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Associazione, pag 4 La donazione consapevole Intervista/1, pag 8 Don Gino Rigoldi e l’individualismo Intervista/2, pag 14 Stefano Bollani, musica e democrazia Su la testa N. 02 newsletter maggio 2012

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Associazione, pag 4La donazione consapevole

Intervista/1, pag 8Don Gino Rigoldi e l’individualismo

Intervista/2, pag 14Stefano Bollani, musica e democrazia

Su la testa

N. 02

newsletter

maggio 2012

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Associazione, pag 4Donazione, scelta consapevoleAssociazione, pag 6I nuovi volontari di servizio civileIntervista/1, pag 8Chiacchierata con Don Gino RigoldiInchiesta, pag 10Il cohousingIntervista/2, pag 12Nadia Simionato, abitare relazioniIntervista/3, pag 14Stefano Bollani, jazz e democraziaBlow up, pag 16Il responsabile delle risorse umane

A TU PER TU CON AVISQuadrimestrale

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Il problema dell’Italia è l’indivi-dualismo. Si apre così l’intervi-sta a don Gino Rigoldi che ospi-tiamo in questo numero della

newsletter. Un numero nel quale cerchiamo di analizzare il rapporto tra individuo e individualismo che, per molti (noi compresi), è alla ba-se di tanti, forse troppi, problemi sociali che si stanno, piano piano, dipanando sempre più limpidi nel-la nostra quotidianità. Don Rigoldi ci accompagna nell’analisi di que-sto rapporto, grazie alle sue espe-rienze personali, dando il via alla comprensione di questo dualismo, individuo/individualismo, che pare una semplice dicotomia semantica, ma nasconde in sé l’essenza stessa di una società. Gli italiani, conside-rati come individui, sono persone straordinariamente eclettiche, ca-paci di scatti di genio e di solidarie-

tà. Ma è l’individualismo dilagante, figlio della mancanza di fiducia nel prossimo, che alza muri invalicabili tra le persone. E qualcuno cerca di abbattere questi muri. Ne è esem-pio il progetto “cohousing” che da qualche anno ha fatto la sua com-parsa anche nel nostro Paese; ve lo raccontiamo attraverso le paro-le di Nadia Simionato, architetto tra i più esperti del settore che ci rac-conta l’idea, la sua realizzazione, gli esperimenti italiani. E poi, il mae-stro Stefano Bollani, uno dei mag-giori jazzisti italiani, che si raccon-ta e ci racconta come la «musica sia democrazia» nonostante sia un’arte fatta da individui e che travalica il nostro essere individualisti. Le pos-sibilità, dunque, ci sono. Sta a noi capire il limite dove il nostro essere individui inizia a sfociare nell’essere individualisti. Dunque, soli.

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«Il più grande nemico della libertà individuale

è l’individualismo in se stesso» Saul Alinsky

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4 maggio 2012 | a tu per tu con avis

L’atto della donazione è da sem-pre considerato un gesto di so-lidarietà di alto profilo morale che presuppone, in quanto vo-

lontario, anonimo e gratuito, una scel-ta consapevole. Donare significa aver raggiunto la consapevolezza dell’im-portanza sociale e umana che tale ge-sto comporta. È per questo che la scel-ta diventa un elemento importante del “farsi prossimo” certi delle necessità e dei bisogni sempre più importanti del-la nostra società. Sembra un argomen-to un po’ astratto e forse anacronisti-co, ma in effetti in un’era nella quale consumismo ed edonismo regnano so-vrani trovare individui motivati verso una scelta solidale è sicuramente im-portante e riveste un ruolo sociale di rilievo. Alla luce di tali affermazioni è necessario richiamare l’importanza del questionario pre-donazione e del-la sua corretta compilazione, in quanto le domande in esso contenute hanno il ruolo di stimolare una riflessione sulla

propria vita privata, anche dal punto di vista sanitario, per discutere in caso di dubbi o perplessità il tutto con un me-dico giungendo così ad una donazio-ne sicura nell’interesse del donatore e ovviamente del ricevente. Il gesto nel-la sua importanza deve portare il do-natore prima della donazione a sapersi confrontare con se stesso ma soprat-tutto con chi può dare informazioni, spiegazioni e chiarimenti, mai con un fine inquisitorio o da giudice ma con la volontà di percorrere insieme una stra-da corretta. Ecco perché pur trovan-doci spesso di fronte ad affermazioni tipo «ma è proprio necessario compi-lare il questionario a ogni donazione?», ci sentiamo di avvalorare sicuramente questa passaggio e non solo in virtù di una normativa vigente che lo preve-de, ma anche e soprattutto perché cre-diamo nella valenza dello stesso ai fini della sicurezza e della tutela della salu-te del donatore e del ricevente.

