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MALDOROR E LA VERITÀ PRATICA

Carmine Mangone

Maldoror e la verità pratica

Copyright c 2017 Carmine Mangone - Ab imis

ISBN 978-0-244-02227-3

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A mee all’esperienza

che è stata e saràla lettura di Ducasse

per me e gli altri.

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«Non ho mai preteso di rivelare qualcosadi nuovo, di lanciare l’inedito sul merca-to della cultura. Una minima correzionedell’essenziale è più importante di centoinnovazioni accessorie. Nuovo è solo ilsenso della corrente che fa affiorare labanalità. Da quando esistono gli uomini,e questi leggono Lautréamont, tutto èstato detto e pochi sono giunti a trarnebeneficio. Siccome le nostre conoscenzesono in sé banali, possono solo avvan-taggiare gli spiriti che non lo sono.»

RAOUL VANEIGEM, Traité de savoir-vivre

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Confidando nella bellezza mentale de-gli uomini, ho cercato la loro compagnia, iloro entusiasmi, accorgendomi tardi che sonsempre pochi quelli che non si smarrisconoin un’alacrità da becchini.

Ho rivendicato con ostinazione l’auten-ticità degli uomini e delle loro opere, incap-pando spesso nella falsità degli atteggia-menti o nell’ingenuità dei propositi. L’amo-re esiste, lo so, ne ho la prova, ma a voltesembra quasi che sincerità e tenerezza sianomorte e che nessuno sappia più sorridereall’altro senza pretendere come minimo unindennizzo morale.

L’amore non è un gioco e le parole nonfanno l’amore (je suis désolé, M. Breton):quando si ama qualcuno o qualcosa, occorreanche saper odiare ciò che lo osteggia, altri-menti l’amore che si dice di provare risultalacunoso, incerto, e finirà prima o poi perrivelarsi un sentimento puerile.

Amore e odio vanno praticati con leal-tà, impeto, sagacia, ma senza perdere in

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leggerezza: perché la serietà dei propositinon è detto che faccia necessariamente apugni con la delicatezza di un sorriso.

«La poesia deve avere per scopo la ve-rità pratica», affermava Isidore Ducasse inPoésies II. Ma cosa si deve intendere per“verità pratica”? E soprattutto: quali impli-cazioni occorre dare al termine “poesia”?

Checché ne dicano i cialtroni o gli scal-tri imbonitori della cultura, e nonostante ildilagare di sofismi più o meno banali, unaparola non vale l’altra, e non si può preten-dere di dire tutto e il contrario di tutto, nétanto meno si può affermare impunementeche non ci sia più senso nella parola che sidà.

Certo, lo spirito di contraddizione aleg-gia da sempre nel pensiero degli uominicome una sorta di fantasma familiare, e tal-volta riesce ad imprimere al loro sapere unmovimento decisivo, eppure, senza la luci-dità e la nettezza delle idee che mette inpratica, l’uomo non farebbe molta stradalungo il suo percorso esistenziale, neanchese volesse smarrire sovranamente il cammi-no.

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La nettezza delle idee, mai disgiuntadalla tensione immanente delle contraddi-zioni da cui nasce e di cui si nutre, è ciò chesquarcia la noia dei giorni, l’eternità dellamateria, la superstizione immutabiledell’essere, ritrovandosi ogni volta, nel cuo-re dell’uomo, come fondamento nuovo –per quanto medesimo nel furore – di unacritica del mondo che prepara o accoglie inse stessa una conoscenza estetica del viven-te.

A dispetto delle contraddizioni, c’èqualcosa di compiuto in ogni idea. Ma nonbasta che la si formuli nel modo giusto: bi-sogna infatti adeguarla all’esperienza degliuomini, al loro desiderio di senso e alla vo-lontà manifesta di creare relazioni a partireda un tale senso.

La verità esiste, ma non è eterna. An-che le idee e le parole sono destinate a mo-rire. Eterno è invece il movimento, il con-flitto, il ricomporsi incessante della materiaal quale si cerca di dare un senso per trovar-ne uno anche alla propria vita. Ma in realtàil problema non è la morte, né lo scorrereinesorabile del tempo. La morte è senza so-luzione, quindi come può rappresentare unproblema reale ed assorbire la luce

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dell’uomo? – le idee non vanno sprecate.La questione cruciale è data semmai dallaverità, ossia dall’esperienza transeunte, mapossibile e magnifica, del luogo in cui amo-re, volontà e poesia sposano ed esaltano fie-ramente l’unicità di ogni essere umano.

L’uomo cerca la verità. La verità agi-sce nella sua opera. Ogni uomo è un criteriodi verità. Date queste premesse, l’oggettivi-tà non esiste, e l’idea che si mette a fuoco èsempre una tappa, mai un traguardo.

Chi difende per partito preso le proprieidee, senza verificarne la rispondenza alvero sui piani variamente intersecati dellarealtà materiale e dell’azione umana, s’irri-gidisce stupidamente in un uso strumentalee nevrotico della conoscenza.

L’uomo si mette in opera, trasforma ilmondo, nega l’esistente e lo ricrea. Eppure,lo scopo sostanziale della sua ricerca non èl’opera in sé, ma la verità del suo mettersiin opera, ossia la verità pratica della suaopera, dove per “verità” non si deve certointendere l’affermazione di un contenutoideale e statico, bensì il movimento (la pra-tica) che trova una rispondenza fedele esensibile nell’esistenza degli altri, e che

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concretizza nel suo sviluppo – in sprazzi divita davvero vissuta (tautologia meschina,ma quanto necessaria!) – l’azione autonomae consapevole della volontà; giacché la ve-rità, se non è giudizio morale, né tantomeno valore assoluto, deve farsi piena ade-sione al movimento di una materia umanache si vuole come relazione e godimentodelle unicità in gioco.

La poesia è una critica, un godimentodell’espressione – e l’espressione è semprepalesamento di un pensiero che riflette lamateria e la qualità del vivente, e che quindisi sviluppa a partire da una conoscenza pra-tica e sostanziale del vivere: io so cosa vo-glio e lo dico, riconosco il desiderio di qual-cosa e provo ad affermarlo; attraverso la pa-dronanza del linguaggio, ribadisco pertantola mia volontà e il fatto di essere vivo, perfar sì che gli altri – i miei simili – si apranoa me reattivi, attendibili, ponendoci insiemee reciprocamente in uno stato dialogico neiconfronti del mondo.

Per descrivere la terra, non bisogna tra-sportarvi le idee del cielo. La critica nonpuò essere soltanto il giudizio sull’evidenza

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dell’opera; dev’essere altresì una verificasulla prassi e sul movimento d’idee generatidall’opera stessa – prassi e movimento per iquali l’opera si costituisce come esperienzanodale e foriera di sviluppi. Occorre quindideterminare ciò che rende mutila l’opera diun poeta unitamente a ciò che ci obbliga acompletarla nell’immediato.

Non ci sono lettori innocenti. L’inter-pretazione e il commento sono sempre unfurto, una sottrazione, un darsi credito alcospetto dell’autore; ma talvolta possonoanche tradursi in accoglimento, premura,consonanza, qualora si aderisse all’operaper trarne un qualcosa che possiamo defini-re, parafrasando Nietzsche, volontà di poe-sia.

Il ventiquattrenne Isidore Lucien Du-casse viene trovato morto la mattina del 24novembre 1870 nella sua camera in affittoal n. 7 di rue du Faubourg-Montmartre,mentre la città di Parigi è ormai assediatadall’esercito prussiano da più di due mesi.

Benché le circostanze della sua morterestino tuttora un mistero – e per quanto latesi del suicidio non possa di certo essere

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scartata del tutto –, fu probabilmente una“febbre maligna” a portarselo via, come so-stiene Genonceaux nella prefazione alla suariedizione dei Canti di Maldoror del 18901.

Di Ducasse ci restano i sei cantidell’epopea maldororiana, firmati conl’ormai celebre pseudonimo “conte di Lau-tréamont”2, i due fascicoli delle Poésies

1 Comte de Lautréamont, Les Chants deMaldoror, Chants I, II, II, IV, V, VI, frontespizio di JoséRoy, Genonceaux, Parigi, 1890, in-8°. Il testo di LéonGenonceaux, amico dell’editore di origini belgheAlbert Lacroix, dal quale aveva ricevuto notizie diprima mano sul conto di Ducasse, è stato ripreso in:Comte di Lautréamont/Isidore Ducasse, ŒuvresComplètes, Librairie José Corti, Parigi, 1953, pp. 9-16;sulla morte di Ducasse egli scrive: «Il conte diLautréamont si è spento all’età di vent’anni [sic],portato via in due giorni da una febbre maligna» (p.11). Nota curiosa: lo stesso Genonceaux, nel novembre1891, pubblicava la prima antologia di testi di ArthurRimbaud (Reliquaire, con prefaz. di R. Darzens),mentre nessuno poteva immaginare che il poeta, in queigiorni, fosse agonizzante a Marsiglia.

2 Les Chants de Maldoror, par le comte deLautréamont (Chants I, II, II, IV, V, VI), Parigi, 1869,stampato (a Bruxelles) da A. Lacroix, Verboeckhovenet Cie., volume in-18, 332 pp., copertina color sabbia,prezzo due franchi, mai distribuito in tale vestetipografica. Lo pseudonimo era ispirato chiaramente altitolo e al protagonista di un romanzo d’avventure diEugène Sue: Latréaumont (1838). Il primo canto era

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(che in realtà raccolgono massime, aforismie pensieri di critica)3 e sette lettere, l’ultimadelle quali, indirizzata a Victor Hugo, è sta-ta scoperta nel 19804.

già uscito in due edizioni anonime: Les Chants deMaldoror, Chant premier, par ***, Parigi, tipografiaBalitout, Questroy et Cie., agosto 1868, in-8°, 31 pp.,copertina verde acqua, prezzo 30 centesimi; LesChants de Maldoror [Chant premier], par ***, inParfums de l’âme, raccolta collettiva di poesie curatada Évariste Carrance («Littérature contemporaine |deuxième série»), Bordeaux, tipografia A.-R. Chaynes,1869, in-8°, pp. 30-65.

3 Isidore Ducasse, Poésies (I, II), Parigi, LibrairieGabrie, 1870, due opuscoli in-8°, cm. 25x16, entrambidi 16 pp., stampati in carattere Didot (uno dei piùutilizzati all’epoca) e con tiratura di 500 copie, prezzodi copertina un franco. Il deposito legale presso ilministero dell’interno fu effettuato il 9 aprile 1870 peril n. I e il 14 giugno per il n. II. Si conosconoattualmente solo tre esemplari del primo fascicolo edue del secondo: fino al 1973 gli unici esemplari noti diPoésies I e II erano quelli della Bibliothèque Nationaledi Parigi [collocaz.: Ye 20608]; nel maggio diquell’anno fu venduta all’asta la copia di Poésies Iappartenuta ad Henri Mue, uno dei dedicataridell’opera; infine, nel 1999, sono stati scoperti gliesemplari appartenuti ad Eugène Loudun, alias EugèneBalleyguier (1818-1915), bibliotecario e collezionista.

4 Questa lettera è stata ritrovata a Hauteville-House, la residenza di Hugo sull’isola di Guernesey, tra

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A pochi mesi dalla morte di Ducasse,dal marzo al maggio 1871, si ha la breveparabola storica della Comune di Parigi,prima grande esperienza rivoluzionaria delmovimento socialista proletario. E sorgespontanea una domanda: se Ducasse fossesopravvissuto di almeno quattro-cinquemesi, che scelta di campo avrebbe fatto?Con chi si sarebbe schierato? Coi comunar-di o con la reazione dei versagliesi diThiers? Lui, rampollo di una famiglia bor-ghese, sarebbe mai arrivato a tradire la pro-pria classe sociale per abbracciare le idee ri-voluzionarie del proletariato parigino? Nonlo sapremo mai, ma sta di fatto che molti traquelli che hanno costruito il “mito Lautréa-mont” (surrealisti in primis), non si sareb-

le pagine di una delle due copie di Chant Premier(l’edizione anonima del 1868) che Ducasse avevaspedito allo scrittore in esilio. Fu riprodotta ecommentata per la prima volta da Jacqueline Lafargueet François Chapon nel Bulletin du Bibliophile (n. 1,1983, pp. 13-22) sotto il titolo: Une lettre deLautréamont [sic] à Victor Hugo. Qui Ducasse firmacol proprio nome, rompendo l’anonimato dellaplaquette, e parla di un’edizione congiunta dei primidue canti che non vedrà mai la luce. Lo scopo dellalettera è palese: farsi raccomandare presso Lacroix (cheè anche l’editore di Hugo) al fine d’accelerare lastampa delle proprie opere.

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bero mai infervorati per Ducasse se questisi fosse rivelato un controrivoluzionario.

Il primo canto di Maldoror, pubblicatooriginariamente in una plaquette anonima,beneficiò di una recensione sul fascicolodel 1°-15 settembre 1868 della rivista pari-gina La Jeunesse. La nota in questione, cheè uno dei tre soli scritti apparsi sull’opera diDucasse con lui ancora in vita5, porta la fir-ma di Epistemon (pseudonimo di Jean Chri-stian Calmeau) e dà uno schizzo del testoducassiano forse un po’ retrò, ma sicura-mente profetico: «Les Chants de Maldoror| di *** || Il primo effetto prodotto dallalettura di questo libro è lo sbalordimento:l’enfasi iperbolica dello stile, la selvaggiastranezza, il vigore disperato delle idee, il

5 Gli altri due sono una nota di Poulet-Malassis eun breve articolo apparso sul Bulletin du bibliophile etdu bibliothécaire del maggio 1870, forse redatto daCharles Asselineau e di cui si dà qui un estratto:«Questo volume (…) conserverà un posto tra lesingolarità bibliografiche; nessuna prefazione, unaserie di visioni e riflessioni in uno stile bizzarro, unaspecie di Apocalisse di cui sarebbe proprio inutileprovare a indovinare il senso. Si tratta di unastramberia? Lo scrittore ha l’aria di essere moltoserio, e niente è più lugubre dei quadri che mette sottogli occhi dei suoi lettori».

