MALGRADO LA CRISI - Scuola Coop Montelupo | Idee in corso · Dobbiamo percepire conferenze, libri,...

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MALGRADOLA CRISI

Frammenti di un dialogo tra Miguel Benasayag e alcuni Cooperatori

Scuola Coop - Istituto Nazionale di Formazionedelle Cooperative di ConsumatoriVia Sammontana, 3950056 Montelupo F.no (FI)Tel. 0571 53271Fax. 0571 [email protected]

Copyright © 2013 Coop Italia

Grafica di Fabrizio Silei

Indice

Istruzioni per l’uso ........................................................ 7

Nota introduttiva ....................................................... 13

Ringraziamenti .......................................................... 15

PROLOGO

Le ragioni di un dialogo con Miguel Benasayag......... 17

MALGRADO LA CRISI .................................................. 23Due modi di fare ricerca ...................................... 25Senza futuro? ....................................................... 27Annegare nell’impotenza...................................... 28Ragione e sentimento........................................... 31Il mito dell’individuo........................................... 34La penna di Krüger.............................................. 36Questa terra è la mia terra .................................... 38Libertà o flessibilità.............................................. 40Fino alla fine di un mondo................................... 42Tragico, anzi grave ............................................... 45Terra promessa..................................................... 48Il negativo dove lo metto? .................................... 50Soluzione finale ................................................... 53Il motore del 2000............................................... 56Umano, troppo umano ........................................ 59L’utilità dell’inutile............................................... 62Legami speciali .................................................... 63Ora e sempre resistenza........................................ 68

Felicità vo cercando ............................................. 71Costruire la realtà ................................................ 74Sfilata di modelli.................................................. 78L’uomo fa il mondo ............................................. 80A cosa servono i prodotti ..................................... 83La tecno felicità ................................................... 86Qui casca l’asino .................................................. 87Epistemologia, territorio e astrazione ................... 90Presente permanente ............................................ 92Coop e la crisi...................................................... 95La sfida di Coop .................................................. 97

POST-FAZIONE

Quel che resta di un gruppo di studiodi Enrico Parsi ...................................................... 99

Libri di Miguel Benasayag pubblicati in italiano ....... 115

Bibliografia essenziale ragionata ............................... 117

Dobbiamo percepire conferenze, libri,diapositive, film e via dicendo noncome informazioni, ma come veicolidi potenziale informazione. Allora ve-dremo che nel tenere conferenze, scriverelibri, mostrare diapositive e film, eccetera,non abbiamo risolto alcun problema,ma anzi ne abbiamo creato uno nuovo,e precisamente quello di scoprire inquale contesto queste cose possano essereviste in modo da creare nei loro percettorinuove intuizioni, nuovi pensieri e nuoveazioni.

Heinz Von Foerster

Dal settembre 2011 al settembre 2012, un gruppo di coo-peratori di varia provenienza si è incontrato a ScuolaCoop, con e senza Miguel Benasayag, per confrontarsisulla crisi senza nessun altro obiettivo dichiarato che quellodi confrontarsi sulla crisi. Per cinque giornate il gruppo haascoltato ciò che Miguel Benasayag aveva da dire e dialogatocon lui. Per altrettante volte i membri del gruppo si sonoritrovati per commentare quanto ascoltato e offrirsi reci-procamente elaborazioni, considerazioni e testimonianzadelle proprie pratiche. Abbiamo così lavorato in pienalibertà senza alcuna preoccupazione se non quella di cercaredi capire, guardando in faccia onestamente qualche nostraignoranza. Gli scambi nel gruppo sono stati effettivamente“formativi”. Qualcuno di noi ha dichiarato di aver cambiatoil proprio approccio al lavoro. Di essere entrato nel gruppodi studio in un modo ed essere uscito in un altro. Senzache nessuno l’avesse chiesto e programmato. Il gruppo haprodotto lezioni e documenti, tra cui questa pubblicazione,e un’ipotesi di statuto rivisitato secondo categorie nuoverispetto a quelle otto o novecentesche. Inoltre sono a di-sposizione tre video di differente lunghezza utilizzabili inun’ampia gamma di situazioni “formative”. Il loro scopo ècontribuire a riflettere sulla crisi, con la convinzione,condivisa da molti, che non si tratti solo di una crisi eco-nomica. Il che significa riflettere anche sulla nostra vita,sulla nostra società e sul nostro Paese, sul ruolo di Coop esulle persone che la abitano, siano essi i soci o i lavoratori.Tra questi ultimi anche i gruppi dirigenti.

Istruzioni per l’uso

8 MALGRADO LA CRISI

Ma la conseguenza più interessante di questo lavoro, nonprevedibile e non prevista, è stata la nascita di un progettodi una cooperativa che in un non luogo dove è sorto unodei supermercati Coop più interessanti a livello interna-zionale, ha coinvolto l’Università, un gruppo di cittadini,il supermercato stesso con il suo Direttore, e molti soci elavoratori con lo scopo di riflettere e agire sul tessutosociale di quella zona della città. Una quarantina dipersone tra cooperatori e cittadini del quartiere sonostati coinvolti insieme a Miguel Benasayag, in unaricerca/azione che, come il nostro gruppo, sicuramenteprodurrà risultati non definiti a priori.Alcuni di noi all’inizio di questo studio erano spiazzati,tanto siamo “formattati” dall’idea che qualsiasi progettodebba avere uno scopo ben definito, pratico, visibile, sta-bilito dall’alto, a cui conformarsi e da raggiungere. Qual-cuno, dopo i primi incontri, in condizioni “normali”,avrebbe certo esclamato: “e quindi?!”, rinunciando cosìalla possibilità di fare una ricerca propria e di definire unproprio obiettivo, in attesa della prossima ricetta a bassocosto intellettuale. Le prime righe delle lezioni di Benasayagtrattano proprio questo tema: il fatto che i modelli sullabase dei quali interpretare la realtà e agire su di essa, oggi,dobbiamo inventarceli da soli. Una fatica in più, le cuiconseguenze però sono la motivazione all’impegno el’entusiasmo della scoperta.Una volta liberi da questo atteggiamento mentale cheprevede obbiettivi e risultati predefiniti, e dalla quindite,come ha splendidamente definito quest’abito mentaleun nostro collega, l’idea cioè che si debba ricevere una ri-sposta immediata alle questioni poste, abbiamo pensatodi condividere un po’ delle nostre idee con chi avràvoglia di leggere queste pagine.Della mole di parole che Miguel Benasayag ha pronunciato

9ISTRUZIONI PER L’USO

(circa duecento pagine di trascrizioni), abbiamo operatouna sintesi e una selezione del tutto soggettiva. Mentrechi ha partecipato al gruppo, leggendo questa pubblicazionepotrà avere la sensazione di un buon promemoria, unlettore nuovo potrà avere invece un senso di spiazzamento.Alcune parti infatti richiedono un po’ di attenzione.Qualche passaggio può lasciare perplessi ed essere inter-pretato come un salto logico, in particolare in queicapitoli e paragrafi in cui si parla espressamente di Coop.Alcuni concetti si ripetono. La nostra scelta è stata dettatadal fatto che comunque si potrà intuire l’importanza diun pensiero non facile, ma certamente utile per capiremeglio il nostro mondo e il nostro tempo. Abbiamoquindi selezionato parti delle lezioni che riteniamopossano offrire spunti di riflessione e considerazioninuove, favorendo l’incontro con qualche pensiero inu-suale.In queste pagine non proponiamo alcuna verità. Nessunodi noi è diventato un seguace o un tifoso di Miguel Be-nasayag (un amico sì!). Proponiamo però contenuti chepossono aiutarci a rivitalizzare i neuroni, come un altrodei colleghi che ha preventivamente letto il testo ci hadetto. Noi non pensiamo che ci siano verità a cui aderirecome un tempo ci proponevano le ideologie classiche.Saremmo contenti però, se solo ci si rimettesse a discuteree se ci si riabituasse a osservare e a maneggiare idee chediamo spesso per buone e che invece non ci aiutano avivere bene. Le considerazioni che Miguel Benasayag fa sulle nostreCooperative possono risultare, a chi non ha partecipatoai nostri incontri, come improvvisi lampi, inaspettati escomodi. Forse disorganiche rispetto al discorso complessivoo forse solo troppo veloci e poco approfondite. Maabbiamo scelto di lasciarle proprio per la loro forza

suggestiva e perché pensiamo che possano favorire le ri-flessioni. Nel gruppo di studio queste considerazionisono state l’innesco per discussioni appassionate e appro-fondimenti. Tutto il testo è una derivazione di discorsi fatti in un’aula.Alcuni esempi quindi possono risultare un po’ semplici esemplificati come sempre accade quando si parla a braccio.Naturalmente l’eventuale eccessiva semplificazione è re-sponsabilità dei redattori.Il libro può essere letto in molti modi: dall’inizio allafine, come un romanzo. Oppure andando a cercare qua elà stimoli e spunti per la propria personale ricerca. Sulsito di Scuola Coop sono presenti tre video. Uno di di-ciassette minuti in cui Miguel Benasayag offre unospaccato delle sue riflessioni e considerazioni. Poi una in-tervista più lunga e completa (circa un’ora e un quarto)per chi volesse approfondire il suo pensiero. Infine unultimo video di circa cinquanta minuti, che coniuga unaserie di considerazioni dei partecipanti al gruppo distudio con alcuni suoi brevi interventi. Vedere questifilmati può certo aiutare a comprendere meglio il senso ei contenuti di questa pubblicazione. Volendo ancora ap-profondire questi temi, alla fine del libro proponiamouna bibliografia minima di testi e autori utili alla causa.Soprattutto la causa della cooperazione.Infine, un po’ in tutte le organizzazioni si sono adottatistili professionali che escludono la riflessione, lo studio eil confronto dal proprio tempo operativo. La classedirigente di questo Paese, non a caso, si distingue peruna conclamata e talvolta esibita e vantata mancanza diconoscenze. Oppure per una tendenza al pensiero specia-listico e utilitarista che considera un certo genere diriflessioni tempo perso. Questo lavoro fa parte di una co-stellazione di contributi finalizzati a prevenire i guasti di

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questa mentalità che considera un costo l’esercizio e lavalorizzazione del nostro cervello. Un contributo a pro-muovere una maggiore umiltà quando si abbia il poteredi prendere decisioni che non riguardano solo chi leprende. Immersi nella crisi della nostra epoca, di frontealla complessità di fenomeni che non saremo mai ingrado di capire totalmente e a maggior ragione in gradodi governare con facilità, dovremmo sempre tenerepresente che alcuni un po’ di più, altri un po’ di meno,ma siamo tutti ignoranti. Buona ragione per ricominciarea studiare.

11ISTRUZIONI PER L’USO

Nota introduttiva

I testi di questa pubblicazione sono il frutto del lavoro diAldo Bassoni, Direttore della rivista Nuovo Consumo e diEnrico Parsi, Direttore di Scuola Coop. Anche le notesono scritte di loro pugno. Le eventuali imprecisioni, in-coerenze e difficoltà di scorrevolezza non sono attribuibiliall’autore delle lezioni, ma a loro. Si è comunque fattouno sforzo di semplificazione e chiarificazione linguisticaper rendere il testo il più comprensibile possibile a chi,non avendo partecipato al gruppo di studio, potrebbeavere qualche difficoltà.

Ringraziamenti

Il primo ringraziamento va a chi ha partecipato al grupposuperando lo scoglio di una certa indeterminatezza ini-ziale:Graziella Rondano e Gioacchino Maida di Novacoop,Romeo Cambi, Manola Manini, Eleonora Petrocchi,Stefano Cesari, Daniela Mori, Claudio Vanni, di UnicoopFirenze.Federico Scandolari del Sait di Trento.Gianfranco Verziagi del C.d.A. di Scuola Coop.Gianni Tasselli di Coop Consumatori Nordest.Aldo Bassoni di Unicoop Tirreno.Michele Dorigatti della Federazione Trentina della Coo-perazione.Stefano Ferrata, Alessandra Gasperini, Luisa Pilo, DanielaRegnicoli, Enrico Parsi di Scuola Coop.Un secondo ringraziamento va a Francesco Beltraminiche con infinita pazienza ha trascritto le lezioni di Bena-sayag rendendo possibile il nostro lavoro di revisione.Un ringraziamento speciale a Aldo Bassoni che perrendere questo testo fruibile ha passato diverse ore delsuo tempo libero a correggere, scrivere e aggiustare. Senzala sua professionalità questo lavoro non avrebbe visto fa-cilmente la fine.Un ringraziamento alle bravissime interpreti GiovannaMelloni e Monica Carbone che hanno reso più facile ilcompito di chi ha trascritto e scritto. Un ringraziamento a Miguel Benasayag, che vorremmodefinire con un semplice aggettivo: generoso.

Un ringraziamento a Elisa Mazzini, Claudio Mazzini,Sergio Soavi, Cristina Del Moro, Rita Nannelli, CristinaVaiani, Vincenzo Ruggiero, Paolo Mantegazza che hannoletto una prima bozza del testo offrendoci preziosi sugge-rimenti. Tutti presi in considerazione anche se non sempreabbiamo agito di conseguenza.Un ringraziamento a Fabrizio Silei per la bella copertinache si richiama a un esempio contenuto nel libro e per ilcontributo alla revisione dei testi.Un ringraziamento a Marco Lami che, come Presidentedi Scuola Coop, non ha esitato a incoraggiarci e a condi-videre la proposta di creare un gruppo di studio conMiguel Benasayag.

Un ultimo ringraziamento alla Coop in generale che cilascia fare cose che potrebbero essere considerate folli daun certo tipo di cultura aziendalista.

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Ci siamo incontrati diverse volte. A Lucca e Rimini dovepresentavi i tuoi libri, “Elogio del conflitto” e “L’epocadelle Passioni Tristi”. Ti abbiamo cercato perché affascinatidalla tua storia e da un pensiero interdisciplinare chepensiamo sarebbe utile recuperare, visto lo stato in cuiversano i mondi della politica e dell’impresa caratterizzatispesso da semplificazione, utilitarismo e pensiero lineare.L’ancoraggio nasce perché ci riconosciamo in alcune tueanalisi e descrizioni dei fenomeni economici e sociali chesono parte della nostra quotidianità e della nostraesperienza come persone. Come quando parli del futuro,che a tutti noi appare minaccioso; oppure delle varieforme di disagio che, originando dalle condizioni di vitae di lavoro, non sono affrontabili con criteri intrapsichicio peggio ancora psichiatrici.Il legame nasce anche dal fatto che nel mondo politicoitaliano, fortemente condizionato da una filosofia im-prenditorialmanageriale, si è consolidata la tendenza aconsiderare la cultura e il lavoro intellettuale cose discarso valore. E anche per questo ci sembra prezioso unragionamento su temi che tu affronti da anni. Ci siamo poi visti a Parigi e a Montelupo per sviluppareinsieme una riflessione anche con e tra colleghi curiosi eimpegnati.Nel frattempo la tua bibliografia si è arricchita di nuovilibri in cui si parla della differenza tra organismi naturalie organismi artificiali e della salute. Filoni di ricerca chepotrebbero sembrare lontanissimi dalle esigenze pratiche

PrologoLe ragioni di un dialogo con Miguel Benasayag

di chi “fa impresa” e che invece, come vedremo, sirivelano cruciali anche per comprendere in cosa puòconsistere la vita e la morte di un’organizzazione. Eporsi il problema della vita e della morte di un’organiz-zazione, del suo mutamento, a volte del suo cambiarepelle, ci sembra importante per qualsiasi tipo di organiz-zazione, visto che questi cambiamenti ci sono e riguardanotutti.Il nostro gruppo ha discusso e studiato con te una seriedi concetti che ormai sono divenuti parte di una riflessioneche stiamo conducendo con studiosi italiani di fama in-ternazionale, economisti, antropologi, psicologi. Personeche, come te, ci hanno posto le stesse domande: qualisono le caratteristiche della vostra organizzazione chehanno permesso una vita così lunga? E quali sono i “fon-damentali” del vostro modo di funzionare che una voltamessi in crisi potrebbero portarvi a non riconoscervi più,a trasformare la vostra identità, se non addirittura amorire? In altri termini in cosa consiste la vostra diversitàe in che modo può rappresentare un’alternativa al pensierodominante che ci ha portato dritti dritti verso questacrisi che sembra irreversibile?In queste loro domande, in queste tue domande, si na-scondono una serie di questioni che vorremmo affrontare.Proviamo a elencarle:

Una riflessione sull’epistemologia: cioè sul modo di conoscerela realtà e sui criteri, talvolta impliciti, che governano lenostre azioni e caratterizzano il nostro pensiero. Perchéspesso non siamo consapevoli di come si pensa e dei pre-supposti impliciti nelle nostre pratiche.Epistemologia è una parola difficile e, ne siamo convinti,molti uomini di impresa, storcerebbero la bocca di frontea questa che può essere considerata inutile filosofia.

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Eppure il nostro modo di pensare non è un’astrazione ri-spetto alle nostre pratiche e a noi sembra che la distinzionetra prassi e teoria, tra fare e pensare sia il frutto di unoschema vecchio e inadatto alla comprensione dei fenomeni.Di questo vorremmo parlare.

Una riflessione sulle organizzazioni sociali che prende lemosse dai tuoi studi sulle caratteristiche degli organismiviventi e artificiali. È il tema delle invarianze: cosa rimanestabile rendendo riconoscibile un organismo nonostanteil tempo lo possa anche cambiare profondamente? Questotema ci sembra possa aiutarci a re-interpretare la nostraorganizzazione, anche con l’aiuto di concetti diversi daquelli usati nel passato.

Una riflessione sull’economia e in particolare quella cheabbiamo subito negli ultimi trenta anni: il neoliberismoe le sue conseguenze sociali, culturali e psicologiche.L’economia, intesa come disciplina, non è neutra e se daun lato ha assunto le caratteristiche di una scienza a parte(o una fede), dall’altro finisce per condizionare la nostraesistenza e condiziona anche lo spirito delle altre disciplinescientifiche.

Una riflessione sul concetto di territorio che nel tuo mododi lavorare sembra una possibilità per resistere e crearerealtà diverse. È questo un tema importante in Italia,dove la parola territorio assume anche una valenza dichiusura e contrapposizione.

Una riflessione sull’individuo. Sul mito dell’individuo e isuoi correlati di derivazione economica: la ricerca di unaflessibilità astratta che porta a un’idea di uomo flessibile,privo di qualità, ma perfettamente modificabile in base

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alle esigenze industriali; e sul modello delle competenze,suo corollario, che nel mondo aziendale e nel mondodella psicologia del lavoro ha avuto un successo indiscutibile,spesso monopolizzando l’intera attività formativa eculturale che vi si svolge.

Una riflessione sul disagio psichico e sociale che si originaanche dalla concretezza del mondo del lavoro e dal dif-fondersi di pensieri e idee dannose sulla vita, sul successoindividuale, sul potere. Qui siamo in sovrapposizionecon quella che alcuni studiosi chiamano “economia dellafelicità”, che si interroga anche sulle condizioni di lavoro,sui modelli organizzativi e i suoi presupposti.

Una riflessione sul cambiamento e sulle possibili azioni peril cambiamento. Perché se la superficie sociopolitica e imedia ci consegnano schemi di impegno che sembranoessere sempre gli stessi, il mondo pullula di esperienzeoriginali, diverse e diffuse. E questo tema, per un Paesecome il nostro, regno de Il Gattopardo, è davvero impor-tante.

Da ultimo ancora una riflessione sulla ricerca sociale. Perchépensiamo che la nostra organizzazione, pur con tutte le suecontraddizioni, contenga esperienze e storie di cambiamentoe resistenza che si basano su presupposti talvolta nonconsapevoli o non ben esplicitati. E che rimettersi in unaprospettiva di ricerca e di elaborazione propria, sia tempospeso bene.

Fin qui i nostri interessi, senza escludere eventuali riflessioniimpreviste che possono nascere dal nostro dialogo.Da quando ci siamo incontrati, in Italia l’ondata neoliberistain economia e autoritaria in politica si è arricchita di nuovi

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capitoli che sembrano mettere in discussione i fondamentidello stare insieme: un attacco forte alla Costituzione e piùin generale all’idea che debbano esistere beni comuni.Molti dicono che la crisi non sia solo economica. Che ilmodello che la sostiene sia arrivato a fine corsa e la crisisia profondamente culturale. Poi però, le soluzioniproposte sono le stesse che sembrano averla provocata:ineguaglianze sociali, meno Stato nel welfare, ma moltopiù Stato nelle azioni autoritarie e di controllo, visionemercantile della società in ogni suo aspetto, distribuzionedella ricchezza sempre più iniqua, individualismo, pensierolineare, efficientismo, tagli alla cultura e al sociale.Nel tuo lavoro affermi però che la realtà non è solo quelladichiarata e fatta percepire dal pensiero dominante. Affermiche il mondo è pieno di esperienze economiche che nonsono caratterizzate dal profitto come unico interesse; espe-rienze civili e sociali diffuse che testimoniano già l’esistenzadi un altro mondo da scoprire e evidenziare.Affermi poi che il cambiamento e la resistenza versoprocessi distruttivi che vengono fatti passare per ineluttabili,non avviene attraverso le tradizionali forme di lottapolitica più o meno antagonista, ma attraverso un’azioneche è creazione di esperienze e forme di relazioni concrete.Una costellazione di azioni che si inserisce nelle frattureche qualsiasi sistema mostra, senza negare la realtà, mavivendola e trasformandola. E per questo, crediamo, tisei incuriosito della nostra organizzazione, perché questasembra contenere, nel suo agire, il presupposto di uncambiamento legato ad azioni concrete che non neganoil rischio di possibili contraddizioni.La nostra organizzazione non è al riparo da una crisi cheinveste tutti. Quando si parla di cooperative si parla diuna realtà composita, strutturalmente e potenzialmentein grado di offrire alternative concrete a un modo di fare

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impresa che mostra tutti i suoi limiti. Si tratta peròanche di una realtà non esente da ombre su cui è giustoriflettere.Ci affascina l’idea che si possa studiare Coop confrontandosianche con realtà diverse; e di farlo anche grazie a concettiofferti da discipline diverse dall’economia. Ci interessaprovare a comprendere, anche attraverso ragionamentiinusuali, quali possano essere le ragioni profonde chepermettono a un’organizzazione come questa di mantenersiviva. Ci affascina l’idea di avviare uno studio per com-prendere, se possibile, quali sono gli invarianti che cipermettono di continuare a esistere e quali potrebberoessere invece le soglie da non superare se non vogliamoperdere la nostra identità.E ci piace pensare che tutto questo possa essere condivisocon colleghi che hanno a cuore la vita della nostra orga-nizzazione e le sorti del nostro Paese, non rassegnandosiall’idea di vivere in un mondo di passioni tristi e difuturo rubato.Siamo interessati alla possibilità di mettere nero su biancole cose che abbiamo imparato con te. E, se sarà possibile,anche attraverso la nostra collaborazione, proseguire inmodo più consapevole nel nostro impegno per un modellodi società in cui l’agire economico non sia fine a se stesso,ma anche crescita civile.Il dialogo è iniziato. La parola a Miguel Benasayag.

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Malgrado la crisi

Due modi di fare ricercaOggi ci sono due modi di fare ricerca: uno consiste nellavorare in contesti puramente teorici. In questo caso siaffronta il tema della crisi dal punto di vista storico, oanche sociologico, restando chiusi in ambiti accademici,fuori da ogni altro tipo di pratica. Un’altra corrente dipensiero sostiene invece che bisogna capire la crisiattraverso pratiche concrete. Quindi si fa ricerca agendo.Passo due o tre mesi l’anno in Argentina, a Buenos Aires,dove lavoro con un gruppo di persone che provengonoda ambiti diversi e con il quale cerco di capire la questionedella sociabilità. Uno dei problemi delle città in AmericaLatina è l’aumento della violenza. Ci sono sempre piùbambini per strada che diventano violenti dando luogo aun circolo vizioso, una spirale che non si riesce più a in-terrompere. Ci troviamo in una situazione incredibile,con ragazzi di dieci, undici, dodici anni che uccidonoanche altri bambini. E ci sono persone che cominciano adifendersi. In Argentina, ad esempio, sono arrivatisquadroni della morte brasiliani per uccidere questibambini. Noi stiamo lavorando su questo problema giàda diversi anni e per molto tempo le persone progressisteerano convinte che questi problemi fossero conseguenzadiretta della struttura capitalistica e delle sue modalità divita. La scommessa di queste persone si basava sullacredenza che una volta fatta la rivoluzione, una volta rag-giunto il socialismo, ci sarebbe stato un cambiamentoautomatico e tutti questi problemi si sarebbero risolti.

Ma questo modello di pensiero, che ci dice che alcunicambiamenti strutturali risolveranno tutti i problemi, hamostrato il suo limite ed è fallito. Oggi in Argentina sono al potere alcuni dei miei compagnidi lotta all’epoca della dittatura. E lo stesso accade inBrasile e in Bolivia. Ma ci rendiamo conto che i problemisono molto più complessi di quanto immaginassimo.Noi non ci aspettiamo che arrivino degli universitari conun modello che poi applicheremo. Non ci aspettiamo chearrivi il modello perfetto. Non pensiamo che la rivoluzionesia alle porte e che dopo di essa tutto si risolverà automa-ticamente. Non ci aspettiamo che dei militanti politici cidicano qual è il modello giusto per poi applicarlo. La crisistorica che stiamo vivendo non può essere capita nella suacomplessità standosene comodamente fuori. Può esserecapita soltanto se si considera la molteplicità dei suoivolti. A Buenos Aires, ad esempio, abbiamo lanciatoquesta sfida lavorando nel concreto di questa orribile si-tuazione di violenza di strada nella quale piccoli borghesie impiegati devono difendersi diventando anche lorosempre più violenti. E nella quale si assiste a una sorta direcrudescenza dell’apartheid sociale. Ecco la domanda: inquesta situazione, di fronte a questa problematica, comepossiamo capire il mondo? Come possiamo capire ilmondo e la nostra società a partire da questi problemi? Ci sono diversi ambiti di intervento possibile per procedereverso la comprensione della realtà. Io lavoro su queste te-matiche anche nell’ambito della salute mentale. In Italiaho cominciato a collaborare con un gruppo teatrale diTrieste che opera in ambito psichiatrico. In Francia holavorato sul tema dei legami sociali nei quartieri. Ma lequestioni devono essere affrontate anche da un punto divista scientifico e quindi continuo a cercare di capirecome la crisi si sviluppa e si manifesta anche attraverso lo

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studio delle discipline sociali, della biologia, dell’episte-mologia.

