Mama Tandoori - Ernest van der Kwast

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DUE VALIGIE Tutto cominciò con due valigie. Mia madre arrivò in Olanda nel 1969 con due valigie piene di bracciali, collane e orecchini. Affittò una stanza in una casa di riposo, dove iniziò a lavorare come infermiera. Nascose le valigie sotto il letto, secondo gli indiani il posto più adatto per custodi- re oggetti di valore. Una volta mia madre mi confidò: «I la- dri non guardano mai sotto il letto». Mio padre mi sussur- rò all’orecchio: «In India quasi nessuno ha un letto». Per anni le valigie rimasero sotto il letto di mia madre. Finché un giorno mio padre, un uomo goffo con le orecchie a sventola, il tipico olandese, si innamorò di quella donna esotica che vedeva in mia madre. Non so esattamente come andarono i fatti, e in realtà neanche lo voglio sapere. Ad ogni modo: a un certo punto le due va- ligie furono trasferite in un piccolo appartamento sulla Bloemstraat e finirono sotto un letto matrimoniale. Mio padre studiava medicina, tutto il giorno immerso in una pila di libri da cui spuntavano solo le orecchie a sventola. Mia madre faceva l’infermiera e portava a casa

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Leggi il primo capitolo del nuovo Special Book Isbn, Mama Tandoori. Una commedia divertentissima su una mamma che, per fortuna, non è la tua. Dal primo giugno in libreria.

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DUE VALIGIE

Tutto cominciò con due valigie. Mia madre arrivò in Olanda nel 1969 con due valigie piene di bracciali, collane e orecchini. Affittò una stanza in una casa di riposo, dove iniziò a lavorare come infermiera. Nascose le valigie sotto il letto, secondo gli indiani il posto più adatto per custodi­re oggetti di valore. Una volta mia madre mi confidò: «I la­dri non guardano mai sotto il letto». Mio padre mi sussur­rò all’orecchio: «In India quasi nessuno ha un letto».

Per anni le valigie rimasero sotto il letto di mia madre. Finché un giorno mio padre, un uomo goffo con le

orecchie a sventola, il tipico olandese, si innamorò di quella donna esotica che vedeva in mia madre. Non so esattamente come andarono i fatti, e in realtà neanche lo voglio sapere. Ad ogni modo: a un certo punto le due va­ligie furono trasferite in un piccolo appartamento sulla Bloemstraat e finirono sotto un letto matrimoniale.

Mio padre studiava medicina, tutto il giorno immerso in una pila di libri da cui spuntavano solo le orecchie a sventola. Mia madre faceva l’infermiera e portava a casa

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la pagnotta, o nel suo caso il naan. Una volta mi confidò: «Tuo padre era povero come un ratto di Delhi». Mio pa­dre mi sussurrò all’orecchio: «Magari fossi stato un rat­to di Delhi».

L’appartamento sulla Bloemstraat era rumoroso, sbi­lenco e puzzava più delle ascelle di mio padre. Stando alla versione di mia madre, almeno. Ormai non c’è più modo di appurarlo. Le case della Bloemstraat sono sta­te demolite; dove una volta abitavano i miei, oggi sorge un palazzone enorme. Il tempo è un mostro che tutto fa­gocita, onnivoro e insaziabile. La puzza delle ascelle di mio padre, però, non l’ha risucchiata, quella sembra in­delebile. A sentire mia madre dipende dal lavoro che fa: è un anatomopatologo.

«Cos’è questo odore?» chiedeva spesso mia madre a tavola.

«Mmm…» rispondeva mio padre. «Il pollo tandoori.»«Questa è puzza di cadavere! Il tanfo dei morti rovi­

na il mio cibo.»Mio padre, avvicinando il naso al piatto: «Squisito!»

esclamava, «pollo tandoori».«Sono le tue ascelle» gridava allora mia madre. «Il tan­

fo dei cadaveri ti si appiccica alle ascelle! Devi tenere le braccia attaccate al busto!»

Quando ripenso al passato, mi torna alla mente l’im­magine di mio padre, seduto a capotavola, con le braccia premute a forza contro il busto e le posate che gli cion­dolano goffamente dalle mani.

