Marco Bogliani SCIENZA ARTE VERITÀ -...

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Marco Bogliani SCIENZA ARTE VERITÀ Iniziazione rapida all'esperienza artistica con la guida di Giorgio Agamben Maurice Merleau-Ponty Jean-Luc Nancy Scienza Arte Verità 1

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Marco Bogliani

SCIENZAARTE

VERITÀ

Iniziazione rapida all'esperienza artistica

con la guida di

Giorgio AgambenMaurice Merleau-Ponty

Jean-Luc Nancy

Scienza Arte Verità 1

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Nota

Nella primavera del 2008 il Liceo Cantonale di Mendrisio (Svizzera) organizzò le Giornate Arti. Durante l'arco di tre giorni, le allieve e gli allievi di seconda classe, guidati dai docenti   di   arti   visive,   storia   dell'arte   e   musica,   si cimentarono in varie attività artistiche (dipingere grandi fogli bianchi con pochi tratti di colore, realizzare graffiti con   la   vernice   spray,   imprimere   proprie   tracce   sulla sabbia provenendo dall'oscurità  di un bunker, modellare la creta, ad esempio). Mi venne  allora proposto di tenere una lezione sull'arte a margine dell'ultima giornata. Fu quella l'occasione per redarre il presente libretto. 

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M A P P A

ISTRUZIONI PER...

la prima istruzione perché... ? come...? chi...? dove...? quando...?

... LA TRAVERSATA

PRIMO VIAGGIO TRAVERSATA DELL'ESPERIENZA

(Comandante: Giorgio Agamben)

Quale esperienza hai vissuto...? Esperienza non è... stare a guardareEsperienza non è... avere una rappresentazioneEsperienza non è... rappresentare un oggetto Esperienza non è... fare esperimentiEsperienza è... vivereEsperienza è... una traversataConclusione. O morale della favola

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SECONDO VIAGGIO TRAVERSATA DELLA VISIONE

(Comandante: Maurice Merleau-Ponty)

Primo tratto del secondo viaggio Verità dove sei...?

Verità non è... la rappresentazione scientifica.La scienza soffre... di machismo .La scienza è nuda... e si mostra priva di fondamento...

…sia di un fondamento trascendente... ...basato sul principio di autorità...

…sia di un fondamento trascendentale... ...che si contraddice e...

... riduce l'esperienza a rappresentazione.

Però la scienza non ci sta a farsi mettere a nudo... ...e si rifugia nella tecnica.

Ma il machismo scientifico è un regime pericoloso: un incubo! E allora, che possiamo fare? Conclusione.

Secondo tratto del secondo viaggio Il corpo dipinge

Il corpo vede e si muove e... ... non soffre di machismo.

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Terzo tratto del secondo viaggioLo sguardo svela il mondo

L'immagine pittorica non è... un'immagine. Lo sguardo del pittore è... una conquista. E un dono. Lo sguardo del pittore vede la magia del visibile. Allora la visione del pittore è un'illusione? No: la visione artistica abita e svela il mondo. Conclusione.

Quarto tratto del secondo viaggio Il colore

Quinto tratto del secondo viaggioLa visione

TERZO VIAGGIO TRAVERSATA DELLO SGUARDO

(Comandante: Jean-Luc Nancy)

* * *

LE PAROLE DEI COMANDANTI

Testo 1 da: Giorgio Agamben, Infanzia e storia (1978). Testo 2 da: Maurice Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito (1969) Testo 3 da: Jean-Luc Nancy, Il ritratto e il suo sguardo (2000)

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ISTRUZIONI PER...

La prima istruzione

La prima istruzione è: se vuoi, puoi saltare queste istruzioni e imbarcarti subito per il Primo viaggio. Con un consiglio: se fai così, e incontri problemi, ritorna a leggere queste Istruzioni. Sarebbe peccato...

Perché...?

Ti ho visto trascorrere gli ultimi giorni a indovinarti artista. Spray alla mano ricercando il segno monocromatico di un ritmo che spero ti abbia trovato, trovata, infine. A scocciare, scocciandoti forse, fogli neri e bianchi e grigi che ti aprivano davanti al naso l'angoscia di un vuoto che ti chiedevi come diavolo avresti colmato. Chiusi nel bunker (tanto fuori era brutto) avvolti nell'intimità del buio che non sai se ti libera o ti imprigiona o le due cose insieme, stranamente. Abbandonare le tue orme alla sabbia che, prendendosi loro, pare riuscisse a sottrarti anche a te stesso. Ne avete fatte di cose! A sazietà. Dunque a che serve ora starci a pensare ancora su? Il che vuol dire poi: a che serve pensare a quello che avete fatto? A quello che hai vissuto? Cioè, in breve: a che serve pensare?

Io non posso rispondere. Non che non voglia. Ma proprio non posso. Primo, perché a questa domanda potrai rispondere solo tu, e nessun altro (infatti, riguarda te, proprio te, e nessun altro). E poi perché potrai comprendere questa domanda solo dopo averci pensato su... Che bello scherzetto, eh? Come dire che, per sapere perché uno mangia una mela, devi prima mangiarla. Un bel rischio... Ma non è sempre così? Come se qualcuno, che non conosce il mare, ti chiedesse com'è fare il bagno e a che serve. Potresti aiutarlo a capire? Potresti solo invitarlo a provare. Di più non puoi fare. La faccenda è tutta tra lui e il mare.

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Bene, così non posso che invitarti a seguire questa traversata nel grande mare del pensiero, o meglio: di quel pensiero che si rivolge all'arte. Io sono generoso. Ma tu, se vuoi seguirmi, devi lasciare in sospeso, per ora, la domanda che ti chiede: perché?

Come...?

Hai già capito, perché sei di tempra sveglia (mica per caso ti trovi alla fine della seconda liceo), hai già capito, dicevo, che ti invito a compiere una traversata rischiosa. Il pericolo è perdersi nel labirinto delle parole. Che è come un labirinto di specchi. Lo vedi? Prova a immaginarlo: tu chiuso, chiusa in un labirinto di specchi. Ma immaginalo davvero. Prenditi una pausa. Perché tutta 'sta fretta? Smetti di leggere. Chiudi gli occhi, Guarda. Un labirinto di specchi. Lo vedi? Ti vedi riflesso, riflessa infinite volte da tutte le pareti? E dal pavimento? E dal soffitto? Ti vedi cozzare di naso, di fronte? Andare a testoni? Allungare le mani? E toccare sempre e solo superfici nude, gelide, perfettamente lisce, che ti ingannano promettendoti una profondità che non c'è, una prospettiva, un passaggio, mille passaggi, una via, verso un'uscita, che non trovi ? Alla lunga rischi di scambiare per immagine riflessa perfino te stesso, perfino te stessa, il tuo corpo vivo, la tua carne che sente, palpita, trema, cerca, si dispera e si muove, Finché esausto, esausta non crolli a terra. Pardon: non crolli su un pavimento di specchi che riflette la tua caduta.

Bene, se ora sei qui vuol dire che sei tornato, che sei tornata a volgere gli occhi a questa pagina, a queste cacchette di mosca, che sono le lettere dell'alfabeto, le quali racchiudono una magia, però. Perché non sono semplici segni, che so, come questi: fri dega fru ti craka qi ratù sakka yo. Che differenza c'è? Che questi segni, quelli che stai guardando, che stai leggendo ora, sono lettere per parole, e le parole hanno un senso.

Bene, se segui, se insegui il senso delle parole, allora il senso è come un filo, una guida per uscire dal labirinto, Il «filo rosso» di un discorso, si

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dice. Mica per caso. Il filo rosso è il senso che si dispiega attraverso un discorso. E tu, che attraverserai il discorso, troverai nel senso la guida per entrarci. Per seguire il discorso. E per uscirci.

Non posso dirti che in un discorso, come in mare, nessuno annega. Sarebbe mentirti. Posso rassicurarti, però, dicendoti: segui il senso del discorso che stiamo per attraversare, per non perderti in un labirinto di specchi. Come nel mare ti tuffi per poi uscire e asciugarti al sole, così in un discorso ci entri per poi uscirne. In questo caso, per tornare all'arte. Ma il discorso, come il mare, ti lascia le sue profondità, i suoi giochi e il suo mistero. E ti cambia. Ti accresce. Crescendo in te. Qui tocchiamo di nuovo la prima domanda – perché pensare, perché tessere discorsi? Come detto, è bene lasciare in sospeso questa domanda visto che cercare di risponderle è già pensare.

Seguire il filo rosso di un discorso non è come saltare di palo in frasca, ma è come avvolgere un filo di seta. Devi tenerlo sempre in tensione. Senza tirare troppo, altrimenti si rompe. Senza lasciarlo andare, altrimenti si aggroviglia. (I fili sono fatti per ingarbugliarsi).

Ciò non significa però che si debba seguirlo tutto in una volta sola. Puoi seguirne un tratto. E lasciarlo lì. A maturare. E quando l'hai compreso, quando è diventato come parte di te, allora puoi affrontare un altro tratto. Insomma, è come fare un puzzle. Sera per sera, se vuoi. E nei mesi, negli anni magari, il discorso si ricompone, Così è pure per le pagine che seguono. Non è detto che tu debba berle tutte di un fiato. Magari ti capita, perché no?, ma non è necessario. Poco alla volta. Questa è una protezione contro il rischio di perdersi nel labirinto delle parole. E questo è un brutto rischio, perché quando ti ci perdi una volta, due volte, tre volte, alla fine provi fastidio e diffidenza per tutti i discorsi. E a me dispiacerebbe. Come mi dispiacerebbe invitare qualcuno al mare promettendogli mare e monti, ops... perdonami la stupidera..., e poi al primo tuffo vederlo bere e uscire impaurito dall'acqua. Mi dispiacerebbe. Perché io so come è bello nuotare.

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Adagio dunque. Perché non è detto che tu capisca tutto e subito. Anzi, se hai intenzioni serie con i discorsi, custodisci questi fogli con cura e coltiva l'impagabile virtù dell'umiltà: non prendertela se capisci poco, per ora. Questo poco è prezioso come un seme. E l'umiltà di fronte ai discorsi dei saggi (non io, che saggio non sono, ma i filosofi, che sono raccolti nel papiro che stai tenendo in mano), perché l'umiltà, dicevo, è una grande difesa contro il pericolo di smarrirsi nei discorsi come dentro a labirinti di specchi. In gioco ci sei tu, tu che pensi, che indaghi, che ti metti alla prova, che cerchi. Che cerchi un senso.

Chi...?

Chi sono dunque i saggi di cui parlavo? Rispondono ai seguenti nomi:

Giorgio Agamben ci parlerà del senso dell'esperienza. Merleau-Ponty ci trascinerà nel mistero della visione. Jean-Luc Nancy farà il ritratto dello sguardo.

Si tratta di grandi filosofi, maestri nell'arte della navigazione attraverso il pensiero. Come te, anche loro, volti alla ricerca di un senso.

Vuoi sapere chi sono? Puoi cercare tra i libri o in Internet – attenzione, però: navigare in Internet è come navigare in un oceano dove a volte si viene presi dai vortici e il video, inoltre, ti assorbe in immagini che, alla lunga, ti privano del senso del tuo corpo vivo, della tua carne (vedremo...). Un bel rischio, dunque.

Ma se segui il filo rosso della tua ricerca, puoi servirtene, assecondando le tue antenne, che fiutano i pericoli. E vedrai che come puoi entrarci, così puoi anche uscirci. Salute!.

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Dove...?

Puoi leggere dove vuoi. Purché ci sia luce. Dentro e fuori di te.

Quando...?

Puoi leggere quando vuoi, ora, domani, tra una settimana, tra un anno, tra dieci anni, tra vent'anni. Te lo auguro. E vedrai che ogni volta sarà diverso. Perché tu sarai diverso, sarai diversa. Te lo auguro.

E i nostri sono saggi perché parlano a tutte le età, a cominciare dalla tua. E ogni volta dicono cose diverse. È un discorso che “permette diversi livelli di lettura”, come dicono gli accademici. Insomma, un discorso fatto come una cipolla, a strati. Ma non ha termine. Rinuncia a cercare un risultato: il pensiero è puro processo, e se si arresta a un risultato puoi star certo, puoi star certa che non è pensiero ma bla bla bla. Il pensiero è come l'onda del mare. Quando si arena sulla spiaggia è solo per ritornare indietro, in alto, in altro mare. Che poi è sempre lo stesso mare.

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... LA TRAVERSATA

Primo viaggio Traversata dell'esperienza

(Comandante: Giorgio Agamben)

Quale esperienza hai vissuto...?

Giocando con i suoni e con la materia, hai vissuto davvero l' esperienza di un gesto artistico?

Per rispondere a questa domanda, dovresti sapere che cosa significa fare esperienza. E questo lo sai? Riusciresti a dire che cosa significa fare un'esperienza, vivere un'esperienza?

Forse non capisci il senso di questa domanda. Forse pensi di sapere già che cosa significa la parola esperienza, dal momento che vivi in continuazione così tante e diverse esperienze. Forse ritieni pure che non abbia alcun senso chiedersi che cosa sia l'esperienza, perché tutti sanno che cosa significa, anche se poi non tutti sanno dirlo. E se ti dicessi, invece, che forse non hai vissuto l' esperienza del gesto artistico, perché oggi nessuno è capace di vivere un'esperienza? Diresti che sono matto?

Esperienza non è... stare a guardare

Giorgio Agamben, il primo dei filosofi che incontriamo lungo il nostro viaggio, nel 1978 (quando in Italia lo scontro politico raggiunse l'apice della tensione) scriveva che gli esseri umani non sono più in grado di vivere un'esperienza. Ti invito a leggere le sue parole, tratte da Infanzia e storia (vedi qui il Testo n. 1)

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...non so se mi stai leggendo dopo aver letto le pagine di Agamben che ti ho consigliato di leggere. In ogni caso, stiamo partendo per il primo viaggio attraverso il mondo dell'esperienza. Le pagine di Agamben ci serviranno come spunto e come filo conduttore. Con loro dialogheremo dunque in libertà.

Agamben sosteneva che la nostra è «un'umanità che ha perduto l'esperienza». E continuava:

Il che non significa che oggi non vi siano più esperienze. Ma esse si compiono fuori dell'uomo. E, curiosamente, l'uomo le sta a guardare con sollievo. Una visita a un museo o a un luogo di pellegrinaggio turistico è... particolarmente istruttiva. Messa di fronte alle più grandi meraviglie della terra..., la schiacciante maggioranza dell'umanità si rifiuta oggi di farne l'esperienza: preferisce che, a farne l'esperienza, sia la macchina fotografica.

Questo passo sollecita molte riflessioni. Limitiamoci all'essenziale. Che cosa accade quando tra te e le cose interponi una macchina fotografica? Accade che diventa più difficile vivere un'autentica esperienza. Perché?

Perché, come scrive Agamben, la macchina fotografica ti induce a diventare uno spettatore. E uno spettatore non fa esperienze di quanto accade. Non vede quel che guarda. Perché, come scrive Agamben, in questo caso le esperienze «si compiono fuori dell'uomo. E l'uomo le sta a guardare».

Ciò significa che l'esperienza non è stare a guardare quello che accade fuori di te. Che cosa significa? Per rispondere a questa domanda, bisogna vedere che cosa accade quando te ne stai a guardare quello che accade come uno spettatore.

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Esperienza non è... avere una rappresentazione

Uno spettatore che non fa esperienza di quanto sta accadendo è uno spettatore disinteressato, che non viene coinvolto dagli avvenimenti. Per questo gli avvenimenti sono fuori di lui. Egli guarda le cose dall'esterno. E guardandole dall'esterno se ne fa una rappresentazione. O, detto altrimenti, se ne fa un'immagine. Un'immagine esteriore, s'intende. Una rappresentazione che riproduce solo quel che è visibile, che è visibile dall'esterno, appunto.

Trovi difficile quanto sto dicendo? Non penso. Pensaci: non vivi forse in un mondo di immagini? Guardi la televisione, navighi in rete e salti da un'immagine all'altra, da un video all'altro. Cammini per le strade e incontri centinai di immagini pubblicitarie. Sfogli una rivista ed è come camminare per strada: immagini su immagini. Ma non è questo il punto.

Il punto è che di fronte a quelle immagini ti abitui ad adottare quello sguardo che tali immagini richiedono per essere usufruite nella loro immediatezza e velocemente. Uno sguardo da spettatore. Uno sguardo esterno. Uno sguardo che non penetra attraverso le cose viste ma si ferma alla superficie. Alla rappresentazione. All'immagine visibile.

