Manoel Freyre in Tibet

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94 Una Relazione sui Tibet e sulle loro vie di padre Manoel Freyre S. J. compagno di viaggio di Ippolito Desideri Michael Sweet storialocale 95 Premessa Il missionario gesuita pistoiese Ippolito Desideri scrisse in italiano un poderoso resocon- to del viaggio e delle sue scoperte, completato nel 1728, quando, al termine della sua missione in Tibet, rientrò a Roma. Le travagliate vicende di questo manoscritto sono descritte nel saggio di Enzo Gualtiero Bargiacchi uscito in un numero monografico di “Storia locale” (n. 2, dicembre 2003): in sintesi possiamo dire che, dopo vari frammen- ti pubblicati da Carlo Puini all’inizio del ventesimo secolo in alcuni articoli e soprattutto nella sua monografia su Tibet del 1904, la ‘Relazione’ del nostro missionario vide la luce solo nel 1932, per l’ammirevole impegno dell’esploratore Filippo De Filippi, in tra- duzione inglese e comunque non del tutto completa. Un’integrale e accurata edizione critica nella lingua originale uscì, per la cura del grande storico Luciano Petech, in tre parti, fra il 1954 e il 1956 (Parti V-VII de I missionari italiani nel Tibet e nel Nepal, 1952- 1956): edizione tanto preziosa ma nascosta, trascurata e quasi introvabile. Dopo quel saggio di “Storia locale” del 2003, Ippolito Desideri è stato oggetto di molta attenzione, ricerche, studi e incontri internazionali, fra i quali si segnalano: – Convegno internazionale ‘Lingue e culture dei missionari’ (Centro internazionale sul plurilinguismo, Udine, gennaio 2006: intervento di E. G. Bargiacchi); – XIII Colloquium dell’Associazione Internazionale per gli studi sul Ladakh (Roma, settembre 2007): intervento di E. G. Bargiacchi; – XV Congresso dell’Associazione Internazionale per gli Studi Buddhisti (Atlanta, giugno 2008): panel ‘Buddhism in the Writings of Ippolito Desideri’, con interventi di E. G. Bargiacchi, Erberto Lo Bue, Robert Trent Pomplun, Michael Sweet, Leonard Zwilling (contributo speciale per l’occasione la biografia in inglese di Ippolito Desi- deri, E. G. BARGIACCHi, A Bridge Across Two Cultures, edita dall’IGM); – XII Seminario dell’Associazione Internazionale per gli Studi Tibetani (Vancouver, agosto 2010): panel ‘Recent Research on Ippolito Desideri and the Catholic Missions to Tibet’, con interventi di E. G. Bargiacchi, R. T. Pomplun, M. Sweet, L. Zwilling (in un diverso panel, altro intervento su Desideri, di Donald Lopez). Oltre ai numerosi articoli degli autori sopracitati e di altri, pubblicati su riviste, ita- liane e straniere, specializzate in studi storici, geografici, filosofici e religiosi (fra i quali quelli usciti su “Storia Locale” di Mario Bruschi e Alessandra Vezzosi), sono da segnalare ancora i volumi: E. G. BARGIACCHi, Ippolito Desideri S.J. alla scoperta del Tibet e del buddhismo, Edi- zioni Brigata del Leoncino, Pistoia, 2006 (biografia in italiano); Ippolito Desideri S.J. Opere e Bibliografia, Institutum Historicum Societatis Iesu (Subsidia ad Historiam S.I., 15), Roma, 2007 T. POMPLUN, Jesuit on the Roof of the World. Ippolito Desideri’s Mission to Tibet, Oxford University Press, New York, 2010 Mission to Tibet. The Extraordinary Eighteenth-Century Account of Father Ippolito Desideri, S.J. Translated by Michael J. Sweet. Edited by Leonard Zwilling, Wisdom Publications, Boston, 2010. Quest’ultima notevole opera di oltre ottocento pagine rende finalmente disponibile in lingua inglese la ‘Relazione’ di Desideri, in versione integrale e in un’edizione cri- tica, che, basata su quella italiana curata con grande sapienza da Luciano Petech ol- tre mezzo secolo fa, la aggiorna con precisione alla luce delle più recenti scoperte. In appendice a questa opera è riportata, ancora per la prima volta in versione inte- grale un’accurata traduzione della relazione di Manoel Freyre, confratello portoghe- se e compagno di viaggio di Desideri, pubblicata da Petech nell’originale latino. La relazione di Freyre, importante, pur nella sua brevità, come riscontro di quella di Desi- deri, ma anche per chiarire alcuni aspetti rimasti oscuri di quella controversa missione. Ora, sempre per opera di Michael Sweet, ci è offerta per la prima volta in italiano e in una nuova e originale edizione, curata direttamente dallo stesso studioso statu- nitense, il quale si è avvalso della traduzione italiana effettuata appositamente per “Storia locale” dal nostro amico latinista pistoiese Fausto Ciatti. Una Relazione sui Tibet e sulle loro vie di padre Manoel Freyre S. J. compagno di viaggio di Ippolito Desideri* Il gesuita portoghese Manoel Freyre è poco noto anche a quelle persone che si inte- ressano della missione cattolica in Tibet oppure lo si menziona solo come compagno di viaggio o Superiore del gran missionario pistoiese Ippolito Desideri. 1 Il giudizio degli studiosi nei riguardi di Freyre del resto non è stato finora molto favorevole: l’eminente tibetologo Luciano Petech, curatore di tutte le opere italiane di Desideri, per esempio, descrive il prete portoghese con sdegno come «… di gran lunga inferiore al compa- gno per intelligenza e carattere». 2 Certo non si può paragonare il Desideri al Freyre a livello intellettuale: l’uno, teologo e poliglotta straordinario, un «geografo [che] … occupa un posto di primo piano nella conoscenza europea del Tibet» 3 e sopratutto il primo tibetologo nel senso moderno del termine; l’altro, invece, una sorta di ‘sottuf- * Un ringraziamento speciale è dovuto a Ezio Gualtiero Bargiacchi e Manuela Francavilla per la preziosa assi- stenza nella stesura di questo articolo. 1. Luciano PETECH (ed.) I missionari italiani nel Tibet e nel Nepal [MITN] in sette tomi (Parti I-VII): Parti V-VII, Ippolito Desideri S.I., Libreria dello Stato, Roma, 1954-56. Per una visione d’insieme della vita, delle opere e dei viaggi di Desideri si veda Enzo Gualtiero Bargiacchi, Ippolito Desideri S.J. Alla scoperta del Tibet e del Buddhismo, Edizioni Brigata dei Leoncino, Pistoia, 2006; Trent POMPLUN, Jesuit on the Roof of the World. Ip- polito Desideri’s Mission to Tibet, Oxford University Press, New York, 2010; e M. SWEET & L. ZWILLING Mission to Tibet. pp. 14-62 2. L. PETECH, MITN 5, p. xvi. Non diversa è l’opinione di Wessels nella sua introduzione a Filippo DE FILIPPI (ed.), An Account of Tibet: The Travels of Ippolito Desideri of Pistoia, S.J. 1712-1727, 2 nd ed, George Routledge & Sons, London, 1937, p. 29, 45, dove lo descrive come «fainthearted» e afferma che la sua relazione «… does not add materially to the information [in Desideri], but is a useful check on it». Si veda anche Henri HOSTEN, Letters and Other Papers of Fr. Ippolito Desideri S.J., A Missionary in Tibet (1713-1721, Cosmo Publications, Delhi, 1998, p. 56 nota 2 [originariamente pubblicato nel “Journal of the Royal Society of Bengal. Letters”, 1938, pp. 567-767]. 3. L. PETECH, MITN 5 p. xxvii.

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Una Relazione sui Tibet e sulle loro vie

di padre Manoel Freyre S. J. compagno di viaggio di Ippolito Desideri

Michael Sweet

storialocale 95

PremessaIl missionario gesuita pistoiese Ippolito Desideri scrisse in italiano un poderoso resocon-to del viaggio e delle sue scoperte, completato nel 1728, quando, al termine della sua missione in Tibet, rientrò a Roma. Le travagliate vicende di questo manoscritto sono descritte nel saggio di Enzo Gualtiero Bargiacchi uscito in un numero monografico di “Storia locale” (n. 2, dicembre 2003): in sintesi possiamo dire che, dopo vari frammen-ti pubblicati da Carlo Puini all’inizio del ventesimo secolo in alcuni articoli e soprattutto nella sua monografia su Tibet del 1904, la ‘Relazione’ del nostro missionario vide la luce solo nel 1932, per l’ammirevole impegno dell’esploratore Filippo De Filippi, in tra-duzione inglese e comunque non del tutto completa. Un’integrale e accurata edizione critica nella lingua originale uscì, per la cura del grande storico Luciano Petech, in tre parti, fra il 1954 e il 1956 (Parti V-VII de I missionari italiani nel Tibet e nel Nepal, 1952-1956): edizione tanto preziosa ma nascosta, trascurata e quasi introvabile.Dopo quel saggio di “Storia locale” del 2003, Ippolito Desideri è stato oggetto di molta attenzione, ricerche, studi e incontri internazionali, fra i quali si segnalano: – Convegno internazionale ‘Lingue e culture dei missionari’ (Centro internazionale sul plurilinguismo, Udine, gennaio 2006: intervento di E. G. Bargiacchi); – XIII Colloquium dell’Associazione Internazionale per gli studi sul Ladakh (Roma, settembre 2007): intervento di E. G. Bargiacchi; – XV Congresso dell’Associazione Internazionale per gli Studi Buddhisti (Atlanta, giugno 2008): panel ‘Buddhism in the Writings of Ippolito Desideri’, con interventi di E. G. Bargiacchi, Erberto Lo Bue, Robert Trent Pomplun, Michael Sweet, Leonard Zwilling (contributo speciale per l’occasione la biografia in inglese di Ippolito Desi-deri, E. G. BARGIACCHi, A Bridge Across Two Cultures, edita dall’IGM); – XII Seminario dell’Associazione Internazionale per gli Studi Tibetani (Vancouver, agosto 2010): panel ‘Recent Research on Ippolito Desideri and the Catholic Missions to Tibet’, con interventi di E. G. Bargiacchi, R. T. Pomplun, M. Sweet, L. Zwilling (in un diverso panel, altro intervento su Desideri, di Donald Lopez). Oltre ai numerosi articoli degli autori sopracitati e di altri, pubblicati su riviste, ita-liane e straniere, specializzate in studi storici, geografici, filosofici e religiosi (fra i quali quelli usciti su “Storia Locale” di Mario Bruschi e Alessandra Vezzosi), sono da segnalare ancora i volumi:– E. G. BARGIACCHi, Ippolito Desideri S.J. alla scoperta del Tibet e del buddhismo, Edi-zioni Brigata del Leoncino, Pistoia, 2006 (biografia in italiano); Ippolito Desideri S.J. Opere e Bibliografia, Institutum Historicum Societatis Iesu (Subsidia ad Historiam S.I., 15), Roma, 2007– T. POMPLUN, Jesuit on the Roof of the World. Ippolito Desideri’s Mission to Tibet, Oxford University Press, New York, 2010– Mission to Tibet. The Extraordinary Eighteenth-Century Account of Father Ippolito Desideri, S.J. Translated by Michael J. Sweet. Edited by Leonard Zwilling, Wisdom Publications, Boston, 2010.

Quest’ultima notevole opera di oltre ottocento pagine rende finalmente disponibile in lingua inglese la ‘Relazione’ di Desideri, in versione integrale e in un’edizione cri-tica, che, basata su quella italiana curata con grande sapienza da Luciano Petech ol-tre mezzo secolo fa, la aggiorna con precisione alla luce delle più recenti scoperte. In appendice a questa opera è riportata, ancora per la prima volta in versione inte-grale un’accurata traduzione della relazione di Manoel Freyre, confratello portoghe-se e compagno di viaggio di Desideri, pubblicata da Petech nell’originale latino.La relazione di Freyre, importante, pur nella sua brevità, come riscontro di quella di Desi-deri, ma anche per chiarire alcuni aspetti rimasti oscuri di quella controversa missione. Ora, sempre per opera di Michael Sweet, ci è offerta per la prima volta in italiano e in una nuova e originale edizione, curata direttamente dallo stesso studioso statu-nitense, il quale si è avvalso della traduzione italiana effettuata appositamente per “Storia locale” dal nostro amico latinista pistoiese Fausto Ciatti.

