Mann-La Morte a Venezia

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Thomas Mann La morte a Venezia (Der Tod in Venedig, 1912) I Gustav Aschenbach o von Aschenbach, come suonava ufficialmente il suo nome dal giorno del suo cinquantesimo compleanno, in un pomeriggio di primavera di quell'anno 19... che per mesi e mesi mostrò al nostro continente una faccia tanto bieca, era uscito dalla sua casa della Prinzregentenstrasse in Monaco di Baviera per intraprendere una lunga passeggiata. Sovreccitato dal lavoro difficile e insidioso compiuto nelle ore antimeridiane, che esigeva proprio allora estrema sagacia, prudenza, sottigliezza e rigore della volontà, nemmeno dopo il pranzo di mezzogiorno lo scrittore aveva saputo arrestare l'impulso produttivo che gli vibrava dentro, quel motus animi continuus in cui consiste secondo Cicerone l'essenza dell'oratoria, e non era riuscito a trovare il sollievo del sonno, a lui tanto necessario nel corso della giornata contro il progressivo

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Thomas Mann

La morte a Venezia

(Der Tod in Venedig, 1912)

I

Gustav Aschenbach o von Aschenbach, come suonava ufficialmente ilsuo nome dal giorno del suo cinquantesimo compleanno, in un pomeriggiodi primavera di quell'anno 19... che per mesi e mesi mostrò al nostrocontinente una faccia tanto bieca, era uscito dalla sua casa dellaPrinzregentenstrasse in Monaco di Baviera per intraprendere una lungapasseggiata. Sovreccitato dal lavoro difficile e insidioso compiuto nelle oreantimeridiane, che esigeva proprio allora estrema sagacia, prudenza,sottigliezza e rigore della volontà, nemmeno dopo il pranzo dimezzogiorno lo scrittore aveva saputo arrestare l'impulso produttivo chegli vibrava dentro, quel motus animi continuus in cui consiste secondoCicerone l'essenza dell'oratoria, e non era riuscito a trovare il sollievo delsonno, a lui tanto necessario nel corso della giornata contro il progressivo

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logoramento delle sue forze. Così, poco dopo il tè, aveva preso il largonella speranza che l'aria e il moto l'avrebbero rimesso in sesto e gliavrebbero procurato una serata fruttuosa.Si era al principio di maggio, e dopo settimane di freddo e d'umido era

sopravvenuta una falsa estate. Il Giardino Inglese, quantunque appenalievemente inverdito di tenere fronde, era afoso come in agosto e, verso lacittà, gremito di carrozze e di passeggiatori. Vicino alla trattoria Aumeister,dov'era giunto per viottoli sempre più silenziosi e deserti, egli avevasostato alquanto a osservare l'osteria popolaresca e affollata, davanti allaquale attendevano vetture di piazza ed equipaggi padronali; di là, mentre ilsole volgeva al tramonto, era uscito dal parco, e aveva preso la via delritorno per l'aperta campagna, ma sentendosi stanco e vedendo addensarsiun temporale al di sopra di Föhring pensò di attendere davanti al CimiteroNord il tram elettrico che l'avrebbe riportato in città per la strada più breve.Per caso trovò la fermata e le sue adiacenze deserte di gente. Né sulla

lastricata Ungererstrasse le cui rotaie si allungavano luccicanti in direzionedi Schwabing, né sulla strada provinciale di Föhring si scorgeva unveicolo; nei recinti dei marmisti, dove croci, lapidi e monumenti esposti invendita formavano un secondo cimitero senza morti, non si muoveva nulla,e l'edificio bizantino dell'obitorio giaceva cheto nell'ultimo riflesso delgiorno morente. La facciata, adorna di croci greche e di pitture ieratichedai tenui colori, presenta inoltre iscrizioni simmetriche a lettere d'oro,massime scelte sulla vita eterna, come: «Essi entrano nella casa di Dio» o:«Risplenda per essi la luce perpetua» ; e da alcuni minuti egli ingannaval'attesa leggendo gravemente le sentenze e lasciando che il suo occhiospirituale si perdesse nella loro mistica trasparente, quando, ridesto dallesue fantasticherie, vide nel portico, al di sopra dei due animali apocalitticiche custodiscono la scalea, un uomo il cui aspetto abbastanza fuor delcomune diede tutt'altro indirizzo ai suoi pensieri.Se l'uomo fosse uscito dall'interno dell'edificio attraverso il portone

bronzeo o se fosse venuto di fuori e salito fin là, era difficile a dirsi.Aschenbach, senza approfondir troppo la questione, propendeva per laprima ipotesi. Di statura mezzana, magro, sbarbato e col naso notevolmen-te camuso, l'uomo apparteneva al tipo di pelo rosso e ne aveva la pellelattiginosa e lentigginosa. Evidentemente non era di razza bajuvara;almeno il largo cappello di paglia dalla tesa diritta che portava in capo glidava un aspetto forestiero e venuto di lontano. E vero però ch'egli avevasulle spalle il tradizionale sacco da montagna, un abito di loden giallicciocon la martingala, sul braccio sinistro puntato contro l'anca un

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impermeabile grigio e nella mano destra un bastone dalla punta di ferroche aveva conficcato obliquamente nel terreno e al cui manico appoggiavail fianco, tenendo incrociati i piedi. Con la testa eretta, così che sul colloscarno fuor della floscia camicia sportiva spiccava nudo e prominente ilpomo d'Adamo, egli fissava attentamente lo spazio con occhi incoloriorlati di rosso, fra i quali, in bizzarra armonia col breve naso schiacciato,eran scavate due rughe diritte ed energiche. Così — e forse contribuiva atale impressione il suo posto elevato ed elevante — l'atteggiamentodell'uomo pareva quello di chi domina e sovrasta, ardito o addiritturaferoce; perché sia che egli, abbacinato, ghignasse verso il sole cadente, siache si trattasse di una deformità permanente del volto: le sue labbraapparivano troppo corte, eran tutte ritratte dai denti, di modo che questi,scoperti fino alle gengive, ne sporgevano fuori lunghi e bianchi.È possibile che Aschenbach nel suo esame tra distratto e inquisitivo

dello sconosciuto avesse mancato di cautela, perché improvvisamentes'accorse che quegli ricambiava il suo sguardo, e anzi in modo cosìbellicoso, così fisso negli occhi, così manifestamente risoluto a spingere lacosa all'estremo e a costringere l'avversario alla ritirata, che Aschenbach,spiacevolmente colpito, si voltò e incominciò a passeggiare lungo glisteccati con l'opportuna decisione di non badar più a quell'individuo.L'istante dopo l'aveva già dimenticato. Ma, sia che quell'aria da giramondodello straniero avesse agito sulla sua fantasia, sia che si trattasse d'altroinflusso fisico o morale, s'avvide con meraviglia di uno stranoallargamento del proprio animo, una specie di vagante irrequietezza, undesiderio assetato e giovanile di lontananze, un sentimento così vivace,così nuovo, o almeno così inconsueto e disappreso, che egli, le mani dietrola schiena e gli occhi fissi a terra, si fermò assorto per scandagliare quellasensazione nella sua natura e nel suo fine.Era voglia di viaggiare, nient'altro; ma insorta come un accesso

morboso, ed esaltata fino alla passione, anzi fino all'illusione dei sensi. Ilsuo desiderio divenne veggente, la sua fantasia, non ancora acquetata dopole ore di lavoro, si foggiò un esempio di tutte le meraviglie e gli orroridella terra che in un sol tratto si sforzava di immaginare: egli vide, vide unpaesaggio, una palude tropicale sotto un cielo greve di vapori, umidalussureggiante e mostruosa, una specie di giungla del mondo primitivo,fatta di isole, lagune e acquitrini melmosi — vide tra esuberanti viluppi difelci, tra un intricato ammasso di piante turgide grasse fantasticamentepullulanti, svettare vicino e lontano tronchi pelosi di palmizi, vide alberibizzarramente deformi affondare attraverso l'aria le radici nel suolo o nei

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verdi specchi d'ombra delle acque stagnanti, dove tra i fiori acquaticibianchi e larghi come zuppiere uccelli esotici dalla testa insaccata fra lespalle, dal becco mostruoso, stavano appollaiati su qualche lembo di terrae guardavano immobili da un lato, vide fra i tronchi nodosi dei bambùscintillare le pupille di una tigre accovacciata — e sentì il suo cuore batteredi spavento e di una smania misteriosa. Poi la visione scomparve; escrollando la testa Aschenbach riprese la sua passeggiata lungo i recintidegli scalpellini.Egli considerava il viaggiare — almeno da quando disponeva dei mezzi

per godere a piacer suo i vantaggi delle comunicazioni internazionali —non altrimenti che una precauzione igienica, in realtà contro senso e contronatura, che occorreva prendere di quando in quando; ma, troppo occupatodai problemi che gli eran posti dal proprio Io e dall'anima europea, troppooppresso dal dovere di produrre, troppo alieno dalle distrazioni per essereamante del variopinto mondo esteriore, si era sempre accontentato dell'ideache ognuno può farsi della superficie terrestre senza allontanarsi troppodalla propria cerchia e non aveva mai avuto la più lontana aspirazione alasciare l'Europa. Soprattutto da quando la sua vita volgeva lentamente altramonto, da quando la sua paura d'artista di non compire l'opera — queltimore che l'orologio giunga alla fine della carica prima ch'egli abbiaterminato il suo compito e dato tutto di se stesso — da quando quella pauranon si poteva più scacciare come un'ubbia, la sua vita esteriore si era quasiesclusivamente limitata alla bella città che gli era ormai patria adottiva ealla casa rustica che si era costruito in montagna e dove trascorreva lepiovose estati.Quindi l'impulso così improvviso o tardivo fu tosto moderato e corretto

dalla ragione e dalla disciplina a cui aveva sempre assoggettato se stessofin dall'età giovanile. Era sua intenzione condurre fino a un certo punto,prima di trasferirsi in campagna, l'opera per la quale viveva, e il pensierodi un vagabondaggio attraverso il mondo, che l'avrebbe tenuto per mesi emesi lontano dal suo lavoro, appariva troppo slegato e contrario ai progetti,non si poteva prenderlo seriamente in considerazione. Eppure egli sapevafin troppo bene da quale causa fosse scaturita così inattesa la tentazione.Impulso alla fuga era, ed egli se lo confessò, anelito verso cose nuove elontane, desiderio smanioso di liberazione, di sgravio e di oblio — fugadall'opera, dal luogo giornaliero di un servizio rigido, freddo benchéappassionato. Lo amava, è vero, e quasi amava già anche la lotta snervantequotidianamente rinnovata fra la sua volontà fiera e tenace tante volteposta a cimento e questa crescente stanchezza che bisognava celare, che

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l'opera non doveva tradire nemmeno col minimo segno di rilassamento e dirinunzia. Ma sembrava ragionevole non tendere troppo l'arco e nonsoffocare cocciutamente un bisogno che prorompeva così violento. Eglipensò al suo lavoro, pensò alla pagina che oggi come già ieri aveva dovutolasciare in sospeso poiché non pareva volersi piegare né alla cura pazientené all'attacco improvviso. La esaminò nuovamente, cercò di spezzare o disciogliere l'ostacolo e abbandonò l'impresa con un brivido di ribrezzo. Ilpasso non presentava straordinarie difficoltà, ma paralizzavano lo scrittoregli scrupoli di un disgusto che diventava incontentabilità impossibile asoddisfare. L'incontentabilità a dir vero era stata per lui fin da giovinettoessenza e intima natura del talento letterario, e per amor suo egli avevadomato e raffreddato il sentimento, poiché sapeva che esso tende adaccontentarsi di un allegro suppergiù e di una mezza perfezione. E ora ilsentimento conculcato si vendicava forse abbandonandolo, rifiutando dicontinuare a sostenere la sua arte e a darle ali, e si portava via tutto ilpiacere, tutta la felicità della forma e della espressione? Non che egliproducesse roba mediocre: questo almeno era il vantaggio della sua età,che egli si sentiva ormai serenamente sicuro della propria maestria. Ma luistesso, mentre tutto il paese la celebrava, non godeva di essa, e gli parevache alla sua opera mancassero quei segni di estro ardente e giocoso che,generati dalla gioia, più che qualsiasi contenuto interiore, che qualsiasipregio più eminente, davano gioia al mondo dei lettori. Gli faceva paural'estate in campagna, solo nella piccola casa con la fantesca che glipreparava il pranzo e col domestico che glielo serviva; gli faceva paural'aspetto familiare delle vette e delle pareti montane che avrebbero dinuovo circondato la sua malcontenta lentezza. E dunque era necessariaun'interruzione, un periodo di vita nomade, scioperatezza, aria di paesilontani e acquisizione di sangue nuovo, affinché l'estate diventassesopportabile e proficua. Viaggiare dunque; vi acconsentiva. Non troppolontano, non proprio fra le tigri. Una notte in vagone letto e una siesta ditre, quattro settimane in uno di quei luoghi di villeggiatura dove vannotutti, nell'amabile Mezzogiorno...Così pensava mentre il rumore del tram elettrico si andava

approssimando per la Ungererstrasse, e nel salire risolse di dedicar laserata allo studio delle carte geografiche e degli orari. Sulla piattaformavolle cercare con lo sguardo l'uomo dal cappello di paglia, il compagno diquella sosta pur ricca di conseguenze. Ma non poté scorgerlo, perché nonsi trovava nel luogo dov'era prima, né alla fermata del tram, e neppurenell'interno della carrozza.

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II

L'autore della limpida e forte epopea in prosa sulla vita di Federico diPrussia; l'artista paziente che con lunga solerzia aveva tessuto il romanzo IMaja, arazzo ricco di figure raccogliente tanto destino umano all'ombra diun'idea; il creatore della possente novella intitolata Un miserabile, cheaddita a tutta una gioventù riconoscente la via della risolutezza morale aldi là della più profonda conoscenza; lo scrittore infine (e basti questo brevecenno all'opera della sua maturità) dell'appassionato saggio Spirito e arteche per la potenza chiarificatrice e l'eloquenza antitetica molti giudiciautorevoli ponevano accanto alla dissertazione di Schiller sulla poesiaingenua e sentimentale: Gustav Aschenbach in una parola, figlio d'un altofunzionario della magistratura, era nato a L., capoluogo d'un distretto dellaprovincia di Slesia. I suoi antenati erano stati ufficiali, giudici, impiegatidell'amministrazione, uomini che avevano condotto vita austera, onorata emodesta al servizio del re e dello stato. Una spiritualità più profonda avevaavuto un'incarnazione in famiglia nella persona di un predicatore; sanguepiù impetuoso e più caldo v'era entrato nella generazione precedente graziealla madre del poeta, figlia di un maestro di cappella boemo. Da lei eranostati trasmessi al figlio quei segni caratteristici di una razza forestiera. Ilconnubio della rigida coscienziosità burocratica con impulsi più oscuri efocosi aveva prodotto un artista, questo artista singolare.Poiché tutto il suo essere aspirava alla gloria, egli si dimostrò se non

proprio precocissimo, tuttavia, grazie alla decisione e all'efficaciapersonale del suo eloquio, assai presto maturo e adatto alla vita pubblica.Era ancora studente liceale e già aveva un nome. Dieci anni dopo già sa-peva, stando alla sua scrivania, rappresentare un personaggio,amministrare la sua gloria, mostrarsi benevolo e importante in una letterache doveva esser corta (perché molte esigenze premono l'uomo arrivato edegno di confidenza). A quarantanni, affaticato dagli strapazzi e dalle al-terne vicende del lavoro creativo, doveva giornalmente rispondere allenumerose lettere che portavano francobolli di tutti i paesi del mondo.Tanto lontano dal banale come dall'eccentrico, il suo talento era fatto per

conquistare al tempo stesso la fede del largo pubblico e l'ammirataesigente partecipazione dei raffinati. Così, ancor giovinetto, obbligato datutte le parti alla produzione, e a una produzione straordinaria, non avevamai conosciuto la spensierata indolenza della gioventù. Quando, intorno aitrentacinque anni, si era ammalato durante un soggiorno a Vienna, un fine

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osservatore disse di lui in un salotto: — Vedete, Aschenbach è semprevissuto così, — e serrò forte a pugno le dita della mano sinistra: — Maicosì, — e lasciò comodamente penzolare la mano aperta dalla spallieradella sedia. Nulla di più esatto; e la coraggiosa moralità di taleatteggiamento stava in questo, che, di costituzione tutt'altro che robusta, acompiere quello sforzo costante egli non era fatto, ma soltanto chiamato.I medici avevano prescritto che il ragazzo non frequentasse la scuola e

studiasse in casa. Solo, senza compagni egli era cresciuto, e tuttavia avevadovuto accorgersi assai presto di appartenere a una razza in cui non già iltalento era una rarità, ma la base fisica di cui il talento aveva bisogno peraver pieno sviluppo; una razza che dà presto i suoi frutti migliori e in cuil'eccellenza raramente perdura. Ma il suo motto preferito era: «Resistere!»;nel suo romanzo su Federico di Prussia egli vedeva soprattutto l'apoteosi diquel precetto, che gli sembrava il compendio d'ogni virtù attiva e passiva.Del resto desiderava ardentemente di giungere alla vecchiezza perchéaveva sempre reputato che fosse da chiamarsi veramente grande, compiutoe degno d'onore solo quell'artista a cui era dato produrre una messecaratteristica di tutte le età della vita umana.Poiché dunque doveva portare su gracili spalle i compiti di cui il suo

talento lo gravava, e voleva andare lontano, gli era necessaria una severadisciplina — e disciplina era per fortuna il suo naturale retaggio dal latopaterno. A quaranta, a cinquant'anni, come già nell'età in cui gli altriscialacquano, fantasticano, rimandano tranquillamente l'esecuzione digrandi progetti, egli incominciava la sua giornata di buon'ora, con doccefredde sul dorso e sul petto, e poi, accese le alte candele di cera neidoppieri d'argento ai due lati del manoscritto, sacrificava all'arte in due otre ore di lavoro fervido e coscienzioso le forze raccolte nel sonno. Eraperdonabile, e anzi significava la vittoria della sua moralità di scrittore,che gli ignari prendessero per il prodotto di una forza incoercibile e di unlungo respiro il mondo dei Maja o le masse epiche fra cui si svolgeva lavita eroica di Federico, mentre invece si innalzavano alla grandezza stratoper strato, in piccoli compiti quotidiani fatti di cento e cento singoleispirazioni, ed erano così profondamente e assolutamente perfetti in ognipunto perché il loro creatore, con una tenacia di volontà simile a quella cheaveva conquistato la sua Slesia natia, resisteva per anni sotto la tensione diuna stessa opera e dedicava esclusivamente alla produzione le sue ore piùgagliarde e più degne.Affinché un importante prodotto dello spirito possa esercitare

immediatamente un influsso vasto e profondo, dev'esserci un'affinità

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segreta, anzi una concordanza, fra il destino personale del suo autore equello generale dei contemporanei. Gli uomini non sanno perchéconferiscono gloria a un'opera d'arte. Tutt'altro che intenditori, credono discoprirvi mille pregi per giustificare tanto consenso; ma il vero motivo delloro plauso è qualcosa di imponderabile: è simpatia. Aschenbach avevaaffermato una volta in una sua pagina, alla sfuggita ma senza ambagi, chequasi tutto ciò che esiste al mondo di grande è una manifestazione diresistenza, è sorto cioè nonostante il dolore e la sofferenza, nonostante lapovertà, l'abbandono, la debolezza fisica, il vizio, la passione e milleostacoli. Ma più ancora che un'osservazione questo era un'esperienza, eraaddirittura la formula della sua vita e della sua gloria, la chiave dell'operasua; perché stupirsi dunque se era anche il carattere etico, l'aspettoesteriore delle sue figure più singolari?Del nuovo tipo d'eroe che questo scrittore preferiva, tipo che si ripeteva

nelle più varie forme individuali, un analista intelligente aveva scritto giàmolto tempo innanzi che era la concezione «di una virilità intellettuale egiovanile che con fiero pudore stringe i denti e rimane salda e tranquillamentre lance e spade le trafiggono il corpo». Era bene espresso, con spiritoed esattezza, ma in apparenza puntava troppo sulla passività. Giacchéfermezza di fronte al destino, grazia nella sofferenza non vuol diresemplicemente subire; è un'azione attiva, un trionfo positivo, e la figura disan Sebastiano è il più bel simbolo se non dell'arte in genere, certamentedell'arte di cui si parla. A guardare in quel mondo narrato, si discerneval'elegante dominio di sé, che dissimula fino all'ultimo istante agli occhi delmondo un logoramento interno, il declino biologico; la gialla bruttezza,sensualmente svantaggiata, che è capace di far divampare in purissimafiamma la brace della sua libidine, e di salire addirittura al dominio nelregno della bellezza; la pallida impotenza, che dalle profondità ardentidello spirito ricava la forza di gettare un intero popolo protervo ai piedidella croce, ai propri piedi; l'atteggiamento amabile al vuoto e rigidoservizio della forma; la vita falsa, pericolosa, la nostalgia snervante e l'artedell'impostore nato: a considerare tutto quel destino, e quanto altro simile,ci si poteva chiedere se esiste eroismo all'infuori della debolezza. E adogni modo quale eroismo sarebbe più di questo consono ai tempi? GustavAschenbach era il poeta di tutti coloro che lavorano all'orlo dellosfinimento, gli oppressi da carico soverchio, già estenuati eppure ancora inpiedi, questi moralisti della produzione che, esili di corporatura e scarsi dimezzi, con l'estasi della volontà e la saggia amministrazione ottengonoalmeno per un periodo di tempo i risultati della grandezza. Costoro sono in