E così, ogni giorno della tua vita, ti sembra di fare milioni di esperienze senza fare mai un'autentica esperienza. Cominci a capire che cosa vuol dire interporre tra te e le cose una rappresentazione? Vuol dire che non fai esperienza della cosa, ma della sua rappresentazione, della sua immagine. Che rimani all'esterno. Che la tua esperienza non entra nella cosa ma resta fuori. Ma facciamo ancora un passo.

Esperienza non è... rappresentare un oggetto

Dicevo che uno spettatore che non fa esperienza di quanto sta accadendo davanti ai suoi occhi è uno spettatore disinteressato, Ma essere uno spettatore disinteressato non è proprio quello che ti hanno insegnato a scuola?

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Pensaci: non ti hanno forse insegnato che conoscere significa porsi di fronte alle cose con spirito oggettivo? E avere uno spirito oggettivo non significa forse porsi di fronte alle cose come spettatori disinteressati?

Diventare spettatori disinteressati significa non lasciarsi coinvolgere emotivamente dalle cose, mantenersi lucidi e freddi e distaccati di fronte alle cose. Questa, si dice, sarebbe l'esperienza scientifica: eliminare tutti i “fattori soggettivi”, per conservare solo quello che è visibile, sperimentabile, misurabile, quantificabile. Scienza è misurazione.

Così, eliminando i fattori soggettivi, la scienza insegna a costruire la rappresentazione oggettiva del mondo. Così la scienza costruisce un il mondo come un oggetto.

Un oggetto. Sai come si dice “oggetto” in tedesco? Si dice Gegenstand. Che vuol dire ciò “che sta” (stand) “contro” (gegen). Contro che cosa? Contro lo spettatore disinteressato. Ecco, ci siamo: la scienza ti ha insegnato a porti di fronte, contro il mondo e, inavvertitamente, anche fuori dal mondo. Ti ha insegnato a credere nella rappresentazione oggettiva delle cose. O, in breve: a credere nella rappresentazione.

Ma allora, tutto quello che abbiamo detto sulla rappresentazione va detto anche a proposito della scienza. E cioè, che la scienza ti preclude l'accesso alle cose, ti limita a gettare uno sguardo contro le cose, ma ti impedisce di accedere al senso intimo delle cose, di vedere attraverso le cose.

In breve: la scienza ti impedisce l'esperienza del mondo, e alla lunga ti espropria del senso stesso del vivere l'esperienza.

Concludendo: l'esperienza scientifica non è un'esperienza. (È proprio questo il tema, apparentemente paradossale, che Agamben sviluppa nel suo libro. “Apparentemente paradossale”, perché la scienza si ritiene la sola vera esperienza del mondo).

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Esperienza non è... fare esperimenti

L'educazione scientifica, come vedi, rischia di essere diseducativa. Ti induce a credere che solo con un atteggiamento oggettivo è possibile fare un'autentica esperienza del mondo, mentre in realtà ti espropria del senso stesso dell'esperienza. Essa riduce il senso dell'esperienza all'avere esperienze, cioè allo sperimentare.

È con questo atteggiamento – l'atteggiamento di uno spettatore disinteressato – che forse hai cercato di avere tante esperienze, senza in realtà fare esperienza di nulla. Ora, questa credenza – la credenza, cioè, che l'esperienza sia fare esperimenti – cela un grande pericolo. Il pericolo di perdere te stesso, te stessa. Vediamo.

L'idea che l'esperienza sia sperimentare induce a credere che sia possibile sperimentare di tutto senza alcun rischio. L'esperimento, infatti, ha un inizio e una fine, è gestibile, controllabile, non penetra nelle profondità del tuo essere, non ti modifica, non ti rapisce... Proprio perché l'esperimento è l'esperienza (fasulla) di un soggetto disinteressato, distaccato, che guarda le cose da fuori, e non si lascia catturare, diventa possibile pensare che si possa sperimentare qualcosa senza mettere in gioco se stessi, Invece...

Invece le cose che vivi non sono esperimenti, ma esperienze. Esse lasciano profonde tracce nella tua memoria, trasformano il tuo sentire, il tuo pensare, e pure il tuo corpo. Qualsiasi situazione, qualsiasi esperimento è un'esperienza vissuta: anche quando credi di poterla controllare stando fuori, essa entra dentro di te. Gli esperimenti a volte rischiosi che la tua curiosità forse ti induce a fare – con il sesso o con le droghe, ad esempio – non sono esperimenti come l'atteggiamento scientifico induce a credere, ma sono autentiche esperienze: ne esci con un carico affettivo non sempre facile da risolvere, con ricordi che si intrufolano nei tuoi sogni, che colorano il tuo stato emotivo, che incidono perfino sulla tua percezione delle cose e degli altri, e a lungo...

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Comici ora a capire la differenza che passa tra l'esperienza vissuta e il fare esperimenti? tra l'accedere al senso intimo delle cose e il restarne fuori? tra l'essere vivi ed essere spettatori?

Esperienza è... vivere

Siamo quasi arrivati in porto. Se mi hai seguito fin qua, allora hai certamente capito che l'esperienza si svela grazie a un gesto di liberazione dal concetto scientifico di esperienza, che è un concetto che intende l'esperienza come una rappresentazione, come costruzione di un oggetto, come esperimento di un soggetto disinteressato, il quale resta al di fuori e non rischia nulla.

Il gesto di liberazione dalla mentalità scientifica è dunque il gesto con cui possibile riconquistare l'esperienza rubata dalla mentalità tecnico-scientifica, che riduce tutto a rappresentazione.

Invece, il soggetto (io, e tu, e noi) rischia sempre se stesso in ogni esperienza, perché l'esperienza è vivere. E come non diresti mai di avere una vita, così non puoi dire di avere un'esperienza. Io non ho, e tu non hai, una vita: io sono, e tu sei, vita. Per questo non ho, e non hai, un'esperienza, ma sono la mia, e tu sei la tua, esperienza. Ma allora cosa significa “esperienza”?

Esperienza è... una traversata

Il senso dell'esperienza è stato riconquistato progressivamente dal pensiero filosofico nel corso del Novecento. E non senza duri scontri con il pensiero scientifico.

Recentemente, alcuni filosofi francesi hanno percorso quel cammino che ho cercato di ripercorrere anch'io con te nelle pagine precedenti. Un filosofo parigino, Claude Romano, ha espresso il senso ritrovato dell'esperienza con le seguenti parole:

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L’esperienza è questa traversata di sé, a rischio di sé, in quanto esposizione all’altro: all’avvenimento.1

E un altro filosofo francese, Henry Maldiney, ha scritto:

Il mondo che si annuncia nella radice “per” è quello dell’esperienza. Emperia, experientia, Erfharung. La prova nella quale noi incontriamo e apprendiamo le cose è una traversata.2

Il percorso che abbiamo compiuto finora, come ti annunciavo, è stato una traversata nel mondo dell'esperienza. Ora siamo giunti in porto definendo l'esperienza come vita e traversata. Abbiamo dunque attraversato la traversata. Come dire che abbiamo vissuto un'esperienza dell'esperienza.

Esperienza è... vedere attraverso

Ancora un'osservazione. Ricordi che parlando dell'oggetto abbiamo notato come la parola tedesca “Gegenstand” manifesta molto bene la riduzione che l'esperienza subisce dalla prospettiva scientifica?

Inseguendo l'ideale dell'oggettività, la scienza guarda le cose solo dalla prospettiva frontale, le considera solo come oggetti, come cose che stanno di fronte allo sguardo, contro a uno spettatore disinteressato a coglierle internamente, ma volto solo a descrivere e a misurare quello che appare visibile da fuori. Bene, possiamo completare il quadro, ora.

1. Cl. Romano,  L’événement et le temps, PUF, Paris 1999, p. 198 (« L’expérience est  cette   traversée   de   soi,   au   risque   de   soi,   en   tant   qu’exposition   au   tout   autre   :   à  l’événement »). 

2.  H. Maldiney, L’art, l’éclair de l’être, Comp’act, Paris 1993, p. 275 (« Le monde qui  s’annonce   dans   la   racine   per   est   celui   de   l’expérience.   Emperia,   experientia,  Erfahurung. L’épreuve dans laquelle nous rencontrons et apprenons les choses est une  traversée »). 

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Liberare lo sguardo dai paraocchi scientifici significa liberare lo sguardo dalla prospettiva frontale per abbandonarsi a un'autentica esperienza, che non guarderà più in modo frontale ma cercherà di attraversale, di passarci attraverso. Non più uno sguardo contro (gegen) le cose, bensì uno sguardo attraverso (durch) le cose.

Se, dunque, guardare vuol dire guardare il mondo dal di fuori, facendo del mondo l'oggetto (Gegenstand) che sta di fronte, vedere vorrà dire passare attraverso le cose per svelarne il senso autentico e profondo, e misterioso, per aprire la vita nascosta nelle cose.

Conclusione. O morale della favola

Ritorniamo alla questione di partenza, che ti chiedeva: giocando con i suoni e la materia, hai vissuto l'esperienza del gesto artistico. Ma è vero? Cioè: hai vissuto davvero l'esperienza di un gesto artistico?

Ora, io non posso certo rispondere a questa domanda, alla quale puoi rispondere solo tu. Ma posso aiutarti a riformulare la questione tenendo per buono tutto quello che abbiamo finora percorso o traversato.

Riprendendo la definizione di esperienza data da Claude Romano, la questione suona allora così:

Hai vissuto l’esperienza artistica, hai compiuto quella traversata di te stesso, di te stessa,

a rischio di te, in quanto esposizione all’altro,

all’avvenimento, cioè, qui, al gesto artistico?

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Secondo viaggio Traversata della visione

(Comandante: Maurice Merleau-Ponty)

Le pagine che cercheremo di traversare sono state scritte dal filosofo francese Maurice Merleau-Ponty (Maurice, per gli amici) nell'estate dell'anno 1960, che doveva essere quello delle sue ultime vacanze.

Stabilitosi per due o tre mesi nella campagna provenzale, Maurice interroga la visione, e al tempo stesso la pittura. Ne esce un agile saggio, che non supera le sessanta pagine. Che un giorno, forse, leggerai per intero. Qui trovi la traversata di alcuni tratti, che sono:

l'idea di verità (in riferimento al Testo 2.1)il corpo del pittore (in riferimento al Testo 2.2)lo sguardo del pittore (in riferimento al Testo 2.3)il colore (in riferimento al Testo 2.4)il vedere (in riferimento al Testo 2.5)

Non è mio compito sostituirmi alle parole del saggio. Mio compito è quello di chiarire alcuni luoghi del testo che, immagino, possano apparirti alquanto nebulosi, ma che, ti assicuro, si possono decifrare senza diventarci matti. Fatte salve le istruzioni di cui sopra, s'intende.

Bene, cominciamo dall'inizio. Cioè dall'idea di verità.

***

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Primo tratto del secondo viaggioVerità dove sei...?

( Testo 2.1)→

Verità non è... la rappresentazione scientifica

E ci risiamo. Anche Maurice, come Giorgio (l'Agamben, intendo), non mostra alcuna riverenza nei confronti della scienza. Possiamo indovinare perché. Maurice, come Giorgio, e come molti altri saggi del Novecento, svela il trucco nascosto nell'ideale scientifico dell'oggettività. Con la sua sicumera, lo scienziato va riducendo il mondo a oggetto e l'esperienza del mondo a rappresentazione del mondo, finendo così per espropriare se stesso, e l'umanità intera, del senso autentico dell'esperienza e del mondo. Così egli perde se stesso. Perde, cioè, il senso di esistere, e con ciò anche il senso del mondo, della vita, dell'essere. Illudendosi di cogliere la verità nell'oggettività scientifica, egli perde il senso autentico della verità. Seguiamo dunque il comandante Maurice in questo nuovo viaggio

La scienza soffre... di machismo

Maurice esordisce con poche frasi che racchiudono la sapienza di un lunghissimo discorso, intessuto insieme a tutti i saggi che, nel corso del Novecento, hanno lottato per liberare l'accesso alla verità dal macigno, dal tabù, della rappresentazione scientifica del mondo. Le poche frasi sono le seguenti:

La scienza manipola le cose e rinuncia ad abitarle. Se ne costruisce dei modelli interni e, operando su questi indici o variabili le trasformazioni consentite dalla loro definizione, si confronta solo di quando in quando con il mondo effettuale. Essa è, ed è sempre stata, quel pensiero mirabilmente attivo, ingegnoso,

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disinvolto, quel partito preso di trattare ogni essere come “oggetto in generale”, cioè come se non fosse niente per noi e tuttavia si trovasse predestinato ai nostri artifici.

Che la «scienza manipola le cose e rinuncia ad abitarle» significa che se ne fa una rappresentazione guardando dal di fuori la superficie visibile, misurabile, quantificabile, al fine di trasformare le cose, costruendo delle macchine che consentano di dominare la natura, uomini compresi. Così, ad esempio, il calcolo differenziale e lo studio fisico-matematico delle parabole ebbero successo perché consentivano di calcolare il gettito delle palle di cannone...

«La scienza rinuncia ad abitare» le cose: rinuncia, cioè, a vedere attraverso le cose, perché non le interessa svelare il senso misterioso che costituisce l'esserci delle cose e che ne anima la vita. Le interessa altro, le interessa usufruire delle cose come si usufruisce di oggetti. In breve: la scienza è macha. È malata di machismo. Soffre di bullismo. Non è forse così che il macho tratta le donne? «come se non fossero niente per lui e tuttavia si trovassero predestinate ai suoi artifici»? Come oggetti, dunque.

La scienza è nuda... e si mostra priva di fondamento...

Maurice continua con un passo che ti sembrerà davvero difficile capire. Scrive, infatti:

Ma la scienza classica conservava il senso dell'opacità del mondo, ed era il mondo che intendeva raggiungere con le sue costruzioni: ecco perché si riteneva in obbligo di cercare per le sue operazioni un fondamento trascendente o trascendentale.

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Per quanto difficile, questo passaggio è inevitabile. È il cuore dell'intera faccenda. Solo passando di qui ci sarà permesso, dunque, evitare il solito bla bla bla e procedere oltre, assecondando la corrente, seguendo il filo del senso che stiamo traversando. Mettiti comodo, mettiti comoda. Sveliamo cosa dice il comandante.

La scienza classica – per capirci, quella che viene creata nel Cinquecento e nel Seicento, con l'opera dei primi astronomi (Copernico, Keplero, Galilei) e poi dei fisici (Newton), insomma: quella creazione dello spirito umano che si fa protagonista della cosiddetta Rivoluzione scientifica – la scienza classica, dicevo, ambiva a conoscere la realtà: “era il mondo che intendeva raggiungere con le sue costruzioni”. Ma allora perché “conservava il senso dell'opacità del mondo”?

Se provi a dedurre la risposta da quel che abbiamo traversato finora, non sbagli. Puoi riuscirci. Dato il percorso finora compiuto, questa sarebbe una bella domanda da Compito in classe. Dunque: perché la scienza classica conservava il senso dell'opacità del mondo?

Deduzione: poiché, come visto, la scienza sostituisce all'esperienza del mondo una rappresentazione del mondo, essa in qualche modo avverte, deve avvertire, che le sue costruzioni, invece di raggiungere il mondo, potrebbero mancarlo, La scienza classica conserva l'opacità del mondo perché l'esperienza del mondo, che gli scienziati vivevano (non come noi, che ce ne siamo dimenticati) opponeva resistenza alla costruzione della rappresentazione scientifica del mondo. L'esperienza non ci stava a farsi trattare come un oggetto.

Così, di fronte all'opacità del mondo, lo scienziato si trovava alle prese con il problema di giustificare la sua riduzione del mondo a oggetto scientifico, a rappresentazione del visibile-misurabile.

«Ecco perché la scienza si riteneva in obbligo di cercare per le sue operazioni un fondamento», scrive Maurice. E cioè: la percezione

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dell'opacità del mondo – ossia: il sentore che il mondo dell'esperienza non si lasciasse risolvere nel mondo dell'esperimento - conduceva gli scienziati e i filosofi al problema del fondamento della scienza: che cosa ci assicura che le rappresentazioni scientifiche sono vere? Che cosa assicura che le costruzioni scientifiche riflettono veramente il mondo?

Per secoli, l'umanità europea si è arrovellata su tale domanda. E ha trovato due grandi risposte, quelle che Maurice, e tutti gli altri filosofi prima di lui, hanno battezzato “fondamento trascendente” e quella chiamata, invece, “fondamento trascendentale”. Non farti impaurire da questi paroloni. Le cose sono molto più semplici di quanto pensi.

Sei stanco? Sei stanca? Riposa un po'. Fatti un bagno, immergiti nel senso dell'opacità del mondo e del suo effetto sul pensiero degli scienziati. Un effetto che insinua un dubbio, un dubbio che non lascerà più dormire sonni tranquilli a nessuno, per secoli: a che titolo le rappresentazioni scientifiche del mondo possono pretendere di essere vere?

