manifesto degli economisti esterrefatti · creare la realtà. Essendo i mercati sempre più...

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MANIFESTO DEGLI ECONOMISTI ESTERREFATTI SOCIAL EUROPE SERIES Traduzione di: Serena Sciaraffa www.euroalter.com Photo: Atelier Teee / Flickr

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MANIFESTODEGLI ECONOMISTI ESTERREFATTI

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Traduzione di: Serena Sciaraffa

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CRISI E DEBITO IN EUROPA10 LUOGHI COMUNI E 22 PROVVEDIMENTI PROPOSTI PER SBLOCCARE LA SITUAZIONE

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CONTENUTI

Introduzione.......................................................... p. 2

10 luoghi comuni e 22 proposte ....................... pp. 3 - 17

Conclusioni........................................................... p. 18

This publication has been supported by the European Commission Representation in the UK. The opinions expressed are the authors’ alone.

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La ripresa economica mondiale, consentita da una colossale iniezione di spese pubbliche nel circuito economico (dagli Stati Uniti alla Cina) è fragile ma reale. Un solo continente è in ritardo, l’Europa. Ritrovare il percorso di crescita non è più la sua priorità politica. Essa ha intrapreso un’altra via: quella della lotta contro il deficit pubblico. Nell’Unione Europea, questi deficit sono certo elevati – 7% in media nel 2010 – ma molto meno dell’11% registrato negli Stati Uniti. Tanto che alcuni Stati nord-americani con un peso economico maggiore della Grecia, come la California per esempio, sono quasi in fallimento e i mercati finanziari hanno deciso di speculare sui debiti sovrani dei paesi europei, in particolare quelli del Sud. L’Europa è di fatto bloccata nella propria trappola istituzionale: gli Stati devono prendere prestiti presso istituzioni finanziarie private che ottengono, esse, liquidità a basso costo dalla Banca Centrale Europea. I mercati hanno dunque la chiave del finanziamento degli Stati. In questo quadro, l’assenza della solidarietà europea suscita la speculazione, tanto che le agenzie di rating giocano ad accentuare le differenze. C’è stato bisogno della degradazione, il 15 giugno, del comunicato della Grecia da parte dell’agenzia Moody, affinché i dirigenti europei recuperassero il termine “irrazionalità” che avevano tanto utilizzato all’inizio della crisi dei subprimes. Allo stesso modo, si scopre ora che la Spagna è maggiormente minacciata dalla fragilità del suo modello di crescita e del suo sistema bancario che dal suo indebitamento pubblico.

Per “rassicurare i mercati”, è stato improvvisato un Fondo di stabilizzazione dell’euro, e sono stati lanciati in Europa alcuni piani drastici e spesso indiscriminati di riduzione delle spese pubbliche. Gli impiegati pubblici saranno i primi a esserne colpiti, anche in Francia, dove l’aumento delle quote di pensione sarà un abbassamento camuffato dei loro stipendi. Il numero di impiegati diminuisce ovunque, minacciando i servizi pubblici. Le prestazioni sociali, dai Paesi Bassi al Portogallo passando per la Francia, con l’attuale riforma delle pensioni, sono sulla via di essere gravemente amputate. La disoccupazione e il precariato si svilupperanno necessariamente negli anni a venire. Queste misure sono irresponsabili da un punto di vista politico e sociale ma anche da un piano strettamente economico.

Questa politica, che ha provvisoriamente calmato la speculazione, ha già delle conseguenze sociali negative in numerosi paesi europei, in particolar modo sui giovani, sul mondo del lavoro e sui più deboli. Alla fine essa aumenterà le tensioni in Europa e minaccerà di questo la stessa costruzione europea che è molto più che un progetto economico. L’economia si presume essere al servizio della costruzione di un continente democratico, pacifico e unito. Al posto di ciò, s’impone dappertutto una forma di dittatura dei mercati, soprattutto oggi in Portogallo, in Spagna e in Grecia, tre paesi che avevano ancora delle forme di dittature all’inizio degli anni ‘70, appena quarant’anni fa.

Che la si interpreti come il desiderio di “rassicurare i mercati” da parte dei governi spaventati, o come un pretesto per imporre scelte dettate da un’ideologia, la sottomissione a questa dittatura non è accettabile, tanto che essa ha già dato prova di inefficienza economica e del suo potenziale distruttivo sul piano politico e sociale. Deve dunque essere intrapreso in Francia e in Europa, un vero dibattito democratico sulle scelte di politica economica. La maggior parte degli economisti che intervengono nel dibattito pubblico lo fanno per

PRIMI FIRMATARI:

Philippe Askenazy (CNRS)

Thomas Coutrot (scientific council of ATTAC)

André Orléan (CNRS, EHESS)

Henri Sterdyniak (OFCE)

INTRODUZIONE

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giustificare o razionalizzare la sottomissione delle politiche alle esigenze dei mercati finanziari.

Certo, i governi hanno dovuto improvvisare dappertutto piani di rilancio keynesiano e a volte anche nazionalizzare temporaneamente alcune banche. Ma vogliono chiudere al più presto questa parentesi. Il programma neoliberale è sempre l’unico ad essere riconosciuto legittimo, nonostante i suoi evidenti fallimenti. Fondato sull’ipotesi d’efficienza dei mercati finanziari, si propone di ridurre la spesa pubblica, di privatizzare i servizi pubblici, di rendere flessibile il mercato del lavoro, di liberalizzare il commercio, i servizi finanziari e il mercato dei capitali, incrementare la concorrenza sempre e ovunque…

Come economisti siamo esterrefatti nel vedere che queste politiche sono sempre all’ordine del giorno e che i loro fondamenti teorici non vengono ritirati in ballo. Tuttavia, gli argomenti avanzati da trent’anni per orientare le scelte delle politiche economiche europee sono messi in discussione dai fatti. La crisi ha messo a nudo il carattere dogmatico e infondato della maggior parte delle cosiddette evidenze ripetute a sufficienza dai responsabili delle politiche e dai loro consulenti. Che si tratti dell’efficienza e della razionalità dei mercati finanziari, della necessità di tagliare le spese per ridurre il debito pubblico, o di rinforzare il “patto di stabilità”, bisogna interrogare queste prove false e mostrare la pluralità di scelte possibili in materia di politica economica. Altre scelte sono possibili o auspicabili, a condizione innanzitutto di allentare la morsa imposta dal settore finanziario alle politiche pubbliche.