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molti, sono essi gli eroi del nostro tempo. E tutti si riconoscevano nella suaopera, vi si vedevano confermati, esaltati, celebrati, gli erano riconoscentie annunziavano il suo nome.Egli era stato giovane e rude con il suo secolo e, mal consigliato da esso,

aveva pubblicamente incespicato, aveva commesso errori, s'eracompromesso, aveva trasgredito con le parole e con le opere alle regole deltatto e della prudenza. Ma aveva conquistato la dignità, verso la quale, aparer suo, ogni grande talento si sente naturalmente spinto e pungolato,anzi si può dire che tutta la sua evoluzione era stata un'ascesa verso ladignità, un'ascesa cosciente e ostinata, sprezzante tutti gli ostacoli del dub-bio e dell'ironia.La viva palpabilità della raffigurazione, che non impegna lo spirito,

forma la delizia delle masse borghesi, ma la gioventù assoluta eappassionata è attratta esclusivamente dai problemi; e Aschenbach erastato problematico, era stato assoluto più di qualunque altro giovane. Erastato prono alla cerebralità, aveva saccheggiato la scienza, macinato per séle messi, profanato misteri, incriminato il talento, tradito l'arte... sì, mentrele sue opere divertivano, elevavano, animavano, deliziavano i credulilettori, lui, il giovane artista, mozzava il fiato ai ventenni con i suoi cinismisulla dubbia natura dell'arte e della professione artistica.Ma a quanto pare nulla in uno spirito nobile e sagace si ottunde più

rapidamente e più radicalmente che l'acuto amaro fascino dellaconoscenza; ed è certo che la coscienziosa e malinconica esattezza delgiovane diventa aridità in confronto alla profonda risoluzione maturatanell'uomo cresciuto a maestro di negare la scienza, di ripudiarla, dipassarvi sopra a testa alta in quanto essa può, sia pure in minima parte,paralizzare scoraggiare avvilire l'azione, il sentimento e perfino lapassione. In quale altro modo interpretare la famosa novella Un

miserabile, se non come uno scoppio di ribrezzo per l'indecentepsicologismo dell'epoca, personificato nella figura di quel molle e goffofurfante che carpisce un destino d'accatto gettando sua moglie perimpotenza, per depravazione, per velleità etica nelle braccia di un imberbee si crede in diritto di commettere per una presunta profondità delle azioniindegne? La vigoria del linguaggio, col quale nel libro era condannatal'infamia, annunziava l'abbandono di ogni incertezza morale, di ognisimpatia per l'abisso, il rifiuto al lassismo espresso nel proverbio pietosoche tutto comprendere significa tutto perdonare; e ciò che vi era preparato,anzi già compiuto, era quel «miracolo della schiettezza rinata» di cui pocooltre l'autore trattava in uno dei dialoghi, espressamente e non senza una

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enigmatica accentuazione. Strane correlazioni! Era per una conseguenzaspirituale di questa «rinascita», di questa nuova dignità e rigore, cheproprio a quel tempo si osservava un quasi eccessivo rafforzamento delsuo senso estetico, quella nobile purezza, semplicità e armonia dimodellazione che da allora in poi avrebbero dato alle sue opereun'impronta di maestria e di classicità così evidente e addirittura voluta?Ma la risolutezza morale al di là della scienza, della conoscenza chescioglie e inceppa, non è a sua volta una semplificazione, unachiarificazione morale del mondo e dell'anima, e quindi anche uninvigorimento verso il male, l'illecito, il moralmente proibito? E la formanon ha due facce diverse? Non è morale e immorale a un tempo — moralecome risultato ed espressione della decenza, immorale invece e addiritturaantimorale in quanto contiene in sé per natura un'indifferenza morale, eanzi tende essenzialmente a sommettere l'etica al suo dominio superbo eassoluto?Comunque sia, un'evoluzione è un destino; e come non dovrebbe

svolgersi diversamente l'evoluzione accompagnata dalla fiducia, dalconsenso unanime di un largo pubblico, da quella che si effettua senza illustro e le lusinghe della gloria? Solo l'eterna bohême giudica tedioso edegno di scherno un grande talento che, superato il libertino stadio larvale,si abitua a distinguere ed esprimere la dignità dello spirito, accetta laregola di una solitudine piena di dure sofferenze e lotte senza consiglio esenza aiuto, e assurge in mezzo agli uomini a una posizione di potere e digloria. Quanta parte hanno d'altronde sfida, gioco, godimentonell'automodellazione dell'ingegno! L'opera di Gustav Aschenbach coltempo prese una tinta ufficioso-educativa, negli anni più tardi il suo stile siliberò dalle sùbite audacie, dalle sfumature sottili e nuove, si volse allaclassica esemplarità, alla tradizione e alla levigatezza, alla conservazione ealla forma e fors'anche alla formula, e, come si narra di Luigi XIV,invecchiando bandì dal suo linguaggio ogni parola volgare. Fu allora chele autorità scolastiche accorsero nei libri di testo pagine scelte dalle sueopere. Gli si addiceva profondamente, ed egli infatti non rifiutò che unprincipe tedesco, appena salito al trono, conferisse al poeta di «Federico»un titolo di nobiltà per il suo cinquantesimo compleanno.Dopo qualche anno d'irrequietezza, tentativi di stabilirsi qua o là, egli

aveva scelto Monaco di Baviera come residenza stabile ed era vissutoquivi in onorevole condizione borghese, come accade a qualcheintellettuale in certi casi particolari. Il matrimonio contratto in età ancorgiovane con una fanciulla di famiglia colta, era stato sciolto dalla morte

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dopo un breve periodo di felicità. Gli era rimasta una figlia, già maritata.Non aveva mai avuto un figlio.Gustav von Aschenbach era di statura un po' inferiore alla media, bruno,

glabro. La testa era un po' troppo grande in confronto al corpo quasigracile. I capelli spazzolati all'indietro, diradati a sommo del capo, moltofolti e brizzolati sulle tempie, incorniciavano una fronte alta, solcata darughe che parevano cicatrici. Il ponticello d'oro delle lenti non cerchiatetagliava la radice del naso massiccio, nobilmente arcuato. La bocca eragrande, a volte cascante a volte improvvisamente sottile e stretta; le guancemagre e grinzose, il mento ben modellato con una fossetta morbida. Moltofato sembrava esser passato su quella testa per lo più dolorosamentereclinata, eppure l'affinamento della sua fisionomia era opera dell'arte enon, come solitamente accade, di una vita agitata e difficile. Dietro quellafronte erano nate le lampeggianti battute del dialogo sulla guerra fraVoltaire e il re di Prussia; quegli occhi che guardavano stanchi e penetrantiattraverso le lenti avevano veduto l'inferno sanguinoso dei lazzaretti dellaGuerra dei Sette Anni. Anche sotto l'aspetto individuale l'arte è una vita piùintensa. Essa dona felicità più profonda, e divora più in fretta. Scava nelvolto del suo servo le tracce di avventure spirituali e immaginarie, e anchenella pace claustrale della vita esteriore porta a lungo andare un'ipersen-sibilità, un raffinamento, una stanchezza e una curiosità di nervi chenemmeno la vita più piena di sfrenati godimenti e passioni saprebbesuscitare.

III

Dopo quella passeggiata, molti impegni di natura mondana e letterariatrattennero ancora a Monaco per una quindicina di giorni il viaggiatorevoglioso. Finalmente egli diede ordine di preparare la casa di campagnaper il suo ritorno entro quattro settimane, e parti fra la metà e la fine dimaggio col treno della sera per Trieste, dove si fermò solo ventiquattrore, ela mattina dell'indomani s'imbarcò per Pola.Egli cercava qualcosa di esotico, di avulso dalla vita abituale; ma doveva

essere un luogo dove si arrivasse facilmente; perciò scelse un'isoladell'Adriatico, da alcuni anni famosa, non lontana dalla costa istriana, conuna popolazione variopinta e cenciosa dalla parlata incomprensibile, e conbellissime scogliere frastagliate verso il mare aperto. Ma la pioggia e l'ariapesante, la meschina e chiusa clientela austriaca dell'albergo e la mancanzadi quel placido e intimo contatto col mare che solo una spiaggia dolce e

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sabbiosa può consentire, lo misero di cattivo umore, lo convinsero di nonaver trovato il luogo della sua destinazione; una irrequietezza interiore lospingeva, non sapeva ancor bene dove; egli si rimise a studiare le linee dinavigazione, si guardò intorno cercando, e d'improvviso, sorprendente enaturale insieme, la mèta gli stette davanti agli occhi. Quando sidesiderava trasportarsi dall'oggi al domani in un'aura incomparabile,meravigliosa, fiabesca, dove si andava? Ma era chiaro. Che cosa facevaqui? Si era sbagliato. Era là ch'egli voleva andare. Non tardò a disdire ilsoggiorno erroneo. A una settimana e mezzo dal suo arrivo nell'isola unveloce motoscafo riportò lui e il suo bagaglio nel porto di Pola, ed egli visbarcò per raggiungere subito attraverso una passerella l'umido ponte diuna nave pronta a salpare per Venezia.Era un vecchio vapore italiano antiquato, fuligginoso e tetro. Nella

cabina sotto coperta, simile a un antro e illuminata artificialmente, doveAschenbach appena salito a bordo era stato subito introdotto con ghignantecortesia da un marinaio gobbo e poco pulito, sedeva dietro un tavolo, ilcappello a sghimbescio calato sulla fronte e un mozzicone di sigarettanell'angolo della bocca, un uomo dalla barbetta caprina, dall'aspetto di undirettore di circo all'antica, il quale torcendo il volto con disinvolturaprofessionale registrava le generalità dei viaggiatori e distribuiva loro ibiglietti. — Per Venezia! — egli disse ripetendo la richiesta diAschenbach, allungò il braccio e intinse la penna nella feccia spessa di uncalamaio inclinato.— Per Venezia, prima classe! Il signore è servito —. E scarabocchiati

grossi caratteri sbilenchi versò dal polverino una sabbia azzurra sulloscritto, la fece scorrere in una scodella di coccio, piegò la carta con ditagialle e ossute e si rimise a scrivere. — Ottima scelta! — commentavaintanto.— Ah, Venezia! Magnifica città! Città che affascina irresistibilmente le

persone colte, tanto per la sua storia che per le sue attrattive moderne! —La forbita sveltezza dei suoi gesti e le vuote chiacchiere con cui liaccompagnava sembravano fatte per intontire e distrarre, come se eglitemesse che il viaggiatore potesse ancora mutare il suo proposito di partirper Venezia. Incassò frettolosamente, e con destrezza da croupier lasciòcadere il resto sul panno macchiato del tavolino. — Buon divertimento,signore! — disse con un inchino teatrale, — è stato un onore per mepoterla servire... Signori! — riprese subito alzando il braccio, e fece comese il lavoro procedesse alacremente, mentre invece non c'era più nessunoda sbrigare. Aschenbach risalì sul ponte.

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Con un braccio appoggiato al parapetto egli osservò la folla oziosa chebighellonava sul molo per assistere alla partenza del piroscafo, e ipasseggeri a bordo. Quelli della seconda classe, uomini e donne, si eranoammassati a prua, e usavano come sedili valige e fagotti. Sul ponte c'eraun gruppo di turisti di Pola, giovani commessi a quanto pareva, radunati ingrande allegria per una gita in Italia. Erano molto fieri di sé e della loroimpresa, chiacchieravano, ridevano, godevano compiaciuti dei propri lazzie gesti, e spenzolandosi dai parapetti gridavano spigliate frasi di scherno aicolleghi che con le borse sotto il braccio percorrevano per i loro affari lazona portuale e minacciavano coi bastoni i gitanti. Uno, che portava unabito estivo giallo chiaro all'ultima moda, una cravatta rossa e un panamadalla tesa audacemente rivoltata, si distingueva fra tutti gli altri per il buonumore e per la voce gracchiante. Ma Aschenbach appena l'ebbe osservatoun po' meglio s'accorse con una specie d'orrore che era un falso giovane.Era vecchio, non si poteva dubitarne. Aveva rughe profonde intorno agliocchi e alla bocca. Il carminio opaco delle guance era belletto, la chiomabruna sotto il cappello di paglia dal nastro variopinto era una parrucca; ilcollo era floscio e grinzoso, i baffetti all'insù e la mosca sul mento eranotinti, la dentatura gialla e completa ch'egli scopriva nel riso era unadentiera da poco prezzo, e le sue mani con anelli stemmati ai due indicierano quelle di un vecchio. Colto da un senso di ribrezzo Aschenbachnotava con stupore la sua familiarità con gli amici. Non sapevano, nonvedevano quei giovani ch'egli era vecchio, che non aveva il diritto diportare quegli abiti chiassosi da bellimbusto, di comportarsi come uno diloro? Sembrava che considerassero naturale e abituale la sua compagnia,lo trattavano come un loro pari, gli restituivano senza ripugnanza i suoischerzosi pugni nelle costole. Com'era possibile? Aschenbach si coprì lafronte con la mano e chiuse gli occhi che gli bruciavano perché avevadormito troppo poco. Gli sembrava che tutto incominciasse in modoalquanto inconsueto, che avesse inizio un trasognato allontanamento, unastrana deformazione del mondo che forse si poteva arrestare se egli velavaper un poco la sua vista e poi si guardava intorno di nuovo. In quelmomento però sentì l'impressione del galleggiare e alzando gli occhi conirragionevole sgomento si avvide che il pesante oscuro corpo della nave sistaccava lentamente dalla riva di pietra. A palmo a palmo, sotto la spintaalterna delle macchine si allargò la striscia d'acqua sudicia e iridescente frala banchina e la fiancata della nave e dopo lente manovre il vapore volse laprora verso il mare aperto. Aschenbach andò a dritta, dove il gobbo gliaveva preparato la sedia a sdraio, e un cameriere in marsina bisunta venne

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a prendere i suoi ordini.Il cielo era grigio, umido il vento. Il porto e le isole erano rimasti

indietro e presto la terra svanì dal nebbioso campo visivo. Fiocchi dipolvere di carbone, gonfiati dall'umidità, scendevano sul ponte lavato chenon voleva asciugare. Dopo un'ora appena fu teso un tendone perchéincominciava a piovere.Imbacuccato nel soprabito, con un libro in grembo, il viaggiatore

riposava, e le ore trascorsero inavvertite. La pioggia era cessata; il tetto ditela fu rimosso. L'orizzonte era tutto scoperto. Sotto la cupola nuvolosa delcielo si stendeva all'intorno la sterminata superficie del mare deserto. Manello spazio vuoto, disarticolato, manca ai nostri sensi anche la misura deltempo e noi sonnecchiamo nell'immensità. Strane figure spettrali, ilvecchio bellimbusto, il bigliettinaio dalla barba caprina, passavano congesti trasognati, con parole vaghe attraverso la mente del passeggero, edegli s'addormentò.A mezzogiorno lo fecero scendere per la colazione nella sala da pranzo,

una specie di corridoio sul quale si aprivano le porte delle cabine, e dove,all'estremità opposta della lunga tavola a cui egli si era seduto, i giovanicommessi, compreso il vecchio, trincavano fin dalle dieci con il giovialecapitano. Il pranzo era misero, ed egli lo terminò in fretta. Era impazientedi tornare all'aperto, di scrutare il cielo, se non volesse rischiararsi versoVenezia.Era persuaso che così dovesse essere, perché la città l'aveva sempre

accolto in pieno splendore. Ma cielo e mare rimasero foschi e plumbei,ogni tanto cadeva una pioggerella nebbiosa, ed egli si rassegnò araggiungere per mare una Venezia diversa da quella che aveva sempretrovato avvicinandosi dalla terraferma. Stava accanto all'albero ditrinchetto e guardava lontano aspettando la terra. Pensava al poetamalinconico-entusiasta che in un tempo lontano aveva veduto sorgere daquelle acque le cupole e i campanili del suo sogno, e ripeteva fra séqualche frammento di quel suo canto ove felicità mestizia e venerazioneerano diventate poesia misurata e perfetta; e commosso senza fatica dasensazioni già modellate esaminò il proprio cuore grave e stanco, se maiuna tardiva avventura del sentimento potesse ancora essere riservata alviaggiatore ozioso.Ed ecco, a destra spuntò la costa piatta, barche di pescatori animarono il

mare, l'isola del Lido apparve, il vapore se la lasciò a sinistra, scivolò adandatura rallentata entro il canale che ne porta il nome, e sulla laguna, difronte a un gruppo di catapecchie dai colori vivaci, si fermò ad aspettare la

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barca del Servizio sanitario.Passò un'ora prima che comparisse. Si era arrivati e non si era arrivati;

non s'aveva fretta eppure si ribolliva d'impazienza. I giovani di Pola,patriotticamente attirati dai segnali militari di tromba che echeggiavanosulle acque provenendo dai Giardini, erano saliti sul ponte, e, esilaratidall'Asti, gridavano evviva ai bersaglieri che facevano gli esercizi laggiù.Ma era ripugnante vedere in quale stato la falsa comunanza con lagioventù aveva messo l'anziano zerbinotto. Il suo cervello di vecchio nonaveva resistito al vino come quello dei giovani gagliardi, ed egli eralamentevolmente ubriaco. Con lo sguardo imbambolato, una sigaretta frale dita tremanti, egli barcollava sulle gambe mantenendo a stentol'equilibrio, sbatacchiato di qua e di là dall'ubriachezza. Poiché al primopasso sarebbe caduto non s'arrischiava a camminare, però ostentava unapenosa allegria, s'attaccava ai bottoni di tutti quelli che gli passavano atiro, balbettava, ammiccava, ridacchiava, alzava il dito rugoso e inanellatoa stolido motteggio e si leccava con la punta della lingua gli angoli dellabocca in maniera abominevolmente ambigua. Aschenbach lo guardava cor-rugando le sopracciglia, e di nuovo un senso di oppressione lo vinse, quasiche il mondo dimostrasse una tendenza lieve ma invincibile a deformarsiin una smorfia caricaturale; un'impressione a cui però le circostanze glivietarono d'abbandonarsi, perché la pulsante attività delle macchinericominciò tosto, e il vapore riprese il suo viaggio attraverso il bacino diSan Marco.Ed ecco la rivedeva, quella stupefacente riva d'approdo,

quell'abbagliante composizione di edifici fantastici che la Serenissimapresentava agli sguardi riverenti dei navigatori che si approssimavano:l'aerea magnificenza del Palazzo Ducale e il Ponte dei Sospiri, le colonnesulla riva col Leone e col Santo, il pomposo aggetto del tempio fiabesco, iltraforo della Porta dell'Orologio coi Mori, e mentre contemplava si disseche arrivare a Venezia dalla terraferma era come entrare in un palazzodalla porta di servizio, e che solo per nave, dall'alto mare, come aveva fattolui questa volta, bisognava giungere nella più inverosimile città del mondo.Le macchine s'arrestarono, molte gondole s'avvicinarono alla nave, la

scala del passavanti venne abbassata e gli impiegati di dogana salirono abordo per adempiere al loro ufficio; lo sbarco poteva incominciare.Aschenbach fece intendere che voleva una gondola, per esser portato colsuo bagaglio alla stazione dei vaporetti che fanno servizio tra la città e ilLido; voleva prendere alloggio in riva al mare. Si approva la suaintenzione, si grida il suo desiderio giù verso lo specchio dell'acqua dove i

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gondolieri si bisticciano in dialetto. La sua discesa è ostacolata, il bauleche viene spinto e trascinato a fatica giù per la scaletta gli impedisce ilpassaggio. Così per qualche minuto non gli riesce di sfuggire alleimportunità dell'orribile vecchio, che l'ubriachezza spinge oscuramente arivolgere solenni addii al forestiero. — Le auguriamo un felicissimosoggiorno, — egli bela tra una riverenza e l'altra. — Ci raccomandiamo alsuo benevolo ricordo. Au revoir, excusez e bonjour, Eccellenza! — Lasaliva gli cola dalla bocca, egli chiude gli occhi, si lecca le labbra e lamosca tinta sul suo mento di vecchio s'arriccia tutta. — I nostricomplimenti,— egli farfuglia portandosi due dita alla bocca, — i nostri complimenti

all'innamorata, alla vezzosa, alla bellissima...— E improvvisamente la dentiera gli cade dalla mandibola sul labbro

inferiore. Aschenbach riesce a fuggire. —All'innamorata, alla bellissima...— sente gemere alle sue spalle, in suoni cavernosi e stentati, mentrescende la scala tenendosi alla ringhiera di corda.Chi non deve reprimere un brivido fugace, una segreta timidezza e

angoscia, quando sale per la prima volta o dopo lunga dissuetudine su unagondola veneziana? La singolare imbarcazione, tramandata tale e quale daitempi delle ballate e così inusitatamente nera come di tutti gli oggetti diquesto mondo sono soltanto le bare, fa pensare a tacite e criminoseavventure fra lo sciacquio notturno dei canali, e ancor più alla mortestessa, a feretri, a tenebrose esequie, all'ultimo silenzioso viaggio. E si èosservato che il sedile di una tal barca, quel divano laccato di un nerofunereo e rivestito di luttuose gramaglie, è il più morbido, il piùvoluttuoso, il più sfibrante sedile del mondo? Aschenbach se ne accorsequando sedette ai piedi del gondoliere, di fronte al suo bagaglio che erastato disposto in bell'ordine a prora. I gondolieri altercavano ancora, rau-chi, incomprensibili, con gesti di minaccia. Ma la quiete della cittàlagunare pareva accogliere blandamente le loro voci, smaterializzarle,disperderle sulle acque. Faceva caldo nel porto. Avvolto dall'alito tiepidodello scirocco, abbandonato sui cuscini cedevoli il viaggiatore chiuse gliocchi godendo di quell'inerzia tanto inconsueta quanto dolce. «Latraversata sarà breve, — egli pensò; — potesse durare sempre!»Lievemente cullato sentì di scivolare via dal tumulto, dal vocio.Intorno a lui sempre più si faceva il silenzio. Non si udiva nulla, tranne

lo sciacquio del remo, lo sciabordare delle piccole onde contro iltagliamare, che s'alzava sull'acqua, erto, nero e armato sulla punta di unrostro in forma d'alabarda, e un terzo rumore, un chiacchierio, un sussur-