Senza futuro?Oggi viviamo in un mondo nel quale l’irrazionale sembrasempre più presente. Basta ascoltare la radio, guardare latv o leggere i giornali e vediamo che nessuno controlla,né comprende ciò che sta accadendo. Ad esempio: perchéla Grecia si trova in una crisi totale nella quale il popolosperimenta la vera e propria miseria? Perché Spagna, Por-togallo e Italia rischiano di seguire la Grecia in questobaratro? Perché non si può interrompere questo processo?Tutto questo oggi si può comprendere anche cominciandoa considerare l’irrazionalità come un elemento dellarealtà, un ingrediente che i modelli classici di pensiero,anche economici, non contemplano perché questi modellierano e sono basati su un’idea di razionalità trionfante.Una delle sfide che ci troviamo di fronte è dunque quelladi capire quali nuovi modelli possono aiutarci a vedere lecose con un po’ più di chiarezza. La situazione in Europa è simile a ciò che accade, o chepuò accadere, quando è in atto uno scontro. Perché ineffetti c’è una guerra economica. Questo è un momentodella nostra storia in cui bisogna avere il coraggio di direche siamo sull’orlo del baratro. Le nostre società e ilnostro modello di vita sono sull’orlo dell’abisso. Nonvoglio essere apocalittico, ma il mondo è minaccioso.Come diceva Gramsci, il vecchio mondo non c’è più, ilnuovo tarda a farsi vedere e in questo vuoto emergonotutti i mostri. Ma Gramsci, quando scrisse queste parole,era ottimista. Infatti, dicendo “il nuovo mondo tarda acomparire” dava per scontato che in ogni caso un nuovomondo sarebbe comparso. Noi invece non sappiamo ne-anche se questo mondo ci sarà. Possiamo augurarcelo,

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ma la verità è che non abbiamo neanche l’ottimismo cheGramsci ci ha trasmesso nei suoi Quaderni del Carcere. Iocredo che questo ottimismo possiamo recuperarlo solo secerchiamo di sperimentare prassi che dimostrino chequalcosa di diverso è possibile. Non si tratta quindi diessere ottimisti o pessimisti in teoria, come atto di fede.Piuttosto è più importante vedere se siamo in grado dicomprendere nuovamente il mondo e agire su di esso. Oggi abbiamo a disposizione sufficienti modelli episte-mologici per affrontare la complessità. Certo, poi bisognavedere se questa comprensione riesce a trovare applicazionipratiche e concrete. Bisogna vedere, cioè, come questacomprensione funziona effettivamente. Non parliamo quindi di pessimismo o di ottimismo, madi qualcosa che fa paura un po’ a tutti: la responsabilitàdi dover agire senza un dogma o un modello di riferimento.Il modello lo dobbiamo costruire noi. Sulla base della mia esperienza di vita sono portato a direche questa è la cosa che fa più paura agli esseri umani.Quando facevo parte della Resistenza contro la dittatura inArgentina, nei momenti peggiori, più duri, più pericolosidella lotta, c’erano sempre nuove persone che si univano anoi. E questo era incredibile. A volte dovevamo frenare lepersone, perché era molto pericoloso e non avevamo neanchepiù la capacità di accoglierli nella rete della Resistenza conun minimo di sicurezza. Eppure, malgrado tutto, c’erasempre qualcuno che voleva unirsi a noi. Oggi non rischiamola vita e non rischiamo di andare in galera, eppure non c’èquasi nessuno che sia disposto a dare il proprio tempo e leproprie capacità per resistere all’orrore che si fa avanti.

Annegare nell’impotenzaSappiamo bene che ci sono ovunque molti gruppi, asso-ciazioni, collettivi che si impegnano. Ma per molta gente

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il problema è sempre la motivazione. Ad esempio, moltepersone spesso dichiarano di voler creare legami sociali odi voler lottare contro il razzismo. Dichiarano di desideraremolte cose che servono per migliorare la società. Abbiamofatto una ricerca a Parigi per cercare di studiare i motiviimmediati che vengono anteposti a quello che si dichiaradi desiderare. Le risposte sono state del tipo: “perché eroa cena con mio nipote… perché ero stanco… perchéavevo mal di schiena”. Queste risposte sono molto inte-ressanti per chi, come me, ha visto persone che agivanoconsapevoli di rischiare la prigione, la tortura e la morte.Questo accadeva perché c’era una linea da seguire, c’eraun riferimento che ci permetteva di muoverci. Trovo stu-pefacente constatare che, siccome oggi non c’è una linea,un riferimento, si ha molta più paura di quanta non sene avesse allora. C’è qualcosa in questo fenomeno che cideve far riflettere, qualcosa che ci interroga sulle ragioniper cui, nella nostra società, le persone annegano nel-l’impotenza dell’immediato. Io penso che le persone non si muovano perché la nostrasocietà è riuscita a produrre una diminuzione dellapotenza vitale. In realtà molti desiderano fare delle cose ecredono che sia importante farle. Ma c’è un muro. Unmuro di “piccoli” ostacoli che impedisce di fare ciò che sideve. E questa è una cosa che bisogna cercare di com-prendere perché spesso nei collettivi, nei gruppi, si assumeun atteggiamento moralistico e si dice che non va benenon andare alle riunioni, che non è corretto, che èsbagliato. Si esprime dunque una condanna morale, main realtà non si tratta di una questione morale. Il punto ècapire come mai si sono interrotti certi collegamenti. Setocco una piastra bollente la reazione istintiva sarà ditogliere la mano. La reazione, cioè, è immediata eadeguata. Eppure viviamo in una società sempre più in-

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quinata, che va verso la violenza e l’apartheid, una societànella quale mio figlio può essere collocato in una classedi trentaquattro alunni e io non reagisco. Com’è possibileche succeda questo? Com’è possibile che certi legamisociali si siano spezzati? Una possibile spiegazione può venire dal confronto conaltre culture. A differenza dell’America Latina per esempio,in Europa prevale un approccio individualista centratosull’Io. Gli europei, e soprattutto i francesi, si percepisconoe si vivono così: come individui assolutamente separatida un territorio, privi di qualsiasi tipo di ancoraggio. Percui, anche quando si “vogliono impegnare” in qualcosa,si tratta di un impegno del tipo “faccio qualcosa tutti imercoledì sera per i bambini rom clandestini!”. Maqueste persone, di cui si vogliono occupare, non sonobambini rom clandestini. Quello che cerchiamo dimostrare loro, al contrario, è che una parte del loroterritorio è costituita da bambini rom clandestini. Unesempio può essere utile. In Francia, Sarkozy ha affrontatoil problema degli immigrati mettendo la polizia fuoridalle scuole in modo che quando arrivavano i genitori ariprendere i bambini, si potessero fermare anche loro. Ènato allora un movimento per difendere questi bambini,per nasconderli. Io ho proposto di fare uno studio permostrare gli effetti psicopatologici della pratica impostada Sarkozy. I miei interlocutori francesi pensavano chemi riferissi agli effetti psicologici sui bambini presi dallapolizia. Al contrario, io intendevo occuparmi delle con-seguenze psicopatologiche sui bambini francesi chevedevano i loro compagni portati via dalla polizia. Questoapproccio ha sorpreso tutti perché per loro l’Io è quellodi un francese libero e razionale, un francese che con ilsuo libero arbitrio si impegna con i bambini clandestini.Io invece volevo capire quale parte del loro “territorio

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personale” veniva toccata quando la polizia portava via ibambini clandestini. È questa la nozione di impegno che propongo: noncercare di capire che cosa l’individuo deterritorializzato,nel senso di individuo concepito come separato dal suotessuto sociale, può fare come scelta filantropica, mapiuttosto come la persona sia coinvolta in ciò che succede. Per dirlo in altre parole, la società attuale riduce la nostracapacità di essere toccati da qualcosa, riduce la nostra su-perficie percettiva. È interessante vedere anche dal puntodi vista fisiologico come una società possa, nel suoconcreto funzionamento, ridurre questa superficie percettiva.È interessante vedere come una società possa fare inmodo che gli esseri umani perdano fisicamente la capacitàdi essere toccati dalle cose. Ma perdere questa capacità fi-siologica, non significa sfuggire agli effetti dei fenomeniin cui siamo immersi e non subirne le conseguenze. In questo modo si fabbrica l’impotenza: espropriati dellacapacità di essere coinvolti, ci troviamo in contatto solocon una capacità di subire. Ciò che subisco dunqueemerge solo come passività. Il risultato è che poco a pocoun organismo può perdere il contatto attivo con ciò chelo riguarda, anche fisiologicamente, finché si arriva a unpunto in cui l’organismo annega nella sua impotenza.

Ragione e sentimentoLe imprese neoliberali, le grandi imprese, da molto tempolavorano con epistemologi, antropologi, filosofi per cercaredi capire i cambiamenti in atto nella società. È una cosaassolutamente normale in una grande azienda. Facciamoun esempio. Già da una quindicina di anni, per completareil mio lavoro di ricerca, ho avuto bisogno di approfondirealcune questioni di matematica. Non avendo una forma-zione in questa disciplina mi sono messo a studiare e a la-

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vorare con un gruppo di matematici e fisici. Per un paiodi anni abbiamo cercato di capire la crisi anche a livellologico-matematico. Poi abbiamo pubblicato un libro dilogica matematica che, sinceramente, non penso sia statocomprato da molti, ma che mi aveva aiutato a comprenderediverse cose necessarie alla mia ricerca. La mia comprensionedei fenomeni si era ampliata. Tre mesi dopo la pubblica-zione, una nota multinazionale informatica mi ha inviatouna lettera con allegata una proposta di contratto. Mi of-frivano una collaborazione triennale con uno stipendiofisso mensile per continuare le mie ricerche. All’inizio hopensato che si fossero sbagliati. Non capivo perché mivolessero pagare per continuare le mie ricerche, visto chele avrei continuate comunque. Allora ho chiamato e mihanno dato un appuntamento nel quale mi hannospiegato che erano disposti a pagarmi per tre anni a unacondizione: potevo continuare a fare quello che facevo ese non trovavo niente, non trovavo niente. Se trovavoqualcosa però, allora questo qualcosa sarebbe stato diloro proprietà. Eppure nel mio libro non si parlava dimodelli che l’azienda avrebbe potuto utilizzare. Nientedi immediatamente spendibile. L’approccio riguardava iltema della comprensione e dell’azione nella crisi. Ecco, leimprese capitaliste agiscono così. È da tempo che sannoche siamo in una crisi vastissima, che bisogna capirla apieno e bisogna anche darsi il tempo per capirla. Nel movimento cooperativo, associativo e progressista,invece, ho l’impressione che si continui a sottovalutare lasfida del pensiero perché si crede che ci sia sempre unalinea di riferimento da seguire, che ci sia abbastanza ra-zionalità e che basti continuare su quella strada perarrivare a comprendere e ad agire. In generale, nei movimenti di sinistra, in quelli associativi,per non parlare poi dei partiti, si è convinti che non ci sia

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più niente altro da pensare. Le uniche cose che contanosembrano essere vincere le elezioni, guadagnare quote dimercato, svilupparsi. E che in ogni caso si abbia a dispo-sizione una base logica di pensiero sufficiente. In realtànon possediamo nessuna base di pensiero sufficiente. Alcontrario, come cercherò di dimostrare, la sinistra, proprioper motivi epistemologici e strutturali molto concreti, ènelle peggiori condizioni possibili per capire la crisiattuale. Perché la sinistra, fra le altre cose, ha sempreavuto grosse difficoltà con l’irrazionale. Ha fatto unascommessa sulla razionalità considerando l’irrazionalitàsempre come frutto dell’oppressione, della follia, diqualcosa che non funzionava, una anomalia. Invece ladestra ha sempre compreso che l’uomo era costituito dauna parte irrazionale molto importante. Ha capito chenessuno compra una macchina per la macchina in sé.Piuttosto compra la bella modella che è sopra la macchina.Le persone non comprano un fuoristrada, ma la potenzadel fuoristrada. Comprano cioè un sacco di cose astratte,immaginarie, e poi, nel frattempo, anche una macchina.L’ideologia neoliberista questa cosa la sa da molto tempoe la usa efficacemente, anche in politica, mentre la sinistracontinua a insistere sul fatto di voler comprendere tuttorazionalmente. Per cui se volete una macchina allora civuole una utilitaria, perché la macchina serve solo aspostarsi. Questo è un argomento che dovremmo svilupparenella nostra riflessione perché è collegato al tema del de-siderio, un tema importante anche per chi fa il vostromestiere. In Francia faccio parte di movimenti ecologisti radicali e,naturalmente, si parla anche del movimento della decrescitache ha il suo riferimento in Serge Latouche. Ebbene, undifetto fondamentale della teoria della decrescita è che si-stematicamente tende alla moralizzazione del consumo.

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Il movimento dice “noi possiamo vivere con pochissimo,possiamo riciclare l’acqua ecc.”. Si cerca cioè di mostrareun modo di agire e di vivere alternativo, che però è mo-ralizzante. Con la conseguenza che le esperienze alternativesono spesso associate alla tristezza, mentre invece a destrasi esalta sempre più la gioia barbara, il godimentoselvaggio, senza limiti, l’idea che tutto sia possibile. E sea questo godimento opponiamo una moraluccia damonaci, dicendo che ci possiamo privare di tutto e si puòvivere con sempre meno, beh… abbiamo perso in par-tenza.

Il mito dell’individuoLa Coop, a poco a poco, è diventata, nella percezione dimolti, qualcosa di simile ad altre catene della grande di-stribuzione. C’è qualcosa dell’essenza di Coop che èandato perduto? Forse qualcosa è cambiato anche inalcuni Dirigenti, nel loro modo di agire? Perché, pocoper volta, davanti alla concorrenza della distribuzioneneoliberista, si è tentati, per sopravvivere, di adottare glistessi metodi degli altri? Qui c’è uno snodo importante su cui ragionare: cercaredi capire come si possa definire questa essenza cooperativa.Che cos’è, come si manifesta.Per cominciare ci si potrebbe chiedere se sia vero che laCoop si rivolge allo stesso modello di individuo al qualesi rivolge qualsiasi altra catena della grande distribuzione.A chi si rivolge un’altra catena? Si rivolge a un essereumano ridotto alla porzione congrua, cioè a un individuoisolato, senza legami. A questa persona l’azienda proponequalcosa che gli piace. Ma noi, se vogliamo veramenteesistere, svilupparci, essere un’alternativa dobbiamo anchecapire a quale altra entità che non sia questo tipod’individuo possiamo rivolgerci. Fino ad oggi quest’altra

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identità era la morale razionale. Ci rivolgevamo cioè allarazionalità. Per semplificare il ragionamento, diciamoche le altre catene distributive si rivolgono all’individuo“irrazionale”. Un individuo che si percepisce come separatodal mondo, dagli altri.Ma cosa significa essere separati dal mondo e percepirsicome individui isolati, senza legami sociali? C’è unesempio che simboleggia l’avvenuta rottura di tutti ilegami nella nostra società: in Francia è stata varata unalegge che obbliga le persone a occuparsi dei figli. La leggestabilisce che non si possono lasciare i figli per strada.Stessa cosa riguarda i figli che non possono separarsi daigenitori. Poi, per passare a un altro argomento, è stata promulgatauna legge che obbliga a pagare se si inquina. Queste leggisono il sintomo evidente dell’idea di uomo del neoliberismo:un individuo che non sente i legami con i genitori, con ifigli, con l’ambiente. Per questo ci sono volute tre leggi.La legge ovviamente è giusta. Ma se ci vuole una leggeper essere sicuri che voi non abbandoniate i genitori o ifigli o non distruggiate l’ambiente, allora risulta chiaroche il presupposto da cui si parte è un modello diindividuo che è un’entità folle, separata da tutto. Leimprese neoliberiste si rivolgono a questa entità che è ve-ramente separata, tagliata da qualsiasi razionalità. Unaspecie di entità immediata, permanente, accompagnatada tutta una serie di dispositivi tecnologici che la pro-muovono e la legittimano. C’è una mitologia dell’individuo,c’è un’economia dell’individuo, c’è un’apologia dell’indi-viduo alla quale si è opposta finora una morale che dice:“Attenzione, devi capire razionalmente il tuo rapportocon il mondo, con la tua classe sociale, con il consumo.Bisogna essere razionali!” Penso che noi dobbiamo cercare di comprendere come

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promuovere un modello diverso che non sia quello indi-vidualista. Modello individualista al quale la Coop, comemolti, è tentata di aderire. Perché ovviamente tendiamotutti a pensare che “individuo” sia una cosa giusta e de-siderabile e quindi si finisce per favorire questa idea conpratiche che la legittimano contribuendo così a reciderei legami sociali. Dovremmo cercare di capire se Coopresiste a tutto questo, quali sono le pratiche che puòadottare per favorire lo sviluppo dei legami sociali equali invece quelle che li distruggono. Tenendo in con-siderazione il fatto che più la Coop ha un comportamentovolto a sedurre gli individui, più sviluppa ciò che la puòdistruggere.

La penna di KrügerQuando cerco di spiegare come funzionano i sistemicomplessi capita che qualcuno abbia la sensazione che siparli di qualcosa di astratto e chieda che vengano trattatecose più concrete. Citerò un esempio che reputo significativodi come nel tempo si siano rovesciati i concetti di astrattoe concreto. Parto da un articolo scritto da Hegel moltotempo dopo la pubblicazione della sua opera principale,La scienza della logica. Un giornalista di nome Krügerpubblicò un articolo nel quale prendeva atto che Hegelnel suo testo spiegava il funzionamento dell’universo, ilfunzionamento del mondo, ma non spiegava la pennacon cui aveva scritto il suo libro. Hegel rispose cheKrüger aveva ragione. Che lui poteva spiegare un sistema,perché un sistema è qualcosa di concreto, con rimandi econnessioni. Con un funzionamento. Ma non potevaspiegare la sua penna, perché quella penna era troppoastratta. Astratta nel senso di fuori contesto. Deconte-stualizzata.Il neoliberismo e la nostra società continuano a presentarci

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come concrete una serie di pratiche folli, totalmente de-contestualizzate, apparentemente molto concrete. Coseche sembrano razionali, ma di una razionalità folle perchédecontestualizzata. Nella nostra vita, in realtà, siamosempre in un contesto, in una sorta di immediatezza chedefiniamo concreta. Ma nel nostro lavoro di comprensionedobbiamo mettere tra parentesi questa modalità, che è inrealtà una modalità di falso concreto, per cercare di capireil contesto. Ed è per questo che vorrei parlare della crisidella razionalità e della modernità. Mi sono fatto scudocon l’esempio della penna di Krüger, perché uno potrebbedire che sto parlando della crisi antropologica, senzachiarire qual è il suo rapporto con il fatturato dellaCoop. Il problema è che lo sviluppo della Coop, il suolavoro, il suo fatturato, sono troppo astratti per poterlicapire direttamente se non contestualizziamo questo quo-tidiano della Coop in una realtà che è la nostra epoca e lanostra storia.Oggi possiamo dire che un certo tipo di razionalità èfallita. È una cosa che tutti constatano. Si constata, adesempio, che il progresso non ha portato solo cose buone,ma anche cose nocive. In Francia ho molti amici musulmaniche dicono che il progetto dell’uomo occidentale di do-minare la natura, pensando per questo di essere furbo, èfallito. Ha provocato un disastro e quindi questa razionalitàdell’uomo padrone del mondo e della natura è fallita. Laloro ricetta è un ritorno all’umiltà. Ma in cosa consistel’umiltà per i miei amici musulmani? Per loro consistenell’obbedire al Corano. E lì, almeno, c’è una cultura.Ma ci sono persone che non hanno nemmeno quel tipodi cultura e oggi aderiscono a delle sette. Si assiste così aun ritorno del fanatismo. Il proliferare di sette e movimentireligiosi ci fa constatare che il modello razionale dellamodernità è fallito e che le persone cercano altre modalità

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di comprensione. Io sono un ricercatore in epistemologia,quindi quelli che vi presenterò sono modelli di razionalitàcomplessa. Niente di religioso o mistico. Ma è vero chemolto spesso, nella pratica, mi trovo culturalmente moltopiù vicino a un indiano mapuche del mio paese di originequando mi dice che l’uomo deve obbedire alle leggi dellanatura, che a un progressista razionalista che dice checon la ragione si può fare tutto. Nello stesso tempo purprovando rispetto per la Pachamama, la madre terra, eper tutte le tradizioni del mio Paese, non trovo lì unarisposta alla crisi della razionalità. Il rispetto per la Pa-chamama non può essere una risposta alla crisi di cui viparlo. Io non critico né i musulmani né gli indios (mentresono meno tollerante con le sette perché rappresentanoun utilizzo razionale e manipolatorio del fallimento dellarazionalità), ma quello di cui sto parlando è di come noiricercatori in epistemologia abbiamo trovato questozoccolo di razionalità complessa. Il progetto è capirecome si possa articolare questa razionalità complessa conla pratica, partendo dalla comprensione della razionalitàche è fallita. Andando a vedere quali sono i modelli di ra-zionalità complessa che emergono.

Questa terra è la mia terraL’idea di individuo è un sottoinsieme storicamente costruitodi una realtà complessa. Per farvi capire il modello del-l’individuo che caratterizza la nostra epoca, immaginateuno struzzo con la testa infilata nella sabbia. Lo struzzodice che il mondo è un buco oscuro. La “società dell’in-dividuo” è un mondo analogo. Ogni individuo è unsotto insieme che percepisce soltanto quello che per lui èimmediato e quindi sarà portato a pensare che il mondosi riduce a ciò che è limitato al suo ristretto orizzontepercettivo. Verrà informato del mondo, come lo struzzo,

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attraverso la sua televisione privata, il suo telefoninoeccetera. Cioè attraverso tutto ciò che serve a comunicare,ma anche a tagliare i legami sociali. Lo struzzo in realtà ètoccato da ciò che accade a tutto il suo corpo, ma ha con-sapevolezza solo nella sua testa, che si affaccia sulla televi-sione, sul cellulare e su tutti gli altri mezzi di comunicazioneche contribuiscono a deterritorializzarci. Il concetto di territorializzazione è un concetto propostoda Gilles Deleuze, un filosofo francese. Per l’individuoneoliberista questo concetto è compresso e riferito all’Io.L’individuo si cerca un territorio e dice “Mi devo territo-rializzare”. Ma è un’illusione perché in realtà il nostroterritorio è già il nostro corpo. Il nostro corpo intero, intutte le sue determinazioni. Allo stesso modo c’è chi diceche vorrebbe impegnarsi politicamente, socialmente.Spesso mi capita che le persone vengano da me in quantopsicologo e psicoterapeuta e sapendo che sono anche unintellettuale si riferiscono anche alla questione dell’impegno.Allora mi dicono che si devono impegnare in qualcosa,per esempio con gli immigrati clandestini o i palestinesi.In realtà questa è una modalità di impegno che definireida supermarket. Al supermercato mi trovo davanti alloscaffale “impegno” e dico “ok, oggi mi impegno per i pa-lestinesi, oppure per i boliviani o per i clandestini”. In realtà impegno significa conoscere in cosa siamo già im-pegnati. Conoscere cioè l’insieme delle determinazioni checi costituiscono come persone e che fanno sì, ad esempio,che io venga contaminato in caso di inquinamento. L’in-dividuo deterritorializzato invece, viene a sapere dai mezzidi comunicazione che qualcosa inquinerà lì vicino a lui,ma non ha nessun contatto con questa cosa. Non è in con-nessione con la realtà, se non in minima parte e sulla basedi un certa tipologia di informazioni. La società dell’individuoè una società che taglia una parte di noi stessi, chiamando

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questa parte individuo. Dentro questo buco saranno presentivari tipi di elementi definitori. Per esempio potremmodire che sei comunitario rispetto a extracomunitario,oppure che sei uomo o donna. In questo buco ci sarannouna serie di definizioni con cui ci identificheremo. E, na-turalmente, il resto di quel che siamo è qualcosa con cuinon avremo più nessun contatto. Ecco una situazioneesemplificativa di ciò che definiamo “sinapsi interrotte”.La società dell’individuo corrisponde a questo tipo disocietà. Il neoliberismo si rivolge a quel tipo di individuo eper questo individuo è a disposizione un’idea preconfezionatadi libertà, di benessere, di felicità. Di cosa sia facile odifficile, di cosa significhi riuscire nella vita. Per questo individuo, l’individuo del neoliberismo, esserefelice, essere libero, significa essere tagliato dal propriocorpo, perché i corpi sono troppo pesanti, invecchiano,si ammalano, sono territorializzati. Mentre per i corpinon tutto è possibile, la società neoliberista ha costruitoquesta idea che “tutto è possibile”, che si potrebbe viverein una leggerezza totale e si potrebbe anche non invecchiaremai. L’irrazionale neoliberista ha a che vedere con unasocietà di teste separate dal corpo. Il corpo che è il nostroprimo territorio. Quando parlo di individuo, mi riferisco a questo modello,a queste pratiche, a questa idea che i legami sociali e am-bientali siano irrilevanti per lui, per la sua vita e il suo be-nessere. Quando parlo di persona invece, mi rivolgo atutto l’insieme che esiste in un territorio concreto. E chenon può deterritorializzarsi tranquillamente, come seniente fosse. Che non può essere ovunque.