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LUOGO COMUNE N°1“I MERCATI FINANZIARI SONO EFFICIENTI”

Mostriamo di seguito una presentazione critica di dieci luoghi comuni che continuano a ispirare ogni giorno le decisioni dei poteri pubblici in tutta Europa, malgrado le amare smentite apportate dalla crisi finanziaria e le sue conseguenze. Si tratta di luoghi comuni che ispirano disposizioni ingiuste e inefficaci, davanti alle quali avanziamo ventidue controproposte. Ciascuna di esse non è approvata necessariamente all’unanimità dai firmatari di questo testo, ma devono essere prese sul serio se si vuol far uscire l’Europa da questo vicolo cieco.

Oggi, agli occhi di tutti s’impone un fatto: il ruolo fondamentale che interpretano i mercati finanziari nel funzionamento dell’economia. Questo è il risultato di una lunga evoluzione iniziata alla fine degli anni settanta. In qualsiasi modo la si misuri, questa evoluzione segna una rottura netta, tanto quantitativa che qualitativa, rispetto ai decenni precedenti. Sotto la pressione dei mercati finanziari, la regolamentazione d’insieme del capitalismo si è trasformata in profondità, facendo venir fuori una forma inedita di capitalismo che alcuni hanno chiamato “capitalismo patrimoniale”, “capi ta l i smo finanz iar io” o ancora “capitalismo neoliberale”.

Questi cambiamenti hanno trovato la loro giustificazione teorica nell’ipotesi d’efficienza informativa. Infatti, secondo questa ipotesi, è importante sviluppare i mercati finanziari e fare in modo che questi possano funzionare il più liberamente possibile, perché costituiscono l’unico modo di utilizzo efficace del capitale. Le politiche portate avanti con ostinazione da trent’anni sono in linea con questa raccomandazione. Si è venuto così a creare un mercato finanziario integrato a livello globale nel quale tutti i protagonisti (imprese, famiglie, Stati, istituzioni finanziarie) possono scambiare

tutti i tipi di titoli (azioni, obbligazioni, debiti, derivati, valute) per tutti i tipi di scadenze (lungo termine, medio termine, breve termine). I mercati finanziari sono arrivati ad assomigliare al mercato “senza attrito” dei manuali: il discorso economico è riuscito a creare la realtà. Essendo i mercati sempre più “perfetti” al livello della teoria economica dominante, gli analisti hanno creduto che il sistema finanziario fosse ormai ben più stabile che nel passato. La “grande moderazione” – questo periodo di crescita economica senza aumento di salari vissuto dagli USA dal 1990 al 2007 – è parso confermarlo.

Ancora oggi il G20 persiste nell’idea che i mercati finanziari sono il modo ideale di utilizzo del capitale. Il primato e l’integrità dei mercati finanziari restano gli obiettivi finali che persegue il suo nuovo regolamento finanziario. La crisi non viene interpretata come un risultato inevitabile della logica dei mercati liberalizzati, ma come l’effetto della disonestà e dell’irresponsabilità di certi protagonisti della finanza male inquadrati dal potere pubblico.

Eppure la crisi ha dimostrato che i mercati non sono efficienti, e che non permettono un uso efficace del capitale. Le conseguenze di ciò in materia di regolamento e di politica economica sono immense. La teoria dell’efficienza si basa sull’idea che gli investitori cercano e trovano l’informazione più affidabile possibile sul valore dei progetti concorrenti per trovare un finanziamento. Credendo a questa teoria, il prezzo che si forma su un mercato riflette il giudizio degli i n v e s t i t o r i e s i n t e t i z z a l ’ i n s i e m e dell’informazione disponibile: costituisce dunque una buona stima del vero valore dei titoli. Ma questo valore si suppone riassume l’intera informazione necessaria per orientare l’attività economica e così la vita sociale.

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Così, il capitale si investe nei progetti più redditizi e abbandona i progetti meno efficaci. Questa è l’idea principale di tale teoria: la concorrenza finanziaria produce dei prezzi giusti che costituiscono dei segnali affidabili per gli investitori e orientano in maniera efficace lo sviluppo economico.

Ma la crisi ha confermato le diverse opere critiche che avevano messo in dubbio questa proposta. La concorrenza finanziaria non produce necessariamente dei prezzi adeguati. Peggio: la concorrenza finanziaria è spesso destabilizzante e conduce evoluzioni di prezzo eccessive e irrazionali, le bolle finanziarie.

L’errore più grande della teoria dell’efficienza dei mercati finanziari consiste nel trasporre ai prodotti finanziari la teoria abituale dei mercati dei beni ordinari. Su questi ultimi, la concorrenza è in parte auto regolatrice in virtù di quello che chiamiamo la “legge” della domanda e dell’offerta: quando il prezzo di un bene aumenta, i produttori aumentano la loro offerta e gli acquirenti riducono la domanda; il prezzo dunque si abbassa e torna circa al suo livello di equilibrio. In altre parole, quando il prezzo di un bene aumenta, delle forze di richiamo tendono a frenare e poi a invertire questo aumento. La concorrenza produce quelli che chiamiamo “feedback negativi”, delle forze di richiamo che vanno nel senso contrario dello scontro iniziale. L’idea di efficienza nasce da una trasposizione diretta di questo meccanismo verso il finanziamento del mercato.

Ma, per quest’ultimo la situazione è molto diversa. Quando il prezzo aumenta, è frequente osservare non un abbassamento ma un aumento della domanda! Infatti l’aumento del prezzo significa un incremento di rendimento per coloro che possiedono il titolo, a causa del plus-valore realizzato. L’aumento del prezzo attira dunque nuovi acquirenti, cosa che rinforza ulteriormente l’aumento iniziale. Le promesse di riduzioni spingono i traders ad amplificare ancora il movimento. Fino all’incidente, imprevedibile ma inevitabile, che provoca l’inversione dell’anticipazione e il crac. Questo fenomeno degno della pecora di Panurge è un processo a “feedback positivi” che aggrava lo squilibrio. E’ la bolla speculativa: un aumento cumulativo dei prezzi che si alimenta esso stesso. Questo tipo di processo non produce prezzi equi ma al contrario prezzi inadeguati.

La posizione di rilievo occupata dai mercati finanziari non può dunque condurre a una qualsiasi efficacia. Inoltre è fonte permanente d’instabilità come dimostra chiaramente la serie infinita di bolle che abbiamo visto da 20 anni: Giappone, Sud-Est Asiatico, Internet, Mercati emergenti, settore immobiliare, Cartolarizzazione. L’instabilità finanziaria si traduce così attraverso forti oscillazioni dei tassi di cambio e della Borsa, ovviamente senza nessun rapporto con i fondamenti dell’economia. Questa instabilità, nata dal settore finanziario, si propaga all’economia reale attraverso molteplici meccanismi.