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ro... il borbottare del gondoliere che parlava fra sé a voce bassa, in suonisconnessi, soffocati dal lavoro delle sue braccia. Aschenbach si guardòintorno e con lieve sorpresa s'avvide che la laguna s'allargava e ilgondoliere vogava verso il mare aperto. Dunque bisognava nonabbandonarsi troppo al riposo e sorvegliare l'esecuzione della propriavolontà.— Alla stazione dei vaporetti voglio andare, — disse voltandosi a mezzo

verso poppa. Il borbottio cessò, ma non giunse risposta.— Ho detto, alla stazione dei vaporetti, — ripete girandosi del tutto e

fissando in faccia il gondoliere che ritto sull'alto bordo torreggiava nelcielo livido. Era un uomo di aspetto sgradevole, quasi brutale, vestito allamarinara di turchino scuro, con una sciarpa verde alla cintola e un informecappello di paglia piantato arditamente sul capo. La sua fisionomia, i suoibaffi biondi e ricci sotto il naso schiacciato lo rivelavano di razza nonitaliana. Sebbene la sua corporatura fosse piuttosto mingherlina, cosi chenon appariva molto adatto al suo mestiere, egli manovrava il remo congrande energia, impiegando a ogni colpo tutta la sua forza. Ogni tantonello sforzo ritraeva le labbra, scoprendo i denti bianchi. Aggrottò lesopracciglia rossicce, e guardando al di sopra del passeggero replicò intono risoluto, quasi aspro:— Lei va al Lido. Aschenbach rispose:— Certo. Ma ho preso la gondola solo per farmi traghettare a San

Marco. Desidero servirmi del vaporetto.— Non può prendere il vaporetto, signore.— E perché?— Perché il vaporetto non trasporta bagagli.Era vero; Aschenbach se ne ricordò e tacque. Ma il tono rude, arrogante,

così insolito in quel paese verso un forestiero, gli parve insopportabile.Disse: — Questo è affar mio. Forse voglio mettere il bagaglio in deposito.Bisogna che lei torni indietro.Silenzio. Il remo sciaguattava, l'onda percuoteva la chiglia con un suono

cupo. E ricominciò il borbottio, il sussurro: il gondoliere parlava con sestesso fra i denti.Che fare? Solo in mezzo al mare con quell'individuo strano, ribelle,

inquietante e risoluto, il viaggiatore non vedeva mezzo di imporre lapropria volontà. Come poteva abbandonarsi mollemente al riposo,d'altronde, se non s'arrabbiava! Non s'era augurato che la traversatadurasse a lungo, per sempre? La risoluzione più saggia era lasciar andarele cose per il loro verso, e soprattutto era la più piacevole. Un incantesimo

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della pigrizia sembrava emanare dal suo sedile, da quel divano bassorivestito di nero, così dolcemente cullato dalle vogate del dispoticogondoliere dietro le sue spalle. L'idea di esser caduto nelle mani di un cri-minale sfiorò vagamente il cervello di Aschenbach — senza poter incitare isuoi pensieri a un'attiva difesa, più irritante era la possibilità che tuttomirasse a una semplice estorsione di denaro. Una specie di orgoglio o disenso del dovere, il trasognato ricordo che a cose simili bisognava opporsi,fece sì ch'egli si riscotesse ancora una volta. Domandò:— Qual è il prezzo che lei pretende?E guardando al di sopra del suo capo il gondoliere rispose:— Lei pagherà.La replica era ovvia. Aschenbach ribatté meccanicamente:— Non pagherò neanche un soldo se lei non mi porta dove voglio io.— Lei vuole andare al Lido.— Ma non con lei.— Io la porto benissimo.«Questo è vero, — pensò Aschenbach e si lasciò andare. — È vero, mi

porti benissimo. Anche se aspiri al mio gruzzolo e con un colpo di remosulla testa mi mandi alla Casa di Ade, mi avrai traghettato bene».Ma nulla di simile accadde. Anzi, trovarono compagnia, una barca di

musicanti predoni, uomini e donne, che cantavano accompagnati dachitarre e mandolini, e s'appiccicarono insistentemente alla gondolariempiendo l'equoreo silenzio con la loro poesia avida di spillar soldi alforestiero. Aschenbach gettò del denaro nel cappello che quelli tendevano.Allora tacquero e si allontanarono, e si udì di nuovo il mormogio deigondoliere che parlava fra sé a frasi spezzate.Così la gondola giunse a destinazione, dondolata dalla scia di un vapore

che navigava verso la città. Due impiegati municipali, con le mani suldorso, le facce rivolte verso la laguna, passeggiavano su e giù in riva almare. Davanti al pontile, Aschenbach lasciò la gondola, aiutato da quelvecchio col suo gancio di accosto che si trova in tutti i luoghi d'approdo diVenezia; e poiché non aveva spiccioli, entrò nell'albergo di faccia al pontedi sbarco, per cambiare, e pagare il gondoliere secondo il proprio giudizio.Nel vestibolo è subito servito, torna indietro, trova i suoi bagagli su unacarretta sul molo, e gondola e gondoliere sono scomparsi.— E scappato, — dice il vecchio col gancio. — Un malandrino, signore,

l'unico dei gondolieri che non ha la licenza. Gli altri hanno telefonato qui.S'è accorto che lo aspettavano. E allora s'è squagliato.Aschenbach si strinse nelle spalle.

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— Il signore ha viaggiato gratis, — disse il vecchio e tese il cappello.Aschenbach vi gettò qualche moneta. Ordinò che gli portassero le valigeall'Albergo dei Bagni e seguì il carretto lungo il viale biancofiorito,fiancheggiato da caffè, bazar e pensioni, che attraversa l'isola fino allaspiaggia.Entrò nel vasto albergo per l'ingresso posteriore, dalla terrazza a

giardino, e attraversando il salone e il vestibolo si recò nell'ufficio. Poichési era prenotato, fu accolto con servizievole premura. Il manager, un uomopiccolo, sommesso, ossequioso, con baffetti neri e una finanziera di tagliofrancese, lo accompagnò in ascensore al secondo piano e gli indicò la suastanza, una camera piacevole, adorna di fiori fortemente profumati, coimobili di ciliegio e due alte finestre prospicenti il mare aperto. Uscito ilmanager, Aschenbach si affacciò a una delle finestre, e mentre portavandentro il bagaglio e lo mettevano a posto egli stette a contemplare laspiaggia pomeridiana, quasi spopolata, e il mare in ombra che era in fasedi flusso e mandava contro la riva con ritmo tranquillo onde basse elunghe.Le osservazioni e gli incontri di chi va attorno in silente solitudine sono

al tempo stesso più sfumati e più netti di quelli dell'uomo socievole, i suoipensieri sono più gravi, più bizzarri, e mai esenti da un'ombra di tristezza.Impressioni e immagini, che si potrebbero facilmente scrollar via conun'occhiata, un sorriso, uno scambio d'opinioni, lo preoccupano oltremisura, s'approfondiscono nel silenzio, diventano importanti, sitrasformano in avventura, episodio, sentimento. La solitudine fa maturarel'originalità, la bellezza strana e inquietante, la poesia. Ma genera anche ilcontrario, lo sproporzionato, l'assurdo e l'illecito. Così ancora adesso levisioni del viaggio, il vecchio ripugnante damerino col suo cianciaredell'innamorata, il gondoliere sospetto frodato della sua mercede turbavanol'animo del viaggiatore. Senza mettere la ragione in difficoltà, senza darvera materia alla riflessione, erano tuttavia di natura singolarissima,almeno così pareva a lui, e conturbanti appunto per tale contraddizione.Intanto egli salutava il mare con gli occhi e gioiva di sapere Venezia incosì prossima vicinanza. Finalmente si staccò dalla finestra, si lavò il viso,diede qualche ordine alla cameriera a perfezionamento delle propriecomodità, e dallo svizzero vestito di verde che manovrava l'ascensore sifece calare al piano terreno.Prese il tè sulla terrazza verso il mare, poi uscì e percorse un bel pezzo

della passeggiata lungo la spiaggia, verso l'Albergo Excelsior. Quandotornò, doveva esser già l'ora di cambiar abito per il pranzo. Egli lo fece con

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lentezza e precisione, com'era sua indole, perché mentre si vestiva eraabituato a lavorare, e ciò nonostante scese un po' troppo presto nel salonedove trovò radunata una gran parte degli ospiti dell'albergo, sconosciuti gliuni agli altri e ostentanti reciproca indifferenza ma accomunati dall'attesadel pranzo. Egli prese un giornale da un tavolino, s'accomodò su unapoltrona di cuoio e osservò la compagnia, che gli parve piacevolmentediversa da quella del suo primo soggiorno in quell'albergo.Si apriva un altro orizzonte, più tollerante e più largo. I suoni delle

lingue principali si mescolavano sommessi. L'internazionale abito da sera,uniforme della civiltà, raccoglieva esteriormente in un solo galateo i varitipi umani. Si vedeva la faccia lunga e asciutta dell'americano, la numerosafamiglia russa, signore inglesi, bambini tedeschi con governanti francesi.Gli slavi sembravano in maggioranza. Lì vicino si parlava polacco.Era un gruppo di giovani e di appena adolescenti, radunati intorno a un

tavolino di vimini sotto la custodia di una istitutrice o dama di compagnia:tre ragazze apparentemente fra i quindici e i diciassette anni, un ragazzodai lunghi capelli che poteva avere quattordici anni. Con meravigliaAschenbach vide che il ragazzo era di una bellezza perfetta. Il suo viso,pallido e graziosamente chiuso, attorniato da ricci color del miele, col nasodiritto, la bocca amabile, un'espressione di gentile e divina serietà, ricorda-va le sculture greche dei tempi più nobili, e accanto alla purissimaperfezione della forma recava un fascino così unico e personale, che parveal riguardante di non aver mai veduto né in arte né in natura nulla di cosìfelicemente riuscito. Si notava inoltre l'aperto contrasto fra i principieducativi secondo i quali i fanciulli apparivano vestiti e generalmentetrattati. L'acconciatura delle tre ragazze, di cui la maggiore potevaconsiderarsi adulta, era castigata e austera fino alla contraffazione. Abitimonacali color ardesia, di media lunghezza, di taglio semplice evolutamente sgraziato, unicamente rischiarati da grandi colletti bianchi,impedivano e nascondevano ogni piacevolezza della figura. I capelli lisciappiccicati al capo davano alle facce un'aria vuota e insignificante. Certouna madre aveva disposto così, ma non pensava affatto di applicare ancheal ragazzo la severità pedagogica che le sembrava indicata per le fanciulle.Era chiaro che dolcezza e tenerezza governavano la sua vita. Ci si era benguardati dall'accostare le forbici alla sua bella capigliatura; come quelladello Spinario capitolino, essa si inanellava sulla fronte, sugli orecchi, eancor più sulla nuca. L'abito inglese alla marinara, le cui maniche larghe sistringevano verso il basso, intorno ai polsi delicati delle mani ancorainfantili ma affusolate, coi suoi ricami, cordoni e fiocchi conferiva alla

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figurina esile alcunché di ricco e di viziato. Era volto di tre quarti versocolui che lo osservava, i piedi incrociati nelle scarpette di vernice nera, ungomito puntato sul bracciolo della poltrona e la guancia appoggiata allamano chiusa, in un atteggiamento di grazia negligente, e senz'ombra dellarigidità quasi sommessa alla quale le sorelle sembravano avvezze. Chefosse malato? Infatti la pelle del suo viso spiccava bianca come l'avoriosull'oro scuro dei ricci che lo incorniciavano. Oppure era semplicementeun beniamino viziato, circondato da un amore capriccioso e parziale?Aschenbach propendeva a crederlo. In quasi tutti gli artisti è innata latendenza voluttuosa e ingannatrice a consacrare l'ingiustizia che generabellezza e a offrire omaggio e simpatia alla predilezione aristocratica.Un cameriere girò fra i tavoli, e annunziò in inglese che il pranzo era

pronto. A poco a poco tutti passarono attraverso la porta a vetri nella salada pranzo. Dal vestibolo giunsero alcuni ritardatari, scesi dagli ascensori.Di là incominciavano già a servire, ma i giovani polacchi rimanevanoancora intorno al loro tavolo di vimini e Aschenbach, comodamentesprofondato nella sua poltrona, e per di più con la bellezza sott'occhio,aspettò con loro.La governante, una mezza signora piccola e corpulenta con la faccia

rossa, diede finalmente il segnale di alzarsi. Spinse indietro la sua seggiolae s'inchinò inarcando le sopracciglia, mentre una signora alta, vestita dibianco-grigio e molto riccamente adorna entrava nel salone. Il contegnodella signora era freddo e compassato, l'acconciatura dei capellileggermente incipriati come pure la foggia del suo vestito avevano quellasemplicità che sempre determina il gusto in coloro che considerano lareligiosità una componente della distinzione. Avrebbe potuto essere lamoglie di un alto funzionario tedesco. Un tocco fantastico e sfarzoso eradato alla sua apparizione soltanto dai gioielli che in verità sembravanoinestimabili: pendenti agli orecchi e una lunghissima collana a tre giri diperle grosse come ciliege, mitemente splendenti.I ragazzi s'erano subito alzati. Si chinarono per il bacio sulla mano della

madre che con un sorriso contegnoso nel volto ben curato, ma un po'stanco e dal naso aguzzo, guardava al di sopra del loro capo rivolgendoqualche parola in lingua francese all'istitutrice. Poi si mosse verso la portaa vetri. I figlioli la seguirono: prima le tre signorine in ordine di età, poi lagovernante, ultimo il ragazzo. Per un motivo qualsiasi egli si voltò primadi oltrepassare la soglia, e poiché nel salone non era rimasto nessun altro, isuoi strani occhi di un grigio crepuscolare incontrarono quelli diAschenbach, che, col giornale sulle ginocchia, assorto in contemplazione,

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seguiva il gruppo con lo sguardo.Quella scena non aveva nulla di sorprendente nei particolari. I ragazzi

non erano andati a tavola prima della madre, l'avevano aspettata, l'avevanosalutata rispettosamente, e nell'entrare in sala da pranzo si erano attenutialle forme consuete. Tutto questo però si era svolto così espressivamente,con un tale accento di modestia, impegno e decoro che Aschenbach ne fusingolarmente commosso. Indugiò ancora qualche istante, poi entrò anchelui nella sala da pranzo e si fece indicare il suo tavolo che, come rilevò conun breve moto di rincrescimento, era molto lontano da quello dellafamiglia polacca.Stanco e tuttavia spiritualmente desto egli si occupò durante il lungo

pranzo di cose astratte e addirittura trascendenti, meditò sul misteriosolegame che il regolare deve contrarre con l'individuale perché ne risulti labellezza umana, di lì passò a problemi generali della forma e dell'arte e allafine trovò che i suoi pensieri e le sue conclusioni somigliavano a certeispirazioni del sogno, apparentemente felici, che poi a mente desta sirivelano del tutto scipite e inservibili. Dopo cena indugiò nel parcovespertino e fragrante, fumando, sostando e passeggiando, andò presto acoricarsi e passò la notte in un sonno ininterrotto e profondo, mavariamente animato da immagini e visioni.Il giorno seguente il tempo prometteva male. Soffiava brezza di terra.

Sotto un cielo coperto e smorto il mare giaceva in torpida calma, quasiraggricciato, con l'orizzonte prosaicamente vicino, e la marea era cosìbassa che emergevano in varie file lunghi banchi di sabbia. QuandoAschenbach aprì la finestra gli parve di fiutare l'odore putrido della laguna.Lo assalì il malumore. In quel momento egli pensò alla partenza. Una

volta, anni prima, dopo giorni sereni di primavera un tempo simile aquesto lo aveva funestato ed era stato così dannoso alla sua salute che egliaveva dovuto lasciare Venezia come un fuggiasco. E ora non siripresentava la febbrile svogliatezza di allora, il cerchio alle tempie, la pe-santezza delle palpebre? Cambiare nuovamente dimora sarebbe statofastidioso; ma se il vento non girava, era impossibile restare. Per sicurezzanon disfece completamente le valige. Alle nove fece colazionenell'apposita saletta, fra il salone e la sala da pranzo.Nella stanza regnava la quiete solenne che è vanto dei grandi alberghi. I

camerieri facevano il loro servizio a passi silenziosi. Un tintinnio delvasellame da tè, una parola mormorata a mezza voce, era tutto quel che sipoteva sentire. In un angolo, diagonalmente alla porta, due tavoli più in làdel suo, Aschenbach vide le giovani polacche con la loro istitutrice.

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Sedevano molto diritte, i capelli di un biondo cenere lisciati da poco e gliocchi arrossati, vestite di rigida tela azzurra con colletti e polsini bianchi, esi passavano dall'una all'altra una coppa di marmellata. Avevano quasifinito di far colazione. Il ragazzo non c'era.Aschenbach sorrise. «Evvia, piccolo Feace! — pensò. — A quanto pare

tu hai sulle tue sorelle la prerogativa di dormire quanto ti aggrada». Esubitamente rasserenato recitò fra sé il verso:

Monili spesso mutati e tiepidi bagni e riposo...

Fece colazione senza fretta, ricevette dalle mani del portiere, che eraentrato nel salone col berretto gallonato in mano, la corrispondenzarispedita da casa, e fumando una sigaretta aprì due o tre lettere. Così potéancora assistere all'ingresso del dormiglione che era atteso all'altro tavolo.Egli entrò dalla porta a vetri e attraversando in diagonale la saletta

silenziosa venne al tavolo delle sorelle. Il suo incedere, tanto per ilportamento del busto quanto per il movimento dei ginocchi e il passo deipiedi calzati di bianco, era di una grazia straordinaria, molto leggero,delicato e superbo insieme, e abbellito ancora dalla timidezza infantile conla quale egli cammin facendo alzò e abbassò due volte gli occhi volgendoil viso verso la sala. Sorridente, con una parola a mezza voce nella sualingua fluida e dolce, egli sedette al suo posto; e soprattutto ora, vedendolonettamente di profilo, Aschenbach fu colpito da meraviglia e quasi dasgomento per la bellezza veramente divina del giovane mortale. Oggi ilragazzo portava una blusa leggera di cotone a righe bianche e azzurre, conun fiocco rosso sul petto, chiusa al collo da un semplice solino biancodiritto. Da quel solino, non molto adatto d'altronde al genere del vestito, latesta sbocciava come un fiore, con leggiadria incomparabile — una testa diEros, che aveva la lucentezza eburnea del marmo pario, con sopraccigliasottili e gravi, tempie e orecchi morbidamente coperti dai riccioli scuritagliati ad angolo retto.«Bene, bene! — pensò Aschenbach, con la fredda approvazione tecnica

con cui gli artisti a volte travestono il loro rapimento, la loro esaltazionedavanti a un capolavoro. E continuando il suo pensiero, soggiunse: —Davvero, se non mi attendessero il mare e la spiaggia, resterei qui finchéresti tu!» Ma invece, fra gl'inchini dei camerieri, attraversò il salone, scesedalla terrazza, e per la passerella di legno andò direttamente alla spiaggiariservata dell'albergo. Dal vecchio bagnino scalzo in calzoni di tela,camiciotto da marinaro e cappello di paglia, si fece aprire la cabina che

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aveva preso in affìtto, e mettere fuori sulla piattaforma di assi il tavolino ele sedie; e si distese comodamente sulla poltrona a sdraio dopo averla tiratapiù presso al mare, nella sabbia giallastra.Lo spettacolo della spiaggia, di questa civiltà che gode sensuale e

spensierata in riva all'elemento, lo divertiva e lo rallegrava più che mai.Già il piatto grigiore del mare era animato da bambini sguazzanti, danuotatori, da figure variopinte coricate sui banchi di sabbia con le maniincrociate dietro il capo. Altri remavano in sandolini rossi e azzurri e sirovesciavano in acqua ridendo. Davanti alla lunga fila delle capanne, cheavevano ognuna una piattaforma simile a una piccola veranda, c'eragiocosa agitazione e pigro riposo, visite e conversazioni, raffinata eleganzamattutina e nudità ardita che godeva con gusto la libertà della spiaggia, piùavanti, sulla sabbia umida e salda, alcuni passeggiavano vestiti diaccappatoi bianchi o di camiciotti dai colori sgargianti. A destra unacomplicata fortezza di sabbia costruita dai bambini era guarnita tutt'intornodi bandierine d'ogni paese. Venditori di molluschi, di frittelle e di fruttadisponevano, ginocchioni, la loro merce. A sinistra, davanti a una dellecabine che eran poste perpendicolarmente alle altre e al mare e chiudevanocosì la spiaggia da quella parte, era accampata una famiglia russa: uominicon lunghe barbe e con grossi denti, donne fragili e neghittose, unasignorina delle province baltiche, che seduta davanti a un cavallettodipingeva una marina fra sospiri di disperazione, due bambini brutti masimpatici, una vecchia domestica col fazzoletto in capo che si comportavacon umile tenerezza. Vivevano lì in riconoscente beatitudine, chiamandoinstancabilmente per nome i loro bambini indocili e scatenati, scherzandolungamente per mezzo di poche parole italiane col vecchio faceto chevendeva dolciumi, baciandosi sulle guance, non curandosi affatto deitestimoni della loro vita di famiglia.«Dunque rimango, — pensò Aschenbach. — Dove trovare di meglio?»

