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1 MANDALA MANDALA MANDALA MANDALA una mappa verso il Divino una mappa verso il Divino una mappa verso il Divino una mappa verso il Divino Relatore: Jacopo Ceccarelli Tesi di fine corso di Dario De Gaetanis Insegnante di Meditazione Corso Insegnanti di Yoga e Meditazione Ananda Ashram Milano

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MANDALAMANDALAMANDALAMANDALA

una mappa verso il Divinouna mappa verso il Divinouna mappa verso il Divinouna mappa verso il Divino

Relatore: Jacopo Ceccarelli Tesi di fine corso di Dario De Gaetanis

Insegnante di Meditazione Corso Insegnanti di Yoga e Meditazione

Ananda Ashram Milano

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SOMMARIO

Introduzione pag. 3

1. Le origini del Mandala pag. 4

2. La cultura tantrica pag. 5

3. Il ciclo della Creazione pag. 6

4. Il Buddismo pag. 9

5. Mandala e Yantra: le differenze pag. 11

6. Gli elementi costitutivi dello Yantra pag. 13

7. I Chakra pag. 16

8. Gli elementi costitutivi del Mandala pag. 20

9. I cinque Dhyanibuddha del Buddismo Vajrayana pag. 22

10. L’esecuzione del Mandala pag. 24

11. Gli esempi più significativi: Shri Yantra e Ruota della Vita pag. 27

11.1 Lo Shri Yantra pag. 27

11.2 La Ruota della Vita pag. 31

12. Le funzioni di Yantra e Mandala pag. 36

13. Diffusione e universalità del Mandala: Labirinti, vetrate e rosoni pag. 40

14. Jung e il Mandala come strumento per un viaggio nel profondo pag 47

Conclusione pag. 50

Bibliografia pag. 51

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INTRODUZIONE

Mandala significa centro, circonferenza, cerchio magico.

Il Mandala può essere definito come un diagramma simbolico costituito, nella sua essenza, da

un cerchio oppure da un quadrato.

Nella maggior parte dei casi è proprio l’associazione di tutte e due queste figure geometriche,

per la precisione il cerchio inserito o, meglio ancora, protetto da un quadrato, che realizza il

Mandala.

Si può presupporre che il Mandala, così come lo intendiamo oggi, nasca come mezzo per la

trasmissione della conoscenza in ambito spirituale, trascendentale.

L’esposizione verbale ha una sua forza, sicuramente superiore a quella scritta, potendo

contare su una serie di elementi di cui un testo scritto non si può avvalere. Basti pensare alle

qualità intrinseche di un soggetto che si esprime, oppure a come questi possa modulare il tono

e il volume della voce, per rendere più o meno intensa e penetrante la propria comunicazione.

Il simbolo, che non appartiene né all’una né all’altra categoria espressiva, nasconde nel

proprio nucleo una forza ancora superiore. A chi lo considera, o lo osserva con attenzione,

consente di capire concetti o vivere esperienze che altrimenti non riuscirebbe neanche a

immaginare.

Infatti il simbolo va al di là dei luoghi comuni, rompe gli usuali condizionamenti, arriva dritto al

punto spezzando, in un batter d’occhio, qualsiasi catena costrittiva e limitativa che la mente

razionale, posta di fronte a nuova idea, propone, o peggio ancora impone, a chi cerca di

introiettarla.

In questo senso, il sentiero verso il Divino è cosparso di innumerevoli “ganci”, di tanti aiuti, ma

anche di tanti pericoli, visibili solo se illuminati dalla luce del sentire e non da quella del

pensiero razionale.

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E’ per questo che il simbolo-Mandala riveste un ruolo così importante per colui che ha deciso

di intraprendere un viaggio dall’esterno verso l’interno, dal manifesto all’immanifesto, dal

visibile all’invisibile.

Il Mandala è perciò essenziale e imprescindibile strumento per il ricercatore sincero che sente

la necessità di appoggiarsi con fiducia ad una mappa che, sventando pericoli ed evitando

dispersioni, gli mostri qual è il tragitto più rapido, e nel contempo più sicuro, per far rientro a

casa.

1. LE ORIGINI DEL MANDALA

Se per un attimo assimiliamo il Mandala ad un semplice cerchio, figura che come abbiamo detto

ne costituisce la parte essenziale, non è difficile verificare che le sue origini siano quasi

contemporanee alla nascita dell’uomo primitivo.

Anzi, a ben vedere, è proprio l’uomo che nasce da un cerchio. Così si presenta, sotto questa forma,

l’uovo femminile che, fecondato dal seme del maschio, concepisce una nuova vita. Forma circolare

ha anche il contenitore che lo accoglie e lo protegge durante la gravidanza: l’utero materno. Un

fascio di muscoli di forma circolare sospinge il nascituro verso la vita; il neonato approda nel

mondo uscendo da un’apertura anch’essa circolare. Per iniziare il suo viaggio sulla terra, pianeta di

forma sferica, che ruota in cerchio intorno al sole.

Circolare è la forma del cielo, così come appare ai nostri occhi. E se andiamo nell’infinitamente

piccolo, per verificare di cosa sia costituito il nostro corpo, ci accorgiamo che anche lì troviamo

strutture sferiche che ruotano seguendo traiettorie circolari.

Grande evidentemente è il richiamo che il cerchio ha esercitato, da sempre, sulla mente

dell’uomo.

I primi Mandala, seppur in forma molto rudimentale, sono individuabili tra i graffiti rupestri

dell’Africa, dell’Europa e del Nord America.

Civiltà così diverse e distanti tra loro, impossibilitate a comunicare, iniziano a utilizzare la figura del

cerchio, con sempre più frequenza, perché ne avvertono la carica e la forza simbolica misteriosa e

latente. Seduti intorno al fuoco, in cerchio, cercano di cogliere il senso della propria esistenza che

si svolge secondo i ritmi della natura e delle stagioni, che appaiono avere un andamento circolare.

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Non è difficile intuire il motivo per cui il cerchio entri ben presto, e a pieno titolo, nelle

manifestazioni e nelle iniziazioni religiose.

Nei riti vodoo, le sacerdotesse disegnano un cerchio nel terreno per evocare gli dei. Alcune danze

devozionali si svolgono in cerchio e ogni adepto ruota su se stesso per raggiungere uno stato

vicino all’estasi e alla comunione con il divino.

Il cerchio inizia ad assurgere a ruolo di separatore di spazi. Diventa il confine difficilmente

valicabile di quello sacro, che a differenza di quello profano, può essere visitato solo da chi sia

pronto a tale contatto. Solo dopo un viaggio, lungo o istantaneo che sia, all’interno di sé stesso per

recuperare la propria vera natura, per realizzare il proprio vero Sé.

Il Mandala e nella sua forma primigenia lo Yantra trovano il proprio vero sviluppo e splendore

nell’ambito rispettivamente della cultura buddista e di quella tantrica.

Prima di passare alla descrizione delle funzioni e caratteristiche di Mandala e Yantra, è forse

auspicabile fare un piccolo accenno alle culle religiose e culturali che hanno visto nascere, e che

hanno saputo far crescere ed evolvere, tali preziosi strumenti di conoscenza e introspezione.

2. LA CULTURA TANTRICA

Il termine tantra, a differenza di ciò che molti pensano, non deriva dal sanscrito. E’ stato coniato

da alcuni studiosi occidentali, intorno alla fine del 1800, per cercare di definire, e dare un nome,

ad una serie di pratiche sviluppatesi nell’antica India. Tali pratiche, non ascrivibili ad alcuna

tradizione religiosa specifica, si ponevano come obiettivo di aiutare l’essere umano nella propria

evoluzione, durante il proprio viaggio di ritorno verso il divino.

Tantra letteralmente vuol dire “trama di tessuto” oppure “teoria”, “norma”, “sistema”.

Nel tempo il termine è stato fatto risalire alla radice “tan” che vuol dire tendere e “tra” che ha il

significato di salvare. Ciò per intendere che le pratiche tantriche possiedono una tensione

intrinseca di carattere salvifico; cioè nascono per portare la coscienza di colui che le pratica ad

espandersi, ad abbandonare l’oscurità dell’ignoranza, per proiettarsi verso la luce della saggezza e

della piena realizzazione del Sé.

Il tantrico rifugge dal considerarsi abietto e indegno. E’ conscio che tutto deriva da Brahman,

anche lui stesso, e che quindi attraverso un impegno costante a trascendere l’ignoranza e le

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limitazioni imposte dai sensi, può tornare ad appropriarsi della propria vera natura, integra e

divina.

Il pensiero tantrico si sviluppò ben presto per buona parte dell’India, pervadendo le coscienze

umane dell’epoca alle quali mise a disposizione diversi scritti, denominati anch’essi tantra, che

indicavano quali pratiche potevano essere di beneficio per l’evoluzione spirituale.

Uno dei supporti più suggeriti, per il cammino verso il Divino, fu lo yoga. Vale a dire tutto

quell’insieme di pratiche psico-fisiche, di osservanze e precetti, che suddivisi in otto stadi, così

come poi furono classificati dal saggio Patanjali, rappresentavano l’esatta mappa del viaggio che

l’uomo deve intraprendere per raggiungere il samadhi.

In questo quadro storico e culturale, e insieme alle altre pratiche yogiche (asana, pranayama,

mudra, ecc.), gli Yantra rivestono un’importanza particolare, quali strumenti capaci di fissare

l’attenzione del praticante, risvegliare le energie divine latenti in lui, ingenerare stati di coscienza

superiori.

Tutto ciò, in definitiva, per cercare di risvegliare l’energia Kundalini che, secondo il tantrismo,

dorme arrotolata su stessa, in tre spire e mezza come un serpente, alla base della colonna

vertebrale di ogni uomo. Energia che aspetta di essere stimolata per poter iniziare il proprio

cammino di risalita, attraverso ogni centro psico-energetico (chakra) posto lungo la colonna

vertebrale, così da potersi ricongiungere all’Assoluto, alla parte di sé immobile e immanifesta, che

l’attende alla sommità del capo: Shiva.

A questo proposito, e per poter riuscire a “vedere” tutti i simboli nascosti nello Yantra di cui si

parlerà nei prossimi capitoli, è necessario fare un breve viaggio all’interno della concezione

tantrica del Brahmacakra che descrive nel dettaglio: la nascita, l’evoluzione e la dissoluzione

dell’Universo manifesto.

3. IL CICLO DELLA CREAZIONE

Per il Tantra quindi tutto procede dall’Uno.

L’Uno è la Coscienza cosmica (Brahman) che ad un certo punto si limita e si contrae nel “molti” per

poi ritornare all’Uno, alla propria pienezza ed integrità.

Cosa inneschi il processo che porti Brahaman a volersi manifestare, non ci è dato saperlo.

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Nella filosofia induista si cita Kama, e cioè il desiderio, quale spinta che induce la Luce Suprema,

identificata con Shiva, a volersi riconoscere, quasi a volersi specchiare.

Per far sì che questa auto-identificazione si possa realizzare, è necessario pensare ad un’entità

diversa da sé, ad un principio riflesso nel quale Shiva si possa osservare.

Ecco che nasce Shakti, la compagna del Dio Shiva. E con essa si forma la coppia perfetta, che è

l’essenza di tutte le cose: un insieme di coscienza (Shiva) e di energia (Shakti).

Shiva e Shakti sono da considerarsi i due aspetti di una stessa identica Unità, come fossero i due

lati di uno stesso foglio di carta. Non si può pensare all’uno senza presupporre l’esistenza

dell’altro.

Nella fase originaria della creazione ci troviamo di fronte ad uno stato completamente

trascendente, ove la Coscienza prevale, e l’energia di Shakti è inespressa e dormiente. Tutto è

ancora silente, immobile, immanifesto.

Per il Brahmacakra siamo nella fase del Nirguna brahma, e cioè nel momento in cui le tre qualità, i

tre modi con i quali la Shakti si può esprimere (i tre guna) sono in perfetto equilibrio, e perciò non

influenzano la purezza del sonno di Shiva.

Volendo creare un utile parallelismo con la simbologia dello Yantra, questo è il momento in cui la

Coscienza Cosmica ha prodotto una vibrazione primordiale che, dopo aver risuonato, si è

condensata in unico punto: il bindu.

Sempre presente nella simbologia mandalica, il bindu incolore, simbolo dell’Uno, esprime appunto

la simultanea presenza, nello stesso istante e nello stesso luogo, sia dell’infinito e dell’eterno sia

dello spazio e del tempo. E’ come se manifesto e immanifesto, visibile e invisibile convivessero in

un’unica, medesima realtà. La Shakti possiede già la potenzialità di manifestarsi e di creare, ma è

ancora inerme. Quasi fosse inconsapevole delle proprie possibilità.

Solo per poco, però. Perché spinta dal desiderio di proiettarsi nelle forme, attraverso i guna che la

caratterizzano, la Shakti ben presto inizia ad innescare il processo di evoluzione cosmica.

Il primo guna che si muove, prevale sugli altri due, e disgrega il perfetto equilibrio che caratterizza

il momento pre-evolutivo è: sattva. E’ stabile, leggero, luminoso, ma grazie al suo movimento fa sì

che la coscienza perda la propria purezza e integrità, e che una parte di essa, quella maggiormente

influenzata, si trasformi in Mente Cosmica.

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Nel Tantra questa fase è denominata Saguna Brahma. Mentre la mente cosmica, che per la prima

volta si riconosce, e si rende conto di esistere, viene chiamata: mahat.

Per tornare al parallelismo con la simbologia dello Yantra, a questo punto ci troviamo al preludio

della differenziazione, della separazione tra Shiva e Shakti. E il bindu diventa metà bianco e metà

rosso.

Il processo prosegue e i passaggi successivi vedono gli altri guna, a loro volta, e a turno,

predominare.

E’ la volta di Rajas, la forza mutativa. Dinamico e passionale fa sì che la Mente Cosmica acquisisca

il senso dell’azione (Aham). Nasce l’ego, e con esso il concetto del: io faccio.

A seguire prevale Tamas, inerte, lento e oscuro, per ingenerare nella mente cosmica l’idea di aver

fatto, di aver creato. La mente cosmica inizia ad identificarsi con l’oggetto stesso della creazione.

Il processo di evoluzione cosmica è ormai avviato in maniera irreversibile, e la creazione ha inizio

con la comparsa dei fattori costituenti l’universo fenomenico. Per primo emerge il fattore etereo,

e poi in successione gli altri quattro: aereo, luminoso, liquido e solido.

Intanto, sulla scena della creazione compare Maya, l’illusione cosmica, che inizia a limitare e

frammentare la Coscienza cosmica in tante singole individualità, a cui fa ben presto perdere la

reale consapevolezza di sé e della propria vera natura.

