Mal di Chiesa

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Lo scandalo dei preti pedofili e i tanti cristiani che “abbandonano” la Chiesa non sono emergenze dell’oggi, rappresentano una crisi della Chiesa nei rapporti con la modernità, con la cultura laica. Tuttavia, oltre a essere un atto d’accusa e di indignazione, questo pamphlet è anche un atto d’amore verso la Chiesa di un cristiano che si augura un ritorno a quella rivoluzione, lasciata a metà, del Concilio Vaticano II.

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Vaticano ii, verso una rigogliosa primavera dellaChiesa. Ma che poi è stato investito da improvvisee continue emergenze che ne hanno rallentato, senon ostacolato, il corso, obbligandolo spesso a rin-correre gli avvenimenti anziché anticiparli, anzichérisolverli tempestivamente a monte.Benedetto xvi si è impegnato a fondo in quella

che considera una assoluta priorità nell’attualemomento ecclesiale: riportare Dio nella coscienzadell’uomo d’oggi. Ha preso decisioni coraggiosee nuove sui mali e sulle situazioni conflittuali. Manon sempre è riuscito a evitare di subire le crisi,di dare l’impressione di camminare con un passotroppo prudente, preoccupato. E non sempre haavuto il necessario aiuto dalla Curia romana, cosìcome da larghi settori dell’episcopato.E probabilmente è proprio la grave carenza di

comunione, avvertibile nella gerarchia ecclesiasti-ca, a costituire la massima espressione di quellaaridità spirituale che da tempo – come faglia mos-sa da forze antiche e profonde – sta svigorendo lamissione e, prima ancora, l’anima del cattolicesi-mo. Con il rischio, come ammoniva lo stesso Be-nedetto xvi ricordando san Paolo, di divorarsi avicenda, di «distruggersi del tutto gli uni gli altri».Chiesa, ma dove vai?

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Capitolo 1Una scelta obbligata

Non poteva essere che lui, il nuovo Papa.Quel giorno, con i solenni funerali, stava per

chiudersi definitivamente il pontificato di Gio-vanni Paolo ii. Il suo feretro, al centro del sagratodella basilica vaticana, era come soffocato dall’ab-braccio commosso e affettuoso della folla. Unafolla enorme, incredibile, che si allungava per tut-ta via della Conciliazione, e infine si ramificava,da una parte, verso il Tevere, e, dall’altra, nella ra-gnatela di Borgo.Ai lati dell’altare c’era il mondo intero, un

mondo per qualche ora in pace, obbligato alla pa-ce. E, su due lunghe file, i cardinali. Quelli an-ziani, ultraottantenni, che non sarebbero entratinella cappella Sistina, non avrebbero votato, e i115 grandi elettori. Sarebbe stato il Conclave piùrappresentativo e diversificato della storia. Per laprima volta gli europei erano solo la metà. A con-ferma di un cattolicesimo che si spostava sempre

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più verso l’emisfero meridionale, specialmenteverso l’America Latina, verso l’Africa.Cercai di individuare i volti dei porporati che

conoscevo. E finalmente trovai anche i due per iquali facevo il tifo: l’arcivescovo di Vienna, Chri-stoph Schönborn, e l’arcivescovo di San Paolo,Claudio Hummes. Una preferenza dovuta a mo-tivi abbastanza semplici e differenti. L’austriacomi intrigava per avere scritto un libro dove esaltavai sentimenti e le passioni nella vita cristiana, sot-tolineando così il primato della libertà (una libertàovviamente in linea con la verità) in campo mo-rale. Il brasiliano mi piaceva per il suo impegnosociale; da giovane vescovo aveva messo le chiesea disposizione degli operai del settore automobi-listico che erano in sciopero e non avevano più leloro sedi sindacali, serrate dalla dittatura.

Quale successore per Wojtyla?Scrutai il volto un po’ diafano, aristocratico,

di Schönborn, e quello di Hummes, più abituatoal sole, all’aria aperta, immaginandomi primal’uno e poi l’altro vestiti di bianco. E solo allora,improvvisamente, mi venne di fare una riflessio-ne: che era la riflessione più ovvia, lapalissiana,perfino banale, ma anche, a pensarci bene, quelladecisiva. Stavolta infatti i cardinali avrebbero do-vuto compiere, non una soltanto, ma due scelte:

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eleggere il 265° vescovo di Roma e, insieme, tro-vare un adeguato successore a un Pontefice, comeKarol Wojtyla, che aveva guidato la Chiesa cat-tolica e occupato la scena mondiale per quasi ven-tisette anni.

