0.08 pg/g p.f.

BASSO ADRIATICOBASSO ADRIATICO

Nasello: 0.46 pg/g p.f.Sardina: 0.30 pg/g p.f.Scampo: 0.15 pg/g p.f.Triglia: 0.36 pg/g p.f.Polpo: 0.22 pg/g p.f.

Valori medi dei TEQ (PCB+TCDD+PCN+PCDF) nei prodotti della pescaValori medi dei TEQ (Valori medi dei TEQ ( PCB+TCDD+PCN+PCDFPCB+TCDD+PCN+PCDF) nei prodotti della pesca) nei prodotti della pesca

SARDEGNA SUDSARDEGNA SUD--OCCIDENTALEOCCIDENTALE

Nasello: 0.41pg/g p.f.Sardina: 0.79 pg/g p.f.Scampo: 0.13 pg/g p.f.Triglia: 0.27 pg/g p.f.Polpo: 0.19 pg/g p.f.

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11. Il mare inquinato

I reati per inquinamento dei mari rispetto al 1999 sono più che

raddoppiati. Basta questo dato per fotografare il pericolo che continua ad incombere sui nostri mari: troppi ancora sono i depuratori fuorilegge e gli scarichi fognari non trattati che minacciano l’ecosistema marino.

La classifica per reati di questa tipologia vede nei primi cinque posti le regioni italiane con il mare più cristallino ed incantevole del Belpaese. In “pole position” troviamo la Calabria con 535 infrazioni accertate, pari ad oltre il 20% del totale nazionale (erano state 137 nel 1999, quando la Calabria occupava il quarto posto di questa classifica). Seguono sul podio del “mare inquinato” la Sicilia e la Puglia (rispettivamente con 401 e 399 reati accertati), che, nonostante scendano di posizione rispetto alla classifica dello scorso anno, sono state vittime di un numero pressoché doppio di reati rispetto al ’99. Occupano la quarta e la quinta posizione la Campania (263 infrazioni) e la Sardegna (176). LA CLASSIFICA DEL MARE INQUINATO (2000)

Regione Infrazioni accertate

Persone denunciate o arrestate

Sequestri effettuati

1 Calabria ↑ 535 481 21 2 Sicilia ↔ 401 351 0 3 Puglia ↓ 399 248 10 4 Campania ↓ 263 241 7 5 Sardegna ↔ 176 166 5 6 Abruzzo ↑ 174 168 0 7 Marche ↑ 148 116 0 8 Liguria ↓ 118 81 0 9 Toscana ↓ 114 81 0 10 Lazio ↓ 99 77 0 11 Veneto ↓ 83 66 0 12 Emilia Romagna ↑ 57 46 0 13 Friuli Venezia Giulia ↑ 40 38 2 14 Molise ↔ 9 7 0 15 Basilicata ↓ 0 0 0 Totale 2616 2167 45

Fonte: elaborazione Legambiente su dati delle forze dell’ordine e Capitanerie di porto

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11.1 I dati del Ministero della Sanità sulle acque di balneazione

All’inizio del mese di maggio, come ogni anno, il Ministero della Sanità ha presentato il Rapporto annuale sulla qualità delle acque di balneazione, valido per la stagione balneare di quest’anno: la tabella qui di seguito ne riporta i dati.

Dei 7.375 km totali ne risultano balneabili solo 4.842,6, ben 142 km in meno rispetto allo scorso anno. Andando ad analizzare le singole voci, si evidenzia che tale peggioramento è dovuto non tanto all’inquinamento, ma in massima parte all’aumento della costa non controllata o insufficientemente campionata, che passa dai 1.104,7 km del rapporto 2000 ai 1.248,4 di quest’anno.

Sono 403 i km di costa che risultano inquinati, rappresentando un rischio per la salute dei bagnanti. 269 di questi lo sono in maniera permanente tanto che su di essi non viene più fatto alcun tipo di monitoraggio.

Ancora una volta la “maglia nera” spetta alla Campania, come regione con la maggiore percentuale di chilometri costieri non idonei alla balneazione per inquinamento (92,5 km, pari al 19,7%), seguita dal Lazio (39,5 km, pari al 10,9%)

Tra le province, la più inquinata è Caserta con il 54,7% di costa non balneabile, dove si riscontra un peggioramento rispetto all’anno scorso (45,3%), seguita da Pescara (35,5%), Napoli (24,5%) e Roma con il 19,9%, dove invece si riscontra un lieve miglioramento (21,1%, dato anno precedente).

Nel 2000 circa 250 km di costa sono risultate balneabili facendo ricorso alla deroga per quanto riguarda i limiti della percentuale di saturazione dell’ossigeno disciolto (regioni Sardegna, Veneto, Emilia-Romagna, Marche e Lazio), registrando una diminuzione rispetto ai 342km dell’anno scorso. Tale miglioramento si registra in misura maggiore nella regione Toscana, che per quest’anno non ha chiesto alcuna deroga, e il Veneto, dove quest’anno la costa in deroga è di 11,3 km, contro i 57 dell’anno precedente (quando nel solo comune di Venezia 43,4 km erano entrati nella deroga, ed attualmente non risulta nessun tratto). Ad esclusione dei 186 km della Sardegna, per cui vige una deroga al limite superiore della percentuale di saturazione dell’ossigeno disciolto per motivi naturalistici, indipendenti dall’inquinamento, rapportando i miglioramenti di quest’anno con i chilometri di costa in deroga dell’anno precedente, si evidenzia come nella maggior parte dei casi questo parametro può rientrare nei limiti di legge, con iniziative per la riduzione delle fonti di inquinamento e di gestione della fascia costiera.

Manca del tutto la consapevolezza che per dare un futuro alla spiccata vocazione balneare dell’Italia, bisognerebbe concedere meno deroghe e impegnarsi di più per migliorare davvero la qualità ambientale delle coste, delle spiagge, del mare. Sarebbe inoltre molto utile capire quali sono le principali cause dell’inquinamento delle coste, e quindi oltre a fare i campionamenti delle acque di mare, è necessario avere il quadro di cosa succede nell’entroterra. Questo è stato l’approccio utilizzato dalla scorsa

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Commissione sulle acque di balneazione (decaduta a settembre 2000) che ha portato alla redazione e all’inserimento nel rapporto annuale sulle acque di balneazione anche di un resoconto delle acque interne, della depurazione ecc. Lo scorso anno l’unica regione che aveva raccolto ed organizzato i dati è stata la Toscana.

Quest’anno, i rapporti regionali non sono stati integrati nel rapporto annuale sulle acque di balneazione, ne è stata comunicata la prossima pubblicazione per la Toscana, l’Emilia-Romagna, le Marche, e la Sardegna, ma al momento in cui viene redatto questo dossier non risulta che siano stati pubblicati.

Tali rapporti ambientali, di relazione tra i dati sulla qualità delle acque di balneazione e le pressioni antropiche presenti sul territorio, sono peraltro necessari per le azioni di risanamento già previsti dal testo unico sulle acque 152/99, e rientrano nelle indicazioni della commissione europea di revisione della direttiva comunitaria sulla qualità delle acque di balneazione, in quanto strumenti utili anche ai fini della tutela delle acque a scopo ricreativo

Ci auguriamo quindi che le regioni già in grado di farlo rendano pubblici al più presto queste informazioni e che dall’anno prossimo i rapporti ambientali siano integrati al rapporto della Sanità.

A partire dalla stagione balneare di quest’anno sarà in vigore l’art.17 della legge 422 del dicembre 2000, che prevede alcune modifiche al Dpr.470/82, rese necessarie per rendere il nostro ordinamento omogeneo alla direttiva comunitaria d’origine. Le principali modifiche riguardano la definizione della qualità delle acque di balneazione e il numero di prelievi minimi da effettuare nell’arco di tempo dei sei mesi previsti come periodo di riferimento, in pratica i 12 prelievi divengono il minimo possibile.

In base a questa legge di modifica le competenze dei controlli della qualità delle acque di balneazione passano alle Agenzie regionali di protezione ambientale (che non esistevano al momento della stesura del Dpr.470/82). Inoltre, tale legge risulta maggiormente restrittiva, in particolare:

l’art. 7 è completamente sostituito e non esiste più la possibilità di definire un punto “temporaneamente non balneabile” e durante la stagione balneare in corso in caso di risultati sfavorevoli, non esiste più la chance dei 5 prelievi consecutivi favorevoli, infatti nel caso in cui : “ i risultati dei campioni routinari prelevati in uno stesso punto dimostrino la non idoneità alla balneazione con un numero di campioni non conformi superiori ad un terzo di quelli effettuati, la zona interessata dovrà essere vietata alla balneazione”. La zona sarà nuovamente aperta alla balneazione qualora rimosse la cause di inquinamento, i campioni effettuati negli ultimi sei mesi (anche a cavallo di due stagioni balneari ) diano esito favorevole. qualora i parametri coliformi totali e coliformi fecali superino i

valori di 10.000/100ml e 2000/100 ml, la percentuale dei campioni conformi per detti parametri è aumentata al 95 per cento (anziché all’80 %);

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se nella stagione balneare precedente sono stati effettuati campionamenti in numero inferiore a quelli minimi previsti, la zona dovrà essere vietata alla balneazione e il divieto potrà essere rimosso solo a seguito dell’esito favorevole di analisi eseguite per un intero periodo di campionamento. Quest’ultimo punto è particolarmente restrittivo, infatti nel caso in cui su di un punto fossero effettuati campionamenti in numero insufficiente, quale è stato il caso delle isole Eolie per questa stagione balneare, andrebbe vietata la balneazione anche se le analisi in corso durante la stagione balneare stessa dessero esiti favorevoli. Particolarmente importante è l’inserimento degli obblighi per le Regioni di adottare misure di miglioramento, nel rispetto delle disposizioni del decreto legislativo 152/99, quindi non è più possibile vietare in maniera permanente alla balneazione tratti di costa per inquinamento, ma è necessario rimuovere i fattori d’impatto che ne hanno determinato la non balneabilità.

DATI QUALITA’ DELLE ACQUE DI BALNEAZIONE REGIONE PROVINCIA

COSTA TEMP. VIETATA PER INQUIN. (KM)

COSTA PERMAN. VIETATA PER INQUIN. (KM)

COSTA NON CONTROLLA-TA O INSUFF. CAMPIO- NATA (KM)

COSTA CON DEROGHE (KM)

COSTA BALNEA-BILE (KM)

Imperia 2.4 0.0 0.0 0.0 54.7 Savona 0.5 0.0 0.0 0.0 70.7 Genova 4.3 0.8 0.0 0.0 78.0 La Spezia 0.2 0.3 0.0 0.0 76.4 LIGURIA 7.4 1.1 0.0 0.0 279.8 Forlì 0.0 0.2 0.0 0.0 8.8 Ravenna 0.0 2.0 0.0 11.3 36.3 Ferrara 0.0 0.0 0.0 15.3 21.8 Rimini 0.0 0.5 0.0 0.0 32.4 EMILIA ROMAGNA

0.0 2.7 0.0 26.6 99.3

Rovigo 2.3 0.0 0.0 11.3 11.3 Venezia 0.0 0.0 0.0 0.0 92.9 VENETO 2.3 0.0 0.0 11.3 104.2 Udine 0.0 0.0 0.0 0.0 12.5 Gorizia 0.0 0.0 0.0 0.0 25.3 Trieste 0.0 0.0 0.0 0.0 24.6 FRIULI 0.0 0.0 0.0 0.0 62.4

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VENEZIA GIULIA Massa Carrara