Una Relazione sui Tibet e sulle loro vie di padre Manoel Freyre S. J. compagno di viaggio di Ippolito Desideri*Il gesuita portoghese Manoel Freyre è poco noto anche a quelle persone che si inte-ressano della missione cattolica in Tibet oppure lo si menziona solo come compagno di viaggio o Superiore del gran missionario pistoiese Ippolito Desideri.1 Il giudizio degli studiosi nei riguardi di Freyre del resto non è stato finora molto favorevole: l’eminente tibetologo Luciano Petech, curatore di tutte le opere italiane di Desideri, per esempio, descrive il prete portoghese con sdegno come «… di gran lunga inferiore al compa-gno per intelligenza e carattere».2 Certo non si può paragonare il Desideri al Freyre a livello intellettuale: l’uno, teologo e poliglotta straordinario, un «geografo [che] … occupa un posto di primo piano nella conoscenza europea del Tibet»3 e sopratutto il primo tibetologo nel senso moderno del termine; l’altro, invece, una sorta di ‘sottuf-

* Un ringraziamento speciale è dovuto a Ezio Gualtiero Bargiacchi e Manuela Francavilla per la preziosa assi-stenza nella stesura di questo articolo.1. Luciano PETECH (ed.) I missionari italiani nel Tibet e nel Nepal [MITN] in sette tomi (Parti I-VII): Parti V-VII, Ippolito Desideri S.I., Libreria dello Stato, Roma, 1954-56. Per una visione d’insieme della vita, delle opere e dei viaggi di Desideri si veda Enzo Gualtiero Bargiacchi, Ippolito Desideri S.J. Alla scoperta del Tibet e del

Buddhismo, Edizioni Brigata dei Leoncino, Pistoia, 2006; Trent POMPLUN, Jesuit on the Roof of the World. Ip-

polito Desideri’s Mission to Tibet, Oxford University Press, New York, 2010; e M. SWEET & L. ZWILLING Mission

to Tibet. pp. 14-62 2. L. PETECH, MITN 5, p. xvi. Non diversa è l’opinione di Wessels nella sua introduzione a Filippo DE FILIPPI (ed.), An Account of Tibet: The Travels of Ippolito Desideri of Pistoia, S.J. 1712-1727, 2nd ed, George Routledge & Sons, London, 1937, p. 29, 45, dove lo descrive come «fainthearted» e afferma che la sua relazione «… does not add materially to the information [in Desideri], but is a useful check on it». Si veda anche Henri HOSTEN, Letters and Other Papers of Fr. Ippolito Desideri S.J., A Missionary in Tibet (1713-1721, Cosmo Publications, Delhi, 1998, p. 56 nota 2 [originariamente pubblicato nel “Journal of the Royal Society of Bengal. Letters”, 1938, pp. 567-767]. 3. L. PETECH, MITN 5 p. xxvii.

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ficiale’ della Compagnia di Gesù, formatosi nelle scuole provinciali di Goa ben diverse dal prestigioso Collegio Romano in cui studiò il confratello. Come vedremo, però, e come dimostrò egli stesso adempiendo sempre ai suoi incarichi con assiduità ed astu-zia, Freyre non fu uomo da nulla. Al contrario, fu scelto come compagno di viaggio e Superiore del missionario italiano proprio grazie al suo gran talento.

I. Manoel Freyre: La sua vita e il suo ruolo nella Missione in TibetGli scarsi avvenimenti della vita di Freyre possono essere raccontati in poche righe. Sappiamo che nacque nel 1679 ad Ancião, una cittadina nel distretto montuoso del Portogallo centro-occidentale, e che nel 1694 entrò come neofita nella Compagnia di Gesù di Goa. Perdute le sue le tracce per alcuni anni, lo ritroviamo nel 1710 pres-so la missione gesuitica di Agra, allora capitale dell’impero Moghul e poi a Delhi nel 1714. Qui, divenuto pastore di una comunità cattolica4 di 300 fedeli5 circa, ricevette dal padre José da Silva, Visitatore inviato alla provincia gesuita di Goa, l’incarico di fiducia di fare da compagno di viaggio e Superiore di Desideri. Tra il 1714 ed il 1716 Freyre intraprese l’aspro e pericoloso viaggio da Delhi a Lhasa e poi il ritorno ad Agra per via di Kathmandu e Patna. Trovandosi presso il collegio gesuitico di quella città, undici mesi dopo la sua partenza da Lhasa, e cioè il 26 aprile 1717 firmò la relazione in latino qui tradotta. Nel 1718 Freyre si trovava nuovamente a Delhi e più tardi aveva certamente lasciato l’ordine per presentare poi richiesta di reinserimento nel 1724;6 nonostante gli fosse concessa l’autorizzazione7 a rientrare nella Compagnia, per ragioni a noi sconosciu-te, il giorno fissato non apparve davanti alla commissione gesuitica e, fin dal 1719, il suo nome non compare più negli elenchi né dei membri né dei defunti della Compa-gnia.8 Ancora: non conosciamo le motivazioni per cui lasciò la Compagnia di Gesù, cosa fece dopo la sua separazione dall’ordine e nemmeno la sua data di morte. Altrettanto misteriosa ci appare la sua missione in Tibet. Quando e come Freyre fu coinvolto nell’impresa? Quali furono gli incarichi, manifesti e segreti, affidatigli? E quali furono i risultati delle sue azioni? Sono tutti quesiti complicati le cui risposte non sempre possono essere dedotte dai testi e documenti disponibili, peraltro deci-samente scarsi, così che talvolta è necessario fare ricorso a congetture. Nemmeno

4. Cornelis WESSELS, Early Jesuit Travellers in Central Asia 1602-1721, Martinus Nijhoff, The Hague, 1924, p. 222 nota 2. 5. Si veda la lettera di Desideri a p. Franceso Piccolomini da Agra, datata 21 agosto 1714 (DL. 4, MITN 5, pp. 10-19: 12-13). 6. Lettera di Freyre al Generale, Goa, 10 dicembre, 1724 [Goana Epist. 1579-1742, 9 II, cccxxvi, f. 590], citazione da Enzo Gualtiero BARGIACCHI, Ippolito Desideri S.J. Opere e Bibliografia, Institutum Historicum, S.I., Roma, 2009, p. 18. 7. L. ZWILLING, Freyre and ‘La Causa del Tibet’. Intervento presentato al XII Seminario dell’Associazione Interna-zionale per gli “Studi tiberani” (vancouver, agosto 2012), p.14. 8. C. WESSELS, Jesuit Travellers, p. 222, nota 2.

nella sua relazione Freyre spiega perché decise di partecipare alla missione; ma non c’è da stupirsene perché bisogna ricordare che il documento era quasi certamente destinato a persone già a conoscenza delle sue motivazioni: da una parte il Visitatore da Silva,9 deputato del primum mobile della spedizione in Tibet, cioè il Padre Genera-le dell’ordine, e dall’altra Melchior dos Reys, prefetto del collegio gesuitico di Agra. Come rappresentate diretto del padre Michelangelo Tamburini,10 Preposito genera-le della Compagnia, il Visitatore era plenipotenziario nella provincia di Goa. E solo grazie alla sua interposizione tempestiva, Desideri riuscì a superare la resistenza della maggioranza dei gesuiti di Goa ed Agra al progetto tibetano. Infatti, i membri della Compagnia non solo sentivano quel piano come impostogli da Roma, ma sembrava loro anche uno spreco delle già scarse risorse finanziarie ed umane della provincia.11 È a questo punto che intervenne il da Silva ottenendo un prestito12 per sostenere le spese dell’impresa. Padre da Silva e Desideri si conobbero tra gennaio e marzo del 1714 a Surat, presso i cappuccini, come si legge in una delle lettere private di quest’ultimo, e, partendo insie-me da quei luoghi, arrivarono a Delhi l’11 maggio dello stesso anno. In questa data, poi, il pistoiese incontrò per la prima volta il portoghese, ch’egli descrisse come uomo acceso da un grande entusiasmo13 per il progetto della missione. Poco dopo, da Silva nominò Freyre compagno e Superiore di Desideri, incarichi in seguito ratificati anche dal Padre Generale.14 Dal loro soggiorno in Ladakh nel 1715 in poi, però, Desideri iniziò ad espri-mere un disprezzo aperto verso il compagno portoghese e vederlo come un’imposizio-ne del da Silva.15 Comunque, non ci stupisce l’animosità del pistoiese; anzi, ci sembra

9. L’ipotesi che da Silva fosse uno dei destinatari della relazione si ricava dal fatto ch’egli risiedette ad Agra per tutto il 1717 rimanendo il Superiore di Freyre, che eseguiva così i suoi ordini. 10. Tamburini (1647-1730), guidò la Compagnia di Gesù dal 1709 fino alla morte e fu gran sostenitore delle missioni gesuitiche, ma ciò gli causò molti problemi con la Propaganda. A tal proposito, si veda la voce di Char-les E. O’NEILL, ‘Tamburini, Miguel Ángel’ in Charles O’NEILL e Joaquin M. DOMÍNGUEZ (eds.), Diccionario Histórico

de la Compañía de Jesús, 4 vol., Universidad Pontificia Comillas, Madrid, 2001, vol. 2, pp. 1650-1653. 11. Sulla resistenza gesuitica alla missione in Tibet si veda M. SWEET e L. ZWILLING, Mission to Tibet, pp. 26-27. Sulla mancanza di personale nella provincia di Goa durante questo periodo si veda: Dauril ALDEN, The Making

of an Enterprise: The Society of Jesus in Portugal, Its Empire and Beyond, 1540-1750, Stanford University Press, Stanford CA, 1996, pp. 581-582; e la lettera del gesuita p. Giuseppe Martinelli a Tamburini dove è spiegato in dettaglio come un’eventuale missione in Tibet potrebbe risultare infruttuosa, in H. HOSTEN, Letters

and Other Papers of Fr. Ippolito Desideri S.J., A Missionary in Tibet (1713-1721, Cosmo Publications, Delhi, 1998 [nuova edizione dell’originale pubblicato nel “Journal of the Royal Society of Bengal. Letters”, 1938, pp. 567-767], pp. 21-27. 12. La benefattrice fu Donna Juliana Dias da Costa, una portoghese molto influente alla corte Moghul, che aveva già fornito aiuti finanziari per precedenti tentativi di aprire una missione in Tibet. Si veda al riguardo L. PETECH, MITN 5, pp. 242-243, nota 26.13. L’incontro è descritto nella lettera da Agra del 21 agosto 1714, scritta da Desideri al padre Francesco Piccolomini [DL. 4, MITN 5, p. 10-19: 12]. 14. Sull’approvazione dell’impiego di Freyre si veda L. PETECH, MITN 5, p. 228, nota 1. 15. Si veda per esempio la lettera scritta a Leh da Desideri a Tamburini il 5 agosto 1715 (DL. 6, MITN 5, pp. 22-32: 29-31) e la sua Relazione, Libro I, cap. 11 (MITN 5, p. 183 e M. SWEET e L. ZWILLING, Mission to Tibet , pp. 176-177. È parere di C. Wessels (Early Jesuit Travellers, p. 210) e di L. Petech (MITN 5, p. xvi) che Freyre

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che il comportamento prepotente e subdolo di Freyre durante il viaggio la giustifichi.Basandoci sulla relazione di Freyre ed altri documenti rilevanti, è nostra opinio-ne, inoltre, che fu a questi chiesto di partecipare alla missione in Tibet per la sua grand’esperienza in India e per essersi precedentemente dimostrato un amministra-tore e leader prudente. In particolare, i suoi due incarichi principali furono, da un lato, di accompagnare e far giungere sano e salvo il compagno più giovane nel Tibet centrale; e, dall’altro, di raccogliere tutte le informazioni possibili sulle attività dei cappuccini, rivali dei gesuiti nei territori del Tetto del mondo. Per capire meglio tutto ciò, però, è necessario esaminare la concorrenza che c’era all’epoca tra i due ordini relativamente alle missioni in Asia e soprattutto in Tibet.

II: Tibet: una missione contesaDalla seconda metà del Seicento l’ondata d’influenza sostenuta dalla rete globale dei missionari gesuitici cominciò a rifluire16 innanzitutto a causa di un assalto ge-

sia stato scelto dal da Silva prima del suo incontro con Desideri a Delhi. 16. Sul contesto storico della decadenza della Compagnia di Gesù si vedano: Giacomo MARTINA, Storia della

Chiesa. Da Lutero ai nostri giorni, Morcelliana, Brescia, 4a ed., 1993-1995 (4 voll.), Vol. II, 1994, pp. 205-319; D. ALDEN, Making of an Enterprise, pp. 571-596; M. SWEET, Seeking Capuchins, pp. 2-4.

nerale alla Compagnia che partì da dentro la Chiesa stessa. In particolare, da una parte, agirono gli ordini francescani cappuccini che, sostenuti da una Francia allora dominante nel mondo cattolico, sfidarono il dominio dei Gesuiti nel campo delle missioni; e dall’altro, operò la sacra congregazione ‘de Propaganda Fide’ (‘la Propa-ganda’), istituita nel 1622 con lo scopo di centralizzare tutto il potere delle attività missionarie nelle mani della curia romana e dunque di distruggere l’autonomia delle missioni gesuitiche nel mondo. La Propaganda si accanì contro i gesuiti fin dall’inizio del XVIII secolo, quando nel 1710 iniziò la fase finale delle cosiddette Controver-sie dei riti cinesi e malabarici,17 a conclusione delle quali la Compagnia di Gesù fu condannata per la sua supposta tolleranza verso le credenze e pratiche pagane cinesi ed indiane. Nello stesso anno, papa Clemente XI confermò la sentenza della Propaganda; pochi anni prima, nel 1703, aveva sancito l’assegnazione ai cappuccini

17. C’è un’ampia letteratura sulla Controversia dei riti cinesi; si vedano per esempio: George MINIMAKI, The

Chinese Rites Controversy from Its Beginnings to Modern Times, Loyola University Press, Chicago, 1985; David E. MUNGELLO (ed.), The Chinese Rites Controversy. Its History and Meaning, Steyler Verlag (Monumenta serica monograph series; XXXIII), Nettetal (NL), 1994; Liam Matthew BROCKEY, Journey to the East. The Jesuit Mission

to China, 1579-1724, Harvard University Press, Cambridge MA, 2007, pp. 496: 185-192, 197-198 et passim. Sui riti malabarici si vedano: Ines G. ŽUPANOV, Disputed Mission: Jesuit Experiments and Brahmanical Knowledge

in Seventeenth-Century India, Oxford University Press, New Delhi, 1999, pp. 34-37, 43-101; John CORREIA-AFONSO, ‘Ritos Malabares’, in C. O’NEILL e J. M. DOMÍNGUEZ (eds.), Diccionario Histórico, Vol. 3, pp. 3372-3375.