...sia di un fondamento trascendente...

...fatto il bagno? Bene, rieccoci qua. Alle prese con i paroloni. Iniziamo dal primo. “Trascendente”. Anzi, “fondamento trascendente”. Comincio col darti una rappresentazione della faccenda. E tu lo sai, che da una rappresentazione non ti puoi aspettare la cosa stessa, ma solo una rappresentazione della cosa (ma guarda un po'...). È solo un fermo immagine. Gessato. Ma può esserti utile, una volta prese le debite precauzioni. Bene. la rappresentazione della faccenda, è data da questo schema:

uomo (rapp. razionale) → = (mondo) dio ←

Lo schema rappresenta anzitutto questo discorso: Dio crea il mondo, mentre l'essere umano crea le rappresentazioni del mondo. Ma non solo:

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Dio è un Grande Architetto, che crea un mondo logico e razionale; e tra gli esseri viventi, ne ha creato uno soltanto a sua immagine e somiglianza, ossia l'essere umano. Ora, come Dio crea un mondo razionale, così l'essere umano crea rappresentazioni razionali del mondo.

Che cosa assicura, dunque, che la rappresentazione costruita dallo scienziato sia vera? Cioè: quale è il fondamento della validità della rappresentazione scientifica del mondo?

Il (presunto) fondamento è la ragione infinita di Dio, che crea un mondo che non può non essere anch'esso razionale; e Dio crea l'essere umano a sua immagine e somiglianza, lo crea, cioè, razionale e capace di creare mondi di pensiero. L'essere umano, dunque, crea le teorie razionali, le quali dunque non sono solo possibili (= logiche = non contraddittorie) ma anche vere, nel senso che corrispondono al mondo, visto che il mondo è posto come razionale.

Così possiamo completare il nostro schema nel modo seguente:

(uomo=ragione finita) (rapp. raz.) = (mondo raz.) (dio=ragione infinita)→ ←

A sorreggere la pretesa di conoscere la realtà mediante la rappresentazione scientifica del mondo era, dunque, tutta una serie di presupposti teologici. Quali? Quelli che trovi nello schema, e cioè:

1. Dio esiste.2. Dio è razionale.3. Dio crea il mondo. 4. Dio crea un mondo razionale. 5. Dio crea anche l'essere umano. 6. L'essere umano è un animale razionale. 7. L'essere umano crea rappresentazioni razionali.

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Dati tali presupposti, le rappresentazioni razionali o scientifiche possono corrispondere al mondo, riflettere la realtà, possono, cioè, essere vere. Le rappresentazioni razionali sarebbero, dunque, uno specchio in cui si riflette la realtà. Magari non tutta la realtà, magari solo una porzione di realtà, ma questa porzione si rifletterebbe comunque in modo preciso, cioè vero.

Possiamo comprendere allora che cosa significa “fondamento trascendente” della scienza classica. Esso:

• è un fondamento, perché assicura (dovrebbe assicurare) la possibilità di conoscere la realtà con la ragione;

• è trascendente perché tale fondamento è Dio (o meglio: la ragione infinita di Dio), il quale sta al di là del mondo e lo genera, lo crea (questo “stare al di là di qualcosa e costituire la sua origine”, è il significato del termine “trascendente”).

Questo discorso ha (dovrebbe avere) lo scopo di garantire o, come si dice, di fondare la verità della conoscenza razionale. Esso è stato pensato da Platone e poi riproposto, in chiave cristiana, da S. Tommaso d'Acquino (XIII secolo) e da Nicola Cusano (XV secolo) Esso viene ereditato, anche in forma implicita, da quei filosofi e scienziati che, nei secoli successivi, credevano nella possibilità di conoscere la realtà mediante la ragione. In questo modo, dogmatico e teologico, essi speravano di risolvere il dubbio che l'opacità del mondo suggeriva all'orecchio dell'esperienza.

...basato sul principio di autorità...

Bene. Prima di passare al secondo parolone - fondamento trascendentale - occorre vedere cosa è capitato nel corso del Settecento a questo bel modo di pensare classico. Ma non avere fretta. Dopo il bagno, ti consiglio una passeggiata, magari in campagna, lontano dal devasto urbano, là dove puoi ammirare il cielo azzurro sospeso tra gli aromi dei fiori, e lasciare lo sguardo vagare, così che sia più facile vedere il mondo dal punto di vista

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teologico che abbiamo dipanato. Perché questa visione classica sta per crollare. E per comprendere il vuoto che tale crollo ha lasciato, occorre prima avere abitato tale visione. Cioè: vivere l'esperienza della visione teologica e scientifica, insieme, del mondo. A dopo, dunque. E buona passeggiata.

...già di ritorno? Bene, ora che sei passato traverso l'esperienza religiosa puoi capire che cosa ha significato il suo crollo. Crollo che passo ora a descriverti nelle sue ragioni intime. Il problema è di una semplicità disarmante. In breve potrei dirti che, cercando il fondamento della validità della rappresentazione scientifica del mondo, il filosofo del Seicento e del Settecento introduceva più problemi di quelli che cercava di risolvere. Prima il dubbio lo colpiva in merito alla validità delle sue rappresentazioni scientifiche. Ora, invece, il dubbio va a toccare i fondamenti ultimi della sua rappresentazione complessiva del mondo. E se Dio non esistesse? E, ammessa pure l'esistenza di Dio, se Dio non fosse anzitutto ragione? Se fosse un essere capace di creare un mondo non razionale? Se fosse anzitutto volontà onnipotente? E se, invece di essere un Grande Architetto, Dio fosse un Grande Artista?

Questa libertà di pensiero dai dogmi e dai limiti circoscritti dal (presunto) sapere teologico cominciò con gli umanisti del Quattrocento. Filosofi della natura, maghi, alchimisti, poeti, letterati di lusso come Erasmo, il baldo giovane che scrisse l'Elogia della follia (1508). Questi inquieti, e inquietanti, figuri cominciarono a prendersela con il Principio di autorità. Sai cos'è? In breve, è l'idea che una rappresentazione è vera perché sacra, cioè perché proviene dall'alto (ab alto, dicevano i nostri nonni in latino) e dal di fuori (ab extrinseco), cioè da Dio. O dai suoi rappresentanti in terra, gli uomini di Chiesa.

Questo principio regolava allora l'intero sapere. Era implicito in quell'idea di verità come corrispondenza delle teorie razionali al mondo, che abbiamo visto prima anche sotto forma di schema. Eh già, perché senza principio di autorità tutti quei presupposti teologici che fondano la

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validità del conoscere razionale, non stanno in piedi. Il principio di autorità, dunque, è il Grande presupposto di tutti quei grandi presupposti. Il Grande presupposto, in concreto, era poi questo: che le Sacre Scritture (la Bibbia, che comprende il Vecchio Testamento i Vangeli, le Lettere di Paolo, gli Atti degli apostoli, l'Apocalisse di Giovanni) sono vere perché è voce di Dio: Dio ha parlato ai profeti, ispirati dallo Spirito Santo, che è Dio stesso, stando al dogma della Trinità di Dio (che è Padre, Figlio, Spirito Santo).

In breve, dunque, il Principio di autorità fonda la verità dei dogmi teologici. E gli umanisti se la presero appunto con questa usanza di credere ai dogmi. E allora? Una volta che il Principio di autorità comincia a indebolirsi, che cosa accadde?

Accadde che molti filosofi e scienziati liberarono la filosofia dal principio di autorità. Volevano essere veramente, radicalmente razionali, e quindi non ammettevano nessun dogma, ma solo rappresentazioni assolutamente evidenti. Essi costruirono grandi metafisiche, cioè grandi discorsi sulla Natura, su Dio e sul Mondo, usando solo la ragione e badando a restare entro i confini dell'evidenza razionale.

Questi personaggi hanno fatto la storia europea del Seicento e del Settecento, Ne ricordiamo alcuni, almeno tre, che si stagliano nell'orizzonte culturale dell'epoca e della storia universale dell'umanità come possenti montagne: sono Descartes, (Cartesio), Spinoza, Leibniz. Questi filosofi hanno accompagnano la nascita della scienza classica, fornendo agli scienziati il quadro generale, la Grande rappresentazione di un universo e di un mondo razionali. Ed è in questa grande rappresentazione che gli scienziati andavano imbastendo le loro teorie: la fisica meccanica, anzitutto, cioè la grande rappresentazione di un universo come una sola e unica grande macchina, un grande orologio, regolato da nessi di causa-effetti.

Ma poco dopo, nel corso del Settecento, altri filosofi andarono ancora

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oltre. E scoprirono che la Grande rappresentazione scientifica del mondo, la scienza classica, non aveva veramente rinunciato ai dogmi. Ma come?

Fu un filosofo scozzese a suonare l'allarme. Si chiamava David Hume. Era grassoccio e pacifico, e in fondo si concentrò su di un unico concetto, quello di causa. U n concetto che era la chiave di volta dell'intero edificio, della grande costruzione della rappresentazione scientifica del mondo. Egli scrisse che le teorie scientifiche pretendevano di rappresentare la realtà spiegando tutti i fenomeni secondo il principio di causa. E questo era indubbiamente vero per tutti.

Ma, aggiunse, causa ed effetto non sono che un'abitudine umana di interpretare i fenomeni. Nient'altro che un modo di comprendere gli eventi dovuto a un'errore, quello d'intendere gli eventi che si susseguono nel tempo come se fossero legati da un nesso di causa-effetto.

Così nulla può assicurare che la nostra rappresentazione scientifica di un universo fatto come un grande orologio corrisponda veramente alla realtà. Anzi, più in generale, David affermava che non si può conoscere proprio nulla, perché niente ci assicura che le nostre rappresentazioni corrispondano veramente alla realtà. Per questo passò alla storia come il grande scettico (lo scetticismo è proprio questa posizione che dice che non è possibile conoscere la realtà).

Il nostro scettico, dunque, rivelava che nel cuore della scienza e della metafisica (= teologia puramente razionale, non fondata su dogmi ma su (presunte) evidenze) si nascondeva ancora tutto il vecchio mondo teologico e dogmatico: nulla, diceva, assicura che le teorie (razionali) corrispondono a un mondo (razionale) se non quella serie di presupposti teologici che abbiamo appena visto. Presupposti che non sono affatto evidenti, ma possono essere tenuti per veri solo per fede.

Bene. Se hai seguito il filo del discorso, e sei giunto fin qui, allora sei pronto, sei pronta a comprendere il senso del secondo grande parolone

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che ci attende, il “fondamento trascendentale”. E complimenti. Meriteresti un premio.

...sia di un fondamento trascendentale...

«A svegliarmi dal sonno dogmatico fu David Hume», scriveva un filosofo tedesco del Settecento, che ha terrorizzato generazioni di studenti. Immanuel Kant. Non avere paura anche tu. Vedrai che la cosa è molto semplice, se la si guarda con semplicità.

Immanuel dava ragione a David. Nulla ci assicura che le nostre rappresentazioni (scientifiche e razionali) corrispondono alla realtà. Di più: nulla può assicurarci di tale corrispondenza. Perché? È semplice. Vediamo.

Io ho le rappresentazioni. Che pretendono di corrispondere alla realtà. Ora, per vedere se davvero tali rappresentazioni corrispondono alla realtà dovrei confrontarle con la realtà. Ma non ho la realtà. Ho solo rappresentazioni della realtà. Quello che posso sperare di fare, dunque, è solo confrontare rappresentazioni con altre rappresentazioni. Fine della storia. Avendo solo rappresentazioni non posso misurare la loro corrispondenza con la realtà. Ora ripetiamo tutto con altre parole. Parole più tecniche, che appartengono al linguaggio tradizionale (e accademico) della filosofia. Sono le parole “soggetto” e “oggetto”. Il soggetto sono io. Sei tu, che dici, come me: «il soggetto sono io». L'oggetto è il mondo, o una parte del mondo. Bene, il soggetto pretende che le sue rappresentazioni corrispondono all'oggetto. Per vedere se tale corrispondenza è vera, il soggetto deve confrontare le sue rappresentazioni con l'oggetto. Ma il soggetto non ha l'oggetto, ma solo rappresentazioni dell'oggetto.Quindi quel che può fare è solo confrontare le sue rappresentazioni con altre rappresentazioni. Fine della storia. Il soggetto è chiuso nelle sue rappresentazioni e, per quanto queste siano razionali e scientifiche,

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niente e nessuno può assicurarlo che tali rappresentazioni corrispondano all'oggetto. In breve: lo scettico ha ragione. Però...

Però Immanuel era convinto che si poteva pensare la verità in un altro modo. Non più come corrispondenza delle rappresentazioni alla realtà. Questo modo di intendere la verità, che si basava su nascosti presupposti dogmatici, doveva finire per sempre. Ma come ripensare dall'inizio la verità, dunque?

Immanuel ci restò su a pensare per un po'. Dodici anni, Mentre i dotti di tutta Europa scrivevano al giovane uomo, professore di Logica e Metafisica dell'Università di Königsberg chiedendogli: ma perché la sua illustrissima persona non regala all'umanità i frutti del suo genio? perché se ne sta tutta sola in silenzio, lassù? (Königsberg, si trova nella Prussia orientale, all'estremo limbo nordico dell'Europa ).

Ma Immanuel taceva. Taceva e pensava. Taceva e ruminava. Scriveva e scriveva. Ed ecco che un bel giorno del 1781 dava alle stampe un'opera destinata a cambiare la storia. Già il titolo è un parolone: Critica della ragion pura. Ma la sostanza, ripeto, è semplice. Vediamo.

Bene, pensava il nostro Immanuel, David ha mostrato che lo scienziato non fa che giocare con le sue rappresentazioni. Lo scienziato sostiene che tutto accade secondo leggi di causa ed effetto, ma in realtà non sappiamo. Di più: non possiamo sapere se tali leggi corrispondono veramente alla realtà, o non siano, invece, costruzioni della nostra intelligenza. Però...

...se la smettessimo di giudicare le costruzioni della nostra intelligenza a partire dalla loro presunta (e impossibile da giudicare) corrispondenza alla realtà? Se lasciassimo cadere tutto questo vecchio discorso della verità come corrispondenza? E giudicassimo la validità delle nostre rappresentazioni solo come rappresentazioni? Allora – e questa è la conclusione del nostro – le rappresentazioni potrebbero venire considerate vere quando sono rappresentazioni coerenti, razionali,

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logiche. Con un aggiunta particolarmente importante: se la conoscenza è un gioco razionale, logico, di rappresentazioni, allora sono possibili tante e diverse rappresentazioni di Dio e della Natura. Nessuna può pretendere di essere quella vera a dispetto delle altre. Le metafisiche e le teologie, che si contendono il sapere di Dio, della realtà invisibile, e della Natura visibile non sono che giochi dell'intelligenza e della ragione. Nessuna può essere presa per vera a dispetto delle altre. Ma non è così per la scienza, (che al tempo era rappresentata dalla fisica di Newton). Qui il gioco razionale delle rappresentazioni non è libero di giocare come vuole. Qui, gioca che ti gioca, alla fine occorre rispettare l'esperienza evidente. Qui le nostre rappresentazioni possono ancora corrispondere all'oggetto. Certo, non all'oggetto che si sottrae all'esperienza, non a Dio, ma a quell'oggetto che ci è dato di sperimentare, di vedere, toccare, misurare, quantificare. Allora, la scienza trova il suo fondamento. Ma dove lo trova?

Non lo trova più in Dio, cioè nell'oggetto, ma lo trova nella ragione umana, che costruisce la rappresentazione scientifica del mondo. Lo trova, cioè, nel soggetto. Il problema, allora, sarà quello di vedere come il soggetto deve procedere per costruire una rappresentazione razionale dell'esperienza sensibile.

Attenzione: Immanuel non voleva studiare quel che il soggetto fa quando costruisce le sue rappresentazioni. Ma voleva chiarire quello che, a prescindere dalle abitudini, il soggetto deve fare per costruire una rappresentazione vera. Vera, cioè: logica e verificata dall'esperienza. Verità qui non significa più corrispondenza delle rappresentazioni alla realtà, ma costruzione di rappresentazioni razionali e verificabili dei fenomeni, cioè della realtà come appare, della realtà spaziotemporale..

Queste rappresentazioni non ci dicono nulla circa la realtà ultima che si presume al di là dei fenomeni (cioè Dio). La conoscenza non può pretendere di raggiungere oggetti trascendenti, che stanno, cioè, al di là del mondo visibile e sperimentabile, La conoscenza è possibile solo nei

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confronti di quel che appare. Ed è vera quando costruisce una rappresentazione razionale di quel che appare ai cinque sensi, rinunciando alla pretesa di raggiungere il senso ultimo delle cose, che sarebbe invisibile e nascosto dentro, o dietro, le cose.