Donazione: una scelta consapevole di Maurizio MacchiDirettore sanitario Avis Legnano

Nella prossima dichiarazione dei redditi ricordati di Avis Legnano e delle sue attività.

Inserisci il nostro codice fiscale nella sezione destinata al 5 per mille.

IL NOSTRO OPERARE QUOTIDIANO, DIPENDE ANCHE DA TE.

codice fiscale 92007600155

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Nella prossima dichiarazione dei redditi ricordati di Avis Legnano e delle sue attività.

Inserisci il nostro codice fiscale nella sezione destinata al 5 per mille.

IL NOSTRO OPERARE QUOTIDIANO, DIPENDE ANCHE DA TE.

codice fiscale 92007600155

tutti per uno, cinque per mille

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6 maggio 2012 | a tu per tu con avis

Disponibilità, cortesia e tan-ta voglia di aiutare il pros-simo. Queste le caratteri-stiche del buon volontario

di servizio civile: doti che, di certo, non mancano al nuovo team di Avis Legnano, al lavoro dallo scorso no-ve gennaio. Sono state 35 le perso-ne che si sono iscritte al bando del-la sezione Cristina Rossi di Avis per cimentarsi nell’esperienza del servi-zio civile volontario; per quattro di loro è scattata la nuova avventu-ra. Claudia, 21 anni, di Villa Cortese, è da quando era piccola che voleva donare il sangue, ma non ne aveva mai avuto l’occasione. Si è diploma-ta all’istituto agrario della sua città nel 2010, e, dopo una breve espe-rienza come commessa in un ne-gozio di abbigliamento, è venuta a sapere dalla madre dell’opportunità in Avis Legnano: «Penso che ci si-ano tante persone che hanno biso-gno del sangue e della nostra opera

di donatori: per questo sono diven-tata donatrice. Mi sento fortunata a poter vivere questa esperienza di servizio civile e avere l’occasione di aiutare qualcuno, anche se le per-sone a cui diamo una mano non le conosceremo mai». In coppia con Desiree, l’altra ragazza del gruppo, accoglie tutte le mattine i donato-ri alla reception e, dopo il prelievo, offre una buona tazza di caffè cal-do e del cioccolato. Desirè è la più giovane del nuovo team: ha 19 an-ni e vive a Dairago: «Mi sono di-plomata nel 2011, come tecnico dei

Un’esperienza per il domanidi Daniele Banfi

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servizi turistici, ma al giorno d’og-gi è molto difficile trovare un posto di lavoro, così ho deciso di prova-re questa esperienza. È iniziata co-me un’esperienza formativa, ma se-guendo i corsi e vivendo l’ambiente di Avis ho capito quanto sia im-portante il lavoro che l’associazio-ne svolge ogni giorno». Oltre alle quotidiane attività nella sede di via Girardi, il loro è un compito molto delicato: partecipare alle manifesta-zioni, chiacchierare con le persone per sensbilizzare l’opera di Avis, ma, soprattutto, trovare nuovi donatori. Perché, come racconta ancora Clau-dia, «non c’è mai abbastanza san-gue e trovare nuovi donatori è la nostra missione principale. A Re-scaldina, durante una fiera, siamo riusciti a reclutare 47 nuovi dona-tori. Una grande soddisfazione, non solo per noi». Assieme a Claudia e Desiree, anche due “maschietti”: Andrea e Lorenzo; una passione li

accomuna: sono entrambi aspiranti grafici pubblicitari in attesa di po-ter realizzare il loro sogno. Loren-zo, 23 anni di Legnano, è donato-re dal 2011: «Devo ringraziare mio nonno se sono qui oggi: grazie a lui ho conosciuto questa realtà. So-no consapevole che il mio è un pic-colo contributo, ma se donando il sangue posso aiutare qualcuno a stare meglio, non posso che esser-ne felice». Andrea ha 20 anni e abi-ta a Busto Garolfo; dopo il diploma ha fatto l’idraulico per qualche tem-po, poi ha provato a lavorare come volontario nei canili del territorio, ma la disponibilità di posti era limi-tata: «Quando ho ricevuto la chia-mata di Avis quasi non ci credevo. È un’esperienza che mi sta facendo crescere. Mi trovo molto bene con i miei colleghi e il lavoro non è fa-ticoso, ma bisogna stare molto at-tenti a non fare errori e a non pren-dere mai nulla con superficialità».