Dopo la difficile traversata dei monti Pir Panjal, il 13 novembre 1714 Desideri e Freyre arrivano a Srinagar, delizioso capoluogo del Kashmir, e vi sostano sei mesi

Un tipico guado nell’area himalayana

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della missione nel Tibet. È da far notare, però, che non solo i gesuiti l’avevano noto-riamente fondata nel 1624, ma che vi rimasero ben fino al 1640.18 All’epoca, i cap-puccini affermarono che, fatta la sanzione del papa,Tamburini stesso, allora vicario generale permanente e di fatto reggente al posto dell’anziano padre generale Tirso González, concesse loro il Tibet. In realtà, oggi ci mancano altri indizi e riscontri che confermino o smentiscano quest’affermazione. Ciò su cui, invece, non ci sono dub-bi è che Tamburini, successo a Tirso González nel 1706 nell’incarico di generale, cer-cò di riaffermare il diritto gesuitico sulla missione tibetana. Iniziò così fra i due ordini un amaro conflitto, che terminò solo in 1732 – di fatto, venticinque anni più tardi, quando la Propaganda espresse il suo inalterabile giudizio a favore dei cappuccini stabilendo ch’essi erano i soli missionari autorizzati ad operare in Tibet.19

18. Sulla prima missione gesuitica centrata a Tsaparang in Tibet, capitale del regno di Guge nella regione sud-occidentale del paese, si veda Giuseppe M. TOSCANO, Alla Scoperta del Tibet: Relazioni dei Missionari del

Sec. XVII. Editrice Missionaria Italiana, Bologna, 1977 e Hughes DIDIER, Les Portugais au Tibet: Les Premières

relations jésuites (1624-1635), Editions Chandeigne, Paris, 2002. Inoltre, C. WESSELS, Early Jesuit Travellers (p. 43-161) è ancora un fonte molto utile. Michael Sweet e Leonard Zwilling stanno preparando un’edizione inglese delle relazioni e delle lettere del fondatore della missione a Tsaparang, il missionario portoghese p. António de Andrade (1580-1634). 19. I due protagonisti della causa tibetana furono Desideri ed il padre cappuccino Felice di Montecchio, che

III: Il cammino tortuoso da Leh a LhasaFreyre e Desideri partirono da Delhi il 24 settembre del 1714 e, passando per La-hore, raggiunsero Srinagar, capitale del Kashmir, il 13 novembre. Quale però fosse lo scopo ultimo del loro cammino era già motivo di contrasto tra i due compagni di viaggio. Desideri ebbe una vocazione missionaria vera e propria ed il suo zelo ed impegno nel salvare le anime dei Tibetani dalla dannazione sono ancora oggi in-dubitabili.20 Freyre, invece, dovette avere un’indole molto differente. Infatti, nella sua relazione non c’è alcun accenno alla brama di convertire gli infedeli tibetani, al desiderio d’imparare la lingua di quei popoli, ch’egli anzi teneva in bassa con-siderazione e giudicava molto barbari ed ignoranti, e nemmeno ad una minima intenzione di rimanere in quei luoghi. D’altra parte, come abbiamo accennato so-pra, gli ordini impostigli dal Visitatore non comprendevano quelli del missionario

entrambi scrissero voluminosi documenti difendendo le posizioni del suo ordine. Si veda MITN 3, pp. 28-46, MITN 5, p. 97-113, E. G. BARGIACCHI, Ippolito Desideri S.J., pp. 104-109, M. SWEET e L. ZWILLING, Mission, pp. 59-62. 20. La sua fede e il suo entusiasmo per la vocazione missionaria si manifestano chiaramente nella Relazione e nelle sue lettere. Lo studio migliore e più completo sulla spiritualità di Desideri è quello di T. Pomplum, Jesuit

on the Roof of the World.

Leh, capitale del Ladakh, regno autonomo all’epoca del viaggio di Desideri e Freyre, i quali vi sostarono fra il 25 giugno e il 17 agosto 1715. Foto E. Bargiacchi, 1983

Tipico paesaggio montuoso del Ladakh. Foto E. Bargiacchi, 1983

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in sé: il suo compito era principalmente d’accompagnare ed assistere il confratello fino a Lhasa dove sarebbe stato dovere di quest’ultimo pensare al bene spirituale dei tibetani. Inoltre, all’epoca erano scarse le conoscenze di Desideri su quei luoghi: egli era convinto di viaggiare verso la vecchia missione gesuitica, della quale aveva soltanto un’idea imprecisa; credeva ch’essa si trovasse da qualche parte nel “Gran Tibet”, in una zona allora compresa tra il regno di Ladakh e il Tibet sud-occidentale;21 e addirittura non sapeva della presenza dei cappuccini nel Tibet centrale. Freyre, al contrario, aveva una cognizione pratica di quelle zone: infatti, sapeva sia che Lhasa si trovava nel Tibet centrale e molto lontano da Ladakh; sia che i francesi si trova-vano nella regione del Bengala, informazione determinante per il viaggio dei due missionari. Essendo i francesi e i cappuccini, come già abbiamo detto, avversari dei gesuiti e il Bengala sede di una missione cappuccina, essi non poterono intrapren-dere la via bengalese sebbene molto più corta ed agevole: sarebbero stati facilmen-te intercettati e subito cacciati. Arrivato l’inverno e chiusi i passi montani, i due viaggiatori dovettero soggiornare

21. Prima di tornare a Roma nel 1728, Desideri non conosceva neanche Tsaparang, capitale del regno Guge; H. HOSTEN, Missionary in Tibet, p.11, M. SWEET e L. ZWILLING, Mission, p. 31.

sei mesi a Srinagar, da cui finalmente ripartirono il 17 maggio, 1715 per raggiun-gere, il 26 giugno dello stesso anno, Leh, città principale di Ladakh. Da questo mo-mento, i resoconti di Freyre e Desideri si distaccano molto. Come vedremo, infatti, mentre i luoghi e gli avvenimenti descritti sono per lo più identici, i due missionari vissero esperienze ed ebbero impressioni del tutto diverse.Per esempio, era opinione del pistoiese che la gente del Ladakh (o per meglio dire il re, la sua famiglia, i nobili della corte e i lama) fosse gentile, generosa e ben disposta alla conversione al cristianesimo. Nella sua Relazione, infatti, scrisse che il re e il primo ministro del Ladakh «mostrarono grandissimo desiderio che restassemo in quel luogo a esercitar il nostr’ufficio di maestri della nostra S. Legge» e che, per questo motivo, avrebbe desiderato molto «far la missione in un paese dove mi si davano a veder sì belle disposizioni …». 22 Eppure, i due missionari si rimisero presto in cammino. La ragione fu che, come spiega lui stesso, dopo aver «… noi due padri insieme conferito, più a pro-posito fu giudicato il continuar il nostro viaggio e andar al terzo e Massimo Thibet».23 Opposto fu l’avviso di Freyre. Come si vede dalla sua Relazione,24 questi giudicava,

22. L. Petech, MITN 5, p. 171. 23. Cioè a Lhasa, capitale del Tibet centrale. L. Petech, MITN, ibid. 24. La relazione era un genere della letteratura missionaria molto popolare in quel periodo e questo spiega

Leh con il Palazzo Reale, dove furono ricevuti i due missionari gesuiti. Foto E. Bargiacchi, 1983 Monastero in Ladakh (Hemis; foto E. Bargiacchi, 1983)

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da una parte, il re di Ladakh un uomo rozzo, incolto, indifferente alla fede cristia-na e avido di regali e, dall’altra, il popolo come gente famelica e sporca. Inoltre, il gesuita non parlò mai della possibilità di rimanere a Leh, nè di aprirvi una missione e nemmeno d’averne discusso con il confratello. Sulla permanenza in quella città scrisse soltanto che, non trovandoci «tracce o notizie dei padri cappuccini» e sen-tendo da un mercante kashmiro di ritorno dal Tibet che alcuni missionari europei erano a Lhasa, lui ed il pistoiese decisero di andarci subito – nonostante l’inverno fosse ormai alle porte e il mercante li avesse avvertiti che per arrivarci sarebbero occorsi «tre mesi di viaggio, attraverso un ampio territorio deserto». Per quanto riguarda la presenza dei cappuccini a Lhasa, Freyre dovette aver frainteso le parole del mercante. Infatti, i missionari cappuccini partirono da Lhasa nel 1712 e vi torna-rono soltanto più di sei mesi dopo l’arrivo dei gesuiti.25 Come spiegare, però, la frettolosità di un uomo prudente come Freyre nel prendere una tale decisione? La risposta si trova in una lettera di Desideri al Padre Genera-le Tamburini. Essendo destinate ad un pubblico ristretto, generalmente, le lettere private lasciano trapelare molti dettagli trascurati in documenti ufficiali – come la Relazione di Desideri, per esempio, che fu invece scritta per gesuiti, altri chierici ed anche laici.26 Appunto, in questa missiva Desideri diede una versione dei fatti di Leh diversa da quella raccontata nel testo che lo ha reso celebre. Scrisse che fin dal loro arrivo a Ladakh, Freyre si mise alla ricerca di una facile via verso l’impero Moghul, perché, com’egli credeva, non tollerava più i rigori del viaggio e voleva tornare in India il più presto possibile; e che solo in un secondo tempo Freyre avrebbe ‘scoper-to’ l’esistenza del Terzo Tibet (quello centrale) attraverso il quale si avrebbe avuto accesso al percorso di ritorno più facile e più breve. In realtà, Desideri dovette pre-sto rendersi conto dell’assurdità di quelle parole perché i due missionari erano già a conoscenza di una via molto più rapida per andare in India: attraverso il passo di Mana, vicino al Ladakh nel Tibet occidentale.27 Invece, il viaggio durò ben cinque mesi, anziché tre, ed in condizioni difficilissime. Inoltre, aggiungeva ancora nella lettera, Freyre gli spiegò che avrebbero dovuto

perché i titoli delle opere di Freyre e Desideri portano lo stesso titolo generico; in realtà, infatti, i titoli esatti sono diversi. 25. Più precisamente, Freyre e Desideri arrivarono a Lhasa il 18 marzo del 1716, mentre i cappuccini vi torna-rono il primo ottobre dello stesso anno.26. Facciamo notare che le lettere personali dei missionari ai superiori o confratelli sono considerate di mag-gior valore in qualità di fonti storiche rispetto alle relazioni. Si veda a tal proposito John CORREIA-AFONSO, Jesuit

Letters and Indian History. A Study of the Nature and Development of the Jesuit Letters from India (1542-

1773) and of their Value for Indian Historiography, 2nd ed., Oxford University Press, Bombay, 1969, pp. 8-9 e L. BROCKEY, Journey to the East, p. 62. 27. Il passo di Mana e altri nelle vicinanze, utilizzati da Andrade e dai suoi confratelli della prima missione, fu-rono sempre usati come collegamenti commerciali fra i distretti himalaiani dell’India e il Tibet sud-occidentale; si veda G. TOSCANO, Scoperta del Tibet , pp. 94-99 e F. S. SMYTHE, Explorations in Garhwal Around Kamet, in “The Geographical Journal”, Vol. 79, n. 1, January 1932, pp. 1-11.

viaggiare fino al Tibet centrale,28 perché l’altro cammino era troppo montuoso e pieno di ladri. Desideri rispose allora di voler rimanere a Leh per migliorare la sua conoscenza della lingua tibetana e fondare anche una missione, ma il compagno trovò molte obiezioni. Nella sua lettera il missionario italiano riferisce anche delle minacce ricevute: «… se volevo restar, restassi; però mi fece intendere che egli in ciò non voleva entrare, e che io darria conto a i Superiori. Dipoi soggiunse, che egli in ogni caso voleva andar al terzo Thibet, dove anticamente era andato il p. Andrada, per esser tale l’intenzione dei Superiori».29 Così facendo, Freyre inconsapevolmente rivelò la reale intenzione di da Silva e Tamburini: inviarli a Lhasa. Là, per quel che ne sapevano fino a quel momento i due gesuiti, i cappuccini stavano ancora lavorando nella loro missione e alla quale avrebbero vietato l’accesso ai due viandanti. Desideri rinunciò con molta riluttanza alla sua idea di fermarsi a Leh, e lo fece solo per ubbi-dienza alla volontà dei suoi superiori.30 Non ci sorprende, dunque, che dopo questa disputa i rapporti tra Freyre e Desideri si vennero via via raffreddandosi.31

28. MITN 5, p. 29. 29. DL. 6, MITN 5, p. 31. Andrade non andò mai a Lhasa o nel Tibet centrale. 30. MITN, ibid.31. Addirittura, i due non viaggiarono insieme nella stessa parte della carovana di Caçal, nobildonna mongola

Dopo la difficile traversata dei monti Pir Panjal, il 13 novembre 1714 Desideri e Freyre arrivano a Srinagar, delizioso capoluogo del Kashmir, e vi sostano sei mesi

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Arrivarono a Lhasa il 18 marzo del 1716; e Freyre, che già a Delhi esprimeva uno zelo non del tutto autentico per la missione, un mese dopo «ritiene compiuto il suo dovere»32 primo, quello di accompagnare il confratello a Lhasa, e riparte per l’India. Desideri si ritovò così incaricato di una missione allora ridotta ad un unico uomo e raccontò di sentirsi «tutto solo per qualche tempo, senz’esservi in tutt’af-fatto l’immensa estensione de’ tre Thibet né pur un sol altro missionario o verun altro Europeo»33 e che «datomi [Freyre] per compagno … appena giunto [a Lhasa] m’abbandonò».34 Aveva tutte le ragioni di sentirsi deluso, perché era insolito lascia-

e proprietaria della carovana – vedasi la traduzione – , e Freyre non raccontò a Desideri la sua conversazione con il lama di Tashigang sugli errori della trasmigrazione; infatti, fino ai primi giorni a Lhasa il missionario italiano non sapeva che i tibetani credessero nella rinascita. Si veda al riguardo quanto lui stesso afferma in varie sedi: nel primo libro della sua Relazione (MITN 5, pp. 180-181); nelle lettere spedite da Leh (al genera-le, DL. 6, MITN 5, p. 27; a Ildebrando Grassi, DL. 7, MITN, 5, pp. 32-40: 37); nel terzo libro della Relazione (MITN 6, p. 303), dove riconosce l’errore riportato nella famosa lettera (DL. 7), pubblicata a sua insaputa, in traduzione francese. 32. E. G. BARGIACCHI, Ippolito Desideri, p. 47.33. MITN 5, p. 183. 34. MITN 5, p. 215.

re un missionario da solo in un territorio nuovo.35 Freyre partì da Lhasa con cinque cavalli e tre servitori,36 certo non con l’aspetto da mendicante, ma giunse all’alloggio cappuccino di Kathmandu, la sua meta, con soli due cavalli e i tre servi;37 poi, lamentandosi per l’insufficienza dei soldi, dovette firma-re un pagherò per coprire le eventuali spese contratte con i cappuccini che l’ospitaro-no e con i quali rimase per ben cinque mesi.38 Tale fu il tempo necessario per portare a termine la seconda parte del suo incarico: raccogliere notizie sui suoi correligionari avversari, svelarne gli scopi ed iniziare una guerra psicologica intesa a confonderli.