L’Unità primordiale è ormai completamente soggiogata da Maya, e dalle sue cinque potenti

illusioni:

• la sensazione di individualità che frammenta l’onnipotenza divina;

• l’ignoranza che offusca l’intelletto e lo priva dell’onniscienza;

• l’attaccamento che distrugge il senso di pienezza e appagamento;

• il concetto di tempo che stende un velo sull’eternità;

• il destino che imbriglia il libero arbitrio dell’uomo e lo lega al samsara, il ciclo di morti e

rinascite.

Questa fase, che il Tantra denomina saincara, finisce nel momento in cui il molteplice inizia il

proprio viaggio di ritorno verso l’Unità. Un viaggio difficile e impervio, tenuto conto delle

limitazioni e delle illusioni di cui l’individuo è preda e a cui è soggetto.

I Mandala e gli Yantra, per certi aspetti, non sono altro che efficaci rappresentazioni grafiche di

questo movimento che, descritto poc’anzi, va dal centro verso la periferia, che dall’unità si

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dispiega nella molteplicità. Movimento che ad un certo punto sente il bisogno di invertire la rotta,

iniziando a percorrere una direzione uguale e contraria.

In quanto archetipi potenti, i simboli del Mandala e dello Yantra, sono in grado di sollecitare nel

nostro animo emozioni e stati d’animo profondi, sensazioni sottili e ricordi lontani, accompagnati

però da un chiaro e preciso senso di nostalgia per quell’unità e quell’armonia dalla quale siamo

certi, seppur inconsapevolmente, di provenire.

4. IL BUDDISMO

Se nel tantrismo si parla di “shivaità”, per definire quella scintilla divina, presente in ogni essere

vivente, che se debitamente alimentata può consentire a chiunque di ritrovare la perduta unità

con il Tutto, nel buddismo lo stesso concetto è espresso dalla parola “buddità”.

Il riferimento è allo stato di illuminazione raggiunto, dopo un estenuante peregrinare, dal principe

Siddharta, figlio di un re della dinastia degli Shakya, vissuto intorno al 560 a.c.

L’appellativo di Buddha, che vuol dire “il risvegliato”, gli fu attribuito proprio per indicare che

attraverso il costante impegno e la profonda dedizione alle pratiche yogiche e meditative,

Siddharta era riuscito a “risvegliarsi” alla luce della saggezza, in grado di spazzare via il pesante

velo dell’illusione che Maya pone in continuazione sull’universo manifesto.

La corrente più antica del buddismo è l’Hinayana (detta anche del Piccolo Veicolo) così definita da

quei seguaci del Buddha che invece vollero identificarsi con la corrente Mahayana (detta anche del

Grande Veicolo), proprio per indicare quanto la propria visione fosse più ampia e inclusiva di

quella che caratterizzava il Piccolo Veicolo.

Le due correnti fiorirono pressoché insieme, ma il Buddismo Mahayana si diffuse più

rapidamente, e in territori molto più vasti, forse proprio perché di più ampie vedute rispetto

all’ortodossia degli Hinayani.

Non potendo in questa sede mettere in evidenza tutte le differenze di approccio e di pensiero

esistenti tra le due correnti, basti sapere che gli Hinayani basano il loro percorso spirituale sul

distacco dalla vita mondana, vedendo nella vita monastica l’unica possibilità per raggiungere il

nirvana. Secondo tale visione, i laici possono solo cercare di coltivare con costanza le virtù della

fede, della generosità e della moralità, per accumulare meriti e assicurarsi così nascite future che li

inducano verso la vita monastica.

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I Mahayani, molto meno intransigenti, sono convinti che il nirvana sia appannaggio di tutti, anche

dei laici. Anzi, la figura di riferimento dei Mahayani è il bodhisattva, essere realizzato che prima di

entrare nel nirvana attende e si assicura che tutti gli essere senzienti, che si propone di proteggere

e aiutare nel loro cammino, abbiano raggiunto l’illuminazione.

Intorno al V-VI secolo, attorno alla predicazione di Padmasambhava, mistico buddista operante

tra il Tibet e il Nepal, inizia a delinearsi la corrente del buddismo Vajrayana che armonizza aspetti

appartenenti a diverse concezioni religiose, come lo sciamanesimo Bon, l’induismo e gli

insegnamenti del Buddha Shakyamuni.

Detto anche buddismo tantrico, il Vajrayana è la corrente buddista che più di ogni altra fa uso del

Mandala, quale strumento preminente nel percorso verso la realizzazione.

Tutte e tre le correnti sopra citate si basano su alcuni concetti, che seppur con le dovute

differenze, costituiscono il comune fondamento della pratica buddista. E’ il caso di riassumerli

brevemente questi concetti, in quanto se ne trova traccia, seppur in forma simbolica, nel Mandala

buddista.

Il Buddha storico aveva innanzitutto posto l’accento sull’universalità del dolore e su come e

quanto il dolore permei l’esistenza umana, tanto da rendere la vita, che di per sé è l’emblema

dell’impermanenza, priva di senso.

Aveva poi individuato nel desiderio e nell’attaccamento la radice di ogni sofferenza, e per questo

aveva trasmesso insegnamenti atti a sopprimere il desiderio e a superare l’attaccamento, fonti

inesauribili del continuo ciclo di morti e rinascite a cui l’uomo è, per sua indole, destinato.

Tali insegnamenti si incentrano sul così detto Ottuplice Sentiero, una proposta di vita che ha lo

scopo di portare l’individuo alla liberazione dalla ruota del samsara, attraverso la pratica: della

retta visione; della retta risoluzione; della retta parola; della retta azione; della retta condotta;

del retto sforzo; del retto ricordo e della retta concentrazione.

L’aggettivo “retto”, lungi dall’avere nelle intenzioni del Buddha una connotazione di carattere

morale, sta ad indicare uno sforzo e una concentrazione costanti ma equilibrati, che si collochino

nella giusta “via di mezzo” tra i possibili estremi.

Un altro concetto predominante nella dottrina buddista è quello della “vacuità” (shunyata). Il

filosofo Nagarjuna, grande esponente di una scuola filosofica appartenente alla corrente

Mahayana, vissuto attorno al II-III D.C., ha saputo dare un grosso contributo alla definizione di un

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concetto, qual è quello di vuoto e di vacuità, che risulta per lo più ostico e di difficile comprensione

per la mente umana.

La Vacuità, la sola e unica Essenza, è simile ad uno specchio limpido che riflette tutti i fenomeni;

solo lo specchio è reale e permanente, mentre i fenomeni sono illusori ed evanescenti. Come lo

specchio riflette tutte le immagini, cosi l’Essenza abbraccia tutti i fenomeni, poiché questi non

possono manifestarsi che grazie ad essa.

La meditazione sulla vacuità è un metodo molto utilizzato nella pratica buddista per cercare di

deconcettualizzare la mente, per rompere gli schemi di pensiero costrittivi e ingombranti, per

ottenere quella visione limpida che è la sola capace di fare entrare in contatto il praticante con la

Realtà… così com’è.

Vedremo come il Mandala, molto ricco da un punto di vista iconografico, aiuti l’adepto ad

identificare e ad entrare in contatto con gli ostacoli insiti nella sua mente, che spesso gli

impediscono, nonostante l’assistenza e l’aiuto delle divinità che lo scortano nel cammino, di

accedere alla parte centrale del diagramma, dove ha sede il Palazzo, o il Grande Stupa, al cui

interno si trova la Buddità.

5. MANDALA E YANTRA: LE DIFFERENZE

Dopo aver collocato Mandala e Yantra nell’ambiente culturale e storico nel quale hanno trovato il

loro massimo sviluppo e la loro maggiore applicazione, si entrerà ora nel cuore della trattazione,

partendo da una breve descrizione delle principali differenze che intercorrono tra i due simboli.

Tra gli studiosi ci sono pareri discordanti su quale sia l’esatto legame tra il Mandala e lo Yantra,

non esistendo tra l’altro una base documentale che possa fare chiarezza su tale relazione.

Nella sua forma più elementare, ancora scevro dalla simbologia mistica che lo avrebbe

caratterizzato con il passare del tempo, il Mandala appare come Yantra.

E’ probabile quindi che il Mandala con il tempo abbia ospitato, al proprio interno, una serie di

iconografie e di immagini, subendo quasi una sorta di “imbarocchimento”, che lo hanno

allontanato sempre più dalla sua forma originale, semplice e rudimentale.

In effetti, in epoca vedica, quindi intorno al 1500 A.C., il termine Mandala, la cui etimologia ci

riconduce all’idea del cerchio, è utilizzato per far riferimento al sole, alla luna e alla ruota. Con la

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parola Mandala si alludeva perciò a svariate figure circolari, le cui parti componenti erano tutte

equidistanti dal centro.

Con Yantra, invece, ci si riferiva a qualsiasi “congegno o strumento”, come potevano essere gli

apparecchi meccanici, i ferri chirurgici o attrezzi similari.

In ambito tantrico la parola Yantra era utilizzata per far riferimento ad un diagramma con

caratteristiche ben precise, che avesse la capacità di ingenerare nel soggetto che lo osservava

esperienze di carattere psichico o mentale. Dalla radice yam, che significa mantenere a freno,

trattenere, in unione con il suffisso tra, che sta ad indicare lo strumento effettivo di tale azione,

per estensione Yantra può essere tradotto con “catena, legame, cinghia”. Ciò che lo Yantra fissa e

imbriglia è appunto la mente del praticante che lo utilizza durante la meditazione.

A chi osservasse un Mandala e uno Yantra, posti l’uno di fianco all’altro, le differenze strutturali

parrebbero subito abbastanza evidenti. Lo Yantra è pressoché costituito solo da forme

geometriche, nelle quali troviamo iscritte lettere dell’alfabeto sanscrito, la lingua sacra dell’India,

che simboleggiano particolari divinità a cui lo Yantra si riferisce, o che attraverso lo Yantra si cerca

di evocare.

Il Mandala, al contrario, si presenta molto più ricco di simboli, di immagini, di descrizioni di luoghi

e di intere ambientazioni sceniche, che ne fanno una composizione di complessa, minuziosa e

difficile esecuzione.

L’altra marcata differenza è la cornice che “protegge” il cuore dei due simboli: quadrata con

quattro aperture a T per lo Yantra, circolare per il Mandala.

Si è già visto che l’ambito culturale e religioso in cui vengono utilizzati è diverso. Il Mandala è

usato, in maniera preponderante, in ambito buddista soprattutto nella corrente Vajrayana, mentre

lo Yantra è privilegiato nel contesto induista, ed in particolar modo in quello tantrico.

Per quanto riguarda la loro funzione evocativa, il Mandala rappresenta l’universo fisico e psichico,

e pertanto è stato anche definito come “cosmogramma”, mentre lo Yantra richiama una

particolare divinità o forza cosmica e quindi è stato inserito, da alcuni studiosi, nella categoria dei

“teogrammi”. Tali definizioni vanno però prese con molto cautela, in quanto potrebbero risultare

riduttive e fuorvianti, data la complessità di composizione sia del Mandala sia dello Yantra, e la

profondità di azione che tutti e due i simboli esercitano su chi ne fa uso.

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E’ certo che concentrarsi sul Mandala o sullo Yantra, ovvero idearlo, disegnarlo, costruirlo, fa

emergere parti dell’essere oscure e profonde che, risalendo dall’inconscio, possono essere

scandagliate ed integrate a livello di coscienza imparando, durante questo arduo percorso, che il

macrocosmo e il microcosmo coincidono, che nell’uno c’è il riflesso dell’altro, che nello

infinitamente piccolo c’è tutto l’infinitamente grande, che visibile e invisibile sono due aspetti

diversi della stessa realtà.

Per concludere, Mandala e Yantra sono assimilabili per origine, essenza e funzione a delle vere e

proprie carte geografiche. Ogni elemento all’interno ha una sua precisa ragione di essere e la

relazione d’insieme, che si crea tra i vari elementi, è ancor più significativa e importante.

La codifica insita in questi simboli lascia poco spazio alla creatività e all’originalità di colui che li

disegna che, attenendosi a precise regole di realizzazione, deve accantonare qualsiasi ambizione

di carattere puramente estetico ed artistico.

6. GLI ELEMENTI COSTITUTIVI DELLO YANTRA

Lo Yantra si avvale del simbolismo geometrico per evocare e

attrarre al proprio interno una specifica divinità, connessa con

particolari stati psico-fisici e caratterizzata da sottili connessioni

cosmiche.

La precisione e l’accuratezza, la pazienza e il rigore, la

concentrazione e l’attenzione che è necessario porre nel

tracciare lo Yantra, diventano esse stesse “pratica” che

inducono colui che lo realizza a superare il particolare per

proiettarsi nell’universale, a potenziare e a riattivare quella coscienza cosmica latente nel

profondo di sé stesso. L’esecuzione di uno Yantra diventa perciò, più che un’espressione artistica,

un vero e proprio rituale.

Il primo elemento geometrico, che occupa il “punto centrale”, da cui si irradia tutta la struttura

dello Yantra, è il bindu.

Come si è già accennato, parlando del Bramhacakra, il bindu è il simbolo dell’Uno indifferenziato in

cui Shiva e Skakti sono ancora pienamente coinvolti nell’eterno amplesso cosmico: il maithuna.

Yantra con al centro il bindu

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Nel bindu la Shakti non ha ancora consapevolezza di sé stessa, né tantomeno della propria

capacità creatrice; la manifestazione fenomenica e il suo divenire esistono solo come possibilità.

Il punto, figura geometrica per definizione adimensionale, diventa proprio l’origine e il principio da

cui parte il movimento che dall’interno si proietta verso l’esterno, che dall’uno si dispiega nella

moltitudine, che dall’eternità passa alla limitata dimensione condizionata dal tempo e dallo spazio.

Il punto è il simbolo per eccellenza del mistero dell’Essere: privo di dimensioni, e quindi invisibile,

è ciò che dà dimensione al visibile. In esso, infinitamente piccolo, è contenuto l’infinitamente

grande e l’origine di ogni cosa.

Il tantra, ponendo l’attenzione e la concentrazione nel bindu, intende stimolare proprio tale

paradosso: come può ciò che non esiste, ciò che non si vede, dare origine e forma all’esistenza

manifesta? Introiettare tale antitesi è utile per spiazzare il ragionamento logico-razionale della

mente, e trovare così un varco verso altri e più elevati stati di coscienza.

Altro elemento costitutivo dello Yantra è il cerchio, che in questa sede potremmo vedere come

un’espansione del bindu.

Il bindu, abbiamo già detto, rappresenta la Coscienza universale che dall’Uno passa al molteplice, e

per far questo innesca un movimento che produce un allontanamento da sé stessa, dal centro,

dall’origine. Il punto, per diventare cerchio, ha bisogno di autolimitarsi. Il cerchio infatti, a

differenza del punto, ha una sua dimensione e circoscrive uno spazio.

In questo senso il cerchio diventa anche una sorta di recinzione, di protezione di quello spazio

sacro che, all’interno dello Yantra, può essere raggiunto solo da chi abbia una preparazione e

un’esperienza adeguate.