Come vedi, il buon Immanuel ha cambiato il senso del conoscere. Conoscere, lo ripetiamo, non è più conoscere il mondo così come il mondo è in sé. Il mondo in sé non lo abbiamo mai, abbiamo solo rappresentazioni del mondo. E quindi non possiamo giudicare se le nostre rappresentazioni corrispondono al mondo in sé. Quello che possiamo fare è costruire rappresentazioni razionali del mondo come esso si manifesta, come è per noi, che lo guardiamo, misuriamo, sperimentiamo. E conoscere sarà allora costruire una rappresentazione razionale del mondo sensibile.

In breve: conoscere è costruire un oggetto a partire dal materiale sensibile mantenendo le nostre costruzioni in questo mondo, senza speculare sul mondo in sé, del quale non possiamo fare esperienza.

Bene, ci siamo, Il fondamento di quest'opera di messa in forma dell'esperienza, di questa costruzione dell'oggetto scientifico, è l'essere umano, con la sua ragione e i suoi cinque sensi, il suo corpo. Questo fondamento non è trascendente, non è Dio. Non si regge su presupposti teologici. Non usa il Grande presupposto, il principio di autorità che reggeva quei presupposti teologici.

Il nuovo fondamento è l'essere umano che costruisce l'oggetto, che è vero non perché corrisponde alla realtà, che non possiamo raggiungere, perché siamo rinchiusi nelle nostre rappresentazioni; ma che è vero perché corrisponde al modo logico e razionale di mettere in forma l'esperienza sensibile del mondo.

Questo fondamento, che è il soggetto, Immanuel lo chiamò “trascendentale”. (Lasciamo stare perché il nostro abbia scelto questo parolone). Siamo arrivati in porto. Pausa caffè.

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...che si contraddice e...

E allora? Cosa c'è che non va nella nuova prospettiva trascendentale? La prospettiva, cioè, che pensa la verità della rappresentazione non più come corrispondenza alla realtà ma come costruzione logica e razionale dell'esperienza sensibile umana?

Se non hai dimenticato la nostra prima traversata, la risposta non è difficile. Mettiamola così. Se “conoscere” significa costruire un oggetto senza più pretendere di andare al di là dell'esperienza sensibile per raggiungere una realtà che esisterebbe prima e fuori dalle nostre rappresentazioni, che cosa assicura che la costruzione scientifica sia quella vera? Ripetiamolo ancora: “vero” qui non significa più corrispondente alla (presunta) realtà razionale del mondo, ma corrispondente, da un lato, alla ragione umana, dall'altro, all'esperienza dell'uomo. La domanda suona allora così: a che titolo possiamo affermare che la costruzione scientifica dell'oggetto è quella vera?

La risposta di Immanuel è: perché la costruzione scientifica corrisponde alla natura del soggetto. Ma questa risposta – che è la cosiddetta fondazione trascendentale – fa acqua da tutte le parti. O per lo meno da due falle decisive.

La prima: la rappresentazione scientifica è solo una costruzione dell'oggetto, una messa in forma dell'esperienza, accanto ad altre costruzioni ugualmente possibili, ad esempio a quella artistica. Perché, dunque, la rappresentazione scientifica dovrebbe avere il privilegio di essere considerata vera, mentre le altre rappresentazioni, come quella artistica, non sarebbero né vere né false, ma semplici giochi dello spirito umano?

La risposta di Immanuel è: perché l'essere umano è essenzialmente un essere razionale, e per questo le rappresentazioni razionali sono vere, perché queste rappresentazioni corrispondono alla natura e alla dignità dell'essere umano. Sono conformi alla sua intelligenza logica, che mette in

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forma il materiale offerto dai suoi cinque sensi, costruendo così l'oggetto scientifico.

Bene. Ma allora si pone il secondo problema, decisivo e risolutivo: è possibile affermare che la natura dell'essere umano è essenzialmente la ragione?

Affermare che l'essere umano è ragione significa affermare qualcosa circa la natura dell'essere umano come l'essere umano è in sé. Ma questa affermazione, stando alla nuova idea di conoscenza ideata da Immanuel, non è possibile: noi abbiamo solo rappresentazioni della realtà e non abbiamo mai la realtà come essa è in sé; e quindi non possiamo dire neppure che l'essere umano è in sé razionale.

Quindi Immanuel si contraddice. Parte con il constatare che non è possibile raggiungere il mondo, e che quindi conoscere significa costruire una rappresentazione del mondo, ma poi dice anche che tale rappresentazione va considerata come vera se rispetta la natura razionale dell'essere umano. Tutta la faccenda si fonda quindi sulla natura razionale dell'essere umano (è questo il “fondamento trascendentale”). Ma dire che l'essere umano è razionale significa pretendere di raggiungere la realtà ultima dell'essere umano. E con ciò il nostro si contraddice. Buona notte, dunque. Fine del discorso:

il fondamento trascendentale non fonda un bel nulla: anch'esso si basa su un dogma, ben nascosto, quello secondo cui l'essere umano è in sé un essere essenzialmente razionale.

... e riduce l'esperienza a rappresentazione

I filosofi non ci hanno messo molto a scoprire l'inganno, e la contraddizione, celata nel grande disegno di Immanuel. Ma prima di rielaborare un nuovo modo di intendere la verità – che è quello che vedremo attraversando la visione artistica – trascorsero due secoli. Fino a

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quando, cioè, nel corso del Novecento, progressivamente, si è fatto luce sul fatto che la costruzione scientifica priva l'essere umano della sua esperienza del mondo, che viene ridotta a esperimento e a rappresentazione.

Che cosa significa che la scienza espropria l'umanità della capacità di vivere l'esperienza? A questa domanda abbiamo già risposto, almeno un po', lungo la nostra prima traversata, che abbiamo condotto grazie alla guida di Giorgio (l'Agamben, sempre lui). Ti ricordi?

Non mi resta che invitarti nuovamente a compiere quella prima traversata, cioè a rileggere quelle pagine. Questo movimento di lettura e di rilettura è il movimento dello studio. Non ti sorprendere. Procederai in questo modo quando studierai seriamente qualcosa. Al liceo, nei prossimi anni. Ma soprattutto se continuerai gli studi, ad esempio all'università o altrove. Magari per conto tuo. È un movimento che procede guadagnando qualcosa e ripercorre poi l'intero percorso alla luce delle nuove conoscenze guadagnate. È un movimento che ritorna sui suoi passi, sempre, Percorre e ripercorre. È un movimento circolare, spiraliforme. Un vortice.

Ma la scienza non ci sta a farsi mettere a nudo...

Bene. Torniamo a Maurice (Merleau-Ponty). Siamo partiti dal seguente passo, ricordi?

La scienza manipola le cose e rinuncia ad abitarle. Se ne costruisce dei modelli interni e, operando su questi indici o variabili le trasformazioni consentite dalla loro definizione, si confronta solo di quando in quando con il mondo effettuale. Essa è, ed è sempre stata, quel pensiero mirabilmente attivo, ingegnoso, disinvolto, quel partito preso di trattare ogni essere come “oggetto in generale”, cioè come se

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non fosse niente per noi e tuttavia si trovasse predestinato ai nostri artifici.

Ora che lo abbiamo chiarito, possiamo capire la continuazione di questo passo:

Oggi si verifica – non nella scienza ma in una filosofia delle scienze abbastanza diffusa – un fenomeno completamente nuovo: la pratica costruttiva si considera autonoma e si dà come tale, e il pensiero si riduce deliberatamente all'insieme delle tecniche di presa o di captazione che esso inventa. Pensare significa sperimentare, operare, trasformare, con l'unica riserva di un controllo sperimentale in cui intervengono solo fenomeni altamente “elaborati”, che i nostri apparecchi, più che registrare, producono.

Che cosa significa? Significa anzitutto, come visto, che la scienza soffre di machismo. Ma ora possiamo aggiungere: l'interpretazione filosofica delle scienze oggi se ne frega della vecchia pretesa della scienza classica che intendeva raggiungere il mondo, conoscere la realtà. Per questo non cerca più nessun fondamento, trascendente o trascendentale che sia.

Per questo non avverte più l'opacità del mondo. L'unico suo criterio di verità è dato dal successo che essa riesce ad ottenere costruendo il suo oggetto, le sue rappresentazioni. Se queste rappresentazioni hanno successo, se consentono di trasformare la materia, se permettono di fabbricare macchine utili (utili a chi, e per cosa...?), la scienza è soddisfatta.

La tecnica diventa la misura della validità della scienza. Verità significa allora: successo della tecnica.

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...e si rifugia nella tecnica

Ciò significa che la scienza ha rinunciato a chiarire il senso del mondo. Le interessa solo trasformare liberamente il mondo. E il mondo che cosa diviene? Il mondo diviene l'oggetto delle sue manipolazioni, E il pensiero? Diviene pensiero operativo, tecnico. Ascoltiamo il comandante Maurice che poco oltre, a pagina 14 di L'occhio e lo spirito, (che trovi qui in fotocopia), scrive:

Dire che il mondo è per definizione nominale l'oggetto X delle nostre operazioni, significa assolutizzare la situazione conoscitiva dello scienziato, come se tutto ciò che fu o è non fosse mai esistito se non per entrare in laboratorio. Il pensiero “operatorio” diviene una sorta di artificialismo assoluto...

Ma il machismo scientifico è un regime pericoloso: un incubo!

Se l'umanità si lascia espropriare dell'esperienza, essa rischia di perdere se stessa e finirà per lasciarsi distruggere dal suo stesso mirabile successo tecnico. Il machismo scientifico – il pensiero operativo - rischia così di portare l'umanità all'autodistruzione fisica e spirituale. Questa è la morale della favola. È quel che dice tra le righe il nostro vecchio saggio Maurice nella sua ultima estate sulla terra:

Se un pensiero di questo genere si fa carico dell'uomo e della storia, e se, fingendo di ignorare ciò che ne sappiamo per contatto e per posizione (cioè: per esperienza) inizia a costruirli a partire da qualche indice astratto..., allora diviene realmente il manipulandum (= colui che manipola, il soggetto) che pensa di essere, e si entra in un regime di cultura in cui non

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esistono più né vero né falso riguardanti l'uomo e la storia, in un sonno o incubo da cui non esiste risveglio. (pagina 15 de L'occhio e lo spirito)

Era il 1960. Le cose nel frattempo sono peggiorate. La mentalità tecnica, il pensiero operativo sono ovunque. Noi viviamo in questo regime, in questo sonno, in questo incubo. Forse ti riesce difficile accorgertene. Forse il risveglio ti è quasi impossibile. Perché tu, in questo incubo, pochi anni fa, ci sei nato, ci sei nata.

E allora che fare?

Il saggio non sarebbe saggio se alla diagnosi del male non offrisse una terapia. Così anche Maurice. La sua cura prevede due misure. La prima si rivolge alla scienza. Alla scienza, o meglio agli scienziati e ai filosofi, e a noi tutti, lancia un appello: smettetela di considerare il mondo come un oggetto da manipolare e trasformare. Fatela finita con il machismo del pensiero operativo, con questa barbarie in cui termina il progetto scientifico dell'umanità europea. Il che significa: prendete atto che il mondo c'è prima delle operazioni e delle costruzioni di rappresentazioni e oggetti e macchine:

È necessario che il pensiero scientifico... si ricollochi in un “ c'è ” preliminare, nel luogo, sul terreno del mondo sensibile e del mondo lavorato così come sono nella nostra vita, per il nostro corpo, non quel corpo possibile che è lecito definire una macchina dell'informazione, ma questo corpo effettuale che chiamo mio, la sentinella che vigila silenziosa sotto le mie parole e sotto le mie azioni.

(pagina 15 de L'occhio e lo spirito)

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La seconda misura di cura si occupa di risvegliare la sentinella che dorme, il corpo che vigila sotto le mie, sotto le tue, parole e azioni. Il corpo che dipinge, Perché è questo corpo, quello dell'artista, l'unico ad avere ancora la possibilità di risvegliarsi alla vita. Al mondo, Che c'è. E che non è una rappresentazione.

È quanto vedremo nella prossima traversata. Che è una traversata del corpo del pittore.

Conclusione del primo tratto del secondo viaggio

La domanda di partenza era, se ben ricordo:

Hai vissuto l’esperienza artistica, hai compiuto quella traversata di te stesso, di te stessa,

a rischio di te, in quanto esposizione all’altro,

all’avvenimento, qui: al gesto artistico?

Non possiamo ancora rispondere. Io non potrò mai rispondere al posto tuo, e tu non puoi ancora rispondere, perché cominci solo ora a comprendere (forse, io ci spero) il senso della domanda. Che ora suona così:

Hai vissuto il risveglio del corpo vivo? Hai messo a rischio te stesso, te stessa, incrinando il pensiero

operativo, indebolendo il machismo scientifico che permea le tue parole e le tue azioni?

Hai lasciato al tuo corpo la possibilità di un gesto artistico? Hai ritrovato nell'avvenimento di questo gesto il mondo che c'è?

Che c'è prima di qualsiasi rappresentazione?

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Secondo tratto del secondo viaggioIl corpo dipinge

( Testo 2.2)→

Il corpo vede e si muove e...

Ricorda quello che hai vissuto giocando con il gesto e la materia.: ti sei dato, ti sei data con il tuo corpo. È quanto dice Maurice ripetendo le parole di un altro audace saggio del Novecento, che si chiamava Paul Valéry:

Il pittore «si dà con il suo corpo» dice Valéry... È prestando il suo corpo al mondo che il pittore trasforma il mondo in pittura.

(p. 17 de L'occhio e lo spirito)

Per capire questa trasformazione del mondo in pittura, dalla quale dipende il risveglio dell'umanità dal regime del machismo tecnico- scientifico, occorre “ritrovare il corpo operante ed effettuale” (ancora a pagina 17).

Questo corpo non è un corpo nello spazio. Come un tavolino, un missile, o un lecca lecca. E non è neppure un robot, un semplice fascio di funzioni, una macchina. Questo corpo è un «intreccio di visione e di movimento» (idem). Che cosa vuol dire? C'è forse un enigma in questo esserci del corpo, del corpo che c'è, del corpo che io sono, che tu sei, che noi siamo? Il mio corpo, come il tuo corpo, vede e si muove all'unisono. O, come dice in un linguaggio preciso il nostro Maurice: «Il mondo visibile e quello dei miei progetti motori sono parti totali del medesimo Essere» (sempre idem). Bene. Io mi muovo e vedo, vedo e mi muovo all'unisono. E allora?

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Allora c'è ancora una cosa: che vedendo e muovendosi, il corpo si vede. E si tocca: il corpo «si vede vedente, si tocca toccante, è visibile e sensibile per se stesso» (a pagina 18).

Non capisci bene cosa vuol dire? Guardati allora. E toccati: incrocia le mani: quale mano è quella che tocca, quale mano è quella che viene toccata?

Non puoi pensare la risposta. Non puoi decidere tu la risposta. Tu sei insieme chi tocca e chi viene toccato. E lo sei prima di ogni pensiero.

Cioè: lo sei, sei corpo che c'è, prima della distinzione tra un soggetto, che tocca, e un oggetto, che viene toccato. Questo pensiero, quello della distinzione tra il soggetto e l'oggetto, è pensiero, appunto. È rappresentazione. È costruzione dell'oggetto, Da un lato, l'oggetto “chi tocca”, che chiamiamo il soggetto dell'azione; dall'altro, l'oggetto “che cosa viene toccato”, che chiamiamo l'oggetto dell'azione.

Ma prima di questo pensiero c'è il corpo che si tocca. E solo perché c'è prima un corpo vivo, che si tocca, che poi è possibile pensare e distinguere tra soggetto e oggetto. Il corpo che c'è non conosce ancora questa distinzione del pensiero.

Per questa ragione, cioè per esprimere il fatto che il corpo è vivo, sente e si muove, si muove, e si sente, i francesi hanno una bella parola: la chair, che traduciamo in italiano con la parola carne. Ma carne, in italiano, ci fa pensare alle macellerie, dove non troviamo affatto la chair ma carne fatta a pezzi, carne che non è più viva, che non sente, non si muove, non si vede e non si tocca. Carne morta. Cadavere.

Il corpo vivo, invece, la chair si muove all'unisono della visione. «Il mio movimento è il proseguimento naturale e la maturazione di una visione» (a pagina 18).