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contrasto del suo linguaggio appassionatocon le più scipite elucubrazioni del nostrotempo, gettano da principio lo spirito inuno stupore profondo. | Alfred de Mussetparla da qualche parte di ciò che egli chia-ma «la Malattia del Secolo»: l’incertezzadell’avvenire, il disprezzo del passato, ov-vero l’incredulità e la disperazione. Maldo-ror è colpito da questo male; scettico, eglidiviene malvagio, e volge in crudeltà tuttele forze del suo genio. Cugino di Childe-Harold6 e di Faust, egli conosce gli uominie li disprezza. Il desiderio lo divora, e il suocuore, vuoto sempre, si agita senza posa incupi pensieri, senza mai poter raggiungerequello scopo vago e ideale che cerca e pre-sagisce. | Noi non spingeremo oltre l’esamedi tal libro. Occorre leggerlo per sentirel’ispirazione possente che l’anima, la cupadisperazione sparsa in queste pagine lugu-bri. Malgrado i suoi innumeri difetti,l’improprietà dello stile, la confusione deiquadri, quest’opera, ne siamo certi, nonverrà confusa con le altre pubblicazioni del

6 Riferimento al Childe Harold’s Pilgrimage, unlungo poema di Lord Byron, pubblicatooriginariamente tra il 1812 e il 1818.

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tempo: la sua originalità poco comune cene è garante»7.

I Canti di Maldoror furono stampatinel 1869 da Lacroix, editore di Proudhon,Hugo e Zola, ma il libro non venne mai po-sto in vendita. Soltanto poche copie furonorilegate e consegnate a Ducasse.

La mancata distribuzione dell’opera lasi deve principalmente al rifiuto di Lacroixdi mettere in circolazione un testo pienozeppo di brani violenti e dissacratori. Il suotimore della censura (la famigerata “Sesta

7 Cfr. Jean-Jacques Lefrère, Isidore Ducasse,Fayard, Parigi, 1998, p. 357. L’opera di Lefrère (1954-2015) è la più vasta indagine biografica su Ducasse;testo quindi fondamentale, come lo sono i lavori diMichel Pierssens (Lautréamont. Éthique à Maldoror,Presses Universitaires de Lille, 1984) e Sylvain-Christian David (Isidore Lautréamont, Seghers, Parigi,1992). La bibliografia più completa suDucasse/Lautréamont è reperibile in: Liliane Durand-Dessert, La Guerre sainte, Lautréamont et IsidoreDucasse, Presses Universitaires de Nancy, tome 2,1988, pp. 953-995. In Francia, gli studi su Ducassesono curati in particolare dall’«Association des AmisPassés, Présents et Futurs d’Isidore Ducasse»(A.A.P.P.F.I.D.), la quale editava ogni semestre, dal1987, i Cahiers Lautréamont. Oggi opera sul web:https://cahierslautreamont.wordpress.com/ -ww.maldoror.org

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camera” del Tribunale di Parigi) lo avrebbedissuaso dall’ottemperare agli impegni pre-si8. Ma probabilmente c’era dell’altro.

In un articolo intitolato «Lautréamontet le Dr Chenu», apparso su Le Mercure deFrance del 1° dicembre 1952, Maurice Vi-roux rivela d’aver individuato almeno seipassi dell’Enciclopedia di storia naturalecurata da Jean-Charles Chenu plagiati quasitestualmente da Ducasse all’interno dei can-ti V e VI. Il povero Viroux, da buon filisteo,grida al ladro, e ne approfitta per bacchetta-re severamente il gruppo surrealista, reo aisuoi occhi di un “fanatismo settario, quasireligioso” nei confronti di ciò che egli defi-nisce “lautréamontismo”.

Ora, come giustamente fa notare PascalPia (in Carrefour del 24 giugno 1964), iplagi scoperti da Viroux – ai quali ne vannoaggiunti diversi altri accertati in seguito –,potevano rischiare d’esser ravvisati già nel1869 se Lacroix non si fosse rifiutato di di-

8 Lo ammette lo stesso Ducasse nella lettera aDarasse del 12 marzo 1870: «Ho fatto pubblicare unvolume di poesie da Lacroix (…). Ma una voltastampato, costui si è rifiutato di farlo uscire, perché lavita vi era dipinta con colori troppo amari, ed egli haavuto paura del procuratore generale».

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stribuire il libro, anche perché, ed è benesottolinearlo, l’enciclopedia curata da Che-nu (una cui ristampa era apparsa a partiredal 1867) faceva bella mostra di sé in moltecase borghesi9.

L’opera omnia di Ducasse è una sortadi parodica macchinazione in prosa ai dannidella letteratura moderna: un apparatod’imbrigliamento del senso che dispiegaironicamente sia la munificenza dell’imma-ginario romantico, sia le anomalie del bene– ah, «la famosa idea del bene»!10 –, e chenon risparmia niente e nessuno, neanche ilsuo autore.

Ma se Lautréamont è un enciclopedistadel “mostruoso”, un alchimista del verbodedicatosi scientemente al saccheggio

9 In realtà Viroux non ha fatto altro cheevidenziare e documentare ciò che era già stato intuitoda altri: «Alcuni canti possono essere considerati deiplagi, benché certamente dei plagi volontari» (LéonPierre-Quint, Le Comte de Lautréamont et Dieu, Lescahiers du Sud, «Collection Critique n. 8», Marsiglia,1930, pp. 127-128).

10 Cfr. Poésies, I, in: Lautréamont/GermainNouveau, Œuvres Complètes, Gallimard,«Bibliothèque de la Pléiade», Parigi, 1970, p. 262. Taleedizione, da qui in avanti, verrà indicata con la siglaOC.

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dell’immaginario letterario – e il suo Mal-doror, portandosi ai margini di un mondomistificato da secoli di umanesimo, si faidealmente l’alfiere di un oltrepassamentoimmanente del dato letterario –, il Ducassedelle Poesie, viceversa, sembra giunto alpunto di non ritorno in cui un letterato anti-conformista deve rinunciare alla ribellioneche è solo sulla carta per darsi finalmenteun’azione efficace. E la sua critica dellapoesia, nonostante i limiti storici della pro-pria elaborazione, ha lasciato (anche suomalgrado) indicazioni che vanno analizzatee sviluppate senza indugi da chiunque vo-glia impegnarsi per le future e formidabiliagitazioni poetiche.

Fra le maglie di un testo ci possono es-sere delle idee, dei brani che vanno presi as-solutamente alla lettera, perché palesanosprazzi, intermittenze esemplari di una luci-dità per nulla emendabile.

Criticare l’opera di Ducasse non è maistato particolarmente agevole, dal momentoche essa già contiene in fieri una parte delleproprie confutazioni. Si tratta pertanto dianalizzarla cogliendo le indicazioni e gli

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spunti critici che lo stesso autore vi ha dis-seminato intenzionalmente.

«Maneggiando le terribili ironie»11, ilpoeta pone i fondamenti di un’agitazioneche gli fa accogliere, più o meno inconsape-volmente, la stessa prospettiva delle teorieradicali del suo tempo. Agitazione poetica,quella di Ducasse, che lo conduce ad ab-bozzare, in Poésies, una pragmatica dellarivolta mettendo in discussione, perentoria-mente, la validità e la sopravvivenza di ognicostrutto letterario e morale.

L’amore non si confonde con la lettera-tura; ma i movimenti generati dalla poesia osono all’altezza dell’amore, o non sononiente.

L’ottica del critico dovrà essere la stes-sa del poeta – perché se due baobab posso-no sembrare due spilli12, ciò non dipendesempre e soltanto dall’occhio di chi guarda,ma anche dal tasso di poesia che si ha nelsangue.

11 Les Chants de Maldoror, canto II, strofe 3: OC,p. 83.

12 Cfr. Maldoror, IV, 2: OC, pp. 159-164.

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Volendosi come insurrezione contro lerigidità della filosofia morale, nonché con-tro la decadenza romantica e l’umanesimod’accatto della società borghese, la paroladi Lautréamont si schiera apertamente con-tro la metafisica e i suoi travestimenti mon-dani – ma parallelamente insorge contro glistessi termini coi quali va fissando le pro-prie mistificazioni.

La circospezione e la ferocia che ven-gono richieste al lettore13 sono necessarieproprio per il fatto che una tale sollevazionenon si fonda su un pensiero definito unavolta per tutte. Anzi, le contraddizioni deltesto, i salti, i cambi di registro, sono tanti etali da costringere la prassi della lettura adun continuo aggiustamento di prospettiva.

La rivolta di Maldoror s’apparenta sto-ricamente con l’apologia dell’individuali-smo anarcoide tracciata da Max Stirner14.

13 Cfr. Maldoror, I, 1: OC, pp. 45-46.14 Il parallelo tra Lautréamont e Stirner

(pseudonimo di Johann Caspar Schmidt, 1806-1856) èin gran parte ideale, quantunque sia stato avanzatoanche da altri autori: cfr. Roberto Calasso,«Elucubrazioni di un serial killer», in La letteratura egli dèi, Adelphi, Milano, 2001, pp. 71-88; e FrancescoM. De Sanctis, «Introduzione», in Max Stirner e

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Il discorso di Stirner, preso nella suaglobalità, è una fiumana in cui si sentenziacontinuamente sulla qualità, la forza e lasingolarità dell’io. Attaccando e invalidan-do tutti i valori e le strutture metafisiche delpensiero speculativo occidentale, il filosofotedesco – come una sorta di Sade redivivoche ha masticato Hegel per poi risputarlo –fonda il suo incessante monologo sull’esal-tazione dell’unica realtà che ritiene davveroesistente: vale a dire se stesso, l’unico, ilsovrano “proprietario” di sé, l’egoista illu-minato, avido di godersi compiutamente esenza mezzi termini. La sua, è l’affermazio-

l’individualismo moderno, Atti del convegno omonimo,«Pubblicazioni dell’Istituto Suor Orsola Benincasa»,CUEN, Napoli, 1996, pp. 9-12. L’opera più famosa diStirner, Der Einzige und sein Eigentum, era apparsa aBerlino nell’ottobre del 1844, ma le prime due versionifrancesi furono pubblicate soltanto nel 1900. Diventòben presto la “Bibbia” degli anarchici individualisti.Per i lettori volenterosi, ci sono delle ottime edizioniitaliane dei testi stirneriani, sia dell’opera maggiore(Max Stirner, L’unico e la sua proprietà, Adelphi,Milano, 1979), sia della produzione cosiddetta“minore” (M. Stirner, Scritti minori, EdizioniAnarchismo, Trieste, 2012). Per chi volesseapprofondire Stirner rimando al mio: L’insurrezioneche è qui. Max Stirner e l’unione dei godimenti,Gwynplaine, Camerano (AN), 2017.

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ne dell’uomo che si crea da sé contro tutti iconcetti, e contro lo stesso concetto diunicità – che secondo Stirner è “indicibile”,non afferma nulla, non ha alcunfondamento, e non può neanche esseredefinito attraverso il nostro linguaggio “cri-stiano”, poiché si basa sull’io singolare chenon ha né causa né principî e che, con furi-bonda ironia, si vuole ostinatamente al cen-tro dell’universo. Ma l’egoista stirnerianonon riesce con le sue sole forze a dispiegarepienamente le capacità di cui dispone. Purnon sacrificandosi mai per il bene di unacollettività indistinta o astratta – che non ri-conosce come propria –, giunge tuttavia adassociarsi puntualmente, con alcuni dei suoi“simili”, in quella che Stirner definisceunione degli egoisti. Nasce in tal modo ladimensione relazionale dell’unico, che sibasa dinamicamente su un ri-associarsiininterrotto, un rapportarsi al mondo che dàvita al godimento di sé in legami interindi-viduali che non eclissano le qualità dei sin-goli partecipanti, poiché quest’incessante ri-aversi, nell’ambito della comunanza che sisceglie, tra uomini diversamente unici, noncomporta l’istituzionalizzazione della pro-pria vita di relazione in schemi di potere.

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Nell’associazione propugnata da Stirner,dove ci si fa dono delle proprie forze vitalinell’unione dei godimenti singolari, vieneallora ad affermarsi il bisogno di vivere lapresenza del proprio corpo, di sentire lavita, di farla veramente propria, di goderlanella sua effettiva e caduca unicità, insiemee attraverso l’unicità degli altri. L’uomo sispinge così a concretizzare tutte le esperien-ze che nascono dalla materialità dei corpi.La sua carnalità, il suo desiderio, la sua ri-cerca della gioia lo pongono in uno stato difrenesia da cui parte la conquista del mon-do. Da qui, ogni esperienza viene vissutanell’immediato e nella prospettiva imma-nente della gioia. In tal modo, anche la sof-ferenza, anche gli errori, anche gli stessi li-miti della propria unicità diventano gli ele-menti di un gioco che va significando, gior-no dopo giorno, e senza fine apparente, lacompiutezza immanente della propria vita.

Se l’opera di Stirner risulta ancora oggiuna vera e propria pietra d’inciampo per glispecialisti della filosofia, che si limitano apassarlo sotto silenzio o a bonificarlo mal-destramente in pubblicazioni o congressianodini, il transito di Lautréamont/Ducasse

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in ambito letterario va posto analogamentesotto il segno di uno scompiglio duraturo,soprattutto perché mette in discussione inmodo radicale quello stesso ambito che loha accolto. Anche lo stile dei due autorisembra somigliarsi: è allo stesso tempo iro-nico e pedante, lucido e violento, laceratodai limiti del linguaggio e autoreferenzialefino allo spasimo.