Il cerchio dà anche l’idea del tempo circolare, di tutto ciò che ritorna al punto di partenza.

Il cerchio ruotando su sé stesso diventa, nella sua espressione grafica, una spirale che si espande

fino a che non ritorna al proprio centro, in una sorta di inevitabile dissoluzione.

Il cerchio, infine, può essere assimilato allo zero che non conta niente di per sé, ma dà la possibilità

agli altri numeri di espandersi all’infinito, anziché rimanere confinati nell’angusto spazio dall’1 al

9. E anche in questo caso siamo di fronte ad un altro paradosso: dal vuoto del cerchio, assimilato

allo zero, si dipana e si dispiega l’universo infinito.

La terza figura geometrica, presente nello Yantra, è il quadrato che rimanda all’elemento terra, di

cui ne costituisce il simbolo. Il quadrato evoca i concetti di stabilità, di solidificazione, quasi di

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stagnazione contrapposti all’idea dinamica, e di continuo movimento, che la figura del cerchio

richiama.

Se il cerchio evoca l’idea di perfezione, il quadrato simboleggia il concetto di giustizia. Nell’antica

Grecia il quadrato fu infatti preso come emblema della legge, della norma interiore, di ciò che è

giusto in sé.

Il quadrato sta al cerchio, come la terra sta al cielo. Il quadrato è il riflesso della perfezione divina

nel mondo materiale, è la figura geometrica che definisce, che regolarizza il creato, che altrimenti

si porterebbe dietro elementi ancora caotici e informi.

Se il cerchio è il Divino, il quadrato rappresenta il Suo manifestarsi sulla terra.

L’uomo che per eccellenza, durante la propria incarnazione umana, ha abbandonato tutto il

proprio essere nelle mani del Divino (del cerchio) è il Cristo che, non a caso, nella posizione forzata

della croce, oltre ad indicare le direzioni dei quattro punti cardinali, simboleggia una precisa figura

geometrica: il quadrato.

Il quadrato, che nello Yantra include il cerchio, simboleggia la dimensione umana come

derivazione di quella spirituale, a cui è necessario fare continuo riferimento, dalla quale non si può

prescindere, alla quale bisogna sempre, in ogni istante, ritornare.

Le quattro porte a T, accessi verso il diagramma centrale, poste nella stessa direttiva dei quattro i

punti cardinali, simboleggiano la possibilità o la necessità di spostarsi da un piano all’altro, dalla

dimensione umana e quella spirituale.

L’ultima figura geometrica presente nello Yantra è il triangolo.

Se il vertice è rivolto verso l’alto simboleggia il fuoco ed è collegato con l’elemento maschile

(Shiva), se il vertice è rivolto verso il basso rappresenta l’acqua, ed è collegato con il principio

femminile: la Shakti. Il vertice verso il basso è anche simbolo dell’Uno che si ripiega verso

l’umanità, mentre il vertice verso l’alto è lo sforzo dell’uomo che tenta di ascendere verso il

Divino.

I tre lati rappresentano le tre caratteristiche insite nell’energia della Shakti, che le hanno permesso

di differenziarsi, di dare origine al mondo manifesto. Più in generale, i tre lati sono riferibili alla

Trinità della concezione cristiana o alla Trimurti degli induisti.

L’unico simbolo non geometrico che trova posto nello Yantra è il fiore di loto, a otto o a dodici

petali. Il loto è strettamente legato con l’immagine del Sole; si apre e si manifesta, in tutto il suo

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splendore, alla luce del giorno per chiudere i propri petali con il calare della notte. Simboleggiando

in questo modo l’importanza della conoscenza come strada privilegiata verso l’illuminazione.

Il fiore di loto evoca anche i concetti di perfezione e di purezza. Nonostante le sue radici affondino

nella melma delle paludi e degli stagni, i suoi fiori meravigliosi si stagliano verso l’alto, assorbendo

l’aria incontaminata del cielo. Così dovrebbe fare anche l’uomo: trascendere le proprie limitazioni,

e i propri attaccamenti, per nutrirsi della pura energia che emana dal Divino.

7. I CHAKRA

Il Tantra e il Buddismo concordano pienamente sul fatto che l’uomo, sebbene si trovi immerso in

un universo materico, soggiogato dalle illusioni di Maya, è l’unico essere che ha il privilegio di

trovarsi in una dimensione nella quale è possibile un rapido percorso di evoluzione, di

avvicinamento, o addirittura di ricongiunzione con il Divino. L’esistenza umana, di per sé stessa, è

già il percorso spirituale; il corpo fisico con il quale l’uomo scende sulla terra, il mezzo

imprescindibile attraverso il quale tale percorso diviene possibile.

Si è già visto come la nascita dell’Universo dipenda dallo sdoppiamento dell’Uno in due principi

rappresentati simbolicamente da Shiva e Shakti, e si è anche intuito come la creazione sia

assimilabile ad un campo di energia che si espande progressivamente partendo da un centro.

Le scoperte della fisica quantistica di inizio ‘900 confermano questa ipotesi, dando ragione agli

yoghi che 4000 anni fa asserivano che la materia, così come la percepiamo attraverso i nostri

sensi, è un’illusione. La materia è una particolare forma di energia! Anche il corpo umano è un

campo di energia, al cui interno trovano posto, oltre agli organi fisici, numerosi sistemi e organi

sottili, tra i quali i chakra.

Mulhadara Swadhishtana Manipura Anahata Vishuddhi Ajna Sahasrara

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Da questa prospettiva l’organismo umano diventa il riflesso puntuale e la rappresentazione fedele,

seppur miniaturizzata, del macrocosmo e di tutte le sue dinamiche energetiche che lo regolano e

che lo tengono in vita.

Non potendoci dilungare nella trattazione di argomenti di biopsicologia tantrica, che descrivono

nel dettaglio la composizione e il funzionamento dei sistemi sottili di cui l’uomo è costituito, in

questa sede si tratterà solo dei chakra, con particolare riferimento allo Yantra che come vedremo

è elemento costitutivo e fondamentale della simbologia di questi organi sottili.

Il termine chakra deriva dal sanscrito, ed è traducibile con la parola italiana “ruota” o “vortice di

energia”. Posti idealmente lungo la colonna vertebrale, in concomitanza con le ghiandole

endocrine, i chakra sono dei veri e propri centri psichici invisibili, valvole energetiche che smistano

e distribuiscono l’energia vitale nel corpo, anelli di congiunzione tra il mondo fisico e quello sottile.

Sono le tappe che l’energia kundalini deve percorrere, per ascendere dalla base (svayambhu-linga)

in cui si trova addormentata, fino al settimo chakra, il Sahasrara, dove può finalmente

ricongiungersi con l’Assoluto.

Sebbene nel corpo sottile trovino posto svariate migliaia di nadi,

sottilissimi canali attraverso i quali scorre l’energia, l’unico canale

deputato a far ascendere la Kundalini è quello centrale: Sushumna.

Attorno a Sushumna, rispettivamente a sinistra e a destra, si snodano

Ida e Pingala seguendo un andamento sinusoidale e incrociandosi

all’altezza di ogni chakra. Ida e Pingala rappresentano una coppia di

opposti: la prima è associata all’energia lunare, fresca e femminile; la

seconda è legata all’energia solare, attiva e maschile.

Per verificare quanto il corpo umano, in quanto microcosmo, rappresenti esso stesso una sorta di

mappa mandalica che, se osservata con gli occhi dello yoghi, consente all’uomo di accedere ai

segreti del macrocosmo nella sua interezza, è utile citare che Ida e Pingala vengono

rispettivamente associati ai fiumi indiani Varana e Asi, tra i quali sorge la città sacra di Varanasi.

Varanasi è associata con l’ajna, il chakra dai due petali, dove Ida e Pingala si incontrano per

l’ultima volta.

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Per ciò che concerne Sushumna, essa nasce nella zona coccigea, ascende lungo tutta la colonna

vertebrale, ed è associata al fiume Sarasvati, che si crede si ricongiunga per via sotterranea, al

Gange e alla Yamuna, presso la città di Allahabad.

La colonna vertebrale, infine, è l’equivalente in scala umana del monte Meru, anche detto l’axis

mundi, l’asse cosmico, il centro dell’universo della mitologia induista e buddista, che pone in

contatto attraversandoli il mondo sotterraneo, umano e divino.

In questa stretta relazione tra macrocosmo e microcosmo, i chakra sono i punti focali dove i piani

cosmici, fisici e psichici si incontrano in un dinamico alternarsi di immagini e simboli che includono

lo Yantra e altre raffigurazioni mandaliche complesse e ricche di significati esoterici.

Per il buddismo tantrico i chakra principali sono cinque e sono posti nella regione sacrale, nella

zona dell’ombelico, all’altezza del cuore, all’altezza della gola e sulla sommità del capo.

Per il tantrismo i chakra principali sono sette, aggiungendo a quelli presi in considerazione dal

buddismo, un centro posto nella zona genitale e uno situato tra le sopracciglia.

Tutti i chakra vengono raffigurati come fiori di loto, il cui numero di petali e il cui colore varia,

caratterizzando e distinguendo ciascun chakra. Se prendiamo in considerazione tutti i chakra, il

numero complessivo dei loro petali è cinquanta; tanti quanti i fonemi dell’alfabeto sanscrito che

troviamo adagiati, uno per ogni petalo, su tutti i fiori di loto.

Sulla corolla del fiore di loto compare lo Yantra che rimanda a uno degli elementi costitutivi del

cosmo e agli organi di senso e d’azione a questi collegati: Terra-olfatto-piedi (Muladhara); Acqua-

gusto-genitali(Svadhishthana); Fuoco-vista-escretori (Manipura); Aria-tatto-mani (Anahata); Etere-

udito-voce (Vishuddhi). La ricchezza simbolica dello Yantra, all’interno di ogni chakra, viene

arricchita anche grazie alla presenza del bija-mantra, il seme sonoro. Sono questi i mantra

costituiti da una sola sillaba, aventi la funzione di animare lo Yantra e che, come tutti i mantra,

hanno la capacità di provocare reazioni sottili molto potenti, in quanto sollecitano specifiche

energie inducendole ad incarnarsi nell’adepto che con fiducia e devozione le evoca.

Il primo chakra, anche detto chakra della base o della radice, è Muladhara. E’ posto per l’appunto

alla base della colonna vertebrale, visualizzato come un loto con quattro petali di colore rosso, ha

come Yantra un quadrato. Il quadrato, figura stabile per eccellenza, rimanda al concetto di

radicamento nella terra. Infatti, il Muladhara chakra sovrintende alle necessità primarie dell’essere

umano, come l’istinto di sopravvivenza e la capacità di adattarsi al mondo.

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Il secondo chakra è Svadhisthana, posto alla base degli organi genitali. E’ un loto con sei petali di

colore vermiglio, nel quale è raffigurato un Mandala circolare di colore bianco. All’interno del

Mandala vi è una falce lunare inscritta tra due ninfee, come richiamo all’elemento governato da

questo chakra: l’acqua. Svadhistana sovrintende alle capacità creative, al pensiero astratto e a

tutto ciò che è correlato al senso estetico.

Il terzo chakra è Manipura, che si presenta come un loto con dieci petali di colore bluastro; la sua

connessione con l’elemento fuoco è richiamata da uno Yantra triangolare di colore rosso

fiammeggiante, posto con il vertice verso il basso, e circondato da tre svastiche sui lati. Manipura

promuove l’affermazione di sé, la longevità e la ricerca di gloria.

Salendo troviamo Anahata, loto dai dodici petali. Il suo Yantra è costituito da due triangoli che si

intersecano, formando una stella a sei punte che lo collega all’elemento aria. Questo chakra

sviluppa la compassione, l’amore incondizionato, il senso di condivisione e di servizio altruistico.

Il quinto chakra è Vishuddha, un loto con sedici petali di colore turchese, o porpora per alcune

tradizioni, localizzato nella gola, che si rifà all’elemento etere e il cui Yantra è costituito da un

cerchio bianco come la luna piena. Il Vishuddha chakra realizza la conoscenza.

L’Ajna chakra, detto anche “il luogo dove si realizza il comando”, è visualizzato come un loto con

due petali di colore bianco lunare e che come Yantra ha un triangolo con il vertice verso il basso.

Questo chakra è la sede delle facoltà mentali e di discernimento più elevate.

Infine il Sahasrara, il loto dai mille petali, detto anche chakra della corona, è di colore bianco e sui

suoi petali si trovano tutte le possibili combinazioni delle lettere dell’alfabeto sanscrito.

Nel pericarpo del fiore trova collocazione lo Yantra: una luna piena bianchissima che cinge una

yoni a forma di triangolo dal cui vertice, posto verso l’alto, stilla l’amrita, il nettare divino prodotto

dall’unione di Shiva e Shakti.

Da questa breve disamina sui chakra emerge una concezione del corpo umano molto diversa da

quella che i nostri sensi limitati ci suggeriscono. Il corpo è un universo e come tale contiene, al

proprio interno, infinite possibilità che vanno dalla schiavitù dei sensi, alla liberazione da ogni

attaccamento terreno, dalla caducità e dal dolore tipici del mondo materiale, alla realizzazione

dell’anima e all’illuminazione.

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Lo Yantra, e ancor di più la ricchezza di immagini e di simboli che vedremo inseriti nei Mandala

buddisti, ci aiutano a divenire consapevoli anche di questo: dell’universo infinito che si nasconde

dentro ognuno di noi.

8. GLI ELEMENTI COSTITUTIVI DEL MANDALA

Il Mandala buddista è in genere costituito da tre

cornici circolari concentriche, al cui interno è posto

un quadrato con quattro aperture in direzione dei

punti cardinali. In tale architettura di base, composta

dal cerchio e dal quadrato, trovano posto oggetti e

simboli che raffigurano o evocano divinità e concetti

di varia natura. Le cornici circolari, che cingono e

proteggono il Mandala, servono a visualizzare i

diversi stati di coscienza che il meditante deve

raggiungere per poter progredire nel proprio

percorso verso l’illuminazione. La prima cornice ospita al proprio interno innumerevoli fiamme che

stanno a simboleggiare come solo il fuoco, con il suo potere distruttivo e purificatore, è in grado

di annientare i pensieri e gli attaccamenti mondani, trasformando la mente del praticante e

preparandola ad affrontare gli stadi successivi.

La seconda cornice raffigura una serie di vajra che alludono alla forza e alla indistruttibilità del

diamante che, in grado di tagliare qualsiasi materiale, non può essere scalfito da nulla. Ciò sta a

simboleggiare come dovrebbe diventare la mente del praticante: forte, determinata, intrisa di una

volontà indistruttibile. Solo così il ricercatore spirituale è in grado di superare la paura, o qualsiasi

altro ostacolo gli si pari davanti durante il cammino verso il centro del Mandala. Il Vajra, che da

una struttura circolare unica, si diparte in due protuberanze opposte costituite da più punte, serve

anche ad evocare il mistero della dualità che è contenuta, e scaturisce,

dall’Unità immanifesta.