0.2 0.5 0.0 0.0 10.0

Lucca 0.0 0.0 0.0 0.0 19.8 Pisa 0.0 3.4 0.0 0.0 26.1 Livorno 0.7 2.3 72.8 0.0 194.1 Grosseto 0.0 4.8 56.7 0.0 134.7 TOSCANA 0.9 11.0 129.5 0.0 384.7 Viterbo 0.2 2.2 0.0 0.0 25.3 Roma 7.8 19.1 0.0 4.4 85.6 Latina 4.1 6.1 0.0 1.3 163.7 LAZIO 12.1 27.4 0.0 5.7 274.6 Chieti 1.2 3.3 0.0 0.0 60.5 Pescara 4.1 0.6 0.0 0.0 7.8 Teramo 0.0 1.2 0.0 0.0 43,4 ABRUZZO 5.3 5.1 0.0 0.0 111.7 Campobasso 0.0 0.7 0.0 0.0 33.1 MOLISE 0.0 0.7 0.0 0.0 33.1 Ascoli Piceno 0.6 2.9 0.0 0.4 42.5 Macerata 2.4 1.0 0.0 0.0 18.1 Ancona 1.9 0.7 0.0 0.0 47.5 Pesaro 0.3 0,8 0.0 19.7 42.8 MARCHE 5.2 5.4 0.0 18.3 150.9 Caserta 24.6 0.0 0.0 0.0 19.7 Napoli 36.6 17.6 2.2 0.0 146.4 Salerno 13.7 0.0 0.0 0.0 179.4 CAMPANIA 74.9 17.6 2.2 0.0 345.5 Potenza 0.8 0.0 1.3 0.0 21.5 Matera 0.0 1.6 0.0 0.0 36.3 BASILICATA 0.8 1.6 1.3 0.0 57.8 Catanzaro 0.5 5.8 51.1 0.0 41.6 Cosenza 0.1 14.4 2.2 0.0 205.5 Crotone 0.0 1.8 24.8 0.0 77.9 Reggio Calabria

2.9 4.9 2.1 0.0 170.9

Vibo Valentia

1.6 2.7 0.9 0.0 60.4

CALABRIA 5.1 29.6 81.1 0.0 556.3 Foggia 0.0 6.7 1.1 0.0 213.3 Bari 1.0 20.7 8.5 0.0 109.8 Taranto 0.0 0.8 23.5 0.0 85.5 Brindisi 0.0 4.3 1.8 0.0 83.0

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Lecce 0.0 13.5 36.3 0.0 206.2 PUGLIA 1.0 46.0 71.2 0.0 697.8 Trapani 0.0 7.2 168.1 0.0 145.3 Palermo 1.2 21.6 25.8 0.0 97.8 Messina 0.4 18.7 119.5 0.0 224.4 Agrigento 0.4 1.5 77.8 0.0 110.6 Caltanissetta 2.4 0.9 0.0 0.0 24.9 Catania 0.6 3.8 4.6 0.0 43.9 Ragusa 0.4 0.6 8.4 0.0 83.5 Siracusa 0.9 5.6 2.9 0.0 105.6 SICILIA 6.3 59.9 407.1 0.0 836.0 Sassari 0.5 37.8 329.8 140.6 353.4 Nuoro 0.0 4.6 70.0 13.7 152.2 Cagliari 0.9 12.9 140.5 9.9 270.9 Oristano 0.6 5.7 15.7 21.8 72.0 SARDEGNA 2.0 61.0 556.0 186.0 848.5 Totale Nazionale 123.3 269.1 1.248,4 247.9 4842.6 Fonte: Ministero della Sanità, 2001 11.2 I dati di Goletta Verde 2000 sulle foci dei fiumi

Come ogni anno durante Goletta Verde 2000 sono state effettuate analisi alle foci dei maggiori fiumi italiani per verificarne l’apporto inquinante alle nostre coste.

I dati ancora una volta hanno confermato che la maggiore fonte di inquinamento delle acque marino-costiere viene da terra, attraverso le acque dei fiumi. Delle 51 foci analizzate, il 60,8% (31 foci) è risultato gravemente inquinato, 8 foci molto inquinate, 10 lievemente inquinate e solo 2 (foce Ausa ad Aquileia e Foce Uniti in Emila-Romagna) hanno fatto registrare valori nei limiti della normativa sulla balneazione.

Quindi, se si vuole migliorare la qualità delle acque di balneazione bisogna intervenire a scala di bacino, con azioni mirate al miglioramento della qualità delle acque interne e ad una più corretta gestione dell’intero ciclo delle acque, della risorsa idrica e del territorio.

Gli interventi più urgenti sicuramente riguardano il sistema depurativo, attualmente assolutamente insufficiente, come riportato nei paragrafi successivi.

I parametri considerati per le acque di foce dei fiumi sono quelli relativi

alla normativa sulla balneazione: Coliformi totali (2.000 ufc/100ml), Coliformi fecali (100 ufc/100 ml) e Streptococchi fecali (100 ufc/100ml).

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Legenda: * non inquinato (tutti i parametri entro i limiti di legge) ** leggermente inquinato (almeno un parametro oltre i limiti di legge) *** inquinato (uno o più parametri almeno 5 volte oltre i limiti di legge) **** gravemente inquinato (uno o più parametri almeno 10 volte oltre i limiti di legge)

LOCALITA’ PUNTO DI PRELIEVO GIUDIZIO Liguria Foce Roia Ventimiglia *** Foce Centa Albenga *** Foce torrente Recco Recco *** Foce Entella tra Lavagna e Chiavari ** Foce Magra Fiumaretta di Ameglia ** Foce Rio Santa Lucia Imperia lido ** Toscana Foce Serchio **** Foce Arno Marina di Pisa **** Foce Calambrone **** Foce Cecina Marina di Cecina ** Foce Ombrone ** Lazio Foce Marta Tarquinia *** Prefoce Tevere Ostia via dell’Idroscalo 252 **** Foce Portatore Porto Badino ** Basilicata Foce Bradano **** Campania Foce Garigliano **** Foce Volturno **** Foce Sarno **** Foce Tusciano Confine comune Battaglia **** Foce Sele **** Foce Alento Ascea *** Calabria Foce Lao Nord di Cirella ** Foce Mesima Rosarno **** Foce Crati Sibari **** Abruzzo Foce Sangro **** Foce Saline Montesilvano **** Foce Vomano Scerne **** Foce Tordino Santa Maria a Mare ****

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Foce Salinello tra Tortoreto e Giulianova **** Marche Foce Musone Marcelli di Numana **** Foce Aso Pedaso **** Foce Chienti Macerata **** Foce Esino Rocca Priora **** Foce Metauro Madonna del Ponte **** Emilia Romagna Foce Rubicone **** Foce Uniti * Foce destra Reno Casal Borsetti **** Foce Po Po Goro **** Friuli Venezia Giulia Foce Tagliamento Lignano Sabbiadoro ** Foce Stella Piancada zona Fraida *** Foce Ausa Aquileia * Foce Timavo Duino **** Veneto Foce Po delle Tolle **** Foce Brenta Chioggia **** Foce Adige *** Foce Piave Cortellazzo **** Foce Livenza Caorle *** Sicilia Foce torrente Mela Barcellona-Messina **** Foce Belice **** Foce Gela Gela ** Foce Simeto Catania **

Fonte: Legambiente, Goletta Verde 2000 11.3. Goletta Verde 2001

Attualmente in sede europea è in discussione la revisione della direttiva 76/160/CEE, sulla qualità delle acque di balneazione, da cui discende il Dpr.470/82, che dovrà tener conto della direttiva quadro sulle acque, che l’Italia ha recepito con il Dlgs. 152/99.

Nell’ultima comunicazione della Commissione europea al Parlamento e al Consiglio (dicembre 2000), si fanno presente i limiti della normativa attuale, rilevando che, seppure vi sia stato un miglioramento rispetto ad una decina di anni fa, negli ultimi anni la qualità delle acque di balneazione costiere è migliorata in maniera meno consistente, risultando così la direttiva attuale non più capace di contribuire a migliorare ulteriormente le condizioni delle acque

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di balneazione. La prossima direttiva dovrà dunque contenere strumenti più sofisticati e attribuire maggiore importanza all’utilizzo delle informazioni e alla partecipazione dei cittadini. Alcuni limiti dell’attuale direttiva evidenziati dalla Commissione sono:

alcuni parametri sono obsoleti e non significativi; il monitoraggio serve solo a verificare la conformità delle acque e

non a comprendere la situazione e quindi le cause; le sole analisi microbiologiche non prevengono i rischi sanitari che

possono esserci durante il tempo di analisi mancano indicazioni di gestione e garanzia della qualità delle

acque. Limiti che ormai da anni Legambiente sottolinea e che ha cercato di

mettere in evidenza con l’azione svolta da Goletta Verde, che già da qualche edizione sta effettuando sperimentazioni su nuovi parametri da usare quali indicatori microbiologici.

In particolare quest’anno che è in corso a livello europeo la discussione sulla nuova direttiva, Legambiente oltre ad aver dato il proprio contributo presentando osservazioni e partecipando alle riunioni tecniche, svolgerà la campagna di monitoraggio di questa edizione di Goletta Verde seguendo le indicazioni della Commissione, sui nuovi parametri microbiologici che verranno sperimentati su oltre 400 campioni di acqua marina..

Verranno quindi inseriti tra i parametri microbiologici analizzati come indicatori della qualità delle acque di balneazione, gli Enterococchi, indicati dalla Commissione come migliori indicatori di inquinamento fecale e quindi di rischio sanitario per i bagnanti, così come riportato anche nelle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 2001. Nel documento dell’Oms vengono indicate classi di qualità delle acque di balneazione per le diverse concentrazioni di Enterococchi, sulla base di dati e di indicazioni epidemiologiche riguardo al rischio di contrarre gastroenteriti.

La Commissione europea propone gli Enterococchi come unico parametro da utilizzare quale indicatore microbiologico di contaminazione fecale, ma Goletta verde affiancherà a questo parametro anche l’analisi dei batteri fecali “classici”, i coliformi fecali e gli streptococchi fecali, previsti dalla normativa vigente (Dpr 470/82) anche per una valutazione della significatività e della correlazione tra i tre parametri di origine fecale.

Rispetto, dunque, ai parametri microbiologici previsti dall’attuale normativa non verranno analizzati i coliformi totali, vista l’ormai accertata loro poco significatività come indicatori di possibile rischio sanitario delle acque di balneazione, così come affermato anche nella proposta della Commissione europea.

In base, dunque alle classi di qualità delle acque di balneazione presenti nelle linee guida dell’Oms, definite in base alle concentrazioni di Enterococchi (Ufc/100ml) e ai limiti del Dpr 470/82 dei coliformi fecali e degli streptococchi fecali, Legambiente ha elaborato la seguente tabella, che verrà utilizzata per la

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definizione del grado di qualità delle acque di balneazione durante questa edizione di Goletta Verde: * Non inquinato (Coliformi fecali e streptococchi fecali entro i limiti del Dpr 470/82 e Enterococchi < 50ufc/100ml) * * Leggermente inquinato (almeno uno dei due parametri CF e SF oltre i limiti del Dpr470/82 e/o Enterococchi tra 50 e 200 ufc/100 ml) * * * Inquinato (uno o entrambi i due parametri CF e SF almeno 5 volte oltre i limiti del Dpr 470/82 e/o Enterococchi tra 200 e 1000 ufc/100ml) * * * * Gravemente Inquinato (uno o entrambi i due parametri CF e SF almeno 10 volte oltre i limiti del Dpr470/82 e/o Enterococchi > 1000 ufc/100 ml) Limiti Dpr 470/82: Coliformi fecali: 100 Unità Formanti Colonia in 100 millilitri (100 Ufc/100 ml) Streptococchi fecali: 100 Unità Formanti Colonia in 100 millilitri (100 Ufc/100 ml)

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11.4 La depurazione in tilt 11.4.1 Lo stato della depurazione in Italia

Per disegnare la mappa dello stato della depurazione nel nostro Paese, abbiamo utilizzato diverse fonti: le pubblicazioni periodiche dell’ISTAT, l’indagine realizzata nel 1996 dalla Proaqua, (Istituto di Studi e ricerche sui servizi idrici che fa capo alla Federgasacqua), il Censimento dei depuratori svolto dal Nucleo Operativo Ecologico dell’Arma dei Carabinieri nel ‘98 e i dati del Noe relativi all’operazione Mare Pulito ’99. Si tratta di numeri che, seppure non sempre confrontabili, consentono di tracciare un quadro abbastanza chiaro della situazione della depurazione e dei suoi problemi.