Ci sono diversi passaggi in Stirner chepotrebbero trovar posto tra le pagine diMaldoror15, come pure alcuni brani di

15 Ne propongo soltanto uno ai miei lettori, mache è davvero esemplare: «Io sono “unico”. Ma questotu non lo vuoi proprio. Tu non vuoi che io sia un uomoreale; alla mia unicità tu non dai alcun valore. Tu vuoiche io sia l’“uomo” come tu l’hai costruito, qualemodello per tutti. Tu vuoi rendere norma della mia vitail “plebeo principio dell’uguaglianza”. Principio perprincipio! Esigenza per esigenza! Io ti oppongo ilprincipio dell’egoismo. Io voglio essere soltanto io.Disprezzo la natura, gli uomini e le loro leggi, lasocietà umana e il suo amore; e tronco ogni rapportoobbligatorio con essa, perfino quello del linguaggio. Atutte le pretese del vostro dovere, a tutte le indicazionidel vostro giudizio categorico io oppongol’“atarassia” del mio Io. Sono già arrendevole, se miservo della lingua. Io sono l’“indicibile”,“semplicemente mi mostro”. Con il terrorismo del mioio, che respinge tutto ciò che è umano, non hoaltrettanta ragione quanta ne avete voi col vostro

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quest’ultimo che richiamano alla mente ildiscorso dell’Unico: «Se io esisto, non sonoun altro. Non ammetto in me questa equivo-ca pluralità. Voglio risiedere da solo nelmio intimo ragionamento. (…) La mia sog-gettività e il Creatore, è troppo per un cer-vello solo»16.

Anche in Lautréamont, l’io consapevo-le di sé si ritrova “egoista”, non per devia-zione o accidente, bensì sulla scorta di unascelta di campo quanto mai netta e risoluta.Si è infatti autenticamente se stessi solo nel-la misura in cui non si è per nulla subordi-nati ai fantasmi e alle “idee fisse” della so-cietà. Di conseguenza, facendo leva sullavolontà, sul desiderio e sulla propria forzavitale, le capacità del singolo fondanol’immanenza che travolge la norma. «Sitratta soltanto di non farsi beccare [affermaLautréamont]. La giustizia stabilita dalleleggi non vale nulla; è la giurisprudenzadell’offeso che conta»17.

terrorismo dell’umanità che subito mi qualifica come“non-uomo”, se pecco contro il vostro catechismo, senon voglio che mi si disturbi nel godimento di mestesso?» (M. Stirner, Scritti minori, cit., p. 127).

16 Maldoror, V, 3: OC. p. 197. 17 Maldoror, II, 6: OC, p. 91.

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Il personaggio di Maldoror dispiegaper centinaia di pagine la sua irriducibilesingolarità, impegnandosi a spazzar via ciòche s’interpone fra sé e la soddisfazione deipropri desideri. La sua furia è smisurata. Ilsuo odio contro Dio e la società degli uomi-ni sembra non avere alcun freno. Eppure, inqualche rara occasione, Maldoror riesce ascorgere delle affinità, a nutrire delle sim-patie, a provare finanche dei sentimenti as-sai prossimi all’amore. Pur non subordinan-dosi mai al bene dell’umanità (astrazione dicui non sa che farsene), egli è indotto incerte situazioni ad associarsi con soggettiaffini in una sorta di stirneriana “unione de-gli egoisti”18; anzi, una tale unione, fondatasul godimento e sulla piena reciprocità rela-zionale, lui giunge addirittura a bramarla:«Cercavo un’anima che mi somigliasse, enon potevo trovarla. Frugavo tutti i recessidella terra; la mia era un’inutile perseve-ranza. Eppure, non potevo restare solo.Avevo bisogno di qualcuno che approvasse

18 Si pensi all’episodio dell’accoppiamento con losqualo femmina (Maldoror, II, 13: OC, pp. 121-123) oalle furiose cavalcate in compagnia di Mario (III, 1:OC, p. 131 e sgg.).

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il mio carattere; di qualcuno che avesse lemie stesse idee»19.

L’eroe nero di Lautréamont è “male-dettamente” unilaterale. Approfitta della so-cietà e ne gode; si pone ai margini della co-munità e la sgomenta; abusa delle strutturemorali consolidate e ne trae giovamento perla propria unicità. In altre parole, si battecontro ogni struttura di potere cercando dicreare delle relazioni tra individui diversa-mente egoisti. È la quintessenza del ribelle,quindi, ma è un ribelle che ancora risente ditroppa zavorra nichilista. Se ne libereràpoco alla volta solo facendo propria unanuova idea di poesia e di comunanza.

In chiave materialista, l’esortazione diDucasse ad una poesia sganciata progressi-vamente dalla letteratura, e che accolga esviluppi in sé la propria critica – esortazio-ne che è il principale assunto teorico dellePoésies –, resta l’argomento decisivo cheha permesso alla sua opera di essere amatae sviluppata da alcune fra le menti più luci-de del Novecento (Breton, Debord) e che

19 Maldoror, II, 13: OC, p. 116.

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ancora oggi la rende passibile di ulterioriapprofondimenti.

In ambito culturale, il ruolo giocato daLautréamont/Ducasse è di primaria impor-tanza. Insieme a Sade, è colui che con ognievidenza, e ben prima delle avanguardiestoriche del Novecento, ha inferto i più gra-vi danni all’edificio della letteratura occi-dentale, ponendosi per di più – a differenzadi Sade, dei dadaisti e di molti altri – inun’ottica non semplicemente negativa. Ilmaledettismo di Maldoror, dopo aver af-frontato strenuamente Dio e gli uomini, nonesita a dare forma al suo stesso rovescia-mento, generando quelle contraddizioni cheandranno poi a riverberarsi e ad agire, al-meno in parte, nelle dichiarazioni di princi-pio delle Poésies.

In morte di Maldoror, la letteraturas’inceppa. Il Ducasse delle Poésies è tra iprimi ad aver indicato la necessità, per sal-vare la poesia, di liberarla senza indugi dalpensiero dei poeti. La condanna dell’evasi-vità, della debolezza, della mancanza di ri-gore (nel bene come nel male), ponel’assertore della “verità pratica” al di là delverbalismo ipocrita. La sua risolutezza epi-

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grammatica, lungi dall’essere sintesi he-geliana (e quindi superamento), è molto più“diabolicamente” un aggiustamento eversi-vo e fintamente conformista del “buon sen-so”: le stesse parole ritornano, ma ricusandopuntualmente altre parole, introducono disoppiatto, nell’ordine stesso del discorso, ilsenso esemplare e destabilizzante dell’espe-rienza.

Se la poesia va intesa come un’attitudi-ne libertaria nei confronti del mondo circo-stante, al fine di goderne più o meno com-piutamente (non avallando certo le idee o lamancanza di idee di coloro che gestiscono olegittimano il potere), allora la stragrandemaggioranza dei cosiddetti poeti non haniente a che vedere con la poesia.

La poesia comunemente intesa si limitaa modifiche di poco conto dell’immaginariocapitalista, impiegandosi tutt’al più nellagestione delle presunte alternative alla logi-ca dominante del discorso. Tenendosi per-tanto al riparo dai conflitti della vita reale, ilpoeta non fa altro che celebrare periodica-mente una ricognizione idealistica e pateti-ca della propria libertà di parola.

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Non ha più senso attribuire alla poesiasoltanto un prestigio formale. Da Ducassein poi (passando per Rimbaud e Artaud), lapoesia non è più semplicemente un affare diparole, forme ed elementi estetici, e nonpuò più esserlo innocentemente, perché sesi riducesse al solo ambito letterario, fini-rebbe per porre dei limiti alla ricerca dinuove esperienze e passioni.

Al di là dell’estetica, esiste una praticadella poesia che consiste in una ricerca diautonomia e di godimento, da partedell’uomo, nel proprio percorso vitale.

La poesia si legge sui corpi – la pelledegli uomini è anche una lavagna – quindi èindispensabile creare volti, sessi, dioramicarnali che siano all’altezza della volontàche ci rende autonomi e fieri.

Isidore Ducasse nutriva chiaramentedelle ambizioni letterarie. Ciò emerge inmaniera inequivocabile dagli scampoli dicorrispondenza che ci sono rimasti20. La

20 Si veda ad es. la lettera del 23 ottobre 1869indirizzata a Poulet-Malassis: «Quel che vorrei, è chefosse fatto il servizio stampa ai principali critici dellunedì. (…) Quel che desidero prima di tutto, è diessere giudicato dalla critica, e, una volta noto, tutto

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cosa che però sconcerta è l’ingenuità chedimostra nel pretendere bellamente cheopere come Les Chants de Maldoror o Poé-sies, all’epoca prevedibilmente indigeste,potessero consentirgli di farsi varco nel mi-lieu letterario del Secondo Impero. Conogni evidenza, egli aveva sovrastimato lecapacità ricettive dei suoi contemporanei –forse sulla scorta della notorietà di alcunipoeti maudits come Baudelaire – non ren-dendosi conto (ma è mai possibile?) chel’apparato mistificatorio ordito dai suoi te-sti, essendo una riscrittura esacerbata o sar-castica dei clichè letterari dell’epoca, mina-va pericolosamente l’arte e se ne facevabeffe, anticipando così di oltre mezzo seco-lo la critica dada e surrealista.

Le stesse Poésies – che dovevano rap-presentare, nelle intenzioni più o meno sin-cere dell’autore, un passaggio netto dalmale esaltato nei Canti al bene di una nuo-va prassi etica –, sono in realtà un attaccodurissimo a tutta la letteratura dell’Ottocen-to. Uno che schernisce il “sommo” VictorHugo, o mette sullo stesso piano Lord By-ron e un noto assassino dell’epoca come

andrà da sé».

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Troppmann, non può sperare di essere presosul serio dalla critica borghese! D’altronde,il fatto che Ducasse abbia usato uno pseu-donimo (e all’inizio persino l’anonimato)per pubblicare il suo Maldoror, la dice lun-ga su certe preoccupazioni di ordine praticoche dovevano inquietarlo, il che però nongli ha impedito, evidentemente, di sviluppa-re e dare alle stampe un’opera concitata,scomposta e che è fondata in gran parte suun’ironia premeditata e devastante.

In meno di due anni, ossia dall’agosto1868 al giugno 1870, Ducasse dilapida unapiccola fortuna per pubblicare le sue operein conto d’autore: all’incirca la metà delreddito annuo di una modesta famigliadell’epoca21.

I soldi sono in realtà del padre, Fra-nçois Ducasse, cancelliere del consolatofrancese a Montevideo, il quale elargisceuna pensione mensile al suo giovane ram-pollo installatosi a Parigi.

21 Solo per la stampa di Maldoror, Ducasse avevaanticipato a Lacroix 400 franchi. Una bella cifra se sipensa che in Francia, nel 1867, il reddito annuo mediodi un operaio adulto era di 1273 franchi, mentre quellodi un’operaia ammontava appena a 597 franchi!

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Isidore è nato nella capitale uruguaianail 4 aprile 1846. Entrambi i genitori sonooriginari della zona di Tarbes, capoluogodel dipartimento degli Hautes-Pyrénées, nelSud-Ovest della Francia22. Sua madre, Céle-stine Jacquette Davezac, muore quando luiha appena venti mesi.

Non si sa pressoché nulla dei primianni di vita d’Isidore e della sua formazionein quel di Montevideo. Benché si possa ipo-tizzare un’istruzione primaria con precettorifrancesi, la sua infanzia è certamenteall’insegna del bilinguismo (ha infatti dime-stichezza anche con lo spagnolo) di cui re-sterà qualche debole traccia nella sua ope-ra23.

22 Il padre era nato il 12 marzo 1809 a Bazet,piccolo borgo a 7 km da Tarbes.

23 Si veda: E. Rodriguez Monegal e L. Perrone-Moises, «Isidore/Isidoro ou le bilinguisme deDucasse», Cahiers Lautréamont, XXIII-XXIV, 1992,pp. 47-53. Attestazione innegabile di una familiaritàcon lo spagnolo, la nota autografa di Ducasse rinvenutanel 1975 su un tomo spaiato delle opere di Omero(Obras de Homero, La Iliaca, tomo II, traduz. di JoséGomez Hermosilla, Parigi, 1862): «Propriedad [sic]del señor Isidoro Ducasse nacido en Montevideo(Uruguay) – Tengo tambien “Arte de Hablar” delmismo autor [altra opera del traduttore Hermosilla]. 14avril [sic] 1863.»; cfr. J.-J. Lefrère, Isidore Ducasse,

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Nel 1859 il padre lo invia in Franciaper continuarvi gli studi. A ottobre, Isidoreentra difatti come convittore al liceo impe-riale di Tarbes, dove resterà fino al 1862, le-gandosi d’amicizia ai suoi condiscepoliGeorges Dazet e Henri Mue, che figureran-no successivamente nella dedica di Poésies.

Durante l’anno scolastico 1862-63 sene perdono le tracce, ma presumibilmenteDucasse recupera un ritardo negli studipresso un collegio privato. Rispunta poicome interno della classe di Retorica al li-ceo di Pau nell’ottobre 1863. A Pau cono-scerà altri futuri dedicatari di Poésies, ossiail professore Gustave Hinstin e i compagnidi studi Lespès, Minvielle e Delmas.

Nel novembre 1865 Isidore consegue ilbaccalauréat ès lettres, titolo di studio cor-rispondente alla nostra maturità classica, eprepara successivamente, sempre a Pau, ilbaccalauréat ès sciences, ossia la maturitàscientifica dell’epoca, al cui esame finaleviene ammesso, ma senza che si abbianoprove di un suo effettivo superamento.