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Per ridurre l’inefficienza e l’instabilità dei mercati finanziari, suggeriamo quattro provvedimenti:

Provvedimento 1: dividere rigorosamente i mercati finanziari e le attività dei protagonisti della finanza, proibire alle banche di speculare per proprio conto, per evitare la propagazione di bolle e di crac.

Provvedimento 2: Ridurre la liquidità e la speculazione de stabilizzatrice attraverso controlli sui movimenti dei capitali e delle tasse sulle transazioni finanziarie.

Provvedimento 3: Limitare le transazioni finanziarie a quelle rispondenti ai bisogni dell’economia reale (es: CDS solo per i detentori di titoli assicurati, ecc.)

Provvedimento 4: limitare la remunerazione dei traders. PR

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L’integrazione finanziaria ha portato il potere della finanza al suo apice in quanto essa unifica e centralizza la proprietà capitalista su scala mondiale. Ormai è essa che determina le norme di rendimento richieste dall’insieme dei capitali. Il progetto consiste nella sostituzione del finanziamento del mercato al finanziamento bancario degli investitori. Progetto che d’altronde è fallito poiché oggi, nel complesso, sono le imprese che finanziano gli azionisti invece del contrario. La governance delle imprese si è tuttavia profondamente trasformata per raggiungere le regole di rendimento del mercato. Con l’aumento di valore degli azionisti, si è imposta una nuova concezione dell’impresa e della sua gestione, pensata al servizio esclusivamente dell’azionista. L’idea di un interesse comune alle diverse parti legate all’impresa è scomparso. Ormai i dirigenti delle imprese quotate in Borsa hanno quale prima e unica missione quella di soddisfare il desiderio di arricchimento degli azionisti. Di conseguenza, cessano essi stessi di essere dei dipendenti, come dimostra il picco smisurato della loro remunerazione. Come anticipa la teoria dell’ “agenzia” si tratta di fare in modo che gli interessi dei dirigenti siano convergenti con quelli degli azionisti. Il ROE (Return On Equity o redditività del capitale proprio) dal 15% al 25% è ormai la regola che il

potere della finanza impone alle imprese e ai dipendenti. La liquidità è lo strumento di questo potere, permettendo in qualsiasi momento ai capitali non soddisfatti di andare a cercare altrove. Di fronte a questa potenza, il dipendente come la sovranità politica, appaiono in stato d’inferiorità a causa del loro frazionamento. Questa situazione di squilibrio porta a esigenze di profitto irragionevoli, poiché frenano la crescita economica e portano a un continuo aumento delle disuguaglianze di reddito. Da una parte le esigenze di guadagno impediscono molto gli investimenti: più il rendimento richiesto è elevato, più è difficile trovare dei progetti sufficientemente efficaci per soddisfarlo. I tassi d’investimento restano storicamente affidabili in Europa e negli Stati-Uniti. Dall’altra parte, queste esigenze provocano una pressione costante sul calo dei salari e del potere d’acquisto, cosa che non è favorevole per la domanda. La frenata simultanea dell’investimento e del consumo conduce a una crescita affidabile e a una disoccupazione diffusa. Questa tendenza è stata contrastata nei p a e s i a n g l o s a s s o n i d a l l ’ a u m e n t o dell’indebitamento delle famiglie e dalle bolle finanziarie che creano una ricchezza fittizia, permettendo una crescita del consumo senza salari finendo però in una crisi.

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LUOGO COMUNE N°2: “I MERCATI FINANZIARI SONO FAVOREVOLI ALLA CRESCITA ECONOMICA”

Per porre rimedio agli effetti negativi dei mercati finanziari sull’attività economica proponiamo tre provvedimenti:

Provvedimento n°5: rinforzare in maniera significativa il contro-potere nelle imprese al fine di obbligare le direzioni a prendere in considerazione gli interessi dell’insieme delle parti impegnate.

Provvedimento n°6: Aumentare fortemente l’imposizione dei redditi più alti così da scoraggiare la corsa a rendimenti insostenibili.

Provvedimento n°7: ridurre la dipendenza delle imprese di fronte ai mercati finanziari sviluppando una politica del credito (tariffe preferenziali per attività prioritarie a livello sociale e ambientale)PR

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LUOGO COMUNE N°3:“I MERCATI SONO OTTIMI GIUDICI DELLA SOLVIBILITA’ DEGLI STATI”

Secondo i sostenitori dell’efficienza dei mercati finanziari, gli operatori del mercato prenderebbero in considerazione la situazione oggettiva delle finanze pubbliche per valutare il rischio di sottoscrivere un prestito di Stato. Prendiamo il caso del debito greco: gli operatori finanziari e i responsabili politici fanno riferimento solo alle valutazioni finanziarie per giudicare la situazione. Così, quando il tasso richiesto alla Grecia è salito a più del 10%, tutti ne hanno dedotto che il rischio di fallimento era vicino: se gli investitori esigono tale premio di rischio, il pericolo è estremo.

Questo è un g rave er rore se noi comprendiamo la vera natura della va lutaz ione da parte de l mercato finanziario. Esso non essendo efficiente, produce molto spesso prezzi completamente sconnessi dai fondamentali. In queste condizioni non è ragionevole fare affidamento alle sole valutazioni finanziarie per giudicare una situazione. Valutare il valore di un titolo finanziario non è un’operazione paragonabile a una di g randezza ogget t iva , per e sempio all’estimazione del peso di un oggetto. La sicurezza finanziaria è un diritto sui redditi

futuri: per valutarlo bisogna prevedere quale sarà questo futuro. E’ una questione di giudizio, non di misura oggettiva, perché al momento il futuro non è affatto predeterminato. Nelle stanze della finanza, il futuro non è altro che ciò che gli operatori immaginano sarà. Un premio in denaro è il risultato di una decisione, di una credenza, di una scommessa sull’avvenire: non esiste alcuna garanzia che le sperimentazioni dei mercati abbiano qualcosa di superiore su altre forme di sperimentazione. In particolare, la valutazione finanziaria non è affatto neutra: essa riguarda l’oggetto misurato, avvia e costruisce il futuro che immagina. Così le agenzie di rating contr ibu i scono in larga mi sura a determinare i tassi d’interesse sui mercati obbligazionari assegnando note prese in prestito di grande soggettività viste come volontà di alimentare l’instabilità, risorsa di profitti speculativi. Quando esse degradano la valutazione di uno Stato, esse aumentano i tassi d’interesse applicati agli operatori finanziari per acquisire i titoli di debito pubblico di quello Stato e di conseguenza aumentare il rischio di fallimento che hanno annunciato.