L’Italia, innanzitutto, è caratterizzata da un grave deficit di depurazione che oscilla dai 29 milioni di abitanti equivalenti, secondo il censimento dell’ISTAT, ai 41 milioni, dell’indagine realizzata dalla Proaqua. Infatti, secondo i dati pubblicati dall’Istituto nazionale di statistica nel 1996, che si riferiscono alla situazione al ’93, la domanda complessiva di depurazione degli scarichi reflui di origine civile si attesta intorno ai 99 milioni di abitanti equivalenti, dei quali ne risultano depurati circa 70 milioni, mentre ben più di 4 milioni e mezzo, secondo i dati i del Noe, non sono serviti a causa del mancato funzionamento di 1.236 depuratori. In base allo studio Proaqua, invece, la domanda di depurazione complessiva dei reflui civili nel nostro Paese si aggira intorno ai 111 milioni di abitanti equivalenti, con una capacità di trattamento dei nostri impianti di depurazione di 69,9 milioni di abitanti equivalenti. Il deficit di depurazione si aggira, dunque, intorno ai 41 milioni di abitanti equivalenti, di cui 16 milioni risultano allacciati alle reti fognarie e non depurati e i restanti 25 milioni non sono neanche allacciati alle reti fognarie. Questo deficit depurativo si concentra soprattutto nel Sud (con notevoli e clamorose eccezioni, a cominciare da Milano, ancora priva di impianti). Lo studio fornisce una valutazione complessiva della popolazione equivalente che scarica acque reflue sul territorio italiano alla fine del 1995, individua le carenze in termini di popolazione equivalente che deve essere allacciata alle reti di collettamento e che deve essere servita da depurazione. Il limite maggiore dell'indagine Proaqua è di essere basata per alcune Regioni su stime e non su rilevazioni dirette; d'altra parte ha il vantaggio di riferirsi alla popolazione equivalente e non alla popolazione residente, includendo così quella quota di acque di scarico prodotte da abitanti fluttuanti o attività industriali e artigianali allacciate alle reti civili. Con tutte le cautele derivanti da un'indagine che fa ampio ricorso a stime, comunque è significativo notare che su scala nazionale la quota di popolazione equivalente allacciata alle reti fognanti è stimata nel 77% del totale, mentre la popolazione trattata dagli impianti in esercizio è stimata nel 63%.

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N. Regione Popolazione AE Tot. Allacciati Allacciati Trattati Tratt./Tot.Residente milioni milioni % milioni %

1. Lombardia 8.856.074 16,2 14,6 90 9,5 592. Veneto 4.380.797 13,1 11,3 86 11,3 863. Piemonte 4.302.565 10,8 10,3 95 6,8 634. Campania 5.630.280 10,7 6,5 61 3,5 335. Toscana 3.529.945 8,0 7,3 91 6,8 856. Lazio 5.140.371 6,6 5,7 86 5,1 777. Emilia R. 3.909.512 6,1 5,4 89 3,8 628. Sicilia (1) 4.966.386 8,5 2,9 34 2,6 309. Sardegna(1) 1.648.248 6,8 3,3 48 3,0 4410. Liguria (1) 1.676.282 5,3 2,7 51 2,4 4611. Friuli V.G. 1.197.666 2,9 2,4 83 2,4 8312. Abruzzo 1.249.054 2,9 1,9 66 1,9 6613. Trentino A.A. 890.360 1,9 1,8 95 1,5 7914. Marche 1.429.205 1,7 1,3 76 1,2 7115. Umbria 811.831 1,0 0,7 70 0,7 6516. Molise 330.900 0,4 0,4 100 0,3 5717. Puglia 4.031.885 5,0 4,7 94 4,7 9218. Calabria (1) 2.070.203 2,5 2,0 80 1,9 7619. Basilicata(1) 610.528 0,7 0,6 77 0,5 7320. Val d'Aosta (1) 115.938 0,1 0,1 77 0,1 73

Totali 56.778.030 111,2 85,9 77 69,9 63

(1) Valori stimati Fonte: Proaqua 1996

Dai dati del censimento dei NOE del ’98 risultano in Italia 8.880 impianti di depurazione pubblici civili realizzati, 819 in costruzione e 638 ancora in fase di progettazione, per un totale di 10.337. Degli impianti esistenti al momento dei controlli sono stati trovati funzionanti 8.046 e 834 (181 in Calabria, 91 in Sicilia, 77 nel Lazio, 70 in Piemonte, 67 in Campania, 50 in Lombardia e 37 in Basilicata) non in funzione.

Dai dati ISTAT risultavano al 1993 9.806 impianti presenti sul territorio (di cui il 61,9% al Nord, 17,7% al Centro e il 20,4% al Sud e sulle Isole) di cui 1.236 non in esercizio, per un totale di 8.570 impianti in funzione. Bisogna tener conto che la ricerca dell’ISTAT includeva anche impianti privati, non censiti dal NOE.

Inoltre, se si considera la tipologia del trattamento dei vari impianti, si evince che nel 33% degli impianti censiti nel ’98 dai NOE, il trattamento è di 1° stadio, che consente quindi solo la rimozione dei solidi sedimentati per

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gravità, con o senza uso di sostane chimiche, comprese le fosse Imhoff; nel 64% dei casi il trattamento raggiunge il 2° stadio, che comporta processi di ossidazione biologica della sostanza biodegradabile, mentre gli impianti di 3° stadio sono presenti sul territorio nazionale in percentuale non superiore al 3%, unico trattamento quest’ultimo che giunge fino alla rimozione del fosforo e dell’azoto presenti sotto forma di fosfati e nitrati.

Altro aspetto verificato dall’operazione dei NOE del ’98 è lo stato della rete fognaria che serve i depuratori: su 7.866 località monitorate, solo 3.635 sono risultate dotate di un sistema di collettamento della rete fognaria soddisfacente, in 3.790 casi lo stato è risultato mediocre e del tutto carente per 441, mentre 1.014 comuni non hanno fornito dati. Le regioni che dispongono di una rete fognaria scarsa e inadeguata sono la Sicilia, la Calabria, la Lombardia, la Liguria e il Piemonte.

Esaminando la qualità delle acque al termine del ciclo di depurazione bisogna dire che il censimento dei NOE prende come riferimento parametri fissati da leggi regionali in attuazione della Legge 319/76 che spesso sono più permissivi dei limiti della stessa legge “Merli”, a loro volta superiori ai parametri stabiliti dal recente D.Lgs 152/99, che ha abrogato la precedente normativa. Inoltre, i dati analitici indicano generalmente la sola componente organica senza appurare l’eventuale presenza di altre sostanza chimiche. Ferme restando tali premesse, dal rapporto del NOE risultano nei limiti tabellari 6.430 impianti, pari all’80% degli impianti verificati, mentre 1.616 (ossia il 20%) sono risultati al di sopra di tali limiti.

Un altro strumento di analisi dello stato di depurazione dei reflui nel nostro Paese è l’analisi delle attività di controllo dei NOE nel settore idrico, svolta tra i primo luglio al 30 giugno ’97. I risultati delle ispezioni relative a depuratori pubblici e privati, scarichi fognari e idrici, evidenziano una situazione caratterizzata da una consistente illegalità: complessivamente il NOE ha svolto 5.380 ispezioni, accertando 3.937 infrazioni. Il settore in cui è stato riscontrato il maggior numero di illegalità è quello degli scarichi fognari e idrici: su 2.432 controlli, le infrazioni accertate, pari a 2.444, superano la quota del 100%; sempre in questo settore si concentra il maggior numero di persone segnalate all’autorità giudiziaria, 2.084, e quello dei sequestri effettuati, 32. Di particolare rilievo è anche il livello di illegalità riscontrato nei depuratori pubblici: in 1.884 controlli, il NOE ha accertato 1.153 infrazioni, pari al 61,2%, segnalando all’autorità giudiziaria 1.073 persone; soltanto due i sequestri effettuati. Quello dei sequestri, invece, è senz’altro l’indicatore più significativo per quanto riguarda i depuratori privati: nel periodo considerato il NOE ne ha effettuati 15, per un valore di 16 miliardi e 882 milioni di lire. Nei 1.064 controlli effettuati, il Noe ha accertato 340 infrazioni (32%) e ha denunciato 262 persone.

Disaggregando questi dati per aree geografiche emerge, con grande chiarezza, un’Italia divisa in due: nelle regioni settentrionali, infatti, le infrazioni accertate nella gestione di depuratori pubblici e privati si fermano al

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19,3% dei controlli effettuati; nel resto del Paese, invece, la percentuale di illeciti va dal 52,9% dell’Italia centrale al 62,1% dell’Italia meridionale.

L’emergenza in questo settore è testimoniata dal Commissariamento di depuratori in diverse aree del nostro Paese: in Campania, nella provincia di Bari, la città di Milano. 11.4.2 Le politiche per la depurazione

Con l’approvazione del D.Lgs 152/99 che recepisce la Direttiva Comunitaria 91/271, tutti gli scarichi degli insediamenti urbani (inclusi quelli turistici) dovranno essere provvisti di reti fognarie e di sistemi di trattamento entro i seguenti termini:

- entro il 31 dicembre 2000 quelli con un numero di abitanti equivalenti (a.e.) superiore a 15.000;

- entro il 31 dicembre 2005, quelli con un numero di abitanti equivalenti compreso tra 2.000 e 15.000 che scarichino in acque interne e quelli con un numero di abitanti equivalenti compreso tra 10.000 e 15.000 che scarichino in acque costiere.

L’attuazione del D.Lgs potrebbe essere un'ottima occasione per affrontare seriamente il problema dell'inquinamento delle nostre acque, ma potrebbe trasformarsi in una ennesima corsa alla realizzazione di nuove opere che spesso restano inutilizzate. Infatti il problema della depurazione è stato affrontato fino ad oggi in Italia con la realizzazione di reti di collettamento e impianti di depurazione sempre più grandi e costosi, trasferendo al nostro territorio approcci e tecnologie importate dall’estero. A tale proposito un’importante documento del Ministero dei Lavori Pubblici uscito nel 1998 sostiene: “Se sicuramente necessari sono gli interventi per il completamento del trattamento nelle aree urbane e nelle concentrazioni industriali, numerose perplessità sorgono circa l’opportunità di estendere il medesimo modello di ragionamento anche ai piccoli centri. In altri Paesi, come la Francia, si cerca di ridiscutere certi aspetti della direttiva 91/271 - e in particolare il suo appiattimento su una situazione insediativa e climatica di tipo «nordeuropeo» mettendone in discussione il «cuore», rappresentato dall’accoppiata fognatura-impianto di depurazione, e sostenendo invece l’equiparabilità in termini di risultati e la superiorità schiacciante in termini di costi di un approccio basato su un modello «diffuso», basato sull’ingegneria naturalistica e la fitodepurazione su piccola scala.”

L’applicazione del D.Lgs 152/99, che consentirà l'adeguamento del sistema di depurazione italiano alla Direttiva Comuntaria, rappresenta dunque un importante banco di prova per verificare la politica di tutela delle acque nel nostro Paese. Prima di entrare nello specifico, per evidenziare opportunità e rischi a cui andiamo incontro, occorre capire come è cambiata la situazione delle infrastrutture per la depurazione, negli ultimi anni e quali benefici ha portato alla qualità di fiumi, laghi e mari Italiani.

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Paragonando il dato del censimento del 1998 del NOE con la situazione fotografata dal censimento dell’ISTAT del 1987 emerge che il numero degli impianti è passato da circa 4.200 a quasi 6.800, che significa una crescita del 60% della dotazione di infrastrutture in 12 anni! A fronte di questa crescita è aumentato anche (sia in valore assoluto che in percentuale sugli impianti esistenti) il numero degli impianti inattivi: complessivamente nel 1987 erano stati rilevati 226 impianti non in esercizio mentre nel 1998 gli impianti inattivi salgono a 834 unità. In termini di potenzialità depurativa degli impianti realizzati si passa da 57, 8 a 74,3 milioni, mentre se consideriamo solo gli impianti in esercizio la crescita è dai 55,8 milioni del 1987 ai 69,8 del 1998.