Della permanenza di Ducasse a Pau ciresta un curioso documento, scoperto nel

cit., pp. 199-203.

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1992 da Jean-Pierre Lassalle sfogliandonella biblioteca del liceo un vecchio libro difilosofia: Esquisses de philosophie moraledi Dugald Stewart (1841)24. Su questo volu-me gli studenti annotavano per gioco, a pro-mozione avvenuta, il loro cognome o quellodei compagni, aggiungendovi un’indicazio-ne d’appartenenza a una scuola filosoficareale o immaginaria. La lista della promo-zione 1864-‘65 comprende otto nomi, tracui quello di Ducasse, che vi compare conl’epiteto di «philosophe incompréhensibili-ste» (“filosofo incomprensibilista”), un tito-lo affibbiatogli forse, chissà, per le contor-sioni del suo pensiero e che fa andare lamente ai “pederasti incomprensibili” di unastrofe del Canto V25.

Il 21 maggio 1867 la prefettura di Tar-bes rilascia a Ducasse un passaporto perMontevideo. Egli parte quindi da Bordeaux,il 26 dello stesso mese, imbarcato sul velie-ro Harriet. Non si conoscono i motivi del

24 Cfr. J.-P. Lassalle, «La bibliothèque du lycée dePau», in: AA.VV., Lautréamont et Laforgue dans leursiècle, atti del convegno omonimo (1993), CahiersLautréamont, XXXI-XXXII, Du Lérot éditeur, Tusson,1994.

25 Cfr. Maldoror, V, 5: OC, p. 202.

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ritorno in Uruguay. Si può comunque ipo-tizzare che in tale occasione convinca il ge-nitore a sostenere materialmente la sua vo-cazione letteraria. Sta di fatto che, tral’autunno del 1867 e la primavera dell’annoseguente, egli si trasferisce a Parigi, dovealloggerà in modo continuativo (pur cam-biando diverse volte indirizzo) in uno deimigliori quartieri della capitale, quello chesorge intorno al boulevard Montmartre.

L’autore di Maldoror è rimasto a lungosenza volto. Nessun dagherrotipo ce ne mo-strava le fattezze, e le rare descrizioni fisi-che erano tutte approssimative, contraddit-torie. Il suo condiscepolo Paul Lespès si ri-cordava di un «giovane alto, magro, con laschiena un po’ curva, la carnagione palli-da, i lunghi capelli ricadenti sulla fronte, lavoce stridula»26; l’editore Genonceaux, cheriportava alcuni ricordi di Lacroix o di Dos-seur, aveva parlato di un «giovane alto,bruno, imberbe, irrequieto, assennato e la-borioso»27; mentre l’amico di famiglia Pru-

26 «Souvenirs de Paul Lespès», in: OC, p. 1024.27 L. Genonceaux, in: Lautréamont/I. Ducasse,

Œuvres Complètes, Corti, p. 11. Dosseur era stato ilsuccessore di Darasse, ossia del banchiere parigino di

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dencio Montagne lo descriveva invececome «un giovane bello ma turbolento, agi-tato, insopportabile»28.

L’unica immagine verosimile d’IsidoreDucasse è stata scoperta una trentina d’annifa da Jean-Jacques Lefrère in un album del-la famiglia Dazet a Tarbes. L’identità delgiovane effigiato – un amico di famiglia or-mai del tutto ignoto ai discendenti di Geor-ges Dazet – è stata dedotta dalla collocazio-ne della foto in questione, situata (forse nona caso) accanto ad un ritratto del cancelliereFrançois Ducasse29.

Alla mancanza o all’incertezza di unvolto, va poi aggiunta l’assenza di una tom-ba. Il corpo di Ducasse fu inumato il 25 no-vembre in una concessione temporanea delcimitero di Montmartre (n. 9257 del regi-stro delle entrate del 1870) e poi trasferitoin un’altra concessione temporanea e gra-

François Ducasse.28 Testimonianza riportata dal nipote Edmundo

Montagne in un articolo apparso sul periodicoargentino El Hogar il 20 novembre 1925: «El conde deLautreamont, poeta infernal, ha existido. Su vida enMontevideo, su misterio, su libro execrable y genial».

29 Cfr. J.-J. Lefrère, Le visage de Lautréamont.Isidore Ducasse à Tarbes et à Pau, Pierre Horay,Parigi, 1977.

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tuita il 20 gennaio 1871 (n. 1666 del re-lativo registro). Quella parte del cimitero fuperò dismessa nel 1879 e utilizzata dallamunicipalità di Parigi per altri usi, come ades. la costruzione dell’ospedale Bretonneaunel 1900. Una parte delle spoglie mortalidelle collocazioni temporanee fu quindi tra-sferita negli ossari di diversi cimiteri dellaperiferia, ma molte sepolture vennero la-sciate sul posto e ricoperte un po’ alla voltadai nuovi edifici. Nessuno reclamò i resti diDucasse, neanche il padre, che era tornatoper alcuni mesi in Francia nel 1873 per ven-dere delle proprietà di famiglia dopo lamorte del fratello maggiore Marc. Una taleindifferenza, da parte di François Ducasse,tradisce un rapporto non certo idilliaco ver-so la memoria del figlio. È quindi ipotizza-bile che Isidore sia morto in circostanze“vergognose” e che a Parigi conducesse unavita non certo morigerata (assunzione didroghe? Pederastia?). In caso contrario, ilcomportamento del cancelliere risulterebbedel tutto inspiegabile.

Stando a ciò che si può desumere da unbrano del Canto IV e dagli scampoli di cor-

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rispondenza che ci sono rimasti30, la saga diMaldoror doveva essere nelle intenzioni diDucasse un’apologia del bene basata sullapiù fosca e violenta rappresentazione delmale: un’accentuazione così forte degli sti-lemi espressivi del romanticismo da sgo-mentare il lettore inducendolo ad abbraccia-re senza remore la causa del bene; ma evi-dentemente i fini morali dell’autore nonerano così lampanti, se si pensa all’acco-

30 Cfr. Maldoror, IV, 2: OC, pp. 162-163: «Fino aitempi nostri, la poesia ha battuto una strada sbagliata;elevandosi fino al cielo o strisciando fino a terra, hamisconosciuto i principî della propria esistenza, ed èstata, non senza ragione, costantemente irrisa dallagente onesta. Non ha avuto modestia… la qualità piùbella che debba esistere in un essere imperfetto!Quanto a me, io voglio mostrare le mie qualità; manon sono abbastanza ipocrita da nascondere i mieivizi! Il riso, il male, l’orgoglio, la pazzia, apparirannodi volta in volta tra la sensibilità e l’amore per lagiustizia, e serviranno da esempio alla stupefazioneumana: ognuno vi si riconoscerà, non quale dovrebbeessere, ma quale è. E forse, questo semplice ideale,concepito dalla mia immaginazione, sorpasserànondimeno tutto ciò che la poesia ha trovato fin qui dipiù grandioso e sacro. Poiché, se lascio trasparire imiei vizi in queste pagine, si crederà ancor più allevirtù che vi faccio rifulgere, la cui aureola porrò cosìin alto che i più grandi geni dell’avveniretestimonieranno per me una sincera riconoscenza».Cfr., anche, la lettera a Darasse del 12 marzo 1870.

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glienza diffidente o decisamente negativadei suoi primi lettori (Lacroix su tutti), percui Ducasse decide di cambiare metodo, purmantenendo o dicendo di mantenere ilmedesimo obiettivo, ossia la difesa del benee la lotta contro l’ammorbante letteraturadell’epoca.

Dallo smacco di Maldoror, dalla sfidu-cia nelle forme chiuse del testo (romanzo,strofe poetica, ecc.) – che non reggono piùil dinamismo e la complessità del moderno–, nasce quindi l’idea-guida di un’opera cheintegri poesia, filosofia e morale; opera cheparte formalmente da una minuta scomposi-zione delle meccaniche di pensiero (e dellestrutture testuali esistenti) al fine di conden-sarne taluni punti, anche contraddittori –perché contraddittoria è la realtà –, in unmovimento di massime, apoftegmi e bran-delli di senso che rendano tangibile l’espe-rienza del mondo e la testimonianza di unavolontà nel suo logico divenire.

I toni programmatici dell’epigrafe diPoésies I («Sostituisco alla malinconia ilcoraggio, al dubbio la certezza», ecc.) sem-brano non lasciare dubbi sulle buone inten-zioni di Ducasse, ma il lettore accorto si av-vede dopo poche righe che il testo non è poi

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così scontato; ogni frase è perentoria, netta,sembra scolpita nel granito, ma il succeder-si delle asserzioni è sfuggente, sornione,quasi irritante. Anzi, i problemi nascono findal titolo della pubblicazione. Perché Poe-sie? Eppure non siamo di fronte ad un’ope-ra in versi31, né ad un semplice trattato dipoetica; inoltre, l’autore stesso, nella dedicadi Poésies I, definisce la sua opera un’insie-me di «prosaïques morceaux». Quindicome spiegarlo?... Io credo che le interpre-tazioni, peraltro concatenate, siano essen-zialmente due. Anzitutto ogni aforisma diDucasse va considerato in sé come una“poesia”, vale a dire come una microstruttu-ra testuale risultante da un’esperienza “poe-tica” o che mira ad esserlo – in altre parole,ogni capoverso di Poésies è la trascrizionerigorosa, ma soggetta a sviluppi incessanti,di un momento creativo che è stato espressoed inverato po-eticamente attraverso il flus-so logico delle idee. C’è poi la volontà pro-

31 Nella Francia dell’Ottocento, il vocabolopoésie non indicava soltanto il genere letterario, maanche (come oggi usualmente poème) la composizionein versi o in prosa poetica. Lo stesso Ducasse definisceLes Chants de Maldoror, nella lettera a Darasse del 12marzo 1870, «un ouvrage de poésies».

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gettuale, da parte dell’autore, di svecchiarele forme della poesia («Bisogna che ioscriva in versi per distinguermi dagli altriuomini? Che la carità si pronunci!») inmodo da agganciarle alla ricerca di un sape-re a tutto campo, critico, progressivo, equindi in accordo con i segni del mondo econ la meraviglia dell’uomo che vi si riflet-te cercandosi.

Ogni opera dell’ingegno umano con-serva tracce del movimento creativo e ma-teriale che l’ha generata. Ma studiare la re-golarità di queste tracce, se non si restaaperti alla ricerca, conduce spesso alla su-perstizione dell’universalità, alla rincorsa diuna totalità astratta, monolitica, mentrel’insieme delle “cose umane”, a ben guarda-re, specialmente dopo la morte di Dio (ilgrande collante universale), è sempre stata esempre sarà alla mercé del dettaglio.

La civiltà annoia. La “prosaicità” delrealismo soffoca la meraviglia. Non c’èvita, non c’è salvezza nella stabilità. Solo laparticolarità della poesia e del pensiero filo-sofico più eterodossi, è ciò che meglio puòrendere la verità del movimento, perchéessa lo evoca, lo prepara, lo sottrae alla si-

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gnificazione ultima, ne mantiene l’aperturadecisiva verso il sopravanzare delle diverserealtà che lo originano, designandoparimenti quella regione dove tutto il realeesiste o resiste nel frammento, dove ciò cheè avvenuto è tuttavia da ricominciare, edove ciò che ricomincia non sarà mai sededell’inerzia mentale.

Scrivendo al banchiere Darasse il 12marzo 1870, Ducasse illustra brevemente letraversie del suo Maldoror e parla diun’opera su cui sta lavorando e che termi-nerà nel volgere di 4 o 5 mesi; chiede inol-tre 200 franchi per stamparne la prefazionedi 60 pagine in modo da inviarla al padre,così da rassicurarlo sul fatto che lavora econvincerlo parimenti a pagare il seguitodella pubblicazione. Nella stessa missiva, cisono peraltro degli spunti che confluirannoparola per parola in Poésies I («Les gémis-sements poétiques de ce siècle…», «lesGrandes-Têtes-Molles de notre époque»).

Venti giorni prima, Ducasse aveva giàtratteggiato sommariamente, nella lettera aPoulet-Malassis del 21 febbraio, obiettivi emetodo del nuovo lavoro: «Lei deve sapereche ho rinnegato il mio passato. Non canto

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più che la speranza; ma, per questo, biso-gna anzitutto attaccare il dubbio di questosecolo (malinconie, tristezze, dolori, dispe-razioni, nitriti lugubri, malvagità artificiali,orgogli puerili, maledizioni buffonesche,ecc.). In un’opera che porterò a Lacroix aiprimi di marzo, prendo a parte le più bellepoesie di Lamartine, di Victor Hugo, di Al-fred de Musset, di Byron e di Baudelaire, ele correggo nel senso della speranza; indi-co come si sarebbe dovuto fare. Correggoallo stesso tempo 6 fra i brani peggiori delmio benedetto libro».

Nei mesi di aprile e giugno del 1870escono i due fascicoli di Poésies (che insie-me fanno una quarantina di pagine), i qualiper decenni verranno ritenuti impropria-mente, da gran parte della critica, quellaprefazione cui si riferiva Ducasse32.Quest’ultimo, in realtà, aveva abbandonatol’idea di un nuovo ponderoso lavoro (forseperché troppo costoso), optando tipografi-camente per una più snella e dinamica«pubblicazione permanente», le Poésies ap-

32 L’edizione Corti delle Œuvres portava ancoranel 1953 come sottotitolo: «Préface à un livre futur»(cit., p. 359).

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punto, in cui far confluire col tempo i ri-sultati della sua convulsa ricerca poetica.