Per ridurre l’influenza della psicologia di mercato sul finanziamento degli Stati proponiamo due provvedimenti:

Provvedimento n°8: le agenzie di rating non dovrebbero essere autorizzate a pesare arbitrariamente sui tassi d’interesse dei mercati obbligazionari abbattendo le note di uno Stato: essa dovrebbe regolare la propria attività esigendo che questa nota risulti da un calcolo economico trasparente.

Provvedimento n° 8bis: liberare gli Stati dalla minaccia dei mercati finanziari garantendo l’acquisto di titoli pubblici da parte della BCE (Banca Centrale Europea).

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Michel Pébereau, uno dei “padrini” della banca francese, descriveva nel 2005 in uno di questi rapporti ufficiali ad hoc, una Francia soffocata dai debiti pubblici e che sacrificava le sue generazioni future dedicandosi a sconsiderate spese sociali. Lo stato si indebita come un padre di famiglia alcolizzato che beve al di sopra dei propri mezzi: questa è la visione di solito diffusa dalla maggior parte degli editorialisti. Eppure la recente esplosione del debito pubblico in Europa e nel mondo è dovuta a tutt’altra cosa: ai piani di salvataggio della finanza e soprattutto alla recessione causata dalla crisi bancaria e finanziaria cominciata nel 2008: il deficit pubblico medio nella zona dell’euro nel 2007 era solo dello 0,6% del PIL, mentre la crisi lo ha fatto salire al 7% nel 2010. Nello stesso tempo il debito pubblico è cresciuto dal 66% all’84% del PIL.

Tuttavia l’aumento del debito pubblico, in Francia e in numerosi paesi europei all’inizio è stato moderato e precedente a questa recessione: non viene da una tendenza al rialzo delle spese pubbliche – dal momento che queste, in rapporto al PIL, sono stabili o

in declino nell’Unione Europea dall’inizio degli anni ’90 – ma dallo sgretolamento delle entrate pubbliche, a causa della debole crescita economica per tutto il periodo, e dalla contro-rivoluzione fiscale condotta dalla maggior parte dei governi da venticinque anni. Sul lungo periodo la contro-riforma fiscale ha di continuo alimentato i l rigonfiamento del debito da una recessione all’altra. In Francia un recente rapporto parlamentare quantifica a 100 miliardi nel 2010 il costo dei tagli fiscali attuati tra il 2000 e 2010, senza includere le esenzioni dei contributi sociali (30 miliardi) e di altre “spese fiscali”. In assenza di armonizzazione fiscale, gli Stati europei si sono lasciati andare alla concorrenza fiscale, abbassando le imposte sulle società, sui redditi alti e sui patrimoni. Anche se i l peso relativo delle sue determinanti varia da un paese all’altro, l’aumento quasi generale del deficit pubblico e dei rapporti di debito pubblico in Europa nel corso degli ultimi trent’anni, non risulta principalmente da una deriva colpevole delle spese pubbl iche. Una d iagnos i che evidentemente apre ad altre piste dalla solita riduzione delle spese pubbliche.

LUOGO COMUNE N°4:“L’IMPENNATA DEI DEBITI PUBBLICI DERIVA DA UN ECCESSO DI SPESE”

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TI Per ripristinare un dibattito pubblico cosciente dell’origine del debito e dunque dei metodi di rimedio avanziamo una proposta:

Provvedimento n°9: Condurre una verifica del debito pubblico e cittadino, per determinare la loro origine e conoscere l’identità dei principali possessori di titoli di debito e gli importi detenuti.

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Anche se l’aumento del debito pubblico risultava in parte da un aumento della spesa pubblica, effettuare dei tagli nelle spese non contribuirà per forza a giungere alla soluzione. Poiché la dinamica del debito pubblico non ha molto a che vedere con quella di una famiglia: la macroeconomia non è riducibile all’economia domestica. La dinamica di questo debito dipende in linea generale da diversi fattori: il livello di deficit primario, ma anche il divario tra il tasso d’interesse e il tasso di crescita nominale dell’economia.

Infatti se quest’ultimo è inferiore al tasso d ’ i n t e r e s s e , i l d e b i t o a u m e n t e r à meccanicamente a causa dell’ “effetto valanga” : l’importo degli interessi esplode e il deficit totale (compresi gli interessi di debito) anche. Così, agli inizi degli anni ’90, la politica del franco forte condotta da Bérégovoy e portata avanti malgrado la recessione del 1993-94 ha rivelato un tasso d’interesse superiore al tasso di crescita, spiegando l’impennata del debito pubblico della Francia in quel periodo. Questo è lo stesso meccanismo che spiega l’aumento del debito nella prima metà degli anni ’80, sotto l’impatto della rivoluzione neoliberale e della politica degli alti tassi d’interesse condotta da Ronald Reagan e Margaret Thatcher.

Ma il tasso di crescita della stessa economia non è indipendente dalla spesa

pubblica: nel breve periodo l’esistenza della spesa pubblica stabile limita l’ampiezza delle recessioni (“stabilizzatori automatici”); a lungo termine gli investimenti e la spesa pubblica (educazione, sanità, ricerca, infrastrutture …) stimolano la crescita. E’ sbagliato affermare che il deficit pubblico aumenta ulteriormente il debito pubblico, o che la riduzione del deficit permette di ridurre il debito. Se la riduzione del deficit arresta l’attività economica, il debito si appesantirà ancora di più. I commentatori liberali sottolineano che certi paesi (Canada, Svezia, Israele) hanno realizzato brutali adeguamenti dei proprio conti pubblici negli anni ’90 e conosciuti immediatamente dopo un forte rimbalzo della crescita.

Ma ciò è possibile solo se l’adeguamento riguarda un paese isolato, che riconquista rapidamente la competitività sui suoi concorrenti. Ciò che evidentemente dimenticano i sostenitori dell’adeguamento strutturale europeo, è che i paesi europei hanno quali principali clienti e concorrenti gli altri paesi europei, essendo l’Unione Europea globalmente poco aperta verso l’esterno. Una simultanea e massiccia riduzione della spesa pubblica dell’insieme dei paesi dell’Unione non può non avere come effetto che una recessione aggravata e dunque un ulteriore aumento del debito.