Libertà o flessibilità?Aristotele ha definito la figura dello schiavo come coluiche può essere utilizzato per attività molto diverse tra

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loro. Lo schiavo può lavorare nei campi o navigare, èspostabile da un luogo all’altro. Lo schiavo di Aristotele èla persona che oggi si dice flessibile. L’uomo libero inveceè incatenato al proprio territorio. È quello che deveassumere un sacco di filiazioni. Aristotele, con un po’ dibuon senso, dice che l’uomo libero deve seguire il propriodestino, le proprie affinità elettive e che non è possibileusarlo per qualsiasi cosa. La nostra società ha rovesciatoquesto approccio e chiama libertà questa flessibilità totalenella quale un uomo deve adattarsi ai bisogni economicie quindi può essere deterritorializzato, delocalizzato. Sicambia il posto di lavoro, per esempio, in nome diun’idea di libertà che definisce come schiavitù il fatto diessere territorializzati. Ma questa deterritorializzazionetrova dei suoi limiti storici. L’esempio più eclatante èquello di France Telecom1. I manager di quest’aziendaspingevano le persone verso la deterritorializzazione finoal punto che gli impiegati non dovevano personalizzaregli uffici e anche i rapporti di amicizia con i colleghierano visti in cattiva luce. Gli impiegati dovevano esserepronti a cambiare città, a cambiare territorio, ogni tre osei mesi. Una mia paziente lavora come dirigente in unanota catena di distribuzione di libri, dischi e informatica.Ha superato un sacco di esami finalizzati alla propria car-riera, ma non vuole allontanarsi troppo da Parigi. La suaDirezione le ha detto che questo è un grosso handicap,perché dimostra così di anteporre la sua vita personale aquella dell’azienda. Ma anche la sua risposta è stata illu-minante. Lei ha detto: “no, mi resta soltanto il dieci o

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1 France Telecom è diventata tristemente famosa negli anni scorsi peruna serie incredibile di sucidi tra i propri lavoratori. Molti di questisuicidi sono avvenuti all’interno dell’azienda.

quindici per cento della vita personale e questa è necessariaaffinché io sia ancora più prestazionale in azienda”.Il presupposto dunque della società post moderna è chel’essere umano libero, sia una quantità di energia disponibileche può essere utilizzata secondo i bisogni del mercato.Ma il successo di questa idea è dovuto al fatto cheaderisce perfettamente a una concezione della libertà se-condo la quale non devo dipendere da nulla. Così oggiposso essere un professore e domani un ebanista, oggiposso vivere in Canada e domani in Francia. Questoprincipio, che il neoliberismo utilizza in modo perverso,funziona perché per molto tempo l’Occidente ha aderitoall’idea che un uomo libero è un uomo che potevacambiare continuamente. Ecco allora che noi progressisti oggi abbiamo un problemaserio: perché eravamo quelli che dicevano che tutto puòcambiare, mentre ora siamo costretti a dire che non tuttopuò cambiare. I nostri genitori e i nostri nonni ci dicevanoche c’erano tradizioni e cose che andavano mantenute,difese, preservate. Adesso il neoliberismo si è appropriatodi quest’idea che tutto può essere cambiato e che non cisono limiti per costruire questo mondo da incubo. È perquesto che è molto difficile costruire uno zoccolo di pensieroalternativo. Perché, se prendiamo l’esempio di FranceTelecom, noi stiamo dicendo che l’uomo non è energialibera: l’uomo è come lo struzzo, se viene troppo delocalizzatosi finisce col tagliargli la testa. La flessibilità neoliberista,che tutti accettano, è identificata con la libertà. Ma inrealtà questa idea sta violentando alcune invarianti biologichee culturali e sta producendo processi sociali morbosi.

Fino alla fine di un mondoIn genere, nell’approccio classico, si pensa che un’epocasia uno spazio delimitato da un anno di inizio e uno di

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fine. Per i ricercatori con i quali lavoro, invece, un’epocaè piuttosto definita da una serie di problematiche eprocessi che vengono datati a posteriori. Per esempio,un’epoca crea un’estetica, un modo d’amare, dei motiviper cui ci si alza la mattina, ciò che consideriamo bello eciò che ci sembra orribile. Un’epoca, quindi, modella eplasma anche la percezione. Permette una percezione chenon è possibile in altri tempi. Ciò che posso o non possopercepire dipende dall’epoca.L’uomo del neoliberismo, separato, scisso da tutto, crededi essere al di là di qualsiasi epoca, così come pensa diessere al di là di qualsiasi territorio. Pensa che sarebbeuguale a se stesso in qualsiasi territorio e in qualsiasiepoca. Da piccolo leggevo un fumetto americano, i Flin-tstones, che vivevano in una caverna secondo il modellodi vita americano nonostante fosse ambientato nella prei-storia. Questa era pura propaganda ideologica fatta inprofondità, perché era un modo per dire che l’uomonormale è sempre stato l’uomo americano, che ovunquesi trova riproduce intorno a sé la stessa modalità di vita.Esattamente come Robinson Crusoe. Dove c’è un RobinsonCrusoe c’è la modernità e quindi l’uomo domina il pae-saggio e rimane sempre uguale a se stesso. È ovvio chequesto non è assolutamente vero. In Europa, tra l’XI e il XV secolo, più o meno, gliuomini hanno cominciato a erigere le cattedrali. Primanon c’erano le cattedrali e dopo, costruite in quel modo,non sono più esistite. Immaginiamo che qualcuno oggi(ed è successo davvero in Francia) abbia l’idea di farcostruire una piccola cattedrale. Chiunque passasse davantia questa cattedrale non potrebbe che dire: “è come sefosse una cattedrale del Medioevo”. Perché quella eral’epoca in cui, dettata da bisogni storici complessi, erapresente l’esigenza di costruire cattedrali. E perché im-

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provvisamente una cultura ha avuto bisogno di erigeredelle cattedrali? Perché ogni epoca ha la sua estetica, lesue problematiche, il suo umanesimo e gli uomini di unadeterminata epoca producono in funzione di quell’epoca.Gli uomini stessi, come soggetti, sono prodotti dall’epocain cui vivono. La stessa cosa vale per le piramidi. Costruire le piramidiè un lavoro colossale. Richiede l’accumulo e la sintesi disaperi che si sono sviluppati nei secoli precedenti. Richiedel’organizzazione di forze produttive. Poi ci vogliono altrisecoli per riuscire a realizzarle materialmente. L’epocadunque è le piramidi. Le piramidi sono l’epoca. L’epocaallora non è uno spazio tra due date, ma è qualcosa che fasì che a un certo punto una cultura agisca in un modoche segna e plasma tutti. Quando studiamo dei problemiepocali non studiamo “i problemi che avvengono oggi”.Sono i problemi che fanno sì che oggi si viva in un’epocadiversa da quella passata. È l’emergere di nuove proble-matiche profonde che ci fa dire che siamo in un’altraepoca. E noi oggi stiamo cambiando epoca. È la fine diun mondo. E sempre, quando c’è la fine di un mondo,gli abitanti di questo mondo pensano che sia la fine delmondo. In realtà è solo la fine di un mondo. Ma la carat-teristica fondamentale del nostro mondo moderno, occi-dentale e tecnologico, è che ha conquistato tutto ilpianeta e pertanto la fine del mondo moderno mette inpericolo, per la prima volta nella storia, il pianeta nel suoinsieme. L’Occidente per la prima volta nella sua storiaha fabbricato un mondo globale. Lo sviluppo dellapotenza tecnico-scientifica ha unificato quella dimensionedel mondo che ora è in crisi. E tuttavia, se è vero cheesiste una dimensione mondo, non è vero che esiste unsolo mondo. Esiste una dimensione mondo che è correlataalla tecnica e all’economia. Ed essenzialmente anche alla

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brutalità dell’impero, ma a parte questo non c’è unmondo, ma una molteplicità di mondi che restano deter-ritorializzati. Ogni paese, ogni regione del mondo sisente separata dai suoi territori perché si pensa nella rap-presentazione costruita dall’Occidente in cui la potenzadella tecnologia e dell’economia domina l’insieme delpianeta. La crisi è proprio qui. Nella razionalità occidentale,in questa costruzione di questo mondo. E quindi se lacrisi dell’ Occidente è la crisi del mondo, è perché l’ Oc-cidente ha dominato il mondo. Un mondo basato sulmodello individualista occidentale, che concepisce l’umanitàcome una serie di individui isolati, e che si trova a nonessere più sufficiente a sé stesso anche dal punto di vistatermodinamico, ecologico, ambientale.

Tragico, anzi graveIn questo contesto di cambiamento assume un valore centralela questione della rottura dei legami. Cosa che mi piaceesprimere, facendo riferimento alla Grecia antica, come ilpassaggio da un mondo “tragico” a un mondo “grave”.Cos’è il tragico? È ciò che ci lega immediatamente a un fe-nomeno. Una dimensione tragica dell’esistenza è qualcosache ci cattura, che ci trascina con sé. La dimensione digravità invece riguarda qualcosa di distante da noi. La guerradel Vietnam era una guerra tragica, proprio nel senso dellatragedia greca perché la sua evoluzione, il suo sviluppo, hariguardato immediatamente tutti gli abitanti del pianeta.Tutti sapevano quello che succedeva in Vietnam. C’era con-sapevolezza che l’esito di questa guerra avrebbe cambiato lavita di tutti. Questa è la dimensione tragica di un fenomeno:una dimensione caratterizzata da legami, da nessi profondi,ontologici, che ci catturano e ci portano con sé. Un altroesempio evidente è lo sterminio degli zingari e degli ebrei,nella Seconda Guerra Mondiale. Il fenomeno della Shoah

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rappresenta una rottura storica, con un prima e un dopo.C’è chi si è chiesto se dopo Auschwitz sia ancora possibile lapoesia, o la fede in Dio, per chi è credente. Auschwitz, nel-l’immaginario occidentale e non solo, è una tale rottura chequando i bambini scoprono cosa è successo, hanno unoshock simile a quello che hanno quando capiscono che ungiorno moriranno. Se passiamo invece all’epoca postmoderna,ci troviamo immersi in qualcosa di profondamente diverso.Invece del Vietnam possiamo parlare della guerra nella ex-Jugoslavia. Anche in questa guerra si è materializzata lapulizia etnica e non sono mancati i massacri. Eppure pochidi noi sono in grado di dire chi faceva cosa, chi ha ucciso chie per cosa. Grosso modo si sa che nella ex-Jugoslavia c’èstato un conflitto tremendo. Certo, si considerava la cosagravissima. Ma vedete da soli la differenza che c’è, nellanostra percezione e nella nostra consapevolezza, tra la guerradel Vietnam e quella nella ex-Jugoslavia. Nessuno penseràalla guerra in ex-Jugoslavia come una cosa che lo riguardavadirettamente. Se qualcuno l’ha detto è perché era serbo, bo-sniaco o croato. Nella differenza di percezione tra queste due guerre credoche si veda bene la differenza tra il grave e il tragico. Noisiamo persone interessate ai legami. A come si sviluppanoe si formano i legami. E nel passaggio dal tragico al grave,evidentemente, c’è qualcosa che ci interessa. Se io vedopassare un’ambulanza con un’unità coronarica vuol direche la persona a bordo rischia di morire. È chiaro che midispiace, ma se non sono di quella famiglia, la cosa non miriguarda più di tanto, non mi tocca. Non molto tempo fain Rwanda è avvenuta una carneficina. Qualcuno dice cheè stato il più grande genocidio dopo la Seconda GuerraMondiale. Eppure non conosco nessuno scrittore o poetain Occidente che si sia chiesto se si possa fare poesia dopoil Rwanda. Se qualcuno facesse un’affermazione del genere

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gli si chiederebbe se conosceva quel Paese direttamente perqualche ragione. Si cercherebbe un legame diretto perchéessendo un evento grave, se addirittura mi tocca allora cideve essere un legame diretto. Questo esempio serve a direche oggi viviamo in un mondo in cui ci sono eventi gravi,guerre gravi, disastri ecologici gravi, ma questo è diventatoun elemento di debolezza. Ad esempio, gli ecologisticercano di dimostrare continuamente alla gente che la si-tuazione è grave. Ma più si fa vedere che le cose sono gravi,più le persone se ne allontanano. Dimostrare, o mostrarela gravità di un problema, ha l’effetto paradossale di allon-tanare le persone dal problema stesso. Questo è unfenomeno quasi quotidiano per chi cerca continuamentedi far prendere coscienza alle persone della gravità della si-tuazione, senza rendersi conto che il solo modo permotivare la gente a intervenire è che si senta coinvolta, chenon pensi alla gravità, ma che possa sentire il legametragico con la realtà. Cerchiamo sempre di dire a questoindividuo deterritorializzato che quello che accade è grave,ma la cosa non funziona. E uno dei motivi per cui nonfunziona dipende da come operano i processi di rimozionee cioè dal fatto che qualunque buona notizia che arriva daimezzi di comunicazione schiaccia altre cento brutte notizie.In Francia un ex ministro socialista, uno scienziato nonmolto serio, ha cercato di dimostrare che il riscaldamentodel pianeta non esiste. L’Accademia delle Scienze francesel’ha sanzionato perché si era dimenticato un dettaglio: ilsuo calcolo funzionava solo se la terra fosse stata piatta.Ma in realtà il messaggio che è passato nell’opinionepubblica è che “non esiste il riscaldamento globale”. Perl’individuo deterritorializzato questa è una notizia ottima.Ogni buona notizia, ogni notizia di intrattenimento, èsempre più potente di una cattiva notizia. E ci allontanainesorabilmente dal mondo reale.

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Terra promessaLa modernità, antropologicamente, si definisce rispettoa una concezione della temporalità. La modernità hacreato una temporalità secondo la quale la vita dell’uomosulla terra è un divenire, un passaggio dall’oscurità allaluce, dalla sofferenza alla gioia, dal limitato all’illimitato.Un progresso continuo, lineare. Non si conosce nessun’altracultura che si sia strutturata intorno all’idea di unprogresso tra l’oscurità e la luce. Tutte le altre culturesono culture dell’eterno ritorno.Le conseguenze di questa concezione sono profonde. Si-gnifica, per esempio, che in queste culture tutto ciò cheappare come negativo, come la morte, la malattia, l’in-giustizia, la penuria, sembra incorporato organicamentea un insieme. Non si contrappone ciò che è negativo aciò che è positivo. Si considerano invece gli elementicome parte di un tutto organico. Nella nostra modernità, al contrario, ci siamo inventatil’idea che progredendo sarebbero scomparse tutte le ne-gatività e si sarebbe realizzato il paradiso in terra. C’èdunque un passaggio tra tempo circolare e tempo lineare.E questo passaggio è stato sancito in Occidente dal mo-noteismo. Il monoteismo infatti procede verso una sepa-razione radicale tra il bene e il male e introduce l’idea diun paradiso in cielo, di un Dio unico, di un’ascensioneverso il bene. Nelle altre culture questa idea di un’ascensionea senso unico non esiste. In queste culture ogni volta chesi sale, ci si aspetta di ridiscendere dall’altra parte. L’ideache la storia abbia una direzione, un verso, e che questoverso sia dato dall’obiettivo, è tipica della nostra civiltà.Questo si chiama storicismo, o teoria del progresso, o te-leologia. Cioè l’idea che una causa lontana spieghi ciòche accade qui e ora. Questo schema di pensiero comincia ad affermarsi con i

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grandi progressi in fisica e in matematica, quando Kepleroe Galileo espongono le basi della nostra razionalità affer-mando che nelle scienze conta solo ciò che è misurabile.Con loro comincia ad affermarsi l’idea che se qualcosanon è misurabile non è scienza e quindi non è razionale.Galileo pronuncerà la frase che fonderà le scienzeoccidentali, una frase che ancora oggi orienta tutto ilnostro mondo: l’universo è descritto in linguaggio mate-matico. E quindi chi controlla la matematica controllal’universo. Più tardi Keplero dirà che l’unica differenzatra Dio e l’uomo è che Dio conosce da sempre tutti iteoremi mentre l’uomo non ancora. Questo non ancora fapensare alla modernità come il compimento, la chiusuradi un tempo. È la promessa di un futuro positivo, il mo-mento nel quale gli uomini avranno percorso tutta la di-stanza che li separa da esso, nel quale ogni teorema saràconosciuto e si avrà così il controllo totale sulle cose. C’è un mondo intero in quel non ancora. E c’è anchequalcosa di molto concreto dal punto di vista socialeperché in questo divenire, nel quale si situano anchepensatori come Marx, Bakunin, Proudhon e altri, allafine ci si aspetta un mondo privo di ingiustizie. In questa concezione della razionalità scientifica c’èqualcosa che va di pari passo con l’importanza attribuitaal denaro: la rappresentazione del mondo, ciò che è mi-surabile, diventerà infatti più importante della cosa rap-presentata. Risulta chiaro che, molto precocemente, nasceuna relazione forte tra il mercantilismo e la nuova scienzagrazie alla priorità attribuita alla misurazione. Quando ho cominciato a studiare medicina, se mi avesserochiesto di immaginare il nuovo millennio da un punto divista medico, avrei firmato un foglio dicendo che avremmoguarito tutti i tumori o avremmo allungato la vitatantissimo. Per me tutto questo era evidente perché era

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diffusa l’idea di una direzione della storia, una specie diauto evidenza. Nel libro “L’epoca delle passioni tristi” hoparlato di un paziente schizofrenico, Jean Christophe,che veniva in terapia tutti i venerdì. Ogni volta mi dicevache stava meglio. L’ho incontrato per anni e alla fine lasua vita sarebbe dovuta essere fantastica. In realtà lui erasempre lo stesso, ma pur essendo schizofrenico sapevache nella vita bisogna stare meglio. Perché l’obiettivo del-l’esistenza individuale, sociale, storica ed economica dellanostra epoca è eliminare il negativo. Il problema delnegativo però è che non sappiamo dove metterlo.

Il negativo dove lo metto?Come se la cavano invece le società dell’eterno ritornocon il negativo? Nelle società dell’eterno ritorno il negativoè incorporato organicamente al positivo. Ci sono momentiin cui siamo stanchi, ma questo è fondamentale per poinon essere stanchi. Ci sono momenti in cui siamo tristi,ma ciò è normale, perché se non siamo mai tristi nonsiamo neanche mai felici. Ci sono momenti di gioventù,ma da giovani non si ha esperienza e quando siamovecchi abbiamo l’esperienza, ma non la potenza. Morirenon è mai piaciuto a nessuno, ma non è la stessa cosamorire in queste società nelle quali una parte di noimuore, ma il resto continua nella tribù, con i bambini,con la nostra opera, rispetto a morire nel mondo dellostruzzo con la testa infilata nella sabbia. Perché per lostruzzo morire significa che tutto è finito. Nella societàdell’eterno ritorno invece si muore perché la vita sirinnovi, mentre nella nostra società lineare si muore nel-l’attesa di arrivare a quel tempo in cui non si morirà più. Nella vita, quando ci sono momenti in cui si sta male,sono solo alcune nostre dimensioni che soffrono. Infatti,quando si studia questo fenomeno un po’ più da vicino

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si scoprono cose interessanti. Ad esempio si vede che ladepressione è un meccanismo che l’organismo mette inatto per rigenerarsi in maniera profonda. Se uno non sideprime mai, mette in pericolo la sua esistenza. È moltocomplicato da definire cosa significhi stare bene o staremale da un punto di vista organico. La persona che èsempre felice ignora tutte le dimensioni che si stannodistruggendo dentro di lei. Nella visione organica,invece, il male è incorporato. Nelle civiltà dell’eternoritorno non c’è una separazione radicale tra il bene e ilmale. E anche quando ciò accade, come nel caso delmanicheismo2, il male è assolutamente necessario al-l’insieme del dispositivo. Ci sono due modi quindi diconsiderare il negativo, uno di questi è incorporarlo,l’altro è cercare di eliminarlo. E quest’ultimo approccioè tipico della nostra società. Ma adesso questa società del progresso è in crisi. Lo schemasi è rotto. Si è spezzato il collegamento con il miticoPunto Omega. Dal punto di vista scientifico, questarottura si può datare intorno al 19003, mentre dal punto

2 Il manicheismo prende il nome da un certo Mani vissuto nel Terzosecolo in Medio oriente dove aveva fuso in un’unica dottrina l’anticatradizione mesopotamica e l’insegnamento evangelico. La dottrina diMani si basa sull’idea che Bene e Male rappresentano due principi inlotta tra loro. L’uomo, con la sua coscienza, è solo il “teatro” di questoconflitto perenne tra due entità opposte per cui non è responsabiledelle sue scelte. Generalmente, con il termine manicheismo, si intendeuna visione dualistica della realtà. 3 Il concetto di “rottura epistemologica” (da èpisteme=scienza) sta aindicare una discontinuità radicale all’interno di una teoria scientifica.«Quando si produce una rottura epistemologica non solo compaiononuovi concetti, nuove teorie, nuovi metodi, nuove problematiche, manon si può più neanche trovare un raccordo tra l’antico e il nuovo. Ilprima e il dopo vengono a formare due universi di pensiero estraneil’uno all’altro» (Suzanne Bachelard, Epistemologia e teoria delle scienze).

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di vista sociale e politico più o meno intorno al 1980, unpo’ prima della caduta del Muro di Berlino, quando ècominciata la cosiddetta “fine delle ideologie”. Per loscienziato l’ipotesi del progresso lineare si interrompedunque all’inizio del secolo scorso. A livello sociale invece,ci vorranno più di ottant’anni perché si compia questarottura. Gli scienziati, ai primi del Novecento, vedonosvanire la promessa di una scienza completa, totale, checonsenta di arrivare a quel Punto Omega che avrebbeconsentito di conoscere tutti i teoremi e dominare lanatura. Quando ero nelle prigioni argentine c’era una ragione perlottare contro la dittatura. C’era un ottimismo che mifaceva dire che sì, soffrivo, che era dura, ma che in uncerto senso avevo già vinto. Più la lotta era dura, piùserviva al disegno superiore; questa dimensione tragica sifondava sulla promessa della scomparsa del negativo. Inquesto caso, come prima nella non modernità, il negativoaveva un senso e veniva sentito come necessario. Ma perquesti “ometti” postmoderni il negativo è qualcosa checade sulla loro testa. Qualcosa con cui non sanno comecomportarsi. È solo e pura negatività. Non è qualcosa chescomparirà. Non ha più una funzione storica verso qualcosadi positivo. Quindi è negatività pura in circolo. E diventaqualcosa che causa la rottura dei legami perché improvvi-samente compare ovunque in modo diffuso. Questa è la realtà attuale da un punto di vista antropologicoe da un punto di vista sociale: il pensiero di un futuro

Esempi di rotture epistemologiche sono le discontinuità provocatedalle scoperte di Lavoisier, Galois, Pasteur, Mendel nell’Ottocento, eEinstein all’inizio del Novecento, quando va in crisi irreversibile anchel’idea di un progresso continuo e di uno sviluppo lineare verso un esitocerto e univoco.

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come minaccia implica una percezione del negativodiffusa ovunque. C’è una specie di diffidenza che siinstaura verso l’altro, ma anche verso se stessi: si ha pauradi ammalarsi, di fumare, di intossicarsi. Si ha paura delleproprie tendenze. Quando ci sono persone come Sarkozyo Berlusconi che parlano di sicurezza come ideologia,che parlano di controllo, di apartheid, dobbiamo essereconsapevoli che non hanno inventato nulla. La loro èuna risposta coerente con un’epoca nella quale la minacciaè ovunque perché la nostra epoca non sa cosa fare del ne-gativo.

Soluzione finaleVi ho già parlato del lavoro che facciamo con i bambinidi strada a Buenos Aires. In una tribù della Patagonia unbambino violento fa parte dell’insieme. E questo bimboè incorporato organicamente nell’insieme. In una visionestoricista invece il bambino violento dovrà scomparireproprio perché si vuole eliminare il negativo.Nella nostra epoca c’è come un fermo immagine: im-provvisamente non c’è più temporalità, né circolare, néascendente. C’è qualcosa che rimane fisso, si ferma. E sesi vive in questo fermo immagine allora diventa difficilissimoavere sogni o progetti. Avere un sogno significa potersiproiettare e quindi prendere una distanza minima, quelladella temporalità, rispetto alla realtà. La nostra epocainvece è l’epoca di una realtà schiacciante.Nelle società dell’eterno ritorno il negativo viene trattatoin modo culturale, immaginario. Ovvero sia, ciò cheviene definito il trattamento sacrificale del negativo. Tuttequeste culture hanno qualcosa in comune. Siccome c’èuna specie di amicizia organica con il negativo, e non si èarrabbiati con lui perché si capisce che fa parte delle cose,viene trattato e gestito in modo culturale, attraverso ciò

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che viene definito “aspetto sacrificale”. Dal punto divista antropologico, questo significa che in quelle societàsi accetta che ci sia una perdita. E soprattutto che sempreci sarà una perdita. Una prima differenza radicale con il nostro mondo è chela società moderna considera invece la perdita comequalcosa che deve essere soppressa, eliminata. La societàmoderna immagina l’arrivo a un punto della storia in cuinon ci sarà più perdita. Così si nega il sacrificio e, anzi, cisi prende gioco di lui. Sgozzare una gallina e tutto ciòche è sacrificale viene considerato come del tutto irrazionale.Per cui in nome della razionalità si nega il sacrificale e sicreano rapporti umani che appaiono come utilitaristi. Intutte le culture premoderne, anche se può sembrare in-credibile dirlo oggi, il rapporto di scambio tra le personenon è mai stato utilitarista, ma era sempre segnato daquello che Marcel Mauss definiva potlatch 4. La modalitàdi scambio in tutte le culture non moderne, era unoscambio in pura perdita. Ad esempio, tu mi dai unacamicia e io te ne offro due; oppure ti invito a mangiaree preparo una quantità di cibo tre volte più grande diquella che potremo mangiare. Questa pratica sopravvivein alcune società un po’ arretrate come quella italiana olatinoamericana. I francesi dicono che il Natale in Italia èun disastro perché si mangia sempre tre volte più di

4 Il potlatch è una cerimonia rituale che si svolge tra alcune tribù di na-tivi americani. Tradizionalmente comprende un banchetto a base dicarne di foca o salmone in cui vengono ostentate pratiche distruttivedi beni considerati “di prestigio”. Durante la cerimonia vengono sti-pulate o rinforzate le relazioni gerarchiche tra i vari gruppi grazie alloscambio di doni. Attraverso il potlatch individui dello stesso status so-ciale distribuiscono o fanno a gara a distruggere beni considerevoli peraffermare pubblicamente il proprio rango o per riacquistarlo nel casolo abbiano perso.