Il fine dichiarato di Ducasse – “attacca-re il dubbio” per “cantare la speranza” – è ilfilo rosso che lega i due numeri di Poésies:costruzione appena abbozzata di una poesiaraziocinante che mira a stigmatizzare la fri-volezza di chi, accontentandosi di fare lette-ratura, si rivolta idealisticamente controDio, l’uomo e il mondo. Nel primo numero,l’attacco contro le immagini e gli araldi del“dubbio” è quanto mai puntuale, feroce,senza alcun cedimento. Basterebbe il soloelenco iniziale, di oltre un centinaio di “tic”letterari dell’epoca, per fare di Poésies I uncaposaldo imprescindibile della critica mo-derna. E che dire della folgorante serie diepiteti affibbiati alle Grandes-Têtes-Mol-les? Nessuno tra i maggiori letteratidell’Ottocento sembra salvarsi. Il sarcasmodi Ducasse è travolgente. Ai suoi occhi c’ètroppa letteratura d’occasione, ed è pergiunta brutta, malfatta, indigeribile. Il ro-manzo poi è morto, è «un genere falso», ad-dirittura immorale. Quanto ai poeti, la loroinclinazione a cantare il dolore e le brutturedella vita va combattuta con estremo rigore,in modo da lasciare il posto alla creazione

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del “bene”. Insomma, sembra quasi che perDucasse tutta la letteratura sia ormai ditroppo e che ci sia bisogno di una radicalepalingenesi.

L’azione del poeta si pone quindi in unrapporto dinamico con l’esistente, dandosicome obiettivo primario lo sviluppo del sa-pere acquisito, anche di quello fintamentealternativo alla logica dominante, e per fareciò adotta la massima – lo stile aforistico –come forma ideale del pensiero33, interve-nendo direttamente sul corso delle idee (ov-vero sulla loro formulazione) attraverso latecnica del plagio.

Il metodo è esposto succintamente, macon grande chiarezza, in tre capoversi diPoésies II: «Le parole che esprimono ilmale sono destinate ad assumere un signifi-cato utile. Le idee migliorano. Il senso del-le parole vi partecipa. | Il plagio è necessa-rio. Il progresso lo implica. Esso incalza lafrase di un autore, si serve delle sue espres-sioni, cancella un’idea falsa, la sostituiscecon l’idea giusta. | Una massima, per esse-

33 «Un ragionamento si completa quanto piùs’avvicina alla massima», scrive Ducasse in Poésies II.

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re ben fatta, non richiede correzioni.Chiede di essere sviluppata»34.

Sempre in Poésies II, e impiegandomassicciamente il suo metodo plagiarista,Ducasse si applica a “sviluppare” il sapereche gli è stato inculcato a scuola (Pascal,Vauvenargues, ecc.), nonché a “correggerenel senso della speranza” quello di autoriche ha sicuramente amato (Hugo, Lamarti-ne) e persino a rimaneggiare un brano delsuo Maldoror35 – opera che già conteneva,come si è detto, numerosi plagi non dichia-rati.

La parola plagio viene dal tardo latinoplàgium, che designava il delitto di chi ri-duceva in schiavitù un uomo libero, oppuresottraeva servi o bestiame ad altri, significa-to che ritroviamo ancora oggi nell’accezio-ne giuridica di plagio come “illecito assog-gettamento di una persona tramite la priva-

34 I passi che vanno da «Le idee migliorano» finoa «l’idea giusta» sono stati ripresi testualmente da GuyDebord, senza citarne la fonte, in La Société duspectacle, Buchet/Chastel, 1967, tesi 207.

35 Un solo brano, e non sei come si dice nellalettera a Poulet-Malassis, nella quale, tra l’altro, siparla di alcuni autori, come Byron e Baudelaire, chenon pare siano stati plagiati in Poésies.

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zione di ogni sua autonomia di giudizio ed’iniziativa”. Il latino plàgium, a sua volta,aveva origine dal greco plàgion, chesignificava “cosa fraudolenta, dolosa, obli-qua”. Da plàgium è derivato plagiàrius, chein Marziale diventa “ladro di libri”36.

La ragione della poesia si mette in mar-cia. Fomenta la critica. Rigenera concetti.Si serve abusivamente delle idee. Non haindugi nel sovvertire le forme per stabilireun nuovo inizio. Agli occhi dei più, soprat-

36 Cfr. Marco Valerio Marziale, Epigrammi, libroprimo, LII: «Commendo tibi, Quintiane, nostros – |Nostros dicere si tamen libellos | Possum, quos recitattuus poeta –: | Si de servitio gravi queruntur, |Advertor venias satisque praestes, | Et, cum sedominum vocabit ille, | Dicas esse meos manuquemissos. | Hoc si serque quaterque clamitaris, | Inponesplagiario pudorem.»; si dà qui di seguito la versione diSimone Beta (Mondadori, 1995): «Ti affido,Quinziano, i miei libri – | sempre se posso chiamaremiei | i libri che declama il tuo amico poeta: | se silamentano della pesante schiavitù | difendili tu,testimonia per loro, | e se chi li declama dirà di essereil loro padrone, | tu devi dire che sono miei, che io li holiberati. | Se dirai questo più di una volta a voce alta, |costringerai il plagiario a provare un po’ di pudore.».Per inciso, si ricorda che il liber primus degliepigrammi di Marziale fu pubblicato a Roma nell’86d.C., e che a quei tempi non esisteva il diritto d’autore.

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tutto dei letterati che mercanteggiano con leparole, il plagio è un lavoro “sporco”,illecito, inaccettabile, ma in realtà, op-ponendosi al pressappochismo degli inetti,la ricombinazione critica di idee e formeormai logore può affinare, ed anche rilan-ciare, le capacità creative di chi se ne serve.

L’uso del plagio teorizzato da Ducasseè un uso critico, etico, per la soppressionedei ritardi del pensiero, e non certo in fun-zione del bello in letteratura. Ciò implicache si abbia l’intelligenza, la volontà, laprotervia di approfondire le idee – e nonche ci si abbandoni ad un mero gusto per ladissacrazione.

Pur partendo dal presupposto che ilplagio esiste perché, nell’ambito della so-cietà capitalista, esistono i limiti fissatidall’autore e dai suoi diritti, occorre sottoli-neare che il plagio, in senso ducassiano,non è spoliazione, non è appropriazione diciò che appartiene ad alcuni, bensì movi-mentazione e sviluppo di ciò che può appar-tenere a tutti.

In linea teorica, con l’adozione di tec-niche plagiariste e un minimo di cognizioni,chiunque può diventare scrittore, artista,“ladro di fuoco”; tuttavia, restando

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nell’ambito ristretto della creazione esteti-ca, non tutti saranno capaci di generareesperienze in grado di muovere il mondo oil pensiero dell’uomo. Qui non si tratta didemocratizzare, di socializzare il più possi-bile l’arte, o almeno non soltanto di questo.L’enfasi va posta, anziché sul soggettocreatore che si rigenera ad ogni nuovo mon-taggio del sapere, soprattutto sulla padro-nanza e la dinamicità delle idee che posso-no condurre gli uomini ad avventure collet-tive e ricche di senso.

In parole povere, il plagio è una tecnicadi movimento – di “progresso” –, non unsemplice procedimento artistico.

(Digressione di carattere incidentale.Non si può abbandonare l’opera all’indi-stinto. I processi creativi sfuggono raramen-te alla designazione di un concatenamentooriginario, ma chiunque può farsi veicolo oultimo istigatore di un pensiero. Il flussodelle idee viene sempre verificato dall’espe-rienza dell’uomo che vi si richiama. L’ope-ra stessa è destinata a un incessante rifaci-mento, ma ha senso soltanto se vi ritrovo one traggo la mia esperienza. Per com-pren-dere un testo, per distruggerne l’eventuale

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ambiguità, lo si deve costringere ad unacontinua verificazione, sia in rapporto allasua diffusione, sia impedendo al discorso di“fare opera” in sé. L’opera è la voce del suofacitore, ma è anche un processo destinatoinevitabilmente a divenire collettivo, a piùvoci, in un azione del linguaggio non piùsolo su se stesso – e soprattutto in un azionecomune contro i limiti del linguaggio. Lesofisticherie sulla morte del soggetto e sullostatuto dell’autore mi lasciano indifferente.Il mio pensiero m’appartiene interamentefinché non lo manifesto, finché non ho pa-role per metterlo al mondo; una volta ester-nato, il suo senso non mi sfugge, ma reca insé una promessa d’incontro nei riguardi dichi l’intende, aprendomi al mondo in unalogica di reciprocità e gratuità. Quandol’uomo è soddisfatto – e lo è soltanto insie-me o per mezzo degli altri – non ha bisognodi apporre la sua firma in calce alla propriasoddisfazione).

Nessuna recensione dei due numeri diPoésies è stata finora rintracciata sullastampa dell’epoca. A quanto pare, Ducassedovette accontentarsi di un paio d’inserzio-ni apparse nel luglio 1870 su modesti fogli

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letterari. La prima fu pubblicata su La Re-vue populaire de Paris: «POÉSIES |DEUXIÈME FASCICULE, par ISIDORE DU-CASSE | auteur de MALDOROR, 7, Fau-bourg-Montmartre, prix, ad libitum», dovecuriosamente si associa a Maldoror il veronome dell’autore, segno di una probabiledisaffezione di Ducasse nei confronti dellopseudonimo usato in precedenza, al qualeperaltro egli non fa alcun accenno nelle suelettere e che forse gli era stato imposto daLacroix. Il secondo annuncio compare inve-ce su L’Annuaire philosophique ed è anchepiù scarno: «Poésies, par Isidore Ducasse,broch. in-8°, librairie Dentu»37.

Dopo la morte di Ducasse, Lacroixcede l’edizione originale di Maldoror al li-braio Jean-Baptiste Rozez di Bruxellex, chela rilega e la commercializza con una coper-tina diversa38. È questa l’edizione che finirà

37 Il punto vendita indicato su L’Annuairephilosophique non è più la piccola libreria Gabrie,come riportato sulle copertine di Poésies I e II, bensì lalibreria Dentu, una delle più grandi e prestigiose nellaParigi del 1870.

38 Les Chants de Maldoror, par le comte deLautréamont (Chants I, II, II, IV, V, VI), Parigi eBruxelles, 1874, tipogr. E. Wittman, volume in-16, 333pp.

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tra le mani di alcuni giovani scrittori belgiche, non solo ne pubblicheranno un estrattosulla loro rivista nel 188539, ma ne spediran-no pure alcune copie in Francia a Bloy,Huysmans e Péladan. Léon Bloy, a sua vol-ta, dedicherà a Les Chants de Maldoror cin-que paragrafi del romanzo Le Désespéré eun articolo sul periodico La Plume, restan-do però convinto che l’autore avesse finito isuoi giorni rinchiuso in manicomio40. Dellostesso avviso sarà Remy de Gourmont, chenel 1891 rivela l’esistenza dei due fascicolidi Poésies, dei quali fino ad allora si erapersa ogni traccia41. Ma bisogna attendere il1914 perché Valery Larbaud ricordi sullepagine di La Phalange la presenza alla Bi-bliothèque nationale dei soli esemplari notidi Poésies42. Venuto a conoscenza dell’arti-

39 Vicomte [sic] de Lautréamont, Maldoror [strofe11 del Canto I], La Jeune Belgique, IV, 5 ottobre 1885.

40 Léon Bloy: Le Désespéré, A. Soirat, 1886, pp.39-40; «Le Cabanon de Prométhée», La Plume, 1°settembre 1890.

41 Remy de Gourmont, «La littérature“Maldoror”», Le Mercure de France, II, febbraio 1891,pp. 97-106.

42 Valery Larbaud, «Les Poésies d’IsidoreDucasse», La Phalange, 20 febbraio 1914, pp. 148-155.

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colo di Larbaud, sarà André Breton aricopiare a mano Poésies I e II e a pubbli-carne il testo sulla rivista Littérature nel191943.

A partire da quel momento, ha inizio lafortuna postuma di Ducasse. I suoi testivengono salvati definitivamente dall’oblio.Le riedizioni di Maldoror e delle Poésiess’infittiscono. E nasce, tra le due guerremondiali, l’agiografia surrealista di Lau-tréamont.

Per Breton l’opera del montevideano èla quintessenza stessa della rivolta e sembraaccordarsi alla perfezione con il bisogno dicambiamento radicale che molti giovani in-tellettuali avvertono prepotentementeall’indomani della Grande Guerra: «Agli

43 Il testo di Poésies I apparirà con una nota diBreton sul n. 2 di Littérature (aprile 1919, pp. 2-13),mentre quello di Poésies II verrà pubblicato sul n. 3(maggio 1919, pp. 8-24). Per indagare l’influsso diDucasse/Lautréamont sul giovane Breton (e sui futurisurrealisti parigini): Margherite Bonnet, André Breton.Naissance de l’aventure surréaliste, José Corti, Parigi,1988, pp. 140-147 e passim; nonché: Aragon,Lautréamont et nous, Sables, Pin-Balma, 1992 (testoapparso originariamente in due puntate su LettresFrançaises del 1° e dell’8 giugno 1967).

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occhi di certi poeti d’oggi, i Canti di Mal-doror e le Poesie risplendono di un baglioreincomparabile; sono l’espressione di unarivelazione totale che sembra eccedere lepossibilità umane. (…) Un occhio assoluta-mente vergine fa la posta al progredirescientifico del mondo, va oltre il caratterescientemente utilitario di tale perfeziona-mento, lo situa con tutto il resto nella lucestessa dell’apocalisse. Apocalisse definiti-va, quest’opera, in cui si smarriscono e siesaltano le grandi pulsioni istintive al con-tatto d’una gabbia d’amianto in cui è rin-chiuso un cuore al calor bianco. Tutto ciòche di più audace si penserà e s’intrapren-derà attraverso i secoli, ha trovato qui unaformulazione preliminare della sua leggemagica. Il verbo, non più lo stile, subiscecon Lautréamont una crisi fondamentale,segna un nuovo inizio. La si fa finita coi li-miti che costringevano i rapporti tra parolae parola, tra cosa e cosa. Un principio dimutamento perpetuo si è impadronito deglioggetti come delle idee, e tende alla lorototale liberazione, la quale, a sua volta, im-plica quella dell’uomo»44.