LUOGO COMUNE N° 5“BISOGNA TAGLIARE LE SPESE PER RIDURRE IL DEBITO PUBBLICO”

Per evitare che il ripristino della pubblica finanza provochi un disastro sociale e politico proponiamo due provvedimenti:

Provvedimento n°10: Mantenere il livello delle tutele sociali, o cercare di migliorarle (assicurazione contro la disoccupazione, alloggi);

Provvedimento n°11: aumentare la dotazione di bilancio in materia di educazione, di ricerca, d’investimento nella riconversione ecologica … per creare le condizioni di una crescita sostenibile, permettendo un forte calo della disoccupazione.

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Si tratta di un’altra falsa affermazione che confonde l’economia domestica e la macroeconomia, quella secondo la quale il debito pubblico sarebbe un trasferimento di ricchezza a scapito delle generazioni future. Il debito pubblico è un meccanismo di trasferimento di ricchezze, ma è soprattutto dei contribuenti ordinari verso redditieri.

Infatti basandosi sulla crescita, raramente verificata, secondo la quale diminuire le tasse stimolerebbe la crescita e aumenterebbe le entrate pubbliche, gli Stati europei hanno dal 1980 imitato gli USA in una politica di minor sistema fiscale. I tagli fiscali e i contributi si sono moltiplicati (sugli utili aziendali, sui redditi più alti, sui beni, sui contributi …) ma il loro impatto sulla crescita economica è rimasto molto incerto. Queste politiche fiscali anti-ridistributive hanno dunque aggravato in una volta, e tutte insieme, le illegalità sociali e i deficit pubblici.

Queste politiche fiscali hanno costretto le amministrazioni pubbliche a indebitarsi con le famiglie agiate e con i mercati finanziari per finanziare il deficit così creato. Questo è quello che potremmo chiamare “l’effetto jackpot”: con i soldi risparmiati sulle tasse, i

ricchi hanno potuto acquisire i titoli (fruttiferi) del debito pubblico emessi per finanziare il deficit pubblico provocato dagli sgravi fiscali … Il servizio del debito pubblico rappresenta in Francia 40 miliardi di euro l’anno, quasi quanto le entrate delle tasse sui redditi. Impresa tanto più brillante che è riuscita poi a far credere al pubblico che il debito fosse colpa degli impiegati, dei pensionati e dei malati.

L’aumento del debito pubblico in Europa o negli Stati Uniti non è dunque il risultato di politiche keynesiane espansioniste o di politiche sociali dispendiose ma piuttosto di una politica in favore delle classi privilegiate: le “spese fiscali” (cali fiscali e dei contributi) aumentano il reddito disponibile di coloro che ne hanno meno b i sogno, che all’improvviso possono aumentare i propri investimenti specialmente nei Buoni del Tesoro, i quali sono remunerati in interessi dalle tasse prelevate su tutti i contribuenti. Alla fine si istituisce un meccanismo di ridistribuzione al rovescio, dalle classi popolari verso le classi benestanti, attraverso il debito pubblico di cui la contropartita resta sempre la rendita privata.

LUOGO COMUNE N°6“IL DEBITO PUBBLICO RIVERSA IL PESO DEI NOSTRI ECCESSI SUI NOSTRI BAMBINI”

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Per recuperare in modo equo le finanze pubbliche in Europa e in Francia proponiamo due provvedimenti:

Provvedimento n°12: ridare un carattere redistributivo alla tassazione diretta sui redditi (soppressione delle nicchie, creazione di nuove unità e aumento dei tassi d’interesse sul reddito …)

Provvedimento n°13: rimuovere le esenzioni concesse a imprese senza sufficiente effetto sull’occupazione.

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A livello mondiale, l’aumento del debito pubbl ico deve essere anal izzato in correlazione con la finanziarizzazione. Negli ultimi trent’anni, grazie alla completa liberalizzazione dei flussi di capitale, la finanza ha notevolmente aumentato la sua influenza sull’economia. Le grandi imprese ricorrono sempre meno ai prestiti bancari ma sempre di più ai mercati finanziari. Anche le famiglie vedono una parte sempre maggiore dei loro risparmi drenati per finanziare i loro pensionamenti attraverso diversi modi di investimento o in alcuni paesi attraverso il mutuo delle loro case (ipoteche). I gestori tentano di diversificare il rischio, cercano dei titoli pubblici come supplemento dei privati. Li trovano facilmente sul mercato poiché i governi conducono politiche simili portando a uno sviluppo del deficit: tassi d’interesse elevati, riduzioni fiscali mirate sui redditi alti, grandi incentivi finanziari per il risparmio delle famiglie per sostenere le pensioni attraverso la capitalizzazione, ecc. Al livello dell’UE, la finanziarizzazione del debito pubblico è stata inclusa nel trattato di Maastricht e da quel momento le Banche centrali hanno il divieto di finanziare direttamente gli Stati, che devono trovare finanziatori sui mercati finanziari.

Q u e s t a “ r e p r e s s i o n e m o n e t a r i a ” accompagna la “liberalizzazione finanziaria” e prende la strada contraria delle politiche adottate dopo la grande crisi degli anni ’30, di “repressione finanziaria” (restrizione drastica della libertà di azione della finanza) e di “liberalizzazione monetaria” (con la fine del gold-standard). Si tratta di sottomettere gli Stati, presumibilmente di natura troppo dispendiosa, alla disciplina dei mercati finanziari per natura efficienti e onniscienti. Risultato di queste scelte dottrinarie, la Banca centrale europea non ha così il diritto di sottoscrivere direttamente al pubblico prestiti obbligazionari di Stati europei. Privati della garanzia di potersi finanziare sempre presso la Banca Centrale, i paesi del Sud sono diventati così le vittime di attacchi speculativi. Certo negli ultimi mesi, mentre questa continuava a rifiutarsi in nome di un’ortodossia impeccabile, la BCE ha acquistato titoli di Stato a tassi di interesse del mercato per calmare le tensioni sui mercati obbligazionari europei. Ma nulla ci dice che questo sarà sufficiente, se la crisi del debito si aggrava e i tassi d’interesse del mercato si alzano. Potrebbe allora essere difficile mantenere questa ortodossia monetaria privata delle serie basi scientifiche.