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In fondo è questa esperienza della chair, del corpo vivo, che i tuoi maestri di arti visive hanno cercato di farti vivere. Esporti al gesto pittorico, era esporti all'avvenimento del corpo che si muove avendo maturato una visione. Non eri tu a decidere di muoverti: tu assistevi al compiersi di una visione che si traduceva immediatamente, e ripeto: immediatamente, nel corpo che si muoveva.

Allora non c'è un soggetto che guarda e poi decide di fare un gesto, ma c'è un corpo, una chair che si muove, che irradia visione e movimento da sé:

Io dico che una cosa è mossa, ma il mio corpo si muove, il mio movimento si dispiega; non avviene nell'ignoranza di sé, non è cieco a se stesso, s'irradia da un sé.. (toujours a pagina 18)

Il corpo vivo non è una cosa. Dipingendo tu non eri più soggetto di fronte (gegen, ricordi il primo viaggio?) a un oggetto. Tu ti scoprivi nel gesto pittorico come un corpo, una chair che c'è, che irradia visioni e movimenti.

Forse così hai scoperto di esserci prima del pensiero, prima della distinzione tra il soggetto, che decide, e l'oggetto che viene deciso, e costruito.

... non soffre di machismo

Ti sei esposto, ti sei esposta al rischio, dunque. Hai mollato la presa. Ti sei concesso, ti sei concessa un'autentica esperienza. Perché l'esperienza è questo esserci prima del pensiero, del pensiero che distingue tra il soggetto e l'oggetto; prima del pensiero con cui costruisci (anche) quella rappresentazione di te stesso, di te stessa che chiami soggetto. Ti sei esposto, ti sei esposta all'avvenimento di esserci, di essere un corpo, una chair, che c'è prima del pensiero e della differenza di soggetto e oggetto.

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Ti sei vissuto, ti sei vissuta come vita originaria. Nel mondo che c'è. Ti sei scoperto, ti sei scoperta come chair, che non è soggetto (perché non decide e non pensa), e non è un oggetto (perché vive: vede, si vede e si muove), ma è un sé:

È un sé, non per trasparenza come il pensiero, che può pensare una cosa solo assimilandola, costituendola, trasformandola in pensiero – bensì un sé per confusione, narcisismo, inerenza di colui che vede a ciò che vede, di colui che tocca a ciò che tocca, del senziente ( = chi sente) al sentito – dunque un sé che è preso nelle cose, che ha una faccia e un dorso, un passato e un avvenire...

(pag. 18).

Un sé “che è preso nelle cose” e cioè: che non sta di fronte (gegen) alle cose e non costruisce oggetti (Gegenstand) e per questo non si riduce a soggetto. Non costruendo oggetti, il corpo, la chair, il sé rinuncia anche a possedere oggetti.

Rinunciare a possedere oggetti significa anzi tutto rinunciare a pensare come fa il pensiero, che concepisce, che manipola oggetti e concetti, che pensa per concetti.

Sai come si dice il concetto in tedesco? Si dice das Begriff. E sai da dove viene Begriff? Da begreifen, che vuol dire afferrare. Cioè: possedere.

Eccola qui la faccia del pensiero, che costruisce rappresentazioni, o concetti, della cose, rinunciando ad abitarle: esso vuole possedere, begreifen, le cose trasformandole in Begriff, in concetti.

E il pittore, invece?

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Immerso nel visibile mediante il suo corpo, anch'esso visibile, il vedente non si appropria di ciò che vede: l'accosta soltanto con lo sguardo, apre sul mondo.

(pag 18).

Il sé, il corpo, la chair – non soffre di machismo. Da questa malattia il pittore è risparmiato, O si è liberato. Per questo può risvegliare l'umanità intera al senso originario del sé. All'apertura al mondo.

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Terzo tratto del secondo viaggioLo sguardo svela il mondo

( Testo 2.3)→

L'immagine pittorica non è... un'immagine

Immagine di solito è sinonimo di rappresentazione. Se, dunque, il viaggio finora percorso ha avuto un senso, non è difficile capire che l'immagine come rappresentazione non può essere l'immagine pittorica, cioè quell'immagine che il pittore dipinge.. ops, che gaffe... quell'immagine che «s'irradia» dalla chair, dal corpo vivo, dal sé del pittore. (...perché il pittore, propriamente, non dipinge, visto che non è un soggetto che decide, che sta contro, gegen, al visibile e non costruisce immagini,,, se non ti è chiaro, ritorna a traversare il tratto precedente, al quale arrivi traversando il primo tratto, al quale arrivi al termine del primo viaggio...). La mia è una gaffe, perché dopo tanto chiarire il senso del sé, sono ricaduto nell'abitudine di attribuire al pittore un soggetto. Maurice sa il pericolo di ricadere, in forza dell'abitudine, nel pensiero scientifico, nel suo linguaggio manipolatore, e avverte:

La parola immagine ha una cattiva fama perché si è creduto sconsideratamente che un disegno fosse un ricalco, una copia, una seconda cosa, e che l'immagine mentale fosse un disegno di questo genere nel nostro bazar privato

(p. 21 de L'occhio e lo spirito)

L'immagine pittorica non è una “copia” della realtà, non è una rappresentazione. Lo sguardo del pittore non riproduce la realtà. La realtà è costruzione del pensiero. Il quadro non corrisponde alla realtà, perché

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non corrisponde a una costruzione del pensiero: «Il quadro, la mimica dell'attore non sono strumenti ausiliari presi in prestito dal mondo vero, per indicare attraverso di essi, cose prosaiche assenti», scrive Maurice sempre a pagina 21.

Ma allora che cosa è l'immagine del pittore?

Lo sguardo del pittore è... una conquista. E un dono

Lo sguardo del pittore è una conquista e un dono, un premio anche, che passa attraverso la liberazione dallo sguardo frontale del pensiero razionale e scientifico, il quale costruisce rappresentazioni, immagini, oggetti:

...tutta la questione consiste nel comprendere che i nostri occhi di carne sono già molto più che ricettori dei raggi luminosi, dei colori e delle linee: sono computer del mondo, che hanno il dono del visibile così come si dice che l'uomo ispirato ha il dono delle lingue. Naturalmente questo dono si conquista con l'esercizio, e non è in qualche mese, e neppure nella solitudine, che il pittore entra in possesso della sua visione. Ma non è questo il problema: precoce o tardiva, spontanea o coltivata nei musei, la visione del pittore impara solo vedendo, impara solo da se stessa.

(p. 22 de L'occhio e lo spirito).

Ma non abbiamo ancora risposto: cosa vede il pittore?

Lo sguardo del pittore vede il senso (invisibile) del visibile

Il mondo visibile ci sta davanti al naso, O meglio davanti agli occhi. Che

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cosa vede allora il pittore che noi non vediamo? Non vede forse anche lui quel mondo visibile che noi vediamo? Si e no. Il pittore vede il visibile ma non pensa. Non pensa che il visibile sia quel che gli sta davanti agli occhi. Davanti... contro... di fronte... gegen... non vede il mondo come una rappresentazione. Non vede immagini. Non vede oggetti. Il pittore vede...visioni. Cioè?

Il pittore vede il mondo ma non lo vede come mondo semplicemente presente. Vede il mondo e vede una mancanza: «vede ciò che manca al mondo per essere quadro, e ciò che manca al quadro per essere se stesso», dice il saggio (a fondo della pagina 22).

Per questo lo sguardo del pittore è chiaroveggente: perché vede nel mondo presente ciò che manca affinché il mondo sia quadro e il quadro visione che apre, svela, ciò che si cela nel visibile.

Allora la visione del pittore è un'illusione?

No. Perché dire che la visione del pittore è un'illusione, o dire che il quadro è perciò falso, significherebbe presupporre che la nostra visione, che vede solo ciò che è visibile, è la visione vera. Ma noi, quando guardiamo, anche pensiamo: siamo (stati educati ad essere) soggetti. Noi costruiamo il visibile come oggetto, come rappresentazione di una presunta realtà che crediamo di afferrare (begreifen) con i concetti (Begriff), con il pensiero che sta contro (gegen), o di fronte al mondo. Noi non vediamo il mondo che c'è, ma l'oggettività del mondo. La nostra è una visione “profana”. Che vede tutto. E non vede niente:

Il visibile in senso profano dimentica le sue premesse, riposa su una visibilità totale che va ricercata, e che libera i fantasmi che in esso sono prigionieri

(dice il nostro a p. 24).

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Le “premesse” della visione profana è il pensiero scientifico, oggettivante, che guarda al mondo come si guarda a un oggetto. I suoi fantasmi sono l'assoluta mancanza di fondamento di tale pensiero, il quale costruisce intimamente, in modo implicito e silenzioso, il nostro sguardo profano.

No: la visione artistica abita e svela il mondo

Il pittore, nel suo lungo o breve apprendistato alla scuola della visione, ha disinnescato la potenza del pensiero che costruisce in modo inconsapevole anche la nostra visione profana.

Egli non vive più come un soggetto, che si sa, si vuole, si sente davanti al mondo, posto di fronte al visibile. Egli vive come un sé: egli lascia che si irradi dal corpo, dalla chair, dai suoi «occhi di chair», «ciò che è stato toccato da un certo impatto con il mondo, e lo restituisce al visibile mediante i segni tracciati dalla mano» (pag. 24).

Così, in questa immediatezza, che è il risultato di un'esperienza liberatoria dal pensiero, il pittore assiste alla traduzione del visibile in visione: «la visione è uno specchio o concentrazione dell'universo».

Così lo sguardo del pittore ci fa «vedere il visibile» che il pensiero nasconde. La visione pittorica ci apre al mondo che c'è, svela il mondo che c'è per noi, che siamo corpo, chair, prima dell'intervento del pensiero, il quale ci separa dal mondo, ponendoci al cospetto del mondo come di fronte, contro, un oggetto. La visione ci riconcilia con noi stessi e ci unisce al mondo che c'è.

Il pittore, dunque, non è macho: non tratta il mondo «come se non fosse niente per lui e tuttavia si trovasse predestinato ai suoi artifici». Il pittore non rinuncia ad abitare il mondo che c'è. Ma lo apre e lo svela. E così non rinuncia al sé. Non rinuncia a se stesso.

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Conclusione.

Giunti fin qui, siamo in prossimità dell'uscita da questo discorso sull'esperienza artistica. Un discorso che riceve il suo senso solo dall'esperienza artistica. Dallo sguardo pittorico. Dal gesto pittorico. Affinché il discorso fatto finora possa raggiungerti, devi uscire dal discorso. E dipingere. Diventare chiaroveggente. Alla scuola della visione.

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Quarto tratto del secondo viaggioIl colore

( Testo2.4)→

Da qui puoi procedere da sola, da solo, alla lettura delle pagine 48 e 49 e 50 de L'occhio e lo spirito, che trovi ricopiate in questo papiro. Perché non ci sono più luoghi nebulosi che io possa chiarirti meglio di quanto puoi fare da solo, da sola anche tu.

***

Quinto tratto del secondo viaggioLa visione

( Testo 2.5)→

Stesso discorso anche per le pagine 57 e 58 e 59 e 60 de L'occhio e lo spirito, dedicate ad approfondire il senso conoscitivo della visione, che trovi sempre nel papiro che tieni davanti agli occhi, se è ancora integro, e non si è sfogliato col tempo.

Queste sono pagine che possono accompagnarti per la vita intera. Il loro senso crescerà insieme a te. Col tempo.

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Terzo viaggioTraversata dello sguardo

(Comandante: Jean-Luc Nancy)

( Testo 3)→

Il libro di Jean-Luc conta poche pagine. Ma molto belle. Te ne lascio qualcuna. E ti lascio vivere l'esperienza della lettura nella tua cella monastica. Cioè in solitudine (monaco viene dal greco monachós, cioè unico, poi mónos, cioè solo). Perché un commento, a questo punto, sarebbe probabilmente superfluo e fuorviante.

***

Bene. Dobbiamo salutarci. Ti auguro di cuore una buona continuazione di viaggio.

CiaoPeaceLove

Lugano, dal primo al tre maggio 2008

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LE PAROLE DEI COMANDANTI

I testi seguenti sono tratti da:

Giorgio Agamben, Infanzia e storia, Einaudi 2001, (prima ed. 1978).

Maurice Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito, SE, Milano 1989, (ed. originale francese: L'Oeil e l'Esprit, Éditions Gallimard, 1964).

Jean-Luc Nancy, Il ritratto e il suo sguardo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002, (ed. originale francese: Le Regard du portrait, Éditions Galilée, 2000).

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Testo 1

( Primo viaggio. Traversata dell'esperienza)←

Il seguente brano è tratto da: Giorgio Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell'esperienza e origine della storia, cit., pp. 5-7.

Ogni discorso sull'esperienza deve oggi partire dalla costatazione che essa non è più qualcosa che ci sia ancora dato di fare. Poiché , così come è stato privato della sua biografia, l'uomo contemporaneo è stato espropriato della sua esperienza; anzi, l'incapacità di fare e trasmettere esperienze è, forse, uno dei pochi dati certi di cui egli disponga su se stesso. Benjamin, che già nel 1933, aveva diagnosticato con precisione questa «povertà d'esperienza» dell'epoca moderna, ne indicava le cause nella catastrofe della guerra mondiale, dai cui campi di battaglia «la gente tornava ammutolita... non più ricca, ma più povera di esperienze partecipabili... Poiché mai le esperienze hanno ricevuto una smentita così radicale come le esperienze strategiche durante la guerra di posizione, le esperienze economiche attraverso l'inflazione , le esperienze corporee attraverso la fame, le esperienze morali attraverso il dispotismo. Una generazione, che era andata a scuola col tram a cavalli, stava in piedi sotto il cielo in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato tranne le nuvole e, al centro, in un campo di forza di correnti distruttive e esplosioni, il fragile, minuscolo corpo umano».

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Noi sappiamo però oggi che, per la distruzione dell'esperienza, una catastrofe non è in alcun modo necessaria e che la pacifica esistenza quotidiana in una grande città è, a questo fine, perfettamente sufficiente. Poiché la giornata dell'uomo contemporaneo non contiene quasi più nulla che sia ancora traducibile in esperienza: non la lettura del giornale, così ricca di notizie che lo riguardano da un'incolmabile lontananza, né i minuti trascorsi al volante dell'automobile in un ingorgo, non il viaggio agli inferi nelle vetture della metropolitana né la manifestazione che blocca improvvisamente la strada, non la nebbia dei lacrimogeni che si disfa lenta fra i palazzi del centro e nemmeno i rapidi botti di pistola non si sa dove, non la coda davanti agli sportelli di un ufficio o la visita al paese di Cuccagna del supermercato, né i momenti eterni di muta promiscuità con degli sconosciuti in ascensore o nell'autobus. L'uomo moderno torna a casa alla sera sfinito da una farragine di eventi – divertenti o noiosi, insoliti o comuni, atroci o piacevoli – nessuno dei quali è però diventato esperienza.

È questa incapacità di tradursi in esperienza che rende oggi insopportabile – come mai in passato – l'esistenza quotidiana, e non una pretesa cattiva qualità o insignificanza della vita contemporanea rispetto a quella del passato (anzi, forse mai come oggi l'esistenza quotidiana è stata tanto ricca di eventi significativi). Se bisogna aspettare il secolo XIX per incontrare le prime manifestazioni letterarie di questa oppressione del quotidiano e se alcune celebri

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pagine di Sein und Zeit «sulla banalità» del quotidiano – in cui la società europea fra le due guerre fu fin troppo incline a riconoscersi – non avrebbero avuto semplicemente senso anche solo un secolo prima, ciò è precisamente perché il quotidiano – e non lo straordinario – costituiva la materia prima dell'esperienza che ogni generazione trasmetteva alla successiva (di qui l'inattendibilità dei racconti di viaggio e dei bestiari medioevali, che non hanno nulla di fantastico», ma mostrano semplicemente come lo straordinario non potesse essere in nessun caso tradotto in esperienza). Ogni evento, per quanto comune e insignificante, diventava così la particella d'impurità intorno alla quale l'esperienza addensava, come una perla, la propria autorità. Perché l'esperienza ha il suo necessario correlato non nella conoscenza, ma nell'autorità, cioè nella parola e nel racconto, e oggi nessuno sembra più disporre di autorità sufficiente a garantire un'esperienza e, se ne dispone, non è nemmeno sfiorato dall'idea di allegare in un'esperienza il fondamento della propria autorità. Al contrario, ciò che caratterizza a il tempo presente è che ogni autorità ha il suo fondamento nell'inesprimibile e nessuno si sentirebbe di accettare come valida un'autorità il cui unico titolo di legittimazione fosse un'esperienza. (Il rifiuto delle ragioni dell'esperienza da parte dei movimenti giovanili ne è una prova eloquente).