Da ragazzo non sono mai andato a trovarlo al lavoro

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per paura di beccarlo con le braccia affondate fino alle ascelle in un cadavere.

L’appartamento rumoroso, sbilenco e maleodoran­te sulla Bloemstraat non era un posto in cui poter re­stare a lungo. I miei si misero ben presto alla ricerca di una nuova sistemazione. Fu mia madre a trovarla, sulla Jericholaan, in un elegante quartiere di Rotterdam chia­mato Kralingen. Al civico 81 c’era un palazzina signorile di tre piani, con un ampio giardino e un inquilino in af­fitto, il signor Gerritsen, che non ho mai avuto il piacere di conoscere. Quando sono nato io, era già scappato di casa urlando terrorizzato: «Quella lì è il diavolo! Quella lì è il diavolo!».

La casa sulla Jericholaan costava un occhio della testa, ma mia madre riuscì a trattare sul prezzo richiesto come trattava sempre su tutto: vestiti, mobili, biancheria, petti di pollo. Contrattare per lei era un hobby, anzi, più preci­samente uno sport. Ho trascorso metà della mia infanzia nei negozi e nei grandi magazzini in attesa che il nego­ziante si decidesse a concederle un piccolo sconto. Mi ri­cordo una volta che eravamo in un negozio di letti, e mia madre disse al commesso: «A questo prezzo in India ci compri cento letti a castello». Non mi passò neppure per la testa di dire che in India i letti a castello non esistevano. Mi comportai come mi era stato ordinato: rimasi sdraiato su un materasso e non mi alzai fino al segnale di mia ma­dre. Erano le quattro e mezzo del pomeriggio, dal nostro ingresso nel negozio erano passate sei ore. Sembrava che il commesso avesse alle spalle dodici round di boxe. Mia

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madre esibiva un sorriso trionfante sul volto, era riuscita a strappare l’ottanta per cento di sconto.

Anche l’agente immobiliare che aveva venduto ai miei la casa sulla Jericholaan fu messo al tappeto. Pare che mia madre volesse dare via le sue due valigie in cambio del­la casa. L’agente non comprese quella forma di baratto. «Può pagare solo in denaro» disse. Al che mia madre si infuriò: «Così mi offende» gridò. «Con queste due vali­gie in India ci compri un’intera città!»

L’agente guardò le valigie, sulla fronte gli comparvero solchi profondi, il suo sguardo si fece sempre più scon­solato. Forse pensò che era il caso di cercarsi un altro la­voro. Secondo me, chi si imbatteva in mia madre non poteva che giungere alla conclusione di aver scelto una strada sbagliata.

Lei interpretò quel silenzio come un segno di interesse e si mise a elencare i gioielli custoditi nelle valigie: anel­li da naso, cavigliere, bracciali, orecchini, collane e addi­rittura una corona d’oro.

L’agente rivolse uno sguardo disarmato a mio padre, al quale però era stato imposto il divieto di parola. Poteva soltanto respirare e annuire (quest’ultima cosa solo in ri­sposta a un’osservazione di mia madre).

L’agente rivelò con cautela il prezzo richiesto. Mia ma­dre scosse il capo e divise la cifra per due, sottrasse die­cimila, convertì il tutto in rupie, divise ancora una volta l’importo per due e alla fine annunciò il risultato.

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Mio padre prese l’agente da parte e gli sussurrò all’orec­chio: «Va bene, va tutto bene. Si consoli, almeno lei non l’ha sposata».

Seguirono molti altri sopralluoghi e ogni volta mia madre tentava di abbassare il prezzo richiesto. L’agente smise di avere mancamenti ma, dopo ogni visita, doveva riposarsi un istante sui gradini di pietra davanti alla ca­sa. Anche lui avrà avuto l’aspetto di un pugile al termine del dodicesimo round.

Alla fine mia madre ha venduto il contenuto delle due va­ligie alle migliori gioiellerie di Rotterdam e con il ricava­to ha acquistato la casa al numero 81 della Jericholaan.

Chi vuole mettere in dubbio che questa transazio­ne abbia avuto luogo dovrà avere dei buoni riflessi per­ché rischia di prendersi una bella matterellata in testa. Durante la mia infanzia ci è capitato più di una volta di non mangiare il roti perché il matterello era rotto.