LUOGO COMUNE N°7“E’ NECESSARIO RASSICURARE I MERCATI PER FINANZIARE IL DEBITO PUBBLICO”

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Per rimediare al problema del debito pubblico proponiamo due provvedimenti:

Provvedimento n°14: autorizzare la Banca Centrale europea a finanziare direttamente gli Stati(o imporre alle banche commerciali di sottoscrivere l’emissione di titoli di Stato) a bassi tassi d’interesse, allentando la camicia di forza nella quale i mercati finanziari li stringono.

Provvedimento n°15: se necessario, ristrutturare il debito pubblico, ad esempio limitando il servizio di debito pubblico a una certa % del PIL, e operando una discriminazione tra i creditori in base al volume dei titoli che detiene: i grandi redditieri (individui o istituzioni) devono consentire un sensibile allungamento del profilo del debito, e anche annullamenti parziali o totali. Bisogna anche rinegoziare i tassi d’interesse esorbitanti di titoli emessi da paesi tormentati dalla crisi.

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La costruzione europea appare come un’esperienza ambigua. Coesistono due visioni dell’Europa che non osano affrontarsi apertamente. Per i social-democratici l’Europa avrebbe dovuto porsi come obiettivo quello di promuovere il modello sociale europeo, frutto di un compromesso sociale e del post guerra, con il proprio benessere sociale, i propri servizi pubblici e le proprie politiche industriali. Essa sarebbe dovuta essere un baluardo di fronte alla globalizzazione liberale, un modo di proteggere, di far vivere e progredire questo modello. L’Europa avrebbe dovuto difendere una visione specifica dell’organizzazione dell’economia mondiale, la globalizzazione regolata da organismi di governance mondiale. Avrebbe dovuto permettere ai paesi membri di mantenere un alto livello di spese pubbliche e di ridistribuzione, proteggendo le loro capacità e finanziandoli attraverso la distribuzione della tassazione su persone fisiche, imprese e redditi del capitale.

Ma l’Europa non ha voluto assumere la sua specificità. Attualmente la visione prevalente a Bruxelles e presso la maggior parte dei governi nazionali è piuttosto quella di un Europa liberale, il cui obiettivo è di adattare le società europee alle esigenze della globalizzazione: la costruzione europea è l’occasione per mettere in discussione il modello sociale europeo e deregolamentare l’economia. La preminenza del diritto di concorrenza sui regolamenti nazionali e sui diritti sociali nel Mercato unico permette di introdurre ulteriore concorrenza sui mercati d i prodott i e serv iz i , d i d iminuire l’importanza dei servizi pubblici e di organizzare la concorrenza tra i lavoratori europei. La competizione sociale e fiscale ha permesso di ridurre le tasse, in particolare sui redditi di capitali e sulle imprese (le “basi

mobili”), e di fare pressione sulle spese sociali. I trattati garantiscono quattro libertà fondamentali: la libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali. Ma lontano dal limitarsi ai mercato interno, la libertà di circolazione dei capitali è stata accordata a investitori del mondo intero, sottomettendo così il tessuto produttivo europeo ai vincoli di valutazione dei capitali internazionali. La costruzione europea appare come un modo di imporre ai popoli riforme neoliberali.

L’Europa avrebbe dovuto permettere ai paesi membri di mantenere un alto

livello di spese pubbliche e di ridistribuzione, proteggendo le loro

capacità e finanziandoli attraverso la distribuzione della tassazione su

persone fisiche, imprese e redditi del capitale.

L’ o rg a n i z z a z i o n e d e l l a p o l i t i c a macroeconomica (indipendenza della BCE nei confronti della politica, Patto di stabilità) è segnata dalla sfiducia verso i governi democraticamente eletti. In questo modo si stanno privando i paesi di ogni autonomia in materia di politica monetaria come in materia di bilancio. L’equilibrio di bilancio deve essere raggiunto, ogni forma di politica di discrezionalità di rilancio bandita, al fine d i n o n l a s c i a r e p i ù a g i r e c h e l a “stabilizzazione automatica”. Nessuna politica economica comune è attuata a livello di zona, nessun obiettivo comune non è definito in termini di crescita o d’impiego. Le diverse situazioni tra i paesi non sono considerate, poiché il patto non riguarda né i tassi d’inflazione né i deficit esteri nazionali; gli obiettivi della finanza pubblica non tengono conto delle situazioni economiche nazionali. Le istituzioni europee hanno tentato di stimolare riforme strutturali

LUOGO COMUNE N°8:“L’UNIONE EUROPEA DIFENDE IL MODELLO SOCIALE EUROPEO”.

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(tramite i grandi orientamenti di politica e c o n o m i c a , i l m e t o d o a p e r t o d i coordinamento o l’agenda di Lisbona) con un successo incostante. Il loro modo di elaborazione non è né democratico, né stimolante, il loro orientamento liberale non corrisponde obbligatoriamente alle politiche decise a livello nazionale, dato il rapporto di forza che esiste in ogni paese. Questo orientamento non ha conosciuto per ora i successi eclatanti che l’avrebbero legittimato.

Il movimento di liberalizzazione economica è stato rimesso in discussione (fallimento della direttiva Bolkestein); alcuni paesi hanno tentato di nazionalizzare la propria politica industriale mentre la maggior parte si opponevano all’europeizzazione delle proprie politiche fiscali o sociali. L’Europa sociale è rimasta una parola vuota, solo l’Europa della competizione e della finanza si è davvero affermata.

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Affinché l’Europa possa davvero promuovere un modello sociale europeo, proponiamo due provvedimenti:

Provvedimento n°16: riformare la libera circolazione dei capitali e delle merci tra l’Unione europea e il resto del mondo, negoziando degli accordi multilaterali o bilaterali se necessario.

Provvedimento n°17: al posto della politica di competizione, fare dell’ “armonizzazione nel progresso” il filo conduttore della costruzione europea. Costituire degli obiettivi comuni vincolanti da raggiungere nel progresso sociale così come in macroeconomia (dei GOPS, grandi orientamenti di politica sociale).