Di qui la scompara della massima e del proverbio, che erano le forme in cui l'esperienza si poneva come autorità. Lo slogan, che li ha

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sostituiti, è il proverbio di un'umanità che ha perduto l'esperienza. Il che non significa che oggi non vi siano più esperienze. Ma esse si compiono fuori dell'uomo. E, curiosamente, l'uomo le sta a guardare con sollievo. Una visita a un museo o a un luogo di pellegrinaggio turistico è, da questo punto di vista, particolarmente istruttiva. Messo di fronte alle più grandi meraviglie della terra (poniamo, il patio de los leones nell'Alhambra), la schiacciante maggioranza dell'umanità si rifiuta oggi di farne esperienza: preferisce che, a farne l'esperienza, sia la macchina fotografica.

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Testo 2.1

( Primo tratto del Secondo viaggio. Verità dove sei...?)←

Il brano seguente è tratto da: Maurice Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito, cit., pp. 13-16.

La scienza manipola le cose e rinuncia ad abitarle. Se ne costruisce dei modelli interni e, operando su questi indici o variabili le trasformazioni consentite dalla loro definizione, si confronta solo di quando in quando con il mondo effettuale. Essa è, ed è sempre stata, quel pensiero mirabilmente attivo, ingegnoso, disinvolto, quel partito preso di trattare ogni essere come «oggetto in generale», cioè come se non fosse niente per noi e tuttavia si trovasse predestinato ai nostri artifici.

Ma la scienza classica conservava il senso dell'opacità del mondo, ed era il mondo che intendeva raggiungere con le sue costruzioni: ecco perché si riteneva in obbligo di cercare per le sue operazioni un fondamento trascendente o trascendentale. Oggi si verifica – non nella scienza, ma in una filosofia delle scienze abbastanza diffusa – un fenomeno completamente nuovo: la pratica costruttiva si considera autonoma e si dà come tale, e il pensiero si riduce deliberatamente all'insieme delle tecniche di presa o di captazione che esso inventa. Pensare significa sperimentare, operare, trasformare, con l'unica riserva di un

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controllo sperimentale in cui intervengano solo fenomeni altamente «elaborati», che i nostri apparecchi, più che registrare, producono. Di qui, tentativi peregrini di ogni sorta. Mai come oggi la scienza è stata sensibile alle mode intellettuali. Quando un modello ha dato buoni risultati in un certo ordine di problemi, essa tenta di applicarlo ovunque. La nostra embriologia, la nostra biologia sono attualmente tutte piene piene di gradienti,3 e non si vede esattamente in cosa essi si distinguano da ciò che i classici chiamavano ordine o totalità, ma la questione non viene formulata, né deve esserlo. Il gradiente è una rete che si getta in mare senza sapere quel che riporterà. Oppure, è l'esile ramoscello su cui si formeranno imprevedibili cristallizzazioni. Questa libertà di operazione certamente è in procinto di superare molti vani dilemmi, purché di tanto in tanto si faccia il punto, ci si domandi come mai lo strumento funzioni qui, fallisca altrove, in breve, purché questa scienza fluente comprenda se stessa, si veda come una costruzione basata su un mondo grezzo ossia esistente, e non voglia attribuire a operazioni cieche quel valore costituente che i «concetti della natura» potevano avere in una filosofia idealista. Dire che il mondo è per definizione nominale e

3. Gradiente: termine scientifico che significa rapporto, grado di progressione. Nato nell'ambito della meccanica, il concetto ha trovato applicazione in altri rami della scienza, ad esempio in biologia (gradiente assiale) e in meteorologia (gradiente barico, gradiente termico). (N.d.T.).

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l'oggetto X delle nostre operazioni, significa assolutizzare la situazione conoscitiva dello scienziato, come se tutto ciò che fu o è non fosse mai esistito se non per entrare in laboratorio. Il pensiero «operatorio» diviene una sorta di artificialismo assoluto, come si vede nell'ideologia cibernetica, in cui le creazioni umane vengono fatte derivare da un processo naturale di informazione, ma a sua volta concepito sul modello delle macchine umane. Se un pensiero di questo genere si fa carico dell'uomo e della storia, e se, fingendo di ignorare ciò che ne sappiamo per contatto e per posizione, inizia a costruirli a partire da qualche indice astratto, come hanno fatto negli Stati Uniti una psicanalisi ed un culturalismo decadenti, allora l'uomo diviene realmente il manipulandum che pensa di essere, e si entra in un regime di cultura in cui non più non esistono né vero né falso riguardanti l'uomo e la storia, in un sonno o incubo da cui non esisterisveglio.

È necessario che il pensiero scientifico – pensiero di sorvolo, pensiero dell'oggetto in generale - si ricollochi in un «c'è» preliminare, nel luogo, sul terreno del mondo sensibile sensibile e del mondo lavorato così come sono nella nostra vita, per il nostro corpo, non quel corpo possibile che è lecito definire una macchina dell'informazione, ma questo corpo effettuale che chiamo mio, la sentinella che vigila silenziosa sotto le mie parole e sotto le mie azioni. Bisogna che insieme al mio corpo si risveglino i corpi associati, gli «altri», che non

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sono semplicemente miei congeneri, come dice la zoologia, ma che mi abitano, che io abito, insieme ai quali abito un solo Essere effettuale presente, come mai animale ha abitato gli animali della sua specie, il suo territorio o il suo ambiente. In questa storicità primordiale, il pensiero allegro e improvvisatore della scienza imparerà a riancorarsi alle cose stesse e a se stesso, ridiventerà filosofia...

L'arte invece, e la pittura in particolare, attingono a questo strato di senso bruto che l'attivismo preferisce ignorare e son le sole a farlo in tutta innocenza. Allo scrittore, al filosofo, domandiamo un consiglio o un parere, non ammettiamo che tengano gli altri in sospeso, esigiamo che prendano posizione, non possono declinare le responsabilità dell'uomo che parla. La musica, al contrario, è troppo al di qua del mondo e del designabile per poter raffigurare altro che intelaiature dell'Essere, il suo flusso e il suo riflusso, la sua crescita, le sue esplosioni, i suoi vortici. Il pittore è l'unico ad aver diritto di guardare tutte le cose senza alcun obbligo di valutarle. Si direbbe che davanti a lui le parole d'ordine «conoscenza» e «azione» perdano il loro potere. I regimi politici che tuonano contro la pittura «degenerata» raramente distruggono i quadri: li nascondono, e in questo è implicito un «non si sa mai» che è quasi un riconoscimento; raramente si rivolge al pittore il rimprovero di evadere dalla realtà. Non si serba rancore a Cézanne per aver vissuto nascosto all'Estaque durante la guerra del 1870, tutti citano con rispetto il suo «è spaventosa, la vita», mentre

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anche lo studente più modesto, dopo Nietzsche, rinnegherebbe con decisione la filosofia se gli si dicesse che non ci insegna a vivere in modo grande. È come se ci fosse nell'attività del pittore un'urgenza che supera tutte le altre. Egli è là, forte o debole nella vita, ma sovrano incontestato nella sua ruminazione del mondo, senz'altra «tecnica» tranne quella che i suoi occhi e le sue mani conquistano a forza di vedere, a forza di dipingere, accanendosi a trarre da questo mondo, in cui risuonano gli scandali e le glorie della storia, delle tele, che aggiungeranno ben poco alle collere e alle speranze degli uomini, e nessuno trova niente da ridire. Qual è dunque la scienza segreta che il pittore possiede o che cerca? Questa dimensione secondo la quale Van Gogh vuole andare «più lontano»? Questo fondamento della pittura, e forse di tutta la cultura?

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Testo 2.2

( Secondo tratto del Secondo viaggio. Il corpo dipinge)←

Il brano seguente è tratto da: Maurice Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito, cit., pp. 17-18.

Il pittore «si dà con il suo corpo» dice Valéry. E, in effetti, non si vede come uno Spirito potrebbe dipingere. È prestando il suo corpo al mondo che il pittore trasforma il mondo in pittura. Per comprendere tali transustanziazioni, bisogna ritrovate il corpo operante ed effettuale, che non è una porzione di spazio, un fascio di funzioni, che è un intreccio di visione e di movimento.

Basta che io veda qualcosa per saperla raggiungere ed afferrare, anche se non so come ciò avvenga nella macchina nervosa. Il mio corpo mobile rientra nel mondo visibile, ne fa parte, ecco perché posso dirigerlo nel visibile. D'altra parte è vero anche che la visione è sospesa al movimento. Vediamo solamente quel che guardiamo. Che cosa sarebbe la visione senza il movimento degli occhi, e come potrebbe questo movimento non confondere le cose, se fosse lui stesso riflesso o cieco, se non avesse le sue antenne, la sua chiaroveggenza, se la visione non fosse già prefigurata in lui? Per principio, tutti i miei spostamenti figurano in un angolo del mio paesaggio, sono riportati sulla mappa del visibile. Tutto ciò che vedo è per principio alla mia

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portata, per lo meno a|la portata del mio sguardo, segnato sulla mappa dell'«io posso». Ognuna delle due mappe è completa. Il mondo visibile e quello dei miei progetti motori sono parti totali del medesimo Essere.

Questo straordinario sconfinamento, al quale non si presta abbastanza attenzione, impedisce di concepire la visione come un'operazione del pensiero che innalzerebbe davanti allo spirito un quadro o una rappresentazione del mondo, un mondo dell'immanenza e dell'idealità. Immerso nel visibile mediante il suo corpo, anch'esso visibile, il vedente non si appropria ciò che vede: l'accosta soltanto con lo sguardo, apre sul mondo. E dal canto suo questo mondo, di cui il vedente fu parte, non è in sé o materia. Il mio movimento non è una decisione dello spirito, un fare assoluto che stabilirebbe, dal fondo di una soggettività ritiratasi in se stessa, qualche mutamento di luogo miracolosamente realizzato nell'estensione. Il mio movimento è il proseguimento naturale e la maturazione di una visione. Io dico che una cosa è mossa, ma il mio corpo si muove, il mio movimento si dispiega; non avviene nell'ignoranza di sé, non è cieco a se stesso, s'irradia da un sé...

L'enigma sta nel fatto che il mio corpo è insieme vedente e visibile. Guarda ogni cosa, ma può anche guardarsi, e riconoscere in ciò che allora vede «l'altra faccia» della sua potenza visiva. Si vede vedente, si tocca toccante, [...] è visibile e sensibile per se stesso. È un sé, non per trasparenza come il pensiero, che può pensare una cosa solo assimilandola,

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costituendola, trasformandola in pensiero – bensì un sé per confusione, narcisismo, inerenza di colui che vede a ciò che vede, di colui che tocca a ciò che tocca, del senziente al sentito – dunque un sé che è preso nelle cose, che ha una faccia e un dorso, un passato e un avvenire..

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Testo 2.3

( Terzo tratto del Secondo viaggio. Lo sguardo svela il mondo)←

Il brano seguente è tratto da: Maurice Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito, cit., pp. 21-25.

La parola immagine ha una cattiva fama perché si è creduto sconsideratamente che un disegno fosse un ricalco, una copia, una seconda cosa, e che l'immagine mentale fosse un disegno di questo genere nel nostro bazar privato. Ma se in effetti l'immagine mentale non è niente di simile, allora il disegno e il quadro non appartengono più di essa all'in sé. Essi sono l'interno dell'esterno e l'esterno dell'interno, che la duplicità del sentire rende possibili, e senza i quali non si comprenderanno mai la quasi-presenza e la visibilità imminente che costituiscono tutto il problema dell'immaginario. Il quadro, la mimica dell'attore non sono strumenti ausiliari presi in prestito dal mondo vero per indicare, attraverso di essi, cose prosaiche assenti. L'immaginario è molto più vicino e insieme molto più lontano dal fattuale: più vicino poiché è il diagramma della sua vita nel mio corpo, la sua polpa, il suo risvolto carnale per la prima volta esposto agli sguardi, e in tal senso, come dice efficacemente Giacometti:4 «Ciò che mi interessa in tutti i dipinti è la rassomiglianza; vale a dire quel che per me è la

4. G. Charbonnier, Le monologue du peintre, Paris 1959, p. 172.

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rassomiglianza; ciò che mi fa scoprire un poco il mondo esterno». Molto più lontano, perché il quadro è un analogo solo secondo il corpo, non offre allo spirito un'occasione di ripensare i rapporti costitutivi delle cose, ma offre piuttosto allo sguardo, affinché esso le sposi, le tracce della visione dell'interno, e alla visione ciò che la fodera interiormente, la struttura immaginaria del reale.

Diremo allora che c'è uno sguardo dell'interno, un terzo occhio che vede i quadri ed anche le immagini mentali, così come si è parlato di un terzo orecchio che coglie i messaggi dell'esterno attraverso il rumore che sollevano in noi? Ipotesi inutile, poiché tuttala questione consiste nel comprendere che i nostri occhi di carne sono, già molto più che ricettori dei raggi luminosi, dei colori e delle linee: sono computer del mondo, che hanno il dono del visibile così come si dice che l'uomo ispirato ha il dono delle lingue. Naturalmente questo dono si conquista con l'esercizio, e non è in qualche mese, e neppure nella solitudine, che il pittore entra in possesso della sua visione. Ma non è questo il problema: precoce o tardiva, spontanea o coltivata nei musei , la visione del pittore impara solo vedendo, impara solo da se stessa. L'occhio vede il mondo, ciò che manca al mondo per esser quadro, e ciò che manca al quadro per essere se stesso; vede sulla tavolozza il colore che il quadro attende, vede, una volta compiuto, il quadro che risponde a tutte queste mancanze e vede infine i quadri degli altri, altre risposte ad altre mancanze. Non si può fare un inventario

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limitativo del visibile, così come non si possono catalogare gli usi possibili di una lingua, o anche solo il suo vocabolario e le sue costruzioni. Strumento che si muove da sé, mezzo che s'inventa i suoi fini, l'occhio è ciò che è stato toccato da un certo impatto con il mondo, e lo restituisce al visibile mediante i segni tracciati dalla mano. Da Lascaux ai giorni nostri, in qualsiasi civiltà nasca, di qualsiasi credenza, di qualsiasi motivazione, di qualsiasi pensiero, di qualsiasi cerimonia si circondi, pura o impura, figurativa o no, la pittura, anche quando sembra destinata ad altri scopi, non celebra mai altro enigma che quello della visibilità.

Ciò che ho appena detto si risolve in un truismo: il mondo del pittore è un mondo visibile, nient'altro che visibile, un mondo quasi folle, perché è completo e parziale nello stesso tempo. La pittura risveglia, porta alla sua estrema potenza un delirio che è la visione stessa, perché vedere è avere a distanza, e la pittura estende questo bizzarro possesso a tutti gli aspetti dell'Essere, che devono in qualche modo farsi visibili per entrare in lei. Quando il giovane Berenson parlava, a proposito della pittura italiana, di un'evocazione dei valori tattili, non poteva sbagliarsi di più: la pittura non evoca niente, e meno che mai il tattile. Fa tutt'altra cosa, quasi il contrario: dona esistenza visibile a ciò che la visione profana crede invisibile, fa in modo che non ci occorra un «senso muscolare» per avere la voluminosità del mondo. Questa visione divorante, spingendosi al di là dei «dati visuali», si apre su una trama dell'Essere di cui i

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messaggi sensoriali discreti sono solo le interpunzioni o le cesure, e che l'occhio abita, come l'uomo la sua casa.

Restiamo nell'ambito del visibile in senso stretto e prosaico: il pittore, chiunque egli sia, mentre dipinge, pratica una teoria magica della visione. E poiché non smette mai di regolare sulle cose la sua chiaroveggenza, il pittore deve ben ammettere che, secondo il sarcastico dilemma di Malebranche, o le cose passano dentro di lui, oppure lo spirito esce dagli occhi e va a passeggiare fra le cose. (Niente cambia se non dipinge dal vivo: dipinge comunque perché ha visto, perché il mondo ha inciso in lui, una volta almeno, le cifre del visibile.) Egli deve ben riconoscere che la visione è specchio o concentrazione dell'universo, come dice un filosofo, o che, come dice un altro filosofo, l' їδιος κόσμος si apre, attraverso la visione, su un κοĩνος κόσμος, insomma che la medesima cosa è laggiù, nel cuore del mondo, e qui, nel cuore della visione; la medesima o, se si vuole, una cosa simile, ma secondo una similitudine efficace, che è genitrice, genesi, metamorfosi dell'Essere nella visione del pittore. È la montagna stessa che, di laggiù, si fa vedere da lui, è lei che il pittore interroga a partire dal proprio sguardo.