Non poteva essere che lui, il nuovo Papa.E cioè, un Papa capace di parlare di Dio all’uo-

mo d’oggi. La personalità possibilmente più rap-presentativa, più conosciuta della Chiesa cattoli-ca; di alto livello spirituale e morale ma anche in-tellettuale, quindi senza complessi nei confrontidella cultura contemporanea e dello stesso pen-siero laico. E, nello stesso tempo, un Papa che rac-cogliesse l’eredità di Giovanni Paolo ii, ma senzadoverlo necessariamente imitare. Senza fare l’er-rore – come aveva ammonito padre Raniero Can-talamessa, predicatore della Casa pontificia – diinseguire per forza il modello di Wojtyla, i suoiinimitabili carismi: perché «esprimere di volta involta un aspetto della multiforme grazia di Dio èla ricchezza del papato».

Non poteva essere che lui, il nuovo Papa.Era arrivato il momento dell’omelia. Il cardi-

nale Joseph Ratzinger, che celebrava la Messa fu-nebre, cominciò a leggere i fogli che aveva scritto.Era visibilmente commosso. Facendo forza sullasua timidezza, sul suo atteggiamento sempre cosìriservato, e sulla essenzialità di un linguaggio da

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sempre abituato alle costruzioni teologiche, il car-dinal decano seppe non solo aprire ma spalancareil proprio cuore. E riportò quella bellissima im-magine di Karol Wojtyla, che la domenica si af-facciava dal suo studio per la recita dell’Angelus:«Possiamo essere sicuri che il nostro amato Papasta adesso alla finestra della casa del Padre, ci vedee ci benedice».

Non poteva essere che lui, il successore di Wojtyla.Joseph Ratzinger, fino a qualche mese prima,

non figurava mai ai primi posti nelle varie liste dipapabili. Stimato da tutti, e da tutti consideratouomo di grande dottrina, si portava però dietro ilpeso di un irriducibile “odio teologico” da partedegli ambienti più radicali. E pensare – ironia del-la vita – che agli inizi della carriera universitariaera uno studioso aperto, innovatore. Spinto forsedall’inquietudine agostiniana, si era ribellato allerigide strutture della neoscolastica, ritenendolanon più adatta a favorire il dialogo della fede conil proprio tempo. E aveva trovato la sua strada nelsaldo ancoraggio alla Sacra Scrittura, ai Padri dellaChiesa e alla liturgia, scrivendo un testo che loavrebbe reso famoso, Introduzione al cristianesimo.Portato al Concilio come perito dal cardinale

Joseph Frings, arcivescovo di Colonia, Ratzingerne era stato il grande suggeritore. Aveva ispiratoalmeno due dei più impegnativi interventi del

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cardinale: quello all’apertura delle assise, per pro-testare con gli organi direttivi per come era statapredisposta la composizione delle commissioni; equello in cui aveva attaccato il Sant’Offizio e ilsuo pro-prefetto – il cardinale Alfredo Ottaviani –per come venivano condotti i processi nel tribu-nale vaticano. Non solo, ma, come altri periti,Ratzinger si era preso un solenne monito dall’uf-ficio di presidenza per aver firmato e, contraria-mente al regolamento, aver distribuito ai vescoviun appello in favore del ripristino del diaconatopermanente. E a chi anni dopo gli chiederà diquella reprimenda, egli con il sorriso e gli occhifurbi risponderà: «Non ricordo…»

Nella bufera del post-ConcilioMa già durante il Concilio, e più ancora nel

periodo successivo, Ratzinger aveva cominciato amanifestare i suoi timori. Ripeteva spesso di averl’impressione che «nella Chiesa non ci fosse nulladi stabile, che tutto potesse essere oggetto di re-visione». E non era solo una sua sensazione per-sonale. Molti altri personaggi illustri – da EtienneGilson a Jean Daniélou, da Henri de Lubac adHans Urs von Balthasar, fino a Jacques Maritainche aveva scritto un libro molto polemico, Lepaysan de la Garonne – si erano spaventati per cer-te spericolate iniziative postconciliari che oltre-