E con le mani intrecciate in grembo lasciò errare i suoi occhi sullelontananze del mare, e il suo sguardo ruggire, dissolversi, spezzarsi nelvapore monotono dello spazio deserto. Egli amava il mare per ragioniprofonde: il bisogno di riposo dell'artista costretto a una dura fatica, chedavanti all'esigente proteismo dei fenomeni cerca rifugio nel seno dellasemplicità, dell'immensità; la tendenza vietata, in netto contrasto con la suamissione e appunto per questo così irresistibile, all'inarticolato,l'incommensurabile, l'eterno, il nulla. Riposare nella perfezione è il sognodi chi s'affatica per giungere all'eccellenza; e il nulla non è una forma dellaperfezione? Ora, mentre egli lasciava che il suo sogno s'immergesse così

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nel vuoto, la linea orizzontale della riva fu tagliata all'improvviso da unaforma umana, e quando egli raggiunse e ricondusse il suo sguardodall'infinito vide il bel fanciullo che venendo da sinistra gli passavadavanti sulla sabbia.Era scalzo, pronto a sguazzare nell'acqua, le gambe snelle nude fin sopra

il ginocchio: camminava adagio ma con passo leggero e superbo, come sefosse abituato ad andare senza scarpe, e si voltò verso le cabine chedelimitavano la spiaggia. Ma appena ebbe scorto la famiglia russa che se lagodeva in dolce armonia, una nube di iroso disprezzo gli oscurò il viso. Lasua fronte si corrugò, il labbro superiore si storse, dalla bocca a uno deglizigomi corse una smorfia amara che gli sformò la guancia, e lesopracciglia erano così increspate che gli occhi parvero incavarsi sotto lapressione e fattisi scuri e cattivi parlarono eloquentemente il linguaggiodell'odio. Egli abbassò lo sguardo, ancora una volta si girò indietrominaccioso, fece poi con la spalla un brusco movimento di disprezzo, e silasciò il nemico alle terga.Un senso di discrezione o di spavento, qualcosa come rispetto e

vergogna indusse Aschenbach a distoglier lo sguardo come se non avesseveduto nulla; giacché all'uomo serio che per caso è testimonio dellapassione ripugna far uso anche soltanto dentro se stesso di ciò che ha visto.Aschenbach però era divertito e commosso insieme, vale a dire felice.Quel fanatismo infantile rivolto contro gente innocua e bonaria metteva inrapporti umani l'inespressività divina, rivelava degno di un interesse piùprofondo un prezioso capolavoro della natura che era parso destinato soloalla gioia degli occhi; e la figura dell'adolescente già così notevole per lasua bellezza ne otteneva un rilievo che permetteva di prenderlo sul seriopiù di quanto la sua età non comportasse.Ancora voltato, Aschenbach ascoltava la voce del fanciullo, quella voce

chiara, un po' sottile, con cui egli cercava di annunciarsi già da lontano aicompagni di gioco occupati intorno alla fortezza. Gli risposero parecchievoci, gridando il suo nome o un vezzeggiativo, e Aschenbach ascoltò conuna certa curiosità, senza poter cogliere nulla di più preciso che due sillabemelodiose come «Adgio» o più sovente «Adgiu» con un u prolungato allafine. Il suono gli piacque, egli giudicò che l'eufonia corrispondeva al-l'oggetto, lo ripete mentalmente e poi ritornò soddisfatto alle sue carte ealle sue lettere.Con la piccola cartella da viaggio sulle ginocchia prese la penna

stilografica e incominciò a sbrigare un po' di corrispondenza. Ma dopo unquarto d'ora giudicò che era un peccato abbandonare così in ispirito e

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trascurare per un'attività indifferente uno stato tanto degno d'esser goduto.Buttò da parte carta e penna e ritornò al mare; e ben presto, attirato dallevoci fanciullesche dei costruttori del forte, voltò verso destra la testacomodamente appoggiata allo schienale della poltrona per assistere dinuovo ai fatti e ai gesti del delizioso «Adgio».Lo trovò alla prima occhiata; il fiocco rosso che aveva sul petto lo

distingueva fra tutti. Occupato insieme con gli altri a collocare una vecchiatavola a guisa di ponte sul fossato umido della fortezza, egli dirigeval'opera con parole e con cenni del capo. Erano con lui una diecina dicompagni, maschi e femmine, della sua età e qualcuno più giovane, cheparlavano insieme in tutte le lingue, polacco, francese e anche idiomibalcanici. Ma il suo nome risonava più sovente degli altri. Egli era fra tuttiil più ricercato, ammirato, corteggiato. Specialmente uno, polacco comelui, che si chiamava «Yaschu» o qualcosa di simile, un ragazzo robusto daicapelli neri impomatati, vestito di una leggera veste di tela, sembrava ilsuo più fedele vassallo e amico. Finito per quella volta il lavoro intornoalla fortezza, se ne andarono abbracciati lungo la riva, e quello chiamato«Yaschu» baciò il bellissimo compagno.Aschenbach fu tentato di minacciarlo col dito. «A te, Critobulo, —

pensò sorridendo, — consiglio di viaggiare per un anno! Perché tanto tioccorre per guarire, non meno!» E poi fece una colazione di grosse fragoleben mature, che comperò da un venditore ambulante. Adesso faceva moltocaldo, benché il sole non fosse riuscito a bucare lo strato di vapori checopriva il cielo. La pigrizia incatenava lo spirito, mentre i sensiassaporavano il formidabile e stordente discorso del silenzio marino.Indovinare, indagare quale fosse quel nome che sonava press'a poco «Ad-gio» parve all'uomo serio e pensoso un compito degno di tutta la suaattenzione. E con l'aiuto di qualche reminiscenza polacca, concluse chedoveva essere «Tadzio», abbreviazione di Tadeusz che nel vocativo siprolungava in «Tadziu».Tadzio faceva il bagno. Aschenbach, che l'aveva perso di vista, scorse la

sua testa, il suo braccio che egli alzava battendo l'acqua, laggiù molto allargo; il mare infatti doveva esser calmo fino a grande distanza. Ma già lagente s'inquietava per lui, già voci di donne lo chiamavano dalle cabine eripetevano quel nome che dominava la spiaggia quasi come una parolad'ordine e con le sue consonanti dolci, il suo u finale prolungato avevaqualcosa di mite e di selvaggio insieme: — Tadziu! Tadziu! — Egli tornòindietro, a testa arrovesciata traversò di corsa l'acqua bassa facendosollevare in spuma l'onda che resisteva alle sue gambe; e vedere la forma

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viva, acerba e graziosa nella sua previrilità, sorgere con i ricci grondanti,bella come un giovane nume, dalle profondità del mare, uscire e fuggiredall'elemento, era uno spettacolo che suggeriva mitiche fantasie, qualcosacome una leggenda poetica di età primitive che narra le origini della formae la nascita degli dèi. Aschenbach ascoltava con gli occhi chiusi quel cantoche gli vibrava nell'anima, e di nuovo pensò che lì stava bene e che lìsarebbe rimasto.Più tardi Tadzio si riposò del bagno, sdraiato sulla sabbia, avvolto in un

lenzuolo bianco che passava sotto la spalla destra e con la testa appoggiatasul braccio nudo; e Aschenbach, anche se non lo guardava e leggevainvece qualche pagina del suo libro, non dimenticava mai che egli giacevalà, e che bastava voltare leggermente il capo verso destra per contemplarela mirabile visione. Gli sembrava quasi di esser lì per proteggere il suoriposo, occupandosi delle cose proprie e tuttavia in costante vigilanza sullacreatura ideale che giaceva poco lontano. E una tenerezza paterna, l'affettocommosso di colui che sacrificandosi in ispirito crea la bellezza, versocolui che la possiede, riempiva e agitava il suo cuore.Dopo mezzogiorno lasciò la spiaggia, tornò all'albergo e salì in camera

sua. Ivi rimase a lungo davanti allo specchio, osservando i suoi capelligrigi, il suo viso stanco e scavato. In quel momento pensò alla sua gloria,ricordò che molti per la strada lo riconoscevano e lo guardavano reverenti,per la precisione infallibile e coronata di grazia della sua parola; evocòtutti i fortunati successi del suo talento, senza dimenticare il titolo nobiliareche gli era stato conferito. Poi scese in sala da pranzo per il lunch, emangiò al proprio tavolino. Quando, finito il pasto, entrò nell'ascensore,alcuni giovani che venivano anch'essi dalla sala da pranzo lo seguirononella gabbietta sospesa, e Tadzio era fra loro. Aschenbach se lo trovòaccanto, così vicino che invece di vederlo a distanza d'immagine lo sentivae lo riconosceva minutamente in tutti gli elementi della sua umanità.Qualcuno rivolse la parola al fanciullo e questi, mentre rispondeva con unsorriso indescrivibilmente amabile, già usciva a ritroso, con gli occhi bassi,sul primo ripiano. «La bellezza genera il pudore», pensò Aschenbach e sichiese insistentemente perché. Intanto aveva notato che i denti di Tadzionon erano perfetti; un po' frastagliati e pallidi, senza lo smalto delledentature sane, con quella particolare fragilità e trasparenza cheaccompagna talvolta la clorosi. «E molto delicato, non ha salute, — pensòAschenbach. — Probabilmente non diventerà vecchio». E rinunziò acercare la ragione del sentimento di soddisfazione o di sollievo suscitatoda quel pensiero.

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Passò due ore nella sua stanza e nel pomeriggio andò a Venezia colvaporetto che attraversava la putrescente laguna. Scese a San Marco, preseil tè in piazza e poi, secondo il suo programma veneziano, fece un giro perle vie. Ma proprio quella passeggiata produsse un rovesciamento completodel suo umore e delle sue decisioni.Sui vicoli stagnava una calura afosa e ripugnante; l'aria era così spessa

che gli odori provenienti da abitazioni, botteghe, cucine — vapori oleosi,nuvole di profumo e molti altri —, restavano sospesi senza dissolversi. Ilfumo delle sigarette fluttuava dov'era e si disperdeva solo con estremalentezza. La folla che si pigiava nello spazio ristretto infastidiva ilpasseggiatore invece di divertirlo, più andava, e più sentiva il tormentodell'orribile stato in cui l'aria di mare unita allo scirocco solevan farlocadere, uno stato di prostrazione e di eccitazione insieme. Il suo corpo stil-lava di molesto sudore. Gli si annebbiava la vista, il petto era oppresso, unbrivido di febbre lo scosse, il sangue gli pulsava alle tempie. Fuggì dalleMercerie affollate, verso i quartieri dei poveri. Ma qui lo importunavano imendicanti, e il fetore dei canali gli mozzava il respiro. In una piazzatranquilla, uno di quei luoghi nel cuore di Venezia che sembranoaddormentati in un magico oblio, egli si riposò su una vera di pozzo,s'asciugò la fronte e capì che doveva partire.Per la seconda volta e ormai in modo definitivo era dimostrato che la

città, con quella temperie, aveva un pessimo effetto sulla sua salute.Ostinarsi a restare era irragionevole, la probabilità di un cambiamento diatmosfera appariva molto incerta. Bisognava prendere una decisioneimmediata. Ritornare a casa subito non era possibile. Né il quartiered'inverno né quello d'estate eran pronti ad accoglierlo. Ma il mare e laspiaggia non si trovavano soltanto a Venezia, e anzi altrove non avevano ilmalefico complemento della laguna e dei suoi miasmi. Si ricordò di unpiccolo villaggio balneare poco distante da Trieste, che qualcuno gli avevasegnalato. Perché non andar là? E senza indugio, affinché mettesse ancoraconto di cambiare un'altra volta villeggiatura. Si dichiarò risoluto e si alzò.Alla prima stazione di barche prese una gondola e attraverso il tetrolabirinto dei canali, sotto balconi leggiadri fiancheggiati da leoni dimarmo, girando intorno a speroni di muraglie vischiose, lungo squallidefacciate di palazzi in rovina che specchiavano grandi insegne di fondachinelle acque cosparse di galleggianti detriti, si fece portare a San Marco.Non vi giunse senza fatica, perché il gondoliere, in combutta con fabbrichedi merletti e vetrerie, cercava continuamente di sbarcarlo per visitarenegozi e fare acquisti, e quando quella bizzarra traversata di Venezia in-

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cominciava a esercitare il suo incanto, il mercantilismo rapace delladecaduta regina dei mari interveniva spiacevolmente a sciogliere la magia.Ritornato all'albergo, prima ancora di pranzare dichiarò al bureau che

circostanze impreviste lo costringevano a partire l'indomani mattina.Furono scambiate frasi di rincrescimento, gli venne rilasciata quietanza delsuo conto. Egli pranzò e trascorse la tiepida serata a legger giornali sedutoin poltrona a dondolo sulla terrazza verso il giardino. Prima di andare aletto preparò tutti i bagagli per la partenza.Non dormi troppo bene, agitato dal nuovo distacco. Al mattino, quando

aprì la finestra, il cielo era coperto come il giorno prima, ma l'aria parevapiù fresca, e tosto incominciò il suo rimpianto. Quella precipitosa disdettanon era un errore, la conseguenza di uno stato di malessere che noncostituiva norma? Se l'avesse differita di qualche giorno, se, prima dirinunziare a priori, avesse corso l'alea di un adattamento al climaveneziano o di un miglioramento del tempo, adesso, in luogo di agitazionee trambusto, avrebbe avuto davanti una mattinata sulla spiaggia comequella di ieri. Troppo tardi. Adesso doveva continuare a volere ciò cheaveva voluto ieri. Si vestì e alle otto scese a pianterreno per far colazione.Nella saletta, quando egli entrò, non c'era ancora nessuno. Qualcuno

giunse mentre egli aspettava la colazione che aveva ordinato. Sorbiva già iltè quando arrivarono le giovani polacche con la loro accompagnatrice;austere e fresche, con gli occhi un po' rossi, andarono al loro tavolinopresso la finestra. Subito dopo s'avvicinò il portiere col berretto in mano egli annunciò ch'era l'ora della partenza. L'automobile era pronta percondurre lui e altri viaggiatori all'Albergo Excelsior, di dove il motoscafoavrebbe trasportato i signori alla stazione attraverso il canale privato dellaSocietà dei Grandi Alberghi. Non c'era tempo da perdere... SecondoAschenbach, invece, non c'era nessuna fretta. Mancava più di un'ora allapartenza del treno. Egli si impazientì contro l'abitudine alberghiera dispedir via troppo presto i partenti, e disse al portiere che intendeva farcolazione in pace. L'uomo si ritirò a malincuore per ricomparire dopocinque minuti. Impossibile far aspettare più a lungo la macchina. — Eallora vada pure, basta che trasporti il mio baule, — rispose Aschenbachirritato. Quanto a lui, aggiunse, avrebbe preso il vaporetto all'ora che glifaceva comodo, e pregava che lo lasciassero sbrogliare da solo.L'impiegato s'inchinò. Aschenbach, contento di aver respinto le fastidioseinsistenze, terminò senza fretta di far colazione e si fece persino portare ungiornale. Aveva davvero i minuti contati quando finalmente si alzò. Il casovolle che proprio in quel momento Tadzio entrasse dalla porta a vetri.

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Nell'andare verso il tavolo dei suoi, egli s'incontrò con l'ospite chepartiva; davanti a quel signore dalla fronte alta e dai capelli grigi chinòmodestamente gli occhi a terra, per risollevarli tosto, com'era suo amabilevezzo, larghi e dolci verso di lui, ed era già passato. «Addio, Tadzio! —pensò Aschenbach. — Per breve tempo ti ho veduto». E mentre contro lasua abitudine formulava il pensiero con le labbra e lo mormorava a vocebassa, soggiunse: — Sii benedetto! — Poi procedette alla partenza,distribuì mance, ricevette il saluto del piccolo discreto manager infinanziera alla moda francese, e uscì dall'albergo a piedi com'era venuto,seguito dal domestico che portava il bagaglio a mano, per recarsiall'imbarcatoio, lungo il viale biancofiorito che traversa l'isola. Vi giunge,sale sul vaporetto... e quel che seguì fu il cammino della passione, unangoscioso discendere a tutti gli abissi del pentimento.Era la traversata ben nota della laguna, passando davanti a San Marco, e

su per il Canal Grande. Aschenbach era seduto sulla panca circolare a prua,col braccio appoggiato alla ringhiera e la mano alzata a proteggere gliocchi dal riverbero. I Giardini Pubblici restarono alle sue spalle, laPiazzetta s'aprì ancora una volta nella sua grazia regale e scomparve, poivenne la grande fuga di palazzi, e alla svolta del canale apparve losplendido arco marmoreo del Ponte di Rialto. Il viaggiatore guardava, e sisentiva strappare il cuore. L'atmosfera, della città, quell'odore un po'marcio d'acqua stagnante che aveva avuto tanta fretta di fuggire... adessoegli lo respirava a lunghi tratti, con dolorosa tenerezza. Possibile che eglinon avesse saputo, che non avesse ricordato come il suo cuore eraattaccato a tutto ciò? Quello che al mattino era stato un vago rammarico,un leggero dubbio sull'opportunità della sua decisione, diventava adessodolore, vero cordoglio, una tortura dell'anima, così amara che più volte lelacrime gli empirono gli occhi, e di cui si diceva che non avrebbe maipotuto prevederla. Ciò che più gli pareva penoso, anzi in certi momentiaddirittura intollerabile, era il pensiero che non avrebbe mai più rivedutoVenezia, che quello era un addio per sempre. Poiché aveva accertato per laseconda volta che la città era nociva alla sua salute, poiché per la secondavolta era costretto a fuggir via precipitosamente, doveva considerarla d'orain poi come una residenza impossibile e proibita, al di sopra delle sueforze, e che sarebbe stato assurdo ritentare. Sentiva anzi che se ora partiva,orgoglio e vergogna gli avrebbero vietato di vedere mai più la città amatadavanti alla quale per ben due volte egli aveva fallito fisicamente; e quelconflitto fra inclinazione spirituale e capacità corporale parveimprovvisamente così grave e significativo all'uomo in declino, la disfatta

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fisica così vergognosa, così da evitare a qualunque prezzo, che non capivapiù la facile rassegnazione con cui ieri aveva deciso di subirla e di am-metterla senza una dura lotta.Intanto il vaporetto s'avvicina alla stazione, sofferenza e perplessità

crescono fino allo sconvolgimento. In tanta angoscia il partire sembraimpossibile e non meno impossibile il rimanere. Cosi egli entra instazione, con l'animo lacerato. E molto tardi, non c'è un minuto da perderese vuole prendere il treno. Egli vuole e non vuole. Ma il tempo stringe, loincalza; egli si affretta a prendere il biglietto e nel trambusto della salacerca l'impiegato della Società. L'uomo si mostra e annunzia che il baule èstato spedito. — Già spedito? — Si, tutto in ordine, per Como. — PerComo? — E da un rapido scambio di irritate domande e di costernaterisposte risulta che il baule, confuso con altri bagagli, è partito dall'ufficiospedizioni dell'Albergo Excelsior in direzione completamente sbagliata.Aschenbach stentò a conservare l'espressione di rincrescimento adatta

alle circostanze. Una gioia stravagante, una incredibile gaiezza gli squassòinternamente il petto quasi come uno spasimo. L'impiegato si precipitò afermare il baule, se era ancora possibile, ma com'era da prevedersi ritornòa mani vuote. Allora Aschenbach dichiarò che non intendeva partire senzail suo baule, e perciò decideva di tornare all'Albergo dei Bagni perattendervi il ritorno del collo. Chiese se il motoscafo della Società fosseancora lì. L'uomo assicurò che era davanti alla porta della stazione. Conitaliana facondia persuase il bigliettario a riprendersi indietro il biglietto,giurò che si sarebbe telegrafato, che non si sarebbe risparmiato nétrascurato nulla per riavere il baule al più presto — e così fu che ilviaggiatore, venti minuti dopo il suo ingresso in stazione, si ritrovò sulCanal Grande di ritorno verso il Lido.Avventura bizzarra, incredibile, umiliante, tra la farsa e il sogno: deviato

e risospinto indietro dal destino, rivedere, prima che un'ora sia passata, iluoghi a cui si è appena detto addio con acerbo dolore! Sollevando un'ondadi spuma, bordeggiando agile fra gondole e vaporetti, la piccola rapidaimbarcazione vola verso la sua mèta, mentre l'unico passeggero nascondesotto la maschera dell'imbronciata rassegnazione l'allegra baldanza di unragazzo scappato di casa. Di tanto in tanto gli vien da ridere al pensiero diquella fatalità che non avrebbe potuto trattare con maggior compiacenzaun beniamino della fortuna. «Bisognerà dare spiegazioni, — egli si disse,— affrontare sguardi stupiti; poi tutto tornerà a posto»: una infelicità saràstata evitata, un grave errore riparato, e tutto ciò che egli aveva creduto diabbandonare si sarebbe di nuovo offerto, sarebbe stato suo finché egli