In base all’indagine del NOE gli impianti civili realizzati consentirebbero di trattare i liquami di quasi 75 milioni di abitanti, un valore superiore a tutta la popolazione italiana. Sembrerebbe un dato rassicurante, bisogna considerare però come abbiamo già accennato in precedenza, che ai depuratori civili arrivano i liquami di una grande quantità di attività artigianali e di piccola industria, per cui il “carico” generato è molto superiore a quello dei soli abitanti. Per questo, a proposito del carico che afferisce a un depuratore, si parla di “abitanti equivalenti”. Inoltre bisogna considerare che la potenzialità censita dal NOE è una potenzialità “di progetto” e non è affatto detto che quella popolazione sia effettivamente allacciata a quel depuratore: più spesso capita che un depuratore sia progettato per servire, ad esempio, 50.000 abitanti ma in realtà è allacciato a una rete fognaria che ne serve solo 30.000, mentre i restanti 20.000 scaricano senza depurazione (vedi indagine Proaqua) Infine bisognerebbe capire se quel 63% della popolazione equivalente allacciata a reti fognarie e depuratori è effettivamente “depurata”. Secondo il censimento del NOE l’80% dei depuratori controllati scaricava a norma di legge: non è un valore elevatissimo ma comunque rassicurante. Purtroppo però il fatto che gli scarichi rispettino i limiti di legge non è assolutamente garanzia che gli scarichi raggiungano un livello di depurazione sufficiente. Si consideri ad esempio il depuratore di Torino (Po Sangone), certamente uno degli impianti più efficienti d’Italia: anche se l’impianto scarica ampiamente nei limiti di legge, poiché la portata dello scarico è molto elevata e il fiume che lo riceve molto povero di acqua l’impatto dello scarico è notevole e provoca un sensibile abbassamento della qualità nel corpo idrico. Questa situazione è destinata a cambiare con l’attuazione del D.Lgs 152/99, che prevede che i limiti allo scarico siano diversificati in funzione delle caratteristiche del corpo recettore, ma per il momento il rispetto dei limiti di legge non è garanzia di efficace depurazione.

Un fatto, però, nonostante la scarsità di dati sulla funzionalità dei depuratori, appare chiaro: a fronte della notevole crescita degli impianti di depurazione, non migliora sensibilmente la qualità delle acque. Ce lo dicono i risultati ufficiali come le serie storiche della qualità delle acque dei grandi fiumi pubblicate dall’ISTAT o le Relazioni sullo Stato dell’Ambiente pubblicate periodicamente dal Ministero dell’Ambiente e ce lo dicono le indagini realizzate da tecnici indipendenti come l'Istituto di Idrobiologia di Pallanza, il Centro Italiano Studi di Biologia Ambientale (CISBA). Due esempi

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per tutti: la concentrazione dei nitrati nei grandi laghi subalpini è in costante crescita dagli anni ‘70 al 1994 ; la qualità media delle acque del Po rimane stazionaria in base ai dati pubblicati dall’ISTAT; mentre la qualità biologica del Po rilevata dal CISBA negli anni ‘80 e poi nel 1991 è generalmente peggiorata, passando in molte stazioni dalla II classe di qualità (ambiente lievemente inquinato) alla III o IV classe di qualità.

Anche il miglioramento della qualità delle acque di balneazione verificato dal Ministero della Sanità non può essere considerato un indicatore significativo. Poiché la non balneabilità delle acque è dovuta quasi sempre alla presenza di carica batterica, per migliorare la balneabilità è sufficiente aumentare la disinfezione dei liquami allo scarico dei depuratori. Ma questo non significa depurare efficacemente: al contrario, la disinfezione con composti del cloro è una pratica molto dannosa per la formazione di composti tossici, come a dire che in estate si cerca di salvare la faccia disinfettando gli scarichi con il cloro: si eliminano i batteri, ma per l’ambiente il rimedio è peggiore del male. La situazione della depurazione in Italia è quindi quella di un Paese che ha realizzato negli ultimi anni un numero consistente di impianti, raggiungendo una capacità di depurazione teorica relativamente elevata. A fronte di questa situazione non si sono ottenuti i benefici previsti sulla qualità delle acque. Non c’è dubbio che questo divario tra strumenti attivati e obiettivi raggiunti sia da attribuire almeno in parte alla cattiva gestione dei depuratori anche se la mancanza di informazione relativa al funzionamento degli impianti esistenti non consente di stabilirlo con certezza. Certamente un’altra causa è da attribuirsi alla crescita delle reti fognanti che recapitano gli scarichi senza depurazione nei corpi idrici (i 16 milioni di abitanti equivalenti allacciati alle reti e non servito da depuratore): in questo modo liquami che prima erano smaltiti sul suolo o in modo diffuso sulla rete idrografica minore, e che erano parzialmente depurati “naturalmente”, si concentrano i corpi idrici che devono sopportare carichi superiori alla propria capacità autodepurativa. 11.4.3 La strategia della qualità

La filosofia della depurazione importata dal Nord Europa punta ad ampliare il più possibile gli impianti di depurazione (e di conseguenza le reti fognarie che li servono). Questo perché per motivi tecnici ed economici l’efficacia dei depuratori “convenzionali” è direttamente proporzionale alle dimensioni. Questo approccio però comporta la creazione di reti molto estese di fognature e collettori che, oltre ad avere costi elevatissimi, sottraggono portate importanti alla circolazione naturale. La nuova filosofia della depurazione, invece, deve puntare a restituire le acque depurate nel punto più vicino possibile all’utilizzo (depurazione in loco) e la restituzione al suolo (anziché l’immissione nelle acque) dei principi nutritivi contenuti negli escrementi.

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Entrambi questi obiettivi possono essere raggiunti congiuntamente con la depurazione decentrata seguita dall’utilizzo irriguo delle acque depurate. Ne risulterebbero fiumi, laghi e mari con acque più pulite e con portate più abbondanti (una riserva idrica supplementare che potrebbe risultare di cruciale importanza nei periodi siccitosi), senza rinunciare alle esigenze irrigue ma, anzi, sfruttando i residui principi fertilizzanti presenti nelle acque usate.

Ma una scelta coerente della depurazione in loco, se attuata con i tradizionali impianti, presenta difficoltà e controindicazioni per i piccoli centri e per le località turistiche. Le difficoltà sono sia di natura economica, per gli elevati costi di costruzione e di gestione di una miriade di mini-depuratori a fanghi attivi o a biodischi, sia di natura tecnica, per la loro vulnerabilità alle variazioni di carico idraulico conseguenti alle piogge. In questo contesto territoriale la fitodepurazione, alleviando i costi, possedendo una maggior flessibilità e resistenza alle variazioni di carico, può candidarsi già oggi tra le tecnologie più appropriate. 11.5 Il Golfo Negato

L'intero golfo di Napoli, da Via Caracciolo a Castellammare di Stabia,

continua a rimanere un sogno per i bagnanti. Uno specchio di mare chiuso tra due fonti di inquinamento a cinque stelle, da un lato il Sarno e dall'altro Volturno e Garigliano. Scarichi fognari, più o meni abusivi, più o meni "avvelenati", foci dei fiumi da livelli di inquinamento da record, interi comuni privi di allacciamento alle fogne. Sono tante le cause da mettere sul banco degli imputati per la mancata balneazione di interi tratti di costa della nostra regione. Nella nostra regione siamo in presenza da anni di un danno ambientale diretto, cagionato dallo scarso grado di concentrazione dei reflui agli impianti di trattamento. Secondo il I Rapporto Ambientale dell' Arpac (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale della Campania) su un campione rappresentativo, che include quasi l'intero comune di Napoli, e che rappresenta il 48% del totale della popolazione regionale ed il 52% dell'acqua erogata, si riscontra un coefficiente di ritorno globale in fognatura, con collettamento sino all'ingresso negli impianti di trattamento, pari ad appena il 44% dell' immesso in rete con un valore aerale minimo del 31% per il comprensorio Acerra- Pomigliano. All'interno del dato complessivo, inoltre, esistono comuni per i quali non è ancora realizzato il collegamento alla rete dei collettori intercomunali di collegamento agli impianti, cioè comuni per i quali il coefficiente di ritorno alla rete di depurazione è nullo. Basti pensare che i cittadini di Portici, San Giorgio a Cremano, Ercolano in provincia di Napoli e circa 300 mila abitanti del Capoluogo sversano quotidianamente reflui che giungono tal quali in mare. A tal proposito bisogna terminare al più presto il collegamento di queste aree con il depuratore di Napoli est. Basti pensare che circa 8000 mc/h trattati da tale depuratore vengono attualmente sversati attraverso un alveo sul litorale di S. Giovanni. La regione Campania, attraverso il Commissariato per

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l'emergenza rifiuti, bonifiche e tutela delle acque si è impegnato ad intervenire con un piano articolato che prevede il completamento del depuratore Napoli Est (entro il 2003), un vero e proprio lifting alle fognature ed al sistema di depurazione del litorale fino alla foce Sarno ed il riordino dei collettori principali nella zona orientale di Napoli. Nel complesso della regione, dunque, dei circa 714 milioni mc/anno prelevati a scopo civili ed industriali, ben 385 milioni raggiungono il ricettore finale privi di trattamento, o comunque risultano dispersi sul territorio. Per ciò che attiene la consistenza di impianti di trattamento esistenti si ricorda che dei 549 Comuni della regione ben 192 fanno capo a 9 impianti comprensoriali più 4 in corso di realizzazione. Per la rimanente parte risultano esistenti ed operanti altre 202 unità di trattamento per totale complessivo di 394 municipalità servite su 549 (72%). Nessun impianto in servizio, tranne piccoli casi particolari, è in grado di provvedere all'abbattimento dei nutrienti. Con l'entrata in vigore del d.lgs. 152/99 che fissa nuovi parametri qualitativi per lo scarico delle acque provenienti da impianti di trattamento, la situazione diventa peggiore con quasi la totale assenza di impianti che si sono adeguati ai nuovi riferimenti legislativi. Se ci trasferiamo al salernitano, uno studio dell'Ato4 che comprende ben 144 comuni di cui 141 della provincia di Salerno la copertura della rete di depurazione è pari al 76% della popolazione, ma appena il 59% è servita da impianti funzionanti mentre il 24% non è allacciata ad alcun impianto. Senza contare che dei 208 impianti di depurazioni solo 161 sono in esercizio. Veleni del golfo

Durante l'anno sono state sempre più numerose le segnalazioni dei cittadini di un fenomeno particolarmente grave che colpisce le acque del Golfo. Nelle primissime ore del mattino (fra le 5 e le 6) o nelle ore serale al crepuscolo numerose imbarcazioni, anche di linea, sulle rotte di traghetti ed aliscafi per e da Ischia, Pozzuoli, e Napoli scaricano in mare residui oleosi e di nafta, specie nel tratto che va da Punta Serra a Pioppeto. Ed ecco che conseguenza di ciò, talvolta su alcune spiagge di Ischia e Procida strati di catrame fanno bella mostra sulla battigia. All'altezza di Capo Miseno, isolotto di San Martino, ampie zone, alcune prossime alla costa, risultano inquinate da idrocarburi. Il fatto grave è che molti sanno, tutti vedono, pochi denunciano. Una denuncia in tal senso è stata fatta anche dal Capitano Nicola Scotto di Carlo, responsabile del Pio Monte dei Marinai, una vita a comando delle navi oceanografiche del Centro Nazionale di Ricerca che al "Il Mattino" del 5 luglio dello scorso anno scriveva: “Generalmente le correnti superficiali provenienti da Nord Ovest spingono tale materiale verso la costa. In assenza di correnti esso resta a largo. Eppure - conclude il comandante Scotto di Carlo - esiste un registro degli idrocarburi che ogni imbarcazione deve avere e che dovrebbe essere controllato dalle Capitanerie.”