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8 maggio 2012 | a tu per tu con avis

«Il male dell’Italia si chiama individualismo». A dirlo è un sacerdote che da 40 an-ni è cappellano dell’istituto

penale per minorenni “Beccaria” di Milano; che nel 1975 ha fondato Co-munità Nuova, associazione per l’in-serimento sociale dei ragazzi dopo la detenzione; che nel 1999 ha costitui-to “Bambini in Ro-mania”, onlus impe-gnata a migliorare le condizioni di vi-ta degli orfani e dei minori abbandonati, e che giovedì 19 aprile 2012, al Cir-colone di Legnano, ha apertamen-te confessato: «Fatico a stare in que-sta Chiesa». E don Gino Rigoldi non fa certo mistero del perché: «I sacer-doti rischiano di diventare burocrati, custodi di regole più che di rappor-ti con le persone -ha dichiarato-; del

resto, nella loro educazione, l’aspet-to relazionale non è certo prioritario. Ma la Chiesa non è una monarchia né una repubblica: è una comunità, e la comunità si costruisce cominciando a parlarsi, provando, per prima cosa, a conoscere l’altro, senza pretese di giudicarlo». Se quindi il vero pecca-

to è l’individualismo, il comandamento che, su tutti, preme a don Gino è: ama il prossimo tuo. Amore concreto per de-finizione, l’amore uma-no parte dal guardar-si in faccia e passa dal

parlarsi: volersi bene, schivando ogni retorica, è un percorso, un impegno che dura tutta la vita, mai un’acqui-sizione per sempre. Don Gino evita di impiegare una parola usurata come solidarietà; preferisce fraternità, vera base per rigenerare quella comunità che sola può ricostruire il Paese. «L’a-

Unirsi per fare il bene

La Chiesa non è una monarchia

né una repubblica: è una comunità, e la comunità si

costruisce cominciando a parlarsi

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ria che tira oggi è: tutto va male –ha affermato nel corso di un incontro or-ganizzato il 30 aprile dalle Acli di Ca-negrate–. Siamo specialisti nella criti-ca e deficitari nelle proposte. Quando con il vicedirettore del Corriere della Sera Giacomo Schiavi abbiamo pen-sato, anni fa, di chiamare a raccolta i 30-40enni di Milano per parlare del-le prospettive della città, ho proibi-to loro di parlare male dell’ammini-strazione comunale; ognuno doveva cercare, piuttosto, soluzioni, pensa-re positivo per uscire dai problemi. Sono stato chiaro in proposito: dai problemi collettivi non si esce indi-vidualmente: o si esce tutti insieme o i problemi restano. Così quelle per-sone, che volevano fare qualcosa di utile e duraturo, hanno compreso che bisognava mettersi insieme, ascoltare e lavorare in relazione». Il che non è proprio l’identikit dell’Italia 2012 A.D., dove lo sport nazionale, che supera

per praticanti e appassionati il calcio, è l’osservazione dei difetti altrui. «Io spesso nego l’assoluzione, tante sono le banalità che sento in confessiona-le –ha detto don Gino–: la vera tra-sgressione, quella di cui nessuno mi parla, è non volersi bene. Questa è la penitenza che credo più utile: trova-re belle qualità nel prossimo». Dalla persona alla dimensione sociale ecco il don Gino pensiero: «In Diocesi do-vevamo immaginare un regalo per il Pontefice. Io ho proposto la costru-zione di mille appartamenti per mille giovani coppie: adesso siamo a 400, ma l’importante è procedere con un’i-dea, non con il piglio dell’immobiliari-sta. Non facciamo casermoni ma case di corte per 20-30 coppie al massimo, dove ci siano disponibilità reciproche per la cura dei bambini, degli anziani, per le commissioni. Così si crea massa critica; solo così nasce una comunità»