La terza cornice in genere si articola in “otto cimiteri” che stanno a

simboleggiare come le tendenze umane debbano essere definitivamente

annientate e sepolte per poter acquisire la chiara visione della Realtà. Il Vajra

Esempio di Mandala tibetano

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L’ultima cornice, adornata da una ghirlanda di fiori, o di petali di loto, rimanda al cuore del

praticante che deve essere colmo di amore e di pura devozione per poter aspirare ad entrare nel

palazzo del Mandala.

Il palazzo posto al centro del Mandala, denominato anche il palazzo della consacrazione, è

circondato e protetto da un alto muro di cinta. A volte questo muro può essere dipinto di oro,

altre volte si presenta abbellito da luccicanti pietre preziose.

Nelle mura si aprono, in direzione dei punti cardinali, quattro porte dette: torana.

Le torana sono sormontate da diversi oggetti: da parasoli regali, da banderuole che escono da vasi

simboleggianti abbondanza e prosperità, da due gazzelle poste l’una di fronte all’altra, che

ricordano il primo discorso del Buddha Shakyamuni, che si tenne per l’appunto nel parco delle

gazzelle e che sembrano far da contorno al darmachakra, la ruota ad otto raggi, simbolo

dell’ottuplice sentiero.

L’accesso all’area centrale è presidiato da divinità dall’atteggiamento irato, che orrende e

spaventose nelle loro fattezze, scoraggiano il profano dal varcare la soglia del perimetro sacro.

Le divinità terribili, molto frequenti nell’iconografia buddista, hanno anche un altro scopo.

Avvertono il praticante che la meditazione, soprattutto se supportata dal Mandala, può far

emergere materiale scabroso, inquietante ed oscuro dall’ inconscio, e che a tale evenienza bisogna

essere pronti, per evitare di esserne sopraffatti.

Non solo, le divinità terribili stanno a simboleggiare che il percorso spirituale del meditante non

può prescindere dal dover attraversare, con coraggio e determinazione, invece di evitarle: paure,

angosce e timori di qualsiasi genere.

L’area all’interno del palazzo viene generalmente suddivisa mediante le forme geometriche

caratterizzanti lo Yantra e cioè : il cerchio, il quadrato e il triangolo.

La superficie del palazzo può presentarsi perciò divisa in più quadrati, in genere nove, oppure può

articolarsi in una serie di quadrati incastonati l’uno dentro l’altro, per dare l’idea che il palazzo si

sviluppi in verticale, come fosse composto da più terrazze poggiate le une sulle altre.

La costruzione è pressoché sempre simmetrica e ospita al proprio interno un Buddha, o un’altra

divinità, che ha lo scopo di detenere e proteggere il Dharma, qui inteso come ordine, equilibrio,

armonia, attuabile anche sul piano umano a patto che si seguano i supremi ideali dell’Essere.

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Oltre alle divinità irate, che presidiano i punti di accesso alla parte centrale del diagramma, nel

Mandala compaiono numerose altre raffigurazioni divine.

Divinità femminili denominate le “dee offerenti”; i bodhisattva, che aiutano il praticante nel

percorso verso l’illuminazione instillando nella sua mente le qualità che rappresentano; i Buddha

Celesti che favoriscono, ognuno di essi, una specifica forma di meditazione e che spesso si

presentano affiancati dalle loro compagne; le dakini che, dotate di enormi poteri, padroneggiano

la scienza dello yoga e altre svariate figure ascetiche.

I colori dei vestiti, le posizioni del corpo e delle mani, i gesti con cui tali figure si mostrano al

praticante non sono casuali. Ogni elemento è inserito nel Mandala per figurare un particolare

ambito della psiche, un’attitudine da interiorizzare. Oppure l’esigenza di creare un piccolo squarcio

nella mente attraverso cui possa passare il raggio dell’illuminazione.

In particolare, due elementi figurativi possono stupire chi non è addentro all’utilizzo dei Mandala:

le divinità terrificanti, di cui si è già accennato, e l’intreccio erotico nel quale sono avvolte le

divinità maschili e femminili presenti sulla scena mandalica.

L’immagine dell’amplesso è lì per evocare la necessità di superare l’illusione che esista una

dualità, che ci sia un maschile e un femminile. Solo al di là di questi concetti si può sperimentare lo

stato di perfetta Unità che costituisce la vera illuminazione.

L’idea del maschile e del femminile è richiamata anche dai simboli del vajra e della campana. Ma a

differenza della concezione tantrica, dove il maschile è la coscienza immobile e immanifesta, nel

buddismo tantrico il vajra, emblema tra l’altro della virtù della compassione, simboleggia l’azione.

La passività, invece, è collegata all’energia femminile di cui la campana, che simboleggia anche la

vacuità, ne è simbolo.

9. I CINQUE DHYANIBUDDHA DEL BUDDISMO VAJRAYANA

Nei Mandala utilizzati dai buddisti della corrente Vajrayana, è molto usuale vedere raffigurati i

cosiddetti Cinque DhyaniBuddha.

Secondo la tradizione del buddismo tantrico, i cinque DhyaniBuddha nacquero come emanazione

dell’AdiBuddha (dal sanscrito: ”il primo illuminato” oppure “il Buddha primordiale”) che, nel

“grande vuoto” precedente al tempo e allo spazio, li creò per il desiderio di poter contemplare sé

stesso.

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Detti anche i cinque Buddha della meditazione, i loro nomi sono: Vairocana, Akshobhya,

Ratnasambhava, Amitabha e Amoghasiddi.

Nel centro del Mandala è posto Vairocana, “Colui che risplende”,

raffigura la vacuità ed ha in mano la ruota ad otto raggi del

cammino buddista. E’ collegato con il primo elemento costitutivo

dell’universo: l’etere/spazio. Il gesto che lo caratterizza è la

messa in moto della ruota del darma (darmachakramudra) di cui

è tenutario, protettore e simbolo.

A est troviamo Aksobhya, anche detto “l’imperturbabile,

l’immutabile”, il cui cuore irradia una luce purissima e limpida

come uno specchio che riflette ogni cosa, senza venirne

minimamente turbato.

Seduto su un trono sorretto da elefanti, ha un vajra in una mano, mentre l’altra mano è poggiata a

terra ad evocare stabilità e fermezza. E’ collegato con l’elemento acqua.

A sud emerge il Buddha Ratnasambhava, con la mano aperta e abbandonata verso il suolo nel

gesto di donare i tre gioielli del buddismo: il Dharma, il Sangha e il Buddha. Il suo nome,

Ratnasambhava, sta appunto a significare “l’origine dei tre gioielli”. E’ il protettore della terra

insieme alla sua controparte femminile Mamaki, con la quale si presenta abbracciato. Sono

entrambi adagiati su un trono retto da cavalli.

A ovest c’è Amitabha, anche detto “l’infinito splendore”, vestito di rosso come il sole al tramonto,

è il Buddha legato all’elemento Fuoco. Le sue mani, poste in grembo nel gesto della meditazione,

sorreggono un loto, simbolo della chiara visione della realtà conseguente alla purificazione di tutte

le percezioni. E’ seduto su un trono di pavoni insieme alla sua compagna Pandaravasini, vestita di

bianco. L’abbinamento del rosso con il bianco stanno a significare rispettivamente: il fiammeggiare

della visione discriminante e la luminosità della pura percezione.

A nord troviamo Amoghasiddhi, che evoca il mistero del “sole a mezzanotte” ovvero la presenza,

nell’animo di ogni essere vivente, di una luce invisibile quale guida verso l’illuminazione.

In un mano ha un doppio vajra, simbolo della benevolenza e della compassione, mentre l’altra è

alzata e mostra il palmo nel gesto dell’abhayamudra, il mudra del coraggio. E’ collegato

I Ciqnue Dianybuddha

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all’elemento aria, ed è nell’aria che fluttua insieme alla sua compagna Tara, seduto su un essere

mitico, metà uomo e metà uccello.

Ogni Dhyanibuddha, la propria compagna, e tutti gli elementi ad esso correlati (simboli, animali,

colori, gesti delle mani e dei corpi, ecc.) non solo non sono affatto casuali, ma costituiscono un

insieme di potenti simboli e archetipi, che servono per suscitare delle trasformazioni profonde

nella mente del praticante. Se da una parte stimolano l’emergere di eventuali tendenze negative,

dall’altra inducono il meditante a riferirsi al relativo Buddha che possiede, e quindi può elargire, le

qualità necessarie per poterle superare.

In questo senso, ognuno dei cinque Buddha evoca uno stato “malato” ed uno illuminato della

mente, in una concezione che è propria del tantrismo che cerca i lati oscuri presenti nell’animo

umano, invece di evitarli o rimuoverli, per poterli trasformare in luce, attraverso l’acquisizione di

particolari attitudini e qualità.

10. L’ESECUZIONE DEL MANDALA

Da quanto detto finora, è facilmente intuibile che

l’esecuzione di un Mandala è un’operazione

estremamente complessa.

Innanzitutto bisogna distinguere tra i mandali costruiti

per i riti di iniziazione, o per le cerimonie propiziatorie, e i

Mandala che vengono realizzati perché durino nel tempo

e siano strumento e supporto durante la meditazione.

Nella prima categoria rientrano quelli di sabbia colorata, realizzati con estrema pazienza dai

monaci tibetani che, appena terminato un Mandala di questo tipo, con altrettanta “accuratezza”,

lo distruggono per significare che l’esistenza umana è condizionata e caratterizzata da uno stato di

continua impermanenza. Le polveri di sabbia colorata vengono poi poste in un’urna, e gettate

nelle acque di un fiume o di un lago.

I Mandala costruiti durante i riti di iniziazione in genere prevedono che, il giorno della cerimonia,

per prima cosa, l’adepto riferisca i sogni che ha avuto durante la notte precedente. Questo serve

per determinare se quel dato giorno è quello più propizio per poter procedere con il rito di

L’esecuzione di un Mandala di sabbia

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costruzione del Mandala, o se al contrario è più prudente posticipare la data del rituale per la

presenza di ostacoli o interferenze particolari.

L’adepto, esauriti i preliminari, dopo essersi purificato mentalmente e fisicamente, si prepara per

l’esecuzione. Anche il luogo è scelto con estrema cura, e il terreno sul quale avverrà il disegno del

Mandala viene spianato e preparato attentamente per rimuoverne ogni possibile ostacolo.

L’intento simbolico di queste operazioni, che rientrano a pieno titolo nel rituale, è quello di

assimilare il terreno, su cui verrà disegnato il Mandala, al diamante, che limpido e puro nella sua

essenza costituisce la base ideale per accogliere un tracciato mandalico.

La recitazione di appositi mantra, che fanno da sottofondo a tutte le fasi preparatorie, serve per

allontanare qualsiasi negatività.

Quando tutto è pronto, dopo aver toccato il suolo con il vajra, per sancire che la terra sarà

testimone del rituale, e ad imitazione di quanto fece il Buddha Shakyamuni la notte del suo

risveglio, l’adepto prende rifugio nei tre gioielli, il Sangha, il Dharma e il Buddha, fa voto di voler

raggiungere l’illuminazione e inizia l’esecuzione del Mandala.

Per effettuare il disegno sul terreno si utilizzano due corde. Una, costituita da un solo filo, è intrisa

di polvere di riso bianca. L’altra è costituita da cinque fili, ognuno dei quali può essere intriso di un

determinato colore, a seconda di quale divinità si intende rappresentare. Le corde si fanno vibrare

alternativamente in maniera tale che lascino cadere sul terreno la polvere del colore desiderato,

necessario per la realizzazione dei vari tracciati costituenti il Mandala.

Al centro dell’area vengono posti dei vasi contenenti acqua e altre essenze, che hanno lo scopo di

agevolare la discesa della divinità che renderà sacra l’esecuzione del Mandala. I vasi servono anche

ad evocare l’immagine del grembo che contiene tutte le potenzialità racchiuse nel liquido vitale;

mentre l’acqua in questo caso rappresenta l’amrita il nettare dell’immortalità e dell’illuminazione.

L’iniziazione di cui abbiamo appena accennato, è quella maggiormente diffusa in ambito buddista

anche se, in alcuni testi, viene descritto un rituale molto diverso durante il quale l’adepto è

bendato e viene portato al centro di un Mandala che è stato già tracciato. Gli si chiede di gettare

sul terreno, senza poter vedere dove, un fiore o un altro oggetto simbolico che a seconda di dove

cadrà, andrà ad identificare quale famiglia di Dianybuddha l’adepto dovrà prendere come tutore e

modello nel suo percorso spirituale.

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Infine, ci sono i Mandala permanenti costruiti come supporti

per la meditazione. Di questi fanno parte anche le cosiddette

tanke: veri e propri dipinti su stoffa di cotone, seta, oppure

lino che oltre al diagramma mandalico ospitano divinità o altri

soggetti a carattere religioso.

La tecnica originale di esecuzione della tanka, che si

tramandava da secoli nei monasteri tibetani, è andata

pressoché perduta, sia per i tragici fatti politici che più volte

sono scaturiti nell’occupazione del Tibet da parte dei cinesi, sia

per un inarrestabile processo di modernizzazione della

produzione di manufatti tibetani, che purtroppo hanno

svuotato l’esecuzione della tanka del suo significato simbolico

originario.

In precedenza, per realizzare una tanka, si prendeva una tela grezza, la si spalmava di gesso e colla,

e la si levigava con una pietra liscia o con una conchiglia. Su questa base si provvedeva ad eseguire

il tracciato generale del Mandala. Su un’altra stoffa veniva invece predisposto il disegno vero e

proprio in ogni suo minimo dettaglio. La stoffa veniva traforata esattamente in corrispondenza dei

contorni del disegno per essere poi posta sulla tela, in maniera tale da combinare il tracciato

generale e il disegno del Mandala. A questo punto sulla stoffa veniva sparsa della polvere di

carbone che, passando attraverso i fori, cadeva sulla tela andando a tracciare i contorni del

disegno che sarebbero stati poi ripresi con inchiostro di china rosso o nero.

Delimitati in questo modo i contorni, si provvedeva a dipingere la tela con colori ad acqua misti a

colla. L’esecutore non era mai uno solo: alla tela si avvicendavano diversi artisti, ognuno

specializzato nella realizzazione dei diversi particolari.

Tutte le esecuzioni di cui abbiamo trattato in questo paragrafo seguono regole ben precise che

non coinvolgono solo i soggetti e i colori utilizzati nel Mandala, ma addirittura le dimensioni esatte

che ogni figura, posta all’interno del Mandala, deve avere. La figura principale, ad esempio, deve

essere necessariamente la quarta parte della lunghezza del segmento che taglia idealmente il

Mandala dall’alto verso il basso. Tale segmento, in ambito cosmico, simboleggia il Monte Meru;

Esempio di Tanka tibetana

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mentre in ambito individuale, con riferimento alla biopsicologia tantrica, rappresenta il canale

centrale della sushumna.