Che cosa le chiede precisamente? Di rivelare i mezzi, i mezzi visibili e nient'altro, con i quali essa si fa montagna sotto i nostri occhi. Luce, illuminazione, ombre, riflessi, colore, tutti questi oggetti della ricerca non sono esseri propriamente reali; hanno solo un'esistenza visiva, come i fantasmi. Stanno sulla soglia della

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visione profana: generalmente non vengono visti. Lo sguardo del pittore li interroga per sapere come possano far sì che esista all'improvviso qualcosa e proprio quella cosa, per comporre questo talismano del mondo, per farci vedere il visibile. La mano che accenna verso di noi nella Ronda di notte è veramente là solo quando la sua ombra sul corpo del capitano ce la presenta contemporaneamente di profilo. La spazialità del capitano si colloca nel punto d'incontro delle due prospettive incompossibili, e che pure si trovano insieme. Tutti gli uomini provvisti di occhi sono stati qualche volta testimoni di questo gioco di ombre o di altri simili, e grazie ad esso hanno potuto vedere delle cose e uno spazio. Ma tale gioco d'ombre operava in loro senza di loro, si dissimulava per mostrare la cosa. Per vedere la cosa, era necessario non vedere il gioco d'ombre. Il visibile in senso profano dimentica le sue premesse, riposa su una visibilità totale che va ricreata, e che libera i fantasmi in esso prigionieri. I moderni, come è noto, ne hanno liberati molti altri, hanno aggiunto molte note sorde alla gamma ufficiale dei nostri mezzi visivi. Ma l'interrogazione della pittura mira comunque a questa genesi segreta e febbrile delle cose nel nostro corpo.

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Testo 2.4

( Quarto tratto del Secondo viaggio. Il colore)←

Il brano seguente è tratto da: Maurice Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito, cit., pp. 48-50.

Il colore è «il luogo dove s'incontrano il nostro cervello e l'universo» dice Cézanne in quell'ammirevole linguaggio da artigiano delI'Essere che Klee amava citare.5 È a vantaggio del colore che bisogna mandare in pezzi la forma-spettacolo. Non si tratta dunque dei colori, «simulacri dei colori della natura»,6 si tratta della dimensione del colore, che crea da se stessa a se stessa delle identità, delle differenze, una struttura, una materialità, un qualche cosa... Tuttavia, una chiave segreta del visibile senza dubbio non esiste: non è certo il solo colore, così come non lo è lo spazio. Il ritorno al colore ha il merito di condurre un po' più vicino al «cuore delle cose»:7 ma questo è al di là del colore-involucro, così come dello spazio-involucro. Il Portrait de Vallier colloca fra i colori dei bianchi, che avranno d'ora in poi la funzione di plasmare, di ritagliare un essere più generale dell'essere-giallo o dell'essere-verde o dell'essere-blu – come negli acquarelli degli

5. W. Grohmann, Paul Klee, trad. fr., Paris 1954, p. 141.6. R. Delaunay, Du cubisme à l'art abstrait, fascicoli pubblicati da Pierre Francastel, Paris 1957. 7. P. Klee, cfr. il suo Journal, trad. fr. di P. Klossowski, Paris 1959 [ed. it.  Diari 1898­1918, trad. di A. Foelkel,  prefazione di G.C. Argan, Il Saggiatore, Milano 1960].

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ultimi anni, lo spazio, che si credeva l'evidenza stessa, e aI cui riguardo almeno il problema dove non si pone, s'irraggia intorno a piani che non sono in alcun luogo assegnabile, «sovrapposizione di superfici trasparenti», «movimento fluttuante di piani di colore che si ricoprono, avanzano e indietreggiano».8

Come si vede, non si tratta più di aggiungere una dimensione alle due dimensioni della tela, di organizzare un'illusione o una percezione senza oggetto la cui perfezione consisterebbe nel rassomigliare il più possibile alla visione empirica. La profondità pittorica (come anche l'altezza e la larghezza dipinte) viene da non si sa dove a posarsi, a germogliare sul supporto. La visione del pittore non è più sguardo su un di fuori, relazione meramente «fisico-ottica»9 col mondo. Il mondo non è più davanti a lui per rappresentazione: è piuttosto il pittore che nasce nelle cose come per concentrazione e venuta a sé del visibile, e il quadro, infine, può rapportarsi a una qualsiasi cosa empirica solo a condizione di essere innanzitutto «autofigurativo»; può essere spettacolo di qualche cosa solo essendo «spettacolo di niente»,10 perforando la «pelle delle cose»11 per mostrare come le cose si fanno cose, e il mondo

8. Georg Schmidt, Les acquarelles de Cézanne, p. 21 [ed.   it.  Acquarelli   di   Paul   Cézanne   –   Testo   di   G. Schmidt, A. Martello, Milano 1953].

9. P. Klee, op. cit.10. Ch. P. Bru, Esthétique de l'abstraction, Paris 1959, p. 86 e 99.11. Henri Michaux, Aventures de lignes.

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mondo. Apollinaire diceva che in un poema ci sono frasi che sembrano non essere state create, ma essersi formate. Ed Henri Michaux diceva che a volte i colori di Klee sembrano nati lentamente sulla tela, emanati da un fondo primordiale, «esalati al posto giusto»12 come una patina o una muffa. L'arte non è costruzione, artificio, rapporto industrioso con uno spazio e un mondo esterni. È davvero il «grido inarticolato che sembrava la voce della luce» di cui parla Ermete Trismegisto. E, una volta là, risveglia nella visione comune potenzialità dormienti, un segreto di preesistenza. Quando vedo attraverso lo spessore dell'acqua le piastrelle sul fondo della piscina, non le vedo malgrado l'acqua e i riflessi, le vedo proprio attraverso essi, mediante essi. Se non ci fossero queste distorsioni, queste zebrature di sole, se vedessi senza questa carne la geometria del fondo piastrellato, proprio allora cesserei di vederla quale è, dove è, vale a dire più lontano di ogni luogo identico . L'acqua stessa, la potenza della massa acquosa, l'elemento sciropposo e luccicante, non posso dire che sia nello spazio; non è altrove, ma non è nella piscina. L'acqua abita la piscina, vi si materializza, ma non vi è contenuta, e se alzo gli occhi verso lo schermo dei cipressi dove gioca il reticolo dei riflessi, non posso negare che l'acqua visiti anch'esso, o almeno vi riverberi la propria essenza attiva e vivente. È questa animazione interna, questo irraggiarsi del visibile, che il pittore cerca sotto i nomi di profondità, spazio, colore.

12. Heni Michaux, ibidem.

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Testo 2.5

( Quinto tratto del secondo viaggio. La visione)←

Il brano seguente è tratto da: Maurice Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito, cit., pp. 56-60.

Forse ora ci rendiamo meglio conto di tutto ciò che contiene questa piccola parola: «vedere». La visione non è una certa modalità del pensiero, o presenza a sé: è il mezzo che mi è dato per essere assente da me stesso, per assistere dall'interno alla fissione dell'Essere, al termine della quale soltanto mi richiudo su di me. «»

I pittori l'hanno sempre saputo. Leonardo13 invoca invoca una «scienza pittorica» che non si esprima con parole (e ancor meno con numeri) ma con opere che esistono nel visibile alla maniera delle cose naturali, e che tuttavia si comunica attraverso di esse «a tutte le generazioni dell'universo». Questa scienza silenziosa che, come dirà Rilke a proposito di Rodin, fa passare nell'opera le forme delle cose «non disvelate»,14 viene dall'occhio e s'indirizza all'occhio. L'occhio va inteso come «la finestra dell'anima». «L'occhio... attraverso il quale la bellezza dell'universo è rivelata alla nostra contemplazione, è organo di tale eccellenza che chiunque si rassegnasse a perderlo si priverebbe

13. Citato da Robert Delaunay, op. cit., p. 175.14. Rilke, Auguste Rodin, Paris 1928, p. 150 [ed.   it.  Rodin, SE, Milano 1985].

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della conoscenza di tutte le opere della natura la cui vista fa dimorare felicemente l'anima nella prigione del corpo, grazie agli occhi che le mostrano l'infinita varietà della creazione: chi li perde abbandona quest'anima in un'oscura prigione dove cessa ogni speranza di rivedere il sole, luce dell'universo». L'occhio compie il prodigio di aprire all'anima ciò che non è anima: il gaio dominio delle cose, e il loro dio, il sole. [...]Dobbiamo prendere alla lettera quello che ci insegna la visione: che per suo mezzo tocchiamo il sole, le stelle, che siamo contemporaneamente ovunque, accanto alle cose lontane come a quelle vicine, e che perfino la nostra facoltà di immaginarci altrove – «Sono a Pietroburgo nel mio letto; a Parigi, i miei occhi vedono il sole»15 –, di mirare liberamente a esseri reali, dovunque essi si trovino, attinge anch'essa alla visione, riutilizza mezzi che ci vengono da essa. Unicamente la visione ci insegna che esseri differenti, «esterni», estranei l'uno all'altro sono tuttavia assolutamente insieme, ci insegna cioè la «simultaneità» – mistero che gli psicologi maneggiano come un bambino tratterebbe degli esplosivi. Dice brevemente Robert Delaunay: «La ferrovia, con la parità delle rotaie, è l'immagine del successivo che si avvicina al parallelo».16 Le rotaie che convergono e non convergono, convergono per rimanere laggiù equidistanti, il mondo che è conforme alla mia prospettiva per essere indipendente da me, che è per me al fine di essere senza di me, di essere

15. Robert Delaunay, op. cit., p. 110 e 115.16. Ibidem.

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mondo. Il «quale visivo»,17 mi dona, esso solo, la presenza di ciò che non sono io, di ciò che è semplicemente e pienamente. Può farlo perché, come struttura, è la concrezione di una visibilità universale, di un unico Spazio che separa e riunisce, che sostiene ogni coesione (compresa quella del passato e dell'avvenire, poiché tale coesione non esisterebbe se passato e avvenire non facessero parte del medesimo Spazio). Ogni entità visiva, per quanto individuale sia, funziona anche come dimensione, poiché si presenta come risultato di una deiscenza dell'Essere. Tutto ciò significa infine che l'essenza propria del visibile è di avere un doppio di invisibile in senso stretto, che il visibile manifesta sotto forma di una certa assenza. «I nostri antipodi di ieri, gli impressionisti, avevano perfettamente ragione, all'epoca loro, di stabilire la loro dimora fra i rifiuti e i rovi dello spettacolo quotidiano. Quanto a noi, il nostro cuore batte per condurci verso le profondità... Queste stranezze diventeranno... realtà... Perché invece di limitarsi alla riproduzione più o meno intensa del visibile, esse vi annettono anche il versante dell'invisibile, percepito occultamente».18 C'è quello che raggiunge l'occhio di fronte, le proprietà frontali del visibile – ma c'è anche quello che lo raggiunge dal basso, la profonda latenza posturale dove il corpo si innalza per vedere - e c'è poi quello che colpisce la visione dall'alto, tutti i fenomeni del volo, del nuoto, del

17. Ibidem.18. Klee, Conférence d'Iena, 1924, da W. Grohmann, op. cit., p. 365.

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movimento, in cui essa non partecipa più alla pesantezza delle origini, ma a libere realizzazioni.19 Attraverso la visione, il pittore tocca dunque i due estremi. Nel fondo immemorabile del visibile si è mosso, si è acceso qualcosa che invade il suo corpo, e tutto ciò che egli dipinge è una risposta a questo stimolo la sua mano «nient'altro che lo strumento di una lontana volontà». La visione è l'incontro di tutti gli aspetti dell'Essere, come a un crocevia. «Un fuoco vuol vivere, Si sveglia; trova la sua strada lungo la mano conduttrice, raggiunge il supporto e l'invade, poi chiude, favilla saltellante, il cerchio che doveva tracciare: ritorno all'occhio, e al di là».20 In questo circuito non esiste rottura, è impossibile dire che qui finisce la natura e incomincia l'uomo o l'espressione. È dunque l'Essere muto che viene, egli stesso a manifestare il su significato. Ecco perché il dilemma tra figurativo e non figurativo è mal posto: è vero e non contraddittorio che nessuna uva è mai stata ciò che è in pittura, anche in quella più figurativa, ed è vero che nessuna pittura, sia pur astratta, può mai eludere l'Essere, e che l'uva del Caravaggio è l'uva stessa.21 Fra le due affermazioni non vi è contraddizione. Questa precessione di ciò che è su ciò che viene visto è mostrato, di ciò che è

19. Klee, Wege des Naturstudiums, 1923, da G. di San Lazzaro, Klee.20. Klee, citato da W. Grohmann, op. cit., p. 99.21. A. Berne-Joffroy, Le dossier Caravage, Paris 1959, e Michel Butor, La Corbeille de l'Ambroisienne, in «Nouvelle Revue Française», 1960.

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visto e mostrato su ciò che è, è la visione stessa. E, per dare la formula ontologica della pittura, non occorre quasi forzare le parole del pittore: Klee scriveva a trentasette anni queste parole, poi incise sulla sua tomba: «Io sono inafferrabile nell'immanenza...».22

22. Klee, Journal, cit.

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Testo 3

( Terzo viaggio. Traversata dello sguardo)←

Il seguente brano è estratto da: Jean-Luc Nancy, Il ritratto e il suo sguardo, cit., p. 7 e pp. 55-66.

Qual è il soggetto del ritratto? Nessun altro che il soggetto stesso, assolutamente.

Dov'è che il soggetto stesso ha la sua verità e la sua effettività? In nessun altro luogo che non sia il ritratto.

C'è dunque soggetto solo in pittura, come se ci fosse solo pittura del soggetto.

Nella pittura, il soggetto scompare nel fondo ("ritorna a sé"); nel soggetto, la pittura fa superficie (eccede la faccia).

Sorge allora d'un tratto, né soggetto né oggetto, l'arte o il mondo.

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Sguardo 23

Questo "sguardo" esprime che cosa? Il suo esercizio: una sua regolarità, una specie di costanza. [...] Il fondo non maschera più il personaggio al quale prestava l'alibi di una storia, di una finzione, cioè al contempo di un senso lontano e di un ruolo. È ciò che sembrano ripetere instancabilmente i ritratti: non c'è più un senso attestato od organizzato, ma, soprattutto, non c'è più un' attribuzione di senso.24

La luce del ritratto risplende dal suo fondo oscuro. Emana dall'astro eclissato per sé che definisce un soggetto. Ciò che visibilmente scompare nel ritratto, ciò che in esso riesce a sottrarsi ai nostri occhi sotto i nostri occhi, sprofondando nei nostri occhi come all'infinito, è lo sguardo del ritratto.

Prima di ogni altra cosa, il ritratto guarda: non fa che questo, vi si concentra, vi si invia e vi si perde. La sua "autonomia" riunisce e richiude

23. Si veda la nota 28, a p. 28, del curatore dell'edizione italiana R. Kirchmayr: «Regarder, “riguardare”, è usato costantemente nel testo da Nancy tanto nel senso che il ritratto “guarda” e “mi guarda”, quanto nel senso che esso “mi riguarda”, cioè che in esso ne va del soggetto, di un “io” con cui il ritratto istituisce il “rapporto a sé”». (nota di M. Bogliani).24. Jean-Louis Schefer, Figures peintes, POL, Paris 1998, p. 253.