44 André Breton, introduzione a Lautréamont,Œuvres complètes, G.L.M., Parigi, 1938; ora in:

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Il movimento Dada, negli anni chevanno dal 1916 al 1922, si era posto comenegazione delle ultime propaggini del ro-manticismo e della cultura razionalista, manon aveva mai voluto darsi uno sviluppoprogrammatico, né tanto meno una praticacoerente che andasse al di là del mero gustoper lo scandalo e la provocazione. La nega-zione dell’arte e della letteratura “borghesi”aveva finito così per assumere le forme diun’arte negativa – ma che era pur sempre ecomunque arte, e quindi pensiero separato,specializzato, circoscritto all’ambito esteti-co e che istituzionalizzava di fatto la tra-sgressione –, senza porsi il problema di sa-nare la frattura tra soggetto e oggetto inseno alla civiltà occidentale, né quello dicolmare la distanza fra il mondo della cultu-ra e una società europea ormai sconquassatada guerre e convulsioni rivoluzionarie.

I surrealisti francesi cercheranno inve-ce coscientemente una ricomposizione inchiave politica dei processi culturali nonconformisti, magari santificando Vaché eSade, appropriandosi di Lautréamont, imba-

Lautréamont/Ducasse, O. C., Corti, 1953, cit., pp. 42-43. Il testo è lo stesso della nota su Ducasse che Bretoninserirà nell’Antologia dell’humour nero (1940).

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stardendo Rimbaud con Marx, ma se nonaltro nel tentativo di oltrepassare il momen-to della negazione in una dinamica politico-culturale tendente a ricollocare unitaria-mente i vari segmenti di vita dell’uomo mo-derno (sogno, idee, poesia, amore, ecc.).

Sulla funzione del poeta la posizioneteorica dei surrealisti è piuttosto netta: ac-cettando per le arti la gerarchia stabilita daHegel – secondo il quale la poesia, in quan-to unica “arte universale” e “vera arte dellospirito”, prevale su tutte le altre rappresen-tazioni della vita – l’attività poetica non vasubordinata ad alcunché, e men che meno auna qualche azione politica (sia pure rivolu-zionaria), pena l’immediato decadimentodel poeta a semplice “agente pubblicitario”di questa o quell’idea per conto di una qual-sivoglia formazione politica45.

45 Si veda ad es. il duro attacco sferrato daBenjamin Péret ai poeti francesi della Resistenza conl’opuscolo Il disonore dei poeti (1945), dove Péretdifende a spada tratta l’assoluta autonomia dell’attopoetico – e quindi dell’atto creativo in senso lato –anche nei confronti della politica rivoluzionaria: B.Péret, Les Déshonneur des poètes, in Œuvrescomplètes, tome 7, José Corti, Paris, 1995, pp. 7-12;traduz. italiana in: B. Péret, Sparate sempre prima di

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La poesia c’è sempre stata e sempre cisarà, sembrano dirci Breton & C., solo chegli sviluppi della modernità ne hanno fattoun’arma inestimabile per l’espressione dellalibertà e per la lotta contro ogni autoritari-smo. Va strappata pertanto a tutti coloro checercano d’ingabbiarla in categorie politiche,religiose o meramente letterarie. Il poeta sifa dunque rivoluzionario, sia perché ritieneindispensabile una lotta incessante e senzaquartiere per l’abbattimento delle struttureautoritarie, sia perché reputa imprescindibi-le una propagazione del “meraviglioso” edel poetico in tutti gli ambiti del vivere; egliperò non dovrà mai confondere le due cose,non dovrà mai creare delle opere di circo-stanza, delle opere che siano un’eco pedis-sequa degli avvenimenti sociali e politici, emai e poi mai dovrà costringersi a limitareo ad impoverire la propria creatività cercan-do di agganciarla a un idea sommaria dellarealtà umana.

Il surrealismo storico (1924-1969) cer-ca quindi di annullare le distanze tra poesiae politica, non riuscendo però, se non asprazzi, nell’intento di sciogliere critica-

strisciare, con “Accompagnamento alla lettura” diCarmine Mangone, Nautilus, Torino, 2001, pp. 74-81.

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mente le contraddizioni legate ai diversiruoli di poeta, intellettuale, militante politi-co, ecc. Questo, se da un lato ha comportatouna gestione quasi schizofrenicadell’espressione poetica rispetto all’auspi-cata azione sociale del poeta, dall’altro hafatto sì che permanesse una forte venaturaidealistica nella concezione dell’immaginepoetica, percepita a tratti – nel sogno, nel“dettato automatico del pensiero”, nel “casooggettivo” – come se fosse aprioristicamen-te neutra e priva di commistioni con la real-tà alienante in cui si dibatte l’uomo.

(Con ciò non intendo affermare che ilmovimento surrealista si sia schierato peruna poesia “pura”, autoreferenziale e fine ase stessa – ci mancherebbe altro! –, vogliosolo dire che non tutti i suoi membri sonoriusciti a sviluppare una pratica coerentesvincolandosi da ciò che si può definireideologia surrealista46).

46 Con “ideologia surrealista” intendo la coscienzadeformata di una presunta realtà superiore (lacosiddetta surrealtà) e, allo stesso tempo, i fattori cheesercitano di ritorno un’ulteriore azione deformante sutale coscienza, acuendo la perdita di contatto tra lastruttura teorica specialistica che essa crea al fined’interpretare la realtà e gli elementi del mondosensibile che ne restano fuori.

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Nel quadro di un mondo che non è sta-to trasformato in meglio poeticamente, ilsurrealismo ha fallito gran parte dei suoiobiettivi extra-culturali. E la fine del gruppobretoniano, con l’affievolimento del rigorecritico e certe deviazioni verso l’esoterismodel secondo dopoguerra, testimonia del fat-to che ogni manifestazione di rivolta nata inambito culturale, che non si voti al cambia-mento radicale e in meglio del corpo socialeche l’ha generata, si guasta e viene rapida-mente recuperata e valorizzata dallo stessoprocesso capitalista contro il quale essa sischiera nominalmente.

Non è sufficiente apporre il prefissoanti- a una parola, per far sì che il concettoo l’oggetto designato da quella parola siaposto in crisi.

La ragione è finita già da tempo suibanchi del mercato, ed è per giunta unamerce che parla troppo, benché non sempreriesca a dire qualcosa di convincente.

Per l’adozione di una prassi che siaconsona ai movimenti generati dalla volon-tà, bisogna che alla verità pratica corrispon-da una verità teorica – e reciprocamente.

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Breton considerava Ducasse un vero eproprio nume tutelare e riteneva che, al di làdel presunto contrasto morale tra Maldorore le Poésies, la loro unità sostanziale si fon-dasse essenzialmente sull’humour: «le di-verse operazioni che portano all’abdicazio-ne del pensiero logico e del pensiero mora-le, poi dei due nuovi pensieri definiti in op-posizione a questi ultimi, non ammettono indefinitiva altri fattori comuni: abusosull’evidenza, invito al disordine attraversole similitudini più ardite, affossamento delsolenne, montaggio a rovescio, o di traver-so, dei “pensieri” o massime celebri, ecc.;al riguardo, tutto ciò che l’analisi rivelacirca i procedimenti in gioco, cede in inte-resse alla rappresentazione infallibile cheLautréamont ci porta a fare dell’humourquale egli lo prospetta, dell’humour giuntocon lui alla suprema potenza e che ci sotto-mette fisicamente, nel modo più totale, allasua legge»47.

L’amore e l’amicizia danno un sensomolto preciso alla mia idea di verità, ma inrealtà, la chiave possibile di tutto, ciò che io

47 A. Breton, introduz. a Lautréamont, O. C., cit.,1953, p. 44.

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ritrovo in fondo ai miei giorni, è la presenzadell’ironia.

L’ironia è il possibile in tutti i sensi –la negazione latente di ogni idea o progettoche ponga dei limiti al destino di chi vive.Accenno di definizione, mancanza gioiosadi chiarimento.

Ironia come processo, e dunque, in pra-tica, alterazione sempre dinamica del sensoo dell’importanza di un fatto, allo scopod’affermarne la realtà mediante il lucido pa-lesamento della sua falsa natura.

(L’ironia non riguarda, non intaccal’istante o l’esperienza della realtà imma-nente, perché è sempre già intervenuta, èsempre a priori rispetto a ciò che faccio, inmodo da disfare la tela prima che le cosedel mondo si mettano a tramare contro lavita).

I surrealisti hanno dimostrato spessouno scarso senso dell’umorismo e un’autoi-ronia pressoché nulla, soprattutto quandoqualcuno si azzardava a criticarne obiettivie scelte di campo. Un esempio lampante, eche ha sicuramente degli aspetti emblemati-ci, è la polemica scoppiata nell’autunno del

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1954 tra il gruppo di Breton e l’Internazio-nale lettrista48.

In quell’anno cadeva il centenario dellanascita di Rimbaud, ed erano previste dellecelebrazioni ufficiali a Charleville, sua cittànatale. I surrealisti decidono di boicottare lecommemorazioni e redigono una dichiara-zione collettiva, Ça commence bien (Si co-mincia bene), firmata anche dai giovani let-tristi, in cui si attacca violentemente il co-mitato patrocinatore, e in particolare PierrePetitfils, messo alla berlina per aver presouna cantonata madornale attribuendo al gio-vanissimo Rimbaud un sonetto di Scarron,poeta francese del Seicento. Ma a un certopunto qualcosa va storto. I surrealisti si ri-fiutano di manifestare a Charleville comechiesto dai lettristi e bocciano un documen-to comune elaborato da Debord e Legrand,dando così inizio ad un velenoso scambio diaccuse. Il colmo si raggiunge con un volan-

48 L’Internazionale lettrista (I.L.) era l’alascissionista e radicale che nel 1952 si era staccata dal“lettrismo”, ossia dall’avanguardia artistica fondata nel1946 da Isidore Isou e Gabriel Pomerand. Era formata,tra gli altri, da Guy-Ernest Debord, Gil Wolman,Michèle Berstein e Mohamed Dahou. Sarà uno deigruppi che nel 1957 confluiranno nell’Internazionalesituazionista.

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tino datato 13 ottobre 195449, in cui il grup-po surrealista si copre di ridicolo accusandoi lettristi di stalinismo e bacchettandoli se-veramente per un plagio di Lenin inseritoda Debord nella bozza di comunicato con-giunto! (È evidente che il Ducasse che pla-gia Pascal è un genio, mentre un Debordche corregge Lenin è solo degno di riprova-zione! Misteri della fede!).

In un volantino di pochi giorni primal’I.L. era stata altrettanto dura, quantunquepiù incisiva nel criticare la ritirata dei sur-realisti sul terreno della cultura: «Lo scan-dalo all’interno di un sistema non ha alcu-na conseguenza. I surrealisti rimangono vi-vamente ancorati ad un ordine economicoche, a seconda dei momenti, dicono di ri-fiutare o ignorano, surrealisti di padre infiglio. Nei limiti della società borghese,vengono incoraggiati a fare un po’ di rumo-re, e coloro che se la cavano meglio posso-no anche diventare dei salariati (i mercantid’arte e gli editori assumono e licenziano).Il rumore va però tenuto nei limiti della de-

49 Familiers du Grand Truc [Intimi della GrandeCosa]; cfr. Etiemble, Le mythe de Rimbaud. L’annéedu centenaire, Gallimard, Parigi, 19672, pp. 110-111.La “grande cosa” era il partito comunista.

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cenza. Gli stessi entro i quali si tollera unoscandalo in famiglia. Ogni tentativod’andare oltre si scontra con le medesimerepressioni, che hanno più un’origine fi-nanziaria che morale. Bisogna giudicaregli altri dal loro modo di vita, non dalleloro frasi. Per i surrealisti, i problemi eco-nomici, la rivoluzione sociale non sono af-fatto fondamentali. Provano a convincersidi sfuggire alle contingenze, e sembranocrederci. Eppure vivono; consumano. A pri-ma vista, non hanno nulla del capitalista,del falsario o del malvivente. Si potrebbeprenderli per impiegati o seminaristi. In ef-fetti sono degli impiegati. Il Surrealismo ele sfilate goliardiche continueranno ad es-sere ammessi, in quella parte di disordinesenza pericolo che costituisce la più sicuragaranzia di buon proseguimento del Quar-tiere scolastico e del mondo borghese»50.

50 Et ça finit mal [E si finisce male], comunicatodell’Internazionale lettrista, stampato ironicamente sulverso del volantino surrealista Ça commence bien ereso pubblico il 7 ottobre 1954. Entrambe le facciatedel volantino sono riprodotte in: 1948-1957.Documents relatifs à la fondation de l’InternationaleSituationiste, Editions Allia, Parigi, 1985, pp. 274-278.Nel passo citato, il “Quartiere scolastico” [Quartierdes Écoles] è la zona di Parigi tra il Pantheon, l’Odéon

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In tutte le cose bisogna cominciare dal-la fine. Da cui, ogni volta, un nuovo iniziodella giusta azione.