Un altro ricordo che ho di mio padre è lui con del ghiac­cio sulla testa che continua a borbottare: «Se solo fossi un ratto di Delhi, se solo fossi un ratto di Delhi…».

Sotto il letto dei miei genitori sulla Jericholaan non c’erano più le valigie, ma altri oggetti di valore, come un microscopio ricevuto in eredità e pacchi di riso ba­smati. Nel frattempo mio padre si era laureato e guada­gnava uno stipendio da tirocinante; secondo mia madre

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un reddito pari a quello di un facchino alla stazione di Bombay.

Bombay, la città dove sono nato. Ancora oggi non capi­sco perché i miei due fratelli siano nati in Olanda e io in­vece in India, e perché mio padre si trovasse a Rotterdam mentre mia madre mi stava dando alla luce a Bombay. Posso ipotizzare che sia stato per via di una qualche of­ferta speciale. Le promozioni esercitano su mia madre un’attrazione incredibile, proprio come un drappo rosso fa imbestialire un toro.

Mi immagino uno scenario tipo questo: con Air India i bambini volano gratis. All’andata l’offerta prevede tre viaggiatori al prezzo di uno. E al ritorno addirittura quat­tro al prezzo di uno. Mio padre doveva restare a casa. E così fece, costretto o meno da mia madre.

Non appena uscii dal grembo materno, lo zio Sharma telefonò a mio padre, che si convinse che ero una fem­mina. «La linea era disturbata, forse per colpa di alcu­ni uccellini accovacciati sul filo» mi sussurrò una volta all’orecchio, dopo che mia madre mi aveva confidato che era sordo come una campana e che sentiva solo quello che gli faceva comodo sentire. «Deodorante è una paro­la che tuo padre non sente mai. Sapone è una parola che tuo padre non sente mai. Per favore puoi farti una doccia? è una domanda che tuo padre non sente mai.»

Ma sto divagando. Torniamo alle due valigie, che nel frattempo avevano assunto la forma di una palazzi­na signorile di Kralingen. I miei genitori occupavano il pianterreno e il primo piano, mentre il signor Gerritsen

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abitava nella mansarda. Tutto filò liscio finché mia ma­dre non venne a conoscenza dell’espressione olande­se «tutela dell’inquilino». A pronunciarla fu il signor Gerritsen. Mia madre andò su tutte le furie. «Tutela dell’inquilino» sbottò, quasi si trattasse di una perico­losa malattia venerea. «Fuori da casa mia! Esca subito da casa mia!» Ma il signor Gerritsen tenne duro, alme­no per altri tre giorni.

Il primo giorno mia madre diede fuoco ai sacchi ne­ri della spazzatura nel giardino sul retro. Mentre il cielo si copriva di una scura nube di fumo lei gridava: «Vattene via, spirito! Dileguati, spirito maligno del si­gnor Gerritsen!». Alle tre di notte si alzò e si mise a bat­tere con una scopa sul soffitto, mentre recitava una for­mula tradizionale che in India si usa quando qualcuno soffre di una malattia terminale.

Il secondo giorno andò nella fattoria per bambini nel bosco di Kralingen a rubare del letame. Stavano per bec­carla perché mia madre voleva per forza del letame fre­sco. Un bambino lanciò l’allarme: «Mamma! Mamma! Quella signora sta mettendo nella borsa la pupù di Bella!». Una volta al sicuro in casa, indossò i guanti di gomma e iniziò a preparare dei dolcetti per l’inquilino del piano di sopra.

Il terzo giorno, mentre il signor Gerritsen era alle pre­se con attacchi di dissenteria, mia madre chiuse il con­dotto dell’acqua e continuò a battere con la scopa contro il soffitto, recitando quella sua formula tradizionale.

Il quarto giorno preparò un pranzo di ringraziamento

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in onore di tutte le divinità induiste per festeggiare la partenza improvvisa del signor Gerritsen.

Così il valore delle due valigie aumentò: adesso equi­valeva a quello di una palazzina signorile senza inquili­ni in affitto.

Per dieci anni i miei rimasero nella casa della Jericholaan, e sembrava che la famiglia non si sarebbe allargata ulte­riormente. Mia madre aveva smesso di lavorare e aveva fin troppo da fare con tre figli maschi. Mio padre aveva prestato il giuramento di Ippocrate e adesso guadagnava lo stipendio di «un conducente di risciò a Bangalore».