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il quadro, lo stesso volto tutt'intero, nello sguardo: è il fine e il luogo di questa autonomia.25 La pittura dello sguardo non può esserne soltanto l'imitazione: o piuttosto nello sguardo dipinto la pittura diventa sguardo, e se ogni pittura diventa, in fin dei conti, ciò che essa dipinge , è sempre senza dubbio a partire dallo sguardo che ciò accade - il che vuol dire, con uno stesso movimento, a partire dallo sguardo da cui esce la pittura e a partire da quello che essa diventa dipingendolo.26

25. Recentemente si è mostrato con delle statistiche ricavate da migliaia di ritratti che l'asse mediano verticale del ritratto passa molto spesso per uno dei due occhi. Tuttavia, lo sguardo non esce soltanto dagli occhi, ma almeno dalla bocca (spesso centrale), dalle narici e dalle orecchie, infine da tutti i pori e da tutte le pennellate del quadro. Giacometti: "Se ho la curva dell'occhio, avrò anche l'orbita; se ho l'orbita, ho la radice del naso, ho la punta del naso, ho i fori del naso, ho la bocca. Dunque il tutto potrebbe alla fine dare comunque uno sguardo, senza che ci si fissi sull'occhio stesso". Conversazione con Jacques Dupin nel film Alberto Giacometti, di Ernst Scheidegger e Peter Münger (1965), in Face to Face to Cyberspace, catalogo della mostra omonima, Fondazione Beyeler, Basel, 1999.26. Occorre analizzare da vicino l'ingegno tecnico impiegato per captare la somiglianza dello sguardo, la luminosità dell'occhio e la luce che vi si riflette in modo che questa emani da quello. Leonardo inventò un terzo punto luminoso per completare il dispositivo a due punti adottato prima di lui per restituire la luce dell'occhio. Ma occorre anche, ogni volta, considerare come lo sguardo guardi solo con il concorso dell'intero volto,   della   bocca   e   delle   guance,   delle   narici,   delle  orecchie... Lo sguardo mette in gioco, con il volto e con

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Ora, questo sguardo non guarda nessun oggetto. Esso è sempre rivolto sia verso il pittore/spettatore,27 sia verso un di fuori indeterminato. (Il giovane di Lotto, con un leggerissimo strabismo, fu una cosa con l'occhio sinistro, un'altra con l'occhio destro.) Talvolta è piuttosto perso o raccolto in se stesso (come si dice), altro e stesso modo dell'infinito.28

Lo sguardo del ritratto non guarda nulla, e guarda il nulla. Non prende di mira nessun oggetto e sprofonda nell'assenza del soggetto (la mia, la sua: la nostra nello stesso tempo, per definizione, comune e divisa). Guardare nulla è in primo luogo la contraddizione intima del soggetto (la contrarietà in cui ha luogo un'intimità). Ma la contraddizione si dissolve

tutto il suo tendersi in avanti, l'insieme del senso, della capacità di essere colpito e di lasciarsi toccare. Con la modernità, saranno sempre di più la beanza dell'occhio, un'opacità nera o uno svuotamento a guidare la (ras)somiglianza dello sguardo. Che lo sguardo sia ciò che vi è di più proprio, il soggetto, della pittura, è quanto illustrerebbe la tecnica del Bernini, che per realizzare il busto del re prepara con uno schizzo sulla pietra il dettaglio dell'occhio da scolpire (precisazione di Stefano Chiodi).27. […].28. Tra molti esempi, Rogier van de Weyden, Ritratto di donna (1460 ca., Washington) Renato Guttuso , Mimise col cappello rosso (1940, Verona). Più raramente lo sguardo è quasi chiuso, o assente o vuoto (riducendosi a un buco nero): Holbein il giovane, Erasmo di profilo (1523, Louvre), Picasso, Autoritratto (1906), Hockney, Autoritratto (1983, collezione privata), Monet, Camille sulla spiaggia (1870, Parigi), Modigliani, Ritratto di Jeanne Habutène ecc.

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oppure si sospende se si comprende che lo sguardo non è in fondo un rapporto con l'oggetto. Forse il “vedere” è un tale rapporto - e in questo senso il ritratto non vede nulla e non è qui per vedere (né visione, né intenzione, né veggenza) . Il vedere si conforma al campo degli oggetti . Il guardare porta il soggetto in evidenza. “Guardare” significa anzitutto badare [garder], warden o warten, sorvegliare, custodire, [prendre en garde], e fare attenzione [prendre garde]. Avere cura e preoccuparsi. Guardando veglio e (mi) sorveglio: sono in rapporto con il mondo, non con l'oggetto. Ed è così che io "sono": nel vedere mi vedo, a causa dell'ottica; nello sguardo sono messo in gioco. Non posso guardare senza che ciò mi riguardi [ça me regarde].29 Ciò il ritratto presenta è sempre questa custodia di sé e con essa il modo in cui il sé si custodisce dal momento che si perde. Il modo in cui il suo essere-a-sé ha luogo solo in questo fuori-di-sé, di fronte a sé, in cui il volto sconosciuto a se stesso prende il mondo in piena faccia. Qui non c'è nulla che si riferisca al fenomeno né a una fenomenologia. Non c'è intenzione [visé]. Al contrario, c'è un venir meno dell'intenzione e infine della visione. Neppure il nulla risponde all'apparire: lo sguardo del ritratto non vedrà mai apparire nulla, se non il nulla, la cosa stessa che non appare. Nulla sorge dalla profondità: è il fondo che è presente, in piena superficie. Non fa superficie: è superficie, come la toga e il vestito nero del giovane uomo,

29. Si rivolge a me, mi fissa e mi chiama in causa, è affare mio e, come si dice, "non riguarda che me".

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come quelli di Gumpp o di Pellerin, sono sempre il fondo mentre è di fronte [faire face] e diventa faccia [se faire face] .

Il ritratto estrae ed espone la presenza mobile, immutabile e muta, eterna e istantanea del fondo. Il fondo è uno sguardo. Così tutto il volto diventa un occhio, come accade dell'intero volto del giovane incastonato nella stoffa scura. Non si tratta più dell'organo della visione: si tratta di una presenza in custodia, in agguato di se stessa e dell'altro. Tutti i ritratti custodiscono e si custodiscono: si sorvegliano (il loro contegno, il loro riserbo) e si vegliano (il loro trapasso, il loro passaggio e il loro abbandono).

Ma ciò che apre questo sguardo e la sua custodia, il ritratto stesso, non è altro che il quadro tutto intero, che tutto intero guarda: per esempio quest'occhio che una lampada illumina nel fondo della tela. La pittura guarda da tutto il suo essere pittura.

Ogni ritratto - gradatamente, ogni quadro – si apre dal suo fondo alla sua superficie, va avanti a se stesso, esce dal davanti: assieme all'incontro di sé e in lontananza. Questo sguardo del quadro raddoppia lo sguardo del ritratto (ma ogni sguardo è doppio, un occhio per sé, un occhio per l'altro). Prende forme innumerevoli per moltiplicare o per intensificare lo sguardo del personaggio, spostandolo o trasponendolo nello sguardo della pittura stessa: la lampada in questo Lotto, ma in Auguste Pellerin il quadro affisso al muro o anche la pennellata rossa della decorazione sul

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rovescio della giacca, altrove sarà una perla, un anello, l'occhio di un animale, uno specchio, la punta di un seno, una lente, un riflesso di un oggetto in rame, la bocca rossa o ancora la messa in evidenza di un altro disegno, addirittura di un altro ritratto nel ritratto, addirittura dello sguardo stesso della Pittura in allegoria, come in uno degli autoritratti di Poussin: modi molteplici di dipingere lo sguardo dello sguardo, la sua custodia, il suo mettere in vista e il suo contrario.30 Modi di tendere

30. Oppure l'Autoritratto in Allegoria della Pittura di Artemisia Gentileschi, dove lo sguardo del personaggio sta tutto nella pittura che essa esegue, distolto dallo spettatore, ma in modo da fargli vedere questo sguardo guardando il pittore mentre la dipinge, o la pittrice lo dipinge, proprio questo sguardo del quadro mentre diventa la pelle luminosa di una fronte e di un collo. In un altro modo Vuillard fa un autoritratto che consiste anzitutto nel distribuire il suo volto in larghe superfici dal colore intenso, trasformandolo in tavolozza (1891, "collezione privata). Si devono certamente ricordare tutti gli sguardi privati di pupilla, come in Matisse o Modigliani e in molti altri ancora, dove gli occhi si bucano, si scavano, si inabissano nel fondo e non diventano altro che gli occhi del quadro. Oppure l'associazione fatta con questo titolo da Pollock: Portrait and a dream (New York), sguardo al di fuori e sguardo al di dentro affiancati come i due occhi del quadro. O Der rote Blick di Schönberg (New York), dove il volto così come tutto il quadro si riduce a un occhio in mezzo alla pelle come un ombelico in mezzo al ventre, una nascita dello sguardo. Poi le aperture nel quadro, le finestre o le logge (Monna Lisa), gli specchi in cui il modello appare di spalle, in Ingres o in Bar alle Folies-Bergères di Manet, dove lo sguardo della cameriera  vede dietro a noi tutta la scena che noi

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l'occhio – di tenderlo a sé fuori di sé.Nel 1994, Miquel Barcelo dipinge il suo Doppio

ritratto.31 Egli riprende o cita in questo modo un genere tradizionale del ritratto doppio o triplo, che risale almeno fino a Giorgione e a Raffaello (poi a Rigaud e a molti altri). Ciò che si deve vedere subito è la metamorfosi del quadro, lanciato davanti a noi in un piano avvicinato allo sguardo, in una specie di altro-ritratto unico in cui le due teste sarebbero i due occhi.

vediamo dietro a lei nell'immenso specchio, e gli innumerevoli frammenti di vetro, per non dire nulla dello sguardo del re in Las Meninas, né dei dispositivi ottici in Bacon, e così per gradi, al di fuori della ritrattistica, tutti gli sguardi che sorgono e vengono verso di noi in certe scene di "storia" o in certi paesaggi, fino al Paesaggio che guarda (1957) di Alechinsky.31. Vedi riproduzione.

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Questi occhi divorano i ritratti propriamente detti, che all'inizio soltanto il titolo, opportunamente, identifica come ritratti. Soltanto al limite è possibile discernere di ciascuna delle masse rotonde e scure32 alcuni tratti o alcuni tocchi evanescenti di un volto - naso e bocca più che occhi -, al punto che allo stesso modo diventa possibile stimare con vaghezza che il ritratto di destra guarda verso destra e quello di sinistra di fronte a sé. Ma queste vestigi a di volti non sono altro che masse di due occhi, addirittura due pupille aperte, poiché non hanno più aperture al loro centro e sono esse stesse l'apertura del quadro.

Delle masse d'occhi, uno sguardo ammassato, gettato, strappato e anche esploso, che lascia colare un sangue nero. Può e deve essere visto come uno sguardo di morte, come la morte dello sguardo e come la morte nello sguardo. Ma può e deve allo stesso modo - e senza la minima contraddizione – essere visto nel modo in cui invita a fare il suo titolo: come la pienezza di un doppio sguardo il cui fondo viene tutto intero in superficie, come due soggetti assieme e come la loro società nella quale noi stessi fissiamo gli occhi perché essa ci attrae con loro, nell'associazione degli sguardi rivolti in senso diverso.

La loro profondità oscura non è altro che il debordamento dello sguardo dalla sua stessa superficie: il colore spesso dei due ritratti cola fuori dagli occhi, si allarga sul fondo e va a

32. La pittura deriva da un viaggio in Africa (sul verso l'artista ha dipinto "Due papaie").

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mischiarsi a esso. Il soggetto finisce nella scena [décor], diventa scena esso stesso o la scena diventa soggetto. Ma che cos'è una scena? È ciò che predispone un luogo per uno sguardo, a uno sguardo. È il consenso33 alla venuta e alla presenza di un soggetto, è un accogliere e un raccogliere affinché esso venga al mondo.

Nello stesso momento in cui il soggetto si compie integralmente come opera - se l'opera è il luogo unico ed esclusivo in cui un soggetto ritorna integralmente a sé, in cui una sostanza aderisce a se stessa - sotto se stessa - come l'impasto colorato aderisce alla tela che impregna -, nello stesso momento l'opera-soggetto non fa altro che aprirsi e debordare in uno sguardo che non è più una sostanza ma un'apertura, che non è più un ritorno a sé ma un'esposizione di sé.

Wittgenstein scrive: "Noi non vediamo l'occhio umano come un ricettore. Quando vedi l'occhio, vedi qualcosa uscirne. Vedi lo sguardo dell'occhio".34

Lo sguardo è la cosa che esce, la cosa dell'uscita - e per essere più precisi: lo sguardo non è niente di fenomenico, al contrario è la cosa in sé di un'uscita da sé, solo con la quale un soggetto diventa soggetto, e la cosa in sé dell'uscita o dell'apertura non è uno sguardo su un oggetto ma l'apertura verso un mondo. In

33. Decet, decorum.34. Ludwig Wiittgenstein, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, tr. it. Adelphi, Milano 1990, § 1100, pp. 306-307 [la trad. è condotta dal testo francese. Nancy cita solo una parte dell'intero brano].

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verità, non è più affatto uno sguardo-su, è uno sguardo tout court, aperto non su dall'evidenza del mondo.

Nello sguardo del ritratto , la chiusura su di sé dell'opera coincide in modo lampante (evidente, luminoso) con un eccesso infinito rispetto a questa chiusura. Non è più la rappresentazione di un un soggetto posto davanti al mondo: è niente di meno che la presentazione di un mondo che sorge per la sua stessa visione, per la sua stessa evidenza.

Soluzione del soggetto o dell'auto-: la sua dissoluzione e la sua risoluzione. Il problema del rapporto a sé si espone e si snoda in uno sguardo senza rapporto, che guarda se stesso solo nell'esatta misura in cui si dipinge e così esce da se stesso.

Il ritratto avrà reso effettiva la problematica del soggetto in tutta l'ampiezza della sua estensione costitutiva e in tutta la tensione della sua ambivalenza. Da una parte – presenza in sé - chiusura nell'opera, figura sovrana e murata, glorificazione del volto e della visione; dall'altra parte - uscita da sé - gesto e pennellata del dipingere, figura smarrita, sguardo che si perde al ritmo della sua stessa cattura. Ma i due lati sono le due facce della stessa tela: non un faccia a faccia, ma al contrario la partizione interna di una stessa faccia schiena contro schiena. Soltanto la pittura formula in questo modo, rigorosamente, l'intera struttura e l'intera genesi del soggetto, l'intimità nera della superficie figurata e colorata, l'ombra proiettata nel quadro dal

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ritratto. Soltanto la pittura dà così al soggetto la parola propria, senza voce e senza linguaggio, che nessun discorso gli può restituire, neppure il nome di "soggetto". Ciò che esso designa o chiama, qui si mostra come un solo tratto: non un rapporto a sé, né apparenza né richiamo di sé, ma il tratto che lo porta davanti mentre lo ripiega nel di dentro: il tratto unico di una disunione intima, il piano d'eclisse di un incontro mancato in anticipo, perché esso vira istantaneamente, con lo stesso tratto, con la stessa pennellata del dipingere, in spaziatura di un mondo, con il suo fascino e la sua inquietudine. "Arte" è il nome fragile di quest'altro incontro.35 Un ritratto non è anzitutto, e alla fine, un incontro?

E risponde a questa domanda l'età contemporanea, che simultaneamente scava e fora lo sguardo del ritratto, ma anche (e così) lo esacerba o lo esorbita, lo spalanca e lo fa uscire dal volto (Picasso), lo fa venire come da solo dal punto più lontano all'interno della tela (Giacometti), lo tormenta (Bacon) o lo porta in evidenza, iperrealizzato in un'acida chiarezza acrilica,lo scarabocchia e lo imbratta,lo trasforma anche in blocco bianco, e così diventa sempre più vertiginosamente lo sguardo che sprofonda nello scorcio dello sguardo stesso, quello del pittore come quello di un altro – l'uno sprofondato nell'altro, nella custodia della fuga

35. Bisognerebbe qui riprendere l'analisi dell' “incontro” nel ready-made di Duchamp. Rimando alle analisi di Thierry de Duve e ai lavori in corso di Tomàs Maïa.

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stessa:36 incontro in un lampo del sub e del getto (del supporto e della pittura).

* * *

Il soggetto, qui, non è più l'evidenza a sé di un'interiorità trattenuta in sé da una sospensione del mondo, così com'è o sembra che esso sia nel modello cartesiano e filosofico in generale. Così esso si spoglia sempre di più prima della somiglianza e del richiamo intesi nei termini dell'umanismo, dell'intenzionalità, e della rappresentazione (ai quali tuttavia, lo si è capito,la ritrattistica non smette di sottrarsi). Ma scavando 1o sguardo, svuotandolo o esasperandolo, nel momento stesso in cui fruga in se stessa e nei suoi stessi occhi, la pittura intensifica questo stesso sguardo, fino ad esasperarlo, se è necessario. Ecco come essa ritrae al di là del ritratto stesso.

In un certo senso non smette mai di fare quello che Hegel, parlando della vita dello spirito, dice che essa fa e tutti i ritrattisti, a questo proposito, sono hegeliani fino all'estrema conseguenza della demolizione stessa del ritratto (così come lo erano molto prima di Hegel). Il punto è di sapere come “la vita dello spirito” si raffiguri e si sfiguri: come il ritorno a sé si smarrisca nel suo sguardo.

36. [...]

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Smarrirsi nel suo sguardo non è forse dipingere? Ma tratto così fuori di sé dal dipingere, lo sguardo diventa l'evidenza del mondo che si espone non tanto davanti a me come uno spettacolo quanto attraverso di me come quella forza che apre i miei occhi negli occhi del quadro, nello spalancamento e nell'accecamento che di certo la pittura non rappresenta, ma che essa è o che essa dipinge, poiché dipingere o ritrarre non hanno, in quella che viene chiamata “arte”, nessun altro senso se non quello di essere, dunque di essere al mondo. Lo sguardo dipinto sprofonda in questo al.

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