11. GLI ESEMPI PIU’ SIGNIFICATIVI: SHRI YANTRA E RUOTA DELLA VITA.

Dopo aver trattato dei caratteri generali, e dei principali elementi costitutivi, dello Yantra e del

Mandala, si parlerà ora di Shri Yantra e di Ruota della Vita in quanto costituiscono i diagrammi

simbolici più diffusi e significativi, rispettivamente in ambito induista e buddista.

Sebbene la trattazione non potrà essere esaustiva, l’approfondire i due simboli sopra citati darà la

possibilità di familiarizzare con alcuni elementi, esemplificativi di concetti e immagini, che si

trovano nella maggiore parte degli Yantra e dei Mandala.

11.1 LO SHRI YANTRA

Lo Shri Yantra è lo Yantra per eccellenza, come suggerisce lo stesso

appellativo Shri che, nella lingua sanscrita, è sempre riferito a

persona o divinità che merita rispetto e venerazione.

E’ chiamato anche navayoni o navachakra per il fatto che nella

parte centrale del diagramma trovano posto nove triangoli.

Cinque di questi triangoli hanno il vertice verso il basso, mentre

quattro hanno il vertice verso l’alto, con un chiaro riferimento:

i primi alla Shakti e i secondi a Shiva.

E’ il punto centrale, il bindu, che genera tutti e nove i triangoli.

Il bindu è il primo segno a emergere sull’immota superficie del vuoto, ed è come un seme che

racchiude tutte le infinite potenzialità dell’Essere.

Essere che ad un certo punto si scinde in due diversi aspetti di sé stesso: la coscienza, immobile e

immanifesta, e l’energia, attiva e creatrice del mondo fenomenico.

Nello Shri Yantra, quindi, è perfettamente raffigurato il desiderio di Shiva, ossia della Luce

Suprema, che ad un certo punto crea un riflesso di sé stesso (la Shakti) per potersi specchiare e

riconoscere. I cinque triangoli con il vertice verso il basso rappresentano perciò i cinque elementi

grossi e i cinque elementi sottili, i cinque organi d’azione e i cinque organi di senso, secondo la

concezione tantrica della creazione dell’universo.

Shri Yantra

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Il numero totale dei triangoli, il nove, nella simbologia numerica, rappresenta l’universo che

nonostante si espanda, alla fine torna ad essere sempre uguale a sé stesso. In effetti, se si

moltiplica il nove per un qualsiasi numero, la somma delle cifre derivanti da tale prodotto sarà a

sua volta sempre nove. Per esemplificare il concetto: 9X2= 18; le cifre costituenti il 18, se

sommate, fanno ancora 9 (1+8=9). E così in tutti quei casi in cui il moltiplicatore, o il moltiplicando,

è uguale a nove.

Non solo. Il numero nove è multiplo di tre. E quindi può essere visto anche come un espansore

delle triadi divine.

Lo Shri Yantra, se da una parte rimanda costantemente il praticante a considerare il concetto della

dualità, e di come questa abbia avuto origine, d’altra parte lo sprona a superare questa illusoria

divisione tra il principio maschile e quello femminile per poter ritornare al bindu, all’Uno

indifferenziato, come traguardo finale del percorso esistenziale.

Il possibile viaggio che lo Shri Yantra mostra è, però, in due direzioni uguali e contrarie. Dalla

periferia al centro, per simulare il percorso di dissoluzione del mondo fenomenico, ovvero

dall’interno verso l’esterno a simboleggiare l’Uno che si espande e si differenzia.

Volendo in questa sede imitare il percorso del meditante che si dirige verso il centro, nel tentativo

di porre fine al proprio viaggio alla scoperta della Verità, analizzeremo lo Shri Yantra partendo dal

perimetro esterno, dove è posto un quadrato con quattro porte. Andremo poi avanti fino a

raggiungere il bindu, dopo aver visitato nove cornici concentriche.

La prima cornice è costituita per l’appunto dal quadrato che è riferito

all’elemento terra e quindi al muladhara, il primo chakra, il più basso

nell’ambito del sistema sottile caratterizzante l’essere umano. In questa

cornice l’adepto è chiamato a prendere contatto con le proprie pulsioni e

passioni più terrene come: la rabbia, la paura, la lussuria, ecc.

Il quadrato cinge tre cerchi, che stanno a rappresentare i tre diversi mondi e le tre diverse

influenze a cui gli esseri viventi sono sottoposti. Questa prima parte dello Shri Yantra viene infatti

denominata : “incantatrice del triplice mondo”.

A questo livello, tre sono le categorie di divinità coinvolte. Le prime sono le divinità che

garantiscono i poteri eccezionali come: la capacità di divenire infinitamente piccoli, o

infinitamente grandi, leggerissimi o pesantissimi, il potere di dominare, soggiogare, realizzare ogni

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desiderio e ottenere qualsiasi cosa, di provare il piacere più totale e di non avere alcun ostacolo

nell’attuazione dei propri fini.

Dato che a questo livello il rapporto con il reale è soggiogato dal desiderio, intervengono le

Matrika Shakti, terribili e potenti come gli ostacoli insiti nella mente, che sono richiamate nello Sri

Yantra proprio per lavorare sulle passioni mondane, al fine di reintegrarle e sublimarle.

La terza categoria di divinità evocate è quella delle Mudra Shakti, le guardiane delle dieci direzioni

dello spazio (inclusi nadir e zenit) che reggono i sigilli, vale a dire i mudra dell’autorità.

Andando avanti nel percorso verso il centro troviamo i fiori di loto che, iscritti nel quadrato, sono

rispettivamente a sedici e a otto petali, e costituiscono la seconda e la terza

cornice.

I sedici petali rappresentano: i cinque elementi grossi, i

cinque organi di senso, i cinque organi di azione e la mente

che sovraintende e coordina tutte le sensazioni e le

volizioni.

In ogni petalo trova posto una divinità, che simboleggia uno specifico tipo di attrazione del mondo

manifesto e il conseguente offuscamento che tale attrazione ingenera nella mente. La

denominazione di questo livello è “ciò che realizza i desideri”; desideri che in questa cornice sono

ancora mondani.

Il loto a otto petali rimanda ad altrettante divinità, che rappresentano le varie facoltà e capacità

psicofisiche come: la capacità verbale; di locomozione; di afferrare; di evacuare; e poi l’attenzione;

la repulsione; la capacità di provare gioia e le sensazioni neutre.

Il nome di questa cornice è “ciò che pone tutto in agitazione”. Questo per significare che né

attraverso l’acquisizione di poteri straordinari, né tantomeno attraverso l’appagamento dei

desideri mondani si raggiunge la pace interiore e la pienezza. Ne discende che per trovare la

realizzazione chi arriva a questo livello non può che andare oltre; non può che proseguire il suo

viaggio per visitare gli altri livelli che lo Shri Yantra gli dispiega davanti e che si presentano, man

mano, sempre più vicini al centro. Questo senso di agitazione che il praticante prova in questa fase

non solo è normale, ma diventa, nella concezione induista, addirittura auspicabile e desiderabile,

perché favorisce la ricerca di soluzioni alternative a ciò che la mente razionale suggerirebbe come

ottimali.

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Alla fine della terza cornice, potremmo dire che il meditante è nelle condizioni di abbandonare la

limitata consapevolezza di essere un corpo fisico, per potersi addentrare nel proprio sé psichico e

nel proprio sistema sottile.

Infatti, la quarta cornice, denominata anche “quella che garantisce ogni

prosperità”, è formata da quattordici triangoli simboleggianti le quattordici

nadi principali, i canali energetici che irrorano il corpo di prana, di essenza

vitale.

La quinta e la sesta cornice sono entrambe costituite da dieci triangoli. I dieci

triangoli della quinta cornice rappresentano le cinque energie principali (prana,

apana, udana, samana, vyana) e le cinque energie minori (anche dette upa-

prana) che circolano nel corpo, e che a questo livello dello Shri Yantra sono

presiedute da altrettante divinità di buon auspicio.

I dieci triangoli della sesta cornice fanno riferimento ai dieci agni (fuochi

gastrici) della medicina ayurvedica, anch’essi visualizzati in aspetto divino. Le

denominazioni di queste due cornici sono rispettivamente: “quello che realizza

ogni cosa” e “quello che protegge da ogni pericolo”.

Nella settima cornice, quella “che rimuove ogni malattia”, si trova una figura a

otto triangoli che rimanda ad altrettanti concetti come quelli del: caldo, freddo,

gioia, dolore, desiderio, distacco, attività e inerzia. In alcuni testi, e per alcune

tradizioni, nella settima cornice ci sono anche i tre guna (sattva, rajas e tamas)

a discapito di alcune delle polarità sopra elencate.

L’ottava cornice, quella che “garantisce ogni realizzazione”, è costituita da un

solo triangolo con il vertice posto verso il basso. In tale figura geometrica è

rappresentata la Shakti nella sua manifestazione primordiale che, come abbiamo

già avuto modo di vedere, scaturisce dal movimento di espansione delle sue tre

componenti essenziali: i guna.

L’ultima cornice, “ridondante di ogni beatitudine”, costituisce il punto centrale dello Shri Yantra: il

bindu. E’ proprio qui, in questo punto adimensionale, che il meditante è chiamato a godere

dell’unione con la Shakti, dopo aver avuto modo di partecipare a tutte le sue attività creatrici e

metamorfiche. E’ questo il centro dove cessa ogni dualità, dove l’incessante movimento creativo

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della Shakti si ferma, e il meditante può divenire consapevole di se stesso come di un osservatore

immobile e silenzioso, non più influenzato dal caleidoscopico mondo dei fenomeni.

Ma il viaggio non è ancora terminato. Vi è necessità di andare ancora oltre, di unirsi al Vuoto, di

oltrepassare quel limite al di là del quale vi è l’unione, ancora incontaminata, di Shiva e della sua

Shakti.

Le varie cornici che abbiamo visto finora possono essere raggruppate in tre triadi strettamente

collegate alle fasi cosmiche dell’universo. Il quadrato del perimetro esterno e i due fiori di loto

sono associati al processo di emanazione dell’universo, la figura a quattordici e le due a dieci

triangoli sono collegate alla fase di conservazione dell’universo, mentre la figura a otto triangoli, il

triangolo con il vertice verso il basso e il punto rimandano al processo di dissoluzione.

E ancora vi sono i rimandi ai sette chakra del corpo, ai quali se ne aggiungono uno nel palato e un

altro sulla radice del naso.

L’individuazione e l’analisi degli archetipi presenti nello Shri Yantra potrebbe continuare a lungo,

tanto questo Yantra è ancora denso di simboli e significati nascosti oltre quelli finora visti, ma il

tema centrale della presente trattazione ci impedisce di andare oltre.

Ciononostante il percorso dei nove livelli, che dall’esterno vanno verso l’interno, ci ha dato

perfettamente l’idea di come lo Shri Yantra ci possa

aiutare a visualizzare quali siano gli ostacoli che siamo

chiamati a superare per riappropriarci della nostra

interezza e totalità primordiale; ostacoli che però possono

essere trasformati in nove gradini, grazie ai quali

possiamo innalzarci fino al più alto grado di evoluzione

spirituale.

11.2 LA “RUOTA DELLA VITA”

Uno dei Mandala più diffusi in ambito buddista raffigura

una ruota a sei raggi che, girando intorno ad un mozzo,

visualizza le sei dimensioni attraverso le quali si svolge

l’esistenza degli esseri legati alla ruota del samsara, il ciclo

continuo di morti e rinascite.

La Ruota della Vita

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Il suo nome è: “La Ruota della Vita”.

Proprio nel centro, nel mozzo, troviamo tre immagini molto eloquenti: un gallo rosso, simbolo di

attaccamento; un serpente di colore verde, che rimanda al concetto di avversione e un maiale

nero che raffigura l’offuscamento e l’ignoranza.

Questi tre animali si inseguono sul palcoscenico mandalico, mordendosi la coda l’un l’altro, come

in un interminabile girotondo. Ciò sta a significare che queste tre pulsioni mondane sono

indissolubilmente legate le une alle altre, e sono proprio loro a mettere in moto la ruota del

samsara, dimensione nella quale regna lo squilibrio, la dualità e il conflitto.

La Ruota del Samsara è sotto il potere di Mahakala che dopo averla tenuta ben stretta tra i suoi

artigli, e i suoi denti lunghi e aguzzi, la ingoia. Per poi eruttarla di lì a poco, in un continuum

apparentemente senza fine.

I mondi che secondo la concezione buddista costituiscono il gioco dell’esistenza, e che ritroviamo

rappresentati ne “La Ruota della Vita”, sono sei: quello degli dèi, degli inferi, degli asura (demoni),

degli uomini, degli animali e dei preta (spettri).

Nell’ambito dell’iconografia buddista questi mondi, in genere, sono così posizionati: il raggio in

alto è appannaggio degli dèi, contrapposto al mondo degli inferi che è posizionato nel raggio in

basso. Alla destra del mondo degli dèi c’è il regno degli asura, e subito sotto gli asura ci sono i

preta. Alla sinistra del regno degli dèi troviamo invece il mondo degli uomini, che confina in basso

con il mondo degli animali.

Ora entriamo in ognuna di queste dimensioni, per capirne meglio l’ambientazione e per cogliere i

tratti che le caratterizzano e le distinguono.

Il regno degli dèi è la dimensione dei piaceri ineffabili, non c’è alcun motivo di sofferenza, e chi la

abita è dedito alla musica e alla danza. Bellezza, longevità, assenza di qualsivoglia malattia sono le

caratteristiche predominanti di questo regno che però risulta ripiegato su stesso, poco aperto e

per niente propenso ad evolversi e a superare il livello nel quale si trova. Neanche il fatto che le

gioie paradisiache siano destinate a finire, con l’estinguersi dei meriti karmici che le hanno

prodotte, è sufficiente a smuovere gli dèi dalla loro inerzia. Ciò che manca in questa dimensione

sono il disagio e la sofferenza. Sono queste infatti le molle che spingono l’essere a progredire, che

gli fanno nascere il desiderio di tornare ad essere uno con il Divino, che lo portano prima o poi, nel

seguire quest’anelito di trascendenza, a saltare fuori dalla ruota del samsara.

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A chi si trova nel regno degli dèi il percorso da seguire, per superare questo impasse, lo indica

Avalokiteshvara, il bodhisattva simbolo della compassione e incarnazione di saggezza.

Avalokiteshvara, che ha fatto voto di aiutare tutti gli essere senzienti desiderosi di seguire il

cammino del Dharma, appare in tutte e sei le dimensioni esistenziali della Ruota della Vita, con

attitudini e qualità diverse a seconda di quali legami karmici, ogni specifico raggio di esistenza ha la

necessità di superare.