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quello che si dovrebbe, e questo è proprio un esempio dipotlatch: non si prepara solo ciò che serve, ma si preparaanche per buttare un po’ via quello che si è preparato. Inquesto sistema lo scambio non è né egualitario né utilita-ristico. È uno scambio culturalmente mediato e ha comefunzione, oltre a quella di scambiare delle merci, dicreare un legame. Nella società moderna invece, a partequalche eccezione residuale, si considera il sacrificio unesempio di irrazionalità e si pensa che debba essereeliminato. Facendo scomparire il sacrificale però, si creaqualcosa di troppo forzato per le culture umane, e cioèun rapporto che vuole e deve essere unicamente utilitaristico.L’ideale della modernità è una modalità di rapporto che,spinta al suo estremo, è troppo lontana dalla cultura equindi comincia a distruggere la civiltà.Ciò nonostante, l’aspetto sacrificale non scompare total-mente nella modernità. Certo si decide che il sacrificalenon serve e deve essere eliminato, ma come tutte le coseche si rimuovono, prima o poi ritorna in forme un po’ si-nistre. Ad esempio nella difficoltà ricorrente a stabilireuna produzione davvero utilitarista. Infatti, al di là dellebelle intenzioni efficientiste, si distruggono ovunque ma-terie prime, mezzi di produzione, forze produttive, ric-chezza. Ci si chiede spesso come questo sia possibile. Inrealtà nella razionalità capitalista, attraverso questa faglia,si esprime in modo sinistro e nascosto il sacrificale ri-mosso. E a queste faglie del sistema capitalista si cerca dirispondere con ulteriori iniezioni di razionalità utilitarista.Ma più andiamo verso l’utilitarismo più c’è una distru-zione sacrificale, non riconosciuta come tale. Nei modelli complessi applicati all’antropologia pensiamoche effettivamente il crollo della Borsa, le materie primedistrutte, le spese folli per trasportare le mele dal Cile aParigi piuttosto che produrle localmente, tutto questo,

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che viene considerato come un problema nel sistema uti-litarista, da un punto di vista antropologico non è altroche il sacrificale rimosso che ritorna. Con una differenzasostanziale: mentre in passato il sacrificale era gestibile egestito, l’odierno ritorno oscuro del sacrificale non è piùgestibile, non è più controllabile. Pensiamo ai tifosi chesi ammazzano tra di loro, che si agitano, che sudano comepazzi per la propria squadra. Questi stadi ribollenti di fol-lia irrazionale sono in realtà forme oscure del sacrificale.Lo sport spettacolarizzato è anche un modo per canaliz-zare la violenza delle persone, ma c’è qualcosa di più pro-fondo. Per cui questa follia che viene fuori allo stadio è laforma che la nostra società ha trovato per canalizzare unsacrificale che si cerca di negare. Sarebbe completamenteimpossibile pensare alle nostre società capitaliste avanzatesenza la follia irrazionale del calcio, senza le perdite eco-nomiche, senza la distruzione delle forze produttive. Nonsolo c’è una faglia. Ma in realtà questa faglia è necessariaaffinché il sistema esista. Il nostro sistema non fa più ami-cizia con la perdita e la perdita ritorna in queste forme.

Il motore del 2000Tra il modello circolare e il modello lineare storicista ladifferenza sta nel fatto che nel primo modello l’umanonon è il motore della storia. Il motore o il movente sonoDio, o la divinità, la madre terra. L’uomo non è il motore,perché siamo nel mondo di Dio nel quale l’uomo è in-cluso, di cui è una parte. Nella modernità invece il motoreè l’uomo. E l’uomo ha il suo motore, il suo Dio. Ogginon si sa cosa è, o chi è il motore. Quello che sappiamo èche se vogliamo adottare un pensiero un po’ più olistico,complesso e sistemico, non si può tenere l’uomo al centrodel dispositivo. Questo noi lo affermiamo sempre in ne-gativo quando diciamo ad esempio che l’economia non è

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al servizio dell’uomo, che la tecnica non è al servizio del-l’uomo, che la città non è al servizio dell’uomo, che l’autonon è al servizio dell’uomo. Tutti i giorni constatiamo chela nostra società non è al servizio dell’uomo e siamo moltostupiti e pensiamo che, allora, deve essere l’uomo al ser-vizio di qualcosa. Sta a noi cercare di capire quale dispo-sitivo oggi sta emergendo. Se non è né Dio né l’uomo,allora che cos’è? Ciò che emerge non è qualcosa di univoco o chiaro, maal contrario contraddittorio, pieno di conflitti. Emergeciò che in filosofia si chiama singolarità. Nell’epoca diDio, la singolarità è costituita dalla divinità. L’uomo nonagisce. È una marionetta nelle mani della divinità. Tuttala tragedia greca o romana, tutta la mitologia cinese oindo-americana parla di questo. Cioè di come l’uomo siatragicamente, una marionetta nelle mani delle varie divi-nità. In tutte le società circolari la tragedia dell’uomoviene espressa sulla base del fatto che è attraversato daforze che lo dominano. La tragedia di cui si parla sempreè questa: l’uomo mosso da qualcosa. È la questione deldestino, della fatalità. Se l’uomo non accetta il propriodestino questo gli ricadrà addosso come fatalità.L’uomo della modernità al contrario crede di essere il mo-tore. È lui che muove le cose, è lui che decide. L’uomo dellapostmodernità, poi, si domanda chi lo muove. Ma è mossocomunque da tutte le parti, come una foglia nella tempesta.L’uomo dell’era postmoderna sa dai media che si ritroveràdisoccupato, che morirà intossicato, che non avrà figli. Lecose gli capitano così. Nella modernità agire significava es-sere in accordo con la storia. La forza che muove tutto è lastoria e alla fine della storia l’uomo sarà come Dio, conosceràtutti i teoremi e sarà libero. L’uomo della postmodernità in-vece è mosso da tutte le parti. Gli si fa desiderare una cosa,gli se ne fa odiare un’altra, gli se ne fa credere un’altra ancora.

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Dunque che faccia ha la nuova singolarità? Nella postmo-dernità la singolarità sembra essere quella tecnico-econo-mica. Magari c’è un ospedale, un chirurgo, un bambinomalato. Ma il bambino muore se la madre non ha i soldiper pagare le cure. Ci sono tutti i dispositivi materiali perguarire il bambino, ma la sua guarigione o la sua morte, di-ventano una questione di soldi. Sono i soldi che decidono. In questo contesto la tecnica è diventata un fulcro di nor-malità perché sta formattando la nostra vita e la nostrasocietà. Tutto ciò che viene prodotto dalla tecnica si tra-sforma in norma. Ma nessun organismo, quando acqui-sisce una capacità tecnologica, è un organismo aumentato.Non esiste questo concetto di aumento. C’è, al contrario,un concetto di modifica e di cambiamento che implicaquindi anche una perdita. In Francia, dopo qualche annodalla commercializzazione del GPS, abbiamo studiato itassisti. Coloro che avevano usato il navigatore avevano icentri sub-corticali dell’orientamento diminuiti. La con-seguenza era che avevano problemi di orientamento spa-ziale perché i neuroni di questa parte del cervello si eranoatrofizzati. Questo significa che non è possibile un esclu-sivo aumento tecnologico senza che ci siano modificazionistrutturali. Per questo la tecnologia e l’economia stannoformattando il mondo. Senza che nessuno decida queitipi di cambiamento. Ma quei tipi di cambiamento sonola conseguenza dello sviluppo delle tecnologie. Dunque, se oggi il profilo emergente sembra essere quellodella singolarità tecnico-economica, dobbiamo porci unadomanda: quale altra singolarità meno guerriera, menofolle e meno distruttiva potrebbe emergere in futuro? Nel procedere su questo filone di ricerca, ci sono due ten-tazioni: continuare a parlare in nome dell’umanesimo conuna razionalità moderna, oppure tornare a Dio. In praticala tentazione di tornare alle singolarità già conosciute. In-

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vece la domanda riguarda la possibile identità di unanuova singolarità emergente. Adesso domina quella tec-nico-economica, ma il nostro lavoro è cercare di capirequali potrebbero essere le forme della singolarità organicae di emancipazione emergenti in grado di resisterle.

Umano, troppo umanoC’è un dialogo molto noto di Platone in cui Socrate di-scute con un sofista, Protagora. Quest’ultimo dice chel’uomo è la misura di tutto. Socrate, come spesso succedenei dialoghi, fa lo scemo, fa delle domande, poi vince sem-pre lui, come nelle serie televisive del tenente Colombo. ESocrate chiede: ma come fa l’uomo a essere la misura ditutte le cose? L’altro spiega e poco a poco Socrate gli di-mostra che per rispondere con rigore bisogna prima defi-nire l’uomo. Scegliere cosa sia l’uomo. E dimostra qualcosache Marx riprenderà nella sua critica all’umanesimo.L’uomo dell’umanesimo, si chiederà Marx, che uomo è? Ilborghese, lo schiavo, il servo, il lavoratore, l’uomo o ladonna? Con queste domande si afferma che l’umanesimocorrisponde alla creazione di un dispositivo astratto dettouomo, che non può corrispondere all’uomo reale. L’umanesimo oggi sembra superato. La prima teorizzazionedell’umanesimo comincia dopo la conquista dell’Americada parte degli spagnoli e dei portoghesi. Questi ultimi sta-vano saccheggiando l’America e massacrando gli indigeni.Fu un immenso sterminio e non si sa, effettivamente,quanti milioni di indios siano morti. Anche perché conti-nua ai giorni nostri: ci sono regioni in cui i nativi conti-nuano ad essere sterminati per avere accesso alle foreste edistruggerle. Il frate domenicano Bartolomeo de Las Casasandò in America, vide queste stragi e scrisse un rapportonel quale sosteneva che stavano massacrando degli esseriumani. Il Vaticano rispose che non erano esseri umani,

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bensì animali. Bartolomeo de Las Casas invece, rispose cheerano umani e tutta la discussione si spostò sulla questionese quegli esseri umani avessero o meno un’anima.In quel periodo, per la Chiesa, anche le donne non ave-vano un’anima. O meglio, a volte si, a volte no. Le donnedell’alta aristocrazia avevano quasi un’anima, ma le donnein generale no. Ci fu dunque una controversia. Si con-frontavano due autorità e chi avesse vinto avrebbe avutoragione in base al giudizio di Dio. Bartolomeo de LasCasas si confrontò con Sepulveda, l’inviato vaticano; i duediscussero e vinse Bartolomeo de Las Casas. Ma quest’ul-timo per poter vincere fece un compromesso che produsseun orrore totale: vinse, infatti, affermando che gli indioserano sì esseri umani, ma con un’umanità non compiuta. Ecco, questo è il dispositivo della modernità: il “non ancora”compiuto. Bartolomeo de Las Casas legittima con questaconcezione dell’essere umano il dispositivo moderno: ci sonoesseri umani che sono a livelli diversi. Quindi stabilisce unagerarchia. Ma nel farlo, senza accorgersene, finisce per legit-timare la teoria umanistica che poi ha giustificato e reso pos-sibile il colonialismo e il razzismo. Ovviamente ilco lonizzatore è a un livello, mentre il colonizzato a un altro.È l’idea di civiltà contro la barbarie. L’idea che ci siano essericivilizzati da contrapporre ai barbari. E dunque la domandaè: come si fa a diventare un essere umano? La conseguenzapossibile di questo modo di ragionare è che diventa accetta-bile fare del male a un “barbaro” per il suo bene. Si può usarela barbarie, contro il barbaro, per il suo bene5.

5 Questo stesso modo di ragionare è alla base di una pedagogia checonsidera l’infanzia come qualcosa di difettoso o incompiuto che si sirisolverà con il diventare adulti. La possibile conseguenza è l’adozionedi sistemi educativi violenti, correttivi e coercitivi che alcuni studiosihanno definito “pedagogia nera”.

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In tutti i Paesi del terzo mondo l’umanesimo è molto cri-ticato perché considerato la base della logica colonialista. C’è però un problema: quando si critica l’umanesimo èforte il rischio di cadere all’altro estremo, e cioè nel rela-tivismo culturale che dice che non c’è un’unità umana.Che siamo tutti diversi. Con il conseguente corollarioche se siamo così diversi, allora vince il più forte. Il rela-tivismo culturale è la base teorica attuale dei nuovi raz-zismi: fra noi e l’Islam non ci si capisce, quindi vince chiè più forte. Il relativismo culturale si colloca proprio al-l’estremo opposto rispetto all’umanesimo. L’umanesimoparte dal presupposto che esista una base comune pertutta l’umanità. Che l’umanità esista come identità idealeverso la quale tutti si dirigono e che in nome di questacompiutezza da raggiungere, dobbiamo orientare tutti inostri sforzi. Questo umanesimo non ha prodotto soloorrori e colonialismo: ha prodotto tante conoscenze, ar-chitettura, musica, cultura. Solo che, come tutte le cosecicliche, inizialmente c’è la liberazione da un pesoenorme, ma alla fine abbiamo qualcosa di distruttivo.Stessa cosa succede con il concetto di individuo. Questaidea di individuo, ai tempi di Abelardo ed Eloisa, signi-ficava che l’uomo poteva finalmente pensare al di fuoridell’autorità della Chiesa, e questa possibilità liberava unapotenza enorme: “ho il diritto di pensare!”. In altri ter-mini non si può dire che l’individualismo sia semprestato uguale nelle diverse fasi della storia. L’individuali-smo è nato come movimento di emancipazione moltopotente. Adesso però siamo alla fine del ciclo. E la que-stione è diventata la seguente: quale figura della singola-rità potrà assumere questo ruolo di emancipazione? Oggiconosciamo la figura della singolarità tecnico-economica,ma quello che non conosciamo ancora e che dobbiamocercare di capire è quale altra singolarità potrà svolgere il

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ruolo di proteggere la vita, sviluppare il pensiero e resi-stere alla distruzione tecnico-economica.

L’utilità dell’inutileL’individuo occidentale è come lo struzzo a cui ci si rife-riva prima: pensa di essere solo una testa, è completa-mente deterritorializzato. Questo dispositivo logico chesepara il corpo dalla mente, ha prodotto anche saperi econoscenze che hanno cambiato il mondo. L’informatica,ad esempio, ha cambiato il mondo, non solo per la con-cretezza dei computer, ma anche perché è diventata il mo-dello di ricerca universale. La scoperta del DNA, neglianni ’50, è stata resa possibile grazie alla applicazione diun approccio informatico. Da allora si è cominciato a co-struire una biologia che corrisponde a questo modello,nel quale il concetto di “informazione codificata” è cen-trale. Ma la vita territorializzata è attraversata anche daquella che chiamo “informazione non codificata”, cheviene dal corpo, dal territorio. Un buon esempio per comprendere il significato di “in-formazione non codificata” si trova nel film di SabrinaGuzzanti “Draquila” che parla del terremoto in Abruzzo.Nel film c’è un passaggio che spiega molto bene la diffe-renza tra informazione codificata e informazione non co-dificata.È un passaggio interessante, un esempio che permette divedere come, grazie all’informazione codificata, l’uomopuò annegare nella sua impotenza. Il Direttore del gior-nale locale racconta che qualche giorno prima della scossadevastante i suoi figli gli dicevano che ci sarebbe stato unterremoto. E perché? Perché loro erano nati lì e il lorocorpo segnalava che ci sarebbe stato un terremoto. E pro-babilmente anche il corpo del Direttore del giornale sen-tiva la stessa cosa. Gli animali la sentivano. Ma siccome

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lui riceveva le informazioni da Roma, aveva pubblicatosul giornale la notizia che il terremoto non sarebbe statoforte. Alla vigilia del terremoto, la notte prima, raccontache i suoi figli si erano messi a piangere dicendo che sa-rebbero morti perché ci sarebbe stato un fortissimo terre-moto. Nel documentario, questa persona, guardandol’obiettivo dice: “ho detto ai miei bambini che non eravero. E poi sono morti.” Io ho trovato questo terribile.Perché veramente è un condensato della deterritorializza-zione che ci avvolge. Quei bambini avevano una cono-scenza di ciò che sarebbe accaduto, erano in possesso diun’informazione non codificata. Ma l’individuo del neo-liberismo e della postmodernità, non riconosce più tuttociò che viene dal territorio e che non è codificato. Questosecondo me è un buon esempio di come l’uomo-struzzoè separato dal suo corpo e non ha più accesso a questotipo di informazioni. Questo meccanismo di separazionedel corpo dalla realtà, del corpo dalla mente, non solorende possibile l’oppressione, ma mette anche in pericolola vita stessa. Si tratta dunque di un punto molto importante che ri-guarda la nostra capacità di comprendere la realtà e addi-rittura la possibilità di sopravvivenza della nostra specie.

Legami specialiOgni volta che c’è una grossa crisi storica ci si pone laquestione del legame. Una questione che in filosofia ri-guarda il nominalismo e il realismo. I realisti, che si richia-mano ad Aristotele e a San Tommaso, diranno che ciò cheesiste è un insieme legato e quindi il legame è una cate-goria ontologica, un’esistenza reale. Il nominalismo diràinvece che ciò che esiste sono solo entità elementari sepa-rate e i legami tra le entità sono, per parlare nei terminidella logica aristotelica, essenze seconde, dunque senza

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una vera esistenza ontologica. Da questo punto di vista ilrapporto tra realismo e nominalismo oggi riguarda tuttele dimensioni della nostra vita, dalla genetica fino all’am-bito sociale. Fino ad arrivare alla dimensione dei rapportidi coppia e a quella individuale, nel rapporto con noistessi. In più ambiti di ricerca oggi ci si chiede se le unità isolatedel nominalismo esistano. E per esempio se esiste l’indi-viduo. Eppure stiamo vivendo una fase in cui il nomina-lismo è dominante. Viviamo un’epoca di arcinominalismonella quale i legami sembrano inesistenti, irrilevanti. Edè qui che emerge la relazione tra grave e tragico, tra con-creto e astratto. Nel senso che oggi, se prendiamo il con-cetto di individuo, che è la figura per eccellenza delnominalismo, vediamo che molto difficilmente può esseredefinito come entità isolata, elementare e semplice, criteribase del nominalismo stesso.Proviamo a chiarire: la biologia molecolare dice che ciòche esiste sono entità elementari di base semplici. Checos’è un’entità elementare di base semplice? È un atomo,nel senso etimologico, un’entità non divisibile, che ha unasorta di esistenza trans storica. Vediamo adesso l’indivi-duo. L’individuo, come figura, non è esistita in tutte leculture e non esiste ancora oggi in tutte le culture. Peresempio non esiste nei Mapuche, né in alcune culture afri-cane o in Cina. Quando in queste culture si parla di in-dividuo, si parla di qualcosa che comprende e trattiene insé una serie di elementi come l’universo, la storia, la cul-tura, il pensiero e molto altro. Si usa lo stesso termine, in-dividuo, ma ci si riferisce a un insieme che comprende insé l’universo intero. L’individuo post moderno, l’indivi-duo attuale è, al contrario, un individuo assolutamentesvuotato di ogni interiorità. Un individuo sempre più disuperficie, reattivo, trasparente.

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Facciamo un salto nel mondo della tecnologia per com-prendere ancora meglio a cosa ci si riferisce. Molti antro-pologi studiano le pratiche dei blog e degli sms e ingenerale tutti i nuovi sistemi di comunicazione attraversoi quali molta gente offre la propria vita in spettacolo.Come su Facebook, con persone che, in qualche caso, vi-vono ciò che vivono per fotografarlo e metterlo in rete.Questo fenomeno è parte di un ciclo che ha visto nascerela figura dell’individuo come figura profonda, multidi-mensionale, complessa, per finire con un individuo cheha perso ogni individualità. Un individuo che è diventatoun’entità minima che vive di pura esteriorità. Gli antro-pologi che studiano questo fenomeno, confrontando peresempio i diari di una volta con Facebook, mostrano ladifferenza che c’è tra il lavoro lento di riflessione e di dia-logo con se stessi, rappresentato dal diario intimo, e quelloche invece avviene su un blog, o sui social network, neiquali c’è un’apologia della banalità. Nel diario intimo lapersona cerca di avere uno sguardo straordinario sull’or-dinario. Quando leggete un diario scritto fino a cinquantao sessanta anni fa, ad esempio i diari intimi di Simone deBeauvoir, vedete che ci sono pagine magnifiche, che rac-contano cose che sono molto vicine alla nevrosi di unaqualunque borghese nevrotica. Quando Simone de Be-auvoir però racconta ciò che ha vissuto nella sua vita, mo-stra uno sguardo straordinario sull’ordinario e talvoltaanche uno sguardo straordinario sullo straordinario. Selei è riuscita a raccontare elementi ordinari o straordinariin modo universale è perché ha avuto uno sguardo stra-ordinario sulle cose. Oggi invece assistiamo a un cambia-mento molto forte: uno sguardo ordinario su tutto.L’apologia dell’ordinario. Tutto deve essere ordinario e ba-nale, compreso ciò che è straordinario. Anche quando cisi riferisce a un fatto straordinario, come una guerra o un

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terremoto, si vede che la persona che scrive cercherà comenocciolo di verità il punto banale, il punto ordinario.Ecco l’individuo della post modernità: un uomo vuotoche sente che l’unica cosa che esiste è la banalità che ciunifica tutti nella mediocrità. Sì, ci sono Madre Teresa diCalcutta, Che Guevara, Einstein, ma in fondo, alla fine,siamo tutti uguali perché ciò che cerchiamo è solo essereun po’ soddisfatti dal punto di vista narcisistico. Si cer-cano quindi questi punti di banalità. Il mondo in cui vi-viamo è questo. Un mondo in cui si dice che esistonounità semplici, gli individui, collegati tra loro da legamiopzionali che non hanno un’esistenza reale. E dunque siperde il senso del tragico 6 perché il tragico è la dimensioneche riguarda il legame. E si dice che ci sono soltanto in-dividui connessi. La questione del legame non è soltanto una questione direlazione tra entità, ma ha anche a che fare con il contesto,con ciò che ruota intorno e costituisce ogni entità. Penso che sia importante oggi chiedersi in cosa consistala concretezza della nostra vita. La nostra vita non è lastessa cosa se vissuta nel 1500, o nel 1700 o nel 1900. Inun luogo o in un altro della terra. Entro l’una o l’altraclasse sociale. E un’altra cosa ancora è ciò che oggi chiamola mia vita che può essere ridotta a un conto in banca o aun racconto come quello che può apparire in certi filmisterici di Facebook o dei blog.

6 La parola “tragico” non deve essere qui concepita come eventodrammatico o luttuoso. Con tragico si intende un evento in cui illegame ha un carattere di necessità e non può essere rimosso ocancellato, senza che si ripresenti sotto forma di destino. Le tragediegreche infatti hanno sempre a che fare con storie e personaggi che neltentativo di eludere le leggi della vita si ritrovano a pagarne leconseguenze inevitabili. La differenza tra “tragico” e “grave” è stata af-frontata nelle pagine precedenti.

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Da un punto di vista sociale l’unità di base individuo ciinteressa molto perché effettivamente, in questa crisi cheviviamo, continuiamo a fare riferimento a un’immaginedell’uomo che viene dalla modernità, senza accorgerciche l’uomo della postmodernità è un essere assoluta-mente diverso. Un essere per il quale il valore dell’inte-riorità, di ciò che è importante, di ciò che ci crea e checi fonda è perduto. E senza accorgerci che ciò che ordinala vita dell’uomo postmoderno sono tutte istanzeesterne. Per questo assistiamo ad una perdita di privacy.E la frontiera tra pubblico e privato, ad esempio, nonsignifica più nulla. Da questo punto di vista la nostrapreoccupazione, come ricercatori, non è piangere suquesta entità esaurita che era l’uomo dell’umanesimo enemmeno seguire la corrente e accettarla passivamente,con un atteggiamento rassegnato che sembra dire “ècosì, è esploso e ora è tutto pura esteriorità, bisogna se-guire le leggi del mercato, l’isteria dei mass media”; dob-biamo invece domandarci se e come oggi cominci adesistere una nuova entità con una sua interiorità, con undentro e un fuori e che, come dice il filosofo MichelFoucault, non è più uomo, non è più Dio e non sap-piamo bene cosa sia. Questo passaggio è necessario per ridefinire la problema-tica attuale culturale, antropologica ed epistemologica apartire dal dato di fatto che l’uomo è una figura storica.Perché altrimenti, se ci si mette in una posizione troppocontemporanea, si finisce per pensare che l’umanità si siasbagliata. Per un po’ si è creduto in Dio. E ci siamo sba-gliati. Poi abbiamo creduto nell’uomo. E ci siamo sbagliatidi nuovo. Adesso invece siamo lucidi... e non ci sbaglie-remo. Invece dovremmo cercare di capire come certe fi-gure storiche emergono, si formano e diventano unnucleo di realtà.

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Oggi ci troviamo in un momento nel quale la figura cen-trale, l’uomo, sembra esaurita e non si sa bene che cosastia emergendo.