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Sarno: un fiume di veleni

Anche quest'anno il mare non bagna Napoli e provincia. Infatti quasi del tutto off limits alla balneazione il tratto di mare che va da Via Caracciolo a Pozzano, vicino Castellamare di Stabia. Sul banco degli imputati l'ecomostro per eccellenza. Si scrive Sarno, si legge sversatoio per ogni genere di rifiuti: sulle sue acque navigano le scorie prodotte dalle industrie conserviere e dalle concerie dell'entroterra. Il fiume scorre lungo 24 km. Il bacino idrografico ha un estensione di circa 500 kmq, pari a circa il 4% della superficie regionale. Interessa tre province: Napoli, Avellino e Salerno e comprende 39 comuni. Interessa una popolazione di circa 750mila residenti, pari al 13% di quella intera regione Campania, con una densità urbana media pari a circa 1300 ab/kmq con punte di oltre 2000ab/kmq nelle zone costiere. Un fiume ormai tristemente famoso per essere diventato l'emblema del degrado in cui sono ridotti numerosi corsi d'acqua. I prelievi effettuati a più riprese dai vari Enti e dalla stessa Legambiente delineano un quadro a dir poco allarmante: le acque del fiume e quelle dei suoi affluenti sono un concentrato di acqua di fogna e reflui industriali. Dichiarato "area ad elevato rischio ambientale" nell'agosto 1992, il bacino del Sarno, secondo un ultimo censimento Istat, ospita complessivamente oltre 5000 imprese. Di particolare interesse per l'impatto ambientale, sono il settore conciario, che si concentra nel polo Solofrano in provincia di Avellino, che comprende circa 120 concerie, e quello conserviero, di trasformazione del pomodoro, con altre 100 imprese(oltre la metà dei quali ha i propri stabilimenti nei Comuni di Scafati ed Angri e Sant'Antonio Abate). Attualmente la incompletezza della rete fognaria, la dotazione episodica di impianti di depurazione a livello comunale e la loro scarsa efficienza, i lavori a rilento del sistema depurativo predisposto dal Ministero dell'Ambiente ed infine, la esiguità delle industrie che applicano il pretrattamento delle acque reflue, hanno trasformato il reticolo idrografico in una fogna a cielo aperto con basse capacità dell'ecosistema fluviale di autodepurarsi vista la scarsa portata del fiume, il suo breve corso e la esiguità dei tratti di vegetazione naturale e perifluviale presenti lungo il percorso. Secondo dati del Noe, negli ultimi anni sono stati effettuati nell'area circa 1500 ispezioni, accertate circa 1000 violazioni e posti sigilli a quasi 100 piccole imprese. La storia della depurazione del fiume, è una leggenda lunga 20 anni. La storia inizia con il progetto speciale per il disinquinamento del Golfo di Napoli(PS3) elaborato negli anni '70 dalla Cassa del Mezzogiorno. Sin dall'inizio avversato dagli ambientalisti e cittadini. Dopo varie vicissitudini, azioni giudiziarie, nel 1996 viene affidato all'ISMES lo studio di fattibilità delle proposte di rimodulazione del vecchio progetto- che accoglieva anche le istanze territoriali degli ambientalisti. Nel gennaio '97 il Ministro dell'Ambiente Edo Ronchi approva il progetto annunciando lo stanziamento di 800 miliardi per il risanamento dell'intero bacino del Sarno.

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Schema depurativo del Sarno e stato di realizzazione dell'opera Ai fini della depurazione, il bacino del Sarno viene suddiviso in tre comprensori Alto, Medio e Foce Sarno. 1) Comprensorio Alto Sarno: previsto un impianto di depurazione

centralizzato a Mercato San Severino destinato al trattamento di tutti i reflui urbani ed industriali prodotti nel comprensorio. L'impianto è in funzione dall'aprile 1999, ma attualmente è in corso la realizzazione delle opere di adeguamento alla normativa comunitaria che prevede un affinamento degli affluenti; un impianto di pretrattamento degli scarichi del polo conciario nel Comune di Solofra, in funzione dall'agosto del 1997; una rete di collettori comprensoriali costituita dalle canalizzazioni fognarie principali, in cui è previsto il recapito degli emissari delle reti fognarie interne di ciascun comune. I collettori recentemente sono stati oggetto di lavori di manutenzione straordinari al fine di ripristinare l'efficienza. Le reti fognarie dei singoli comuni già ultimati

2) Comprensorio Medio Sarno: l'intero comprensorio è allo stato attuale privo

di impianti di depurazione. Si prevedono la realizzazione di 4 impianti di piccole e medie dimensioni così ubicati:

a)Impianto di depurazione localizzato nei Comuni di Scafati- Sant'Antonio Abate a servizio di circa 367.000 abitanti; b)Impianto localizzato a Poggiomarino- Striano a servizio di 145.000 abitanti; c)Impianto localizzato ad Angri a servizio di 355.000 abitanti. d) Impianto localizzato a Nocera Inferiore a servizio di 311.000 abitanti

Nell'aprile 1999 si è svolta la consegna dei lavori alle imprese aggiudicatarie delle gare d'appalto. Per il completamento dei lavori sono stati concessi 35 mesi ed i lavori dovrebbero essere ultimati sulla carta entro marzo 2002. Per quanto attiene alla rete dei collettori, ad oggi anch'essi mancanti, si prevede il completamento delle opere entro la metà di aprile 2002. Le reti fognarie dei singoli comuni risultano affette da gravi carenze, dovute sia a deficienze funzionali che alla completa inesistenza. Per la fine di quest'anno previsto il completamento dei progetti esecutivi per passare, poi, alla fase realizzativa.

3) Comprensorio Foce Sarno: prevede un impianto di depurazione

centralizzato, ubicato nel comune di Castellammare. In esercizio dalla metà del 1999, attualmente oggetto dei lavori di adeguamento alla normativa comunitaria il cui termine è previsto per il terzo trimestre del 2002; una rete di collettori comprensoriali suddivisa in sistema sinistra Sarno, dove saranno realizzati un collettore che raccoglie gli scarichi di Castellammare, ad oggi ultimato, ma che richiede lavori di manutenzione straordinaria per la messa in esercizio, ed uno a Gragnano a servizio dei

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comuni interni a sinistra idraulica del Sarno, in corso di realizzazione e sistema a destra Sarno costituito da un unico collettore il cui tratto iniziale si sviluppa in galleria sotto il centro storico di Torre Annunziata. Realizzato interamente, la messa in esercizio è tuttora condizionata da interferenze con la rete idrografica secondaria locale. Per quanto riguarda la rete fognaria urbana è in corso di completamento in alcuni comuni ed in fase di progettazione esecutiva per altri.

Un Osservatorio per il Sarno

Sarno, il fiume più inquinato d'Europa e che sforna almeno un alluvione all'anno. Da sempre croce e delizia degli abitanti dell'Agro Nocerino Sarnese. In soccorso arriva un altro strumento di controllo, verifica, monitoraggio dello stato di salute del tanto "amato- odiato fiume". Nasce "Sarno Pulito" il progetto di Legambiente, Arci, Anicav, Cna e Archeoclub di Nucera Alfaterna finanziato dal Patto per l'occupazione dell'Agro Nocerino Sarnese, grazie al Fondo Sociale Europeo. Il progetto è finalizzato alla realizzazione di un Centro di Monitoraggio, documentazione e divulgazione ad uso della collettività che sia in grado di fornire aggiornate informazioni sullo stato e l'avanzamento degli interventi per il disinquinamento del fiume Sarno, con attenzione al contemporaneo dibattito ad essi relativo ed alle prospettive che si delineano sul livello più generale di riqualificazione ambientale dell'Agro. Uno strumento che, grazie anche alla pubblicazione di un Giornale periodico, che darà vita ad un processo di informazione e formazione della Comunità, coinvolgendo le strutture associative e soprattutto il mondo della scuola, parimenti il mondo della produzione, in vista di un nuovo approccio culturale al territorio, più attento alla salvaguardia ambientale, alla protezione civile, alla cultura della legalità ed alla realizzazione dello sviluppo sostenibile. Per i promotori del progetto è fondamentale che i cittadini dei comuni attraversati dal fiume Sarno e dell'Agro Nocerino Sarnese siano informati delle decisioni di cui sono i primi destinatari e dello stato di avanzamento dei lavori e delle prospettive che si delineano per promuovere il coinvolgimento della collettività nei processi decisionali inerenti le tematiche connesse al disinquinamento del fiume e del sistema idrico in generale ed alla riqualificazione del territorio, anche in vista delle più opportune occasioni di sviluppo socio-economico.

Da questa ottica, nasce una sorta di "Osservatorio" sulle iniziative di carattere istituzionale, progettuale, delle parti sociali che sottendono e si accompagnano a tali interventi; un osservatorio che si caratterizzi non solo come strumento di controllo democratico e di coinvolgimento dei cittadini, ma che sia anche elemento propulsivo e di indirizzo per le prospettive pianificatorie e gestionali future. Ciò significa che, al monitoraggio ed alla divulgazione delle iniziative in atto per il disinquinamento del Sarno, devono necessariamente accompagnarsi azioni, tramite convegni e seminari, che guardino complessivamente alla bonifica di riqualificazione del territorio ed alla ridefinizione dei comparti produttivi in vista dello sviluppo sostenibile. Per

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la realizzazione del progetto sarà individuato un Comitato Scientifico. Un comitato composto da esperti delle tematiche del disinquinamento ed allargato ad esperti delle problematiche di più ampio respiro quali sviluppo sostenibile, riqualificazione ambientale, riconversione e ristrutturazione dei reparti produttivi dell'Agro. Ecco che sul territorio nasceranno strutture info-points, veri e propri sportelli informativi dotati di opportune attrezzature e di personale adeguato aperti al pubblico. Un Camper itinerante attraverserà, fungendo per i cittadini sia da punto di informazione, che da centro di ascolto. Esso sarà attrezzato in modo da ospitare computer con collegamento al Sito, televisore con videoregistratore, videoproiettore, mostra itinerante a carattere divulgativo e consentirà la distribuzione diffusa di materiale informativo. Sul Sito www.sarnopulito.it in costruzione verranno ospitati link a siti di interesse, gli articoli del giornale, documenti di approfondimento, forum tematici, rassegna stampa sui principali articoli riguardanti il Sarno e le tematiche relative al progetto, momenti di interazione con i cittadini.via e-mail. Il progetto è al nastro di partenza, gli strumenti ci sono. Ora il futuro potrebbe essere più roseo soprattutto perché i cittadini sono pronti ad essere protagonisti in prima persona del nuovo " rinascimento" del Sarno e dell'intero territorio nocerino sarnese. 11.6 In fondo al mar - Campagna di pulizia dei fondali marini

Lontano dai nostri occhi, in fondo al mare, si nasconde una coltre di rifiuti di ogni genere che può impedire alla vita sottomarina di nascere e crescere e che rischia di cambiare la conformazione dei fondali marini. Per questo Legambiente e Lega Pesca hanno unito le loro forze con il progetto In Fondo al Mar, promosso dal Ministero delle Politiche Agricole e Forestali e dal Ministero dell’Ambiente, che ha lo scopo di bonificare i fondali marini a partire dalle Aree Marine Protette. Ambientalisti e pescatori hanno deciso di tendersi simbolicamente la mano: centinaia di subacquei si sono immersi per riportare in superficie i rifiuti più ingombranti e inquinanti, mentre i pescherecci sono usciti dal porto per farvi ritorno con un carico di rifiuti. L’iniziativa, nata due anni fa, non ha come unico scopo la riqualificazione dei fondali ma si articola, con un lavoro che richiede mesi di continuità, in altri quattro punti fondamentali: sviluppare un rapporto con gli ambienti sociali, culturali e produttivi delle riserve interessate; arricchire la conoscenza dei fondali grazie alla testimonianza e alla documentazione raccolta dai sub e dai pescatori; animare una cultura di protezione dell’ambiente marino; favorire un diverso approccio dei pescatori alla risorsa mare, coniugando l’attività di cattura con quella di protezione e tutela.