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voleva... E lo illudeva la velocità del battello, o davvero, per colmo difortuna, il vento adesso soffiava dal mare?Le onde battevano contro le pareti di cemento dello stretto canale che

taglia l'isola fino all'Excelsior. Un'automobile-omnibus aspettava il reducee lungo il mare increspato lo ricondusse diritto all'Albergo dei Bagni. Ilpiccolo manager baffuto in abito a falde scese la scalinata per venirgliincontro.Con delicate blandizie deplorò l'incidente, lo definì assai penoso per lui

stesso e per l'albergo, ma approvò in tono convinto la decisione presa daAschenbach di aspettare lì il ritorno del baule. La sua camerasventuratamente era stata occupata, ma gliene poteva offrire un'altra, nonmeno buona. — Pas de chance, monsieur, — disse sorridendo il liftboysvizzero, mentre lo accompagnava su. E così il fuggiasco fu di nuovoacquartierato, in una stanza quasi identica alla prima per posizione earredamento.Affaticato, intontito dal turbinio di quella strana mattinata, Aschenbach

dopo aver messo a posto il contenuto della sua valigetta a mano si sedettein poltrona accanto alla finestra aperta. Il mare aveva preso una tinta verdechiara, l'aria sembrava più sottile e più pura, la spiaggia con le cabine e lebarche più colorata, sebbene il cielo fosse ancora grigio. Aschenbachguardava fuori, con le mani congiunte in grembo, lieto di esser di nuovo lì,ma crollando il capo e malcontento della sua volubilità, della suaignoranza dei propri desideri. Così rimase per un'ora buona, senza pensare,in riposo e in vaga fantasticheria. Verso mezzogiorno vide Tadzio nell'abitodi tela rigata col fiocco rosso che ritornava dal mare lungo lo steccato dellaspiaggia e rientrava in albergo dalla passerella. Aschenbach di lassù loriconobbe subito, prima ancora di averlo visto bene, e stava per pensarequalcosa come: «Oh Tadzio, anche tu sei di nuovo qui!» Ma nell'attimostesso sentì che quel saluto indolente crollava e ammutoliva davanti allaverità del suo cuore — sentì l'esaltazione del suo sangue, la gioia, il doloredell'anima sua e capì che proprio per Tadzio gli era stato così penoso ildistacco.Rimase seduto in silenzio, lassù dove nessuno lo poteva vedere, e scrutò

dentro se stesso. Il suo viso s'era animato, le sue sopracciglia si rialzarono,un sorriso attento di sottile curiosità gl'increspò la bocca. Poi alzò il capo econ le due braccia che pendevano inerti dai braccioli della poltronadescrisse un movimento ascendente e rotatorio, con le palme rivolte versol'alto, come ad accennare un aprirsi e un allargarsi delle braccia. Era ungesto di fervido benvenuto e di serena accoglienza.

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IV

Ormai, giorno per giorno, il dio dalle guance ardenti conduceva nudo laquadriga di fuoco attraverso gli spazi del cielo, e la sua chioma d'oroondeggiava al vento di levante subitamente calmato. Una sericabianchezza posava sulle distese del Ponto torpido e ondoso. La sabbiabruciava. Sotto l'etere azzurro dai barbagli d'argento erano tese davanti allecabine tende di traliccio color ruggine, e sulla netta macchia d'ombra daesse proiettata si passavan le ore del pomeriggio. Ma non meno deliziosaera la sera, quando gli alberi del parco esalavano profumi balsamici, lestelle compivano lassù la loro danza, e il mormorio del mare notturnosaliva dolcemente e parlava alle anime. Quelle sere portavano in sé la lietapromessa di una nuova giornata di sole, di facili e ordinati piaceri,abbellita da infinite occasioni di gradevoli casi.L'ospite che una compiacente disdetta aveva trattenuto colà era ben

lontano dal vedere nel ricupero dei suoi averi il motivo di un'altra partenza.Per due giorni aveva dovuto sopportare qualche privazione e partecipare alpranzo nella gran sala in tenuta da viaggio. Poi, quando gli fu riportatofinalmente il baule smarrito, lo disfece fino in fondo e riempì della suaroba armadi e cassetti, deciso a fermarsi per un periodo indeterminato,soddisfatto di passare le ore alla spiaggia in leggeri vestiti di seta e dipotersi recare a pranzo in abito da sera.Il ritmo regolare e agevole di quell'esistenza lo teneva già sotto il suo

incanto, la dolcezza morbida e sontuosa di quel vivere lo inebriòrapidamente. Soggiorno ineguagliabile, infatti, che unisce le attrattive diuna comoda villeggiatura su una spiaggia meridionali con la vicinanzafamiliare della città stupefacente e stupenda! Aschenbach non era amantedei piaceri. Quando si trattava di far vacanza, di riposare, di darsi beltempo, provava ben presto — ed era stato così specialmente quand'era piùgiovane — un'inquietudine e un disgusto che lo riconducevano all'arduafatica, alla sacra e tranquilla opera quotidiana. Solo questo luogo loammaliava, allentava la sua volontà, lo rendeva felice. Qualche volta almattino, sotto la tenda del suo capanno, mentre contemplava sognando ilmare azzurro, o nella notte tiepida sdraiato sui cuscini della gondola chedopo una lunga sosta in Piazza San Marco lo riportava a casa sotto il vastocielo stellato — e le luci varie, i suoni armoniosi delle serenate sispegnevano in lontananza —, egli ripensava alla casa fra i monti, scenariodelle sue battaglie estive, dove le nuvole passavano basse sul giardino e

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tremendi temporali notturni spegnevano le luci domestiche e i corvi da luinutriti si dondolavano in cima agli abeti. Gli sembrava allora di esseretrasportato nei campi d'Elisio, ai confini della terra dove gli uomini vivonouna vita beata, dove non c'è neve né tempesta né piogge torrenziali, maOceano spira un'aura mite e fresca e i giorni trascorrono in ozi deliziosi,senza fatica, senza lotta, unicamente consacrati al sole e alle sue feste.Spesso, quasi di continuo Aschenbach vedeva il giovane Tadzio; lo

spazio ristretto, l'orario uguale per tutti facevano sì che il bel fanciullofosse quasi costantemente nelle sue vicinanze; tranne brevi interruzioni lovedeva, lo incontrava dappertutto; nelle sale a pianterreno dell'albergo, neirinfrescanti viaggi in vaporetto tra il Lido e la città, sulla splendida Piazzae sovente anche nei vicoli e nei campielli quando il caso era benigno. Masoprattutto, e con la più felice regolarità, le mattinate sulla spiaggia glioffrivano largamente il destro di contemplare con fervore e raccoglimentola leggiadra apparizione. Anzi, proprio questa fedeltà della fortuna, questofavore delle circostanze regolarmente e quotidianamente rinnovato, loriempiva di contentezza e di gioia di vivere e gli rendeva caro il soggiornofacendo seguire una giornata di sole all'altra in compiacente offerta.Egli si alzava presto, come nei giorni in cui lo incalzava l'assillo del

lavoro, ed era sulla spiaggia prima di tutti gli altri, quando il sole eraancora mite e il mare bianco abbagliante sognava ancora i suoi sognimattutini. Salutava affabilmente il guardiano del recinto, familiarmente ilbagnino scalzo dalla barba bianca che gli aveva preparato il posto tirandola tenda bruna, mettendo fuori sulla piattaforma i mobili della cabina, e sisdraiava. Allora tre ore o quattro erano sue, in cui il sole salendo nel cieloacquistava una forza terribile, e l'azzurro del mare si faceva sempre piùintenso ed egli poteva contemplare Tadzio.Lo vedeva venire da sinistra, lungo la riva, oppure sbucar fuori tra le

capanne, o anche s'accorgeva improvvisamente, non senza un lietosussulto, di aver perduto il suo arrivo e ch'egli era già lì col suo vestitobianco e turchino, l'unico indumento che portava sulla spiaggia, e già sidedicava alle sue consuete occupazioni al sole e sulla sabbia — quella vitaamabilmente vuota, oziosamente irrequieta che era gioco e riposo,bighellonare, sguazzare nell'acqua, scavare la sabbia, rincorrersi, starecoricati e nuotare, sotto la sorveglianza delle signore che con voci acute lochiamavano per nome: —Tadziu! Tadziu! — ed egli accorreva al richiamo,con gesti animati, per raccontar loro le sue avventure e mostrare il bottino:conchiglie, ippocampi, medusee granchi che camminavano di traverso. Aschenbach non capiva una

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parola di quel che diceva, forse erano le cose più comuni del mondo, ma alsuo orecchio suonavano come una vaga melodia. Così l'incomprensibilitàtrasformava in musica la lingua del fanciullo, un sole sfolgorante versavasu di lui una profusione di luce, e lo sfondo sublime del mare dava risaltoalla sua figura.Ormai Aschenbach conosceva ogni linea e ogni atteggiamento di quel

corpo così squisito e così liberamente rivelato; salutava con gioia semprenuova ogni bellezza già nota, e non si saziava di ammirare con delicatopiacere dei sensi. Il ragazzo era chiamato a salutare un conoscente chefaceva visita alle signore davanti alla loro cabina; egli giungeva di corsa,talvolta era appena uscito grondante dal mare, buttava indietro i riccioli eporgendo la mano riposava su una gamba, mentre l'altro piede sfioravaappena il terreno, con una incantevole torsione del corpo, un gesto digrazia e di attesa, di amabile perplessità, di doverosa aristocraticacivetteria. Altre volte se ne stava coricato per terra, l'accappatoio avvoltointorno al petto, il gracile braccio scultoreo puntato sulla rena, il mento nelcavo della mano; accoccolato accanto a lui il ragazzo che chiamavano«Yaschu» gli faceva mille finezze, e nulla era più affascinante che ilsorriso delle labbra e degli occhi con cui il beniamino ricompensava il suoumile cortigiano. Oppure se ne stava ritto in riva al mare, solo, lontano daisuoi e vicinissimo ad Aschenbach — con le mani intrecciate dietro la nuca,dondolandosi lento sulla punta dei piedi, e fantasticava assorto, mentre lepiccole onde venivano a lambirgli gli alluci. I suoi capelli color del mielesi arricciolavano sulle tempie e sulla nuca, il sole faceva brillare la peluriafra le scapole, il disegno delicato delle costole, la simmetria del petto sidistinguevano attraverso lo scarno rivestimento del torso, le ascelle eranoancora lisce come in una statua, il cavo delle ginocchia splendeva e levenature azzurrine facevano sembrare il suo corpo ancora più luminoso.Quale disciplina, quale precisione del pensiero si esprimeva in quel corpoagile e giovanilmente perfetto! Ma la volontà pura e severa che agendooscuramente aveva potuto dare alla luce quella divina opera d'arte non eraforse nota e familiare a lui, all'artista? Non agiva anche in lui, quando eglipieno di serena passione sprigionava dal blocco marmoreo del linguaggiola forma snella che aveva concepito con la mente e che presentava agliuomini come specchio ed effigie della bellezza spirituale?Specchio ed effigie! I suoi occhi abbracciarono la nobile figura che

campeggiava nell'azzurro, e con estatica esaltazione egli credette dicomprendere con quello sguardo l'essenza stessa della bellezza, la formacome pensiero divino, l'unica e pura perfezione che vive nello spirito e di

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cui era qui offerta all'adorazione un'immagine umana, un simbolo chiaro eleggiadro. Questa era l'ebbrezza! E l'artista invecchiarne l'accolse senzaesitare, anzi con avidità. La sua cultura era in travaglio, il suo spiritoribolliva, la sua memoria mise alla luce pensieri vecchissimi che gli eranostati trasmessi in gioventù e che egli finora non aveva mai ravvivato con lapropria fiamma. Non sta scritto che il sole storna la nostra attenzione dallecose intellettuali e la rivolge verso le cose materiali? Esso stordiscel'intelligenza e la memoria, e le ammalia in tal modo che l'anima nel pia-cere dimentica il proprio stato e s'attacca al più bello degli oggettiilluminati dal sole; sicché soltanto con l'aiuto di un corpo essa trova poi laforza di innalzarsi a più alta contemplazione. Amore in verità fa come imatematici che mostrano ai fanciulli di poco talento le immagini tangibilidelle pure forme. Così anche il dio, per renderci visibile l'astratto, ricorrevolentieri alla forma e al colore della giovinezza umana che egli, per farneuno strumento del ricordo, riveste di tutto lo splendore della bellezza, cosiche a tal vista noi ardiamo di dolore e di speranza.Così egli pensava nel suo entusiasmo; così gli era dato di sentire. E

l'ebbrezza del mare e il fulgore del sole gli intesserono un'immaginemaliosa. Era il vecchio platano poco lungi dalle mura di Atene, il sacrorecesso ombroso profumato dagli agnocasti in fiore, adorno di tavolettevotive e di pie offerte in onore delle ninfe e di Acheloo. Limpidissimo ilruscello scorreva ai piedi dell'albero dai grandi rami, su un letto di ciottolilevigati; i grilli stridevano. Ma sul prato in dolce declivio, che permettevadi giacere con il capo sollevato, erano distesi due uomini, riparati quividall'ardore del giorno; l'uno quasi vecchio e l'altro giovane, l'uno brutto el'altro bello, il saggio presso l'amabile. E fra gentilezze e lusinghevoliarguzie Socrate istruiva il discepolo Fedro sul desiderio e sulla virtù. Gliparlava della fervida angoscia che coglie l'uomo sensibile quando i suoiocchi scorgono un simbolo della bellezza eterna; gli parlava degli appetitidell'empio e del malvagio, che non può immaginare la bellezza quando nevede il simulacro, e che non è capace di rispetto; gli parlava del sacrosgomento che afferra l'uomo di nobili sensi quando un volto divino, uncorpo perfetto gli appare... come egli trema ed è fuori di sé, e osa appenaguardare e venera colui che possiede la bellezza, e gli recherebbe sacrificicome alla statua di un dio se non dovesse temere di esser preso per pazzo.Giacché la bellezza, mio Fedro, solo essa è amabile e visibile al tempostesso; essa è, notalo bene, la sola forma dell'immateriale che noi possiamopercepire coi sensi e che i nostri sensi possono sopportare. O altrimenti chesarebbe di noi se il divino, se la ragione la virtù la verità ci apparissero

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sensibilmente? Non saremmo noi distrutti e inceneriti dall'amore, comeSemele al cospetto di Giove? Così la bellezza è, per colui che sente, la viache conduce allo spirito — solo la via, solo il mezzo, piccolo Fedro... Epoi disse la cosa più sottile, l'astuto seduttore; disse che l'amante è piùdivino dell'amato perché Dio è nel primo ma non nell'altro... forse ilpensiero più tenero e più beffardo che sia mai stato pensato e dal qualescaturisce tutta la malizia e la più segreta voluttà del desiderio.Felicità dello scrittore è il pensiero che può tutt'intero divenir

sentimento, il sentimento che può tutto trasformarsi in pensiero. Tali eranoil pensiero palpitante, il sentimento rigoroso che appartenevano eobbedivano in quel momento al solitario: cioè, che la natura rabbrividiscedi voluttà quando lo spirito s'inchina davanti alla bellezza.Improvvisamente sentì il desiderio di scrivere. Si dice, è vero, che Erosami l'infingardaggine e solo per questa sia creato. Ma a quel punto dellacrisi l'orgasmo della vittima era volto verso la produzione. Il motivo gli eraquasi indifferente. Un'interrogazione, un invito a pronunciarsi su un certoproblema vasto e scottante della cultura e del gusto era stato rivolto almondo intellettuale ed egli l'aveva ricevuto dopo la sua partenza.L'argomento gli era familiare, era per lui esperienza vissuta; la voglia diilluminarlo con la luce della propria parola proruppe in lui irresistibile. E ilsuo impulso lo spingeva a lavorare in presenza di Tadzio, a prendere comemodello la figura dell'adolescente, ad accordare il suo stile con quel corpoche gli sembrava divino e trasportare la sua bellezza nell'ordine spiritualecome l'aquila innalzò un giorno nell'etere il pastore troiano. Mai egli avevasentito più soavemente la voluttà della parola, mai aveva così bencompreso che Eros è nella parola, come sentiva e capiva adesso durante leore pericolose e squisite in cui, seduto al suo tavolino rozzo sotto la tenda,contemplando l'idolo e ascoltando la musica della sua voce, componeva aimmagine della bellezza di Tadzio la sua breve dissertazione — quellapagina e mezzo di prosa altissima la cui purezza, nobiltà e vibrante energiadoveva suscitare di lì a poco l'ammirazione universale. È certamente unbene che il mondo conosca soltanto la bella opera e non le sue origini, nonle condizioni e le circostanze del suo sviluppo; giacché la conoscenza dellefonti onde scaturisce l'ispirazione dell'artista potrebbe turbare, spaventare,e così annullare gli effetti della perfezione. Ore singolari! Strana faticasnervante! Strano e fecondo accoppiamento dello spirito con un corpo!Quando Aschenbach ripose il suo lavoro e andò via dalla spiaggia si sentìesausto, anzi distrutto, e gli pareva che la coscienza lo rimproverasse comedopo un'orgia.

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Fu il mattino seguente che egli, mentre stava uscendo dall'albergo, videdalla scalinata Tadzio, già incamminato verso il mare, avvicinarsi tuttosolo alla barriera della spiaggia. Il desiderio, la semplice idea diapprofittare dell'occasione e di stringere una facile, gaia conoscenza conquello che inconsapevolmente tanto lo esaltava e lo commuoveva, diparlargli, gioire della sua risposta e del suo sguardo, si presentavanaturalmente e s'imponeva. Il bel fanciullo camminava senza fretta, erafacile raggiungerlo e Aschenbach affrettò il passo. Gli arriva accanto sullapasserella dietro le cabine, vuol posargli la mano sul capo, sulla spalla, euna parola, una frase amichevole in francese gli viene alle labbra: ma inquell'attimo sente che il suo cuore batte come un martello, forse anche perl'andatura accelerata, e che col fiato così corto egli potrà parlare soloansando e tremando: esita, cerca di dominarsi, all'improvviso teme diseguire già da troppo tempo l'adolescente, teme di destare la suaattenzione, il suo sguardo interrogativo, prende un ultimo avvio, fallisce,rinunzia e passa col capo chino.«Troppo tardi!» pensò in quel momento. Troppo tardi! Era poi davvero

troppo tardi? Quel passo mancato avrebbe forse avuto conseguenzebenefiche, lo avrebbe rasserenato, alleggerito, avrebbe dispersosalutarmente l'ebbrezza. Ma di questo appunto si trattava: l'uomo giàanziano non voleva saperne di tornare in sé, l'ebbrezza gli era troppo cara.Chi può decifrare la natura e il carattere dell'artista? Chi può capirel'amalgama istintivo di disciplina e di licenza che è fondamento della suavocazione? Giacché essere incapaci di volere il salutare ritorno allaragione è dissolutezza. Aschenbach non era più disposto a criticare sestesso; il gusto, l'ordinamento mentale proprio della sua età, stima di sé,maturità e semplicità acquisita, non lo rendevano incline ad anatomizzare imotivi e a determinare se per scrupolo, per dissolutezza o per viltà nonaveva attuato il suo proposito. Era confuso, temeva che qualcuno, nonfosse che il guardiano della spiaggia, potesse aver osservato il suoinseguimento e la sua sconfitta; aveva molta paura del ridicolo. Del restorideva tra sé del suo tragicomico terrore. «Sbigottito, — egli pensò, —sbigottito come un gallo che colto dallo spavento abbassa le ali nel belmezzo della lotta. E davvero il dio stesso che spezza il nostro coraggio allavista dell'oggetto amabile e così umilia fino a terra la nostra superbia...»Così scherzava coi suoi pensieri, fantasticava ed era troppo orgoglioso peraver paura di un sentimento.Già non pensava più al termine prestabilito del riposo che si era

concesso; l'idea della partenza non lo sfiorava neppure. Si era provvisto di

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molto denaro. Sua unica preoccupazione era la possibile partenza dellafamiglia polacca; ma informandosi incidentalmente presso il parrucchieredell'albergo aveva appreso di sottomano che quei signori erano arrivatipoco prima di lui. Il sole gli abbronzava il viso e le mani, l'eccitante soffiosalino rinvigoriva i suoi sensi, e come per l'addietro egli soleva spenderetosto in un'opera tutte le forze che il sonno, il nutrimento o la natura gliavevano donato, così adesso con improvvida generosità consumava insentimento ed ebbrezza il quotidiano ristoro di gagliardia che gliapportavano il sole, l'ozio e l'aria di mare.Il suo sonno era di poca durata; notti brevi, piene di felice agitazione,

interrompevano i giorni deliziosamente monotoni. Egli si ritiravaprestissimo, perché alle nove, quando Tadzio era scomparso dalla scena, lagiornata gli pareva finita. Ma ai primi bagliori dell'alba lo svegliava unosgomento dolce e penetrante, il cuore si ricordava della sua avventura; eglinon resisteva più tra le coltri, si alzava, e, leggermente coperto contro lafrescura mattutina, andava a sedersi presso la finestra aperta e aspettava illevar del sole. L'avvenimento meraviglioso empiva di religiosità la suaanima santificata dal sonno. Ancora il cielo, la terra e il mare eranoimmersi in uno spettrale vitreo biancore crepuscolare; ancora una stellamorente navigava nell'irreale. Ma ecco giungeva un soffio, un alatomessaggio da sedi inaccessibili annunziava che Eos, l'Aurora, sorgeva dalletto maritale; e appariva quel primo tenue rossore delle zone più lontanedel mare e del cielo, col quale il creato si rivela ai sensi. S'avvicinava ladea, la rapitrice di adolescenti che involò Clito e Cefalo e che sfidandol'invidia di tutto l'Olimpo godette l'amore del bel cacciatore Orione. Aiconfini del mondo incominciava la pioggia di rose, un chiarore e unafiorita di grazia ineffabile, nuvole nascenti, immateriali, luminose silibravano come amorini obbedienti fra rosei e cilestrini vapori; un velo diporpora si stendeva sul mare che sembrava portarlo ondeggiando verso lariva, dardi dorati guizzavano dal basso verso l'alto del cielo, lo splendorediveniva incendio; silenziosamente, con divina strapotenza, il fuoco, lefiamme, il rogo divampante invadevano il cielo, e i sacri corsieri di Febo,il dio fratello, con zoccoli travolgenti s'innalzavano sull'orizzonte.Illuminato dal fulgore divino il vegliante solitario chiudeva gli occhi eoffriva le sue palpebre al bacio dell'astro glorioso. Sentimenti del passato,antichi deliziosi tormenti che erano morti durante la sua vita di rigidadisciplina ritornavano adesso cosi stranamente mutati — egli li rico-nosceva con un sorriso di perplessità, di meraviglia. Pensoso, trasognato;formava lentamente un nome con le labbra e sorridendo sempre col viso