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Voglia di vivere in un ambien-te più umano, in cui condi-visione è la parola chiave, sia perché significa risparmia-

re su tante spese, sia perché vuol dire, soprattutto, costruire relazioni e sup-portarsi reciprocamente. Sono que-sti i concetti alla base del cohousing, modello abitativo nato in Danimarca fra gli anni ’60 e ’70 e diffusosi ne-

gli ultimi anni anche in Italia. Grup-pi di famiglie decidono di abitare in-sieme, ciascuna con la sua residenza privata ma condividendo spazi comu-ni e servizi: le coresidenze, progettate coinvolgendo tutti gli inquilini, di so-lito prevedono sale attrezzate per in-contri, palestra, hobby room, depositi di vario genere, lavanderia; e poi bi-ke sharing, car sharing, orti e giardi-

Cohousing, un altro abitare è possibiledi Miriam Giudici

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ni, micronido. E si distribuiscono fra gli inquilini anche le varie incombenze, dall’accompagnare i bambini a scuola, all’occuparsi di piccoli lavoretti, al fare la spesa, spesso costituendo un grup-po d’acquisto solidale.L’idea, in fondo, non ci è per niente estranea, perché ha più di un punto di contatto con la vita che si faceva nelle vecchie corti. Oggi è una risposta vali-da ai problemi della vita nelle città, ora acuiti anche dalla crisi. Quando una famiglia è frammentata, quando un anziano ha bisogno di assistenza nelle piccole cose di tutti i giorni, quando il costo della vita sale e i servizi diventa-no un lusso: se il mercato immobiliare tradizionale non riesce ad adeguarsi ai nuovi assetti sociali, allora si fa stra-da l’idea di tornare a condividere spa-zi, tempo, competenze. Un’alternativa low-cost, certo, ma anche per recupe-rare quel senso di comunità che negli ultimi decenni si è perso.

Il cohousing oggi è una realtà soprat-tutto nell’Italia settentrionale, dove molte residenze già funzionano e so-no nate società specializzate nel forni-re consulenza progettuale, finanziaria e amministrativa ai gruppi di famiglie che vogliono iniziare l’esperienza. A Milano Urban Village Bovisa è abitato dal 2009: 32 famiglie hanno definito una loro carta dei diritti e dei doveri e condividono 140mq di spazi coper-ti e una terrazza di 185mq. Cosycoh, in zona Ripamonti, è nato nel 2010 ed è basato sull’affitto. Ancora più vici-no a noi, il progetto Corti di Nerviano ha portato una decina di famiglie a re-cuperare un edificio settecentesco nel centro storico del paese.Un altro abitare è possibile e si fon-da su socialità, bene comune e sup-porto reciproco. Valori che, a differen-za di quanto si crede (o vogliono farci credere), dal nostro orizzonte culturale non sono mai scomparsi.

La carità comincia a casa propria,

e la giustizia dalla porta accantoCharles Dickens

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«Il cohousing appartiene anco-ra a un ambito di nicchia, ma si sta diffondendo l’idea che è un modo per vivere bene.

Noi crediamo che avrà sempre più suc-cesso: il che non significa che tutto il mondo abiterà in cohousing, ma certa-mente che il gioco vale la candela, pro-vare per credere». Parola di Nadia Simionato, responsa-bile di NewCoh, la società che gestisce la community Cohousing.it. Il sito, che conta oggi oltre 13mila iscritti, è nato nel 2005 in collaborazione con il dipar-timento INDACO del Politecnico di Mi-lano, che ha studiato il fenomeno del cohousing all’estero e avviato una ricer-ca sul “Vivere e abitare a Milano e in Italia”. Poi, un anno e mezzo fa, è nata NewCoh per offrire consulenza e pro-porre nuovi progetti di cohousing a cui aderire.Chi sceglie il cohousing in Italia?«Persone di ogni età ed estrazione so-ciale: un piccolo spaccato della comu-

nità contemporanea. L’unico elemento davvero distintivo è l’apertura mentale e la conseguente capacità di compren-dere che, attraverso la collaborazione, si possono produrre non solo efficaci economie di scala, ma anche buone re-lazioni sociali che avvantaggiano tutti».Come si sviluppano queste piccole co-munità?«Non esiste un modello assoluto. Deno-minatori comuni sono la socialità e la condivisione di spazi e servizi, ma ogni coresidenza ha la personalità di chi ci abita. Per questo è molto bello parte-cipare fin dall’inizio: il contributo dei futuri abitanti nella definizione dell’i-dentità della loro abitazione è fonda-mentale. I servizi più apprezzati sono da un lato quelli che facilitano la vita e colmano le carenze del welfare (so-prattutto assistenza a bambini e anzia-ni), dall’altro tutto ciò che ha a che fare con la qualità della vita, che in condivi-