I risultati delle due compiute edizioni della campagna di pulizia (1999-2000 e 2000-2001) per un totale di 12 Aree protette, sono sbalorditivi. Batterie esauste, copertoni, lavatrici, frigoriferi, scaldabagno, cucine a gas, reti, materassi, motorini, bombole del gas, fusti per l’olio, bottiglie di plastica e

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vetro, una motocicletta e perfino il motore di un aereo risalente alla seconda guerra mondiale. Non è il campionario di un robivecchi, ma lo sconcertante bottino raccolto dai sub di Legambiente e dai pescatori di Lega Pesca. Solo nel primo anno sono stati raccolti 37.015kg di rifiuti - una pesca miracolosa – e nel secondo 55.000kg per un volume di 350mc.

L’isola dell’Asinara, le Isole Egadi, Porto Cesareo, Capo Rizzuto, Il Parco Nazionale delle Cinque Terre, l’Arcipelago Toscano, Ustica, Isole dei Ciclopi, Punta Campanella, il Golfo di Portofino, Penisola del Sinis e Isola del Mal di Ventre, Arcipelago della Maddalena. Sono le aree dove grazie a In fondo al Mar, la flora e la fauna marina hanno riconquistato il loro territorio. Il rapporto tra pescatori e ambientalisti, non sempre facile, ha trovato un punto di confronto e collaborazione costruttivi. I gestori delle riserve e gli amministratori locali sono stati stimolati a promuovere iniziative a favore di una gestione responsabile di queste aree. Chiunque risiede od opera a vario titolo in queste zone, ha colto l’esigenza di salvaguardare e valorizzare un patrimonio e una risorsa di inestimabile valore: il mare.

In Fondo al Mar continuerà anche nella stagione 2001-2002 coinvolgendo l’Isola di Tavolara – Capo Coda Cavallo, Torre Guaceto, Isole Tremiti, Ventotene – Santo Stefano, Miramare, Isole Eolie, Isole Pelagie, Secche di Tor Paterno.

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12. L’Onda nera

Sono passati 10 anni dall’incidente che ha portato all’affondamento della Haven e allo sversamento di decine di migliaia di tonnellate di idrocarburi nel mare Ligure. La carcassa della Haven giace tuttora sul fondo marino e tonnellate di catrame e petrolio ricoprono i fondali. Dieci anni dopo quello che è considerato il più grave disastro ambientale del Mediterraneo si sta cominciando a rimettere mano alle regole che governano il traffico marittimo petrolifero. Ci sono voluti altri incidenti, dalla Erika alla Ievoli Sun, perché l’Unione Europea cominciasse a prendere in considerazione la possibilità di dotarsi di una normativa più avanzata in questo settore ed è tuttora all’esame il cosiddetto pacchetto “Erika 1”, che prevede una serie di misure per rendere più sicuro il trasporto di prodotti petroliferi lungo le coste europee. Anche l’IMO (Organizzazione Marittima Internazionale) sta lavorando in questa direzione per estendere al naviglio internazionale una regolamentazione più severa, ma i tempi degli accordi internazionali rischiano di non tener conto delle tante emergenze che quotidianamente si consumano nei mari del pianeta. All’inizio del mese, per la prima volta, nel nostro paese, si è formalizzato un accordo che concilia gli interessi di istituzioni, imprenditoria, sindacati e, soprattutto, associazioni ambientaliste. E’ un accordo che pone l’Italia come paese all’avanguardia anticipando di ben 4 anni le scadenze fissate dall’Unione Europea e dall’IMO (International Maritime Organization), per quanto riguarda l’eliminazione delle carrette dei mari . Tra i vari punti cruciali stabiliti nell’accordo di fondamentale importanza è l’impegno da parte di armatori e utilizzatori di bandire entro il 31 Dicembre 2003, le navi preMarpol per il trasporto di greggio e entro il 31 Dicembre 2005 di preMarpol adibite al trasporto di sostanze pericolose. L’accordo prevede inoltre che l’industria italiana inserisca nei contratti di noleggio la clausola che vieta già dal 1 Luglio 2001 il transito delle petroliere, qualunque sia la bandiera di appartenenza, nelle Bocche di Bonifacio, area di notevolissimo pregio naturalistico,

12.1 Alcuni dati sul bacino del Mediterraneo

Il mare Mediterraneo è un mare semi chiuso circondato da tre

continenti, Europa, Asia ed Africa. Su di esso si affacciano oltre venti stati, di condizione politica, economica e sociale molto diversa per un totale di 360 milioni di abitanti, di cui un terzo abita nelle aree costiere. All’interno del bacino interagiscono numerosissime attività, sia i Paesi rivieraschi sviluppati sia quelli in via di sviluppo dipendono in gran parte dalle sue risorse. L’area totale è di 2.5 milioni di km2, che costituisce lo 0,8% della superficie totale degli oceano. La lunghezza totale tra Gibilterra e la costa della Siria è di 3,800 chilometri, e la larghezza massima tra Francia ed Algeria è di 900 km. La massima distanza di un punto dalla costa è di 370 km, ma oltre il 50% della superficie del Mediterraneo è a meno di 100 km dalla costa più prossima. La profondità media è di 1500 m, con punte di oltre 4000 m.

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Negli ultimi decenni si è assistito ad un continuo flusso di nuovi abitanti lungo le coste. Questo trend è particolarmente evidente sulla riva nord, dove in certe aree il livello di urbanizzazione ha quasi raggiunto il 100%, come nell’area tra Mentone e Marsiglia in Francia, la riviera Ligure e la zona intorno a Napoli in Italia. Alla pressione abitativa, si deve poi aggiungere lo sviluppo del settore turistico. Il Mediterraneo è sempre stato una delle destinazioni preferite a livello mondiale. Un terzo dei turisti mondiali, quasi 150 milioni di persone, sceglie annualmente il Mediterraneo come destinazione per le loro vacanze, attratto da mare, spiagge e sole.

La pesca nel Mediterraneo è ancora in gran parte portata avanti con metodi “artigianali”, utilizzando imbarcazioni di piccole e medie dimensioni, e da pescatori individuali o in cooperative, con una produzione in gran parte indirizzata al mercato interno. Il settore della pesca è molto importante a livello sociale oltre che economico, in quanto da esso dipendono non solo i pescatori, ma anche gli occupati dei settori collegati della trasformazione, distribuzione e cosi via, con un rapporto tra gli addetti di quasi 1:2,5. Solo in Italia, il settore della pesca marittima in quanto tale occupa 43,757 addetti (dati dal IV Piano Triennale della pesca e acquacultura 2000-2002), cui si devono aggiungere 17,000 addetti nei settori dell’acquacultura, trasformazione e cantieristica, e circa 46,000 addetti nelle attività correlate (come ad esempio distribuzione, commercializzazione e servizi portuali), per un totale di occupati di circa 107,000 unità. In caso di incidenti con sversamento di idrocarburi, i danni subiti da queste attività pregiudicherebbero in maniera determinante la situazione economica di un altissimo numero di famiglie.

Operazioni Offshore Nel Mediterraneo esistono una serie di aree di piattaforma continentale

piuttosto vaste, come l’Adriatico, che nella parte settentrionale non è mai più profondo di 200 metri, il Golfo del Leone, l’Egeo settentrionale e lo stretto di Sicilia. In queste aree sono già partite attività di esplorazione e sfruttamento delle risorse dei fondali, soprattutto gas, ma anche petrolio. Anche se queste attività sono limitate a poche aree, il rischio di impatti negativi sull’ambiente marino e sulle altre risorse ed attività economiche che vi si basano è comunque molto alto, ed aumenta con lo sviluppo di tali attività.

Trasporto Marittimo Fin dall’apertura del Canale di Suez, il Mediterraneo è tornato alla

ribalta come canale preferenziale per il trasporto di merci di ogni genere. Ogni anno il bacino è attraversato da centinaia di navi che trasportano merci di ogni genere, dal petrolio greggio alle merci manufatte. Ma è il trasporto di petrolio greggio e dei prodotti della raffinazione che rappresenta la voce principale del trasporto marittimo nel Mediterraneo.

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12.2 Il traffico marittimo di idrocarburi

A livello mondiale il petrolio è la merce maggiormente trasportata via mare. Secondo fonti EUROSTAT e OECD/IEA, nel 1998 sono stati trasportati via mare petrolio greggio e prodotti della raffinazione per un totale di 2.000 milioni di tonnellate che in termini di peso rappresentavano il 40% dell’intero trasporto via mare. Il trasporto di greggio rappresenta tre quarti del trasporto mondiale di prodotti petroliferi (1.590 milioni di tonnellate), mentre i prodotti raffinati sono il restante quarto (430 milioni di tonnellate).

Traffico marittimo mondiale di materie prime (1995) Materia prima Totale trasportato (milioni di tonnellate) Petrolio greggio 1.415 Carbone 423 Minerali di ferro 402 Granaglie 196

Fonte: Confitarma Le vie di traffico principali sono quelle che vanno dai paesi produttori,

dal Medio Oriente e Golfo Persico, verso Asia, Europa e Stati Uniti, dal Nord Africa verso l’Europa, e dai Carabi verso gli Stati Uniti. Lungo queste direttrici il petrolio prodotto in Africa occidentale e nel mare del Nord viene trasportato in navi di 130-150000 tonnellate (cosiddette Suezmax), quello prodotto dai Paesi Arabi è trasportato in VLCC di dimensioni superiori alle 250.000 t, mentre dai Caraibi, dal Mediterraneo e dal Mar Nero il greggio è trasportato in navi di 80-100,000 tonnellate (cosiddette Aframax). Nel caso di trasporto intraregionale, come quello che si svolge all’interno del Mediterraneo, le navi utilizzate superano raramente le 50,000 tonnellate.

La flotta mondiale di petroliere e chimichiere è composta da 8.720 navi per un totale di 324,340,718 tonnellate di stazza lorda (dati OMI). Di queste 1.780 sono petroliere e 6.940 trasportano invece prodotti raffinati. Da notare comunque che al maggior numero di chimichiere non corrisponde una stazza complessiva più elevata, in quanto le petroliere sono generalmente di maggiori dimensioni.

Secondo stime recenti, più del 60% della flotta circolante ha più di 17/18 anni di età, mentre sarebbe addirittura del 90% la percentuale delle grandi petroliere (con stazza superiore alle 200.000 tonnellate) che hanno superato i 16 anni di età. Unasituazione oltremodo allarmante, se si considera che una petroliera dovrebbe essere avviata al disarmo tra i 15 e i 20 anni di età.

Il traffico di petrolio all’interno dell’Unione Europea rappresenta il 27% del traffico mondiale ed il 90% del trasporto di petrolio viene effettuato via mare, mentre gli Stati Uniti da soli importano il 25% del totale.

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Il traffico petrolifero nel Mediterraneo, che costituisce lo 0,8% della superficie delle acque mondiali, rappresenta più del 20% del traffico mondiale marittimo del petrolio, ed ammonta a 360 milioni di tonnellate annue (fonte Rempec), di cui:

300 milioni entrano nel Mediterraneo diretti verso Paesi del bacino stesso 180 milioni di tonnellate di petrolio greggio e condensato partono dal Medio Oriente (125 milioni di tonnellate attraverso il Canale di Suez e la condotta di Sumed, 50 milioni attraverso il Bosforo, e 5 milioni dalla Turchia) principalmente verso l’Italia;

100 milioni di tonnellate di petrolio greggio e condensato partono dal Nord Africa (60 milioni dalla Libia, 40 milioni dall’Algeria) principalmente verso la Francia;

20 milioni di tonnellate partono da Paesi mediterranei verso altri Paesi del bacino (8 milioni di prodotti della raffinazione dalla Francia all’Algeria).

20 milioni di tonnellate lasciano il Mediterraneo, 10 milioni attraverso lo stretto di Gibilterra (prodotti raffinati, soprattutto in partenza dalla Francia);

10 milioni attraverso il canale di Suez (prodotti raffinati).

40 milioni di tonnellate attraversano il Mediterraneo 20 milioni di petrolio greggio e condensato partono dal Mar Nero attraverso il Bosforo e lo stretto di Gibilterra

20 milioni dall’Egitto (canale di Suez e condotta di Sumed) e attraverso lo stretto di Gibilterra.

In media, 250/300 petroliere sono in circolazione nel Mediterraneo ogni giorno.

Dal 1996 per effetto della MARPOL, le navi cisterna devono essere costruite con scafo doppio o con tecnologia equivalente, mentre quelle monoscafo andranno gradualmente dismesse.