35. I. ŽUPANOV, Disputed Missions, p. 4. 36. Desideri dà notizie a tale riguardo in una lettera privata indirizzata al rettore del collegio gesuita ad Agra; si veda M. SWEET, An Unpublished Letter in Portuguese of Father Ippolito Desideri S.J., “Archivum Historicum Societatis Iesu”, Vol. 157, n. 79, 2010, pp. 29-44: p. 39.37. Lettera del p. Domenico da Fano da Kathmandu dell’8 giugno 1716 (CL. 30, MITN 1, p. 80). 38. Domenico da Fano, ibid. I cappuccini persuasero Freyre a rimanere perché in estate il cammino da Kath-mandu a Patna era molto periocoloso a causa della malaria.

Una carovana in viaggio. Nella fotografia di Eugenio Ghersi la spedizione 1935 di Giuseppe Tucci al monte Kaila

Dopo la lunga e desolata traversata de gelido altopiano himalayano, Freyre e Desideri giungono a Sakya, dove sostano dal 15 al 29 febbraio 1716. Qui Sakya è presentata in una foto di Felice Boffa Ballaran (spedizione Tucci 1939) grazie al Museo Nazionale d’Arte Orientale di Roma, che conserva il Fondo fotografico Tucci, e a Oscar Nalesini, curatore dello stesso

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IV: Uno Scontro a KathmanduL’arrivo di Freyre a Kathmandu il 28 maggio non sarebbe stato una completa sor-presa per i cappuccini, che già cinque mesi prima avevano ricevuto notizie di due padri gesuiti, un portoghese e un italiano, in cammino verso il Tibet «con disegno di andare a Lhasa»39. Per questo, Domenico da Fano, prefetto della missione cap-puccina del Tibet, si mise subito in viaggio dal Bengala a Kathmandu nel tentativo di raggiungere la capitale tibetana prima dei due gesuiti. Ma non vi riuscì. Quando il prefetto cappuccino stava per partire da Kathmandu, Freyre e Desideri erano già arrivati a Lhasa.40 La notizia stravolse Domenico da Fano che iniziò a temere un attacco sia all’ordine cappuccino sia all’autorità della Propaganda in Tibet ed in Ne-pal.41 Paure poi confermate dal comportamento di Freyre a Kathmandu, e a Patna. Raggiunto Kathmandu Freyre stesso diede alcune informazioni al prefetto cap-puccino. Innanzi tutto, gli fece sapere che la ragione per cui dovette lasciare il

39. Da un brano della lettera scritta a Chandernagar il 3 dicembre, 1715 dai padri Domenico da Fano, Felice da Montecchio e Giovanni da Fano, indirizzata ai superiori (CL. 28, MITN 1, pp. 73-74: 74).40. Come i gesuiti, anche i cappuccini possedevano una buona rete d’informazione per tutta l’India. Si veda la lettera del p. Domenico da Fano da Kathmandu scritta nell’aprile del 1716 (CL. 29, MITN 1, pp. 74-79: 79).41. Ibid. Domenico da Fano contattò i suoi superiori avvisando che prevedeva brutte conseguenze a meno che non si fossero prese misure opportune; di qui iniziò la causa legale presso il tribunale ecclesiastico fra i due ordini a proposito della missione in Tibet.

Tibet fu la mancanza di risorse finanziare necessarie al mantenimento di due missionari; parole che, viste le «grandi spese che avevano fatto nel viaggio», Domenico da Fano si convinse che fossero solo «un pretesto».42 Quindi, e ciò agitò ancor di più il prefetto, il portoghese annunciò che portava con sé l’ordine, o ‘l’ubbidienza’ come la chiamavano i gesuiti in cui si leggeva la frase «Cum cura animarum Thibettanorum, qual olim excolendas suscepeat Societas nostra» (Con la cura delle anime dei tibetani, le quali la nostra Compagnia una volta aveva intrapreso a coltivare).43 I cappuccini dovettero intendere quelle parole come una rivendicazione aggressiva del diritto gesuitico di istituire, o riaprire, una missione in Tibet, dove la Compagnia di Gesù si era stabilita già anni prima. Il 4 agosto, dunque, il Domenico da Fano e due altri cappuccini non tardarono a partire nuovamente per Lhasa, lasciando il gesuita da solo con padre Giuseppe Felice da Morro. Freyre in tanto si era rimesso in cammino arrivando a Patna a novembre; qui soggiornò in uno stabilimento commerciale degli olandesi, anta-

42. Si veda la lettera di p. Domenico da Fano da Kathmandu dell’8 giugno 1716 (MITN 1, p. 80). 43. Questa frase si trova nella seconda Memoria di Felice da Montecchio, punto 11 (Archivio di Propaganda Fide, Congregazione Particolari, CP 84, f. 107r). Anche Desideri cita un brano quasi identico sull’ubbidienza («quas olim excolendas instruendasque susceperat Societas nostra») nella lettera ai cardinali di Propaganda inviata da Lhasa il 21 dicembre 1719 (DL. 16, MITN 5, pp. 69-80: 79), inserendoci anche instruendasque, cioè ‘e ad istruire’.

Sakya in una immagine recente Porta di ingresso a Lhasa, sotto il chorten, e veduta del Potala, come ancora appariva nel 1903. Foto John Claude White

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gonisti protestanti dei francesi, anziché con i suoi correligionari; e vi rimase tre mesi a causa di una malattia contratta nel frattempo. In questa città, il portoghe-se continuò la sua vessazione dei cappuccini, contestandone l’autorità sul Tibet, insistendo ancora una volta nel mostrar loro la sua ubbidienza.44 Finalmente il Freyre, viaggiatore coscienzioso, raggiunse Agra, dove compilò la sua Relazione.

V: La Relazione sui Tibet e sulle loro vie di Freyre e sua rilevanza come fonte storica Presentata qui nella sua traduzione italiana integrale,45 essa è il racconto di un viaggio attraverso uno dei paesaggi più straordinari ed impervi del mondo e quindi già di per sé interessante. E, sebbene non sia necessario riassumere qui dettagliata-mente la Relazione del Freyre, vale però certamente la pena fare qualche generale accenno. Come abbiamo già detto, le diversità tra i due uomini, i loro scopi ed interessi si riflettono nei temi affrontati e negli stili usati nelle loro opere maggiori. Diversamente dal Desideri, Freyre non usa un tono edificante né uno stile elegante, ma ciò nonostante le sue pagine costituiscono un efficiente mezzo di comunicazio-ne.46 Vi si lamenta del rigore del tempo, dell’asprezza del paesaggio e dei pidocchi nei vestiti, ma delinea anche dettagliatamente la vita quotidiana della spedizione – descrizioni che ricordano, inoltre, quelle di Giuseppe Tucci, un viaggiatore nella stessa regione di due secoli più tardi.47

Di qua si comprende l’importanza della Relazione, il suo elevato valore storico. Pro-prio questa narrazione pittoresca, piena di osservazioni accurate ed interessanti sul durissimo viaggio attraverso l’altipiano tibetano, sulla religione e sullo stile di vita in quei luoghi e a quell’epoca, svolge l’importante ruolo di pragmatico contrappeso alle narrazioni spesso idealizzate o demonizzate degli altri missionari.48 Essa, infatti,

44. Si veda la lettera di Felice da Montecchio (allora superiore della missione a Patna) destinata al Papa, alla Propaganda, e alla Compagnia di Gesù, probabilmente scritta nel 1718-1719, e pubblicata in G. TOSCANO, Opere Tibetane di Ippolito Desideri, Vol. 2, Lo “Sñiṅ-po” (Essenza della dottrina cristiana), Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente, Roma, 1982, p. 279-284. Domenico da Fano aveva già avvertito i colleghi di Patna dell’arrivo di Freyre e della sua intenzione di esercitare ancora lo stesso comportamento aggressivo già praticato a Kathmandu; si veda Felice da Montecchio, seconda Memoria, punti 8-10 (CP 84, f. 106r e v). 45. La prima traduzione integrale della Relazione del Freyre si trova in M. SWEET, Seeking Capuchins pubblicata nel 2006. Esiste anche una versione parziale in lingua inglese ad opera di Filippo De Filippi pubblicata nel suo Account of Tibet: The Travels of Ippolito Desideri 1712-1727, 2nd ed., George Routledge & Sons, London, 1937, pp. 351-361. 46. Forse ci si chiede perché un portoghese usò il latino per comunicare con altri portoghesi: la Relazione era destinata non solo al Visitatore ed al Rettore, ma anche al Tamburini e altri funzionari romani.47. Giuseppe TUCCI, Cronaca della Missione scientifica Tucci nel Tibet Occidentale (1933), Reale Accademia d’Italia, Roma, 1934. 48. Sull’idealizzazione e la demonizzazione del Tibet e dei tibetani da parte dei missionari e altri, si veda Donald S. LOPEZ, Prisoners of Shangri-La. Tibetan Buddhism and the West, Chicago, Chicago University Press, 1998, pp. 2-11 et seq.; e Rudolf KASCHEWSKY, The Image of Tibet in the West before the Nineteenth Century, in Tierry DODIN e Heinz RÄTHER (eds.), Imagining Tibet: Perceptions, Projections, and Fantasies, Wisdom Publica-

con le lettere dei cappuccini, ci permette: di verificare il racconto più famoso di Desideri; d’ottenere un vivido quadro delle dispute fra gli ordini – così rancorose e poco edificanti da essere tenute nascoste al pubblico laico; ed in fine, come abbia-mo già visto, di svelare gli obiettivi segreti dell’ultima missione gesuitica in Tibet.

Manoel Freyre – Relazione sui Tibet e sulle loro vieQuesta traduzione è basata sulla quella che si trova nel mio articolo Desperately Seeking Capuchins: Manoel Freyre’s ‘Report on the Tibets and their Routes (Tibe-torum ac eorum Relatio Viarum)’ and the Desideri Mission to Tibet pubblicata nella rivista digitale “Journal of the International Association of Tibetan Studies” (JIATS: www.thdl.org?id=T2722, n. 2, August 2006, pp. 1-33), pubblicata poi, con alcuni cambiamenti, in appendice (pp. 611-624) al volume Sweet e Zwilling, Mission. Oltre al prezioso aiuto di Matt Hogan e George Goebel, per la comprensione del testo, ho potuto fruire anche a dei suggerimenti di Trent Pomplun. Per la versione italiana mi sono avvalso largamente della traduzione appositamente curata dal latinista Fausto Ciatti. I testi di riferimento sono fondamentalmente i due seguenti:– Luciano PETECH (ed.), I missionari italiani nel Tibet e nel Nepal (Vol. II de ‘Il nuovo Ramusio’. Raccolta di viaggi, testi e documenti relativi ai rapporti tra l’Europa e l’Oriente, a cura dell’IsMEO, direzione scientifica Giuseppe Tucci), La Libreria dello Stato, Roma, 1952-1956, in sette tomi (Parti I-VII): Parti I-IV, I Cappuccini marchi-giani, La Libreria dello Stato, 1952-1953; Parti V-VII, Ippolito Desideri S.I., Istituto Poligrafico dello Stato. Libreria dello Stato, 1954-1956 [L’opera, qui abbreviata in MITN, contiene nella Parte VII. Ippolito Desideri S.I., III, 1956: Appendice III. La relazione del Freyre. Tibetorum ac eorum relatio viarum (trascrizione dal mano-scritto del testo originale latino), pp. 194-207 (note alle pp. 230-231);– Filippo DE FILIPPI (ed.), An Account of Tibet. The Travels of Ippolito Desideri of Pistoia, S.J., 1712-1727. Edited by Filippo De Filippi. With an Introduction by C. Wessels, S.J., George Routledge & Sons, Ltd. (Broadway Travellers, edited by Sir E. Denison Ross and Eileen Power), London, 1932, pp. XVIII + 475 (2nd revised edition, London, 1937, pp. XVIII + 478 [contiene: Appendix: Report on Tibet and its Routes, by Emanoel Freyre, S.J. From the Latin manuscript with the title Tibe-torum ac eorum Relatio Viarum, dated January 28, 1722, in the Biblioteca Vit-torio Emanuele, Rome (Gesuitico 1384, n. 32), pp. 349-361 (traduzione inglese dall’originale latino, con qualche omissione)].

tions, Boston, 2001, pp. 3-20.