Trascorsi un’infanzia abbastanza tranquilla, ma for­se solo perché ero troppo giovane per rendermi conto di quello che mi accadeva attorno. Ero convinto che fos­simo una famiglia normale, che in tutte le case ci fosse­ro madri come la mia e che tutti i padri borbottassero: «Se solo fossi un ratto». Anche non di Delhi, magari di Rotterdam, di Deventer o di Goes.

Mio fratello maggiore ha un ritardo mentale ed è ri­masto l’unico a credere sia normale che i padri stiano seduti a tavola con le braccia attaccate al corpo, che si brucino i sacchi dell’immondizia in giardino e che gli agenti immobiliari si affrontino a colpi di matterello. Quest’ultimo episodio accadde in occasione della vendi­ta della casa sulla Jericholaan, dieci anni dopo che i miei si erano trasferiti al civico 81.

Mia madre aveva messo gli occhi su qualcosa di

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meglio: una villa con garage, terrazza e vista sul laghetto di Kralingen. «Non possiamo permettercela» disse mio padre, al che mia madre ribatté prontamente: «Tu non potrai permettertela».

Aveva un piano: vendere la casa della Jericholaan a un prezzo maggiorato e con il ricavato acquistare la vil­la. L’agente immobiliare assoldato per la missione non era lo stesso che le aveva venduto la palazzina della Jericholaan. Quello lì, con molta probabilità, si era mes­so a fare il bibliotecario, nel silenzio tombale tra scaffali interminabili di libri.

Il nuovo agente definì «sproporzionato» il prezzo di vendita richiesto da mia madre. All’inizio sembrava che lei non avesse mai sentito quell’aggettivo e dovesse cercarlo nel dizionario, ma poi rientrò nel soggiorno con un mat­terello in mano. «Sproporzionato» gridò, come se anche quella fosse una malattia venerea. «Fuori da casa mia!»

«Corra!» gli disse mio padre.L’agente scattò in piedi e scappò verso la porta d’in­

gresso.Mio fratello maggiore urlò: «Forza mamma, vai così!».Io e l’altro mio fratello restammo in silenzio per la ver­

gogna. Nel frattempo avevamo capito di non essere una famiglia normale.

L’agente immobiliare non tornò più, mia madre deci­se di occuparsi personalmente della vendita. Ogni setti­mana assistevamo allo spettacolo di qualcuno che se la dava a gambe. Da giovane mia madre era stata un’atle­ta promettente, sul suo comodino c’erano degli enormi

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trofei, arrugginiti e opachi, ma le sue gambe filavano an­cora come fulmini. All’età di quarant’anni scattava an­cora come un’indiavolata. A volte afferrava un potenzia­le acquirente per il bavero, esplodendo con la sua eterna protesta: «A questo prezzo in India non ci compri nean­che un pezzo di lamiera ondulata».

Il corridoio mostrava ormai segni di usura per quel continuo andirivieni, quando un giorno un vecchio si­gnore propose una cifra che mia madre ritenne accet­tabile. Su quell’importo circolano due versioni: una di mio padre e una di mia madre. Ma lei aveva sempre ra­gione, pertanto la somma dev’essere stata pari al dop­pio del prezzo richiesto per la villa. Mia madre avreb­be potuto essere parente dello scrittore olandese willem Frederik Hermans. Anche Hermans aveva sempre ragio­ne e portava avanti liti furiose per questioni di soldi seb­bene, nel suo caso, non con gli agenti immobiliari, ma con gli editori. Mi ricordo di un botta e risposta episto­lare riguardo a un anticipo. Geert Lubberhuizen, l’edito­re di Hermans alla casa editrice De Bezige Bij, scrive in una lettera: «Ho solo tolto uno zero». Mia madre avreb­be senz’altro saputo come reagire: armata di matterello avrebbe fatto irruzione nella sede della casa editrice sul­la Van Mierenveldstraat, ad Amsterdam, per conficcare quello zero nella testa del signor Lubberhuizen.