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L’euro sarebbe dovuto essere un fattore protettivo contro la crisi finanziaria mondiale. Dopo tutto, la soppressione di ogni incertezza sui tassi di cambio tra le monete europee ha eliminato un fattore più grande di instabilità. Eppure così non è stato: l’Europa è ancor più duramente e da più tempo colpita dalla crisi rispetto al resto del mondo. Questo è dovuto alle modalità stesse di costruzione dell’unione monetaria. Dal 1999 la zona dell’euro ha conosciuto una crescita relativamente mediocre e un incremento delle divergenze tra gli stati membri in termini di crescita, di inflazione, di disoccupazione e squilibri esterni. Il quadro della politica economica della zona dell’euro, che tende a imporre politiche macroeconomiche simili per paesi con situazioni diverse, ha aumentato le disuguaglianze di crescita tra gli Stati membri. Nella maggior parte dei paesi, in p a r t i c o l a r m o d o n e i p i ù g r a n d i , l’introduzione dell’euro non ha provocato l’aumento promesso di crescita. Per gli altri, c’è stata crescita ma al prezzo di squilibri difficilmente sostenibili. La rigidità monetaria e fiscale, rafforzata dall’euro, ha contribuito a spostare l’intero onere degli adattamenti sul lavoro. Ha promosso la flessibilità e l’austerità salariale, ridotto la quota degli stipendi nel reddito totale, aumentato le disuguaglianze. Questa corsa verso il meno sociale è stata vinta dalla Germania, che ha saputo liberarsi di importanti surplus commerciali a scapito dei suoi vicini e soprattutto dei suoi propri dipendenti, imponendo un calo del costo del lavoro e delle prestazioni sociali, che gli ha conferito un vantaggio commerciale rispetto ai suoi vicini che non hanno potuto trattare i propri dipendenti così duramente. Le eccedenze commerciali tedesche pesano sulla crescita degli altri paesi. I deficit di bilancio e commerciali degli uni non sono altro che la contropartita degli eccessi degli altri. Gli Stati

membri non sono stati capaci di definire una strategia coordinata.

La rigidità monetaria e fiscale, rafforzata dall’euro, ha contribuito a

spostare l’intero onere degli adattamenti sul lavoro.

La zona dell’euro sarebbe dovuta essere meno toccata rispetto agli Stati Uniti o al Regno-Unito dalla crisi finanziaria. Le famiglie sono nettamente meno implicate nei mercati finanziari che sono meno sofisticate. Le finanze pubbliche erano in una migliore condizione; il deficit pubblico dell’insieme dei paesi della zona era del 0,6% del PIL nel 2007, quasi il 3% contro gli Stati Uniti, il Regno Unito o il Giappone. Ma la zona dell’euro ha sofferto di un aumento di squilibri: i paesi del nord (Germania, Austria, Paesi-Bassi, Paesi scandinavi) hanno soffocato i propri stipendi e le proprie domande interne e hanno accumulato delle eccedenze esterne, mentre i paesi del Sud (Spagna, Grecia, Irlanda) conoscevano una crescita vigorosa guidata da bassi tassi d’interesse rispetto ai tassi di crescita, accumulando deficit esterni. Mentre la crisi finanziaria è partita dagli Stati Uniti, questi hanno cercato di attuare una vera politica di stimolo fiscale e monetario, a v v i a n d o u n m o v i m e n t o d i r i -regolamentazione finanziaria. L’Europa al contrario non ha saputo adottare una politica abbastanza reattiva. dal 2007 al 2010, l’impulso fiscale è stato di circa l’1,6% del PIL nella zona dell’Euro; del 3,2% nel Regno Unito; del 4,2% negli Stati Uniti. La perdita di produzione dovuta alla crisi è stata molto più forte nella zona dell’euro che negli Stati Uniti. L’incremento del deficit nella zona è stato subito piuttosto come il risultato di una politica attiva. Allo stesso tempo, la Commissione ha continuato ad avviare

LUOGO COMUNE N°9:“L’EURO E’ UNO SCUDO CONTRO LA CRISI”

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procedure di deficit eccessivo contro gli Stati membri in modo che entro la metà del 2010 tutti gli Stati della zona sono stati presentati. Essa ha chiesto agli Stati membri di impegnarsi a tornare prima del 2013 o 2014 a meno del 3% indipendentemente dall’evoluzione economica. Le autorità europee hanno continuato a chiedere politiche restrittive dei salari e hanno sfidato i sistemi pubblici pensionistici e sanitari, con l’evidente rischio di condurre il continente nella depressione e aumentare le tensioni tra i paesi. Questa mancanza di coordinazione e

ancor più l’assenza di un vero bilancio europeo che ha permesso una solidarietà effettiva tra gli Stati membri, hanno sollecitato gli operatori finanziari a evitare l’euro o addirittura a speculare apertamente contro di lui.

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Affinché l’euro possa realmente proteggere i cittadini europei dalla crisi proponiamo due provvedimenti:

Provvedimento n°18: garantire un coordinamento efficace delle politiche macroeconomiche e una riduzione degli squilibri commerciali tra i paesi europei.

Provvedimento n°19: compensare gli squilibri di pagamento in Europa attraverso una Banca di Regolamento (che organizzi prestiti tra paesi europei).

Provvedimento n°20: se la crisi dell’euro conduce alla sua frammentazione, in attesa del ristabilimento del bilancio europeo, stabilire un regime monetario intraeuropeo (moneta comune di tipo “Bancor”) che organizzi il riassorbimento dei bilanci commerciali all’interno dell’Europa.

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A partire dalla metà del 2009, i mercati finanziari hanno cominciato a speculare sui debiti dei paesi europei. Nel complesso, il forte aumento dei debiti pubblici su scala mondiale non ha (ancora) portato aumenti nei tassi a lungo termine: gli operatori finanziari stimano che le banche centrali manterrebbero a lungo tassi monetari reali a un livello vicino allo zero, e che non c’è rischio d’inflazione né di difetto di un grande paese. Ma gli speculatori hanno percepito gli errori dell’organizzazione della zona dell’euro. Mentre i governi degli altri paesi sviluppati possono essere sempre finanziati dalle proprie Banche centrali, i paesi della zona dell’euro hanno rinunciato a questa possibilità, e dipendono totalmente dai mercati per finanziare i propri deficit. Come risultato, la speculazione ha potuto scagliarsi sui paesi più fragili della zona: Grecia, Spagna, Irlanda.

Le autorità europee e i governi hanno tardato a reagire non volendo dare l’impressione che i paesi membri avevano diritto a un sostegno senza limiti dei propri partner e hanno voluto sanzionare la Grecia, colpevole di aver nascosto – con l’aiuto di Goldman Sachs – l’entità del suo debito. Tuttavia, nel maggio 2010, la BCE e i paesi membri hanno dovuto creare un Fondo di stabilizzazione per segnalare ai mercati che essi porterebbero il proprio aiuto senza limiti ai paesi a rischio. In cambio, questi hanno dovuto annunciare programmi di austerità fiscale senza precedenti, che li condannano a una diminuzione dell’attività a breve termine e a un lungo periodo di recessione. Sotto la pressione del FMI (Fondo Monetario Internazionale) e della Commissione europea la Grecia deve privatizzare i propri servizi pubblici e la Spagna flettere il suo mercato

del lavoro. Anche la Francia e la Germania, che non sono colpite dalla speculazione, hanno annunciato misure restrittive.