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Reverendissimo Padre in Cristo,Il 24 settembre dell’anno del Signore 1714, fe-sta della Nostra Signora Immacolata della Cari-tà, il reverendo padre Ippolito ed io lasciammo la città di Dily [Delhi] e dopo diciassette giorni di cammino giungemmo a Lahor [Lahore]. Par-titi da quel luogo e attraversato il fiume che lo bagna, chiamato Ravi, dopo altri quattro gior-ni di marcia entrammo nella Piccola Guzarat – chiamata così dagli abitanti per distinguerla dalla Grande che si trova in prossimità di Cam-baya49. Questa Piccola Guzarat si trova ai piedi dei monti Caucasi50, dove alcuni geografi – francesi in particolare – hanno collocato la città di Cazimir [Kashmir]51. A noi tuttavia occorse-ro ben quattordici52 giorni di viaggio, da quelle basse pendici, per raggiungere Cazimir, per di più percorrendo sentieri dirupati fra picchi e burroni la cui vista ci riempiva di terrore.I monti Caucasi, sempre coperti di neve, forma-no un arco disposto orizzontalmente da est a

49. Si distingue qui la città di Gujrat (Punjab, dell’at-tuale Pakistan) dalla regione del Gujarat, attuale sta-to dell’India nordoccidentale, a nord di Mumbai. La città di Cambay (oggi Khambhat), sul golfo omoni-mo del Mar Arabico, si trova nell’attuale distretto di Anand del Gujarat.50. Ancora all’epoca del Freyre, il termine Caucasi era applicato a tutte le montagne dell’Asia, Himalaya inclusa.51. Kashmir, intendendo la sua capitale e cioè Sri-nagar. Non è del tutto chiaro questo riferimento di Freyre, il quale certo non avrebbe perso nessuna op-portunità per denigrare i francesi, nemici della sua patria portoghese. Per la regione considerata, la car-ta di riferimento in quel periodo era quella del 1705 del francese Guillaume Delisle, dove appare la città di Srinagar del Garhwal (talora confusa con l’omonima capitale del Kashmir), sulla via di Tsaparang, centro del vecchio regno di Guge (Tibet occidentale), men-tre la posizione di Kashmir, Ladakh e Tibet è certa-mente approssimativa. Le cose sono poi complicate dalla varia e differente designazione delle diverse parti della grande regione tibetana. 52. Invece di quattuordicim si legga quattuordecim.

ovest, e vi si trovano molte specie53 di alberi e di erbe dalle proprietà54 medicinali. Si innalza-no maestosamente fino alle nubi del cielo, con pendio irregolare e scosceso fra rocce così ravvi-cinate alla base che quasi si toccano, e lasciano solo uno strettissimo passaggio ai torrenti, e po-che anguste spianate agli altrettanto scarsi nu-clei umani che vi risiedono in abitazioni isolate.Muovendo dalla città di Cazimir verso occiden-te troviamo Cabul [Kabul], verso nord Cascar [Kashgar], verso oriente il popolo dei Ghacares [Ghakkar]55, verso sud infine l’Indostan. La città è situata su un modesto altipiano del Caucaso rivolto a settentrione; i corsi d’acqua vi si unisco-no a formare un unico fiume che scorre verso ovest percorrendo tutta la regione. Esso bagna il territorio chiamato Pexaor [Peshawar], poi procede attraverso quello dei Syndi [Sindh],56 che confina con la Persia, e prima di sfociare nel mare forma il porto della città mercantile chia-mata Synde [Sindh]57, ben conosciuta perché vi fanno scalo molte navi di commercianti.Cazimir è una città vasta e popolosa, circon-data da acque stagnanti58 in cui si possono vedere spesso nel raggio di due miglia navi59 destinate a viaggi di piacere o al trasporto di merci; un fiume60 che attraversa interamente la città ne porta via le immondizie. Le abitazioni dei poveri sono costruite solo con legname di

53. Invece di spicierum si legga specierum.

54. Invece di proficui si legga proficuis.55. I Ghakkar [o Ghakhar, o Gakhars] erano «una popolazione predatoria musulmana», che mantenne la propria autonomia fino al 1765, stanziata nel Salt Range del Punjab. Freyre sbaglia completamente a metterli a est del Kashmir [L. Petech in MITN 7, p. 230, nota 2].56. I sindhi sono una delle popolazioni dell’attuale Pakistan (provincia Sindh, nella parte meridionale del paese).57. La città che Freyre chiama Sindh è Thatta, il prin-cipale centro commerciale della regione fino al XVIII secolo (per quasi un secolo fu capitale del Sindh) [L. Petech in MITN 7, p. 230, nota 3]. 58. I laghi Dal a nord-est e Anchar a nord-ovest.59. Per navibus si legga naves.60. Il fiume è il Jhelum.

pino selvatico, senza l’ausilio di altro materiale; infatti vengono realizzate sovrapponendo tra-sversalmente tronchi di questi alberi a formare una struttura quadrata, al cui interno vengono poi ricavate delle piccole stanze. Il tetto è for-mato da travicelli sui quali si stende uno strato di terra, dove si seminano gigli dai fiori bianchi o viola. Le fastose dimore dei più abbienti, co-struite in pietra, non mancano di fascino. Sono annesse a queste giardini coltivati ad alberi, rose e viti sostenute da platani. Gli abitanti sono alti e di bell’aspetto, per quanto maurita-ni [musulmani]61 e pagani62. Hanno un’indole timorosa e inaffidabile, sono molto legati al ricordo dei defunti e ogni giorno si recano cor-rendo a baciare con devozione le loro tombe. Quando danno inizio ad una qualsiasi attività non indagano il volere degli dei ma consulta-no il loro Taqvim [almanacco], con il pronostico

61. Il termine mauritano e mauro, in seguito usato da Freyre, viene sempre qui tradotto con musulmano.62. Nel testo ethnica, che vale ‘indù’.

delle stelle, e nutrono maggiore fiducia nelle predizioni dei brahmani che nella Divina Prov-videnza. Abbondanti e di buona qualità sono i prodotti della terra: per tutto l’anno si posso-no comprare al mercato a basso costo grano, riso, diverse varietà di lenticchie, uva bianca e nera, pere e mele. Si parla più di un linguaggio: l’arabo, il persiano, l’indostano, infine il cazimi-ri [Kashmiri], l’idioma del luogo. Trascorremmo a Cazimir sei mesi, dedicandoci ad imparare la lingua persiana tortuosa e gut-turale, e contemporaneamente cercando ogni giorno di informarci sulla via che conduce al Tibet. Alla fine gli abitanti63 ci dissero che i re-gni tibetani erano scarsamente popolati, o per meglio dire c’erano pastori nomadi che con-ducevano a pascolare le greggi là dove la terra non era più ricoperta da una distesa di neve e permetteva di avere un po’ di foraggio, e si

63. Freyre scrive naturalibus, letteralmente ‘parenti per legami di sangue’, influenzato dal portoghese natural, ‘abitante del paese’, nativus in latino.

Potala Palace a Lhasa. Foto Ovche Narzunov. Si tratta della prima foto pubblicata di Lhasa (apparve a corredo dell’articolo di Joseph Deniker, La première photographie de Lhassa, “La Géographie”, Tome IV, 2me semestre 1901, n. 10, 15 octobre, 1901, pp. 242-247: 245). La foto della Società geografica russa è riprodotta per gentile concessione della Società geografica italiana

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spostavano da un luogo all’altro verso zone dal clima più temperato. Affermarono decisamen-te che non avremmo trovato né alberi né arbu-sti di alcuna specie, e che ci saremmo dovuti portare dietro tutte le provviste e una quantità doppia di coperte per il corpo, nonché guide esperte dei luoghi. Aggiunsero che la neve ca-duta dal cielo andava ad aggiungersi a quella che ricopriva abbondantemente tutto, e che i fiumi si presentavano pietrificati dal gelo. In-somma, se volessi ripetere a chi legge tutto ciò che ci fu detto, darei l’impressione di oltrepas-sare ogni limite della credibilità umana.Ad ogni modo, dopo aver pregato il Signo-re, il 17 maggio dell’anno di grazia 171564 ci mettemmo per via, e camminammo per otto giorni tra foreste stupende finora ricoperte di neve, attraversando molti fiumi accompagna-ti dai portatori carichi delle nostre provviste. Questi portatori ogni giorno ci guidavano con sicurezza a qualche cavità naturale dove po-ter trascorrere la notte. Poi, nell’ottavo giorno dalla nostra partenza da Cazimir, ci trovammo davanti i monti sterili o, per usare una parola indiana, Syâ [persiano: siyāh], ovvero le mon-tagne nere del Tibet. E quando sul far della notte iniziò a nevicare, facemmo una leggera deviazione e alla fine ci ricoverammo in un an-tro che avevamo visto sulla costa di un altro monte non lontano, un ovile per le capre. Il giorno seguente, usciti dalla grotta, consta-tammo che il sentiero montano che ci stava davanti era tutto ricoperto di neve fresca; al-lora i portatori ci dissero: «Spingendosi verso la cima corriamo il rischio di mettere un piede in fallo e di precipitare lungo il pendio. Meglio per noi continuare65 lungo la valle scoscesa66 e là provare a far fronte alla tormenta di neve e alle raffiche rabbiose del vento nella scarsa

64. Nel testo, anziché 1715, è indicato l’anno 1714: si tratta di una evidente svista del Freyre, il quale in precedenza ha detto di essersi messo in viaggio il 24 settembre 1714. La data del 17 maggio 1715 è con-fermata da Ippolito Desideri [MITN 5, p. 163].65. Si legga pergentes invece di per gentes. 66. Invece di proruptum si legga praeruptam.

luce solare, piuttosto che dover recuperare uno dei nostri caduto in un burrone». Avanzando dunque nella neve profonda dai dieci ai quin-dici cubiti, non riuscimmo a liberarcene in tutto quel giorno, benché due di noi incidessero la superficie gelata con una scure ricavandone rudimentali gradini. Così, stremati dalla fati-ca, pernottammo di nuovo in un anfratto di un’altra montagna, mentre implacabilmente seguitava a cadere la neve e due dei nostri servi erano febbricitanti. Li facemmo distendere sul fondo della caverna, lasciammo i bagagli fuori all’aperto, ci accovacciammo sui talloni rinun-ciando sederci a terra come di solito facevamo, e mandammo giù un po’ di riso semicrudo.Passata la notte in queste condizioni, il reveren-do padre Ippolito e uno dei servi cristiani non erano in grado di accorgersi del progressivo e sempre più luminoso avvicinarsi dell’aurora: mi resi conto che dai loro occhi usciva un liquido provocato dal candore abbagliante delle nevi. E subito i portatori musulmani, che giacevano un po’ lontano da noi nel riparo naturale, si preci-pitarono verso di noi scongiurandoci di tornare a Cazimir, asserendo che quell’abbagliante can-dore delle nevi ci avrebbe resi tutti ciechi, se non avessimo rinunciato a compiere quel viaggio co-minciato con così grande imprudenza. Allora ri-sposi loro io dicendo: «Fratelli, la vostra richiesta non è irragionevole, ma sappiate che il giorno stesso in cui doveste di nuovo metter piede a Kazimir, vi farei immediatamente gettare in pri-gione». Presi poi in disparte uno di loro, che era il capo, e gli offrii un mezzo scudo dicendogli: «Tu che sei il capo, parla loro, tirali su di morale e convincili a proseguire». Gli abitanti di Cazimir sono umili e mansueti; così usai parole conci-lianti che ebbero il potere di calmarli.67 Allora

67. Questo tipo di sciopero dei portatori era comu-ne durante le spedizioni himalaiane; di solito, come in questo caso, avveniva nei momenti più faticosi o difficili del viaggio. Si veda ad esempio Marco Pallis, Peaks and Lamas, 3rd revised edition, Woburn Press, London, 1974, pp. 34-36. Il modo di affrontare la situazione da parte di Freyre evidenzia la sua capacità come leader.

ciascuno tagliò un lembo di stoffa dell’abito che indossava, si mise a tingerlo con un pezzo di carbone avanzato dal fuoco della sera prece-dente, poi così annerito se lo applicò sugli occhi. Noi padri invece ricorremmo ai nostri fazzoletti trattati allo stesso modo, e in più ci sfregava-mo le palpebre con quella stessa neve, che è un refrigerio per il bruciore agli occhi. Finalmente attraversammo il fiume chiamato Synde68, che nasce da quei ghiacciai e scorre verso nord, ba-gnando Cazimir dall’altra parte rispetto a quella della sorgente. Proseguimmo fino a mezzogior-no e giungemmo infine in un posto dove po-temmo goderci il desiderato riposo su un suolo ormai sgombro dalla neve. Allora i portatori, de-posti i bagagli, cercarono di arrestare il flusso di umore dagli occhi bagnandosi la fronte e i pie-di con l’acqua del fiume. Noi due invece, poco abituati al freddo, ci bagnammo solo il volto. Quindi mangiammo un po’ di riso bollito del giorno avanti, ci alzammo e seguimmo il corso del fiume chiamato Synde, non lasciandolo mai per alcuni giorni e sempre dormendo all’aper-to. Se ne andarono diversi giorni, poi il fiume che ci aveva fatto da guida si gettò in un al-tro corso d’acqua che proveniva da Ladâka [dal Ladakh],69 e i due divennero un solo fiume che si diresse verso il Piccolo Tibet70, abitato da pa-stori musulmani, per poi dirigersi verso Pexaor [Peshawar] e confluire nel grande Indo. Per lun-go tempo viaggiammo in quelle lande deserte, senza trovare altro che poche piccole capanne. Il 25 di giugno giungemmo a Ladâka.Ladâka, chiamata anche Lê [Leh], è una citta-dina di appena duemila anime; la sua forma ricorda quella di un bugno di vespe, nel sen-so che ciascun abitante vive in una cella che la

68. ‘Sind’ è un nome generale che si applica ai fiume importanti della regione; qui si riferisce al fiume Dras [L. Petech in MITN 7, p. 230, nota 6].69. Il fiume è il Suru.70. Freyre e Desideri, secondo l’uso del tempo, chia-mano il Baltistan ‘Piccolo Tibet’ (designazione oggi talvolta riferita al Ladakh). Desideri chiama il Ladakh anche ‘Secondo Tibet’ (o gran Tibet), e il Tibet vero e proprio ‘Terzo Tibet’ (o Massimo Tibet).