Ora e sempre ResistenzaCiò che possiamo definire “concreto” è ciò che esiste mal-grado la coscienza e malgrado la conoscenza codificata.Concreto è ciò che si impone per negatività o positività.Ad esempio è ciò che si impone quando si fa ricerca e con-statiamo l’impossibilità di andare oltre un certo limite. Ilconcreto, in generale, si presenta a noi come qualcosa cheimpedisce di andare oltre le nostre teorie. È ciò che resistemalgrado tutto 7. Questa resistenza è il primo livello di ma-nifestazione della concretezza. È ciò che noi effettiva-mente definiamo come l’incapacità di andare oltre unlivello di informazione codificata. Quando parlo di “in-formazione codificata” faccio riferimento a un elementocentrale della modernità che parte dall’ipotesi che tuttosia informazione. Infatti, questo è il pensiero dominanteoggi: il mondo è un insieme di informazioni. Per esempiol’idea che la vita sia un insieme di informazioni trasmessedai geni nasce dalla generalizzazione di questo concettobase dell’informatica. L’idea che tutto sia informazione èdiventata dominante e fonda tutta la nostra cultura. L’idea della centralità dell’informazione oggi, da un puntodi vista postmoderno, è associata alla realtà dei media, deicomputer. Ma in realtà questo modo di ragionare è piùprofondo e antico. Già Raimondo Lullo, per fare unesempio, nel 1308 inventò l’arte combinatoria8. La nostra

7 “Malgrado tutto” è il titolo di un libro di Miguel Benasayag nelquale l’autore racconta della sua esperienza in carcere durante ladittatura argentina. 8 “Arte combinatoria”, in realtà, era una locuzione del filosofo Leibniz,

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cultura si basa su quel dispositivo logico: l’idea che “mo-dellizzare”, significhi conoscere la realtà e controllarla. Macosa vuol dire modellizzare? E che tipo di problema ci tro-viamo di fronte quando si raggiunge un limite e si incon-tra qualcosa che resiste alla modellizzazione?Per avere un’idea di “ciò che resiste” prendiamo comeesempio un esperimento realizzato da un gruppo di eto-logi che provarono a modellizzare i comportamenti di uncane con l’obiettivo di costruire un cane artificiale. Per ar-rivare a una modellizzazione dei comportamenti del canesi dovevano affrontare diversi problemi, tra cui uno par-ticolarmente interessante: si possono riconoscere tanticomportamenti del cane, come fare la pipì, riprodursi,voler uscire, mangiare. Tutti comportamenti finalizzati.Ma c’è un comportamento particolare di cui non si capi-sce bene significato e scopo: il cane, prima di andare adormire, fa cinque o sei giri intorno alla cuccia. Nel pen-siero contemporaneo tutto ciò che non si può modelliz-zare, cioè che non corrisponde a una finalità evidente, èconsiderato come un errore. A tal punto che nella geneticauna buona parte dei cromosomi, non essendo codificanti,cioè non trasmettendo informazioni, è considerata dagliesperti americani, come costituita da geni spazzatura edunque scartata, trattata come un errore della natura.Questo ci dice molto sulla concezione attuale della razio-nalità: ciò che si può modellizzare va bene, tutto il restoè inutile perché non porta informazioni. Questi ricerca-

per riferirsi agli studi di R. Lullo che quest’ultimo definì “ars magna”.In pratica l’idea era di trasformare i concetti in segni algebrici ogeometrici in modo da combinarli reciprocamente in tutti i modipossibili. Nata anche come forma di tecnica memonica, l’ arte combi-natoria ha influenzato i successivi sviluppi del pensiero fino all’intelligenzaartificiale.

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tori dicono che possono modellizzare i diversi comporta-menti del cane, cioè attribuire loro delle funzioni che sonoseparabili e ricomponibili, ma quando il cane fa qualchegiro intorno alla cuccia, prima di andare a dormire, questaviene ritenuta un’informazione spazzatura perché nonsiamo in grado di attribuire una funzione a quel compor-tamento. È un comportamento non modellizzabile, nelsenso che gli etologi non riescono a definire la funzione“giri intorno alla cuccia”. Loro possono modellizzare solofunzioni. Funzioni delle quali possono dire sempre “que-sto serve a quest’altro”. Ma è molto complicato modelliz-zare qualcosa che compare nella teoria dell’informazionecome spazzatura. Così nell’esperimento addestrarono icani in modo che mangiassero, facessero la pipì e si ripro-ducessero, ma non facessero giri intorno alla cuccia. Dopovari esperimenti ripetitivi, la conseguenza fu che i canimorivano, si ammalavano, impazzivano. Era impossibileaddestrarli ad andare direttamente nella cuccia, ma se ciriuscivano, i cani si ammalavano o morivano. E quiemerge il problema, perché effettivamente la funzione“giri intorno alla cuccia” non è modellizzabile. Dunque,il concreto, ciò che è obiettivo, si manifesta a noi noncome una rivelazione di ciò che è concreto di per sé, macome qualcosa che resiste. Il cane mangia, si riproduce, ha funzioni fisiologiche e fai giri. La domanda è: “perché fa i giri?” L’ipotesi, non esplicitata, che orienta questa domanda èche qualsiasi comportamento di un organismo deve avereun’utilità, un senso comprensibile dall’esterno. Quindi ilcane si riproduce per fare altri cani, mangia per fare qual-cosa, ha funzioni fisiologiche per qualcos’altro. Ma i girinon si capiscono. Quindi si stabiliscono delle funzioni costruendole attornoa un’ipotesi non detta, un’ipotesi implicita: l’idea che il

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vivente, in questo caso il cane, faccia cose che devono cor-rispondere né più né meno a delle utilità identificabili.L’ipotesi sottesa è quella dell’utilitarismo.

Felicità vo cercandoL’utilitarismo nasce con Jeremy Bentham (1748-1839), lostesso filosofo che ideò il Panopticon9. L’idea del Panopti-con è di qualcosa di trasparente, leggibile, razionale. È que-sta esigenza della modernità che diventa una sorta dicaricatura di se stessa nella post modernità. L’esigenza se-condo la quale le cose che esistono devono esistere in unarazionalità del reale. È questo che si nasconde dietro l’ipo-tesi dei ricercatori. Ciò su cui essi però non si interroganoè da dove venga la loro domanda. “Da dove viene la miadomanda?” è invece ciò che oggi dobbiamo chiederci. Da dove viene l’idea dei ricercatori che si chiedono “a cosaserve”? La domanda “a che cosa serve?” si accompagna all’ipotesiumanistica che dice che l’uomo migliorerà le cose. Un’ipo-

9 Il Panopticon è un dispositivo architettonico applicato alle carceri,ma in realtà teorizzato anche per i luoghi di lavoro e per le scuole.L’architettura è qui concepita come una estrema forma di controllodei comportamenti delle persone, dei loro corpi e delle loro menti. Ilcarcere viene concepito come un luogo in cui 24 ore su 24 il detenutoè sotto controllo mentre lui non è nemmeno in grado di osservare chilo osserva. L’idea educativa positivista è che un comportamentoperverso diminuirà la sua intensità fino a scomparire perché chi loattua, sapendo di essere visto, metterà in atto un autocontrolloprogressivo. Una idea ingenua che però ha trovato diverse forme diattuazione basandosi su un presupposto di sfiducia e di prevenzionedi possibili comportamenti individuali sgraditi. Il “Panopticon” diJeremy Bentham, recentemente ripubblicato dalla Casa EditriceMarsilio, è un lettura fondamentale per comprendere da dove venganoi presupposti di controllo autoritario che governano gran parte delleistituzioni lavorative ed educative attuali.

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tesi che rimane in un cono d’ombra epistemologico. Ri-mane in un cono d’ombra l’idea che le cose devono servirerazionalmente e l’uomo può migliorarle. Perché la Naturasarà domata e migliorata dall’uomo. La cosa chiara quindiè che l’uomo pensa di poter migliorare la natura. Del restosiamo sempre in questo ambito quando si pensa di usarela genetica per impedire certe malattie: il presupposto èche la natura non faccia le cose molto bene. È qui implicita una trappola ideologica che cattura e vin-cola pensiero e azione. Ciò che è meglio e ciò che è peggiovengono definiti secondo istanze trascendentali che sonol’economicismo e l’utilitarismo. Infatti lo schema logicorimane sempre: “meglio rispetto a qualcosa”. Perchéquando si dice “migliorare la natura”, ciò che resta nelcono d’ombra è appunto: “migliorare rispetto a cosa?”. Larisposta è “migliorare in nome dell’utilitarismo, del con-trollo delle cose, di una certa idea di prestazione”.Per giocare un pò con le idee potrei dire che non capiscoperché un organismo si riproduce, ed è esattamente quelloche succede con i ricercatori che si occupano di vita arti-ficiale i quali, ad esempio, sfilano via dalla loro modelliz-zazione invarianti vitali come la riproduzione. In pratica questo esempio serve a comprendere che seconsideriamo un organismo discretizzabile10, sezionabile

10 Il termine “discreto” viene dalla logica matematica e ha a che farecon il concetto di “continuo”. Per semplificare possiamo dire che unessere vivente è un essere finito che distingue, sceglie, modifica larealtà sulla base delle sue caratteristiche fisiologiche. Per dirla in altritermini la nostra percezione dei colori dipende dalle caratteristichedel nostro sistema nervoso. Non esistono all’esterno i colori, ma ondeelettromagnetiche. Così, ancora in generale, possiamo dire che lenostre azioni, tendono a discretizzare il mondo confermando ipresupposti di partenza. La discretizzazione del mondo, per ognispecie, è frutto dell’evoluzione naturale. Le specie discretizzano il

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secondo un modello esterno, possiamo allora discretiz-zarlo in qualsiasi modo, tanti quanti sono i modelli da ap-plicare. L’ipotesi di fondo quindi, non è a che cosaservono i giri dei cani. L’ipotesi di fondo – un’ipotesi fi-losoficamente reazionaria – è che gli insiemi organici sonodiscretizzabili secondo un modello esterno. Ciò che consideriamo concreto è frutto di una discretiz-zazione. Discretizzare vuol dire scomporre un organismoo un continuo in parti. Il passaggio successivo è che al-cune possibili scomposizioni diventano quelle dominanti.Ma la discretizzazione ha un difetto originario: toglie lecose dallo spazio-tempo. La domanda che gli uomini sifanno e si sono sempre fatti sui cani, sui gatti e su tuttigli esseri viventi è: cosa si fa con quello che appare comeil reale? Il reale che ci circonda è composto da entità bendefinite che io posso ritagliare o suddividere? Quindi iopercepisco ciò che esiste perché le cose sono suddivise? È molto difficile dire che le cose esistono suddivise nelreale, perché sappiamo che allo stato molecolare e atomicoc’è una specie di brodo di atomi al cui livello noi non esi-stiamo. Il tavolo non esiste, la penna non esiste, io non esi-sto... e ancora, a livello subatomico, si parla semplicementedi flussi di energia. A questo livello il reale esiste solo comecontinuo senza entità separate. Ciò che noi vediamo comeseparato corrisponde a un lavoro di separazione svolto dalnostro sistema nervoso. In realtà le entità separate non esi-stono di per sé come separate.

mondo in un certo modo e discretizzandolo in quel modo vengono altempo stesso modificate dal mondo. Questo concetto – che piùavanti nel testo sarà ripreso – si presta ad approfondimenti sul senso ela qualità della nostra vita sociale se si pensa che, ad esempio, modidiversi di concepire e costruire le organizzazioni sociali, vere e propriediscretizzazioni, danno vita ad esperienze e comportamenti, anche in-dividuali, diversi.

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Per esempio quando guardiamo dall’aereo una foresta, ve-diamo un insieme nel quale gli alberi non appaiono comeunità. Quello che chiamiamo unità è la foresta. Quandovediamo l’albero da vicino l’unità non è l’albero, ma leparti che compongono l’albero. E così all’infinito. Versoil micro, ma anche verso il macro. La vita degli individuiquindi diventa molto importante a una certa distanza.Quando hai una persona davanti a te questa diventa im-portante. Quando ci si allontana nello spazio o nel tempoda questa unità, invece, c’è qualcosa che si fonde nuova-mente nel continuo. Per esempio c’è un fenomeno psico-logico strano, facile da constatare. Fate vedere a unbambino delle foto di morte, un orrore, e poi ditegli chequei morti sono morti di duemila anni fa, il bambino dirà“ah, ma allora...”. Le foto di una mummia, di un cada-vere, se sono morti duemila anni fa si possono guardaresenza problemi. Se invece la persona è morta ieri allora èorribile. Il morto di duemila anni fa si rifonde in un con-tinuo che è l’epoca di duemila anni fa, in cui c’erano cani,mucche e uomini, ma era comunque l’epoca di duemilaanni fa.

Costruire la realtà Tutto questo porta a chiederci quali sono e come funzio-nano i nostri meccanismi di suddivisione della realtà.Fino a non molto tempo fa si pensava che per i mammi-feri ci fosse una corrispondenza precisa tra la realtà e lasua percezione. Da una quarantina d’anni ci siamo resiconto che non è affatto così. Ci sono stati lavori di stu-diosi come Maturana e Varela11 che hanno dimostrato

11 Humberto Maturana e Francisco Varela sono due biologi cileniche hanno rivoluzionato il modo di concepire gli esseri viventi e con-tribuito a sviluppare un approccio radicalmente diverso allo studio

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come il sistema nervoso non operi una rappresentazionefotografica della realtà. Questi neurobiologi hanno mo-strato, grazie anche a tecnologie come l’imaging, che noinon vediamo cose che esistono di per sé, già suddivise,ma che il nostro cervello, con le sue caratteristiche, pro-cede verso una scomposizione del reale facendolo corri-spondere alle sue capacità e alle sue caratteristiche. Questascomposizione però, non è soggettiva, non è che ognunodi noi ha una scomposizione diversa. Anzi, le differenzenella scomposizione sono minime, non solo tra gli uo-mini, ma tra tutti i mammiferi. Bisogna cambiare specieper cominciare a trovare delle differenze nella modalità discomposizione. Per un microbo un muro non esiste. Laformica suddivide il reale in un modo ancora diverso:quando vede il corpo di una mucca non vede un corpomorto, ma una specie di massa da scavare e cerca di capireda che punto prenderla per ottenere cibo. Ogni specie di-scretizza il mondo in quanto a sua volta è un organismodiscreto. Proprio perché ci sono organismi discreti, pro-prio perché l’organismo è discreto, non può concepire opercepire tutto. Non può perché ha dei limiti nel tempoe nello spazio. È l’organismo limitato che delimita lo spa-zio. Ed è perché ci sono organismi discreti che esiste unmondo discretizzato. Se non ci fossero organismi discretinon esisterebbe un mondo con delle parti discrete.

del cervello e del sistema nervoso. Dando un contributo particolarmenteoriginale alle teorie della complessità ed al ruolo del linguaggio nellacostruzione della realtà. Loro l’invenzione del termine “autopoiesi”(auto-creazione) per indicare la caratteristica fondante di un sistemavivente: il fatto che tutta la sua attività biologica venga svolta infunzione del mantenimento della sua esistenza. Tra i libri piùimportanti e divulgativi di Maturana e Varela “L’albero della Cono-scenza”, edito da Garzanti.

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Ma una cosa è dire che l’organismo è discreto e discretizza,altra cosa è chiedersi come si discretizza la realtà. Ci sonodue modalità di discretizzazione del reale. Una modalitàè quella artefattuale, basata su una domanda che abbiamogià incontrato: “a cosa servono le funzioni?”. Ma esisteanche un altro modo di discretizzare il reale che possiamodefinire organico.L’organismo discretizza il reale ed è discretizzato dall’am-biente. L’evoluzione della specie è tutta una storia di co-creazione di organismi e di ambienti. Perciò nonpossiamo parlare di organismi isolati, ma di campi biolo-gici. Gli organismi, essendo discretizzati nel tempo e nellospazio, discretizzano il mondo. Discretizzare il mondo si-gnifica che il mio agire sul mondo provoca un reagiredell’ambiente. Quindi la discretizzazione è una dinamicapermanente tra organismi e ambienti e fra organismi tradi loro. Da questo punto di vista ciò che esiste non sonoorganismi che discretizzano un reale determinato. Esisteun campo biologico, una sorta di campo di forze, unasuddivisione dello spazio-tempo nella quale ci sono pro-cessi legati fra loro e comprensibili soltanto in base a que-sti legami. Quando entriamo in un campo di forza ilnostro organismo si comporterà sulla base degli imperatividi quel campo di forza12. Come quando un meteoriteviene catturato da un campo gravitazionale e devia il pro-prio percorso. Quando parliamo di campo biologico ab-biamo a che fare con un lavoro permanente didiscretizzazione attraverso il quale gli individui e le speciediscretizzano il reale e contemporaneamente sono discre-tizzati dall’ambiente. Si capisce bene allora la differenza fra discretizzare ilmondo per mezzo di un modello artefattuale di tipo uti-

12 Un altro modo per parlare del concetto di “tragico”.

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litarista e farlo secondo modelli organici. La discretizza-zione artefattuale considera l’uomo e la società come uninsieme di moduli componibili. Qui si entra nel campodella flessibilità neoliberista, per parlare in senso socialeed economico. L’idea dominante oggi è che il mondo siaun insieme di elementi e di moduli organizzati e organiz-zabili in senso utilitaristico. E questa idea è, né più némeno, la base della politica, dell’economia, della filosofiadominante, che non tengono in considerazione l’esistenzadi invarianti organiche. Non prendono in considerazionecioè il fatto che un funzionamento organico ha dei limitidi tolleranza. Che credono si possa fare qualsiasi cosa, chetutto sia costruibile, che tutto si possa modellizzare e poiriprodurre migliorato e migliorabile. Il costruttivismo haquesto cono d’ombra permanente: l’utilitarismo. Utilita-rismo oggi dominato a sua volta dall’economicismo. L’idea originaria, da cui siamo partiti, era basata sulla do-manda “a cosa serve?”. Ma il passo che va da “a cosa serveil giro del cane?” a “a cosa serve economicamente?” è unpasso che nella nostra società si fa automaticamente. Percui la discretizzazione utilitarista è continuamente attra-versata dall’economicismo. Questa è l’ideologia dominante. Questo è il pensiero cheabbiamo nella testa e che diamo per scontato. Come seuno dicesse “tutti gli uomini vogliono avere un Suv” o“tutti gli umani vogliono avere molto denaro”, e se voidite che non desiderate avere né un Suv né tanto denaro,vi viene risposto che vi state opponendo a qualcosa discontato. L’ideologia dominante è costituita da cose chesono considerate evidenze epocali, su cui non c’è alcunmotivo di interrogarsi. L’utilitarismo è lo zoccolo duro di “evidenze” su cui nes-suno si interroga. L’utilitarismo è il corridoio che porta aldominio dell’economicismo.

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Sfilata di modelliUna branca importante della biologia molecolare considerala vita un insieme costruibile a partire dalle molecole di base.Nel mio team ci sono biologi molecolari convinti che, effet-tivamente, ci siano molecole che si articolano tra di loro e, apartire da un certo momento, compare la vita. Tipo Fran-kenstein. Si mettono insieme le molecole e poi emerge lavita. Lo stesso approccio si può applicare all’urbanistica: fac-cio le macchine per la vita, le machine a vivre come le chia-mava Le Corbusier, le organizzo e faccio una città. Oppurenella pedagogia basata sulle competenze: insegno ai bambinidei moduli utili, delle competenze utili e dopo un po’ cheimparano le competenze utili si crea un essere umano. La cosa che ci interessa dire a proposito di questo approc-cio è che è una catastrofe totale, un disastro! Questo ap-proccio sta distruggendo le città e la vita. Ma per poterreagire e opporsi a questo approccio distruttivo, bisognadotarsi di una modellizzazione complessa che presentiamocome modellizzazione organica. Modello organico nonvuol dire modello biologico. Il modello organico è un mo-dello della realtà e della complessità che noi applichiamoanche alla biologia. Il modello organico non è un’estra-polazione dalla biologia verso la società o l’economia. La modellizzazione organica è una modellizzazione com-plessa che resiste e si oppone al costruttivismo post mo-derno. La modellizzazione organica può essere applicataalla biologia, ma non è la biologia a fornire un modelloorganico. Bisogna sempre diffidare delle spiegazioni “bio-logicizzanti” della società. Da un punto di vista epistemologico, quando si parla di unmodello organico, di una modellizzazione culturale prodottadagli esseri umani, si parla di qualcosa che si può applicareanche alla biologia. Quando parlo con altri biologi non pre-tendo di conoscere meglio di loro la realtà biologica. Dico

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solo che se si applica un modello organico alla biologia si ot-tengono risultati migliori rispetto a quando si applicano mo-delli costruttivisti. I modelli costruttivisti sono modellisecondo i quali in realtà non c’è niente di concreto. Nei mo-delli costruttivisti tutto può essere costruito, tutto è in un certosenso soggettivo perché costruibile e comunque dipende dallanostra soggettività. Quindi l’unica cosa concreta sono le unitàdi base a partire dalle quali si costruisce qualcosa. Alla domanda se la qualità concreta delle cose dipendadalla nostra soggettività, la risposta è che la qualità con-creta di qualcosa si autoimpone organicamente. Se pren-diamo un approccio alla ricerca come quello che abbiamoincontrato nel caso dei cani che fanno giri intorno allacuccia e lo applichiamo all’urbanistica, se costruiamo dellemachine a vivre, con linee rette e schemi panoptici, cer-cando di eliminare ciò che non riesco a concepire comeutile, effettivamente, invariabilmente, vedo lo sviluppo diprocessi morbosi: violenze, suicidi, alcolismo, tossicodi-pendenza. Devo quindi constatare che c’è qualcosa chenon posso evitare. È per questo che noi diciamo che ilconcreto è organicamente limitato. Non perché il concretosi manifesta a noi dicendoci “hey, sono il concreto!”, maperché è quello che non possiamo evitare o eliminare eche, quando cerchiamo di evitare o eliminare, fa sì che ilnostro modello non funzioni13. Se cerco di comprendere

13 Sarebbe interessante, a partire da questi presupposti, rileggere il fun-zionamento delle organizzazioni e il senso e la reale efficacia distrumenti e procedure adottate per risolvere in modo lineare alcuniproblemi come, ad esempio, la motivazione delle persone o l’assenteismo.Il tentativo positivista di eliminare totalmente l’assenteismo, potrebbedare luogo a sistemi di controllo o tipologie di contratto che finisconoper penalizzare i non assenteisti. Ogni volta che in una organizzazionesi pretende di eliminare un fenomeno si rischia di introdurrecomplicazioni per non aver preso in considerazione la sua complessità.

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una penna come qualcosa di concreto in sé, indipenden-temente dal contesto, osserverò che per diverse culture lapenna è un oggetto assolutamente incomprensibile.Pensate a un marziano: la penna potrebbe essere incom-prensibile per lui come per altre culture, mentre è il si-stema complessivo che rende la penna comprensibile nelquadro situazionale. Il concreto non è mai qualcosa ditransituazionale o decontestualizzato. Il concreto è taleper, e attraverso, la confluenza di alcuni processi. Quandoquesti processi non confluiscono più, non convergonopiù, il concreto scompare. Ciò che è concreto è una pro-duzione permanente di concretezza. Non esiste niente chesia concreto in modo isolato nel tempo e nello spazio.Quindi la concretezza è questa base spazio temporale chepermettendo che esista un contesto, rende le cose reali.

L’uomo fa il mondoCiò che dobbiamo considerare, rispetto all’utilitarismo, èche l’idea che l’universo sia reale, razionale e scritto nellinguaggio matematico, si trasforma, nella postmodernità,in “tutto è contabile”. La postmodernità costituisce unpassaggio nel quale l’universo non è più scritto in linguag-gio matematico, ma nel linguaggio del “prezzo”. L’uni-verso ha un prezzo. Si tratta di uno svuotamento totale di senso. È grazie aquesto paesaggio mentale e culturale che oggi uno scien-ziato può permettersi di parlare senza timore di esseresmentito di DNA spazzatura. Oppure un urbanista puòaffermare: “questo quartiere ha delle strade che vanno inu-tilmente a zigzag”. L’utilitarismo post moderno è quasiuna caricatura della modernità. Ma tutta questa razionalità è apparente. Oggi il modelloutilitaristico è maggioritario e si articola bene con unaconcezione dell’irrazionale, perché nonostante sembri un

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assoluto della razionalità, in realtà è un modello intriso diirrazionalità sacrificale. Allora la questione diventa cercare di capire quale modellousare per comprendere la realtà che non sia quello utili-tarista, apparentemente razionale, e che non sia quellodella razionalità moderna, che per inciso, resta quello ti-pico della sinistra.In altri termini qual è il modello, o quali possono esserei modelli che possiamo utilizzare per capire un po’ megliola nostra epoca, difendere la vita e sviluppare processi diemancipazione e solidarietà? In effetti il nostro percorsoprocede verso un’epistemologia nella quale non c’è dif-ferenza tra realtà e interpretazione della realtà, dato chel’interpretazione della realtà non è soggettiva e intellet-tuale, ma è una discretizzazione. Allora dobbiamo im-maginare che ogni epoca costruisce una realtà condeterminati livelli di azione, di comprensione e di tolle-ranza. Da questo punto di vista oggi siamo in presenzadi un accumulo di sapere che ci consente di essere piùpotenti, ma siamo anche di fronte ad una contestualeperdita di saperi. Quindi nell’epistemologia sulla qualelavoro ci sono molte differenze tra i ricercatori, ma a par-tire da una base comune: l’idea che ci sia una co-costru-zione di mondi.La percezione del mondo è la produzione di una parte delmondo. Noi studiamo la percezione del mondo comeproduzione di una parte del mondo rispetto all’altra. E senon c’è una grande differenza tra discretizzazione delmondo e produzione del mondo, allora il problema è chela discretizzazione artefattualizzante utilitaristica, econo-micistica produce un mondo che si degrada, mentre la di-scretizzazione organica co-produce un mondo che sisviluppa.Ciò che è in gioco qui non è un problema tra modelli epi-

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stemologici che competono rispetto alla loro capacità difotografare la realtà. La questione è di tutt’altra natura.Qualsiasi modellizzazione co-costruisce il mondo e lospinge in una certa direzione. Quindi il progresso del-l’uomo modulare, del costruttivismo e dell’utilitarismo,costruisce un mondo che distrugge la vita, mentre l’ap-proccio che cerca modelli più complessi, organici, co-co-struisce il mondo che difende la vita. Se utilizzomodellizzazioni arcinominaliste, queste modellizzazioninon ignorano semplicemente i legami, ma tendono a di-struggerli. Se invece utilizzo modellizzazioni che partonodall’idea che i legami siano ontologici, allora li sviluppo.Questa è una visione nella quale, le conoscenze e le azionico-sostanziali sviluppano tendenze del mondo diverse. Sevogliamo comprendere e conoscere i legami, sviluppiamodei legami! Detta in questo modo sembra una cosa un po’magica, ma non è così. Il riduzionismo è un meccanismo bottom up, dalla baseverso l’alto. Il riduzionismo è quello che Mary Shelley cri-tica con il suo romanzo “Frankestein”. Il riduzionismo èLe Corbusier, la biologia molecolare, il costruttivismoeconomico, la pedagogia delle competenze. Poi c’è l’olismo. L’olismo è top down, cioè dall’alto versoil basso: l’idea cioè che è a partire dal tutto che posso com-prendere le parti. Nella nuova epistemologia, invece, articoliamo simulta-neamente il bottom up con il top down, il riduzionismocon l’olismo. Non siamo cioè né in un’epistemologia to-talmente olistica, né totalmente riduzionista. Nell’olismopuro, quando parlo di organismo, finisce che non capisconiente perché se dico che tutto è un tutto e che tutto puòessere spiegato dal tutto, è come dire che niente è spiega-bile. Se ho bisogno sempre del tutto per capire tutto, noncapisco mai niente. Se non posso avere dei momenti di

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riduzionismo non posso procedere e, nello stesso tempo,se questi momenti di riduzionismo vengono separati daltutto non vado avanti lo stesso. La nuova epistemologiainvece è ascendente e discendente al tempo stesso ed è ti-pica dei modelli organici. Non è olistica, perché non milimito a dire che tutto è un tutto, ma determino dei livelli,che sono livelli organici che articolano le parti con il tutto.E questo tutto non è un tutto olistico idealistico, cosìcome le parti non esistono separatamente come nel ridu-zionismo.