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tutto avevano innescato una crescente opposizio-ne a Roma. Paolo vi era dovuto intervenire in di-fesa del Credo e della legge morale. Aveva usatoparole forti: «La Chiesa sta vivendo un’ora di in-quietudine e di autocritica, si direbbe perfino diautodemolizione».A quel tempo, il confronto tra progressisti e

conservatori era accesissimo. Ratzinger natural-mente era rimasto nel campo dei riformisti, madei riformisti più moderati: i quali erano semprepiù convinti che il ritorno alle fonti cristiane, pro-mosso dal Concilio, non fosse sfociato nell’auspi-cato aggiornamento della Chiesa, bensì in un pro-gressivo adattamento al pensiero proprio dellacultura laica. Ratzinger, perciò, venne a trovarsial centro dello scontro tra studiosi, scuole teolo-giche, università e anche tra riviste, come Conci-lium da una parte (più ideologica, e dove all’inizioc’era pure lui, con l’allora amico e collega HansKüng) e dall’altra Communio (che lo stesso Rat-zinger aveva poi contribuito a fondare).Era partita dunque da lì, dall’aver preso posi-

zioni più prudenti, e comunque aliene da estre-mismi, la sua cattiva fama. E gli rimase incollataaddosso, anzi inevitabilmente si accentuò quan-do – dopo la breve esperienza come arcivescovodi Colonia – assunse in Vaticano la guida dellaCongregazione per la Dottrina della Fede, l’ex

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Sant’Offizio. Giovanni Paolo ii volle proprio lui,in quel posto. Volle uno studioso di grande pre-stigio che lo aiutasse ad affrontare i sempre piùcomplessi problemi dottrinali e fosse in grado didialogare con i maggiori teologi, spesso di ten-denze radicali, e molti dei quali erano proprio te-deschi.Forse – se è possibile muovere un appunto –

non fu una buona idea che Ratzinger, dopo avernechiesto e ottenuto il permesso dal Papa, avessecontinuato a scrivere i suoi libri di teologia e dianalisi sulla situazione ecclesiale. Diceva che nonvoleva rompere con il suo passato, con la sua sto-ria, e che sentiva come un dovere la partecipazioneal grande dibattito culturale di quel tempo. Manon fu ugualmente una buona idea. Chiamato dalPapa a vigilare sulla ricerca teologica – un po’ con-trollore e un po’ garante super partes – e conti-nuando invece lui stesso a pubblicare i suoi lavoridi studioso, risultava poi difficile stabilire il precisoconfine tra ruolo ufficiale e opinioni personali. Eciò, in qualche caso, creò confusione, provocò po-lemiche. Come per il libro-intervista con VittorioMessori, Rapporto sulla fede, dove Ratzinger par-lava del rischio di una “protestantizzazione” dellaChiesa; e pur con tanti distinguo usava una parola– “restaurazione” – che solo a sentirla fece entrarein fibrillazione il mondo ecclesiastico.

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Critiche al “Panzerkardinal”Tutto questo, si diceva, contribuì nel tempo ad

alimentare le critiche nei confronti del Panzer-kardinal, come lo chiamavano spregiativamentesu alcuni giornali inglesi e americani. Finendo pe-rò col dare di Ratzinger – proprio per le posizionipreconcette da cui muovevano spesso le accuse –una immagine quasi caricaturale, se non falsa. Esenza tener conto di come, negli stessi ambienticuriali a lui avversi, gli riconoscessero il grandeimpegno profuso nella difesa ma anche nella pro-mozione della dottrina cristiana, nel controlloesercitato sulla ricerca teologica ma anche – coni documenti sulla teologia della liberazione – nellasalvaguardia dell’integrità della fede da contami-nazioni politiche e ideologiche.Provai a dire tutto questo in una intervista ai

redattori di una tv tedesca, venuti a Roma all’ini-zio del 2005 per individuare gli eventuali papabili.Provai a spiegare che Ratzinger non era affattoquel conservatore che molti descrivevano. Anzi,al contrario, tanto per fare un esempio, era il cri-tico più drastico della burocratizzazione della Cu-ria romana. Provai anche a ricordare che nonmolto tempo prima una sua lettera ai vescovi –sulla collaborazione dell’uomo e della donna nellaChiesa e nel mondo – aveva colpito favorevol-mente vari gruppi femministi per la particolare