Alla fine comprarono la villa. Un conoscente di mia ma­dre munito di un furgoncino blu si occupò del trasloco. Le

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ditte di traslochi erano troppo costose, in India non esi­stevano neppure. E così il vecchio furgoncino fece tren­tasette volte su e giù dalla Jericholaan alla Tiberiaslaan. Nel corso degli anni mia madre aveva sviluppato la ma­nia ossessiva di accumulare roba. Con la foga di un sol­dato dell’Esercito della salvezza si faceva carico dei rifiuti ingombranti. Si portava in casa quello che la gente ab­bandonava per strada: radio rotte, biciclette arrugginite, mobili malconci, e trascinava tutto fino alla Jericholaan. Prima o poi avrebbe portato quella roba in India e avreb­be fatto la felicità di un intero popolo: era questo il suo sogno. Mia madre era convinta che i poveri, i paria, quel­li che non possedevano nulla al di fuori del proprio cor­po, gioissero di ogni cosa. Anche di un televisore sen­za schermo.

C’è una macchia oscura nel passato più remoto della vita di mia madre. Ne so poco, la vergogna è un lucchet­to che le serra la bocca. A volte però, di notte, si sveglia dall’incubo di un’esistenza fatta di stenti e di elemosi­na, tanti anni addietro. Un grido le spalanca la bocca e l’oscurità della notte, cento volte più chiara della mac­chia scura dei suoi primi ricordi, è per lei un conforto.

Da dietro le veneziane, gli abitanti della Tiberiaslaan assistevano timorosi al trasloco. Ai loro occhi il furgon­cino blu doveva sembrare un camion dell’immondizia impazzito, che continuava a rovesciare sul marciapie­de nuovi carichi di mobili e suppellettili. Ben presto si formò una montagna di apparecchiature elettriche, bi­ciclette e mobili, che il giorno dopo all’alba era ancora

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sul marciapiede. L’operazione trasloco andava avanti or­mai da ventotto ore, a ogni viaggio mio padre esclama­va: «Non traslocherò mai più!».

I miei genitori cambiarono casa altre tre volte, o per me­glio dire due volte e mezzo.

Il 24 febbraio del 2005, il giorno in cui uscì il mio ro­manzo d’esordio, annunciarono che sarebbero emigrati in Canada. A mio padre era stato offerto un posto di la­voro a Toronto. Stando a quanto dice mia madre, lo sti­pendio era di gran lunga più alto, e per gli standard in­diani era nella media.

Partirono per Toronto come la famiglia reale: su due voli separati. Ma il motivo aveva ben poco a che fare con la regalità. Mia madre ci aveva messo tre mesi a impac­chettare gli scatoloni. Mentre dall’altra parte dell’oceano mio padre si era già sistemato e aveva iniziato a lavorare, mia madre preparava giorno e notte il trasloco della sua collezione. Di giorno passava in bicicletta nei vari super­mercati di Rotterdam per recuperare gli scatoloni vuoti e di notte li riempiva. Dove un tempo erano imballati gra­nella di cioccolato, caffè o frutta adesso era stipata im­mondizia: dai telefoni fuori uso ai sellini logori.

Mia madre era partita dall’India con due valigie; per andare in Canada non le bastavano due container. Il tra­sferimento all’estero aveva tutta l’aria di una gigantesca manovra di approvvigionamento, un carico di provviste per un esercito.

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Mio padre accolse mia madre in un’abitazione nuo­va ma provvisoria, un appartamento in un quartiere fre­quentato soprattutto da uomini con pantaloni di pelle. Non aveva ottenuto il permesso di comprare una casa da solo. Mia madre riteneva che non ne fosse capace e co­sì lui aveva ripiegato su un appartamento in affitto. «Tra gli omosessuali» commentò lei.

«Costa poco» replicò lui, convinto ormai di essere po­vero in canna. Ecco la versione semplificata della sua vi­ta: la moglie era arrivata dall’India piena di gioielli, aveva comprato una casa, poi un’altra e un’altra ancora. Lui gua-dagnava lo stipendio di un sarto di Bhopal… Questa era la versione che gli garantiva pace e serenità e gli permet­teva di leggere il giornale seduto tranquillo sul divano, proprio come tutti gli altri uomini, senza essere minac­ciato da un matterello.