La MARPOL però non fissa una tempistica rigorosa e celere per l’eliminazione delle petroliere monoscafo. Dati INTERTANKO danno al 1 gennaio 2000 una percentuale di cisterne a doppio scafo in servizio nel mondo del 20,8%, che sale al 42,8% per i tankers tra le 80.000 e le 200.000 tonnellate ed al 33.3% per quelli superiori alle 200.000 tonnellate, percentuale che in Mediterraneo sembra essere molto più bassa.

L’Oil Polluction Act americano del 1990, approvato in seguito al disastro dell’Exxon Valdez, e che stabilisce un calendario per vietare totalmente l’accesso nelle acque territoriali americane alle petroliere monoscafo, ha iniziato a concentrare la parte più vecchia della flotta cisterne, che non potrebbe più accedere ai porti americani, verso le destinazioni asiatiche o mediterranee. Solo poche petroliere a doppio scafo agiscono abitualmente nel Mediterraneo, su 250-300 con stazza lorda oltre le 100 GRT.

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Nel 1998 (fonte UPI) sono transitate nei porti Italiani 123.800.000 di tonnellate di petrolio greggio, in gran parte movimentate nei porti dell’Adriatico. Nel 1999 (fonte U.P.I.) sono state importate nel nostro paese 80.369.000 tonnellate di greggio, con una movimentazione di circa 2.000.000 di barili al giorno, di cui il 65% nei porti maggiori. 12.3 Gli incidenti

Secondo una definizione del GESAMP, l’inquinamento marino è l’“Introduzione diretta o indiretta da parte umana, di sostanze o energia nell’ambiente marino... che provochi effetti deleteri quali danno alle risorse viventi, rischio per la salute umana, ostacolo alle attività marittime compresa la pesca, deterioramento della qualità dell’acqua per gli usi dell’acqua marina e riduzione delle attrattive”

Si possono quindi inquadrare tre differenti tipi di inquinamento: - Inquinamento sistematico: causato dall’immissione continua nel

tempo di inquinanti (scarichi fognari, reflui industriali, dilavamento terreni, e così via).

- Inquinamento operativo: causato dall’esercizio di natanti (lavaggio cisterne, scarico delle acque di zavorra e di sentina, ricaduta fumi, vernici antivegetative, e così via).

- Inquinamento accidentale: causato da incidenti: naufragi, operazioni ai terminali, blow-out da piattaforme, rottura condotte).

Secondo fonti OMI tra le fonti di inquinamento delle acque marine solo il 23% sono costituite da sorgenti marine e tra queste la percentuale del 12% è quella legata all’inquinamento dovuto al trasporto marittimo, il resto è dovuto a cause di origine terrestre, ad attività di dumping e off-shore ed al trasporto aereo. Principali sversamenti di petrolio in mare DATA LOCALITA' NAVE SVERSAM.(tonn.)Luglio 1979 Trinidad Atlantic Express 276.000 Novembre 1987 Iran Fortuneship 260.000 Maggio 1991 Angola Abt Summer 260.000 Marzo 1978 Francia Amoco Cadiz 228.000 Settembre 1985 Iran Son Bong 200.000 Agosto 1983 Sud Africa Castillo de Belver 190.000 Aprile 1991 Italia Haven 144.000 Maggio 1988 Iran Barcelona 140.000 Novembre 1991 Terranova Odissey 140.000 Marzo 1967 Gran Bretagna Torrey Canion 121.000 Dicembre 1972 Golfo di Oman Sea Star 115.000 Febbraio 1980 Grecia Irenes Serenade 102.000 Maggio 1976 Spagna Urquiola 101.000 Luglio 1985 Iran M.Vatan 100.000 Febbraio 1977 Pacifico del Nord Hawaian Patriot 95.000

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Novembre 1979 Bosforo Independenta 95.000 Gennaio 1993 Gran Bretagna Braer 85.000 Dicembre 1987 Oman Norman Atlantic 85.000 Gennaio 1975 Portogallo Jacob Maersk 84.000 Dicembre 1992 Spagna Aegeum Sea 80.000 Agosto 1979 India World Protector 70.000 Dicembre 1985 Iran Nova 70.000 Dicembre 1989 Marocco Khark V 70.000 Febbraio 1971 Sud Africa Wafra 63.000 Febbraio 1996 Gran Bretagna Sea Empress 60.000 Maggio 1983 Iran Panoceanic Fama 60.000 Febbraio 1985 Iran Neptunia 60.000 Maggio 1975 Porto Rico Epic Colocotroni 57.000 Dicembre 1960 Brasile Sinclail Petrolone 56.000 Gennaio 1983 Oman Assimi 54.000 Agosto 1974 Stretto di Magellano Metula 53.000 Novembre 1974 Giappone Yuyo Marn 50.000 Ottobre 1987 Iran Shinig Star 50.000 Maggio 1988 Iran Seawise Geant 50.000 Dicembre 1978 Spagna Andros Patria 47.000 Dicembre 1983 Qatar Pericles G C 46.000 Giugno 1968 Sud Africa World Glory 45.000 Gennaio 1975 Nord Pacifico British Ambassade 45.000 Aprile 1979 Francia Gino 42.000 Febbraio 1968 Oregon Mandoil 2 40.000 Gennaio 1975 Delaware Corinthos 40.000 Dicembre 1978 Stretto di Hormuz Todotzu 40.000 Novembre 1979 Texas Burmah Agate 40.000 Giugno 1973 Cile Napier 38.000 Dicembre 1982 Iran Scapmount 37.000 Marzo 1989 Alaska Exxon Valdez 35.000 Dicembre 1999 Francia Erika 31.000 Fonte: Bilardo e Mureddu 1992, Intertanko

Nel Mediterraneo, secondo le statistiche OMI, la percentuale degli inquinamenti da idrocarburi dovuti a sversamenti da navi è del 10%. Si tratta ovviamente di statistiche relative agli sversamenti accidentali che non tengono conto delle operazioni illegali, quali il lavaggio delle cisterne.

Analizzando le cause di questi incidenti, è possibile riscontrare che per il 64% dei casi esse sono imputabili ad errore umano, il 16% a guasti meccanici ed il 10% a problemi strutturali della nave, mentre il restante 10% non è attribuibile a cause certe.

Per avere un quadro più vicino alla realtà bisogna tenere presente come la gran parte delle percentuali attribuibili agli errori umani e alle cause non determinate possono senz’altro essere ascritte ai problemi connessi alla

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presenza di vecchie imbarcazioni con equipaggi improvvisati e impreparati che percorrono in gran numero il Mediterraneo.

Secondo statistiche elaborate dall’ITOPF, l’associazione di categoria dei trasportatori di idrocarburi, le cause degli sversamenti si manifestano secondo le seguenti proporzioni:

- durante le operazioni di carico e scarico circa il 35%, - durante il bunkeraggio circa il 7%, - per collisioni circa il 2%, - per arenamento circa il 3% - per falle nello scafo circa il 7%, - in seguito a incendi o esplosioni (come nel caso della Haven) per il

2%, - per altre cause non meglio determinate il 29%, - per altre operazioni di routine il 15%. Nel 1999 sono stati compiuti oltre 100 interventi per oil spill superiori

alle 500 tonnellate, un record per gli ultimi anni. Di questi, una consistente parte è avvenuta in Mediterraneo. La media annuale di spill superiori a 500 tonnellate si aggira per il nostro bacino sulle 21.000 tonnellate annue.

Negli ultimi 20 anni, 550.000 tonnellate di idrocarburi sono state sversate in mare in seguito a tre soli incidenti, per un totale del 75% della quantità totale (Cavo Cambanos nel 1981, Sea Spirit ed Hesperus nel 1990, Haven nel 1991). Dati REMPEC.

Per quanto rilevanti tuttavia, gli sversamenti accidentali dovuti ad idrocarburi, rappresentano solo una piccola quota del totale degli scarichi dovuti al traffico marittimo, la maggior parte di essi infatti, dall’80 al 95% a seconda dei criteri di stima è infatti determinata da operazioni di routine, in particolare dallo zavorramento e dal lavaggio delle cisterne, con uno spill medio a livello mondiale, valutabile da 8 a 20 milioni di barili, con 1 milione di barili nel solo Mediterraneo.

Densità del catrame pelagico negli oceani mondiali Catrame trovato in media (mg/m3 ) Mediterraneo 38 Mar dei Sargassi 10 Sistema giapponese 3,8 Corrente del Golfo 2,8 Atlantico nord-occidentale 1 Golfo del Messico 0,8 Caraibi 0,6 Pacifico nord orientale 0,4 Pacifico sud occidentale < 0,01 Fonte: Bilardo e Mureddu

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12.4 Inquinamento da petrolio, cause ed effetti sull’ambiente La maggioranza degli sversamenti accidentali di idrocarburi si ha in

seguito all’arenamento (grounding) della nave. È proprio in seguito a questa constatazione che negli anni ottanta e novanta fu sviluppato il sistema del doppio scafo come mezzo più sicuro per evitare lo sversamento degli idrocarburi direttamente in mare in caso di arenamento o collisione. Il doppio scafo infatti, pur non aumentando in assoluto la sicurezza della navigazione, minimizza gli effetti negativi in caso di incidente, garantendo la presenza di uno strato intermedio tra le cisterne e l’esterno, per evitare che l’eventuale scontro causi la dispersione in mare di tutto il carico.

Nella grande maggioranza dei casi, gli incidenti sono generalmente imputabili ad errore umano, come evidenziato nel grafico seguente.

Il Mediterraneo: cause di sversamenti accidentalidi idrocarburi da navi cisterna

1 6 %

6 4 %

1 0 % 1 0 %

P r o b l e m i s t r u t t u r a l i d e l l a n a v e

G u a s t i m e c c a n i c i

E r r o r i i m p u t a b i l i a l l ' e l e m e n t o u m a n o

C a u s e n o n i d e n t i f i c a t e

Dott. E. Amato

Fonte: Ezio Amato - Icram

L'impatto degli sversamenti di petrolio nell'ecosistema marino

dipendono da molti fattori concomitanti: quantità di petrolio sversato, modalità dell'incidente (l'incendio del petrolio può trasferire parte degli idrocarburi in atmosfera), distanza e morfologia della costa, condizioni meteorologiche.

In generale, uno sversamento consistente produce effetti acuti nel breve termine e cronici nel lungo periodo sugli organismi marini (in particolare sulle uova o sui piccoli pesci), sui crostacei (ad esempio lo zooplancton, che rappresenta la principale fonte di cibo per i pesci), sugli invertebrati filtratori (coralli, spugne, anemoni di mare, bivalvi, etc.) e sull'avifauna che viene a contatto con gli strati oleosi galleggianti. Quando le chiazze raggiungono il litorale, i danni colpiscono anche gli organismi stanziali, siano essi alghe, piante o animali.

In particolare, per quanto riguarda gli effetti acuti, il petrolio forma una sottile pellicola che:

- impedisce gli scambi gassosi provocando condizioni di anossia;

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- limita la penetrazione della luce con ripercussioni sull’attività fotosintetica di alghe, fanerogame marine, fitoplancton e quindi provoca una diminuzione della produzione primaria;

- aderisce agli organismi che vivono o interagiscono all’interfaccia aria/acqua (mammiferi marini, uccelli, organismi bentonici intertidali, alghe, stadi larvali, gameti, ecc.) impedendone le normali funzioni vitali.

Gli effetti cronici, si verificano per gli organismi quando la tossicità rimane ad un livello sub-letale ma, la presenza delle sostanze inquinanti provoca alterazioni sostanziali delle condizioni chimico-fisiche che, con tempi più o meno lunghi si ripercuotono sulla comunità, presentandosi come:

- alterazioni fisiologiche, fisiche e comportamentali; - modificazioni della composizione in specie; - modificazioni delle interazioni ecologiche (es. preda-

predatore). Il petrolio nell’ambiente marino subisce una serie di trasformazioni

chimico-fisiche e biologiche, in percentuale variabile a seconda del tipo di greggio. Il petrolio evaporato viene fotossidato in alcune ore o in alcuni giorni producendo emissioni di anidride carbonica, ossido di carbonio, composti organici ossigenati ed aerosol secondari. La fotossidazione interessa anche il petrolio galleggiante.