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insistenza sulla “cultura della reciprocità”. Ma fututto inutile. Le mie parole non piacquero e co-munque non vennero mai trasmesse in televisio-ne. In quel momento, sulla stampa mondiale maspecialmente in Germania – la sua patria – Rat-zinger aveva un consenso estremamente basso.Intanto, però, la sua figura cominciava a sta-

gliarsi nello scenario del pontificato wojtylianoormai al tramonto. Il Venerdì Santo, con il Papacostretto per la prima volta a disertare la cerimo-nia al Colosseo, fecero sensazione le parole scritteda Ratzinger per la Via Crucis. «Quanta sporciziac’è nella Chiesa, e proprio tra coloro che, nel sa-cerdozio, dovrebbero appartenere completamentea Lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza».Parole aspre, quelle del capo della Congregazioneper la Dottrina della Fede, che era incaricata difar rispettare le nuove regole, dopo che special-mente negli Stati Uniti era affiorata la dramma-tica questione dei preti pedofili. Parole aspre maanche accorate, e nelle quali, rileggendole oggi, sipotrebbe forse intuire una certa angustia per letroppe difficoltà e resistenze che il lavoro del di-castero incontrava in Curia e fuori.

Verso il ConclaveEd ecco che arriviamo a quella tragica sera del 2

aprile, quando il cuore di Karol Wojtyla smise di

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battere. Moriva un grande Papa, un Papa che avevacambiato la storia del mondo. Ma, pur nel lutto,la Chiesa doveva pensare al futuro, organizzarsi peravere una nuova guida. Ratzinger, come decano delCollegio cardinalizio, celebrò i funerali. E, l’omeliache tenne, fu una rievocazione, piena di suggestio-ni, di un’avventura umana e cristiana segnata dalleprove, dalle sofferenze, ma anzitutto dall’amoreverso Dio e dall’amore per ogni uomo. Un’avven-tura arrivata alla fine, e che il vento ora accompa-gnava chiudendo lentamente le pagine del Vangeloposto sulla bara. Come a ricordare che Karol, or-mai, poteva guardare in volto Dio Creatore.Molti cardinali rimasero impressionati da quel-

le parole commosse. Così come furono colpiti,nei giorni seguenti, dall’estrema naturalezza conla quale Ratzinger diresse le Congregazioni gene-rali, cioè le sedute in preparazione al Conclave.Mai niente di autoritario, per imporre il propriopunto di vista. Mai niente di accattivante o, peg-gio, di sottilmente furbo, per conquistarsi il favo-re degli elettori. E allora ci fu più di uno che fi-nalmente riuscì a spiegarsi perché Giovanni Paoloii, respingendo le dimissioni presentate un paiodi volte da Ratzinger, avesse voluto mantenerlo alsuo posto. Non per dare una qualche indicazionesu chi dovesse essere il successore – anche perchénon lo avrebbe mai fatto – quanto piuttosto per

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assicurare ai conclavisti la presenza e l’aiuto di unuomo di equilibrio e di grande saggezza.Ma Ratzinger, in quei giorni, sentiva in cuor

suo che la “ghigliottina” – come racconterà piùtardi con una punta di umorismo – sarebbe potutacadere sulla sua testa? Sì, probabilmente lo capì,non poté fare a meno di capirlo. Tuttavia non bri-gò per cercare altri consensi. Non cercò di far di-menticare il suo passato di personaggio scomodo,severo, mimetizzandosi dietro una immagine con-ciliante e buonista. Non fece niente di tutto que-sto, e, al contrario, parlò come parlò anche nel-l’ultimo grande appuntamento prima del Concla-ve, la Messa Pro Eligendo Romano Pontifice.Respinse l’accusa di fondamentalismo alla

Chiesa, e poi, uno per uno, elencò tutti gli “av-versari” della fede cristiana: dal marxismo al libe-ralismo, al libertinismo, dal collettivismo all’in-dividualismo radicale, all’ateismo, a un vago mi-sticismo religioso. Quindi, la stoccata finale: «Siva costituendo una dittatura del relativismo chenon riconosce nulla come definitivo e che lasciacome ultima misura solo il proprio io e le sue vo-glie…» C’era qualche sfumatura in più, rispettoal discorso che aveva fatto a Subiaco la sera primache morisse Giovanni Paolo ii. Ma non si potevacerto dire che non avesse parlato chiaro. E con lasolita fermezza. Senza tacere nulla.