Quando una civiltà si regge tra le rovi-ne, bisogna che le sue idee dichiarino falli-mento. Non si trasloca in una casa col tettocrollato. Il fine può sembrare irraggiungibi-le, ma il nichilismo e la mancanza di moralenon c’entrano – è l’indolenza ad essere incausa. I mezzi adeguati, accantonati per

e Saint-Germain. Vari riferimenti allo scontro frasurrealisti e lettristi si rinvengono nei numeri 13, 14 e16 di Potlatch, bollettino informativo del gruppofrancese dell’I.L.: cfr. ibidem, pp. 185-188 e 193-194(traduz. it.: Potlatch. Bollettino dell’Internazionalelettrista (1954-57), Nautilus, Torino, 1999, pp. 25, 27-28 e 33-34). La frase di Debord in cui si plagia Lenin èla seguente: «In una società fondata sulla lotta diclasse, non può esserci una storia letteraria“imparziale”», dove storia letteraria rimpiazza laparola scienza dell’originale leniniano; ma gli stessilettristi, in un altro passaggio di Et ça finit mal, si“correggono” a loro volta, riportando nuovamente lafrase plagiata, ma sostituendo storia letteraria concritica letteraria. Nota curiosa: i situazionistiromperanno nel 1963 con il filosofo comunista HenriLefebvre accusandolo d’aver plagiato un loro testosulla Comune di Parigi; su questa querelle cfr.Internationale situationiste, n. 12, settembre 1969, pp.111-115 (traduz. it.: Internazionale situazionista. 1958-69, Nautilus, Torino, 1994; si tratta della raccolta deidodici numeri della rivista francese dell’I.S.).

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pigrizia mentale, vanno sempre assolti; illoro valore è legato ai difetti di un mondodove si muore da tempo, evidentemente,per mancanza di lucidità.

Il male è una sostanza; se non lo fosse,non sarebbe un problema. I misteri che han-no corso legale intorno al problema delmale, non si dileguano dicendo che il malenon esiste, ma affrontandolo per quello cheè, ossia l’attività del vivente contro la pro-pria sostanza. Gli uomini non amano ilmale, ma comprano il bene che credono ditrovare in esso.

La morte trasforma la materia, ma nonnecessariamente l’idea della materia. Anchese morisse l’idea della storia, l’uomo conti-nuerebbe a muoversi. Se però l’uomo re-stasse fermo, non per questo sarebbed’accordo con la morte; avrebbe solo biso-gno di una spinta.

«Dalle parole alle idee, non c’è che unpasso», dichiara Ducasse quasi in aperturadi Poésies I. Il che significa che noi padro-neggiamo un’idea perché abbiamo le paroleper dirla e che il rapporto di scambio tra diesse, per quanto non automatico, si rivelapiuttosto facile, per cui il problema vero è

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semmai un altro, e riguarda il movimento diandata e ritorno tra le idee e le azioni, so-prattutto quando tra la dimensione teorica eil piano pratico può esserci apparentementeuna facile consequenzialità.

In pratica, le idee più semplici, e chesono teoricamente alla portata di tutti gliuomini pensanti, si rivelano spesso assaigravose da professare, perché la loro veritàdipende quasi sempre dalle azioni che piùnecessitano di chiarezza e decisione.

A complicare ulteriormente le cose cisono poi le immagini, le figurazioni – fisseo in movimento – che catturano lo “spirito”del mondo sensibile – vale a dire l’energiadel vivente – destinandola alla virtualità,all’inorganico, alla patinata bellezza dellamorte. È come se le immagini non descri-vessero più il mondo, ma fossero diventateloro stesse il mondo, del quale non è piùpossibile cogliere lo sfondo o il contornodegli oggetti che lo formano.

Il sentimento dell’immagine è statosenz’alcun dubbio una tappa importantedella civiltà umana – la rappresentazione, leicone, l’allegoria, le metafore – ma il ristorodegli occhi e dello spirito ha finito per la-sciare il posto all’intercambiabilità anodina

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dei simulacri all’interno di un campo visivosempre più limitato.

Lo stesso tentativo surrealista di svec-chiare l’immaginario collettivo, aggancian-dolo a pratiche di libertà, ha prodotto in ul-tima istanza un’ipertrofia di immagini, unproliferare spesso inconsulto e acritico di fi-gurazioni oniriche, infoltendo a dismisura ilpaesaggio della mente e creando quindi unozoo mediale sovraffollato d’immagini. Ne èderivato di conseguenza un inquinamentoespressivo e visuale deleterio, che ha svilitoil sostrato rivoluzionario di una teoria poli-tica fondata sulla poesia, anticipando pari-menti l’inflazione icastica e spettacolare af-fermatasi negli ultimi decenni del XX seco-lo, dove ogni immagine si scambia alla paricon un’altra, annullando in tal modo sia sestessa, sia la realtà rappresentata.

La critica delle maggiori avanguardieartistiche del Novecento è stata sintetizzatalucidamente da Guy Debord: «Il dadaismoe il surrealismo sono le due correnti chehanno segnato la fine dell’arte moderna.(…) Il dadaismo voleva sopprimere l’artesenza realizzarla; e il surrealismo volevarealizzare l’arte senza sopprimerla. La posi-zione critica elaborata in seguito (…) ha

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mostrato che la soppressione e la realizza-zione dell’arte sono gli aspetti inseparabilidi un unico superamento dell’arte»51.

C’è un passo di Poésies II – «La poe-sia dev’esser fatta da tutti. Non da uno» –che è diventato nel corso del Novecentol’idea forza di tutte quelle esperienze radi-cali che si sono poste come obiettivo prima-rio, partendo da un contesto culturale, latrasformazione in meglio delle condizionidell’uomo.

Elaborando una concezione poeticadell’esistente, che mira all’unificazione,alla condensazione di vari aspetti del mon-do in un’unità spazio-temporale piacevole econcretamente determinata, si è passati daun’idea tutta culturale della poesia ad unapratica reale – in sostanza una “poesia vis-suta” – che solo in parte deriva daquell’idea.

Creare lucidamente la propria vita,avendo come scopo il raffinamento e lacondivisione più ampia possibile delle qua-lità umane, è stato il fondamento degli in-terventi poetici più avanzati.

51 G. Debord, La Societé du spectacle, cit., tesi191.

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In verità, sussiste pur sempre una vec-chia idea di poesia, legata ad un vecchio or-dine di cose, che crea una specializzazionee un ruolo, quelli del “poeta”, mantenendola poesia in un ambito separato e inconclu-dente. In tale ambito, distaccandosi dallarealtà, rappresentata magari in modo ideali-stico o anestetico, si finisce per non averené l’intelligenza delle parole, né la volontàdi ricondurle alla loro origine – ossia adun’esperienza diretta, intensa e sensibile delmondo – in modo così da riviverla immuta-ta o accresciuta nell’immediato.

L’Internazionale situazionista (1957-1972) si è posta inizialmente come la defi-nitiva avanguardia artistica, per poi intra-prendere una ricerca sperimentale di stru-menti, tecniche, ambienti e “situazioni” coiquali costruire una vita quotidiana libera eappassionante, articolando in tal modo unoriginale contributo teoretico e pratico, cul-minato nei moti del Sessantotto.

Unendo critica, poesia e progetto rivo-luzionario, i situazionisti hanno cercato didarsi un’idea coerente del mondo al di là ditutte le preoccupazioni estetiche, col finedichiarato di creare una critica generale

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dell’esistente che non restasse separata daun’esigenza immediata di libertà.

Il poeta singolo, il “bardo”, l’autore in-dividualizzato – con la sua poesia “persona-le” – lascia il posto ad un soggetto poeticocollettivo, ad una poesia “impersonale” (perdirla con Ducasse) tendenzialmente anoni-ma e a più voci, che realizza un’idea offen-siva e libertaria della poesia.

La poesia si riallaccia così al suo etimogreco, al verbo poiein, e ridiventa una prati-ca, ossia un saper fare, un voler fare, a di-spetto di tutte le cristallizzazioni culturali.

Tra le pratiche situazioniste di sovver-sione dell’esistente occorre qui sottolinearela tecnica del détournement, in quanto ema-nazione diretta, almeno a livello teorico, delplagio propugnato da Ducasse52.

In un breve saggio del 1956, apparsosulla rivista surrealista belga Les Lèvresnues, Debord e Wolman ne fissano metodo,finalità e campo d’applicazione: «Non soloil ritorno al passato, ma anche il persegui-

52 Siccome il termine détournement presentadiverse sfumature (può significare infatti, a seconda deicontesti, “deviazione”, “storno”, “dirottamento”,“diversione”, ecc.), lo si lascia volutamente in francese.

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mento degli obiettivi culturali “attuali”,dato che dipendono in realtà dalle forma-zioni ideologiche di una società passatache ha prolungato la sua agonia fino aigiorni nostri, può avere soltanto un’effica-cia reazionaria. Solo l’innovazione estremi-sta ha una sua giustificazione storica. Nelsuo insieme, l’eredità letteraria e artisticadell’umanità deve essere utilizzata a fini dipropaganda di parte. (…) occorre farla fi-nita con la nozione di proprietà personalein questa materia. (…) Tutti gli elementi,presi non importa dove, possono diventarel’oggetto di nuovi accostamenti. (…)L’interferenza di due mondi sentimentali, lacompresenza di due espressioni indipen-denti, superano i loro elementi originariper dare un’organizzazione sintetica diun’efficacia maggiore. Tutto può servire.Va da sé che non solo è possibile corregge-re un’opera o integrare diversi frammentidi opere scadute in una nuova, ma anchecambiare il senso di questi frammenti (…).Tranne l’opera di Lautréamont – che la suaapparizione estremamente prematura fa an-cora sfuggire in gran parte ad una criticaesatta –, le tendenze al détournement ravvi-sabili con uno studio dell’espressione con-

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temporanea sono per la maggior parte in-consce o occasionali; e, più che nella pro-duzione estetica agonizzante, è nell’indu-stria pubblicitaria che bisognerebbe cer-carne gli esempi più belli»53.

I situazionisti applicano il détourne-ment ad ogni strumento artistico – dal cine-ma alla pittura, dai fumetti all’urbanistica,dalla radio alla scrittura –, ma vanno ancheoltre: rispetto a Ducasse e ai surrealisti, essiteorizzano l’impiego di tale tecnica ben aldi là del semplice contesto culturale, coin-

53 Guy-Ernest Debord e Gil J. Wolman, «Moded’emploi du détournement» [«Istruzioni per l’uso deldétournement»], Les Lèvres nues, n. 8, maggio 1956 ;ora in: Documents relatifs à la fondation del’Internationale Situationiste, cit., pp. 301-309.Nell’indice della rivista venivano indicatibeffardamente, come autori dello scritto, Aragon eAndré Breton. In Internationale situationiste, n. 1,giugno 1958 (p. 14), si trova una sintetica definizionedi détournement: «Si usa come abbreviazione dellaformula: détournement di elementi estetici preesistenti.Integrazione di produzioni attuali o passate delle artiin una costruzione superiore dell’ambiente. In talsenso non può esserci pittura o musica situazionista,ma un uso situazionista di questi mezzi. In un senso piùprimitivo, il détournement all’interno delle vecchiesfere culturali è un metodo di propaganda, chetestimonia dell’usura e della perdita d’importanza diqueste sfere».

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volgendo altresì i gesti, l’abbigliamento, lestesse situazioni ambientali, in un progettounitario di rifacimento del mondo.

Dopo la fiammata del maggio parigino,il movimento di Debord, Vaneigem & C. hadato vita ad una schiera impressionante dicontinuatori, imitatori, esegeti, denigratori,alimentando contraddittoriamente quellostesso ambiente culturale contro il quale siera sempre schierato54.

Con la dissoluzione dell’I.S., avvenutanel 1972, e il generale riflusso degli anniSettanta-Ottanta, sembra esaurirsi definiti-vamente la spinta propulsiva delle avan-guardie culturali “politicizzate”. Tutto quel-lo che è venuto dopo, fino all’attuale sta-gnazione – mascherata malamente daun’incessante, frenetica modificazione delle

54 En passant, si ricorda che Vaneigem haall’attivo un lavoro specifico su Ducasse: «IsidoreDucasse et le Comte de Lautréamont dans les Poésies»,in Synthèses, n. 151, 1958, pp. 243-249 (traduz. it.:Raoul Vaneigem, Isidore Ducasse e il Conte diLautréamont nelle poesie [sic], Edizioni l’Affranchi,Salorino, Svizzera, 1991). Lo stesso Vaneigem useràcome pseudonimo il nome di uno dei firmatari dell’attodi morte di Ducasse (Jules-François Dupuis, locatoretra l’altro del garni al n. 7 di rue Faubourg-Montmartre)per firmare la sua Histoire désinvolte du surréalisme(ediz. Vermont, 1977).

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forme –, sembra soltanto una tenace e con-fusa parodia delle istanze novatrici del XXsecolo.

Nel prossimo futuro, i processi ciberne-tici cercheranno di condurci alla completaseparazione tra ciò che rimane esperibiledella realtà umana e ciò che la riproduce inmodo puramente virtuale. La realtà non saràpiù semplicemente rovesciata in irrealtà, maverrà letteralmente schermata da un sistemadi percezioni artificiali del tutto conformiagli elementi di realtà definitivamente per-duti. La virtualità sarà fedele in tutto e pertutto alla realtà che abbiamo perso e sanciràil totalitarismo della volontà d’inorganicoche caratterizza tendenzialmente il poteredella merce. L’uomo sparirà dietro la suaimmagine. Il senso delle cose sarà finta-mente molteplice. La ragione sarà il flebilericordo di una storia del mondo ormai inde-cidibile. Tutti potranno conoscere ognicosa, almeno teoricamente, ma in pochi sa-pranno costruirsi un’idea univoca della real-tà in modo da agire concretamente sul pro-prio destino.

Chi ha paura della morte, si riduce adessere schiavo del tempo e del sistema che

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ne regola il corso, mentre chi si gloria dellalibertà (sempre illusoria, sempre d’accatto),dimostra chiaramente di non averne abba-stanza del proprio tempo.

Gli uomini hanno un pensiero della li-bertà che sembra piuttosto saldo, ma la lorolibertà è solo un accrescimento nell’insigni-ficante. Chi difende la libertà è a metàdell’opera; deve ancora realizzarla.