sorte gli ha messo a disposizione. Li governa un modesto re di nome Nima Nimojâl [Nyima Namgyal].71 Il loro vitto consiste di carne di ariete, capretto e agnello, ignorano del tutto il pane e ritengono una prelibatezza un piatto a base di farina di orzo tostato lavorato a mano in una scodella con del châ [tè] importato dalla Cina e un po’ di burro. Questa gente è tanto sporca e affamata che quando tentai di impe-dire a una tibetana che stava mangiando dei pidocchi [dicendole] «Mazo», cioè, «non man-giarli», mi rispose che era sfinita dalla fame e non le restava altro di cui nutrirsi. Dopo ventun giorni di permanenza in quella città, le nostre speranze apparivano frustrate non avendo trovato tracce o notizie dei padri cappuccini; anzi ci dissero che nessun europeo era mai arrivato a Ladâka prima di noi.72 Ma poi un kashmiri, di ritorno da Rudak [Rudok (Ru-thogs)], ci disse che vi era un terzo Tibet più esteso degli altri due, e che là aveva visto degli uomini poveri, vestiti con mantelli di lana muniti di berretti73 pendenti sulle spalle, men-tre stavano distribuendo medicinali alla gente, e sapeva sicuramente che erano europei. Da questi particolari compresi che si trattava di cappuccini, e chiesi a quell’uomo quanto fosse-ro distanti da noi. Rispose che occorrevano tre mesi di viaggio, attraverso un ampio territorio deserto. Quelle parole ci spaventarono, perché a quel tempo il sole si stava inesorabilmente spostando verso sud; ciò nondimeno comin-

71. Nyima Namgyal [Nyi-ma-rnam-rgyal] assunse il trono del Ladakh intorno al 1700 e abdicò in 1725 [L. Petech in MITN 5, p. 229, nota 9].72. In realtà sembra che il primo viaggiatore europeo in Ladakh fosse stato un mercante portoghese, Dio-go d’Almeida, che vi soggiornò per circa due anni all’inizio del Seicento [Luciano PETECH, The Kingdom

of Ladakh: C. 950-1842 A.D., ISMEO, Roma, 1977, pp. 36-37]. Il missionario gesuita portoghese Fran-cisco de Azevedo visitò Ladakh nel 1631; sulla sua esperienza si veda Cornelis WESSELS, Early Jesuit Tra-

vellers in Central Asia. 1603-1721, Martinus Nijhoff, The Hague, 1924, pp. 101-111, 304-305.73. Nel testo pila (‘palla’), probabile svista per pillea, pilleum (‘copricapo conico di feltro’).

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ciammo a preparare74 la spedizione. Il re di tan-to in tanto ci convocava, non per conversare sul Verbo di Dio ma per farsi portare sempre qualcosa in dono. Ci chiese perché ci fossimo spinti fino al suo regno, e gli spiegammo che alcuni nostri confratelli si erano recati prima di noi nel Tibet non per brama di ricchezza, non per il commercio75, ma per annunciare e far co-noscere Dio alle genti. Quel barbaro, non pre-stando la minima attenzione alle nostre parole, ci chiese i tre fucili che tenevamo in camera e li barattò con quattro cavalli.Usciti dal palazzo e presentatici al suo inten-dente per avere i cavalli, egli ci ricevette con cordialità e ci fece domande sui misteri divini e sul numero dei Sacri Testi. Subito l’interpre-te musulmano rispose, intromettendosi, che c’erano quattro libri sacri, quelli di Mosè, di David, di Cristo e di Maometto. Ma noi due Padri, che sapevamo contare in lingua boziana [tibetana]76 fino a dieci, replicammo: «I libri di-vini non sono quattro ma tre»77, quelli di Mosè, di David e di Cristo. Poi, ottenuto il permesso di ritirarci, il musulmano mi prese in disparte e mi rimproverò così: «Quando parliamo delle Leggi [religioni], fratello, se pensi di contraddir-mi, non lo dovresti fare davanti a tutti, per non mancarci di rispetto, ma in separata sede». A queste parole risposi: «Fratello, finché si tratta

74. Freyre scrive exterritos … parantes, invece del latino più corretto exterriti … paranti, manifestando l’influenza del portoghese atterorizados … prepa-

rantes.75. Desideri dichiara che nella corte del Ladakh sorse il sospetto che i due padri europei fossero ricchi mer-canti, ma questi riuscirono a convincere il re sui loro reali intenti, illustrando la loro mira evangelica e mo-stratogli i semplici oggetti religiosi di cui disponevano [MITN 5, pp. 170-171].76. Il termine ‘boziano’, sempre usato da Freyre per tibetano, nel seguito della traduzione sarà sostituito da ‘tibetano’.77. Freyre riporta qui anche la risposta in tibetano, trascritta come «xocxoc mion gi, sumo yoto», cioè «??? mi ‘ong gi gsum yod do». Il latino: non quat-

tuor, sed tres tantum esse mostra chiaramente che la prima parola non può essere che bzhi, ‘quattro’.

di questioni profane sono d’accordo, ma sulle grandi cose di Dio entrambi abbiamo il dovere di parlare con estrema chiarezza. Io sono un misero viaggiatore in terra straniera, ma anche tu qui non sei considerato un maestro autore-vole. Vai in pace».Nonostante fosse agosto, nevicava, e tuttavia ci mettemmo a fare i preparativi necessari per il viaggio: comperammo altri tre cavalli per por-tare i bagagli nel deserto, e assoldammo altri tre servi, o per meglio dire ladri, col compito di badare agli animali e di farci da guide. Ci facemmo anche scrivere dall’intendente del re una lettera di presentazione per un lama78 che contavamo di incontrare, e il 16 di agosto par-timmo. Dopo venti giorni, sfiniti per il freddo e con i cavalli macilenti per la fame, arrivammo finalmente a Texegam [Tashigang (Bkra shis sgang)], il 7 di settembre dell’anno del Signore 1715. Texegam è un piccolo villaggio di appena cento abitanti; qui in compagnia di un musul-mano di cui ci eravamo guadagnati l’amicizia con piccoli regali, salimmo a far visita al lama che viveva in una comunità di monaci sulla cima di un’altura,79 e gli consegnammo la lettera di presentazione scritta dal suo amico. Dopo aver-la scorsa, e dopo lo scambio di doni, ci esortò a farci animo e promise di aiutarci a raggiungere Lassa [Lhasa] per quanto fosse in suo potere. Poi ci informò che la vedova del governatore della regione era stata convocata dal re di Las-sa80 e sarebbe partita in uno dei prossimi giorni

78. Desideri aggiunge che ottennero lettere di rac-comandazione e passaporti non solo per il lama di Tashigang (la capitale della regione di Ngari (Mnga’

ris) ma anche per il governatore e l’intendente del distretto [MITN 5, pp. 171-172 (si veda anche, a p. 247, la nota 68 di L. Petech)].79. Tucci, che fu a Tashigang durante la spedizio-ne del 1933, osservò che il monastero, della setta Drukpa Kagyupa (‘brug pa bka’ brgud pa), sede di un’incarnazione molto importante, «è stato costrui-to sopra una solida roccia, tra due vallette, al sicuro di ogni pericolo» [Giuseppe TUCCI, Cronaca della Mis-

sione Scientifica nel Tibet Occidentale (1933), Reale Accademia d’Italia, Roma, 1934, pp. 395: 152].80. Il sovrano di Tibet, che Freyre designa come ‘re-

di ottobre. «Prima di partire – egli disse – verrà da me per ricevere la sua benedizione: allora le chiederò il favore di condurvi a Lassa nel modo più confortevole. Appena arriverà la governa-trice, Caçal, vi consiglio di andare a trovarla, portando immancabilmente con voi dei regali. Allora lei darà ascolto ai miei consigli riguar-danti il vostro caso, vi riceverà con piacere e si prenderà cura di voi durante tutto il viaggio. Accettammo il consiglio del sacerdote tartaro [mongolo]81 e tornammo alla nostra tenda col-locata nella pianura. Indugiammo a lungo là, e così consumammo le provviste che avevamo, così da essere costretti a rifornirci di vettova-glie tanto per il presente quanto per il futuro viaggio. Il freddo e la furia del vento erano così inclementi che, mentre un giorno il padre Ippo-lito si lavava la fronte prendendo l’acqua con le mani dal fiume, questa a contatto col viso gelò e – stupefacente a vedersi – sui peli della sua barba comparvero tanti ghiaccioli.Poiché la governatrice Caçal tardava a venire, il lama ci invitava di tanto in tanto per parla-re con noi, e ci offriva dei cibi e altri doni; si informava sulle usanze del nostro paese, chie-dendoci quanto fosse distante e quanti anni occorressero per andarvi. Una volta ci rivolse questa domanda: «Esiste un solo Dio o ve ne sono molti?» Rispondemmo che c’è un solo Dio che non ha in sé né un inizio né una fine,82 che ha creato con la sua volontà tutte le cose e le conserva tutte con infallibile potenza, tan-to a lungo quanto da Lui stabilito; giudica cia-scuno di noi dopo la morte assegnando pene eterne ai malvagi e ricompense eterne a chi lo

golo’ (cioè re di minore importanza), in quel tempo era Lajang (Lha bzang) Khan (1658-1717). Desideri spiega che la vedova del governatore era subentra-ta al marito nel comando del distaccamento mili-tare impegnato nella difesa dei confini occidentali, minacciati dagli Zungari, e che un nuovo distacca-mento avrebbe sostituito il precedente [MITN 5, pp. 172-173].81. In Europa, dal Medioevo all’Ottocento, i mongoli venivano chiamati tartari.82. Tutta la discussione teologica che segue è omes-sa nella traduzione di Filippo De Filippi.

ama; come la ragione insegna, in Lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo83, e secondo ragione non si può trovare un altro al di fuori di Lui. Ascoltandoci parlare di giustizia retributiva, ci chiese quale opinione avessimo riguardo all’anima. Rispondemmo che ogni essere uma-no ne ha una propria che Dio crea dal nulla e infonde fino dal seno materno, una per cia-scun corpo; ed egli nasce e muore e nell’altra vita riceve una sorte corrispondente a quanto di buono o di cattivo ha compiuto sulla terra. «Non è così – disse lo straniero – bensì trasmi-gra da un corpo all’altro ed espia nel tempo le proprie colpe, finché non sia purificata e possa così reincarnarsi in un essere umano. Questo è comprovato dal fatto che anche la giustizia umana punisce la violazione della legge». «Si-gnore – ribattemmo – se ricorri alla dottrina della metempsicosi per giustificare l’espiazione dei peccati, ti confuti con le tue stesse parole, giacché anche il corpo deve subire una pena. Noi uomini spesso coinvolgiamo con veemenza nel peccato il nostro corpo oltre alla nostra ani-ma. Poiché il corpo gode i frutti del suo piace-re, perché non affermi che anch’esso trasmigra e in tal modo subisce una punizione? [Poiché il corpo in effetti non trasmigra] allora nemmeno l’anima può farlo, e se si verificasse ciò [ossia che l’anima trasmigra] non saremmo mai senza peccato. Infatti uccidiamo, cuciniamo e man-giamo quegli animali in cui tu sostieni che le nostre anime trasmigrando risiedano». «È vero – rispose – che gli uomini si contaminano ucci-dendo gli animali», e non aggiunse altro.I giorni se ne andavano via con noi accampati lungo il fiume. Si avvicinava il 29 di settembre e, messi in apprensione dal fatto che l’aria si faceva più scura del solito, a sera rinforzammo i picchetti della tenda e ci mettemmo a dormire. Quand’ecco che durante la notte venne giù una tale quantità di neve che il padre Ippolito, come se cielo e terra fossero sconvolti, pensò solo a fuggire e, dimenticando di prendere il basto-ne, raggiunse la cucina del musulmano. Quello

83. Citazione da San Paolo, Atti, 17:28: «in ipso

enim vivimus et movemur et sumus».