Nel regno degli dèi Avalokiteshvara è vestito di bianco, ha con sé un liuto che suona per evocare le

note salvifiche della dottrina buddhista.

Agli antipodi del regno degli dèi c’è il regno degli inferi, popolato da coloro che si sono lasciati

sopraffare dall’odio e dall’avversione. A presiedere questa dimensione c’è Yama, il Dio della

morte, che invece di infliggere pene e tormenti, si limita a reggere lo specchio della conoscenza

attraverso il quale ognuno degli esseri infernali può riconoscere i propri limiti e le proprie

mancanze. L’inferno buddista, infatti, non è un luogo dove si soffre in eterno. E’ piuttosto una

dimensione nella quale c’è la possibilità di analizzare se stessi e il proprio operato, per poter

prendere la risoluzione di evolversi e migliorare. Qui Avalokiteshvara è di colore bluastro come il

fumo, e regge una fiamma purificatrice.

A destra del mondo divino c’è il reame degli asura, ossia dei demoni che sono in perenne conflitto

tra di loro per accaparrarsi il frutto dell’albero dei desideri che è posto al confine con il mondo

degli dei.

In questa dimensione, in cui imperversa la violenza, Avalokiteshvara ha con sé una spada che,

invece di utilizzare come arma per offendere, mostra a tutti come simbolo della retta conoscenza

che trancia di netto gli errori di percezione e volizione. Questo per far sì che un altro albero diventi

l’oggetto dei desideri degli asura: quello della saggezza.

Sotto il regno degli asura troviamo la dimensione dei preta che, in quanto spettri inquieti e

famelici, sono tormentati da un desiderio insaziabile, nonostante ingurgitino in continuazione

acqua e cibo. Le loro bocche e le loro gole sono strettissime, e si infiammano ogni volta che un

boccone o una goccia d’acqua le attraversano.

Ai preta, Avalokiteshvara, di colore rosso come la concupiscenza, porge un recipiente colmo di

tesori spirituali, unico alimento in grado di saziare per sempre i loro desideri.

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Alla sinistra del regno degli dei c’è il mondo degli uomini, caratterizzato dalle aspirazioni e dal

libero arbitrio, dimensione ideale nella quale progredire. In questa dimensione, infatti, tutti i livelli

esistenziali degli altri regni diventano consci. E’ l’unico luogo nel quale può avvenire la liberazione

dal samsara, attraverso la retta visione della realtà e il raggiungimento della vacuità. Ma purtroppo

il mondo degli uomini è costantemente soggiogato dall’orgoglio e dall’egocentrismo, che spingono

gli esseri umani ad inseguire i piaceri mondani e a lasciarsi travolgere dalle passioni intossicanti.

Agli uomini Avalokiteshvara appare sotto le spoglie del Buddha Shakyamuni che, vestito con l’abito

giallo della rinuncia, e con in mano la ciotola delle elemosine, indica nel distacco la via da

percorrere.

Sotto il mondo degli uomini c’è il mondo animale, dominato dall’ignoranza, dai ciechi istinti e

sopraffatto dalla paura. Agli animali Avalokiteshvara appare di colore blu, ha in mano un libro che

sta a significare quanto la conoscenza sia imprescindibile strumento sulla strada della crescita e

dell’evoluzione interiore.

Per ciò che concerne gli aspetti figurativi de “La Ruota della Vita”, è intuibile che i colori dei vari

regni, e le posizioni che questi occupano nel Mandala, sono lungi dall’essere casuali.

Così il nero del mondo degli inferi è opposto al bianco del mondo degli dei, il verde del regno

animale è complementare al rosso del regno degli asura, e il blu del mondo degli uomini è

complementare al giallo del mondo degli spettri.

La posizione agli antipodi rinforza l’idea che tra un regno e il proprio opposto vi sia una stretta

correlazione: le gioie celestiali del regno degli dei hanno come controparte i dolori del mondo

degli inferi, avendo tutti e due questi regni un rapporto sbagliato con il dolore. Assenza totale di

sofferenza nel primo caso, eccesso di dolore nel secondo.

La violenza che caratterizza il regno degli asura, si scontra con la sottomissione tipica del mondo

degli animali. Questo per significare che tutti coloro che spadroneggiano e sottomettono i propri

simili potrebbero diventare, prima o poi, essi stessi vittime inermi della prepotenza e

dell’arroganza altrui.

I desideri indomabili del mondo degli uomini diventano fame e sete insaziabile nel mondo degli

spettri. Ciò per simboleggiare che dando libero sfogo al soddisfacimento delle passioni mondane,

si rischia di ingenerare un circolo vizioso senza fine, all’interno del quale si rimane invischiati e

dove non c’è spazio per alcuna soddisfazione piena e duratura.

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I sei mondi vengono anche associati alle sillabe del più famoso mantra della tradizione buddista, il

mantra Om Mani Padme Hum che rappresenta la condensazione sonora del potere della

compassione del bodhisattva Avalokiteshvara.

La sillaba Om risuona nel regno degli dei e combatte l’illusione della perfezione; Ma echeggia nel

mondo degli asura e combatte l’invidia; la sillaba Ni è per il mondo degli uomini, perché ha il

potere di annientare l’ego; Pa ha il potere di dissipare le tenebre del mondo animale; Dme argina

la concupiscenza del regno degli spettri e Hum allevia il tormento degli inferi.

I sei mondi sono anche visitati e assistiti dai Dianybuddha, che dispensano ogni genere di grazie e

qualità benefiche come supporto e aiuto per coloro che vivono ancora intrappolati nella ruota del

samsara.

Tornando agli aspetti figurativi del Mandala, nel cerchione della ruota trovano posto altre figure

simboliche: sopra al regno degli dei vi è la presenza di una donna cieca che simboleggia

l’ignoranza; a seguire c’è l’immagine di un vasaio che richiama l’idea del karma e dei pericolosi

accumuli che esso produce e che prima o poi danno i propri frutti. La terza figura è quella di una

scimmia irrequieta che salta da un ramo all’altro, esattamente come fa la coscienza che passa con

rapidità da un’idea all’altra, da una vita all’altra. Sotto ci sono due uomini in barca, simbolo

eloquente di quanto possa risultare inquietante questo incessante fluttuare nel mare delle varie

esistenze. A seguire l’immagine di una casa con sei finestre, che simboleggia i cinque organi di

senso e la mente che ad essi presiede. Nella successiva figura ci sono due amanti che raffigurano il

contatto degli organi di senso con il mondo esterno, mentre ciò che deriva da tale interazione è la

rappresentazione successiva. Qui c’è un uomo che ha un occhio forato da una freccia a significare

come l’attaccamento agli oggetti del desiderio possa scatenare un pericoloso offuscamento della

mente. Nell’ottava immagine c’è un ubriaco che continua a bere il vino che gli mesce una donna.

Qui il riferimento è alla sete di vita che innesca immediatamente il desiderio, nonché l’idea di

possesso, ben rappresentata nell’immagine a seguire dell’uomo che coglie dei frutti da un albero.

E siccome godere nel mangiare i frutti dell’albero vuol dire legarsi all’esistenza, ecco che nel

successivo riquadro c’è l’immagine di un amplesso che genera una nuova vita, anticamera della

morte. L’ultima raffigurazione, la dodicesima, è proprio quella di un uomo con un cadavere sulle

spalle.

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Questa serie di immagini servono per aiutare il meditante a divenire consapevole di tutti i possibili

veleni che possono inquinare la mente ovvero a rammentargli che tutti i fenomeni sono

interdipendenti e che non esiste alcuna manifestazione fenomenica che non sia riconducibile a

quell’Uno da cui tutto promana.

Nel momento in cui si sperimenta tale universalità, l’illusione di essere un individuo che vive

un’esistenza separata dal Tutto, viene a cessare. Ne consegue una chiara visione della realtà che

porta la Ruota della Vita a smettere di girare e a dissolversi nella Shunyata, la Vacuità.

12. LE FUNZIONI DI YANTRA E MANDALA

Da quanto finora detto risulta chiara l’importanza che i Mandala e gli Yantra rivestono come

supporti per la meditazione, e più in generale come coadiuvanti nella trasformazione della mente

del praticante, costituendo una guida sicura e affidabile al corretto orientamento in ambito

psichico ed esoterico.

Svolgendo il compito di proteggere il meditante dalle distrazioni, a cui sarebbe soggetto durante il

proprio viaggio introspettivo, Mandala e Yantra se vissuti totalmente, con sufficiente abbandono e

senza remora alcuna, sono in grado di far tornare il praticante al centro di se stesso, alla propria

vera identità. E questo per almeno due motivi.

Da un lato, i vari settori concentrici che il praticante incontra nel viaggio che fa dalla periferia al

centro del Mandala o dello Yantra, rappresentano altrettanti stadi della propria coscienza da

osservare, integrare e trascendere. E questo vuol dire conoscere se stessi, vedersi per ciò che

realmente si è.

D’altro canto, nel simbolismo mandalico il praticante ritrova schematizzato, con estrema

precisione e dettaglio, il proprio essere fisico, così come trova ben rappresentate tutte le analogie,

le interdipendenze e le complementarietà che esistono tra il corpo umano (il microcosmo) e

l’universo nella sua interezza (il macrocosmo).

Oltre agli scopi appena enunciati, soprattutto gli Yantra vengono utilizzati anche in altri ambiti,

costituendo in alcuni casi, soprattutto in seno alla cultura tantrica, dei veri e propri accessori di uso

pressoché quotidiano. Li si trova infatti sotto forma di talismani, di portafortuna, di simboli di buon

auspicio, di strumenti da utilizzare per particolari esorcismi o per attrarre specifiche divinità.

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Altri due contesti, in cui si inseriscono gli Yantra, sono quelli dell’astrologia e dell’astronomia. Nel

primo caso i diagrammi simbolici servono per la stesura degli oroscopi che, in ambito induista,

servono soprattutto per verificare l’opportunità di unire una coppia in matrimonio. Nel secondo

caso lo Yantra diventa una vera e propria costruzione in muratura utilizzata per l’osservazione e la

registrazione dei movimenti astrali.

In alcuni di questi casi, come d’altronde in molti altri rituali, la costruzione e ancor di più l’utilizzo

di Mandala e Yantra è abbinata alla recitazione di uno o più mantra.

Come se il mantra fosse il soffio vitale, il prana, che dà vita ed energia al diagramma simbolico che

invece costituisce la rappresentazione grafica, il corpo, della divinità che si intende evocare o

richiamare. Infatti tale operazione, di chiamata della divinità attraverso il mantra, è denominata

pranapratishtha che, in ambito tantrico, viene utilizzata oltre che per l’attivazione dei diagrammi

mandalici anche per l’installazione delle murti, le statue sacre.

Nel contempo i mantra potenziano l’attitudine di Mandala e Yantra a concentrare la mente del

praticante, ad allontanare da essa dispersioni e distrazioni. Il mantra infatti ha il potere di

proteggere e liberare la mente così come spiegano le due parole sanscrite dal cui deriva il termine

mantra: manas (mente) e trayati (liberare).

Ma perché il mantra abbia effetto è necessario avere fede, credere che la sua ripetizione abbia la

forza di risvegliare o potenziare energie già presenti, anche se sotto forma di seme, nell’animo

umano.

Esempio emblematico di ciò sono i bijamantra, le sillabe-seme, di cui si è già parlato nel paragrafo

relativo ai chakra, che rappresentano appunto degli stati divini presenti in ogni essere vivente.

Il Mandala però non è solo una rappresentazione grafica che assolve ai compiti di cui si è parlato

finora. E’ stato utilizzato da sempre anche in ambito

architettonico, assolvendo così alla sua funzione di

cosmogramma, di simbolo cioè che esprime la struttura

dell’universo secondo il principio divino.

In questo senso il tempio, di qualsiasi epoca, appartenente a

qualsivoglia religione o cultura, viene edificato in modo tale che

i suoi elementi fondamentali siano altrettante rappresentazioni

degli elementi costitutivi dell’universo.

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Non solo. Attraverso idonei rituali si cerca di far sì che la divinità si incarni, scenda nel tempio così

che questo diventi un tabernacolo atto a custodire e preservare il “corpo” del Divino.

Tale processo di richiamo della divinità inizia addirittura dalle prime tracce che l’architetto pone

sul terreno e cioè proprio dalla pianta del tempio che, guarda caso, nella maggior parte dei casi è

assimilabile in tutto e per tutto ad un diagramma mandalico.

Questa usanza è riscontrabile sin da epoche antichissime. In ambito induista anche la costruzione

dell’altare del fuoco veniva basata su un tracciato mandalico.

Anche in epoca cristiana (31 - 340 D.C.) la maggior parte delle costruzioni religiose si rifacevano

alla figura del Mandala. Nello specifico a quella del VastupurushaMandala, una griglia a quadrati

nella quale è inserita una figura umana. Questa è la rappresentazione grafica del mito che narra di

un temibile demone che, venuto alla luce da una goccia di sudore di Shiva, il Dio dissolutore della

Trimurti induista, ha l’intento di portare caos e distruzione nel mondo fenomenico. Per fortuna gli

dèi accorrono e, dopo averlo circondato, lo immobilizzano per impedirgli di arrecare danni alla

creazione, legandolo al suolo esattamente come compare nella figura del VastupurushaMandala.

In questo mito emerge da una parte la lotta tra gli asura e i deva, i demoni e gli angeli della

concezione cristiana, che come vedremo è ancor meglio esplicitata nel simbolismo del gioco degli

scacchi, e d’altra parte il “sacrificio” dell’Energia primordiale che da indistinta e omnipervasiva si

lascia condizionare, frammentare, rinunciando quindi alla propria essenza libera e incondizionata,

per sottostare agli dèi che le impongono la propria volontà, conditio sine qua non, perché possa

nascere il mondo fenomenico.

Una costruzione architettonica religiosa, che rispetti i parametri del VastupurushaMandala,

intende in qualche modo sottolineare che ogni creazione presente nel mondo manifesto, a

maggior ragione un tempio sacro, non è casuale, ma è l’emblema dell’Energia divina che,

attraverso un continuo sacrificio di sé stessa, provvede a dare una forma ordinata all’esistenza.

Ancor più evidenti sono le connessioni tra il diagramma simbolico del Mandala e le piante degli

stupa, costruzioni religiose di derivazione buddista, la cui funzione principale era di conservare

reliquie sacre, ma che ben presto diventarono luoghi di culto e aggregazione che dall’India si

svilupparono rapidamente in tutta l’Asia sud orientale.