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levato verso il cielo, le mani giunte in grembo, si assopiva ancora unavolta.Ma il giorno incominciato con tanta gloria di fuoco restava stranamente

sublimato e trasformato miticamente. Da quali regioni, da quali origini,veniva quel soffio che a un tratto cosi dolce e persuasivo, quasi unsuggerimento dall'alto, gli accarezzava le tempie e l'orecchio? Bianchenuvolette fioccose erano sparse nel cielo come greggi pascenti degli dèi.S'alzava un vento più forte e i cavalli di Posidone accorrevano,s'impennavano, e anche i tori del dio glaucoricciuto si avventavanomugghiando, a testa bassa. Ma sugli scogli lontani della spiaggia le ondesaltellavano come capre vivaci. Un mondo santamente stravolto, pieno difervore panico, circondava l'uomo affascinato, e il suo cuore sognava dolcifavole. Spesso, quando il sole tramontava dietro Venezia, egli stava sedutosu una panchina del parco a guardare Tadzio che, vestito di bianco con unacintura di colore, giocava a palla sul piazzale inghiaiato, e credeva divedere Giacinto che deve morire perché è amato da due numi. Sentivapersino l'invidia dolorosa di Zefiro per il rivale che dimenticava l'oracolo,l'arco e la cetra per trastullarsi sempre con il bel giovinetto; vedeva il discoguidato da crudele gelosia colpire il capo leggiadro, impallidendo anch'egliriceveva tra le braccia il corpo spezzato, e il fiore nato dal dolce sanguerecava le parole del suo dolore senza fine...Nulla è più singolare, più imbarazzante che il rapporto fra persone che si

conoscono solamente di vista... s'incontrano tutti i giorni a tutte le ore, siosservano, e tuttavia sono costrette dall'educazione o dal puntiglio afìngere l'indifferenza e a passarsi accanto come estranei senza una parola esenza un saluto. V'è fra loro una relazione d'inquietudine e di esasperatacuriosità, l'isterismo prodotto dal bisogno insoddisfatto e innaturalmenterepresso di conoscersi e di comunicare l'uno con l'altro, e soprattutto unaspecie di ansioso rispetto. Giacché l'uomo ama e onora l'uomo finché nonlo può giudicare, e il desiderio è il frutto d'una conoscenza imperfetta.Ma qualche relazione e conoscenza doveva pur stabilirsi fra Aschenbach

e il giovane Tadzio, e con gioia penetrante il più vecchio dovetteaccorgersi che la sua simpatia e la sua attenzione non restavano del tuttosenza contraccambio. Perché, ad esempio, il bel fanciullo venendo allaspiaggia non passava più sul tavolato dietro le capanne, ma sempre sullasabbia davanti ad Aschenbach e qualche volta, senza bisogno, così vicinoda sfiorare quasi il suo tavolino, la sua sedia, prima di andarsene lemmelemme alla cabina dei suoi? Era l'attrazione, il fascino d'un sentimentosuperiore che operava così sull'oggetto più debole e ignaro? Aschenbach

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aspettava ogni giorno la comparsa di Tadzio, e qualche volta faceva fintadi essere occupato e lo lasciava passare senza apparentemente notarlo.Altre volte invece alzava gli occhi e i loro sguardi s'incontravano. Quandociò accadeva restavano tutti e due molto seri. Nel viso saggio e dignitosodel più vecchio nulla tradiva un'intima commozione; ma negli occhi diTadzio c'era un'espressione indagatrice, una pensosa domanda, i suoi passisi facevano esitanti, egli abbassava lo sguardo e lo rialzava con grazia, equando era passato qualcosa nel suo atteggiamento sembrava dicesse chesolo la buona creanza gli impediva di voltarsi.Una volta però, era di sera, le cose andarono diversamente. I giovani

polacchi e la governante non erano venuti a pranzo, con gravepreoccupazione di Aschenbach. Dopo tavola, molto inquieto per la loroassenza, egli passeggiava in abito da sera e cappello di paglia davantiall'albergo, ai piedi della terrazza, quando vide all'improvviso compariresotto il lume delle lampade ad arco le tre monacali sorelle con l'istitutrice equalche passo più indietro il giovane Tadzio. Evidentemente venivanodalla banchina del vaporetto dopo aver pranzato per qualche ragione incittà. Doveva far fresco sull'acqua; Tadzio portava una giacca da marinaiocolor turchino scuro con bottoni d'oro, e in capo un berretto pure damarinaio. Il sole e l'aria di mare non lo abbronzavano, la sua pelle erarimasta pallida e marmorea come i primi giorni; oggi però sembrava piùsmorto del solito sia per il fresco sia per la livida luce lunare dei fanali. Lesopracciglia ben disegnate spiccavano più nettamente, gli occhi erano piùscuri e profondi. La sua bellezza era inesprimibile e, come altre volte,Aschenbach sentì con dolore che la parola può, sì, celebrare la bellezza,ma non è capace di esprimerla.Non si aspettava la cara apparizione, essa giungeva improvvisa, senza

ch'egli avesse avuto tempo di atteggiare il suo viso a serena dignità. Gioia,sorpresa, ammirazione vi si dipinsero senza dubbio chiaramente quando ilsuo sguardo incontrò colui del quale aveva sentito l'assenza; ed ecco, inquell'istante Tadzio gli sorrise, d'un sorriso eloquente, confidenziale,carezzevole e schietto, schiudendo le labbra a poco a poco. Era il sorriso diNarciso che si piega sullo specchio della fonte, quel sorriso profondo, in-cantevole, prolungato col quale egli tende le braccia al riflesso dellapropria bellezza — un sorriso un poco contratto dalla vanitàdell'aspirazione a baciare le labbra soavi della propria ombra, pieno dicivetteria, di curiosità, di lieve sofferenza, affascinato e affascinante.L'uomo al quale era destinato quel sorriso se lo portò via come un dono

fatale. Era così commosso che dovette fuggire la luce della terrazza e del

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giardino, e a passi rapidi cercò rifugio nell'ombra del parco. E stranamenteeruppe in rimostranze tenere e indignate: «Non devi sorridere così! Haicapito? Non bisogna sorridere così a nessuno!» Si gettò su una panca, fuoridi sé, respirando il profumo notturno degli alberi. E riverso sulla spalliera,con le braccia penzoloni, abbattuto e scosso da brividi intermittenti,mormorò la formula eterna del desiderio... assurda in quel caso,inammissibile, infame, ridicola e tuttavia santa anche questa volta e degnadi rispetto: —Ti amo!

V

Nella quarta settimana del suo soggiorno al Lido, Gustav vonAschenbach fece alcune spiacevoli osservazioni riguardo al mondo che locircondava. Anzitutto gli pareva che, mentre si andava verso il colmo dellastagione, la clientela dell'albergo diminuisse invece di aumentare, especialmente la lingua tedesca tacesse sempre più intorno a lui, sicché atavola e sulla spiaggia ormai solo accenti stranieri gli giungevanoall'orecchio. Poi un giorno dal parrucchiere, di cui ora era diventatoassiduo cliente, colse a volo una parola che gli diede da pensare. L'uomoaveva accennato a una famiglia tedesca che era ripartita dopo essersitrattenuta pochissimo, e soggiunse in tono di scherzosa adulazione: — Leirimane, signore; non ha paura del male —. Aschenbach lo guardò: — Delmale? — chiese. Il chiacchierone ammutolì, si finse tanto immerso nel suolavoro da non aver udito la domanda. E, quando essa fu ripetutainsistentemente, dichiarò di non saper nulla e cercò di sviare il discorsocon loquace imbarazzo.Questo accadde a mezzogiorno. Dopo pranzo Aschenbach si recò a

Venezia con calma di vento e sole scottante; era spinto dalla smania diseguire la famiglia polacca che aveva veduto avviarsi con la governante alpontile del vaporetto. Non trovò il suo idolo a San Marco. Ma mentreprendeva il tè, seduto al tavolino rotondo di ferro dalla parte ombreggiatadella piazza, fiutò improvvisamente nell'aria un odore speciale, che adessogli sembrava di aver già sentito da parecchi giorni senza rendersene conto— un odore dolciastro, medicinale, che evocava miseria, ferite e dubbiapulizia. Lo analizzò e lo riconobbe; terminò impensierito di prendere il tè elasciò la piazza dalla parte opposta alla basilica. Nelle viuzze strette l'odores'accentuava. Alle cantonate erano affissi avvisi stampati che mettevanopaternamente in guardia la popolazione, per via di certe malattiegastrointestinali che erano da prevedersi con un tempo simile, a non cibarsi

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di ostriche e di telline, e a guardarsi anche dall'acqua dei canali. Era chiaroche il tono rassicurante del manifesto nascondeva di peggio. Gruppisilenziosi sostavano sui ponti e nei campielli, e il forestiero si mescolò aloro annusando preoccupato.Egli chiese a un negoziante, che stava sulla porta della sua bottega tra

collane di corallo e finimenti di ametista falsa, le ragioni di quell'odoresospetto. L'uomo lo squadrò con occhio grave, poi in fretta si rianimò. —Semplici precauzioni, signore! — rispose gesticolando. — Provvedimentidi polizia che non si può fare a meno di approvare. Quest'afa opprimente,questo scirocco non sono propizi alla salute. Insomma, lei capisce... unacautela forse esagerata... Aschenbach lo ringraziò e proseguì per la suastrada. Anche sul vaporetto che lo riportava al Lido sentiva adessoquell'odore di disinfettante.Rientrato in albergo andò subito al tavolo dei giornali nell'atrio e li

sfogliò in cerca di notizie. Non trovò niente in quelli di varie linguestraniere. Solo i giornali tedeschi registravano voci, riportavano cifreincerte, riproducevano smentite ufficiali e ne mettevano in dubbio laveridicità. Così si spiegava l'esodo dei tedeschi e degli austriaci. Ivilleggianti d'altre nazioni evidentemente non sapevano, non sospettavanonulla, non erano ancora inquieti.«Bisogna nascondere la realtà! — pensò Aschenbach agitato, gettando i

giornali sul tavolo. — La consegna è di tacere!» Ma nello stesso tempo ilsuo cuore si rallegrava dell'avventura in cui il mondo stava per incappare.Perché alla passione, come al delitto, non s'addice l'ordine stabilito e ilbenessere normale, e ogni tentennamento della compagine civile, ogniturbamento e flagello del mondo le torna gradito perché può sperarevagamente di trarne vantaggio. Così Aschenbach provava un'oscuracontentezza per quello che accadeva sotto il complice mantellodell'autorità nei vicoli sporchi di Venezia — tristo segreto della città che siconfondeva con il segreto del suo cuore, e di cui anch'egli paventava lascoperta. Giacché nulla temeva l'innamorato quanto la possibile partenzadi Tadzio, e non senza sgomento dovette riconoscere che non avrebbe piùsaputo vivere se quella partenza fosse avvenuta.Ormai non si accontentava più di ricevere in dono dalla vita quotidiana e

dalla fortuna la vicinanza e la vista del bel giovinetto; lo seguiva, glifaceva la posta. La domenica, per esempio, i polacchi non comparivanomai sulla spiaggia; Aschenbach aveva indovinato che andavano alla messain San Marco, vi si recava tosto e lasciando la piazza infocata per entrarenella penombra dorata del tempio vedeva colui che cercava chino

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sull'inginocchiatoio a seguir la funzione. Allora si fermava in fondo, sulrotto pavimento di mosaico, in mezzo alla folla prosternata e mormorante,e lo splendore del tempio orientale opprimeva voluttuosamente i suoisensi. Laggiù, coperto di paramenti sontuosi, il celebrante salmodiava ecompiva i gesti rituali; l'incenso saliva dai turiboli velando le debolifiammelle dei ceri sull'altare, mentre alla greve dolcezza dei sacri aromisembrava mescolarsi sottilmente un altro odore: quello della cittàammalata. Ma attraverso i vapori e il luccichio Aschenbach vedeva cheTadzio là davanti voltava la testa, lo cercava e lo scorgeva.Quando poi la folla sgorgava fuori dei portali aperti sulla piazza

luminosa brulicante di colombi, l'inebriato amante si nascondeva sotto ilportico, in agguato. Vedeva i polacchi uscire dalla chiesa, vedeva i ragazzicongedarsi cerimoniosamente dalla madre, e questa dirigersi verso lapiazzetta per rincasare; s'assicurava che il bell'adolescente, le monacalisorelle e la governante prendevano a destra, per la porta dell'Orologio, edentravano nelle Mercerie; e dopo aver lasciato loro qualche attimo divantaggio, li seguiva furtivamente nella loro passeggiata attraverso Vene-zia. Doveva fermarsi quando essi sostavano, rifugiarsi nelle friggitorie enei cortili per lasciarli passare quando ritornavano indietro; li perdeva, licercava accaldato ed esausto per ponti e per vicoli immondi e pativaminuti di angoscia mortale se improvvisamente in un passaggio angustodove non c'era via di scampo se li vedeva venire incontro; tuttavia non sipuò dire ch'egli soffrisse. Aveva il cuore e la testa pieni d'ebbrezza e i suoipassi obbedivano al demone che gode di calpestare la ragione e la dignitàdell'uomo.A un certo punto Tadzio e i suoi prendevano una gondola e Aschenbach,

che mentre s'imbarcavano si era nascosto dietro uno spigolo o un pozzo,non appena s'erano staccati dalla riva faceva lo stesso. Con voce ansante esmorzata ordinava al rematore, promettendogli una grossa mancia, diseguire senza dar nell'occhio e a una certa distanza la gondola che stavasvoltando l'angolo; e sudava freddo quando l'uomo col servilismobricconesco del mezzano gli assicurava nello stesso tono che l'avrebbe ser-vito coscienziosamente.Cosi scivolava ondeggiando sull'acqua, riverso sui cuscini morbidi e neri

dietro l'altra gondola rostrata nella cui scia lo trascinava la passione.Qualche volta la barca spariva; allora egli sentiva inquietudine e angoscia.Ma il suo gondoliere, esperto di simili incarichi, sapeva sempre con astutemanovre e rapide scorciatoie riportarlo in vista dell'oggetto dei suoidesideri. L'aria era calma e greve di odori, il sole dardeggiava attraverso la

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foschia che colorava il cielo di un grigio plumbeo. L'acqua battevagorgogliando contro il legno e la pietra. Al grido del gondoliere, avviso esaluto insieme, per strano accordo giungeva risposta dai lontani meandridel labirinto. Piccoli giardini pensili riversavano sui muri scrostati grappolidi fiori bianchi e purpurei dal profumo di mandorla. Cornicioni di finestremoresche si specchiavano nei canali torbidi. La scalinata marmorea di unachiesa scendeva nell'acqua; un mendicante accovacciato sui gradinitendeva il cappello gridando la sua miseria e mostrando il bianco degliocchi come se fosse cieco; con gesti servili un antiquario dalla sua spe-lonca invitava il passante ad arrestarsi, nella speranza d'imbrogliarlo.Quest'era Venezia; beltà lusingatrice e ambigua — racconto di fate einsieme trappola per i forestieri, città nella cui atmosfera corrotta l'arteebbe in passato un esuberante rigoglio, e i musici composero suadentimelodie che addormentano voluttuosamente. Sembrava all'avventurosoviandante che i suoi occhi bevessero quella sontuosità, che i suoi orecchifossero accarezzati da quella musica; si ricordava anche che la città eraammalata e lo teneva nascosto per sete di guadagno, e con maggiorfrenesia spiava la gondola che gli ondeggiava davanti.Così lo sconvolto innamorato non aveva più altro pensiero che inseguire

senza requie l'oggetto della sua passione, sognare di lui quando eraassente, e, come sogliono gli amanti, rivolgere parole di tenerezza persinoalla sua ombra. La solitudine, il paese straniero e la felicità di un'ebbrezzatardiva e profonda lo incoraggiavano e lo persuadevano a permettersisenza paura e senza vergogna le cose più sorprendenti, com'era avvenutouna sera che, tornando tardi da Venezia, egli si era fermato al primo pianodell'albergo davanti alla stanza di Tadzio e in preda a totale follia avevaappoggiato la fronte allo stipite della porta e per molto tempo non era piùstato capace di staccarsi di lì, a rischio di essere obbrobriosamentesorpreso in un atto così insensato.Eppure non mancavano i momenti di tregua e di parziale ritorno in sé.