Ben presto mia madre trovò un nuovo appartamento nella Bloor Street, nell’elegante complesso residenzia­le di Rosedale (con piscina, palestra e biblioteca). Il tra­sloco provocò un ingorgo nei quattro ascensori che ogni giorno trasportavano scatoloni fino al ventitreesimo pia­no. «Sta aprendo un supermercato?» domandò un’anzia­na signora a mia madre. Il portinaio era meno ingenuo e capì subito che tipo di donna fosse mia madre, una da cui è meglio stare alla larga.

George era un ometto anziano con gli occhiali dalla montatura di corno che stava tutto il giorno seduto al ban­cone della reception. Il suo lavoro consisteva nel salutare i condomini («Good morning Miss Henderson!», «Have a

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nice day Mister Glennon!») e rispondere a qualche rarissi­ma telefonata. Il lavoro ideale per George. Poteva starsene seduto tutto il giorno sulla sua sedia e così passava il tem­po, così sarebbero trascorsi i giorni fino al pensionamen­to. Finché nella sua vita non arrivò mia madre. Come tut­ti gli altri residenti di Rosedale anche lei pagava le spese condominiali, ma era l’unica a trarre da ciò la conclusione che il portinaio fosse una sorta di domestico, come quelli che prestavano servizio nelle famiglie indiane benestanti. Una specie di schiavo nobilitato, insomma.

«Georrrrge» gli si rivolgeva di continuo mia madre in tono imperioso. «Can you pick up those banana boxes and bring them to my apartment?» Oppure: «My flowers are dying, don’t you forget to water them today». O anco­ra: «Please, my husband really needs deodorant».

E così George andava a nascondersi ogni volta che la voce di mia madre echeggiava nell’atrio di marmo. C’erano anche altri portinai, ma a quelli lei si limitava a chiedere: «Do you know where George is?». E gli altri portinai rispondevano che sarebbe arrivato nel pome­riggio o in serata.

Trascorsero rigidi inverni e lunghe estati. E un gior­no arrivò quella che per George fu probabilmente la più bella notizia della sua vita. I miei genitori si sarebbero trasferiti. George se ne stava acquattato sotto il banco­ne della reception, quando sentì mia madre raccontare a una vicina «we’re going to move» elencando tutti i van­taggi dell’altro complesso: due bagni, soffitti più alti, una veranda. George balzò in piedi e gli vennero le lacrime

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agli occhi quando mia madre disse: «Of course we’ll miss George terribly…».

Dopo tre anni a Rosedale, mia madre ritenne che fosse giunto il momento di traslocare di nuovo. Aveva adocchia­to un lussuoso complesso residenziale in costruzione, vi­cino al Mount Sinai Hospital. Mio padre sarebbe potuto andare a lavorare a piedi, mentre adesso doveva farsi ven­ti minuti di bicicletta nel traffico di una città popolata da milioni di abitanti, anche quando nevicava o faceva quin­dici gradi sotto zero. La bicicletta l’aveva rubata mia ma­dre nel garage di Rosedale. C’erano due bici abbandonate, le selle ricoperte da uno spesso strato di polvere: una per mia madre, una per mio padre. Se chiudo gli occhi, vedo un lucchetto forzato con una lima. Mio padre fa la guar­dia, mentre borbotta invocando tutte le divinità indiane: «Vi prego, fate rinsavire mia moglie». Mia madre conti­nua a limare indisturbata. Non fa niente di male, si fa ca­rico delle due biciclette. E se riapro gli occhi vedo queste parole. Spero di non fare niente di male, mi faccio carico dei miei genitori.

Mentre, giorno dopo giorno, la salute di George mi­gliorava, i miei genitori sceglievano con il costruttore il marmo per i bagni, il legno per il pavimento, il colore del­le pareti. Anche la cucina poteva essere personalizzata: il piano di lavoro in granito o in acciaio, pensili rossi o gial­lo limone. Quattro mesi dopo, allo scoccare del termine concordato per la consegna dell’appartamento nuovo di zecca al quarantesimo piano, tutto era sistemato.

Ma i miei genitori non traslocarono mai. La spiega­

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zione ufficiosa fu che il soggiorno era troppo piccolo, la piscina nuova non aveva finestre e quasi tutti i vicini era­no cinesi. Non che mia madre avesse qualcosa di partico­lare contro i cinesi. In generale ce l’ha con le persone che non la capiscono, e il loro numero supera tranquillamen­te quello di tutti i cinesi messi insieme.