A cosa servono i prodotti?La postmodernità porta con sé una svolta linguistica: è ilmomento nel quale le teorizzazioni non hanno più rap-porto con il livello organico. Quindi tutto è linguaggio,narrazione.14 Una narrazione scollegata dalla realtà alpunto che ogni racconto diventa equivalente perché se-parato dal principio di verità.Questa è la differenza dal punto di vista epistemologico eantropologico tra la modernità e la postmodernità. Nellamodernità il rapporto con il reale, la praxis, esiste sempre,perché non siamo ancora arrivati al Punto Omega. Nellapostmodernità invece c’è qualcosa di correlato con la finedella storia e quindi si considera che tutto possa essereracconto, tutto narrativa, tutto matematizzabile. Il po-

14 Il termine narrazione è usato da Benasayag non implicando ungiudizio negativo sull’importanza delle storie, del racconto. Benasayagfa riferimento con questo termine a quella sorta di storytelling mani-polativo in cui la narrazione è completamente avulsa dalla realtà,anch’essa deterritorializzata, ma in grado comunque di determinare larealtà stessa. Certi linguaggi politici, moltissima pubblicità, il linguaggioaziendalistico, ad esempio, hanno proprio questa caratteristica. Leimmagini di una jeep che resiste al diluvio universale sono un esempiotipico di narrazione senza rapporto con il livello organico.

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stmoderno è qualcosa di correlato con la fine della storiache si materializza come separazione rispetto all’organi-smo. Il reale diventa una barriera e deve scomparire perrendere possibile l’idea centrale della postmodernità chetutto sia possibile. Ma se tutto è possibile, niente è reale.Ecco allora che la postmodernità nasconde il reale postu-lando che tutto è possibile, tutto è racconto, tutto è nar-razione. Senza limiti organici.Partendo da questi presupposti, possiamo parlare ora delconsumo. Per il mercato postmoderno la cosa importanteè creare una narrazione per cui le persone comprano econsumano in un modo disconnesso e separato da qual-siasi organicità. Ancora peggio: si consumano cose che di-struggono la vita. La postmodernità capisce che bisognacreare una narrazione, una storia che giustifichi le praticheseparando questo racconto da qualsiasi livello di verità or-ganica. E questa costruzione del racconto diventa il focus,il centro, il modello di riferimento. Tanto da poter essereutilizzato anche per vendere un candidato alle elezioni,come fosse un prodotto. In sintesi, ciò che vive è secon-dario rispetto al racconto nel quale vive. L’uomo-struzzocon la testa nel buco, costituito dalle tante narrazioni chegli fanno dimenticare il corpo e tutto ciò che viene dalcorpo (i messaggi, il dolore, il piacere ecc.) viene imme-diatamente interpretato in termini di narrazione. Ciò chenella nostra epoca si oppone al reale è questa massa di nar-razioni che filtrano tutte le informazioni che vengonodalla realtà. E queste informazioni vengono immediata-mente risucchiate, fagocitate dalle narrazioni. L’uomo attuale, l’uomo dell’individualismo postmoderno,è il frutto di una discretizzazioneche ne riduce la complessitàe lo banalizza. Quest’uomo vuole, come obiettivo concretodella sua vita, ciò che è utile, ciò che produce felicità imme-diata e spesso artificiale. I grandi filosofi inglesi dell’utilita-

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rismo si pongono una questione fondamentale domandan-dosi quali siano gli obiettivi delle azioni degli uomini. Ben-tham rispose, appunto, che questi obiettivi sono la ricercadi ciò che è utile e della felicità. La felicità, che però sembracosa autoevidente e indubitabile, è una costruzione storicae antropologica che cambia col passare del tempo. Per l’esattezza ci sono due cose che cambiano nella “feli-cità”: ciò che la produce e ciò che si sente nel propriocorpo e ci fa dire “sono felice!”. È importante capire comela storia e la cultura plasmino i corpi e le menti per com-prendere come, a seconda dei periodi storici, si sia con-tenti per alcune cose e infelici per altre. È difficile trovarefatti che in tutte le culture e per tutte le persone siano as-sociati in maniera univoca a felicità o infelicità. La nostracultura, divenuta poco a poco una cultura di pura este-riorità, ha prodotto un uomo che crede solo a questi ele-menti, a queste certezze: utilità e felicità. Sta a noi adessocercare di capire come si possa comprendere, e poi agire,per ampliare la superficie di ciò che la postmodernità haridotto all’esistenza di questi semplici elementi. Capirecioè quali possono essere le possibilità e le condizioni perfare in modo che a livello sociale e culturale emerganoaltre cose desiderabili oltre quelle che la società definiscecome utilità e felicità.Quando si dice, ad esempio, che la felicità è evidente, al-lora ci si può chiedere: avere una casa con la piscina dàfelicità? La cosa probabile è che ciò che dà felicità in unacasa con la piscina sia l’idea, la narrazione, la storia che cisi è creati. Si sta lì, belli rilassati accanto alla piscina, senzalavorare. Forse ciò che produce felicità in quel momentoè che il vicino la piscina non ce l’ha. E magari deve anchelavorare. Quindi quello che produce la sensazione di feli-cità non è sempre così evidente. Spesso la sensazione difelicità non è intima, ma piuttosto determinata cultural-

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mente e socialmente; per cui questo ci fa dire: “in questanarrazione, in questa storia, mi sento felice”. E questa ideadi felicità è anche correlata alla perdita di interiorità, aquel processo che ci porta a diventare superficiali, a re-stringere il campo, le possibilità e le capacità di cono-scenza15.

La tecno felicitàQuest’ultima dimensione, che riguarda le nostre capacitàdi apprendimento e comprensione del mondo, ci porta aparlare di un’altra cosa: il ruolo delle tecnologie nella crisiche stiamo vivendo. A livello fisiologico gli strumenti dicomunicazione, i cellulari, internet ecc., rischiano di di-minuire le nostre capacità neuronali di utilizzare circuitipiù complessi. La tecnologia discretizza, e quindi toglie,elimina e impedisce altre modalità di discretizzazione.Pensare che la comunicazione si riduca al solo scambio dielementi simbolici è una caricatura dell’idea di comuni-cazione. Nel legame con l’altro, in realtà, il contenutodella comunicazione non è così importante come si crede.

15 Il tema della felicità sta conoscendo una stagione di studi interessanteproprio nelle discipline economiche. In Italia, tra gli altri, StefanoBartolini e Luigino Bruni, entrambi economisti, hanno dedicato piùdi un volume a questo tema. Lo stesso Istat ha lavorato per larealizzazione di un indice economico che superi il PIL come indicatoredel benessere di una nazione prendendo in considerazione aspettiqualitativi e non solo quantitativi. Un altro autore di riferimento, atestimonianza del rigore di questi studi, è lo psicologo DanielKhaneman che è stato insignito del premio Nobel per l’economia. Lesue ricerche mettono in discussione i principi della razionalità allabase dell’economia classica, secondo i quali i comportamenti umanisarebbero orientati al massimo vantaggio individuale. Di notevoleinteresse inoltre in tutti questi studi la dimostrazione che oltre unacerta soglia di reddito la felicità e il benessere non aumentano e, addi-rittura, diminuiscono.

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Il contenuto è importante in un gruppo di ricerca, perchébisogna capire dei concetti. Ma in quasi tutti gli altri rap-porti sociali quello che conta è tutta la metacomunicazioneche nella teoria dell’informazione sarebbe considerataspazzatura, mentre invece è proprio ciò che fonda i legamisociali.La tecnologia ci dice che quando si comunica si diconodelle cose. Allora si separano le cose dette dal substrato (ilnostro corpo, le relazioni) e si creano delle macchine cheservono a dire delle cose. Così, a poco a poco, ci rendiamoconto che più diciamo delle cose più ci troviamo in unacondizione di malessere perché si rompono i legami ed èdifficile poi capire perché si sta male. Si sta male perchéla parte comunicante discretizzata dalla tecnica dimenticae rimuove tutta la parte che considera non comunicantee che è proprio uguale ai giri del cane intorno alla cucciadi cui abbiamo parlato in precedenza.

Qui casca l’asinoCredo che la Coop sia un ambiente ideale per questo ge-nere di ricerche e di riflessioni. Infatti vendere merci,prodotti, farli circolare, è una cosa che riguarda anche ilmodello di felicità e di comunicazione implicito nellenarrazioni dominanti nella società. Coop è proprio alcentro di questo snodo. È nel suo nucleo. E qui ci sonodue opzioni: o seguiamo il percorso che ci invita a co-struire delle storie, delle narrazioni finalizzate a far sì chele persone comprino di più alla Coop che in altre catenedistributive, oppure seguiamo un’altra modalità che ri-guarda invece la ricostruzione dei legami, per far sì chenon ci siano solo storie e racconti manipolatori. Staanche qui la sfida della Coop: nel non rimanere solo aun livello di comunicazione utilitaristica, dove si “vende”la felicità. Al contrario è invece possibile riterritorializ-

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zare il mercato e la circolazione dei prodotti in modoqualitativamente diverso da ciò che succede in qualsiasialtra catena della grande distribuzione, e non solo perchéCoop è più simpatica o di sinistra o cose del genere. Ma per arrivare a parlare di questo e del mercato dob-biamo prima approfondire qualche concetto che ab-biamo incontrato precedentemente. Un esempioepistemologico importantissimo è quello dell’“asino diBuridano”, un nominalista del XII secolo. Buridano fa-ceva il seguente esempio: immaginiamo un asino nelmezzo a due mucchi di fieno equidistanti. L’asino liguarda, ma dal momento che la distanza dal cibo è lastessa, non può decidersi e finisce per morire di fame. Aprima vista l’esempio può sembrare sciocco, ma al con-trario il dispositivo logico inventato da Buridano è asso-lutamente geniale, tant’è che esiste una corposaletteratura su questo argomento. In sostanza Buridanodice che l’equidistanza ha la funzione di eliminare il tro-pismo, cioè quella che in biologia è una forza di attra-zione non spiegabile. Il tropismo infatti non spiega nulla.Un esempio: nel caso di un albero le radici vanno versola terra e i rami e il fogliame verso l’alto; tropismo in pra-tica significa “tendenza verso qualcosa”, e questo feno-meno, questa tendenza è qualcosa che non si spiega inbiologia. Buridano in realtà cerca di costruire un esempionel quale la materialità animale viene eliminata per ve-dere dove si trovano l’anima, la decisione, il libero arbi-trio e la coscienza. Ciò a cui cerca di arrivare è unasituazione in cui la materia non disturbi. Come si fa avedere cosa succede e ciò che agisce nel momento in cuila materia non disturba? Buridano dice che se mettessel’asino esattamente nel centro tra i due mucchi di ciboavrebbe dei tropismi in entrambi i sensi e quindi i tropi-smi opposti si annullerebbero. Così la materialità del-

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l’asino cesserebbe di intervenire. Materialmente l’asino èneutralizzato16. Se invece che mettere l’asino ci si met-tesse uno di noi, per esempio, la nostra corporeità ver-rebbe neutralizzata perché ci sono due tropismisimmetrici. Ma noi avremmo qualcosa che sfugge allamaterialità e che ci può spingere a scegliere una delle dueballe e a non morire di fame.Questo dispositivo logico serve a dimostrare la tesi che illibero arbitrio si manifesta una volta che si sia sfuggiti aivincoli della materialità. Lo schema di Buridano ha loscopo di dimostrare che esiste nell’essere umanoun’istanza che sfugge alla materialità, al tropismo, alla so-vradeterminazione, e che permette di scegliere libera-mente. “Liberamente” qui significa fuori dai vincoli dellamateria.Questo dispositivo logico è molto importante perchéporta dritti dritti all’invenzione della superiorità umanarispetto a tutto il resto della materialità e animalità delmondo. Serve ad affermare che l’essere umano, in natura,possiede qualcosa di più degli altri esseri viventi. Che poiquesto dispositivo sia teologico o laico è irrilevante. Que-sto dispositivo logico è riconoscibile in molti ambiti. Peresempio in medicina si pensa la guarigione come capacitàdi sfuggire ai tropismi. In educazione si dice che bisognavenire educati perché non bisogna essere catturati dai tro-pismi. Tutto l’Occidente produce un modo di vivere, dieducare e di curare cercando di sfuggire ai tropismi. È unrapporto guerriero dell’umanità con la natura. Si pensache bisogna riuscire a eliminare la natura, il tropismo e lamaterialità per essere liberi.

16 Un altro esempio, prima di Cartesio, di separazione tra mente ecorpo.

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Epistemologia, territorio e astrazioneQuesto modello di uomo è dominante nella modernità.Ad esempio, quando ricevo dei pazienti in psichiatria oin psicanalisi, mi vengono a trovare, vengono dallo psi-cologo o dallo psichiatra e mi dicono: “Povero me, ho unamadre che è così...”; oppure: “Sono un uomo ma non miidentifico con il mio sesso”; un altro ancora mi dice: “Per-ché sono nato in questa epoca?” Il paziente mi parla ditutti i suoi tropismi. “Sono nato in quest’epoca” è unmodo del paziente di non riconoscere il tropismo, consi-derando l’epoca stessa incidentale, qualcosa di secondario,separato o separabile dalla sua vita. Qualcosa a parte. Cre-ando una differenza tra ciò che è incidentale e ciò che ènecessario. Questo è l’Io della postmodernità. Un Io chedice: “per me l’epoca in cui sono nato è un incidente”, o“il sesso con cui sono nato è un incidente” o ancora “i ge-nitori che ho sono un incidente17”.In questo modo, sulla base di queste premesse, l’uomodella postmodernità si vivrà soggettivamente come un es-sere assolutamente etereo, deterritorializzato, una sorta dipotenza, di energia libera che potrebbe prendere qualsiasiforma, perché non ha nessuna forma. E questa concezionecalza come un anello al dito del neoliberismo, che pro-pone un idea di essere umano inteso come massa di ener-gia senza forma, adattabile ad ogni forma. L’immaginedella libertà nella modernità è questa. E ancora di piùnella post modernità, che oltretutto considera tutto comeinformazione decodificabile e controllabile a piacimento.Lo schema epistemologico implicito nel dispositivo “asi-no di Buridano” è molto importante perché costituisce latrappola deterritorializzante che farà coincidere la libertà

17 Incidente inteso come qualcosa di estraneo, e dunque, di ostacoloal “normale svolgimento delle cose”.

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con il dominio. Quest’istanza, questo schema, finisce peressere la cornice che tutto domina. Qualcuno vi dirà adesempio di essere stato catturato dall’alcool, o dall’età, odalla sigaretta, o dal desiderio di donne. Il vissuto del-l’uomo postmoderno è il vissuto di un’entità completa-mente deterritorializzata, prigioniera, purtroppo, deitropismi culturali e corporali reali. La conseguenza è lo sci-volamento in una dimensione di impotenza totale perchéfiniamo per immaginarci completamente separati da tuttii territori e da tutte le dimensioni che ci costituiscono. Peresempio, una persona va dal dottore perché obesa. Pesacentocinquanta chili. Essere centocinquanta chili èun’esperienza molto particolare, un rapporto con lo spaziomolto particolare. La persona di centocinquanta chili sivive come una persona magra catturata dal grasso perchécome essere umano si pensa così: “mi è successo un inci-dente”. Oppure può essere anche l’approccio di qualcunoche dice; “perché ti rivolgi a me come se io fossi nero?”,“perché sei nero”, “no, non bisogna rivolgersi alla gentecome se fosse nera, bisogna rivolgersi a quello”. Questo èun fenomeno descritto e criticato da Marx in un testo chesi intitola “La questione ebraica” dove Marx parla diquest’uomo: l’uomo dell’umanesimo, un uomo totalmentedeterritorializzato (lui usa la parola “sradicato”). In altre parole, con questo approccio si teorizza che la li-bertà si raggiunge uscendo dalla complessità dell’esistenza.Ed è l’approccio, la filosofia su cui si basano le democrazieun po’ decadenti e sempre più formali come quella fran-cese o quella italiana. Fanno finta che l’uomo sia così. Cisi rivolge a un cittadino, ma questo cittadino è il consu-matore che si definisce attraverso la sua capacità quanti-tativa di consumare.Questo cittadino-consumatore è un individuo che deveessere completamente deterritorializzato perché ogni ter-

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ritorializzazione mette in pericolo l’uguaglianza così comeè stata concepita. Infatti l’uguaglianza non esiste e si può essere uguali soloa questo livello di deterritorializzazione, cioè in una ugua-glianza dell’astratto.

Presente permanenteLa postmodernità è questo fenomeno che ti dice di oc-cuparti di ciò che ti coinvolge passivamente. C’è però lapossibilità di cercare di capire la propria posizione in uninsieme rifiutando ciò che ci chiede la postmodernità.C’è la possibilità di capirsi sia come individuo, sia comeinsieme. E c’è la possibilità di agire rispetto a questo in-sieme dimenticando i propri interessi. Certo è impossi-bile stare sempre a questo livello. Ma ci sono personeche in alcuni momenti della propria vita possono assu-mere questa posizione. Non è una rinuncia ascetica, è lagioia. Non è che quando si agisce a un livello più alto diconsapevolezza si rinuncia tristemente alla felicità. No,è la gioia di sperimentare l’infinito nella nostra vita fi-nita. È la gioia che sperimentano i musicisti che stannoproducendo sulla frontiera della ricerca, i militanti nelloro impegno, oppure che prova l’innamorato. Significasperimentare cose infinite. Per questo si parla di coseeterne e questo non ha nulla a che vedere né con iltempo né con la rinuncia ascetica. La postmodernità invece ha fissato un presente perma-nente. Ma siccome il tempo e lo spazio dipendono dalladiscretizzazione che produciamo, la verità è che le culturenon vivono nella stessa spazialità e temporalità. La spa-zialità e la temporalità cambiano anche secondo le varieculture e cambiano oggettivamente, non soggettivamente.Si può dire che gli uomini vivono sempre la stessa quan-tità di tempo e l’anno dura sempre 365 giorni, ma queste

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sono misure che non spiegano in quale spazio/tempo vi-vono gli uomini. Si entra nella modernità con Voltaire che dice che ab-biamo perso troppo tempo e che dobbiamo svegliarci eandare di fretta perché abbiamo una meta da raggiungere.E da qui inizia questo percorso incredibile verso mete in-descrivibili. Poi ad un certo punto succede qualcosa: men-tre prima il tempo prevedeva un passato, un presente eun futuro, oggi sembra che ci sia solo il presente. Se la modernità può essere illustrata come un treno che vaverso qualcosa, nella postmodernità non si va più da nessunaparte. Il viaggio è istantaneo. Non c’è più tempo e non c’èpiù spazio. Per cui la postmodernità crea un presente a-tem-porale senza spazio, nel quale effettivamente le persone nonhanno più distanze da percorrere, né come chilometri, nécome tempo. E questa immediatezza sta formattando unmondo che noi cominciamo a capire poco a poco, ma checomunque rimane molto complicato da comprendere coni nostri criteri e sulla base delle nostre esperienze.Ancora una volta le tecnologie sono un buon esempio: untema di riflessione potrebbe essere come sia difficile per inostri contemporanei fare una differenza tra un’esperienzavissuta e una cosa vista su internet. Tra qualcuno che co-nosce l’Egitto tramite internet e qualcuno che ci va peruna settimana alloggiando in un Club Méditerranée, oggipotrebbe essere molto difficile dire quale dei due conoscameglio quel Paese. E in generale diremmo che lo conoscemeglio chi ha navigato su internet. E questo perché nellanostra epoca c’è qualcosa che riguarda la spazio-tempo-ralità che sta cambiando e quindi ciò che l’uomo speri-menta direttamente, fisicamente, corporalmente nonsembra più così centrale. In altre parole, l’uomo postmo-derno è un uomo che sperimenta sempre meno le cose per-ché sa sempre più cose.

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Se accettiamo l’idea che ogni esperienza sia pura cono-scenza che arriva in modo digitale, pura informazione, al-lora non c’è più possibilità né necessità di resistere a ciòche accade. Dovremmo piegarci al corso del mondo equindi la Coop, ad esempio, sarebbe una specie di arcai-smo rispetto al mondo attuale. Il problema è che noi nonsappiamo che cosa sia un’esperienza non corporea. L’espe-rienza per noi rimane legata a un corpo che occupa unposto nello spazio e nel tempo. Un corpo per il quale nontutto è possibile e che è segnato dai limiti. Un corpo e deicorpi per i quali ciò che non è possibile è la base di tuttii possibili. Ciò che limita le mie possibilità non è una cosache mi impedisce l’azione, è qualcosa a partire dalla qualeproduco il possibile. Una cosa che resiste ha una tolleranzax. Ed è a partire dal concreto che produco il possibile. Noi non sappiamo che tipo di vita possa essere quella diuna persona che ha accesso solo all’informazione. Quelloche dovremmo cercare di capire è che tipo di esperienzapotrebbe essere quella di una persona che vive in un am-biente costituito al 90% da informazione codificata. Que-sta esperienza da sola però, in generale, ci parla diimpotenza, perché un corpo che accede soltanto all’infor-mazione codificata è un corpo che si immerge nell’impo-tenza. Questo fenomeno, lo osservo nella mia professionedi psicanalista quando incontro pazienti giovani o menogiovani, fino a circa 45 anni, che non hanno conosciutoniente dei riti iniziatici, nel senso del provare sofferenza,superarla e sperimentare la fragilità. Chi non ha mai spe-rimentato il valore della fragilità si trova in una posizionedi impotenza totale.Io non so che cosa sia, o possa diventare una sperimenta-zione limitata o centrata sul mondo digitale. Credo peròche si debba poter resistere a questo, e che si debba inte-grare il mondo digitale con pratiche riterritorializzate, op-

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ponendosi a coloro che dicono che il mondo digitale pro-durrà le nuove figure della libertà. Io invece dico che ilmondo digitale deve incorporarsi in territori concreti, nellacorporalità, se vogliamo che aiuti a produrre nuova libertà.

Coop e la crisiQuello che sappiamo è che la crisi attuale non è una crisieconomica. La crisi economica è il modo in cui l’uomo-struzzo la vede arrivare dal suo buco. È lo stadio finaledella crisi, è il momento in cui l’individuo viene toccato.La crisi ha più di un secolo e riguarda la rottura della mo-dernità e del paradigma precedente. Questa che noi chia-miamo “crisi economica” è una cosa molto periferica eastratta, nel senso che davo prima al termine “astratto”,quando si parlava della penna di Krüger come un oggettocompletamente decontestualizzato. Se vogliamo capire lacrisi economica dobbiamo pensare alla crisi del paradigmadella modernità. Perché è soltanto passando da lì che pos-siamo iniziare a capire come rispondere alla crisi econo-mica. L’aspetto economico è uno dei sintomi di una crisimolto più profonda, dalle molteplici dimensioni. C’è unacrisi del paradigma culturale e antropologico, c’è una crisidella scienza, della morale, dell’educazione, della medi-cina. E c’è la crisi dell’economia nel senso marxista deltermine. Ciò che vediamo adesso è un tratto di superficie,cioè l’aspetto quotidiano di qualcosa di molto più pro-fondo. Quando si dice che la crisi è cominciata nel 2008si fa un riferimento astratto. In realtà è qualcosa di piùprofondo, con origini più lontane. Qualcosa che occorrecapire nella sua concretezza. In questo contesto anche ilmovimento cooperativo naviga cercando soluzioni che ri-schiano di essere approssimative. Alcuni si chiedono adesempio se il movimento cooperativo sia o meno qualcosadi diverso o antagonista al capitalismo. Ma si fa fatica a

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valutare più profondamente quali sono le dimensioni an-tropologiche che hanno permesso al movimento coope-rativo di reggere meglio la crisi economica. Spesso non cisi rende conto che le ragioni per cui il movimento coope-rativo sopravvive alla crisi non sono economiche. Sonoantropologiche. Sfuggono alle metriche tradizionali. Sono“non misurabili”, molto profonde e molto complesse. Ilproblema quindi non è se la cooperativa sia un’azienda ono. Se Coop sopravvive è proprio perché non è soltantoun’azienda. Il capitalismo si è caratterizzato attraverso il passaggio datre fasi. Si è passati da una prima fase di mercantilismo incui la merce produce denaro che produce merce. Poi laseconda fase: il capitalismo in cui il denaro produce merceche produce denaro. Ora siamo nella fase neoliberista, incui il denaro produce denaro per produrre denaro.Penso che per capire meglio ciò che fa resistere il movi-mento cooperativo, non convenga nemmeno utilizzare icriteri del modello d’impresa. Per fare un confronto cor-retto dovremmo fare riferimento a modelli antropologicimolto più complessi che spieghino il fatto che, malgradola cooperativa sia un’azienda, riesce a sopravvivere. Le ra-gioni per le quali Coop sopravvive sono ragioni antropo-logiche. Un po’ come succede nella ricerca biologica: se c’è un’epi-demia, molti muoiono, ma c’è sempre qualcuno che so-pravvive. Quindi ci chiediamo perché non è morto? Sicercano allora le ragioni per cui il suo corpo ha resistito aquesto batterio. È in questo modo che si trova un vaccino.Non si cerca un vaccino a partire dal nulla. Nessun ricer-catore entra in un laboratorio e cerca un vaccino. Per tro-vare la cura si deve poter contare su una popolazionesopravvissuta. Senza popolazione sopravvissuta non c’è ilvaccino. Il movimento cooperativo rappresenta la popo-

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lazione sopravvissuta. I motivi per cui sopravvive noncoincidono con le ragioni economiche per cui gli altrimuoiono. I motivi per cui gli altri muoiono sono quelli per cui voisiete in pericolo di morte. Perché, essendo ancheun’azienda, avete la tentazione di incrementare gli aspettiche vi caratterizzano come tale. Quindi cercate di esserepiù comunicativi, più reattivi. Di essere più coerenti con ilsentire comune, che vive nel desiderio individuale. Ma negli organismi, nella vita, ci sono cose che non sipossono misurare con criteri quantitativi. Ci sono coseche funzionano per ragioni che non sono affatto ragionicontabili. Quello che è molto pericoloso nel movimentocooperativo è che queste ragioni non contabili non ven-gano riconosciute e teorizzate. Siamo in un paradosso: lenostre esperienze funzionano grazie a ciò che non è con-tabile, misurabile, ma non riusciamo a teorizzarle. Quindiil nostro compito sarà riuscire a teorizzare ciò che non èmisurabile con le misure classiche.