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mandò i servi a mettere in salvo le nostre cose e le fece sistemare nella cucina, dove ci accolse. La tenda, abbandonata e pericolante a causa del peso della neve, finì per crollare a causa del-la neve caduta ancora la notte successiva.Poiché mi è capitato qua e là di menzionare i lama, voglio dire qualcosa sull’origine del nome, sul vestiario, sui templi, sulle preghiere, sulla gerarchia tipici dei suddetti lama. Dunque, lamo in lingua tibetana significa ‘via’, e lama ‘colui che indica la via’.84 Indossano gambali di cuoio o di lana per coprirsi le gambe fino alle cosce, sul petto una maglia di lana e sopra una lunga tunica che ricorda il collobio85 dei nostri monaci, con tanto di fascia o cordiglio alla vita; sulla testa portano il calamanco,86 copricapo ornamentale simile alla mitra che si applica tra-sversalmente dalle orecchie ad un angolo della fronte ed è lungo circa un cubito. Tutti questi paramenti sono di colore rosso.87 Completa l’abbigliamento un manto che avvolge le spalle in modo da lasciar libere le braccia per le atti-vità manuali. I loro templi sono imponenti, ab-bastanza puliti e costruiti con una certa abilità; tutto intorno vi sono le celle dei lama. Se qual-cuno di loro si accorge di leggere meno spedi-tamente, si mette con tenacia ad imparare il contenuto a memoria, senza tener conto della fatica impiegata. I lama ricevono le porzioni di

84. Seppur apparentemente plausibile, l’osservazio-ne etimologica di Freyre non è corretta, in quanto «lam, ‘via’ e bla-ma, ‘superiore o maestro’ sono pa-role etimologicamente distinte» [L. Petech in MITN 7, p. 230, nota 13]. In realtà lama non è che l’equiva-lente del sanscrito guru, ‘maestro’.85. Tunica senza maniche o con maniche corte usata dai primi monaci cristiani.86. Variante ortografica della parola tardo-latina ca-

melaucium / calamaucum, che designa un berretto di pelo di cammello o feltro [J. F. NIERMEYER, Mediae

Latinitatis Lexicon Minus, Brill, Leiden, 1976, p. 118.87. Questa descrizione degli abiti rossi forse indica che Freyre ebbe più familiarità con i lama detti dei ‘berretti rossi’ – per esempio della scuola dominante in Ladakh e nelle zone limitrofe del Tibet occidentale, i Drukpa Kagyupa – che con quelli detti dei ‘berretti gialli’ (Gelukpa ).

cibo secondo la carica che ricoprono: ognuno riceve una data quantità di escrementi bovini o di altro animale come combustibile, e poi carne di bue, di capra o di pecora, ed infine un po’ di farina d’orzo tostato. I più giovani servono i più anziani dietro un modesto compenso. Si entra nella comunità dei lama ancora adolescenti e non si prende moglie, contentandosi di rappor-ti sessuali88 occasionali che non si ha ritegno a nascondere e sono anzi di pubblico dominio. Se qualcuno si sposa – e talvolta accade, come io stesso ho visto a Ladâka – gli altri cessano di affidarsi a lui per le questioni spirituali. E’ come se ufficialmente, non essendo in grado di gestire la sua vita privata, fosse inadeguato a giovare a quella degli altri. A mio avviso la popolazione tibetana, come quella dei tartari, conosciuti anche come cal-mucchi e sokpoz89, non estendono le pratiche religiose ai cibi e alle bevande, come gli altri in-diani, limitandole piuttosto alle sole preghiere e cerimonie sacrificali agli idoli. Nello scambio dei doni non sono mai prevenuti nei confronti degli altri, a qualunque gente, famiglia o tribù appar-tengano; anzi stabiliscono relazioni amichevoli con i forestieri, bevendo insieme a loro per ini-ziativa degli uni o degli altri.90 Poiché i musulma-ni, soggetti a molte limitazioni, vedono che i po-poli infedeli dell’India tropicale hanno una prassi religiosa che consiste soprattutto in riti di purifi-cazione corporale, ritengono i tibetani e i tartari non solo diversi dagli indiani, ma dichiarano che non sono infedeli né pagani né musulmani. Per-ciò molti hanno avuto modo di sospettare che i tibetani siano quanto meno cristiani eretici; ma non si deve prestare fede a tale opinione, visto che i tibetani sono veramente pagani e infedeli, come lo furono un tempo gli europei.

88. Invece di copulare (portoghese: copular) si legga copulari (tardo latino: ‘avere rapporti sessuali’).89. Con i nomi Kalmuk (dal russo Kalmyk) e Sokpo (Sog po) venivano designati, nel Tibet occidentale, i mongoli Qośot all’epoca sovrani del Tibet [L. Petech in MITN 7, p. 231, nota 16].90. Il brano seguente, fino al successivo capoverso, è omesso nella traduzione di Filippo De Filippi.

Ora, poiché le notizie che provengono da molto lontano ingigantiscono in ragione della distan-za, per alcuni di noi il titolo di ‘Grande Lama’ ha acquistato la rilevanza di ‘Sommo Pontefice’, mentre chiunque svolga il suo compito anche solo in una Kompâ [gompa (dgon pa)], cioè nel monastero, viene chiamato ‘Grande’ [Lama]. I tartari e i tibetani sono popoli poverissimi, pertanto offrono in sacrificio ai loro dei, che hanno forma umana, oggetti altrettanto pove-ri, immagini modellate nel burro, orzo crudo o cotto. Per onorare tali dei non disdegnano di offrir loro corna di bue o di capro, collocandole soprattutto lungo le piste che attraversano le montagne. Quando uno dei superiori muore e la sua anima migra non in un altro corpo, come falsamente credono, ma nell’abisso dell’infer-no, un altro viene eletto al suo posto, non tra-mite uno scrutinio,91 ma per opera del diavolo. La scelta avviene così: un demone maligno pe-netra nell’anima di uno di loro, solitamente un parente del defunto, e gli rivela dove si trovano dei piccoli oggetti, ad esempio: «Nel tal luogo c’è una certa quantità di oro, sbrigatevi a pren-derlo»; oppure: «Prima di morire ho lasciato i gambali sotto un92 sedile; non fateli marcire»; «Entrando nella mia cella troverete sulla sini-stra il mio collobio vicino ad una trappola per topi. State attenti che quelle bestiole non vi facciano il nido»; «Presto, entrate nella stalla; lì stanno delle pelli di bue che avevo nascosto sotto la mangiatoia dell’asina per paura dei la-dri: riportatemele»; e via dicendo. Con questo, e con altri mezzi, il diavolo93 trionfa e cattura le anime facendo loro credere di stare assistendo ad un fenomeno di reincarnazione. Alla fine la persona posseduta dal demonio viene procla-mata lama da tutto il monastero.Quando la governatrice si recò dal lama per chiedergli la benedizione e la licenza di partire,

91. Non scrutinio, cioè non per una indagine genui-na, come si asserisce.92. Nel testo fulano, portoghesismo per aliquo [L. Petech in MITN 7, p. 231, nota 17].93. Nel testo Zabulo. Zabulus è una forma latina tar-da di diabolus.

ecco che ci presentammo a lei e con atteggia-mento reverente le offrimmo una patia94 del Bengala, tinta di rosso e finemente lavorata – i tartari gradiscono particolarmente le stoffe ros-se – e in aggiunta dieci scudi. Dall’espressione raggiante del volto lei mostrò di gradire i doni, e guardandoci negli occhi ci chiese con curio-sità tipicamente femminile: «Fratelli, da dove siete venuti in questo paese? Quale destino vi ha condotti qui? Vi prego, ditemelo». Tramite l’interprete musulmano le parlammo dettaglia-tamente del nostro progetto di recarci a Lassa, e aggiungemmo: «Ma poiché non siamo tanto abituati ad un freddo così pungente e non co-nosciamo né il clima né le vie di questa regio-ne, vorremmo viaggiare insieme a te e col tuo seguito, se vi degnate di prendere con voi dei pellegrini animati dalle migliori intenzioni. Sia-mo disposti a pagare la somma di denaro che ri-terrai necessaria per le nostre spese». Rispose la donna: «Non parlatemi di denaro. Non per que-sto, ma in nome di Conchoquo [könchok (dkon mchog)] – cioè Dio95 – mi prenderò cura di voi aiutandovi con ciò di cui dispongo. Solo accet-tate questo consiglio: non fate assegnamento sui cavalli perché trovano l’erba riarsa dal gelo o sepolta nella neve e così muoiono di fame; piut-tosto servitevi di buoi come animali da traspor-to. Ho l’ordine da parte del re, per tutti i pastori tibetani che incontro sul mio cammino, di farmi

94. Patiya, termine hindi, dal sanscrito pañña / paññaka / paññika, panno fine o di ottima qualità, un pezzo di buona seta.95. Freyre ripete qui un errore già fatto da António de Andrade, il quale aveva frainteso il significato del termine tibetano könchok, ‘gioiello’, interpretandolo come ‘Dio’, mentre invece si riferisce ai ‘tre gioielli’ [dkon mchog gsum: sanscrito: triratna] del Buddi-smo, cioè il Buddha, il Dharma (l’insegnamento) e il Sangha (la comunità religiosa) [Hughes DIDIER, Les

Portugais au Tibet. Les premières relations jésuites

(1624-1635), Éditions Chandeigne, Paris, 2002: pp. 313-314. Anche Desideri fece lo stesso errore quan-do era in Ladakh, come risulta nelle lettere scritte in quel tempo [MITN 5, pp. 26, 36]; errore corretto suc-cessivamente, fornendo una spiegazione accurata del concetto [MITN 6, pp. 211-216, 303-305].

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condurre i loro buoi per portare i bagagli fino ad una stazione di cambio dove gli animali saranno dati in consegna ad altri; questi li caricheranno allo stesso modo sul dorso dei loro buoi e pro-seguiranno la marcia, mentre i primi torneranno indietro. Così i pastori ci scorteranno di tappa in tappa e potremo pensare nel migliore dei modi a noi e ai cavalli. Questo servizio vi costerà un po’ di denaro, ma non vi pentirete di queste spese». Il giorno dopo tornammo da lei con cin-quanta scudi e dicemmo: «Siamo stranieri, non conosciamo la lingua di queste regioni. Come potremo sapere quanti buoi e di che taglia fan-no al caso nostro, o come caricarli ogni giorno? Stabilisca la nostra signora Caçal quanti96 buoi ci occorrano, e come il suo attendente si occupa di tutto ciò che gli è stato affidato, così deside-riamo anche noi che si occupi di ciò che ci ap-partiene». «Avete fatto bene a rammentarmelo – disse –; imballate tutto e consegnatelo a lui».Così facemmo, e finalmente l’otto di ottobre dell’anno di grazia 1715, confidando nella pro-tezione divina e rimettendoci al potere della Sua Parola, lasciammo le capanne di Texegam in compagnia della donna tartara. Costei si mo-strava assai premurosa verso di noi, ristorandoci di tanto in tanto con del cibo, e quando il freddo ci intirizziva e il vento ci seccava la pelle tanto da farmi esclamare più di una volta – lo confesso – «maledetto ventaccio!», arrivava con del cha [tè] caldo e della carne; dopo esserci rifocillati, noi miseri stavamo subito meglio. Talvolta tra-mite l’interprete ci parlava pure, esortandoci a non lasciarci spaventare dalle montagne o dalle masse di neve, e a rimanere sempre nel gruppo. Un giorno vedendomi irrigidito per il freddo, si fece portare delle piccole pelli di capra e mi disse: «tolga il giaccone e me lo consegni». Lo passò poi a uno dei servi e gli ordinò di cucire le pelli alle maniche formando delle piccole sac-che, con la lana nella parte interna, perché in ogni momento le mani fossero tenute al caldo. Un altro giorno uno dei suoi cammelli morì nel-

96. Il testo ha in questo punto quinque (‘cinque’), che non dà alcun senso nel contesto; al suo posto si legga invece quotquot (‘quanti’).

la neve, e anche al cavallo su cui viaggiavo97 vennero le ulcere di fame allo stomaco e uscì sangue dalle narici, perciò non fu in grado di procedere oltre. Stramazzò morto verso sera sulla neve; accanto a me c’era solo un servo musulmano. Dopo il tramonto scomparvero anche le tracce di quelli che mi precedevano. Non sapevo cosa fare, e mi lasciai cadere nella neve; poi mi accostai alla carcassa del cavallo per riscaldarmi98 al contatto col suo corpo e così aspettare il mattino. La governatrice, non appe-na il padre Ippolito la mise al corrente del fatto, molto preoccupata per la mia vita, mandò due servi con tre cavalli a portarmi soccorso, e dav-vero mi strappò alle fauci della morte. Poi fece riprendere le forze a me e ai miei compagni con carne e riso. Il giorno successivo mi fece dare un altro cavallo da sella e partimmo, non lungo una pista tracciata ma in mezzo alla neve.99

Tralascio molti altri particolari, dato che non si può dire tutto; eppure100 non so passar sotto si-lenzio quale fu la nostra vita per quattro mesi nel deserto. Quando ci fermavamo per una so-sta, drizzavamo prima di tutto le tende, libera-vamo i cavalli dal loro carico, permettendo loro di procurarsi il foraggio, o per essere più precisi una parvenza di foraggio; poi li legavamo per una zampa e andavamo a far raccolta di ster-co bovino, ciascuno in una direzione. I buoi dei viaggiatori nel loro andare e venire lasciano per via i loro escrementi, che sono di non poca uti-lità per chi vi passa in seguito. Raccoglievamo lo sterco in un lembo della veste, lo portavamo all’accampamento e ne consumavamo una metà accendendo il fuoco quel giorno; l’altra metà la riservavamo all’indomani. All’alba ci levavamo,

97. Equus meu. Freyre scrive qui il portoghese meu

invece del latino meus.98. Nel testo attraheam, ma si legga attraherem.99. Questo episodio è raccontato dettagliatamente anche da Desideri, il quale ci fornisce ulteriori infor-mazioni: la data precisa di quella serata (22 novem-bre 1715), e la precisazione che “il servo mauro” con Freyre era l’interprete musulmano [MITN 5, pp. 181-182].100. Invece di atuem si legga autem.

accendevamo il fuoco con la pietra e alimentan-dolo col combustibile animale ci riscaldavamo. Poi mettevamo a sciogliere del ghiaccio in una pignatta fino a farlo bollire, e aggiungevamo châ, sale e burro. Frattanto, dopo aver radunato i cavalli, che per tutta la notte erano rimasti legati al loro misero pascolo, li sellavamo, e subito dopo ci intiepidivamo le mani al fuoco perché non [ge-lassero e] diventassero inservibili. Poi tornavamo a sederci intorno al fuoco, impugnando salda-mente le redini con una mano e cacciando l’altra in seno fino a farne uscire ciascuno una scodella di legno; sorseggiavamo il pasto, o piuttosto la brodaglia, montavamo di nuovo a cavallo e ri-partivamo. Non ci cambiavamo mai gli abiti, così eravamo pieni di pidocchi; allora di tanto in tanto ci mettevamo seduti al sole, ci toglievamo i vestiti [e ci ripulivamo]. Facevamo prima a spazzarli via dalla pelle che a toglierli uno alla volta.Procedendo in questo modo nel deserto, arri-vammo ad un luogo montano, difficile da sca-lare e privo di foraggio. Due cavalli, uno di un tibetano e uno dei nostri, si accasciarono mori-bondi per la fame: ci riprendemmo le rispettive museruole e li lasciammo lì. Ci fermammo a lungo al tramonto di quello stesso giorno, e là dov’eravamo non riuscimmo a trovare né erba né sterco bovino, così rimanemmo fermi ad aspettare la morte per noi e per gli animali. Ma ecco arrivare a corsa da lontano un uomo che ci gridava: «Andate da Caçal e chiedete erba e sterco di bue!» (venivano dal villaggio in cui dovevamo giungere l’indomani). Mi precipitai avanti, scivolando a più riprese sul ghiaccio, e mi fermai all’ingresso della sua tenda con le mani alzate. Caçal mi apostrofò con queste pa-role: «Lama, perché non entri e vieni vicino al fuoco?» Le risposi balbettando: «Zâ menduc, xingue menduc» [sa minduk, shing minduk (za ba min ’dug, shing min ’dug), cioè «Non abbia-mo né paglia né legna».101 All’udire questo la tartara diede ordine che ci fossero immediata-mente dati sette balle di paglia e tutto lo sterco di bue che giudicavamo necessario. Da quel