«Su quale strada mi sono messo! — egli pensava costernato. — Su qualestrada!» Come ogni uomo al quale i meriti naturali ispirano un interessearistocratico per la sua prosapia, egli sempre nelle fatiche e nei successidella sua carriera rivolgeva il pensiero ai suoi antenati, per assicurarsi inispirito della loro approvazione, della loro soddisfazione, della loro stimanecessaria. Anche adesso, irretito in un'avventura così inammissibile,travolto in così esotiche sregolatezze del cuore, si rappresentava la digni-tosa severità, la virile purezza del loro costume, e sorridevamalinconicamente. Che cosa avrebbero detto? Del resto, che cosa

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avrebbero detto della sua vita tutt'intera, differente dalla loro fino alladegenerazione, di questa vita dominata dall'arte, di cui lui stesso in altritempi, fedele alla tradizione borghese dei padri, aveva dato giovaniligiudizi così sarcastici, e che tuttavia in fondo era tanto simile alla loro!Anche lui aveva servito, anche lui era stato soldato e guerriero, comealcuni di essi — giacché l'arte è una guerra, una lotta logorante alla qualeoggidì non si può reggere a lungo. Una vita di vittorie su se stesso, di sfidecaparbie, una vita aspra, risoluta e parca, da lui innalzata a simbolo di uneroismo delicato, consono ai nostri tempi — egli poteva ben chiamarlavirile, poteva chiamarla eroica, e gli sembrava anzi che l'Eros che si eraimpadronito di lui, a una simile vita fosse in qualche modo particolarmenteadatto e inclinato. Non era stato egli in altissimo onore soprattutto presso ipopoli più valorosi, non si era detto che proprio il valore l'aveva fattofiorire nelle loro città? Numerosi guerrieri dell'antichità avevano portatovolentieri il suo giogo, perché non erano considerate umiliazioni quelleinflitte dal dio; e atti, che sarebbero stati biasimati come segni di viltà, sefossero stati compiuti per altri scopi: genuflessioni, giuramenti, suppliche econtegno servile, non gettavano onta sull'amante, ma anzi gli procuravanolode.Ecco come ragionava l'invasato, come cercava di sostenersi, di salvare la

propria dignità. Ma nel tempo stesso prestava un'attenzione tenace eindagatrice agli avvenimenti poco puliti che si svolgevano in città, aquell'avventura del mondo esterno che confluiva oscuramente con quelladel suo cuore e alimentava la sua passione di vaghe speranze senza legge.Nell'accanita ricerca di notizie sicure sullo stato e il progresso dellamalattia, egli sfogliava febbrilmente nei caffè di Venezia i giornalitedeschi, che da parecchi giorni erano spariti dai tavolini dell'albergo. Vi sialternavano affermazioni e smentite. Il numero degli ammalati e dei mortiascendeva a venti, a quaranta, a cento e più, e, poche righe più sotto,l'apparizione del morbo era, se non negata, ridotta a pochi casi isolatiportati di fuori. Riserve, avvertimenti, proteste contro il gioco pericolosodelle autorità italiane erano frammezzati al resto. Impossibile acquistareuna certezza.Tuttavia il solitario era persuaso d'un suo diritto speciale di partecipare

al segreto; e poiché tuttavia ne era escluso, provava una stranasoddisfazione nel tempestare gli iniziati di domande insidiose, percostringerli, loro che avevan fatto lega per serbare il silenzio, a mentireespressamente. Una mattina a colazione nella grande sala da pranzo misecosì alle strette il direttore, quell'ometto dal passo leggero che salutando e

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sorvegliando s'aggirava fra i tavolini e s'era fermato anche davanti adAschenbach a dirgli due parole di convenevoli. Perché mai, gli chiesel'ospite con noncuranza, si erano messi da qualche tempo a disinfettareVenezia? — Si tratta, — rispose il sornione, — di doverosi provvedimentidi polizia destinati a prevenire tempestivamente disordini o perturbazionidella salute pubblica che la stagione afosa ed eccezionalmente caldapotrebbe provocare. — La polizia è davvero encomiabile, — disseAschenbach; e, dopo uno scambio di osservazioni meteorologiche, ildirettore si congedò.La sera di quello stesso giorno, dopo cena, una piccola compagnia di

musicisti ambulanti venne a cantare nel giardino davanti all'albergo. Eranodue uomini e due donne che se ne stavano ritti presso l'asta di ferro d'unalampada ad arco, e alzavano le facce sbiancate dalla luce verso la grandeterrazza dove i bagnanti sorbendo caffè e bevande ghiacciate si godevanoil concerto popolare. La servitù dell'albergo, liftboys, camerieri e impiegati,era venuta ad ascoltare sulle porte dell'atrio. La famiglia russa, semprediligente e pronta al piacere, aveva fatto portare in giardino le poltrone divimini per esser più vicina agli esecutori, e sedeva là in semicerchio conevidente soddisfazione. Dietro i padroni, con un fazzoletto in testa a guisadi turbante, stava la vecchia schiava.Mandolino, chitarra, fisarmonica e un violino stridulo formavano

l'orchestra di quei virtuosi in cenci. Numeri di canto si alternavano a pezzistrumentali; così la donna più giovane unì la sua voce acuta e stridente alfalsetto dolciastro del tenore per cantare un appassionato duetto amoroso.Ma il vero talento e capo della compagnia era senza dubbio l'altro uomo, ilsuonatore di chitarra, che cantava quasi senza voce ma con mimica genialee notevole comicità le parti di baritono-buffo. Spesso si staccava dal grup-po degli altri, col suo grande strumento in braccio, e avanzavagesticolando verso la scalinata, dove le sue buffonate erano accolte conrisa incoraggianti. Specialmente i russi, che costituivano la platea, simostravano entusiasti di tanto brio meridionale, e lo eccitavano a prodursiin modo sempre più sfrenato e ardito.Aschenbach era seduto presso la balaustrata e ogni tanto si rinfrescava le

labbra con il miscuglio di granatina e acqua di Seltz che, rosso comerubino, scintillava davanti a lui nel bicchiere. I suoi nervi accoglievano conavidità quegli strimpellamenti languidi e volgari, poiché la passionesoffoca il discernimento e s'abbandona in buona fede a piaceri che la sanaragione giudicherebbe ridicoli o rifiuterebbe con fastidio. Ai lazzidell'istrione i suoi lineamenti s'erano contratti in un sorriso fìsso e già

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doloroso. Sedeva lì con aria indolente mentre un'attenzione estrema lofaceva spasimare: perché a sei passi da lui Tadzio era appoggiato allabalaustrata di pietra.Stava lì, nell'abito bianco che metteva talvolta per il pranzo, con quella

sua grazia innata e inevitabile, il braccio sinistro sul parapetto, i piediincrociati, la mano destra sorretta dall'anca, e guardava giù verso isaltimbanchi con un'espressione che non era neanche un sorriso, tutt'al piùuna lontana curiosità, una cortese accettazione. Di tanto in tanto siraddrizzava e allargando il petto tirava giù la blusa bianca sotto la cinturadi cuoio, con un bel gesto d'ambo le braccia. Ma qualche volta anche, eAschenbach lo notava con gioia trionfante, con una vertigine della suaragione e anche con terrore, Tadzio si voltava incerto e guardingo, oppurerapido e improvviso come per una sorpresa, e gettava uno sguardo al disopra della spalla sinistra verso il suo amatore. Non incontrava i suoiocchi, perché una vergognosa apprensione costringeva l'infatuato a frenarepaurosamente i propri sguardi. In fondo alla terrazza eran sedute le donneche sorvegliavano Tadzio, e ormai le cose eran giunte a tal punto chel'innamorato doveva temere di essersi fatto notare e di aver destatosospetti. Anzi con una specie di agghiacciamento gli era toccato di os-servare più volte, sulla spiaggia, nell'atrio dell'albergo e in piazza SanMarco, che le donne chiamavano Tadzio quand'era nelle sue vicinanze, chebadavano a tenerlo lontano da lui — e ne aveva risentito un'offesa crudele,che infliggeva al suo orgoglio tormenti mai provati, ai quali la suacoscienza gli impediva di sottrarsi.Intanto il chitarrista aveva incominciato un assolo, una canzonetta di

parecchie strofe allora molto in voga in Italia, il cui ritornello era ripresoogni volta col canto e con tutti gli strumenti dall'intera compagnia, e da luiera interpretata con plastica drammaticità. Di corpo mingherlino, e anchein faccia emaciato e scarno, col cappello sordido sulla nuca, che lasciavafuoruscire di sotto la tesa una cresta di capelli rossi, egli stava separato daisuoi in una posa d'impertinente spavalderia, e scagliava i suoi frizzi versola terrazza in un recitativo efficace, pizzicando le corde, mentre nellosforzo produttivo gli si gonfiavano le vene sulla fronte. Non sembrava disangue veneto, piuttosto della razza dei comici napoletani, mezzo ruffianimezzo commedianti, brutali e audaci, pericolosi e divertenti. La suacanzone, dal testo semplicemente idiota, acquistava in bocca sua, graziealla mimica, alle contorsioni, alla maniera significativa di strizzare gliocchi e di lingueggiare lascivo agli angoli della bocca, qualcosa diambiguo e vagamente indecente. Dal colletto floscio della camicia sportiva

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che egli portava sotto un abito da città sporgeva il collo magro con unpomo d'Adamo enorme e nudo. La faccia rincagnata, pallida e glabra, sì danon permettere di indovinar la sua età, appariva segnata dalle smorfie e daivizi, e stranamente contrastavano col ghigno della sua mobile bocca i duesolchi che si scavavano protervi, imperiosi, quasi feroci fra le suesopracciglia rossicce. Ma la profonda attenzione del solitario fu attirataparticolarmente su quell'individuo sospetto dal fatto che egli diffondevaintorno a sé un'aura altrettanto sospetta. Infatti a ogni ripresa del ritornelloil cantante intraprendeva un grottesco giro fra il pubblico, con moltebuffonerie e cenni di saluto, e passava così proprio sotto il posto diAschenbach, sprigionando dal corpo e dai vestiti un intenso odore di acidofenico che saliva verso il terrazzo.Finita la canzone, egli incominciò la questua. Andò prima dai russi, che

furono visti donare generosamente, poi salì i gradini. Quanto era statosfacciato durante la rappresentazione, tanto umile si mostrava adesso.Sprofondandosi in inchini e riverenze sgattaiolava fra i tavoli e un sorrisodi servilità ipocrita gli scopriva i denti robusti, mentre le due rughe sidisegnavano sempre minacciose fra le rosse sopracciglia. I villeggiantisquadravano con curiosità e con un certo ribrezzo lo strano individuo cheaccattava il suo pane, gli gettavano qualche moneta nel cappello con lapunta delle dita, e badavano di non toccarlo. L'abolizione della distanzafisica fra il commediante e la gente per bene produce sempre, per grandeche sia stato il divertimento, un certo disagio. Egli lo sentiva e cercava discusarsene con una cortesia strisciante. Giunse davanti ad Aschenbach, econ lui l'odore di cui nessun altro pareva darsi pensiero.— Senti un po', — disse il solitario in tono sommesso, quasi

macchinalmente. — Perché disinfettano Venezia? — Il buffone rispose convoce rauca: — Ordine della polizia! È la regola, signore, con questo caldoe con questo scirocco. Lo scirocco deprime. Non fa bene alla salute... —Sembrava stupito che gli si chiedesse una cosa simile e con un gesto dellamano a piatto dimostrò com'era opprimente lo scirocco. — Allora non c'èpestilenza a Venezia? — domandò Aschenbach molto piano, fra i denti. Ilineamenti muscolosi del pagliaccio composero una smorfia di comicastupefazione. — Pestilenza? O quale pestilenza? Lo scirocco sarebbe unapestilenza? Oppure la nostra polizia? Ma lei vuol scherzare! Pestilenza?Questa è bella! Sono giuste precauzioni, capisce? Precauzioni della poliziacontro gli effetti della temperatura afosa... — E gesticolava. — Va bene, —ribatté Aschenbach seccamente e lasciò cadere nel capello un'offertaeccessiva. Poi con gli occhi accennò all'uomo di andarsene. Quegli obbedì,

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con sorrisi e riverenze. Ma non era ancora arrivato alla scala che dueimpiegati dell'albergo si gettarono su di lui e a faccia a faccia losottoposero a un interrogatorio in sordina. L'uomo alzò le spalle e giurò, losi vedeva bene, di non aver detto nulla. Lasciato libero ridiscese ingiardino e, dopo un breve conciliabolo con i suoi sotto la lampada ad arco,si fece innanzi ancora una volta per cantare una canzone di ringraziamentoe d'addio.Era una canzone che il solitario non ricordava d'aver mai intesa; uno

strambotto ardito in dialetto incomprensibile, con un ritornello di risate chela banda riprendeva regolarmente a gola spiegata. Al ritornello cessavanotanto le parole quanto l'accompagnamento degli strumenti e non restavache un riso ordinato secondo un certo ritmo, ma con molta naturalezza, chespecialmente il solista sapeva emettere con grande talento in modo da dareun'illusione perfetta. Ristabilita la distanza fra sé e l'uditorio, egli avevaritrovato tutta la sua impudenza, e il riso scagliato sfacciatamente verso laterrazza era un riso di scherno. Già alle ultime parole della strofa eglisembrava lottare contro un solletico irresistibile. Singhiozzava, gli tremavala voce, si premeva la mano sulla bocca, scuoteva le spalle e, venuto ilmomento, il riso sfrenato prorompeva, scoppiava, esplodeva con tale veritàche diveniva contagioso e si comunicava all'uditorio, di modo che anchesulla terrazza dilagava un'ilarità senza oggetto che s'alimentava soltanto dise stessa. E ciò appunto pareva raddoppiare la pazza allegria del cantante.Egli piegava i ginocchi, si batteva sulle cosce, si scrollava tutto, non ridevapiù, ululava, e mostrava a dito la società che rideva lassù, come se non cifosse nulla di più comico, e alla fine si sbellicavano tutti in giardino e sullaveranda, compresi i camerieri, i ragazzini dell'ascensore e i facchini.Aschenbach non stava più adagiato sulla poltrona, s'era tirato su come

per un tentativo di difesa o di fuga. Ma gli scoppi di risa, l'odored'ospedale che saliva a buffate e la vicinanza del bellissimo Tadzio gliavevano ordito intorno una magia che imprigionava inesorabilmente il suocervello, i suoi sensi. Nell'agitazione e distrazione generale egli osò gettareuno sguardo a Tadzio e poté vedere che il bel fanciullo, rispondendo al suosguardo, restava anch'egli serio, come se regolasse contegno edespressione su quelli di lui, e il buon umore regnante non potesse toccarlo,poiché egli vi si sottraeva. Quella docilità infantile e significativa avevaqualcosa di così disarmante, di così travolgente, che l'uomo dai capelligrigi si trattenne a stento dal celarsi la faccia tra le mani. Gli era anchesembrato che quell'abitudine che aveva Tadzio di raddrizzarsi ogni tanto edi respirare profondamente rivelasse una mancanza di fiato, un'oppressione

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al petto. «È malaticcio, probabilmente non giungerà alla vecchiaia», pensòdi nuovo con quella oggettività a cui ebbrezza e desiderio possono talvoltastranamente emanciparsi; e il suo cuore si riempì contemporaneamente dipura sollecitudine e di illecita soddisfazione.I veneziani intanto avevano finito e se ne andarono, accompagnati da

applausi, mentre il loro capo non trascurava di ornare il suo commiato connuove buffonerie. I suoi inchini, i baci che mandava con la manosuscitavano altre risa, ed egli quindi li moltiplicava. Quando i suoicompagni erano già usciti finse ancora di andare a sbattere violentementecontro l'asta di un fanale e si trascinò verso l'uscita come stravolto daldolore. Ma colà giunto gettò via di colpo la maschera del guittoperseguitato dalla scalogna, si raddrizzò, anzi balzò su come spinto da unamolla, mostrò sfrontatamente la lingua agli ospiti sulla terrazza escomparve nel buio. La compagnia dei bagnanti si sciolse; Tadzio da moltotempo si era allontanato dalla balaustrata. Ma il solitario, con stupore deicamerieri, rimase per un pezzo seduto al suo tavolo, davanti al resto dellagranatina. La notte avanzava, le ore scorrevano. Nella casa dei suoigenitori, molti anni prima, c'era una clessidra... egli rivide a un tratto quelpiccolo strumento, così fragile e così importante, come se gli stessedinanzi. Fine e silenziosa scorreva la sabbia color ruggine attraverso lastrozzatura del vetro, e poiché la cavità superiore era già quasi vuota, si eraformato lì un piccolo vortice impetuoso.L'indomani, nel pomeriggio, il testardo fece un nuovo tentativo

d'indagine, e questa volta con pieno successo. Entrò nell'agenzia turisticainglese di piazza San Marco e, dopo aver cambiato un po' di denaro allacassa, con l'aria del forestiero diffidente rivolse al clerk che lo serviva lafatale domanda. Era un inglese ancora giovane, vestito di lana, coi capellispartiti nel mezzo, gli occhi molto ravvicinati; aveva quell'aspetto diplacida lealtà che contrasta gradevolmente con la sveltezza birbonesca delsud. Egli incominciò: — Non c'è motivo d'inquietudine, Sir. Unprovvedimento che non significa nulla di grave. Sono precauzioni che siprendono sovente per evitare gli effetti malefici del caldo e delloscirocco... — Ma alzando gli occhi celesti incontrò lo sguardo dellostraniero, uno sguardo stanco e un po' triste che fissava le sue labbra conuna leggera espressione di disprezzo. Allora l'inglese arrossì. — Questa, —continuò a mezza voce, un poco agitato, — è la spiegazione ufficiale chequi si crede di dare. Io le dirò che dietro c'è dell'altro —. E nella sua linguasemplice e onesta rivelò la verità.Già da parecchi anni il colera asiatico aveva mostrato un'accresciuta

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tendenza a diffondersi e a migrare. Sorto nelle calde paludi del delta delGange, propagato con le esalazioni mefitiche di quel mondo primitivo diisole e di foreste schivato dagli uomini, lussureggiante e inutile, dove solola tigre s'appiatta in mezzo alle macchie di bambù, il morbo avevainfuriato in tutto l'Indostan con persistenza e violenza, si era esteso aoriente fin nella Cina, a ovest aveva invaso l'Afganistan e la Persia, eseguendo le principali strade carovaniere aveva portato i suoi terrori finoad Astrachan e persino a Mosca. Ma mentre l'Europa tremava di vedere ilflagello entrare di là, per via di terra, esso, trasportato sui mari da mercantisiriaci, aveva fatto la sua comparsa quasi contemporaneamente in parecchiporti del Mediterraneo, s'era imbaldanzito a Tolone e a Malaga, a Palermoe a Napoli aveva mostrato più volte il suo ceffo, e pareva che già nonvolesse più abbandonare la Calabria e la Puglia. Il nord della penisola erastato risparmiato. Ma alla metà di maggio di quell'anno, in uno stessogiorno, si trovarono a Venezia i terribili vibrioni nei cadaveri nerastri escheletriti di un barcaiolo e di un'erbivendola. I casi furono tenuti segreti.Ma dopo una settimana ce n'erano dieci, ce n'erano venti, trenta, e per dipiù in diversi sestieri. Un austriaco, che s'era trattenuto qualche giorno aVenezia per diporto, morì con sintomi evidenti appena tornato nella suacittadina di provincia, e così fu che le prime notizie dell'epidemiascoppiata nella città lagunare apparvero nei giornali tedeschi. Le autoritàdi Venezia risposero che le condizioni sanitarie della città non erano maistate migliori, e presero le più urgenti precauzioni profilattiche. Maprobabilmente erano già contaminati generi alimentari, verdura, carne elatte, perché, negata e occultata, la moria imperversava nelle calli angustee la canicola estiva, sopraggiunta anzitempo, intiepidendo l'acqua deicanali favoriva il contagio. Sembrava che la pestilenza avesse acquistatonuove forze, che la tenacia e la virulenza dei germi si fosse raddoppiata. Icasi di guarigione erano rari; moriva l'ottanta per cento dei colpiti, emoriva di una morte terribile perché il male si manifestava con estremaviolenza e sovente nella sua forma più pericolosa, il colera secco. In quellaforma il corpo non riusciva nemmeno a espellere l'acqua prodotta in grancopia dai vasi sanguigni. Entro poche ore il malato si disseccava e morivasoffocato dal proprio sangue divenuto denso come la pece, tra spasimi erochi lamenti. Buon per lui se, come succedeva talvolta, la malattia si di-chiarava, dopo un lieve malessere, sotto forma di un deliquio profondo dalquale il colpito non si svegliava più, o solo per poco. Al principio digiugno si riempirono chetamente le baracche d'isolamento dell'OspedaleCivico; nei due orfanotrofi i posti incominciarono a scarseggiare e un

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lugubre viavai regnava tra le Fondamenta Nuove e San Michele, l'isola delcimitero. Ma la paura di un danno generale, le grosse perdite che in caso dipanico e di discredito minacciavano di colpire l'Esposizione d'Arte re-centemente aperta ai Giardini Pubblici, gli alberghi, i negozi, tutta lacomplessa industria turistica, quella paura fu più forte che l'amore per laverità e il rispetto per le convenzioni internazionali; e persuase l'autorità aperseverare ostinatamente nella sua politica del silenzio e delle smentite. Ildirettore dell'Ufficio d'Igiene, un benemerito della sua città, si era dimessocon indignazione ed era stato sostituito alla chetichella da una persona piùmalleabile. La popolazione lo sapeva; e la corruzione delle autorità in-sieme con l'incertezza regnante, lo stato eccezionale in cui la moria avevaposto la città, provocarono un certo rilassamento di costumi nelle classiinferiori, incoraggiarono gli istinti vergognosi e antisociali, che simanifestarono in intemperanza, impudicizia e criminalità dilaganti. Controil solito, si vedevano la sera molti ubriachi; di notte, si diceva,malintenzionati rendevan pericolosa la circolazione; rapine e persinoomicidi si susseguivano, e già due volte era risultato che personeapparentemente morte di colera eran state invece avvelenate dai famigliariche volevano sbarazzarsi di loro; il vizio professionale prendeva formeinsistenti e depravate, che quassù non s'erano mai viste prima ed erano dicasa soltanto nelle regioni meridionali e nell'oriente.Di queste cose l'inglese raccontò l'essenziale. — Lei farebbe bene, —

concluse, — a partire piuttosto oggi che domani. Il decreto di quarantenanon può più tardare che di due o tre giorni. — La ringrazio, — disseAschenbach e uscì dall'agenzia.Sulla piazza incombeva un'afa senza sole. Turisti ignari eran seduti nei

caffè oppure stavano davanti alla chiesa, tra il fitto volo dei colombi, e sidivertivano a guardare le bestiole che agitandosi, battendo le ali,cacciandosi via l'un l'altra beccavano i chicchi di granturco che venivanloro offerti nel palmo della mano. In preda a un'irrequietezza febbrile,trionfante di possedere la verità, ma con un sapore di ribrezzo in bocca eun imaginoso sgomento nel cuore, il solitario calpestava i lastroni dellapiazza fastosa. Meditava un'azione onesta e purificatrice. Quella serastessa dopo cena avrebbe potuto avvicinarsi alla signora dalle perle e dirlela frase che già andava formulando: «Signora, permetta a un estraneo didarle un consiglio, un avvertimento di cui l'egoismo degli altri la priva.Parta subito, con Tadzio e con le sue figliole. C'è il colera a Venezia!» Al-lora avrebbe potuto posare la mano in segno d'addio sul capo del fanciulloche era stato strumento di una beffarda divinità e poi, ritraendosi, fuggire