Il petrolio che sedimenta sul fondo è quello più dannoso per l'ecosistema marino: analisi condotte sui sedimenti di una spiaggia inquinata hanno evidenziato che alcune componenti idrocarburiche rimanevano assolutamente inalterate per molti anni. Il petrolio sedimentato nei fondali può interferire con la vita sia degli organismi superiori che dei microrganismi.

Goletta Verde ha effettuato una ricerca sulla presenza di idrocarburi nei sedimenti dei fondali marini. L’indagine ha riguardato principalmente i fondali del Tirreno e dell’alto Adriatico, e ha sostanzialmente confermato la situazione già rilevata in precedenti occasioni: un inquinamento da idrocarburi forte e diffuso, con valori molto superiori a quelli registrati dall'Unep in altre aree del Mediterraneo. Particolarmente significativi i picchi rilevati lungo la costa del Friuli Venezia Giulia, in prossimità del porto di Trieste e della centrale Enel di Monfalcone, e davanti al litorale di Reggio Calabria.

Oltre agli sversamenti, ci sono altri danni che una petroliera può causare all'ambiente. Particolarmente rilevante è il problema dell'introduzione di specie esotiche nell'ecosistema marino attraverso le acque di zavorra. Infine, un rischio collegato all'attività delle petroliere è quello dell'inquinamento atmosferico: a differenza di tutti gli altri mezzi di trasporto, infatti, le navi usano carburanti in cui il contenuto in zolfo non è sottoposto ad alcuna limitazione.

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12.5 Le proposte: le dieci regole per cambiare il mondo del trasporto marittimo delle sostanze pericolose 1) Via le vecchie carrette dai nostri mari. Eliminazione entro il 2005 delle cosiddette “petroliere Premarpol” (costruite prima del 1982) e prive di doppio scafo e accorgimenti protettivi da tutti i porti italiani. Fissazione della durata massima di attività per una nave addetta al trasporto di idrocarburi o sostanze pericolose in 23 anni dal varo. 2) Stop al lavaggio delle cisterne in mare. Chiediamo che vengano intraprese iniziative a livello di bacino del Mediterraneo per la piena applicazione dello status di area speciale ai sensi dell’annesso I della MARPOL e per l’efficace repressione degli inquinamenti volontari. Chiediamo un impegno per l’adozione delle reception facilities e di misure che consentano di rendere economicamente conveniente lo scarico delle acque delle cisterne presso i depositi costieri e rischioso e svantaggioso il lavaggio a mare e misure serie per l’armonizzazione e l’applicazione delle sanzioni. 3) Basta con gli “equipaggi babele” e privi di capacità professionale. E’ necessario intervenire sempre più sulla formazione degli equipaggi e dei comandanti, chiediamo un controllo continuo sulla composizione e sulla professionalità degli equipaggi delle navi che trasportano merci pericolose. 4) Basta con le navi insicure. Chiediamo controlli severi e stringenti sulla adeguatezza delle navi e il blocco di quelle che non offrono garanzie adeguate di sicurezza. 5) Stop al rischio tempesta. Chiediamo venga imposto il divieto di navigazione alle navi che trasportano sostanze pericolose e inquinanti in condizioni meteomarine particolarmente avverse. 6) Anche il bunker uccide il mare. Chiediamo l’introduzione di misure relative al bunker (combustibile di bordo) trasportato dalle navi sia a livello assicurativo che costruttivo. 7) Chi inquina deve pagare. Chiediamo l’allargamento della responsabilità in solido per tutti i soggetti coinvolti nel trasporto delle sostanze pericolose e nel viaggio della nave, dall’armatore, al noleggiatore, al trasportatore e così via. Chiediamo la piena applicazione del principio “chi inquina paga”, perché il mare non sia più l’unico soggetto costretto a pagare. 8) Anche l’ambiente ha un costo. Chiediamo il pieno riconoscimento e risarcimento del danno ambientale in ambito IOPCF, superando la definizione escludente contenuta nel Fondo 1992, e un conseguente adeguato innalzamento del massimale. Ci rivolgiamo all’Unione Europea perché contribuisca in tutte le sedi internazionali a individuare una definizione precisa di “danno ambientale” e promuova strumenti e forme anche integrative di risarcimento.

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9) Stop al traffico nelle Bocche di Bonifacio. Chiediamo un impegno italiano ed europeo, anche in sede IMO, per giungere all’eliminazione del traffico dalle Bocche di Bonifacio, cominciando con l’adesione volontaria degli Stati U.E. e di quelli che hanno richiesto di entrare nella Comunità alle iniziative italo-francesi di limitazione dei traffici del naviglio di bandiera. 10) Il petrolio non è solo un problema di trasporto, ma soprattutto ambientale Chiediamo che il trattamento delle questioni relative alle problematiche del trasporto marittimo di sostanze pericolose venga svolto a livello UE congiuntamente dalle Commissioni Ambiente e Trasporti e che si faccia chiarezza sui ruoli e sulle competenze dei ministeri nei rapporti internazionali e sovranazionali prevedendo anche la tempestiva comunicazione alle autorità ambientali di situazioni di crisi o di pericolo. È necessario che gli obiettivi ambientali vengano sempre più integrati all’interno delle disposizioni sulla sicurezza in mare proposte dall’Unione Europea che, pur condivisibili, finora hanno mantenuto un’accezione prettamente trasportistica.

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13. 20.000 bombe in fondo al mar

Bombe a grappolo, bombe a mano, da aereo, da mortaio, mine, un arsenale quasi interamente caricato con agenti chimici altamente tossici, proiettili all’uranio impoverito: la guerra continua in fondo al mare.

Tutto è cominciato durante la prima guerra mondiale quando alcuni paesi belligeranti iniziarono una grande produzione di armi chimiche. Nonostante il trattato di Versailles del 1922 e la convenzione di Ginevra del ’25 misero al bando il loro uso, molte nazioni, tra cui l’Italia, continuarono a produrne. I centri di stoccaggio e costruzione degli armamenti furono allestiti tra Bari e Lecce. Dopo la guerra tutto il materiale bellico inutilizzato finì nell’Adriatico. Molti residuati del secondo conflitto mondiale seguirono la stessa sorte e comunque fino a una trentina di anni fa, come riferisce l’Istituto per la ricerca scientifica e tecnologia applicata al mare (ICRAM), la pratica corrente di smaltimento per il munizionamento militare obsoleto era l’affondamento in mare. Nel 1999 sono arrivate le famigerate “bombe a grappolo” sganciate in Adriatico dalla NATO dopo la guerra in Kossovo e l’urgenza di bonificare le zone interessate a fatto riemergere un arsenale sommerso: l’Icram ha individuato per il momento, in quattro aree al largo delle coste di Molfetta, 20 mila ordigni a “caricamento speciale”. Un’enorme discarica sommersa che rilascia sostanze letali come l’iprite e composti di arsenico. Quante altre ce ne sono nel resto dell’Adriatico? Impossibile saperlo: le autorità militari non forniscono informazioni che sono “riservate”. Si sospetta inoltre la presenza di proiettili all’uranio impoverito utilizzati sempre dalle forze NATO. “Non sono pericolosi” avevano assicurato i militari, ma un manuale Nato dice l’esatto contrario. Il dato certo è che il caricamento dei 20.000 ordigni stimati dall’Icram è composto da 24 diverse sostanze, 18 di queste sono persistenti e in grado di esercitare effetti nocivi sull’ambiente e sull’uomo. Costituiscono un pericolo per i pescatori e per tutti coloro che a vario titolo esercitano le loro attività in mare. Solo nel basso Adriatico sono più di 200 i casi documentati di pescatori intossicati e ustionati dalle esalazioni sprigionatesi da ordigni a carica chimica salpati con le reti. Le sostanze rilasciate provocano la distruzione delle cellule umane, attaccano gli occhi, pelle e apparato respiratorio, alterano la trasmissione degli stimoli nervosi. Ne conseguono congiuntiviti, bruciori, edemi, danni polmonari cronici e asfissia. “Esposizioni gravi producono la morte per insufficienza respiratoria e polmonite. E soprattutto, tumori.” Queste le notizie drammatiche che ci giungono da studi approfonditi condotti dal Professor Assennato dell’Università di Bari su 232 pescatori pugliesi vittime di incidenti tra il 1946 e il ’94. Anche l’ecosistema marino non se la passa bene. Dalle prime indagini compiute dall’Icram, nonostante la letteratura sull’argomento sia ancora scarsa, non c’è da stare allegri: i pesci dell’Adriatico sembrano essere particolarmente soggetti all’insorgenza di tumori, subiscono danni all’apparato riproduttivo e sono esposti a mutazioni genetiche che portano a generare esemplari mostruosi. Quali saranno le conseguenze per la salute dei consumatori? Lo sapremo

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quando avranno fatto studi specifici. L’Icram, su richiesta del Ministero dell’Ambiente, ha presentato un “piano per la valutazione dei rischi ambientali e delle opzioni per minimizzarli”, dove sottolinea la complessità e l’urgenza di affrontare il problema: “l’individuazione ed esplorazione delle aree d’affondamento, l’identificazione delle sorgenti di rischio ambientale e del loro potenziale nocivo e l’esperimento di attività di bonifica, richiede la collaborazione di enti civili e militari, di società specializzate, di ecologi marini, ecotossicologi, oceanografi, sedimentologi, chimici, biochimici, modellisti, storici ed esperti di armamenti. La tutela della sicurezza degli operatori, minacciata dalla pericolosità delle sostanze studiate, è priorità imprescindibile e richiede anch’essa la collaborazione di specialisti.”

I dati sulla bonifica rimangono lacunosi. Lo sganciamento di bombe a grappolo, ognuna delle quali conteneva 202 bombe lunghe qualche decina di centimetri, fa supporre che una bonifica completa dell’Adriatico dagli ordigni sarà difficile da conseguire con le tecnologie oggi a disposizione.

E l’emergenza, purtroppo, potrebbe estendersi anche oltre l’Adriatico: si sospetta la presenza di armi chimiche nel Mar Ligure. Finora solo ipotesi ma la nascita del Parco nazionale delle Cinque Terre ha riacceso la memoria, sino a farla giungere agli anni cinquanta. Proprio in quel periodo, alla fine della guerra, alcuni pescatori recuperarono degli strani contenitori di metallo rivestiti in piombo, erano in gran parte stati già intaccati dalla corrosione e l’acqua era penetrata all’interno. Il piombo era un ottimo materiale da commercializzare e quindi alcuni pescatori pensarono di fare a pezzi uno di questi contenitori e rivenderlo come ferro vecchio. Uno di questi contenitori venne tagliato in un cantiere navale del golfo spezzino: conteneva iprite. Vi furono diversi feriti, fortunatamente l’acqua infiltrata nell’ordigno aveva diluito la terribile sostanza. Racconti di incidenti simili si tramandano di generazione in generazione e sono stati raccolti anche dall’Icram. All’epoca però non c’erano verbali quindi si deve fare affidamento solo sulle testimonianze orali dei vecchi pescatori. Si parla di un vero e proprio deposito di ordigni situato sul fondo del mare: si tratta in gran parte di rifiuti o smaltimenti d’emergenza fatti durante le ultime due guerre mondiali, in particolare negli anni quaranta. Nella zona ci sono anche quantitativi di munizioni tedesche gettate in mare dopo l’8 settembre. Fino agli anni ’70 poi anche nelle relazioni della Marina Militare erano segnalati i depositi ufficiali di questi ordigni, in seguito ogni riferimento è misteriosamente scomparso.

Per anni questa “storia” è stata trascurata perché in quelle aree non ci si pescava nemmeno. Ma ora con l’arrivo del parco ed il possibile incremento dell’attività subacquea questo segreto è inevitabilmente “venuto a galla”.

Bombe di ieri e di oggi. Tutte egualmente pericolosissime per l’uomo e dannosissime per l’ambiente. Oggi e domani.

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