101. Il testo tibetano significa ‘non c’è cibo, non c’è legna.

giorno – cominciavamo ormai ad incontrare insediamenti umani – per ordine della donna non ci mancò mai la nostra quantità giornaliera di paglia e combustibile.Lasciateci alle spalle le zone desertiche, ci avvi-cinammo ai primi villaggi, che non meritano di essere menzionati essendo costituiti da due o tre sole abitazioni; il 15 di febbraio dello stes-so anno [1716] ci accolse finalmente quello fra essi un po’ più esteso, chiamato Saquia [Sakya (Sa skya)]. I padri cappuccini, che dall’Indostan si recano in Nepal, si fermano qui puntando su Lassa, e fanno ritorno per la medesima via, tranne uno che da Lassa giunse in Bengala pas-sando per Damaxor [Brenjong (’bres mo ljongs = Sikkim].102 Superata anche Saquia dove la-sciammo la signora governatrice, rimasti soli ma sotto la guida del Signore, il 29 febbraio ci avvicinammo a Zagarché [Shigatse (gzhis ka rtse)]. Oltrepassammo anche questa e dopo dodici giorni entravamo a Lassa. Lassa è una cittadina dell’estensione di tre sole parrocchie, che da undici anni i tartari hanno strappato ai tibetani e la governano.103 Adesso vi regna pacificamente un re chiamato Gingy-kan [Genghis Khan].104 Negli ultimi tempi sono giunti lì a Lassa cinque o sei padri cappuccini della Marca di Ancona;105 essi, o per penuria di

102. Il viaggio attraverso il Sikkim fu compiuto, da solo, dal P. Giovanni da Fano nel 1711; lo stesso pa-dre tornò in India, sempre attraverso il Sikkim, nel 1711-1712, insieme al P. Domenico da Fano, quan-do il 25 dicembre 1711 i cappuccini abbandonarono Lhasa [L. Petech in MITN 1, p. XLVII-XLVIII; in MITN 7, p. 231, nota 19].103. Riferimento al colpo di stato nel Tibet centrale con l’assassino del reggente Sangye Gyatso (Sangs rgyas rgya mtsho) nel 1705 [Luciano PETECH, China

and Tibet in the Early XVIIIth Century. History of the Establishment of Chinese Protectorate in Tibet, E. J. Brill, Leiden, 1950 (Second, revised edition, 1972, pp. 10-13)].104. Il re, Lajang Khan, era sempre chiamato Gen-ghis Khan dai missionari cattolici.105. Freyre si riferisce alla prima missione tibetana dei cappuccini (1707-1711), guidata dal P. Giuseppe da Ascoli e, dopo la morte di questi (1710), dal P. Fe-

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Una Relazione sui Tibet e sulle loro vie

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Una Relazione sui Tibet e sulle loro vie

conversioni o per altre ragioni – ad esempio la scarsa dimestichezza con le parlate locali – se ne andarono da qui nel Bengala. Due di loro morirono a Pattena [Patna]. Questi regni sono molto inadatti agli europei, sia per il freddo in-tenso che per la scarsità di cibo. Lasciato a Lassa il reverendo padre Ippolito con l’incarico di capo [della missione], il 16 di aprile dell’anno 1716 dalla nascita di Nostro Signore [partii]106 e, dopo un viaggio di quarantadue giorni passai in Nepal, dove trovai cinque pa-dri cappuccini e mi trattenni presso di loro per cinque mesi. Uno di loro morì, e così rimasero in quattro fra cui Domenico da Fano, Prefetto della Missione Tibetana sostenuta dalla Sacra Congregazione Propaganda Fide.107 Proprio in quel periodo in tutto il Nepal – vi sono tre città-stato rette da altrettanti re fra loro indipenden-ti – infuriò una terribile pestilenza così morti-fera che in meno di tre mesi vennero cremati i cadaveri di quasi ventimila persone.Oltre al flagello della peste, il popolo stesso vi

lice da Montecchio. Furono a Lhasa cinque cappucci-ni: i padri François Marie de Tours (morto a Patna nel maggio 1709), Giuseppe da Ascoli (morto a Patna il 20 dicembre 1709), Domenico da Fano, Giovanni da Fano, e il frate laico Michelangelo da Borgogna [L. Petech in MITN 1, p. XLIII-XLVIII]. 106. La data del 16 aprile 1716 viene talora inte-sa come data di arrivo del Freyre in Nepal, anziché come data di partenza da Lhasa: una interpretazione accettabile dal punto di vista della grammatica latina, ma non da quello della realtà fattuale, in quanto se Freyre fosse arrivato in Nepal il 16 aprile, dopo un viaggio di 42 giorni, avrebbe dovuto partire da Lhasa il 6 marzo, cioè diversi giorni prima di esservi giunto In questo errore interpretativo incorre Petech in MITN

1, p. 206, CL 30, nota 1]. Partito da Lhasa il 16 aprile, Freyre sarebbe arrivato in Nepal (cioè nella valle di Katmandu) il 28 maggio, 1716, data perfettamente in accordo con le notizie del suo recente arrivo forni-to da Domenico da Fano nella lettera dell’ 8 giugno 1716 [MITN 1, p. 80].107. Gli altri cappuccini erano i padri Gregorio da La-pedona (morto a Kathmandu nel luglio 1716), Fran-cesco Orazio della Penna, Giuseppe Felice da Morro e Giovanni Francesco da Fossombrone [L. Petech in MITN 7, p. 231, nota 22].

aggiunse qualcosa di suo: insorse contro il re, lo cacciò vergognosamente e massacrò sette suoi servi in un delirio di furore ferino.108 Poi, giacché il diavolo è fin dal principio ispiratore di peccato e tuttora si consuma in una tetra invidia, spinse i pagani ad aggredire i Padri, ma sia per la pioggia che cadde a scrosci nella notte – un angelo del cielo ci proteggeva –, sia per la furia di saccheg-giare le abitazioni, furono miracolosamente di-stolti dal mettere in atto i loro propositi omicidi. La motivazione pretestuosa del loro odio verso i Padri, che chiamavano anche Mogol, riguardava il loro saio. Infatti una volta giunsero a Pattena vestiti di scuro come impone la regola dei cap-puccini, e il loro superiore, di nome Frate Felice [da Montecchio], strinse amicizia con il Qazi, un magistrato dei musulmani. Questi rimase con-trariato non dal padre ma dal suo abito scuro, e chiese al cappuccino di dismettere il saio color mandorla e di adottarne uno azzurro. Subito diede ordine di tingere di azzurro certe stoffe di seta e ne fece dono al cappuccino in segno di amicizia con queste parole: «Tagliatele conve-nientemente e fatevi degli abiti». Senza indugio e tutti contenti, i padri cappuccini si affrettaro-no a indossare sai azzurri.Ma mentre imperversava la pestilenza i nepalesi cominciarono a criticare il colore chiaro dell’abi-to dei cappuccini, sostenendo che tale colore era sgradito agli dei e li offendeva, al punto che avevano spezzato il ponte subacqueo im-maginario che collega il Bengala a Lanka, cioè ai loro Campi Elisi; quindi le anime dei defunti, trovando il ponte distrutto, tornavano indietro e sterminavano i vivi. Pertanto si doveva elimi-nare il motivo dell’ira degli dei e placarli, natu-ralmente con l’uccisione dei padri. I cappuccini corsero saggiamente ai ripari: immediatamente si precipitarono ad acquistare delle stoffe di co-lore bianco, chiamarono dei sarti e in men che non si dica si fecero confezionare a domicilio

108. Letteralmente ‘al modo delle baccanti’ (baccha-

tim). Il termine si riferisce ai riti dionisiaci orgiastici dell’antica Grecia, che prevedevano l’uccisione e lo squartamento per chi li avesse profanati; si veda ad esempio le Baccanti di Euripide.

vesti al modo dei nepalesi. Questi, quando vi-dero i padri così [vestiti], dissero: «Bene, eccovi diventati da mogol nepalesi come noi».Ma dopo pochi giorni, rimasto uno di loro in Nepal,109 gli altri tre giunsero a cavallo a Lassa e alloggiarono nello stesso albergo di padre Ip-polito con alcuni servi110 tibetani. Era questa la casa dove risiedevano tutti i cappuccini quando si recavano a Lassa. L’edificio apparteneva al Tesoro Reale e per servirsene pagavano un affitto mensi-le, poiché è difficile reperire un alloggio a Lassa.I padri cappuccini hanno costruito una foreste-ria a Chandernagor [Chandannagar], in Benga-la, e una a Pattena, e dichiarano di volerne co-struire altre tre, una nel Nepal, un’altra a Lassa, e l’ultima nella città di Takpo [Dakpo (Dvags po khyer)]111 che dista da Lassa otto o dieci giorni di cammino e dove si sa che è possibile trovare dell’uva112.Quanto a me, arrivai dal Nepal a Pattena e là caddi gravemente ammalato. Vi rimasi tre mesi dagli olandesi che, per così dire, mi strapparo-no ormai in decomposizione alla tomba,113 si presero cura di me pagando di tasca loro, mi trattarono con sincero affetto. Nella mia insuf-ficienza non sono capace di esprimere a paro-le la carità dimostrata alla mia misera persona

109. Si tratta di Giuseppe Felice da Morro.110. Invece di familis si legga famulis.111. Dakpo è in realtà il nome della regione. La località, rifugio di Desideri fra il 1718 e il 1720, è menzionata dallo stesso missionario, come Trong-gne, in una lettera (DL. 17, in MITN 5, p. 80), oppure Trong-g-neê nella Relazione (MITN 7, p. 183; SWEET e ZWILLING, Mission, p. 194). Il luogo è stato finalmen-te identificato come Tronga (tibetano: Grong lnga), una cittadina allora importante del Dakpo superiore (Dvags po stod), presso il confine con la provincia di Kongpo: si veda Frank LEQUIN e Albert MEIJER, Samuel

Van de Putte, Een Mandarijn Uit Vlissingen (1690-

1745), Stichting VOC Publicaties, Middelburg, 1989, pp. 104: 61-63.112. Necessaria per ricavarne del vin santo necessa-rio alla celebrazione eucaristica. 113. Freyre allude qui al passo del Vangelo che tratta del miracolo di Gesù che resuscita Lazzaro facendolo uscire dalla tomba (Giovanni 11: 38-39).

dai padri cappuccini, soprattutto dal reverendo Padre Frate Felice [da Montecchio];114 quest’ul-timo sedendo notte e giorno al mio capezzale mi accudiva così paternamente che, se anche volessi esprimere tutta la mia gratitudine per il bene ricevuto e avessi cento lingue, non saprei farlo mai in modo soddisfacente.Soltanto queste poche cose io, padre Manoel Freyre, scrivo alla Vostra Paternità sulla missio-ne tibetana, affinché la Vostra Paternità abbia qualche informazione sia sulle vie sia sui Regni del Tibet, sia in particolar modo sui missiona-ri della Propaganda che, anche se non hanno ottenuto alcun risultato da undici anni, pure mal sopportano che i gesuiti mandino operai alla messe che ritengono invece appartenga a loro, e si sono già lamentati a lungo per lettera con Roma.115 Spero che Padre Ippolito scriverà a Vostra Paternità più diffusamente. Padre re-verendissimo, invoco, supplichevole, la vostra proficua benedizione.

Agra, 26 aprile 1717Servo in Cristo Manoel Freyre

114. Felice da Montecchio (1671-1732) fu nominato Vice-Prefetto della missione del Tibet nel 1705, e Pre-fetto nel 1710; successivamente ebbe l’importante carica di Visitatore cappuccino a Patna. Fu a Lhasa per un breve periodo nel 1721 [L. Petech in MITN 1, p. CXIII] e fece con Desideri parte del viaggio di ritor-no (da Kuti a Patna) [MITN 7, pp. 6-7]. In seguito toc-cò proprio a Felice da Montecchio perorare la causa contro Desideri nella causa per la titolarità della mis-sione del Tibet. il cappuccino presentò a Propaganda Fide ben 12 memorie (oltre a tre corposi allegati di documenti). Un gesuita contemporaneo descrisse – giustamente – quelle memorie come contenenti «di molta acrimonia e sarcasmo assai pungente» contro Desideri e la Compagnia di Gesù [Silvia CASTELLO PANTI, Nuovi documenti su Ippolito Desideri, in “Miscella-nea di storia delle esplorazione”, Vol. I, 1975, p. 174 [si veda anche MITN 3, pp. 38-46]. Copia di tutte le scritture di Montecchio sull’argomento sono conser-vate nel dossier CP 84, conservato nell’Archivio Sto-rico di Propaganda Fide.115. Invece di multa si legga multas.