La vera ragione era che, secondo mia madre, il trasloco era troppo costoso. Il transport exceptionnel da Rotterdam a Toronto era stato rimborsato dall’azienda di mio padre. Il trasloco all’interno di Toronto dovevano pagarlo loro. Appena venne a sapere i prezzi di varie ditte di traslo­chi, mia madre volle sbarazzarsi più in fretta possibile delle chiavi del nuovo appartamento. Gli inglesi dicono: «Penny­wise and pound­foolish», un’espressione che sin­tetizza perfettamente il comportamento di mia madre e che rende sempre più tragico il destino di mio padre.

Per loro fortuna l’appartamento di Rosedale non era ancora stato venduto. George era inconsolabile. Ebbe un mancamento quando mia madre disse: «I have such good news. we’re not going to move». Fu ricoverato in ospedale per una settimana. In seguito poté riprendere a lavorare, ma non tornò mai più quello di prima.

Nel frattempo mia madre si mise alla ricerca di un nuovo agente immobiliare, non voleva più avere a che fare con quello che aveva gestito la vendita dell’appar­tamento di Rosedale. La logica in India è per definizio­ne impareggiabile.

Ben presto si trovò un nuovo agente, ma nessun com­pratore. Sui giornali americani iniziavano a uscire i primi

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articoli su persone che non riuscivano a pagare il mutuo e mia madre pretendeva centomila dollari in più rispetto al prezzo originario. «È l’unico appartamento del com­plesso a essere in vendita» era la sua argomentazione. L’agente deglutì e guardò mio padre, ma il suo divieto di parola era ancora valido.

Miracolo dei miracoli, l’appartamento fu venduto set­te mesi dopo. Un milionario di Shanghai lo acquistò per sua figlia. Di lì a poco sarebbe stata lei a camminare sul pavimento in noce scelto dai miei genitori, ad aprire i pensili rossi in tinta con pentole che non sarebbero mai state usate su quei fornelli, e a sgocciolare sul marmo gri­gio del bagno che mio padre aveva sempre sognato.

E così il valore delle due valigie salì di altri centomi­la dollari.

Andarono a vedere un altro complesso, anzi andò solo mia madre. Mio padre era in Europa per lavoro e venne a trovarmi in Italia. Fu la prima volta che prese in brac­cio suo nipote e quella prima volta il nipote vomitò ad­dosso al nonno. «È per via del tanfo dei cadaveri» disse mia madre al telefono. Mio padre sussurrò all’orecchio del nipote: «Non sposare mai un’indiana e vivrai a lun­go e felice».

Mio figlio, di un mese e mezzo, con le mani come due stelle marine, guardò sorpreso davanti a sé. Ignaro di tutto, avrebbe dimenticato quello che aveva visto e sen­tito. Un giorno gli racconterò di sua nonna che non era

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venuta ad ammirare il suo primo nipotino perché il bi­glietto costava troppo, ma nel frattempo andava con un agente immobiliare a visitare un superattico. «Ha di nuo­vo adocchiato qualcosa» disse mio padre a cena. Le sue braccia erano rilassate, ma continuava a maneggiare gof­famente le posate. «Il prezzo richiesto è tre milioni di dollari.»

Chiusi gli occhi e vidi mia madre parcheggiare la bi­ci rubata e appoggiarla al muro di un condominio. Poi si china a sfilare l’elastico stretto intorno alla gamba dei pantaloni per evitare che la stoffa s’incastri nella cate­na. Nell’atrio luccicante c’è l’agente ad attenderla. Infila in fretta l’elastico nella tasca della giacca e gli stringe la mano. Un secondo dopo i due sono in ascensore, diret­ti all’ultimo piano. L’agente spalanca la porta dell’atti­co, che si apre su uno spazio oceanico. Mia madre entra. E dal punto più alto del palazzo e della crisi economica ispeziona i bagni, le camere da letto, la cucina di design, il soggiorno con vista sul lago Ontario.

Nessuno ha mai visto il contenuto delle due valigie, i gioielli, i bracciali, le collane e gli orecchini.

«Splendido» commenta mia madre.