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Eletto al quarto scrutinioSi chiusero le porte del Conclave, e già al primo

scrutinio – secondo ricostruzioni sufficientementeattendibili – confluirono una cinquantina di votisul nome del prefetto della Congregazione per laDottrina della Fede. Un risultato sorprendente mache confermava subito molte cose. Confermò cheil fronte sostenitore era molto più ampio di quellaagguerrita minoranza (decisamente conservatrice)che guardava a lui come l’unico capace di guidarela barca di Pietro in quei tempi procellosi, l’unicoin grado di ribadire tutta intera la verità cristiana.E confermò, quella prima votazione, come fosserostati superati i diversi dubbi che gravavano su Rat-zinger. Dubbi legati all’età (78 anni), alla sua salute(problemi di cuore), al suo rigore dottrinale (mache per molti era giustificato dal ruolo che ricopri-va), come pure al fatto di non essere italiano (anzi,sarebbe più giusto dire, di essere tedesco, visto cheper qualcuno evidentemente era ancora un neo).E dunque, quei cinquanta voti confermarono an-che la scarsa consistenza dell’opposizione, rappre-sentata dal cardinale Carlo M. Martini come bat-tistrada e dall’arcivescovo di Milano, Dionigi Tet-tamanzi, come candidato effettivo.Restava solo il rischio che a un certo momento

la confluenza di voti su Ratzinger si bloccasse,perché in quel caso sarebbero venuti fuori – ac-

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compagnati comunque da non poche incognite– i nomi dell’arcivescovo di Buenos Aires, JorgeMario Bergoglio, e del vicario di Roma, CamilloRuini. Ma il giorno dopo, martedì 19 aprile 2005,il secondo scrutinio fece registrare più di sessantavoti; il terzo, più di settanta. E, tutto questo, inun clima sereno, senza tensioni, senza forti con-trasti, come se l’elezione di Ratzinger rappresen-tasse ormai la decisione più giusta, più naturale.E così, a sanzionarla, nella quarta e ultima vota-zione, arrivò il superamento dell’asticella ben ol-tre i prescritti due terzi. Alle 17,40, prima incertoe poi decisamente bianco, lo sbuffo uscito dal co-mignolo della Sistina dette l’annuncio…

Non poteva essere che lui, il nuovo Papa.E, proprio per questo, i primi commenti sem-

brarono molto poco attinenti (e insulsi, offensivi,i titoli di quei giornali che giocarono sul nomedell’eletto per rinfacciargli la brevissima e forzataesperienza nella Gioventù hitleriana). Non sem-brava affatto, come qualcuno scrisse, una sceltaimposta dall’esigenza di fare in fretta, di far ap-parire il vertice cardinalizio compatto, unito, enon dilaniato da lotte intestine. E neppure sem-brava una scelta per un pontificato di transizione,che avrebbe dovuto comunque permettere unagraduale decantazione degli “eccessi” antiistitu-zionali e carismatici del periodo wojtyliano.

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Per dirla invece in termini positivi, era statoscelto il più stretto e autorevole collaboratore diGiovanni Paolo ii e, insieme, l’ultimo grande te-stimone vivente del Vaticano ii. Dunque, una ele-zione nel segno di una indiscussa continuità conil papato precedente e con il Concilio. E imper-sonata, questa continuità, da un personaggio che,per la sua statura spirituale e culturale, sarebbe ri-masto se stesso, fedele alle proprie radici, con lapropria indipendenza di pensiero e di carattere,con la propria visione della Chiesa e del mondo.Come mostrò subito, in qualche modo, con il no-me che assunse: distaccandosi dagli immediatipredecessori e richiamandosi a due Benedetti che,in epoche e situazioni diverse, avevano avuto unruolo fondamentale nella storia dell’Europa.In quel momento, il nuovo Papa non poteva

essere che lui. «Un semplice e umile lavoratorenella vigna del Signore». Nelle parole con le qualisi presentò alla folla in piazza San Pietro, subitodopo l’elezione, c’era l’intera personalità di JosephRatzinger. C’era la sua mitezza, la sua semplicitàdi uomo. C’era la robustezza della fede e della vitadella gente bavarese.

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