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da quella palude. Ma al tempo stesso sentiva che era infinitamente lontanodal voler compiere per davvero quell'atto. Era un passo che l'avrebbericondotto indietro, che l'avrebbe restituito a se stesso; ma chi è fuori di sénulla teme quanto il rientrare in sé. Egli ripensò l'edificio bianco ornato diiscrizioni splendenti alle ultime luci crepuscolari, nel cui trasparente mi-sticismo s'era immerso il suo occhio spirituale; ricordò la strana figuraerrabonda che aveva destato nel suo cuore invecchiarne quel desideriogiovanile di avventure e di lontananze; e l'idea di ritornare a casa, allaprudenza, all'ordine, alla fatica e al magistero lo schifava a tal segno, chela sua faccia si contrasse nell'espressione del malessere fisico. — Bisognatacere! — sussurrò con energia. E: — Io tacerò! — La coscienza della suacomplicità, della sua connivenza lo inebriava come piccole quantità divino inebriano un cervello già stanco. La visione della città colpita dalflagello e abbandonata a se stessa, confusamente vagheggiata dalla suamente, accendeva in lui speranze inconcepibili, che disobbedivano allaragione ed erano mostruosamente dolci. Che cos'era per lui la delicatafelicità di cui aveva sognato un momento prima, a paragone di questesperanze? Che cosa potevano contare arte e virtù di fronte ai vantaggi delcaos? Egli tacque e rimase.Quella notte fece un sogno terribile — se si può chiamare sogno

un'avventura del corpo e dello spirito che lo colse bensì nel sonno piùprofondo, in piena indipendenza ed esistenza carnale, ma senza ch'egli sivedesse presente e operante nello spazio al di fuori degli avvenimenti: ilteatro di tali avvenimenti era piuttosto la sua anima stessa, ed essi viirrompevano dal di fuori, abbattendo violentemente la sua resistenza —una resistenza spirituale e profonda — e lasciando devastato e distruttol'edificio intellettuale della sua vita.Incominciò con la paura, paura e piacere e una sgomenta curiosità di ciò

che sarebbe accaduto. La notte regnava e i suoi sensi erano all'erta; giacchéda lontano s'avvicinava un fragore, un tumulto, un miscuglio di rumori:strepiti, squilli e sordi boati, acute grida di giubilo e un urlìo particolarefatto di lunghi uuuh strascicati — il tutto frammezzato e talvolta coperto inmodo atrocemente soave da note di flauto gravi e tubanti e insistenti eperverse, che penetravano le viscere con lasciva magia. Ma egli sapevauna parola, oscura, ma che tuttavia designava colui che stava per giungere:«Il dio straniero!» S'accese un fumoso bagliore: egli riconobbe unpaesaggio di montagna, simile a quello che circondava la sua residenzaestiva. E nella luce rossa, dalle cime boschive, fra tronchi e muscosisfasciumi di rupi, rotolarono, rovinarono giù turbinosamente uomini,

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bestie, una frotta, una torma frenetica che inondò il pendio di corpi e difiamme, in tumulto e in tregenda vertiginosa. Donne che inciampavanonelle lunghe vesti di pelli agitavano tamburi con sonagli al di sopra delleloro teste riverse e gementi, brandivano fiaccole sfavillanti e stili sguainati,impugnavano a mezzo il corpo serpi lingueggianti, o si reggevano i senicon le mani, ululando. Uomini che portavano corna sulla fronte, cinti dipellicce e vellosi essi stessi, curvavano la nuca dimenando braccia egambe, e facevano rimbombare grandi piatti di bronzo o tambureggiavanofuriosamente sui timpani, mentre giovinetti dai corpi lisci e glabri conbastoni inghirlandati pungolavano arieti, reggendosi alle loro corna elasciandosi trascinare, con grida di giubilo, dai loro salti. E i forsennatiguaivano quel loro grido fatto di consonanti dolci con l'uuuh prolungatoalla fine, dolce e selvaggio insieme come non s'era mai udito l'uguale. Quiesso saliva nell'aria come il bramito d'un cervo, e là era ripetuto da millevoci con accenti di trionfante lascivia, eccitando alla danza, al dimenìodelle membra, senza mai tacere. Ma tutto compenetrava e dominava ilsuono profondo, lusinghevole del flauto. Non allettava con sfrontatainsistenza anche lui, preda riluttante, alle feste, alle orge dell'estremosacrificio? Grande era la sua ripugnanza, grande il suo terrore, sincera lasua volontà di difendere fino all'ultimo ciò che era suo contro lo straniero,il nemico dello spirito fermo e dignitoso. Ma il clamore, le gridamoltiplicate dall'eco delle pareti rocciose crescevano, trionfavano, sigonfiavano in un delirio irresistibile. I vapori offuscavano la mente, acreodore di capri, esalazioni di corpi ansimanti e un tanfo come di acquecorrotte misto a un altro ben noto: di piaghe, di malattia serpeggiante. Aicolpi di timpano il suo cuore rimbombava, la sua testa girava, lo assalivanocieco furore, voluttà inebriante e la sua anima desiderava di unirsi albaccanale del dio. Il simbolo osceno, ligneo, gigantesco, fu svelato einnalzato: e ancor più frementi tutti gridarono la parola del rito. Con laschiuma alle labbra smaniavano, si eccitavano l'un l'altro con gesti lubricie mani lascive, ridendo e gemendo, si cacciavano vicendevolmentepungiglioni nelle carni e leccavano il sangue che ne sgorgava. E ildormiente era ormai con essi, in essi, asservito nel sogno al dio straniero.Anzi essi erano lui, quando si gettarono sulle bestie dilaniando euccidendo, e ingoiarono lembi fumanti di carne, quando sul terrenosconvolto incominciarono orribili congiungimenti in onore del dio. E lasua anima conobbe il gusto della lussuria e la follia della perdizione.Da quel sogno la vittima si svegliò senza forze, coi nervi spezzati,

schiavo del demone. Non temeva più gli sguardi attenti di coloro che lo

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osservavano, non gli importava di esporsi ai loro sospetti. Del restopartivano, fuggivano tutti; sulla spiaggia molte cabine rimasero deserte,molti posti eran vuoti in sala da pranzo, e in città non si vedeva quasi piùun forestiero. Sembrava che la verità fosse trapelata; il panico, nonostantela tenace concordia degli interessati, non si poteva più evitare. Ma la si-gnora dalle perle restava lì con i suoi, sia che le dicerie non fossero giuntefino a lei, sia che ella fosse troppo orgogliosa e impavida per fuggire.Tadzio restava; e ad Aschenbach, irretito nel suo sogno, pareva talvolta chela fuga e la morte avrebbero fatto sparire all'intorno tutta la vitadisturbatrice, lasciandolo solo nell'isola con il bel fanciullo; e anzi, quandoal mattino posava sull'amato lo sguardo fisso, pesante, insistente, o quandoal tramonto lo seguiva senza ritegno nelle calli dove vagava nascostamentela morte abietta, allora gli apparivano probabili quelle mostruose speranze,e caduche le leggi morali.Come tutti gli amanti, desiderava di piacere e aveva un'amara paura che

ciò non fosse possibile. Aggiungeva al suo abbigliamento qualche notagiovanile e rallegrante, portava pietre preziose, si profumava, parecchievolte al giorno impiegava molto tempo ad agghindarsi e andava a pranzotutto adorno, eccitato, ansioso. Di fronte alla dolce giovinezza che lo avevainnamorato, provava ribrezzo del proprio corpo in declino; quandoguardava allo specchio i suoi capelli grigi, i lineamenti marcati, vergogna edisperazione lo assalivano. Istintivamente cercava di riposarsi, diriacquistare freschezza; andava sovente dal parrucchiere.Avvolto nell'accappatoio bianco, sotto le mani esperte del barbiere

loquace, osservava con dolore la propria immagine nello specchio.— Grigio, — disse torcendo la bocca.— Un pochino, — rispose l'uomo. — Colpa di una certa trascuratezza,

di una indifferenza alle cose esteriori che è ben comprensibile nellepersone illustri, ma che però non bisogna approvare incondizionatamente;tanto più che a tali persone non si addicono pregiudizi in fatto di natura odi artificio. Se la severità di certe persone contro l'arte cosmetica siestendesse, come sarebbe logico, anche alla cura dei denti, si griderebbeallo scandalo. Del resto noi abbiamo soltanto l'età del nostro spirito, delnostro cuore, e in certi casi i capelli grigi sono assai più menzogneri che ladeprecata tintura. Nel caso suo, signore, si ha diritto a riprendere il propriocolore naturale. Mi permette semplicemente di restituirglielo?— In che modo? — chiese Aschenbach.Allora l'eloquente parrucchiere lavò la testa del cliente con due liquidi,

uno chiaro e uno scuro, e i capelli divennero neri com'erano in gioventù.

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Poi col ferro da ricci li ondulò morbidamente, fece un passo indietro econsiderò la propria opera.— E ora, — disse, — non resta che rinfrescare un poco la pelle del viso.E instancabilmente, incontentabilmente si diede a passare con sempre

maggior zelo da una manipolazione all'altra. Aschenbach, comodamenteadagiato, incapace di opporsi, e anzi pieno di ansiosa speranza in queltrattamento, vedeva nello specchio le sue sopracciglia disegnarsi più re-golari e più nette, allungarsi il taglio degli occhi, aumentare lo splendoredelle pupille grazie a un'ombreggiatura sotto le palpebre; più giù, dove lapelle era coriacea e gialliccia, vide apparire un leggero carminiomorbidamente spalmato, le sue labbra esangui prendere un bel colore difragola, sparire sotto creme e belletti i solchi delle guance, della bocca, lerughe degli occhi... con cuore palpitante, ammirò nello specchio un floridogiovanotto. Infine il tecnico della cosmesi si dichiarò soddisfatto, eringraziò con strisciante cortesia, secondo l'uso di quella gente, colui cheaveva servito. — Qualche ritocco insignificante, — disse terminandol'operazione. — Adesso il signore può innamorarsi tranquillamente —.Aschenbach se ne andò come rapito in un sogno, confuso e spaventato.Portava una cravatta rossa, il suo largo cappello di paglia aveva un nastromulticolore.Si era alzato un tiepido vento burrascoso; pioveva poco e di rado, ma

l'aria era umida, spessa e piena di vapori mefitici. Schiocchi, fischi, ronziiintronavano l'udito, e Aschenbach febbricitante sotto il rossetto credeva disentir volteggiare nell'aria i maligni spiriti del vento, i biechi uccelli delmare che rodono, scompigliano e insudiciano il pasto dei condannati.Infatti l'afa toglieva l'appetito e non si poteva fare a meno d'immaginareche i cibi fossero avvelenati dai germi del contagio.Sui passi del bel giovinetto, Aschenbach si era smarrito un giorno nel

centro della città ammalata. Incapace di orientarsi, giacché le calli, i canali,i ponti e i campielli del labirinto si somigliano troppo, incerto persino suipunti cardinali, egli pensava soltanto a non perder di vista l'immaginebramosamente inseguita; e, costretto a una umiliante circospezione,radendo i muri, cercando riparo dietro la schiena dei passanti, per moltotempo non si accorse della stanchezza, dello sfinimento che la passione el'ansia continua avevano prodotto nel suo corpo e nel suo spirito. Tadziocamminava dietro ai suoi, nei passaggi angusti lasciava sempre laprecedenza all'istitutrice e alle monachine sue sorelle, e girellando cosìsolo voltava ogni tanto il capo per assicurarsi con un'occhiata dei suoistrani occhi grigi come l'alba, che il suo innamorato lo seguisse. Lo vedeva

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e non lo tradiva! Inebriato da quella scoperta, trascinato da quegli occhi,menato pel naso dalla passione, l'innamorato rincorreva la sua illecitasperanza... e alla fine rimase gabbato. I polacchi avevano attraversato unponte a sesto acuto, l'altezza dell'arco li sottrasse alla vista dell'inseguitoree quando questi giunse a sua volta in cima non li scorse più. Li cercò in tredirezioni, dritto davanti a sé e lungo i due lati dell'argine stretto e sporco,ma invano. L'abbattimento, la spossatezza lo obbligarono infine a desisteredalla ricerca.Aveva la testa in fiamme, il corpo bagnato di sudore appiccicoso, un

tremito alla nuca, era torturato da una sete intollerabile; cercò lì intorno unqualsiasi ristoro immediato. In un piccolo negozio di verdura comprò dellafrutta, fragole troppo mature e sfatte, e ne mangiò camminando. Unapiazzetta che pareva stregata e abbandonata gli si aperse davanti; egli lariconobbe, era li che settimane prima aveva accarezzato quel vano progettodi fuga. Si lasciò cadere sui gradini del pozzo, in mezzo al campiello, e ap-poggiò la testa alla vera di pietra. Tutto era silenzio, l'erba cresceva tra lelastre del selciato, rifiuti erano sparsi all'intorno. Tra le case scolorite, dialtezza disuguale, che circondavano la piazza ve n'era una che pareva unpalazzo, con finestre ad ogiva, dietro le quali regnava il vuoto, e balconcinisorretti da leoni. Al pianterreno di un'altra v'era una farmacia. Folate divento caldo portavano ogni tanto odore di acido fenico.Eccolo lì il maestro, l'artista dignitoso, l'autore del Miserabile, che in

una forma di esemplare purezza aveva condannato la vita zingaresca e iltorbido dei bassifondi, abiurato ogni simpatia per gli abissi, riprovato ilriprovevole, colui che era salito così in alto, che, superato il proprio saperee liberatosi dall'ironia, si era abituato a considerarsi impegnato dallafiducia che ispirava alle masse — Gustav von Aschenbach la cui gloria eraufficiale, il cui nome era stato nobilitato e il cui stile era proposto amodello nelle scuole, eccolo lì seduto a terra, con le palpebre chiuse; solodi tanto in tanto saetta uno sguardo obliquo, ironico e perplesso, e subito lonasconde; e le sue labbra flosce ravvivate dal rossetto articolano parolestaccate dei discorso che il suo cervello intorpidito compone con la stranalogica del sogno.«Giacché la bellezza, poni ben mente, Fedro, la bellezza soltanto è

divina e visibile a un tempo, e perciò essa è la via del sensibile, piccoloFedro, è la via che conduce l'artista allo spirito. Ma tu, o diletto, credi chegiungerà alla saggezza e alla vera dignità virile colui che s'incamminaverso lo spirito per la strada dei sensi? O credi piuttosto (ti lascio libero didecidere) che questa sia una strada irta di deliziosi pericoli, che sia

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davvero una strada tortuosa e peccaminosa che conduce necessariamenteall'errore? Giacché devi sapere che noi poeti non possiamo percorrere ilcammino della bellezza senza che Eros ci accompagni e diventi la nostraguida; anche se a modo nostro siamo eroi e onesti combattenti, siamotuttavia come le donne, poiché la passione è il nostro innalzamento, eamore deve rimanere il nostro anelito... questa è la nostra gioia e la nostravergogna. Lo vedi adesso, che noi poeti non possiamo essere saggi nédignitosi? che dobbiamo necessariamente errare, necessariamente esseredissoluti, avventurieri del sentimento? La nostra maestria dello stile èmenzogna e ciurmeria; la nostra gloria, l'onorifica riputazione, è farsa, lafiducia che il pubblico ha in noi è estremamente ridicola, l'educazione delpopolo e della gioventù per mezzo dell'arte è un'impresa arrischiata chebisogna proibire. Infatti che educatore può mai essere colui che per istintoincorreggibile e naturale è attratto verso l'abisso? Bene vorremmorinnegare l'abisso e conquistare la dignità, ma per quanto ci sforziamo,l'abisso ci attira. Così noi rinunziamo alla conoscenza che dissolve, perchéla conoscenza, Fedro, non ha dignità né rigore, la conoscenza sa,comprende, perdona, è senza carattere e senza forma; ha simpatia perl'abisso, anzi è l'abisso. Noi dunque la respingiamo risolutamente e quindila nostra aspirazione resta unicamente la bellezza, vale a dire la semplicità,la grandezza e la nuova severità, la seconda spontaneità e la forma. Maspontaneità e forma, o Fedro, portano all'ebbrezza e al desiderio, possonotrascinare un animo nobile a orrendi sacrilegi del sentimento che la suastessa bella severità dichiara infami; conducono all'abisso, esse pureall'abisso. E vi conducono proprio noi poeti, perché noi non siamo capacidi elevatezza, ma soltanto di dissolutezza. Ed ora io vado, Fedro, tu restaqui; e quando non mi vedrai più, allora avviati anche tu».Qualche mattino dopo, Gustav von Aschenbach, non sentendosi bene,

uscì dall'albergo più tardi del consueto. Doveva lottare con certe vertiginiche solo in parte erano fisiche, e s'accompagnavano a violente crisid'angoscia, a un senso di disperazione e di irresponsabilità che non sapevase riferire al mondo esterno o alla propria vita. Nell'atrio vide una quantitàdi bagagli pronti per esser portati via; chiese al portiere chi partiva, e inrisposta udì il nome aristocratico della famiglia polacca, proprio quello chefra sé s'attendeva. Lo ascoltò senza che i suoi lineamenti sciupati sicontraessero, con quel leggero movimento del capo di chi apprendeincidentalmente una notizia poco interessante, domandò ancora: —Quando? — Gli risposero: — Dopo il pranzo —. Egli fece un cenno eandò al mare.

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La spiaggia era inospitale. Sull'ampia distesa d'acqua bassa che separavala riva dal primo banco di sabbia correvano leggeri brividi. Un'atmosferaautunnale, di stagione perenta, gravava su quel luogo di piaceri già cosìanimato di colori e adesso quasi abbandonato, tanto che ormai nonpulivano neanche più la rena. Una macchina fotografica, apparentementesenza padrone, stava sul suo cavalletto in riva al mare, e il panno nerostesovi sopra svolazzava schioccando al vento, che era rinfrescato.Tadzio coi tre o quattro compagni che gli eran rimasti si baloccava a

destra davanti alla capanna dei suoi, e Aschenbach, sdraiato in poltronacon una coperta sulle ginocchia, a mezza strada circa fra il mare e la fila dicabine, ancora una volta lo seguiva con gli occhi. Il gioco, senzasorveglianza poiché le donne dovevano essere occupate nei preparativi delviaggio, pareva senza regole e finì per degenerare. Il ragazzo robusto daicapelli neri impomatati che si chiamava «Yaschu», irritato e accecato da unlancio di sabbia in faccia, costrinse Tadzio alla lotta, che finì rapidamentecon la sconfitta del più debole. Ma come se nell'ora dell'addio ilsentimento servile dell'inferiore si mutasse in crudele violenza e come seegli volesse vendicarsi della lunga schiavitù, il vincitore non abbandonòancora il vinto, anzi, inginocchiato sul suo dorso gli premette così a lungoil viso nella rena che Tadzio, già ansante per la lotta, minacciava disoffocare. I suoi sforzi per scuoter via l'avversario che l'opprimeva eranoconvulsi, a momenti cessavano completamente e non si ripetevano checome sussulti. Inorridito Aschenbach stava per correre in suo aiuto quandoil violento finalmente lasciò libera la sua vittima. Tadzio, molto pallido, sialzò a metà e rimase immobile per parecchi minuti appoggiato su unbraccio, con capelli scarmigliati e occhi incupiti. Poi s'alzò in piedi es'allontanò lentamente. I compagni lo chiamarono, allegri dapprima, poicon voci angosciate e supplichevoli; egli non li ascoltava. Il bruno, chedoveva essersi subito pentito del suo eccesso, lo raggiunse e cercò diammansirlo. Tadzio lo respinse con una scrollata di spalle e sceseobliquamente verso il mare. Era scalzo e portava l'abito di lino a righe conla cravatta rossa.Sulla riva sostò a capo chino, tracciando figure con la punta del piede

nella sabbia umida e poi entrò nell'acqua bassa che non gli bagnavanemmeno i ginocchi, l'attraversò stancamente e arrivò al banco di sabbia.Là si fermò un attimo col viso rivolto al largo, poi incominciò a percorrerelentamente, tornando verso sinistra, la lunga e sottile striscia di suoloscoperto. Separato dalla terraferma da una distesa d'acqua, separato daicompagni dal suo fiero capriccio, egli errava laggiù, visione distaccata e

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senza legami, nel mare, nel vento, davanti all'immensità nebulosa. Ancorauna volta si fermò in contemplazione. E improvvisamente, come tratto daun ricordo, da un impulso, volse graziosamente il busto dalla posizioneprimitiva, con una mano sul fianco, e al di sopra della spalla guardò versola spiaggia. Aschenbach era lì come quando per la prima volta, rinviatodalla soglia dell'atrio, aveva incontrato lo sguardo di quegli occhi color delgrigio crepuscolo. Appoggiato allo schienale della poltrona aveva giratolentamente il capo per seguire il moto di Tadzio che camminava laggiù; eora si erse come per andare incontro allo sguardo, poi ricadde sul pettocosì che i suoi occhi guardavano di sotto in su, mentre la faccia prendeval'espressione distesa e introspettiva di chi è caduto in un sonno profondo.Tuttavia gli parve che il pallido e soave psicagogo laggiù gli sorridesse, glifacesse cenno; che, staccando la mano dall'anca, gli indicasse l'orizzontelontano, lo precedesse aleggiando nell'immensità piena di promesse. E,come tante altre volte, volle alzarsi per seguirlo.Passarono alcuni minuti prima che qualcuno accorresse in aiuto del

poeta che s'era accasciato su un fianco. Lo portarono in camera sua. E ilgiorno stesso il mondo apprese con reverente commozione la notizia dellasua morte.

FINE