Lo stupa consiste in una struttura semisferica o campaniforme (anda) circondata da un corridoio

che presenta quattro cancelli in corrispondenza dei quattro punti cardinali. In cima alla cupola si

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trova un’edicola cubica (harmika) al centro della quale si erge un parasole (yashti). Attorno allo

stupa una recinzione in pietra delimita lo spazio perimetrale adibito alla deambulazione, in circolo

e sempre in senso orario, dei devoti. Tale corridoio prende il nome di vedika e presenta quattro

aperture, i torana, che esattamente come nel disegno mandalico rappresentano il confine tra

l’ambito profano e quello sacro, e che per tale motivo spesso risultano arricchiti di elementi

didattici ed iniziatici rivolti ai pellegrini.

E’ inutile sottolineare che la costruzione di uno stupa è un’operazione lunga e complessa che,

come nel caso della costruzione di un Mandala o di uno Yantra, richiede una conoscenza profonda

e il rispetto di regole di edificazione ben precise che, cariche di significato metafisico ed esoterico,

si sono tramandate, intatte e senza grosse variazioni, da epoche molto antiche fino ai giorni nostri.

Altri esempi eclatanti di come nel tempo l’uomo abbia voluto portare il diagramma mandalico

anche nella dimensione tridimensionale, sono presenti nel sud est asiatico, zona profondamente

influenzata dalla cultura e dalla filosofia indiana.

Il riferimento qui è all’edificio sacro di Borobudur di Giava e all’Angkor Vat in Cambogia, anche se

per esigenze di lunghezza della presente trattazione tralasceremo il secondo e ci soffermeremo,

brevemente e in maniera molto sintetica, a trattare solo del monumento indonesiano.

Se si osserva con attenzione la topografia del Borobudur non è

difficile verificare che questo grande tempio buddista, eretto tra

l’VIII e il IX secolo D.C., risulta impostato su nove livelli, tutti da

ascendere per poter giungere in fine al cuore dell’edificio. Così

come nove sono i circuiti, presenti nello Shri Yantra, che bisogna

superare per arrivare al bindu.

Lo stupendo ed imponente complesso del Borobudur

sorge infatti su una pianta quadrata dalla quale si

innalzano cinque terrazze alle quali si accede

attraverso quattro ripide scalinate, poste in

concomitanza con i quattro punti cardinali.

Proseguendo nel percorso di risalita, si arriva ad altri

tre livelli costituiti da altrettante costruzioni circolari, Borobudur a Giava (VIII – IX secolo)

Pianta di Borobudur

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sulle quali trovano posto ben 72 piccoli stupa, che ospitano altrettante statue del Buddha.

Sull’ultima piattaforma sorge il grande stupa che costituisce il punto centrale dello Yantra: il bindu.

E’ qui che ha sede la statua del Buddha Vairocana, che dall’alto domina l’intera struttura

monumentale.

La struttura piramidale del Borobudur d’altra parte simboleggia l’ascesa del mitico Monte Meru, e

quindi il percorso di purificazione e conoscenza che è indispensabile fare per poter progredire sul

cammino spirituale. A tal fine l’edificio presenta, nei primi cinque livelli, immagini raffiguranti il

Buddha durante la propria vita mondana. Superato questo stadio, che significa essere andati oltre

i desideri e gli attaccamenti terreni, si accede ai livelli superiori dove anche le rappresentazioni

grafiche presenti sulle pareti del Borobudur assumono un carattere più esoterico e spirituale.

Si arriva così all’ultima terrazza che è la rappresentazione della piena realizzazione della vacuità,

dell’indescrivibile stadio del nirvana.

Se si osserva la pianta del Borobudur, invece, si individua uno splendido Mandala dove in

corrispondenza del bindu si erge il pilastro centrale che regge i parasoli, dove il cerchio è costituito

dalla parte circolare e campaniforme della costruzione e dove il quadrato è costituito dal

basamento stesso dell’edificio. All’altezza dei quattro punti cardinali non mancano le quattro

aperture che realizzano le porte tipiche del Mandala: le torana.

Se l’edificazione templare indiana e anche quella del sud est asiatico sono, nella maggior parte dei

casi, intuitivamente e facilmente assimilabili alle figure simboliche del Mandala e dello Yantra, per

l’edificazione sacra che ha caratterizzato la storia dell’Occidente tale parallelismo risulta meno

immediato, più difficile da realizzare.

Ma, come vedremo nel prossimo paragrafo, anche nel continente europeo in seno ad una cultura

così diversa e in tutti i sensi lontana da quella orientale, si trovano numerosi esempi di costruzioni

sacre o profane, di strumenti e addirittura giochi che sono a tutti gli effetti dei veri e propri

Mandala ovvero tipiche mappe di percorsi spirituali e iniziatici espressi e realizzati in forma

tridimensionale.

13. DIFFUSIONE E UNIVERSALITA’ DEL MANDALA: LABIRINTI, VETRATE E ROSONI.

Sono davvero numerosi gli esempi di strutture geometriche che in Occidente, nel corso dei secoli,

alla stessa stregua di Mandala e Yantra, hanno assolto al compito di indirizzare e guidare

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l’evoluzione spirituale dell’uomo. In questa sede si parlerà di scacchiere, e poi di labirinti, vetrate

e rosoni che spesso ritroviamo, messi in evidenza o nascosti agli occhi dei più, nelle costruzioni

religiose sorte nel nostro continente durante il Medioevo. Si prenderanno come esempio quelli

della cattedrale gotica di Chartres, in Francia, in quanto risultano i più rappresentativi di tale

categoria.

Ma iniziamo a parlare del gioco degli scacchi che nato in India in epoca remota e imprecisata,

sembra sia arrivato in Europa solo agli inizi del Medioevo, grazie alla mediazione di arabi e

persiani. I primi scritti, in cui si parla del gioco degli scacchi, risalgono infatti all’anno 1000 circa, e

sono stati ritrovati in territorio spagnolo.

Il supporto sul quale ancora oggi si svolge il gioco degli scacchi, è un tipico Mandala a 64 quadrati,

che presenta perciò grandezza e caratteristiche identiche a quelle di una categoria di

VastupurushaMandala; tracciato che come abbiamo visto veniva utilizzato come pianta in fase di

edificazione di templi e città.

Da ciò si desume che il simbolismo nascosto negli scacchi non è solo da ricercarsi nel gioco vero e

proprio, ma anche nella scacchiera; in effetti su questa, e solo grazie a questa, la contrapposizione

tra i due diversi schieramenti può avere luogo.

La scacchiera è quindi la rappresentazione del mondo manifesto che nelle intenzioni di Shiva, che

qui esprime la sua qualità di trasformatore dell’universo, deve organizzarsi secondo un ritmo

quaternario; tant’è che una scacchiera la si può anche vedere come costituita da quattro sotto

quadrati disposti intorno ad un ipotetico, invisibile punto centrale: il bindu.

Infatti, secondo la cosmologia induista, la vita dell’intero universo, dal momento della sua nascita

a quello della sua dissoluzione, si sviluppa in quattro ere dette yuga. Altrettanti sono gli stadi che

caratterizzano, sempre secondo gli indiani, la vita di un essere umano, così come quattro sono le

stagioni e le fasi di una giornata.

Anche la partita a scacchi, sebbene nel corso del tempo molte regole del gioco siano cambiate, ha

mantenuto pressoché inalterato il suo simbolismo e la sua capacità intrinseca di istruire e di

trasmettere messaggi.

Basti pensare che nel Medioevo la bravura nel gioco degli scacchi era una delle virtù più importanti

da coltivare per poter essere considerati dei bravi cavalieri e sempre a quel tempo, nell’ordine

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monastico dei Domenicani, gli scacchi venivano addirittura utilizzati come fonte di

ammaestramenti morali.

Le pedine sulla scacchiera, nella loro posizione originale, ricostruiscono il modello strategico

militare più in voga nell’antico oriente. Le forze armate leggere (i pedoni) costituivano le prime fila

e avevano lo scopo di proteggere e salvaguardare le truppe pesanti composte: dai carri da guerra

(le torri), dai cavalieri (i cavalli) e dagli elefanti da combattimento (gli alfieri) mentre il re e la sua

dama, insieme ai consiglieri reali, si tenevano al centro delle truppe.

In questa ambientazione ha luogo la battaglia che simbolicamente contrappone le forze del bene a

quelle delle tenebre; deva (gli dèi) contraddistinti, non a caso, dal colore bianco contro asura (i

demoni), caratterizzati dal loro colore nero.

Forse nel simbolismo degli scacchi, più che in qualsiasi altro simbolo, è esplicitato il paradosso

dell’Unità, dalla quale tutto discende e alla quale prima o poi tutto torna, che nel mondo

manifesto diventa però Dualità, che arriva addirittura a creare nette contrapposizioni, tra quelle

che perciò divengono forze antagoniste. Forze che però hanno la medesima origine, e quindi le

caratteristiche che manifestano, positive o negative che siano, non sono intrinseche alla loro

natura.

E’ come se bene e male non esistessero di per sé, ma fossero solo il frutto della lotta che

contrappone queste entità. Come se Deva e Asura acquistassero una fisionomia distinta, e un

ruolo antagonista, solo perché impegnati sul terreno di battaglia, perché chiamati a interpretare

Lila, il gioco di Dio.

E’ questo forse il messaggio più importante che il gioco degli scacchi vuole trasmettere e, in tal

senso, il parallelismo con il poema epico della Bhagavad Gita è altrettanto evidente.

Arjuna, protagonista della Gita, così come il giocatore di scacchi, ha la necessità di apprendere e

far proprie le coordinate cosmiche, secondo le quali si volge il gioco dell’Uno che diviene

molteplice nel mondo manifesto, per poter uscire salvo e vittorioso dalla battaglia dell’esistenza

umana.

Lasciamo ora il gioco degli scacchi per addentraci nei meandri, nei corridoi del labirinto,

costruzione che al pari di altri simboli risulta ancor oggi densa, carica di significati e messaggi

profondi.

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Diverse sono le tipologie di labirinto. Bisogna innanzitutto distinguere tra quelli naturali, spesso

realizzati dalla forza dell’acqua, che con il tempo a volte crea nel terreno un sistema di grotte e

gallerie anche di dimensioni amplissime, e quelli artificiali ideati e realizzati dall’uomo sin dai

tempi più antichi.

Nella seconda categoria troviamo labirinti appartenenti a diverse tipologie: da quelli molto grezzi

e spartani a quelli molto curati anche da un punto di vista estetico, da quelli lunghi e complessi ma

senza possibilità di errore per chi li percorre, in quanto percorsi obbligati, a quelli che invece

impongono delle scelte durante il cammino, che possono poi risultare anche sbagliate.

I labirinti possono inoltre essere classificati in base alla loro forma in: rettangolari, circolari o di

altro aspetto, e possono essere costituiti da un sistema a svolte rettangolari, curve o miste.

Ma, al di là delle mere classificazioni, è importante sottolineare che il labirinto prima ancora di

essere una struttura tridimensionale, una costruzione situata nella dimensione spazio-temporale,

è un archetipo, un concetto.

L’idea infatti che il labirinto esprime, prima di ogni altra, è quella della costrizione.

Costrizione dovuta ai corridoi di cui il labirinto è composto che, per loro natura, limitano la

possibilità di agire, di vedere, di “andare al di là”.

Tale spesso è la condizione della mente umana quando, in quei suoi aneliti verso la creatività,

l’espansione e il superamento dei propri limiti, si ritrova a dover fare i conti con i corridoi angusti e

limitanti di una parte del proprio essere, o del mondo in generale, che le si contrappongono

sempre in maniera troppo logica e razionale.

La vera complessità del percorso proposto dal labirinto è proprio questa.

Nel riuscire cioè ad avanzare, per arrivare presto al centro, senza lasciarsi travolgere e sconvolgere

dalle forze disgregatrici che ad ogni svolta, ad ogni curva ti inducono a sviare, a sbagliare, a

prendere altre direzioni che portandoti fuori strada di fatto ti impediscono di giungere al fulcro,

agli inizi del labirinto dove c’è la salvezza.

Il labirinto è quindi il simbolo del percorso spirituale che ogni uomo è chiamato a fare, tra mille

prove e avversità, verso il proprio Sé autentico, verso la realizzazione di essere un Atman.

Il labirinto ci propone lo stesso identico viaggio del Mandala e nel contempo ci fornisce

un’immagine fedele dell’Universo, così come lo percepiscono gli uomini: il costante peregrinare, le

scelte obbligate, le alternative vere o false che siano, le nuove insolite aperture che si schiudono

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improvvise e inaspettate dietro ad una curva cieca, quel senso di limitatezza opprimente che

spesso la condizione umana impone.

Uscire da un labirinto vuol dire anche saper abbandonare le solite idee, le convenzioni e gli usuali

ragionamenti. E’ inutile inoltrarsi in un labirinto cercando di tenere a mente, passo dopo passo, il

percorso già fatto con l’illusione che questo ci aiuti a non smarrirci e a farci avanzare nella giusta

direzione. Non passerà molto tempo e ci si accorgerà di quanto la memoria, il ricordo del passato,

non servano. Quando si è in un labirinto i corridoi si è costretti a percorrerli tutti, prima di poter

vedere cosa ci sia al di là. E quando si è giunti alla fine di un corridoio, e ci si trova ad un bivio o

peggio ad un quadrivio, ci si è già smarriti. Tornare indietro sarebbe ancora peggio, più fuorviante.

E quindi la direzione da prendere, il futuro, perché sia davvero nuovo e quindi motivo di crescita e

di espansione della coscienza, non può avere niente a che fare con ciò che si è stati fino a quel

momento.

Meglio perciò lasciarsi andare alla guida della propria voce interiore, a quell’aiuto che la scintilla

divina, presente in ognuno di noi, è sempre pronta a fornirci quando ci troviamo in uno stato di

totale fiducia e abbandono. Arianna che con il suo filo aiuta Teseo a barcamenarsi nei meandri del

dedalo in cui è entrato per sconfiggere il Minotauro, e cioè quella parte animalesca, materiale e

inconsapevole di sé stesso, non tarda ad arrivare.

Forse è per questa sacralità insita in esso che il labirinto, a partire dal XII secolo, trovò la sua

massima diffusione, diventando parte integrante di molte chiese dell’epoca.

Nel tempo però la maggior parte di questi labirinti andarono distrutti o per semplice incuria, o

perché furono intenzionalmente smantellati in quanto

inducevano i bambini al gioco, e ciò evidentemente arrecava

disturbo all’atmosfera che si conveniva ci dovesse essere in un

luogo sacro. Gli ultimi esempi di labirinto scomparvero

durante il periodo della rivoluzione francese.

Tra quelli che si sono mantenuti integri fino ai giorni nostri è

da menzionare il labirinto della cattedrale di Chartres, in

Francia. Fatto di pietre bianche e azzurre, ha un diametro di

circa nove metri e si snoda per una lunghezza totale pari a Labirinto della cattedrale di Chartres

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duecentosessantuno metri. Al centro sembra ci fosse una placca in bronzo che fu rimossa e fusa

durante le guerre napoleoniche, ma i cui fermi metallici sono visibili ancora oggi.