Pertanto, nel complesso, non c’è un eccesso di domanda in Europa. La situazione delle finanze pubbliche è migliore di quella degli Stati-Uniti o della Gran Bretagna, lasciando margini di manovra fiscale. Bisogna ridurre gli squilibri in modo coordinato: i paesi in surplus, del Nord e del centro dell’Europa devono condurre politiche espansionistiche – aumento dei salari, delle spese sociali etc. - per compensare le politiche restrittive dei paesi del Sud. Nel complesso, la politica finanziaria non deve essere restrittiva nella zona dell’euro, finché l’economia europea non si avvicini a un soddisfacente tasso di piena occupazione.

La crisi permette d’imporre forti riduzioni delle spese sociali, obiettivo

perseguito dai sostenitori del neoliberalismo

Ma i sostenitori delle politiche fiscali automatiche e restrittive in Europa oggi sono purtroppo rafforzati. La crisi greca può far dimenticare le origini della crisi finanziaria. Coloro che hanno accettato di sostenere finanziariamente i paesi del Sud vogliono imporre in cambio un irrigidimento del Patto di Stabilità. La Commissione e la Germania vogliono imporre a tutti i paesi membri di inserire l’obiettivo del pareggio di bilancio nelle loro costituzioni e di far sorvegliare le proprie politiche fiscali da comitati di esperti indipendenti. La Commissione vuole imporre ai paesi una lunga cura di austerità per tornare a un debito pubblico inferiore al 60% del PIL. Se vi è un passo verso il governo economico europeo, è verso un governo che,

LUOGO COMUNE N°10“LA CRISI GRECA ALLA FINE HA CONSENTITO DI ANDARE VERSO UN GOVERNO ECONOMICO E UNA VERA SOLIDARIETÀ’ EUROPEA”

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invece di allentare la morsa della finanza, impone l’austerità e approfondisce le “riforme” strutturali a scapito della solidarietà sociale in ogni paese e trai paesi.

La crisi offre alle elite finanziarie e ai tecnocrati europei la tentazione di attuare la “strategia di shock, approfittando della crisi per radicare l’agenda neoliberale. Ma questa politica ha poche possibilità di successo:

La diminuzione delle spese pubbliche compromette lo sforzo necessario a scala europea per sostenere le spese future (ricerca, educazione, politica familiare), per aiutare l’industria europea a resistere e a investire nei settori del futuro (green economy).

La crisi permette d’imporre forti riduzioni delle spese sociali, obiettivo perseguito dai sostenitori del neoliberalismo, rischiando di compromettere la coesione sociali, di ridurre la domanda effettiva, di spingere le famiglie a risparmiare per la pensione e la propria salute presso istituzioni finanziarie responsabili della crisi.

I governi e le autorità europee si rifiutano di organizzare l’adeguamento fiscale che permetterebbe l’aumento necessario delle tasse sui settori finanziari, sui patrimoni elevati e gli alti redditi.

I paesi europei instaurano politiche fiscali restrittive che vogliono pesare molto sulla crescita. Le entrate fiscali diminuirà. Inoltre, i saldi pubblici non miglioreranno, il rapporto debito/PIL sarà degradato, i mercati non saranno rassicurati.

I paesi europei, a causa della diversità delle proprie culture politiche e sociali non si sono potute piegare alla disciplina di ferro imposta dal trattato di Maastricht; non si piegheranno a tutte le sue capacità attualmente organizzate. Il rischio di creare una dinamica di ripresa su sé stessi è reale.

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Per fare un passo verso un governo economico e una solidarietà europea proponiamo due provvedimenti:

Provvedimento n°21: sviluppare un sistema di tassazione europeo (tassa carbone, tassa sui beni …) e un vero bilancio europeo per aiutare la convergenza delle economie e muoversi verso un’uguaglianza delle condizioni di accesso ai servizi pubblici e sociali nei diversi Stati membri sulla base di pratiche migliori.

Provvedimento n°22: lanciare un vasto piano europeo, finanziato dalla sottoscrizione per il pubblico a tassi d’interesse bassi ma garantiti, e/o dalla creazione monetaria della BCE per avviare la riconversione ecologica dell’economia europea.

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L’Europa è stata fondata tre decenni fa su base tecnocratica escludendo i popoli del dibattito sulla politica economica. La dottrina neoliberale, che si basa sull’ipotesi oggi indifendibile dell’efficienza dei mercati finanziari, deve essere abbandonata. Occorre riaprire lo spazio di politiche possibili e avanzare proposte alternative e coerenti, che limitano il potere della finanza e organizzano l’armonizzazione nel progresso dei sistemi economici e sociali europei. Ciò richiede la condivisione di notevoli risorse di bilancio, emerse dallo sviluppo di una sistema fiscale europeo fortemente ridistribuito. Occorre inoltre liberare gli Stati dalla morsa dei mercati finanziari. Solo così il progetto di costruzione europea potrà sperare di ritrovare una legittimità popolare e democratica che oggi gli manca.

Ovviamente non è realistico immaginare che 27 paesi decidano nello stesso momento di operare una tale rottura nel metodo e negli obiettivi della costruzione europea. La Comunità economica europea ha iniziato con sei paesi: la ricostruzione dell’Unione europea passerà all’inizio attraverso un accordo tra quei paesi desiderosi di esplorare vie alternative. Appena saranno evidente le conseguenze disastrose delle politiche oggi adottate, il dibattito sulle possibili alternative crescerà in tutta l’Europa. Lotte sociali e cambiamenti politici interverranno con ritmi diversi secondo i paesi. I Governi nazionali prenderanno decisioni innovative. Coloro che lo desidereranno dovranno adottare cooperazioni rinforzate per prendere provvedimenti audaci in materia di regolamentazione finanziaria, di politica fiscale o sociale. Attraverso proposte concrete tenderanno la mano agli altri popoli affinché si stringano al movimento.

E’ per questo che ci sembra importante delineare e proporre ora le grandi linee di politiche economiche alternative che rendono possibile questa rifondazione della costruzione europea.

PER SAPERNE DI PIU’:

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CONCLUSIONIDISCUTERE SULLA POLITICA ECONOMICA, TRACCIARE DEI PERCORSI PER RIFONDARE

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