È necessario che la libertà s’immergaogni giorno nella volontà dell’uomo per ri-nascere come esperienza del mondo. Chi silimita a reclamare un diritto, smarrisce ilsentimento delle lotte e delega ai codicil’equità dei costumi.

Le sventure della libertà non dimostra-no nulla contro la vita. Il rovescio dell’epo-ca può essere dannatamente poetico, se sipreserva l’amicizia tra i vuoti della Legge.

Occorre mostrare una giusta indelica-tezza nei confronti dei padri, ricordandosiperò che non è mai data la vera filiazione.Non si ha bisogno di miti, di bandiere, ben-sì di tipi esemplari da portare al culminedella giustezza. In tal modo, si traslano iluoghi comuni in uno spazio più ampio eluminoso.

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È sgradevole ripetersi, ma in fondo laverità nasce da un luogo comune; bastaquindi trovarlo, condividerlo, svuotarlo diogni ipocrisia, e il mondo si rimette subitoin moto.

L’ultimo Debord, nel parlare di Ducas-se e della sua opera – che sembra aver attra-versato indenne tutte le esperienze d’avan-guardia del Novecento –, si avvicina curio-samente, con un’inaspettata vena lirica, alBreton degli anni Trenta. Parlando di unsuo soggiorno in Alvernia, il teorico situa-zionista infatti scrive: «Era un paese ditemporali. Si avvicinavano dappertutto sen-za rumore, annunciati dalla breve folata diun vento che serpeggiava fra l’erba, o dauna serie d’improvvisi bagliori all’orizzon-te; poi scatenavano il tuono e il fulmine,che allora ci cannoneggiavano a lungo, eda ogni parte, come in una fortezza asse-diata. Una sola volta, di notte, ho visto ca-dere il fulmine vicino a me, all’aperto: nonsi riesce a vedere dove ha colpito; tutto ilpaesaggio è contemporaneamente illumina-to, per un attimo sorprendente. Niente mipare aver dato nell’arte quest’impressionedella luce definitiva, tranne la prosa usata

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da Lautréamont nell’enunciazione pro-grammatica che ha chiamato Poesie»55.

È certamente singolare, ma non casua-le, la corrispondenza di figure metaforiche eaggettivi: Breton parla della «figura abba-gliante di luce nera» di Lautréamont e di«apocalisse definitiva» a proposito dellasua opera56, mentre Debord avvicina lePoésies alla «luce definitiva» di un fulmineche cade a poca distanza. Insomma, stessafolgorazione, stessa risolutezza nel ricono-scere i meriti e le grandi potenzialità diun’opera che ancora oggi non ha esaurito ilsuo potere d’irradiazione.

L’idea di godimento, l’idea di poesiache possiamo coltivare – mai disgiunta dauna pratica dei godimenti possibili –, è tuttaimpregnata del senso ultimo che attribuia-mo alla nostra esperienza del mondo. Lapoesia che suscita il godimento – la gioia dichi rende grazie alla vita – si ritrova nel

55 Guy Debord, Panégyrique, tome premier,Lebovici, Parigi, 1989 (traduz. it.: G. Debord,Panegirico, tomo primo, Castelvecchi, Roma, 1996, p.40).

56 A. Breton, introduz. a Lautréamont, O. C., cit.,1953, p. 44.

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fuoco logico che rincorre il pensiero. C’èsempre un’intesa fra le parole della poesia eil godimento di ciò che sarà al di là di esse.Il passato reca con sé una sorta di indice, dicatalogo dove noi troviamo le tracce di unpercorso che è già il nostro e che ci toccaverificare, ripercorrere, abbandonare. Nonsi può disattendere il mondo. La natura èstata lasciata in dote alla ragione, ma noi re-stiamo sempre in debito d’ossigeno nei suoiconfronti – e la vita non si costruisce comeuna frase, neanche se vita e poesia risultas-sero sinonimi.

La verità del presente – sempre che sisappia dragare il passato per farla riaffiorare– transita di sfuggita accanto all’uomo e ba-lena a sprazzi nella compiutezza ironica diun istante – non crederete mica che l’ideadel tempo manchi d’ironia? –, ma la verità,questa scatola piena di promesse, presentaun contorno netto solo agli occhi di chi ve-glia in pieno sole.

Isidore Ducasse, il nostro “figlio dipapà” che arriva a Parigi per farsi largo nelmondo delle Lettere, ha la grande capacitàdi riconoscere i limiti del linguaggio e dellestrutture di pensiero del suo tempo. Crede

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quindi nella necessità di una rigenerazionedelle idee. Sa anche che il passato può daredegli utili appigli, ma che le idee vannoadeguate, contestualizzate, aggiornate. Av-verte che le accelerazioni della civiltà stan-no per diventare frenetiche e che bisognafare in fretta – sfrondare, desacralizzare,condensare le idee del “bene” per riutiliz-zarle contro la violenza del banale che vaaffermandosi in tutti i campi del sapere edell’agire umani. Le sue proposizioni sonoallora un grido d’allarme e, allo stesso tem-po, una vendetta amara, un processo sardo-nico e purificatorio ai danni dell’uomo, lacui crassa trivialità rende sempre più com-plicato parlare d’amore.

Un quarto di secolo più tardi, l’anarchi-co Emile Henry avrebbe sintetizzato in uncommovente aforisma il sentimento contra-stante nei riguardi dell’umanità che lo stes-so Ducasse aveva sviscerato nel suo Maldo-ror: «Amo tutti gli uomini nella loro umani-tà e per quello che dovrebbero essere, ma lidisprezzo per quello che sono»57.

57 Henry fu autore di diversi attentati dinamitardi.Venne ghigliottinato il 21 maggio 1894. Gli aforismiscritti in carcere furono pubblicati per la prima volta,col titolo di «Pensées», sul periodico Le Libertaire (n.

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Le Poésies non sono il resoconto diun’astratta conversione al bene, bensì la ri-cerca a tratti contraddittoria di un principioefficace. L’opera di Ducasse è il tentativoconsapevole di lasciarsi alle spalle le acqui-sizioni del sapere per indagare la realtà delpensiero (e il pensiero della realtà) conmaggiore pertinenza, ma anche con più leg-gerezza e ironia – e qui lo spirito di con-traddizione viene quasi in soccorso del poe-ta, perché nel voler abbracciare un interomondo si colgono delle tracce tra loro ne-cessariamente incompatibili (se non altronel dominio del pensiero), ma così facendoci si apre a tutta la libertà possibile e a tuttele forze di rigenerazione del pensiero.

La semplicità del mondo è stata occul-tata e mistificata dalle varie ideologie e dal-la crescente complessità delle tecnicheumane. Va riscoperta, palesata, anche a co-sto di mettere in discussione la presuntacomplessità della “natura umana”.

Il bene di Ducasse non è certo da inten-dere in senso religioso. I suoi riferimenti adElohim, il dio della Bibbia, sono sempre in-

28, 23-29 maggio 1896): Cfr. Emile Henry, Aforismi diun terrorista, a cura di C. Mangone, edizioniGwynlaine, Camerano (AN), 2010.

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calzati dall’ironia – mentre il vero fideismo,in qualunque modo esso si manifesti, nonconosce il sorriso e non tollera contraddi-zioni. Tuttavia non si può neanche sostenereche le massime di Ducasse siano le asser-zioni di uno spirito scettico, dal momentoche hanno pur sempre la pretesa di afferma-re la verità o la non verità “pratica” del lorooggetto (dove la “verità” è l’esperienzaumana di quello stesso oggetto assuntacome riferimento). Le frasi di Ducasse, purnegando o rovesciando le massime dei mo-ralisti, non si rovesciano l’una nell’altra enon rovesciano i fondamenti del “bene”. Iparadossi logici sono solo un paravento persalvare la sostanza delle proprie idee dalgiudizio del mondo e dai cattivi poeti.L’ironia è la rilegatura dell’opera – ironichesono le possibili verità, e tutte concorronoad allargare il mondo, la mente, e a rintuz-zare l’uniformità del “buon senso” social-mente determinato.

Un eventuale recupero in chiave re-gressiva di Poésies è quindi piuttosto im-probabile e finora non si è mai verificato,contrariamente a quanto successo all’operadi Rimbaud.

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Elaborando le sue Poésies, Ducassegioca coi vincoli dell’estetica e rinuncia allastruttura chiusa dell’opera, rinuncia cioè alpunto finale, al libro finito e definito, rico-noscendo quindi l’incompiutezza dellascrittura – di ogni scrittura – pur valendose-ne come mezzo di progressivo affinamentodel pensiero. Nasce allora la grande ipotesidi un’esperienza poetica che trascende ilcampo artistico, sovrapponendosi all’ideatradizionale di poesia o addirittura in apertocontrasto con essa.

Non c’è nulla di accidentale nella veri-tà; ciò la differenzia nettamente dalla vita,che è sempre caducità, spasimo del pensie-ro, “vita di relazione”. Questa variabile chesi chiama vita è la coerenza dell’accidentale– coerenza dettata, come si deve, dalla natu-ra di chi vive –, mentre la verità è sempreun partito preso, una sintesi, un’immaginedella volontà su cui basare, in gran parte,quella stessa coerenza. La verità si ricondu-ce alla vita attraverso la logica e il movi-mento delle idee che nascono dall’esperien-za. Se l’obiettivo dell’uomo è vivere unapropria compiutezza nell’esperienza che hadel mondo, si dovrà dotare logicamente di

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una serie di appigli, boe, idee da verificaree di cui valersi. Colui che cerca un’espres-sione rigorosa di sé e del mondo, farà dun-que largo alla forza dinamica della verità, almovimento della verità e all’apertura men-tale che ne deriva; solo così riuscirà a crear-si, contro i guasti della morale e della co-municazione mediata, un proprio stato piùaderente alla realtà sensibile.

(Digressione finale di natura “para-noico-critica”: e se la poesia fosse la man-canza di necessità della scrittura?

Può sembrare che la verità sia morta –che quindi la morte non sia vera, che nean-che la vita lo sia, che tutto si risolva in unbaluginare di materia assurdamente animata– schiacciati dalla noia, dall’eternità,dall’indifferenza dell’universo di fronteall’umano – QUANDO ALL’IMPROVVISO,qualcosa che ha a che fare con la tenerezzae la tremenda certezza dei corpi ci rende vi-sibili a noi stessi, chiari, e magnificamenterotti alla grazia dell’amore.

Ho sempre dato troppo spazio al movi-mento dell’odio, creando intorno a me unbastione, una vanità, una parola inflessibilelegata alla distanza, al mantenimento della

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distanza, e finendo così per allontanarmidalla semplicità di un abbraccio e dallatransitoria bellezza del vivente.

Ci si deve forse rintanare nell’oscuritàdi una frase, di un verso, o nella complicitàenigmatica di un’immagine, per dare un ri-paro alla nostra ingenuità residua? Solo chiveglia, ha certezza della notte.

Gli occhi aperti parlano alle bocchechiuse e si convincono della necessità delleombre come mezzo di contrasto per acqui-sire il mistero.

Dire: mi piace questo o quello, non sa-pendo che altro dirne, ci dimostra solo cheabbiamo ancora del ritegno nei confrontidelle cose. La verità della poesia, a dirlatutta, è che non dovrebbe né piacere né es-ser tollerata. Ciò che si rivela poetico, infat-ti, dovrebbe essere disturbante, inopportu-no, sconsiderato, tale da sviarci continua-mente, attirandoci in luoghi senza cartogra-fia possibile, aperti, abbandonati all’amici-zia, in un movimento senza idee fisse, doveci si muove a tentoni, brancolando nel sape-re, nel dubbio, ma ben lungi dalle disperantibanalità d’ogni giorno.

– E se le Poesiés di Ducasse fosserosoltanto noiose?

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Nel dare corpo alla mia presenza, mirendo conto che il movimento è la critica, eche la critica è soprattutto il pensiero dellavita. So anche che il pensiero della criticanon può eguagliare il movimento sovranodella materia vivente, ma è pur sempre ingrado d’aiutarmi a custodire la verità pienadi vita di chi amo e voglio amare. La partedi mondo che ho compreso, e che accolgo etrasformo consapevolmente, vigila allora sudi me quasi con tenerezza. Io esisto e facciocorpo, mentre tutto il resto, vale a direl’esorbitanza del mondo, vive per semprecome una magnifica e temibile eventualitànella limpidezza sconcertante dei miei cielistellati).

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Post-scriptum

«…E tutto questo, lo ripeto, perun’insignificante bagattella formale!Presentare dieci unghie secche invece dicinque, che bell’affare; dopo averciriflettuto a lungo, confesso che m’è sem-brato colmo d’una notevole quantitàd’importanza zero…» (I. Ducasse, lettera aDarasse, 22 maggio 1869).

Testo elaborato nellaprimavera del 2005

e rivesto integralmenteil 22-23 giugno 2017.

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L’Autore

Carmine Mangone è nato a Salerno nel 1967.Agitatore poetico e studioso delle avanguardierivoluzionarie del Novecento, si avvicina giova-nissimo alla scrittura e comincia a praticare lasovversione della vita quotidiana dopo la sco-perta del punk anarchico e la lettura di Stirner,Lautréamont e Péret. Per vivere si è spesso ar-rangiato, facendo l’idraulico, l’apicoltore,l’insegnante, lo squatter, il curatore editoriale.Dalla fine degli anni Novanta, ha tradotto in ita-liano svariati autori francesi, tra cui Péret, Blan-chot, Lautréamont, Char, Vaneigem, Artaud. Direcente, ha pubblicato: Punk Anarchia Rumore(2016); Il gatto e la sua proprietà (2016); Eser-cizi di accanimento (2017); Il corpo esplicito:breve storia critica dell’erotismo occidentale(2017).

http://carminemangone.com

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