La sfida di CoopPerciò, quando si parla di una sfida per la Coop, inten-diamo come essa possa essere un luogo di consumo e didistribuzione territorializzato che si rivolge all’uomo nellasua completezza e non solo all’uomo dell’informazione. Di cosa si tratta alla fine? Si tratta di capire un’epoca. Macapire non è un concetto banale. Dato che conoscere èagire, una cosa è capire in un senso conformista, accet-tando questa distruzione artefattualizzante del mondo,altra cosa è capire in un senso complesso, difendendo lavita. La comprensione complessa, la comprensione nellaquale cerchiamo le invarianti, questa comprensione cor-risponde ad una costruzione del mondo opposta alla co-struzione del mondo del “tutto è possibile”. Che cosa può

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voler dire per la Coop resistere a quest’uomo di superficie?Vuol dire che la Coop non deve comprendere un feno-meno perché la Coop vuole esistere o cerca di esistere nelmondo di superficie. La sfida della Coop non è: “capiamoquesto mondo e sosteniamo questa evoluzione e questouomo di superficie”. La sfida della Coop è un’altra: “comesi può fare in modo che la distribuzione e il consumo ven-gano fatti per un mondo che resiste a questa evoluzioneverso la superficie?”. Se c’è un senso per la Coop è questo:“Possiamo pensare a una distribuzione e a un consumoche corrispondano a tutti i settori della società sempre piùvasti che resistono a questo divenire?”. La grande distri-buzione postmoderna oggi coinvolge l’essere umano inmodo sempre più passivo, perché lo mette nel contestodi bisogni indotti, bisogni modulari che si rivolgono adun uomo separato dal suo ambiente, da se stesso. La sfidaè: quale grande distribuzione può esistere, senza limitarsiad un gruppo di élite? Quale grande distribuzione puòesistere che non si rivolga a quest’uomo passivo contri-buendo con le sue pratiche a renderlo tale? Quale grandedistribuzione che sappia resistere a questo? Gli amici diLatouche che si occupano di decrescita mi hanno chiestodi lavorare con loro, ma chi è favorevole alla decrescita sirivolge ad un’élite capace di consumare diversamente. LaCoop non può e non deve rivolgersi a un’ élite. E allora èda queste domande che vorrei che partisse una riflessione:come può la Coop contribuire a creare la minima passivitàdel consumatore, senza però creare un ghetto per altriconsumatori? La questione per quanto riguarda la Coopnon consiste forse nel dire che c’è un modo organico dipensare, praticare, reincorporare l’economia?

Post-fazioneQuel che resta

di un gruppo di studiodi Enrico Parsi

La crisi che stiamo attraversando nonè semplicemente una crisi economica,ma è una crisi di valori. Una crisi pro-fonda, antropologica e logica, per ca-pire la quale siamo obbligati a studiarei fondamenti dell’epoca che si sta con-cludendo come condizione per cercaredi intravedere la nuova realtà che ini-zia a profilarsi all’orizzonte. In questaottica, stando dentro la Coop, la nostrasfida può essere cercare di capire come,e a partire da quale pratica, si possacomprendere la realtà e come, attra-verso queste pratiche, possiamo imma-ginare e costruire strumenti percontinuare ad agire.

Miguel Benasayag

Sul futuro e sul pensiero…Questa pubblicazione nasce dal desiderio di guardare iproblemi del nostro tempo a partire dalla prospettivadell’esperienza cooperativa. Un modo per riflettere sulsenso della nostra esistenza in un momento storico diffi-cilissimo.Siamo convinti, infatti, che il nostro lavoro di cooperatorinon possa prescindere, e per molti di noi non prescinde,dai fenomeni sociali e politici in cui siamo immersi.Siamo convinti poi che i problemi di oggi e quelli che do-vremo affrontare in un futuro non molto lontano, richie-dono un maggiore impegno verso la riflessione el’elaborazione.Vale un po’ per tutti il fatto che idee che non ci appar-tengono, che non sono buone per vivere bene e che ab-biamo assorbito credendo fossero giuste perché “così fantutti”, devono essere riconsiderate. Non proponiamo la“verità”, ma suggeriamo un incremento di studi, rifles-sioni e sviluppo del senso critico verso direzioni e risultatiche non è possibile, né sarebbe giusto, determinare apriori.Il fondamentalismo (anche quello economico e utilitari-sta) che assume sembianze diverse, ma si basa sempre sullastessa forma mentale e su assunti dati per indiscutibili,porta guerre, distruzione e il rischio del collasso ambien-tale. Il futuro scompare dal nostro orizzonte e quando èpresente invece fa paura, condizionando tutta la nostraesistenza, i nostri rapporti e la nostra capacità di immagi-

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nare e costruire contesti sociali diversi. Speranza e utopiavengono amputate. L’eterno presente diventa il nostro po-vero orizzonte.Ma la paura del futuro nasce anche dal vivere un presenteinsoddisfacente. I nostri modelli sociali ed economici di-struggono costantemente beni relazionali e risorse, spessosenza che ce ne accorgiamo e quasi sempre sotto l’om-brello rassicurante e protettivo di concetti come sviluppoe innovazione, efficienza e utilitarismo.

Sulle nostre società infelici e aggressive…Le nostre società ricche e sviluppate sono infelici e assurdeper molti aspetti, ma quelle degli altri non sembrano de-siderabili. Ciò che sconcerta però è la presenza di alcunecostanti che, semplificando, possiamo indicare come ten-denze autodistruttive. Tutte le nostre società, infatti, in-quinano senza tregua il proprio nido mostrando nei fattiun’assoluta inconsapevolezza dei limiti fisiologici che ca-ratterizzano il funzionamento della natura e oltre i qualic’è la morte. E tutte le società, le nostre occidentali cosìcome le altre, anche quelle considerate emergenti dalpunto di vista economico, producono violenza. Una vio-lenza visibile ed eclatante, come quella degli attentati, dellestragi o della pena di morte, che ha l’effetto secondarioperò di mettere in secondo piano tutte quelle aggressioni,talvolta anche piccole e sottili, che quotidianamente siamocostretti a subire; oppure che somministriamo; oppure chesubiamo in alcuni contesti e somministriamo in altri conapparente disinvoltura. Qualche esempio: è violenta la na-tura dei rapporti economici con un’accentuazione dei fe-nomeni di arricchimento di pochi a danno dei molti;sono violenti i rapporti commerciali basati su un’idea discambio che talvolta assomiglia alla rapina e su forme dimanipolazione che inducono bisogni di consumo; è vio-

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lento condizionare la vita di interi popoli con un’econo-mia finanziaria che è una forma legale di gioco d’azzardo;è violenta l’immobilità e l’autoreferenzialità della classedirigente, che ormai, anche in caso di insuccesso, non ri-schia nulla.È violenta, nel nostro Paese, la neolingua della politicafatta di insulti e aggressioni.È violento costringere per otto ore i nostri figli a un bancodi scuola senza prendere in considerazione il loro bisognofisiologico di movimento. Ignorando ciò che dovrebbe es-sere ovvia esperienza quotidiana per tutti, grandi e piccini,cioè che si impara anche con il corpo. E giudicandoli poi“svogliati” perché, per l’appunto, non hanno voglia di“studiare”; cioè di essere ciò che noi adulti abbiamo decisoa tavolino debbano essere, o debba essere lo studio, a pre-scindere dalla realtà psichica, fisiologica e biologica diqueste persone che ci ostiniamo a trattare come “minori”.

Sui nostri schemi di pensiero nascosti e sulle parole…L’elenco delle violenze a cui ci siamo abituati e a cui nonfacciamo più caso potrebbe continuare a lungo.È un fatto però che la natura profonda di questi rapportirisulta spesso invisibile perché occultata da linguaggi epensieri considerati inossidabili. In molte aziende, inmolte scuole, nella politica, manager e lavoratori, inse-gnanti e genitori, politici ed elettori, anche quando ap-parentemente antagonisti, finiscono per condividere glistessi schemi di pensiero e legittimare sistemi di valori econtesti sociali insalubri, dando per certo che non sianopossibili presupposti diversi.C’è un problema di “forma del pensiero”. Tema che nonsembra interessare molto chi ha ruoli di responsabilità,anche perché raramente si incontra nei piani di studi enei programmi della formazione.

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Il nostro modo occidentale di ragionare in modo anali-tico, segmentato e specializzato, ci fa pensare ai tanti con-testi e fenomeni in cui viviamo come separati tra loro.Non riusciamo a vedere le connessioni e le similitudini,la globalità, la complessità. E i linguaggi che vengonousati tradiscono spesso una visione dei fenomeni che inaltri mondi, ma non in quello imprenditoriale o politico,sarebbe definita “delirio di onnipotenza”.In un certo mondo imprenditoriale, per fare un esempiodi pensiero lineare, si parla spesso di responsabilità socialee di etica come se fossero ingredienti da aggiungere allanormale attività. Ingredienti utili a mitigare i danni “col-laterali” che lo “sviluppo” e la “crescita”, visti sempre comepositivi e necessari, portano con sé. Non si comprendeche qualsiasi azione, poiché avviene in un dominio so-ciale, è intrinsecamente e inesorabilmente etica. Invece siparla di valori come se fossero altra cosa dai comporta-menti e dalle scelte che compiamo, dal modo concreto incui siamo organizzati e vincolati. Un decalogo a cui uni-formarsi.Con la stessa logica separatoria accettiamo come ovvio eindiscutibile che nel mondo del lavoro si alimenti la com-petizione, anche distruttiva, che si compiano ingiustizieconsiderate ineluttabili, che si legittimi una cultura auto-ritaria e gerarchica, terreno fertile per il diffondersi di unospirito di sopraffazione. Oppure si pensa e si organizzal’ambiente di lavoro sulla base di premi e punizioni, in-centivi monetari e benefit che dovrebbero “motivare”,dando per scontato che le persone siano interessate soloai soldi. Di più: costruendo contesti in cui si deve essereinteressati solo ai soldi e alla carriera e fregarsene di tuttoil resto. Applicando ai nostri simili modelli psicologicisemplificati, ottimi per addestrare gli animali, ma deltutto irrispettosi e inadatti a vivere bene.

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In un certo mondo aziendale, se emerge un caso di mob-bing, diamo un po’ di soldi alla vittima e manteniamo alsuo posto l’aggressore. La prima finirà con tutta probabi-lità dallo psicologo con una diagnosi di “fragilità” che do-vrebbe spiegare il senso dell’aggressione subita. Chiaggredisce invece non avrà bisogno di niente. Forse è soloun po’ cattivo, ma si sa che la gestione dei risultati e delle“risorse umane” non è un affare per anime candide!Poi, infine, anche in quanto “aggressori” possiamo semprededicare un po’ di tempo al volontariato o indignarci pro-fondamente degli stessi problemi quando riguardano altrimondi. Ci indignano cose che accadono in altri contesti,pensando magari che siano fisiologiche in quelle culturee contemporaneamente perdiamo consapevolezza dellanatura profonda delle nostre abitudini sociali. Duranteun convegno a Pistoia l’antropologo Marco Aime raccon-tava di essersi preso del “selvaggio” a nome e per contodell’intera “civiltà” occidentale, da un capo villaggio dinon ricordo quale Paese. Aveva dovuto ammettere, ri-spondendo a una precisa domanda, che da noi quandouno diventa vecchio viene ricoverato in una casa di riposo.Il commento senza appello era stato: “Siete selvaggi!”. Ungiudizio che fa tremare le fondamenta delle nostre certezzesocioeconomiche. E mette in evidenza una dimensionedella nostra esistenza spesso nascosta: facciamo l’abitudineal nostro odore; non siamo criticamente consapevoli deipresupposti che governano le nostre esistenze.

Sull’importanza dell’ambiente lavorativo per la saluteindividuale e sociale…Con la stessa inconsapevolezza si parla del mondo del la-voro come se fosse altra cosa rispetto al mondo civile. Senzapiù rendersi conto che i luoghi di lavoro sono un immensolaboratorio nel quale si produce e subisce cultura. È anche

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come membri di un’organizzazione o di una comunità pro-fessionale che si forma la nostra identità. È nell’esperienzadei rapporti lavorativi che ci nutriamo di cose che con il la-voro non c’entrano niente e poi divengono parte del nostromodo di intendere la vita. È lì che si fa scuola di democraziae di civiltà o di sopraffazione e inciviltà. O che si acquisi-scono modelli di pensiero che, più o meno consapevol-mente, applichiamo anche ad altri mondi e le cuiconseguenze, in ogni caso, subiamo nella nostra vita pri-vata. È lì che si può formare e alimentare il cinismo trave-stito da realismo che poi ci accompagna in tanti altri ambitidella vita. È lì che l’idea di gerarchia si cristallizza e alcunidesideri e ambizioni tra i tanti possibili diventano i più de-siderabili e assoluti, così da diventare metro di misura, nondel successo professionale, ma del successo nella vita.Ancora un esempio: per comprendere cosa e come con-cepisce la realtà un certo tipo di mondo imprenditorialeconviene ogni tanto dare un’occhiata alle offerte di lavoropubblicate sui quotidiani. L’azienda Pinco (naturalmentesempre leader di mercato, ce ne fosse mai una seconda oterza!) cerca laureato con il massimo dei voti, max 30anni, desideroso di operare in un ambiente dinamico,orientato al risultato, disposto a viaggiare, capace di ge-stire le risorse, di animare il gruppo di lavoro, con doticomunicative, resistente allo stress e ambizioso. Ma que-sta, come si vede non è solo un’offerta di lavoro e la ricercadi una buona professionalità: è l’offerta e la richiesta diadesione a un intero sistema di valori, una visione e unostile di vita, vissuti come unici e indiscutibili. Quelli giu-sti. Non sono previste persone con le loro qualità. Sem-plicemente non devono avere altre qualità. In pratica nondovrebbero essere persone. E il mito del manager di suc-cesso, che pensa positivo e non ha momenti di debolezza,diventa il metro di misura.

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Poi, periodicamente, qualche star del giornalismo o qualchespecialista pontifica sui bei tempi andati scoprendo, stupitoda tanta cattiveria e insensibilità, famiglie disastrate con ge-nitori che non ci sono mai e uomini e donne prigionieri divisioni stereotipate del maschile e del femminile; oppurescopre adolescenti incapaci di rispettare l’autorità facendolidiventare un problema mediatico. Ma, come racconta be-nissimo Miguel Benasayag nel suo L’epoca delle passioni tri-sti, non ci sfiora minimamente il dubbio che questi ragazzisperimentino quotidianamente, in maniera diretta o indi-retta, il fatto che i propri genitori possono perdere il postodi lavoro dalla sera alla mattina ed essere gettati via comefazzolettini di carta. E che questo dato di realtà rende de-cisamente fragile l’autorevolezza genitoriale. E allora ancoraci lanciamo in riflessioni superficiali o in qualche propostadi corso di formazione che dovrebbe correggere comporta-menti visti come esclusiva responsabilità di chi li compie.Perché anche perdere il posto di lavoro può diventare colpaindividuale: per non essere riusciti a mantenerlo o non es-sere riusciti a conquistarlo. Il fatto di aver “formato” (Mi-guel Benasayag usa la parola “formattazione” che sembraeffettivamente più adeguata) minuto dopo minuto indivi-dui competitivi, ambiziosi e culturalmente limitati, attra-verso un’organizzazione sociale vincolante fin dalla scuolaprimaria, e di avere continuato e legittimato queste formedi pensiero attraverso culture organizzative che induconoindividui e gruppi a pensare e vivere in maniera omologata,scompare dal nostro orizzonte, dalle nostre analisi e dallenostre responsabilità.Il contesto non ha più importanza. Tutto è contenuto neiconfini della pelle degli individui.

Sulla mitizzazione dell’ “azienda”…C’è un’altra considerazione che spiega l’interesse per gli

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argomenti che abbiamo trattato in questa pubblicazione:il fatto che un po’ in tutto il mondo, ma nel nostro Paesein modo più evidente per contingenti ragioni politiche,il linguaggio aziendale, già talvolta discutibile per fare fun-zionare bene un’azienda, si sia generalizzato oltre ogni li-mite, andando a colonizzare anche la vita sociale e privatadelle persone. Tutto è diventato azienda, performance,costi e ricavi, obiettivi misurabili, profitto. Questa gene-ralizzazione si fonda su tre idee guida che hanno avutofortuna oltre il lecito.La prima idea fa coincidere l’impresa con la sua degene-razione neoliberista: l’esclusiva ricerca del profitto. Comese tutte le imprese fossero orientate solo ed esclusivamenteal profitto. Una vera e propria falsificazione della realtà.La seconda idea si basa sulla mitizzazione delle figure del-l’imprenditore e del manager di questo tipo di impresa(un sottoprodotto del mito dell’individuo), visti come ca-paci e onnipotenti, a prescindere dall’ambito di azione.La terza idea è che il “privato” sia sempre superiore al“pubblico”. Con la conseguenza che tutta la nostra vitadiventa oggetto di mercato: dalla salute all’educazione,dall’home entertainment all’ingaggio di esperti per “ge-stire” il compleanno dei nostri figli. O delle escort per farfinta di essere amati e sentirsi “potenti”. O non sentirsiimpotenti.Eppure se ci si ferma un istante a riflettere, il mito del-l’imprenditore che, capace di fare soldi, dovrebbe per que-sto essere automaticamente capace di gestire la cosapubblica, è una vera e propria stupidaggine. Parlare diazienda Italia, azienda giustizia, azienda sanità, aziendascuola significa banalizzare l’Italia, la Giustizia, la Sanitàe la Scuola. Ma significa anche banalizzare l’idea stessa diazienda. Un’idea pregiudiziale di azienda razionale, pre-cisa, organizzata, senza inefficienze, senza costi economici

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e umani. Un’idea di azienda come mondo in cui qualsiasiproblema si risolve, con un po’ di problem solving, occul-tando invece la quantità di complicazioni che un’organiz-zazione è capace di inventare gratuitamente, rendendodifficile la vita a sé e agli altri. Un autentico mito, smen-tito dalla realtà quotidiana: chiunque lavori in una qual-siasi organizzazione conosce il livello di problemi che ilmondo manageriale è in grado di produrre, appena ap-pena nascosto dall’uso di una neolingua ritualizzata,l’aziendalese, che funziona come narcotico dell’intelli-genza.Durante un’iniziativa svolta a Scuola Coop, Pier LuigiCelli, allora Direttore Generale dell’Università Luiss, pro-pose la lettura di una poesia per spiegare un concetto. Maci fu una risatina tra il pubblico. E lui rispose così: “Primadi tutto ci sono i poeti e i narratori che comprendono lecose. Poi arrivano gli scienziati che cercano di dare unaspiegazione razionale a ciò che poeti e narratori hanno giàcapito. Alla fine arrivano i manager che banalizzanotutto”.E poi gli imprenditori non sono sempre geni (ogni tantotra l’altro falliscono) e non sono necessariamente onesti.Quelli mitizzati in questi anni, in generale, mirano al pro-fitto, cosa legittima, entro certi limiti. Ma il profitto, do-vremmo convenirne, non è proprio un criterio base perinteressarsi del bene comune. Per questo, la mentalità im-prenditoriale che si è imposta come cultura dominante èraramente compatibile con attività politiche che invece do-vrebbero essere basate anche sul desiderio di fare per glialtri. Che la cosa pubblica abbia bisogno di efficienza nonci sono dubbi. Che essere efficienti coincida con essere im-prenditori o manager privati, è tutto da dimostrare.Il mondo è fortunatamente pieno di gente capace di farecose meravigliose per sé e per gli altri che non si sogne-

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rebbe mai di rappresentarsi come imprenditore o comemanager. Gino Strada è un manager? Ed Emergency nonè forse un’impresa? Un buon sindaco di una città è unmanager? Un bravo insegnante o un direttore di unascuola devono essere manager? Un bravo psicoterapeutao un ortopedico devono essere manager per fare bene ilproprio lavoro? La produttività deve essere sempre il cri-terio guida delle nostre attività per ogni ambito e ognifase della vita di una organizzazione? Potrebbe una sua ge-neralizzazione indebita essere un problema o provocarecosti che le nostre griglie di valutazione non sono in gradodi misurare? Per avere successo nella vita bisogna essereimprenditori e fare i soldi? Dipingere e suonare sono cosemeno importanti? Prendersi cura di un malato, di un vec-chio, far ridere la gente per mestiere, sono attività ripro-vevoli? Insegnare ginnastica o judo è poco importante?Un bravo pasticciere si sente pasticcere o imprenditore?Chi studia è inutile? Vogliamo farne a meno, insieme achi fa ricerca, anche ricerca pura, cioè non immediata-mente finalizzata a un risultato? Dovremmo diventaretutti imprenditori e manager di questo tipo? E i coopera-tori? Che tipo di imprenditori sono?E poi perché dovremmo considerare un unico modelloimprenditoriale, quello neo liberista con i suoi linguaggi,il più importante e significativo? Perché affidarsi alle lo-giche imprenditoriali delle grandi Corporation, basate sulprofitto per pochi, sul potere per pochi, e non invece aesperienze come quelle di Adriano Olivetti o delle Coo-perative? O delle tante piccole e medie imprese che costi-tuiscono la realtà del nostro Paese? Perché non si èadottata la metafora della bottega artigiana, per parlaredel nostro mondo? Troppo piccola rispetto alle grandiaziende? Non sarà che si tenda a confondere l’idea di es-sere grossi, con l’idea di essere grandi?

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Sull’importanza di riflettere sull’epistemologia…Un certo tipo di linguaggio però si è diffuso e con essoun preciso modo di interpretare i fenomeni. Nelle scuole,per esempio, i Presidi ora si chiamano Dirigenti Scolastici.All’Università il piano di studi è diventato piano di car-riera. Si acquisiscono e valutano competenze. L’appren-dimento si declina in debiti e crediti formativi. Glistudenti sono definiti dal ministero “consumatori di for-mazione”. Il linguaggio del conto economico per misurarel’anima dei nostri figli.Una deriva che origina dal fatto che anche nel mondo po-litico il linguaggio “aziendalmanageriale” è stato adottatoindipendentemente dagli schieramenti. Testimonianza diuna pericolosa omologazione, la sua diffusione è anchesegno di grande povertà intellettuale.In questa deriva aziendalista è contenuta e si rende evi-dente la difficoltà di noi tutti: non siamo consapevoli dicome si forma il nostro modo di pensare.E qui si entra nel mondo dell’epistemologia.“Epistemologia”, parola ostica e raramente utilizzata nelmondo dell’impresa. Una parola che è comparsa spessonelle pagine precedenti. E che vale la pena riprendere inconsiderazione. L’epistemologia, nella scienza, è lo studiodegli schemi logici sottesi a una teoria. La parola derivadal greco, epistème, che significa conoscenza scientifica.Quindi la logica della conoscenza scientifica non è altro chelo studio delle caratteristiche dei processi di conoscenza,pensiero e decisione.Chiunque, operando con ruoli di responsabilità in qual-siasi tipo di organizzazione, ritenga che riflettere su temicome conoscenza, pensiero e decisione sia un lusso o unacosa inutile che non lo riguarda, probabilmente in questostesso momento sta danneggiando qualcosa o qualcuno.E forse anche se stesso.

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Infine…Gli argomenti che Miguel Benasayag ha trattato ci sem-brano oggi cruciali. Ci sembra utile, infatti, riflettere sullanostra paura del futuro, sui comportamenti autodistrut-tivi e sui presupposti nascosti in modelli economici e pra-tiche sociali e imprenditoriali che non sono neutre.Crediamo sia importante riflettere su come si forma il no-stro pensiero sul mondo perché non è cosa irrilevante ri-spetto a come poi lo costruiamo, questo mondo. Cisembra utile inserire tutto questo in una riflessione cheserva a rileggere e re-interpretare la nostra organizzazionee la sua identità.E l’incontro con Miguel Benasayag, così come con altristudiosi, si è inserito in questa ricerca: il tentativo condi-viso con molti colleghi di guardare un po’ più attenta-mente nelle pieghe del nostro lavoro, del nostro impegnoe dei linguaggi che usiamo e subiamo. Sapendo che es-sendo tutti immersi in un contesto dato (trent’anni dineoliberismo non sono uno scherzo) rischiamo di assor-bire idee, valori e concetti che potrebbero non essere cosìin linea con le nostre dichiarazioni.Sia chiaro che non siamo alla ricerca di un’improbabilecoerenza assoluta che assume spesso le sembianze dellapresunzione e dell’autoritarismo, ma di una riflessione checi renda tutti più consapevoli della posta in gioco e piùliberi di agire. Più tolleranti, umili e sicuri di noi stessicon le nostre fisiologiche fragilità e contraddizioni.Convinti che le idee e le parole debbano essere oggetto diattenzione e cura perché troppo importanti per essere la-sciate al caso.