Il vero motivo per il quale, durante il Medioevo, i labirinti vissero una così grande diffusione in

ambiente ecclesiastico, non ci è dato saperlo. Tant’è che sono ancora molte le teorie a riguardo.

Alcuni studiosi affermano che il labirinto serviva a simboleggiare gli intrighi, i dubbi e le tribolazioni

sempre presenti sul cammino dell’uomo che cerca la beatitudine celeste. Per altri studiosi i

labirinti si diffusero in concomitanza con la decadenza delle Crociate e con il nascere di altri

pellegrinaggi sacri quali il sentiero di Compostela, Loreto, ecc. Dovevano cioè servire per tutti quei

fedeli che, non potendosi recare nei luoghi sacri, trovavano in chiesa, a portata di mano, una

pratica devozionale sostitutiva.

Altri sono convinti che i labirinti servissero ad ammonire i fedeli, a far capire loro a quanti e a quali

pericoli sarebbero andati incontro se solo si fossero allontanati dalla retta via e dalle rigide

indicazioni ecclesiastiche.

Di parere opposto la teoria che asserisce che i labirinti erano voluti dalle corporazioni dei muratori

e dei massoni dell’epoca, a mo’ di emblema che glorificasse la loro opera ovvero in qualità di

sigillo carico di simbolismo e mistero, non solo al di là del volere del clero, ma addirittura in odore

di eresia.

Certo è che in quasi tutti i labirinti veniva posto, alla fine del percorso, uno specchio.

L’uomo dopo aver peregrinato strenuamente alla ricerca del Divino, dopo aver superato mille

difficoltà e innumerevoli pericoli, raggiunge finalmente la meta

e scopre che ciò lo aspetta non è nient’altro che: sé stesso!

Esattamente ciò che dice lo scrittore Igor Sibaldi ne “Il Libro

della Personalità”, quando cita Dante Alighieri, e di come

questi, al termine del suo lungo camminare in quel “labirinto”

ben descritto nella Divina Commedia, cerca di vedere Dio, ma

non riesce.

Fino a che non si accorge che ciò che in “lui vede”, cioè proprio

quella coscienza che tutto vede, in ognuno di noi, è quel Dio

che stava affannosamente cercando.

E’ indubbio quindi che il Medioevo in Occidente, in molte delle

Vetrata Cattedrale di Chartres

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sue manifestazioni artistiche, presenti una simbologia molto vicina a quella dell’induismo e del

mondo orientale più in generale.

A quel tempo, le chiese e le cattedrali iniziano ad ospitare, oltre ai labirinti, vetrate e rosoni la cui

somiglianza al Mandala è indiscutibile.

Ancora Chartres, importante centro culturale che durante il Medioevo accolse materie quali

l’astronomia e l’alchimia, con la sua magnifica cattedrale, rappresenta un ottimo esempio della

tendenza tipicamente tantrica ad assimilare l’uomo al divino. Tendenza che si realizza per tramite

della luce e viene espressa appieno tramite l’apposizione, all’interno delle costruzioni religiose, di

meravigliose e innumerevoli vetrate. Nella Cattedrale di Chartres se ne contano ben 176. Tutte di

indubbia bellezza, occupano una superficie pari a circa settemila metri quadri.

Gli effetti luminosi che le vetrate creano all’interno della Cattedrale sono stupefacenti e sempre

diversi, a seconda dell’ora e delle condizioni metereologiche. Ma si nota una costante, e cioè che

ogni vetrata risplende sempre, sia nell’ora del crepuscolo che in pieno giorno.

Dio è Luce. Ogni creatura vivente, emanazione di questa Luce, riceve e trasmette l’illuminazione

divina secondo la propria capacità e il proprio grado di evoluzione. E ogni essere vivente concorre

ad illuminare l’universo, senza che alla fine si possa o si riesca a distinguere ogni singolo apporto di

luce, perché tutto sfocia in quell’Uno che pervade l’intero creato.

Questo probabilmente è il messaggio principale che nel Medioevo si è inteso affidare al simbolo

della vetrata.

Vetrata che nella facciata principale della Cattedrale di Chartres assume la forma circolare del

rosone, la cui iconografia è di indubbio interesse.

Il centro è costituito da una forma circolare che dà l’idea

di una sorta di mozzo fisso, al pari di quello che abbiamo

trovato parlando del Mandala buddista “La ruota della

Vita”. Da tale centro si dipartono una serie di raggi in

pietra uniti gli uni agli altri da archi a sesto acuto, in

modo tale che ogni coppia di raggi incornici e circoscriva

una superficie conclusa. Lo spazio viene così suddiviso in

un certo numero di lancette, a disposizione stellare, che

Rosone della Cattedrale di Chartres

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nel caso specifico risultano essere in numero di dodici. Tale numero non è chiaramente casuale

essendo da una parte il prodotto dei numeri 3 e 4 (il triangolo e il quadrato presenti nella

simbologia mandalica) e rappresentando d’altra parte il numero dei mesi dell’anno e dei segni

dello zodiaco, delle ore del giorno e della notte, delle tribù di Israele, degli Apostoli e della Chiesa

Universale.

Il rosone inoltre riproduce la forma di un fiore e come tale diviene simbolo di energia vitale e di

voglia di vivere, di rinnovamento e di caducità ovvero simbolo di quella possibilità che ogni uomo

ha di uscire dalle tenebre, se solo si affidasse all’energia della propria anima che è sempre pronta a

sbocciare. Ma il fiore del rosone è assimilabile anche al fiore del loto indiano, così come i suoi

petali sono gli stessi che ritroviamo nei chakra che costituiscono, insieme ai canali energetici, il

sistema sottile umano.

Quelli citati sono solo alcuni esempi della densa e profonda simbologia che pervade l’atmosfera

che si respira nella Cattedrale gotica di Chartres che, più di ogni altra costruzione religiosa di

quell’epoca, sembra custodire ancora tanti misteri e tanti segreti non svelati, nonostante

tantissimo si sia già detto e scritto su di essa.

14. JUNG E IL MANDALA COME STRUMENTO PER UN VIAGGIO NEL PROFONDO

Negli anni successivi al Medioevo, in Occidente, il simbolo del Mandala inizia a registrare un lento

declino che si acuisce durante il Rinascimento, quando i rosoni scompaiono quasi del tutto dalle

costruzioni religiose.

Bisognerà attendere gli inizi del ‘900 perché il Mandala non solo venga in qualche modo rivalutato,

ma anzi diventi oggetto di studio specifico, e approfondita analisi, da parte di uno psichiatra e

psicoanalista svizzero: Carl Gustav Jung (26 luglio 1875 - 6 giugno 1961).

Jung scopre, quasi per caso e grazie ad una profonda intuizione, il collegamento tra il Mandala e la

sua stessa interiorità.

Così scrisse a tale proposito: … ogni mattina schizzavo in un taccuino un piccolo disegno circolare,

un Mandala, che sembrava corrispondere alla mia condizione intima di quel periodo … Solo un po’

per volta scoprii che cosa è veramente il Mandala … il Sé, la personalità nella sua interezza, che è

armoniosa se va tutto bene.

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Jung associò quindi il Mandala al Sé, e ipotizzò che il Mandala fosse il simbolo del bisogno umano

di esprimere pienamente sé stessi, tutto il proprio potenziale e tutta la personalità nella sua

globalità. Ma per meglio comprendere il pensiero di Jung è necessario introdurre il concetto,

sicuramente innovativo per l’epoca, e cruciale nella sua speculazione, di inconscio collettivo.

Sposando la teoria di Freud, anche Jung riconobbe, nell’ambito della psiche umana, l’esistenza di

un inconscio individuale quale ricettacolo di desideri, pulsioni, ricordi ed in generale di materiale

psichico rimosso e represso, soprattutto di origine infantile. Anche secondo Jung tale materiale,

tutt’altro che inerme, tendeva ad emergere soprattutto nei sogni e nelle nevrosi.

A tale inconscio, di natura strettamente individuale e personale, Jung aggiunse quello che definì

l’inconscio collettivo che, secondo la sua teoria, conserva contenuti e comportamenti comuni a

tutti gli esseri umani e pertanto costituisce un sostrato sovra personale. A differenza dei contenuti

dell’inconscio personale, che sono scomparsi dal campo della coscienza perché dimenticati o

rimossi, i contenuti dell’inconscio collettivo non sono mai stati consci, ma devono la loro esistenza

solo ed esclusivamente ad elementi universali, impersonali ed ereditari.

Jung, utilizzando un termine derivante dal greco antico, che a suo dire prese dal filosofo Platone,

definì tali elementi: archetipi.

L’etimologia della parola archetipo è da ricondurre alla combinazione dei due termini: archè e

typos. Il termine typoi sta ad indicare il rapporto che esiste tra una qualunque forma e tutte quelle

che da questa derivano. Ad esempio, sono allo stesso modo typoi la fusione metallica, che modella

la statua, e la statua stessa. Così come il bambino costituisce il typoi dei suoi genitori.

La parola archè sta invece a significare ciò che è primo, originario.

Jung, definendo i contenuti dell’inconscio collettivo come archetipi, voleva dare un nome a “quelle

forme determinate” che sembrano presenti sempre, ovunque e in qualsiasi essere umano.

Fra tali forme, Jung inserì a pieno titolo il Mandala.

L’universalità del Mandala, secondo Jung, era ampiamente dimostrata dalla presenza, in più di

un’epoca storica e in culture anche molto diverse tra loro, di simboli ricorrenti e sempre

assimilabili al diagramma mandalico. Ad esempio, Jung era convinto che molte figure

preponderanti nell’arte cristiana europea possano essere assimilate a dei veri e propri Mandala.

Ne sono una classica dimostrazione le aureole che, nei dipinti o in altre iconografie, circondano la

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testa del Cristo o quelle dei santi; le rappresentazioni di Gesù circondato dai quattro evangelisti; le

ruote solari; i rosoni delle cattedrali o delle chiese medioevali e lo stesso simbolo della croce.

Jung riconobbe ulteriori diagrammi mandalici anche nella piante di antiche città come Roma

ovvero nelle mappe di agglomerati urbani di edificazione molto più recente, come ad esempio

Washington. Per Jung anche la forma circolare degli Ufo, argomento a cui dedicò parte dei suoi

studi e almeno un saggio, ripropone l’iconografia del Mandala; così come, sempre secondo Jung,

sono Mandala le piante di costruzioni architettoniche come i castelli e le regge; o tanti altri oggetti

di uso comune o addirittura alcune parti del corpo umano come la pupilla e l’iride dell’occhio.

In definitiva, Jung riconobbe nel Mandala un simbolo di quell’unità costituita da: coscienza,

inconscio individuale e inconscio collettivo. Lo definì anche uno psico-cosmogramma, per indicare

che il Mandala rivela, con la sua iconografia, una netta somiglianza tra corpo-psiche umani e

l’intera struttura dell’universo. Somiglianza che si ravvisa non solo nelle forme esteriori, ma anche

nei meccanismi che tali sistemi utilizzano per evolversi e mantenersi in vita.

Jung, dopo aver sperimentato su sé stesso l’efficacia del Mandala come strumento volto a

facilitare un’introspezione profonda, lo utilizzò anche nell’analisi psicologica dei suoi pazienti a cui

cominciò a chiedere di creare delle raffigurazioni grafiche, libere e spontanee, che esprimessero il

loro mondo interiore.

Quello che Jung notò emergere da tali raffigurazioni lo convinse non solo della validità dei

Mandala come strumenti di autoconoscenza, ma addirittura della valenza di tali simboli come

coadiuvanti nella terapia psicologica che andava somministrando ai suoi pazienti.

In primo luogo in tutti i disegni, nonostante le innumerevoli varianti e le differenze grafiche che li

distinguevano gli uni dagli altri, apparivano alcune costanti.

In ogni disegno vi era un centro, un cerchio e il simbolo di una quaternità. Elementi che, anche se

organizzati e combinati in maniera diversa, erano tutti presenti anche nei Mandala orientali. Ciò

convinse ancor di più Jung che il Mandala era un potente archetipo che segue e accompagna, in

qualsiasi epoca e in qualsivoglia angolo del pianeta, l’evoluzione dell’umanità.

Poi appurò che disegnare un Mandala, grazie proprio alla presenza delle figure geometriche del

cerchio e del quadrato, dava la possibilità al paziente di orientarsi, di centrarsi meglio durante

l’esperienza di scoperta e di individuazione del Sé, e cioè di quella parte che costituisce la vera

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essenza di ciascun essere umano, le cui prerogative e la cui voce purtroppo non sempre risultano

chiare.

Per concludere con le parole dello stesso Jung: il Mandala può venire usato come uno strumento

di scoperta del Sé. Tenendo stretto il filo di Arianna possiamo iniziare il nostro viaggio verso il Sé,

senza garanzia di arrivare, ma con la speranza di un’eterna trasformazione.

CONCLUSIONE

Disegnare un Mandala oltre che essere un gesto innato e spontaneo, utilizzato quotidianamente

dai bambini di ogni parte del mondo, può risultare per chiunque una meravigliosa esperienza di

intimità e di conoscenza della parte più nascosta e profonda di sé stessi.

Ci sono svariati testi che possono aiutare chi ha realizzato il suo Mandala a dargli un senso, e ad

interpretarlo nella maniera più corretta; anche se già nella realizzazione di un Mandala si compie

quella magia che ci porta a scoprirci, a mostrarci per ciò che veramente siamo, seppur in un

intreccio apparentemente incomprensibile di linee, cerchi e altre figure geometriche.

E poi … di mappe mandaliche è piena la nostra vita, quella di tutti i giorni.

Dal fiocco di neve, al guscio di una conchiglia, dalle esperienze importanti a

quelle a prima vista insignificanti, i simboli da scoprire e interpretare che

l’esperienza umana ci pone davanti agli occhi sono davvero innumerevoli.

Ma tutti forse hanno lo stesso obiettivo. Aiutarci a capire che abbiamo la

necessità di tornare al centro di noi stessi, di riappropriarci della nostra vera

essenza, della nostra natura più autentica che è … di origine divina.

Anche per me, la stesura di questa tesi, avvenuta guarda caso in un

momento molto particolare della mia vita, è stata essa stessa un simbolo,

un Mandala che mi ha accompagnato in un viaggio interiore molto

impegnativo, ma di inestimabile valore!

Fiocco di neve al

microscopio

Particolare di conchiglia

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Bibliografia

• Maria Angelillo - I Mandala - Edizioni Xenia;

• Susanne F. Fincher - I Mandala: una via all’introspezione, alla guarigione all’espressione di

sé - Edizioni Astrolabio;

• M. Albanese /Gabriella Cella - Mandala, il linguaggio del profondo - Edizioni Xenia;

• M. Albanese /Gabriella Cella/Zanchi - I Chakra, L’universo in noi – Edizioni Xenia;