L’epoca delle passioni tristiBenasayag Miguel; Schmit Gérard, 2013, Feltrinelli, Milano.

La salute ad ogni costo. Medicina e biopotereBenasayag Miguel, 2010, Vita e Pensiero, Milano.

Elogio del conflittoBenasayag Miguel; Del Rey Angélique, 2008, Feltrinelli, Milano.

Il mio Ernesto Che Guevara. Attualità del guevarismoBenasayag Miguel, 2006, Centro Studi Erickson, Trento.

Contro il niente. ABC dell’impegno Benasayag Miguel, 2005, Feltrinelli, Milano.

Malgrado tutto. Racconti a bassa voce delle prigioni ArgentineBenasayag Miguel, 2005, Filema, Napoli.

Resistere è creareBenasayag Miguel; Aubenas Florence, 2002, MC Editrice, Milano.

ContropotereBenasayag Miguel; Sztulwark Diego, 2002, Elèuthera, Milano.

Il mito dell’individuoBenasayag Miguel, 2005, MC Editrice, Milano.

Libri di Miguel Benasayag pubblicati in italiano

Bibliografia essenziale ragionata

Qui di seguito proponiamo una serie di suggerimenti bi-bliografici per coloro che volessero ritornare su alcunitemi trattati in questa pubblicazione.

L’epoca delle passioni tristiBenasayag Miguel; Schmit Gérard, 2013, Feltrinelli, Milano

Miguel Benasayag è uno scrittore prolifico come si vedenella bibliografia che abbiamo riportato e che l’anno pros-simo si incrementerà di ulteriori titoli per ora editi soloin Francia. Qui ci limitiamo a presentare il suo testo piùfamoso in Italia.Un libro straordinario. Denso di stimoli e di riflessioni. Unpensiero complesso che ci aiuta a riflettere sui fenomeni so-ciali, sulla economia, sulla vita, sul disagio psichico. Viviamoin una epoca in cui per la prima volta le persone vedono ilfuturo come una minaccia, ci racconta l’autore, e in più ipervasivi modelli economici neo liberisti tendono a distrug-gere oggettivamente i legami sociali e l’ambiente. Il disagioviene spesso trattato cercando di fornire risposte psichiatri-che, normalizzanti, a problemi che non hanno a che fare conpatologie individuali, ma con la concretezza delle situazionisociali. Il libro ci sembra prezioso per chi si occupa di eco-nomia, di sociale (sempre che le due cose vadano disgiunte)di salute e benessere. Un libro sulle conseguenze negativedell’ideologia dell’utilitarismo e che aiuta a riflettere sulle cul-ture organizzative, sull’educazione, sulla formazione. Unlibro che tutti i genitori dovrebbero tenere sul comodino.

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Verso una ecologia della menteGregory Bateson, 1977, Adelphi, Milano

Lettura che richiede pazienza e dedizione. Ma Gregory Ba-teson rimane il principale maestro per chi creda che il pen-siero e la complessità non siano cosette secondarie,affrontabili con qualche formula ingegneristica. Si trattadi una raccolta di saggi, conferenze e lezioni che spazianodalle sue osservazioni con i delfini, alle sue ricerche sullacomunicazione interpersonale, a ragionamenti sui sistemicomplessi, sull’ecologia e sul pensiero. Siamo di fronte auno dei pensatori più importanti del ‘900. Persona curiosa,aperta all’esplorazione di mondi apparentemente lontanitra loro, è stato uno dei pionieri dello sviluppo della ciber-netica a partire dagli anni ’40 del 900. Il suo modo di ra-gionare, ben evidente nei suoi testi, era rigoroso, maimpressionistico. Per questo non sempre facilmente acces-sibile. Lo sconcerto dei suoi studenti di fronte a domandeimprobabili era dato dal fatto che spesso non riuscivano acomprendere dove volesse andare a parare. Ma spesso nonvoleva andare a parare da nessuna parte. Semplicementeponeva domande che non avevano una risposta già pronta,ma richiedevano un lavoro di ricerca e scoperta. Scuola eUniversità non sono abituate a questo approccio. Un libroche andrebbe letto senza forzare la mano. Poche pagine,su cui ritornare di tanto in tanto. Un libro che chi governadovrebbe avere l’umiltà di prendere in considerazione.Per chi è un po’ affetto dalla sindrome dell’utilitarismo eper chi si occupa di apprendimento consigliamo viva-mente la lettura dei seguenti saggi presenti nel libro: Fi-nalità cosciente e natura, conferenza del 1968 e Lecategorie logiche dell’apprendimento e della comunicazione,scritto nel 1964. Qui di seguito un assaggio del suo pen-siero. Attualissimo in un’epoca di fondamentalismi divario genere.

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“Se mettete Dio all’esterno e lo ponete di fronte alla suacreazione, e avete l’idea di essere stati creati a sua imma-gine, voi vi vedrete logicamente e naturalmente come fuorie contro le cose che vi circondano. E nel momento in cui viarrogherete tutta la mente, tutto il mondo circostante viapparirà senza mente e quindi senza diritto a considera-zione morale o etica. L’ambiente vi sembrerà da sfruttarea vostro vantaggio. La vostra unità di sopravvivenza saretevoi e la vostra gente o gli individui della vostra specie, inantitesi con l’ambiente formato da altre unità sociali, daaltre razze e dagli animali e dalle piante.Se questa è l’opinione che avete sul vostro rapporto con lanatura e se possedete una tecnica progredita, le probabilitàche avete di sopravvivere sarà quella di una palla di neveall’inferno. Voi morrete a causa dei sottoprodotti tossici delvostro stesso odio o, semplicemente, per il sovrappopola-mento e l’esagerato sfruttamento delle riserve. Le materieprime sono limitate. Se io sono nel giusto, allora il nostroatteggiamento mentale rispetto a ciò che siamo e a ciò chesono gli altri deve essere ristrutturato.”

L’albero della conoscenzaHumberto Maturana, Francisco Varela, 1999, Garzanti, Milano

Il libro più divulgativo dei due biologi cileni. Una stella po-lare per chi vuol prendere dimestichezza con il concetto dicomplessità. Vi si trova una spiegazione di come funziona ilnostro sistema nervoso e come arriviamo a conoscere la re-altà. Vi si trova un’idea di evoluzione diversa da quella cheabbiamo interiorizzato a scuola, generalmente associata al-l’idea di competizione e alla sopravvivenza del più forte. Siparla infatti di co-evoluzione tra i vari organismi e l’ambiente.Vi si parla del linguaggio e di come si conosce. Di come leparole siano costitutive del sociale. Si spiega cos’è un orga-nizzazione mettendo a confronto quella di un sistema artifi-ciale con quella del sistema vivente. Un libro imperdibile.

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L’errore di CartesioAntonio R. Damasio, 1995, Adelphi, Milano

Corpo e mente non sono separabili. Passione e ragione simescolano nell’individuo. Antonio Damasio dimostracome le strutture biologiche del sistema nervoso intera-giscano con i processi mentali di cui sono la base fisiolo-gica. Ecco come l’autore spiega brevemente il percorso diricerca che lo ha portato a determinate conclusioni:

“Ho cominciato a scrivere questo libro volendo proporrel’idea che la ragione può non essere così pura come la mag-gior parte di noi ritiene che sia, o vorrebbe che fosse; che isentimenti e le emozioni possono non essere affatto degli in-trusi entro le mura della ragione: potrebbero essere intrec-ciati nelle sue reti per il meglio e per il peggio. Sianell’evoluzione che in ogni singolo individuo, le strategiedella ragione umana probabilmente non si sono sviluppatesenza la forza guida dei meccanismi di regolazione biolo-gica dei quali emozione e sentimento sono espressioni no-tevoli. Per di più, anche dopo che le strategie delragionamento si sono assestate, negli anni della formazione,il loro effettivo dispiegamento dipende in larga misuradalla ininterrotta capacità di provare sentimenti.”

Sorvegliare e punireMichel Foucault, 2005, Einaudi, Torino

Uno degli aspetti della crisi antropologica che viviamo ri-guarda il rapporto tra autorità, autorevolezza e autorita-rismo. Il rapporto tra autorità e autorevolezza è uno deifattori correlati al disagio diffuso in luoghi che potrebberoe dovrebbero essere invece luoghi della fiducia, della so-cialità, dell’origine e dello sviluppo dei talenti: lavoro,scuola e famiglia. Luoghi attraversati da logiche che nonsiamo nemmeno più in grado di riconoscere. Il libro del

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filosofo francese riguarda il tema del controllo e della pu-nizione nel luogo principe in cui queste due funzioni siesplicano: la prigione.Forse per chi si occupa di organizzazione e formazione,lavoro e persone, ma anche chi semplicemente ha figliche vanno a scuola o ha avuto l’occasione di subire un ri-covero ospedaliero, è sufficiente la lettura della terza partee dei suoi tre capitoli centrali, i primi due con titoli dav-vero suggestivi: 1. i corpi docili; 2. i mezzi del buon ad-destramento; 3. il panoptismo.Non è un libro facile questo di Foucault, ma vale la penaaffrontarlo non fosse altro che per i temi che vi sono trat-tati. Eccone alcuni: il rapporto tra disciplina, controllo epunizione; la funzione della punizione, e per converso deipremi; la gerarchizzazione dei saperi, con la divisione traattività formativa e pratica lavorativa. Lo stesso tempo for-mativo separato dal tempo adulto, quello del mestiere ac-quisito, con la conseguente potenziale svalutazione delconcetto di formazione, da taluni, infatti, proposta o con-siderata come roba da ragazzi. La disciplina e i modelliorganizzativi dello spazio e del tempo nei monasteri e illoro rapporto con la scuola moderna. La prigione e i mo-delli militari come calco organizzativo per la manifatturae la fabbrica e per il mondo del lavoro. La disciplina e ilconcetto di rango, con l’incasellamento e l’etichettaturadelle persone anche attraverso la creazione di un sapereumanistico specifico che a molti finisce per apparire comeindiscutibile verità.E poi ancora una certa idea di individualismo, di società,di relazione tra le persone, una certa idea di disciplina chenon riguarda solo il legittimo rigore nell’acquisire un sa-pere o nello svolgere un’attività, ma anche la funzione diinserire dissimmetrie e ineguaglianze insormontabili e diescludere la reciprocità.

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Infine l’architettura, quindi la gestione concreta deglispazi fisici, concepita come un operatore implicito dellatrasformazione degli individui. Ce ne è da riflettere sucome funzionano i tanti luoghi della nostra esistenza.

Panopticon, ovvero la casa d’ispezioneJeremy Bentham, 2002, Marsilio, Venezia

Lo scritto di Jeremy Bentham è illuminante e per certiversi agghiacciante. Padre dell’Utilitarismo, nei suoi testiesprime una già ben spiccata ossessione efficientista,schiacciata e banalizzata sulla questione dei costi. Verrebbedavvero da dire che il neoliberismo degli ultimi trent’anninon ha inventato nulla, visto che Bentham si muove a ca-vallo tra il ‘700 e l’800.Anche qui si parla di prigioni: il panopticon. L’idea è di co-struire una prigione che permetta un controllo centralizzatodei detenuti. Un edificio circolare con al centro una torredi controllo in grado di penetrare nelle celle con il suosguardo 24 ore su 24. Celle dalle quali i detenuti al contrarionon dovrebbero essere in grado di osservare chi li osserva.Totalmente isolati, separati fisicamente e visivamente anchetra loro e sapendo di essere costantemente osservati (maforse il verbo spiati rende meglio l’idea), i detenuti si sareb-bero redenti automaticamente secondo la prospettiva diBentham. Un pensiero educativo progressista che ricordamolto da vicino il noto e molto saggio proverbio che diceche la “via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni.”Perché mai però dovremmo leggere questo breve saggiovisto che non lavoriamo nelle prigioni? Per avere una buonarisposta vale la pena leggere le parole dello stesso Benthamper poi rivolgere uno sguardo disincantato alle organizza-zioni che abitiamo, oppure alle nostre strade, piazze, edificipubblici e privati, capillarmente video sorvegliati. O ancoraal fatto che anche internet o una semplice carta di credito

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possono ridurre al minimo il livello di privacy e aumentarele possibilità di un controllo capillare delle nostre vite daparte di soggetti a noi nascosti o opachi.Facendo riferimento al modello di edificio definito Pa-nopticon, Bentham afferma nel 1791:

“In una parola penso che si potrebbe applicare, senza nes-suna eccezione, in tutti gli edifici dove un certo numero dipersone devono esser tenute sotto controllo in uno spazionon troppo vasto da coprire o dominare con altri edifici.Poco importa se lo scopo dell’edificio è diverso o anche op-posto: sia che si tratti di criminali incalliti, sorvegliare ipazzi, riformare i viziosi, isolare i sospetti, impiegare glioziosi, mantenere gli indigenti, guarire i malati, istruirequelli che vogliono entrare nei vari settori dell’industria ofornire l’istruzione alle future generazioni: in una parola,sia che si tratti di prigioni a vita, nella camera della morte,o di prigioni d’isolamento prima del processo, o peniten-ziari, o case di correzione, o case di lavoro, o fabbriche, omanicomi, o ospedali, o scuole.È ovvio che, in tutti questi esempi, lo scopo dell’edificio saràtanto più perfettamente raggiunto se gli individui che de-vono essere controllati saranno il più assiduamente possibilesotto gli occhi delle persone che devono controllarli. L’ideale,se questo è lo scopo da raggiungere, esigerebbe che ogni in-dividuo fosse in ogni istante in questa condizione. Essendoquesto impossibile, il meglio che si possa auspicare è che inogni istante, avendo motivo di credersi sorvegliato, e nonavendo i mezzi di assicurarsi il contrario, creda di esserlo”.

Che cos’è un dispositivo?Giorgio Agamben, 2006, Nottetempo, Roma

I dispositivi tecnologici che ci circondano e di cui non pos-siamo più fare a meno, dal cellulare alla televisione, dal pcal tablet e all’automobile, non sono innocenti oggetti di

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consumo, ma dispositivi che influenzano la personalità dichi li usa e con i quali ogni giorno ingaggiamo un conti-nuo corpo a corpo. Punto di riferimento di Agamben è lariflessione foucaultiana sul concetto di dispositivo inquanto insieme di pratiche e meccanismi che hanno loscopo di far fronte a un’urgenza e di ottenere un effettopiù o meno immediato. I dispositivi di cui parla Foucaultdanno il nome a ciò “in cui e attraverso cui” si implica unprocesso di soggettivazione. In altre parole, come direbbeHeidegger, allo stesso modo in cui siamo parlati dal lin-guaggio, così siamo usati dalla tecnica. Scrive Agamben:

“Chiamerò dispositivo letteralmente qualunque cosa abbiain qualche modo la capacità di catturare, orientare, deter-minare, intercettare, modellare, controllare e assicurare igesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi.Non soltanto, quindi, le prigioni, i manicomi, il Panopti-con, le scuole, la confessione, le fabbriche, le discipline, lemisure giuridiche ecc., la cui connessione col potere è in uncerto senso evidente, ma anche la penna, la scrittura, la let-teratura, la filosofia, l’agricoltura, la sigaretta, la naviga-zione, i computers, i telefoni cellulari e – perché no – illinguaggio stesso, che è forse il più antico dei dispositivi, incui migliaia e migliaia di anni fa un primate – probabil-mente senza rendersi conto delle conseguenze a cui andavaincontro – ebbe l’incoscienza di farsi catturare”.

Psiche e techne.L’uomo nell’età della tecnicaUmberto Galimberti, 2000, Feltrinelli, Milano

La tecnica non è l’insieme degli strumenti di cui ci ser-viamo, ma è l’ambiente stesso nel quale abitiamo, che cicirconda e ci formatta secondo regole di razionalità mi-surabili esclusivamente con criteri di funzionalità ed effi-cienza. Le esigenze dell’uomo finiscono così per essere

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subordinate alle esigenze dell’apparato tecnico. Ma la tec-nica, sostiene Galimberti, non agisce in vista di unoscopo, non mira alla salvezza e nemmeno a una pienezzadi senso. “Non redime, non svela la verità: la tecnica fun-ziona”. Questo libro ripercorre i concetti di cui si nutrival’età umanistica – individuo, libertà, identità, verità, sensoe scopo, ma anche natura, politica, religione e storia –nell’età della tecnica. Scrive Galimberti:

“La tecnica infatti può segnare quel punto assolutamentenuovo nella storia e forse irreversibile, dove la domandanon è più: «che cosa possiamo fare noi con la tecnica», ma«che cosa la tecnica può fare di noi»”

Discorso sulla servitù volontariaÉtienne De La Boétie, 1995, La Rosa, Torino

Scritto agli inizi del XVI secolo, mentre le strutture poli-tiche tardomedievali si vanno dissolvendo sotto l’avventodelle monarchie nazionali, questo pamphlet mantiene lasua validità in ogni tempo e in ogni luogo. L’analisi di LaBoétie è dedicata, in apparenza, a un tema specifico: lacritica al potere tirannico, attraverso l’evidenziazione deimeccanismi strutturali e consensuali che sorreggono taleforma di potere politico. Come è possibile, – si chiede LaBoétie – che gli uomini acconsentano a un potere sfac-ciatamente contrario a ogni loro possibile interesse espesso addirittura nocivo a essi? Come possono gli uominiinnamorarsi delle loro catene? Da questa domanda prendeil via un’interrogazione più generale sulle strutture del do-minio, che porta l’autore ad allargare in maniera estremail concetto di “tirannia”. “Tiranno” è, nella concezione diLa Boétie, qualcosa di più che il monarca centralizzatoredel XVI secolo e/o i suoi equivalenti funzionali del passatodell’umanità. L’“Uno” di cui si parla nel “Discorso sulla

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Servitù Volontaria” non è infatti necessariamente una sin-gola persona, anche se ai tempi di La Boétie tale figurapolitica coincideva spesso con quella del monarca; essa èpiuttosto la funzione politica svolta da chi – singolo o per-sona giuridica collettiva – riesce a imporre agli altri lalegge della propria volontà individuale.

“(...) vorrei solo comprendere come e possibile che tanti uo-mini, tanti paesi, tante citta e nazioni tollerino talvolta unsolo tiranno, che non ha altro potere che quello che gli danno;che ha il potere di nuocere loro solo finche essi possono sop-portarlo; che non potrebbe far loro alcun male, se nonquando essi preferiscono sopportarlo piuttosto che contrad-dirlo. E davvero sorprendente, e tuttavia cosi comune che c’epiu da dispiacersi che da stupirsi nel vedere milioni e milionidi uomini servire miserevolmente, col collo sotto il giogo, noncostretti da una forza piu grande, ma perche sembra sianoammaliati e affascinati dal nome solo di uno, di cui non do-vrebbero temere la potenza, visto che è solo, né amare le qua-lità, visto che nei loro confronti è inumano e selvaggio”.

La ferita dell’altro. Economia e relazioni umaneLuigino Bruni, 2007, Edizioni Il Margine, TrentoLe prime radici, la via italiana alla cooperazione e al mercatoLuigino Bruni, 2012,Edizioni Il Margine, Trento

I libri di Luigino Bruni sono tutti belli. Economista, daanni ci aiuta a recuperare una storia diversa da quella checi è stata imposta: la possibilità di concepire l’economiacome uno degli aspetti del vivere civile e non come qual-cosa di separato da essa. Il mercato come uno degli aspettidelle relazioni e non come luogo del business impersonale.Il primo libro segnalato, pone al centro il tema delle rela-zioni in economia, aiutandoci a scoprire come la nostravita quotidiana e i sentimenti che viviamo nell’incontrocon gli altri non siano altra cosa rispetto al concreto di-

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panarsi economico, nei luoghi di lavoro e non solo. Nel secondo, pubblicato nel 2012, il prof. Bruni raccontacon dovizia di esempi, delicatezza di stile e forza di con-tenuti, che la storia della cooperazione non può non farei conti con una tradizione di pensiero italiana, l’EconomiaCivile, nata nel ‘700 per opera di Antonio Genovesi. Que-sta impostazione, se dal punto di vista accademico uscìperdente dal confronto con quella anglosassone di AdamSmith, non fu affatto sconfitta nelle pratiche imprendi-toriali, dando vita a esperienze umane e civili che ancoraoggi, nascoste e offuscate dalle parole d’ordine dell’azien-dalismo più banale, garantiscono la tenuta sociale del no-stro Paese. Un libro sulla cooperazione dunque cherimette mano alle origini per parlare del nostro presentee del nostro futuro. E che può offrire buoni argomenti dacontrapporre a chi, talvolta anche al nostro interno, im-magina il mondo cooperativo come un minore da ren-dere adulto con iniezioni di imprenditorialità emanagerialità omologata. Un bel libro di storia delle ideeconcrete che può sorprendere, infastidire e aiutare a sen-tirsi più maturi.

Ho studiato economia e me ne pentoFlorence Noiville, 2010, Bollati-Boringhieri, Torino

Un libro divertente per capire come si formano i pensatoridell’economia finanziaria attuale. Un esempio di econo-mia deterritorializzata e anche un saggio su quella parti-colare forma di spreco che è lo spreco di cervelli. FlorenceNoiville ci racconta di quando capì che non era più il casodi frequentare una delle più prestigiose Business Schooldi Francia che, come nel caso delle periferie di una grandecittà, si possono ritrovare esattamente uguali in ogni an-golo del pianeta. In queste 80 pagine, per una mezzo-retta di piacevole lettura, la giornalista di “Le Monde”,

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racconta con precisione quale sia lo spirito delle grandiBusiness School e quali siano gli insegnamenti che in essesi impartiscono e che potremmo sintetizzare con tre pa-role interconnesse: profitto, cinismo, competizione. Con-sigliato a tutti. Anche a genitori e insegnanti.

Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle personeZygmunt Baumann, 2007, Laterza, Bari

Uno di quei libri sempreverdi che dispiace non aver in-contrato prima. Baumann ci aiuta a comprendere il pen-siero sotteso alle politiche neoliberiste anche attraverso unviaggio storico che parte dalle politiche della sig.ra That-cher. Si tratta di un testo veloce che ci sembra utile ancheper una comprensione del nostro Paese.Una suggestione su tutte: l’idea che l’affermazione delle po-litiche economiche degli ultimi 30 anni abbia a che fare conuna sorta di guerra per l’“indipendenza dallo spazio”. Ci siriferisce al fatto che molte imprese funzionino senza averepiù nessun legame con il territorio e con chi ci vive. Svin-colate così da qualsiasi logica di responsabilità sociale e civile.Un buon criterio per valutare le pratiche di tutte le aziendeche parlano, a volte a sproposito, di responsabilità sociale.

Shock economy. L'ascesa del capitalismo dei disastri Naomi Klein, 2007, Rizzoli, Milano

Una rivisitazione degli ultimi 40 anni di storia mondialeper comprendere come a un certo modello di sviluppocorrispondano anche filosofie e pratiche autoritarie e an-tidemocratiche. Dal golpe in Cile ai giorni nostri, Iraq eAfghanistan compresi, per comprendere come una teoria(in questo caso quella dei Chicago Boys, i neoliberisti diMilton Friedman) non sia cosa eterea senza effetti sullapratica. Un librone di 600 pagine che in comode rate di

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5 pagine al giorno (10 min) si finisce in 4 mesi senza ac-corgersene e lascia il segno. Il post terremoto a L’Aquila,ad esempio, diventa più comprensibile.

L'uomo flessibile.Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personaleRichard Sennett, 2000, Feltrinelli, Milano

La crisi della modernità ha lasciato sul terreno una seriedi scorie che si sono appiccicate al corpo e alla mente dellepersone. L’idea che ognuno sia padrone del suo destino,rappresenta una deformazione del falso regno della libertàdi cui, secondo i teologi del mercato, saremmo tutti abi-tatori. L’uomo flessibile è il prototipo di questa nuova an-tropologia che caratterizza il nostro tempo e fa di noiattori inconsapevoli di un dispositivo impersonale e au-tonomo che governa le nostre esistenze senza apparire op-pressivo e alienante. E comunque, per i problemi chederivano dall’essere inadeguati al presente, c’è sempre lopsicologo. Dalla prefazione di Sennett:

“Oggi, il termine “flessibilità” viene usato allo stesso modoper aggirare le connotazioni negative del concetto di capita-lismo. Si sostiene quindi la tesi che, opponendosi alla rigiditadella burocrazia e riservando maggior attenzione al rischio,la flessibilità consenta agli individui un maggior controllosulla propria vita. Ma in effetti il nuovo regime sostituiscenuove forme di controllo alle vecchie, piuttosto che limitarsiad abolire le regole del passato - e queste nuove forme di con-trollo sono spesso ancor piu difficili da riconoscere”.

In me non c’è che futuro. Ritratto di Adriano Olivetti2011, SATTVA Films, Bologna (Libro + Dvd)

La storia di una pratica, di un modo di concepire impresa,società e politica come facce di uno stesso poliedro.

Un’idea di comunità, anche nei luoghi di lavoro e tra que-sti e l’ambiente in cui operano, che la storia finalmente cista poco a poco riconsegnando. Il film molto gradevole,il libro con saggi interessanti scritti da chi ha vissuto inprima persona quell’esperienza. Qui di seguito l’incipitche si trova nel libro e all’inizio del Dvd:

“Nella millenaria civiltà della terra, il contadino, guardandole stelle, poteva vedere Iddio, perché la terra, l’aria, l’acqua,esprimono in continuità uno slancio vitale. Per questo il mondomoderno, avendo rinchiuso l’uomo negli uffici, nelle fabbriche,vivendo nelle città tra l’asfalto delle strade e l’elevarsi delle grue il rumore dei motori e il disordinato intrecciarsi dei veicoli,rassomiglia un poco ad una vasta, dinamica, assordante, ostileprigione dalla quale bisognerà, presto o tardi, evadere.”

Adriano Olivetti

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