«Una rete di relazioni aperta all’esterno»

Nadia Simionatoesperta di cohousing e responsabile marketing di NewCoh

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sione costa meno: palestra, piscina, zo-na wellness, area relax, una grande sala dove fare feste e mangiare insieme…»Il cohousing in Italia ha delle peculia-rità rispetto all’estero?«All’estero azzardano di più, in alcu-ni casi esiste solo la cucina comune; In Italia non funzionerebbe mai. Inoltre all’estero molte esperienze di cohou-sing, specialmente se rivolte a certe fa-sce sociali, sono sovvenzionate dal set-tore pubblico, cosa che in Italia ancora non è avvenuta».Che cosa significa vicinato elettivo?«La vita in cohousing si sceglie e non si subisce. In questo senso si scelgono i propri vicini, aderendo a un modello di condivisione. Progettare insieme agli altri il proprio habitat futuro significa essere disponibili a comprendere il pun-to di vista degli altri. Ciò non significa che si andrà sempre d’accordo, sempli-cemente si saprà come gestire anche le

fasi critiche, si sarà disponibili all’ascol-to e le posizioni radicali non troveranno terreno fertile».Non c’è il rischio che queste picco-le comunità si chiudano in se stes-se? Penso alle “gated communities”, le residenze recintate e presidiate che stanno avendo un certo successo...«L’esperienza del cohousing è di per sé un’esperienza di protezione. I vicini che si conoscono si sentono più sicuri. È questo che consente anche di essere meno rigidi e più accoglienti verso gli altri, verso il resto del quartiere. Ciò non significa che le porte siano sempre spa-lancate e non ci sia privacy o rispetto per la proprietà privata, anzi. Ma la pre-disposizione all’accoglienza e all’aper-tura è molto più netta, poiché quando l’altro diventa conosciuto e partecipe, la diffidenza per il diverso e lo sconosciu-to viene meno».

M.G.

L’esperienza del cohousing è di per sé un’esperienza di protezione. I vicini che si

conoscono si sentono più sicuri

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«La musica? Un esempio di democrazia». E se a dirlo non è un predica-tore tuttologo, ma uno

che sta sul palco con un piano a co-da lunga, a maggior ragione ci sarà da ascoltarlo. Stefano Bollani, jazzi-sta dalla traiettoria non lineare, si è immatricolato con la targa di eclet-tico. «Ripeto spesso il titolo di un album di Vinicius de Moraes, “La vita, amico, è l’arte dell’incontro”: la musica è la mia vita, quindi la mia carriera è una serie di incontri». E in che rapporto stanno indivi-dualismo e musica?«Parlo del jazz, la mia musica, che nasce in Africa come modo di sta-re insieme, non per un pubblico in ascolto. La musica era rito colletti-vo, non spettacolo. Quando i semi di questa cultura sono arrivati ne-gli Usa, il jazz si è trasformato. So-no emerse personalità musicali che si sfidavano a chi suonava più for-

te; una tenzone fra maschi alfa che esplodeva nelle jam session. Lì l’indi-vidualismo e la voglia di esprimere se stessi in musica ha toccato l’apice».Tu sembri preferire un’altra strada.«Credo che il massimo si realizzi quando i musicisti si ascoltano e so-no meno preoccupati di far sentire al pubblico la propria tecnica; quando individualismo e interplay si incon-trano in un’idea musicale condivisa».Ascolto come condizione per un vero incontro in musica: in carrie-ra, quanto ha ascoltato Bollani?«Forse troppo; fosse per me farei sempre musica incontrando artisti che non conosco: mi piace perché mi aiuta a scoprire nuove possibilità. Il problema è che spesso questi incon-tri sono troppo brevi: prove minime e poi on air. Serve più tempo per appro-fondire la conoscenza dell’altro, non soltanto se musicista, ma anche at-tori, ballerini. Non è un discorso ecu-menico: è egoismo, perché imparo».

La vita, l’arte dell’incontrodi Marco Calini

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Quindi, fra le altre cose, chi non è in-dividualista ci guadagna.«Per imparare è indispensabile ascol-tare l’insegnante, poi c’è la libertà di altri incontri».Quello che ha contato di più?«Enrico Rava, che mi ha insegnato tanto senza spiegare ma con l’esempio. Suo-niamo strumenti diversi, ma sul palco con lui ho imparato anche uno stile di vita. Il problema è quando non abbia-mo più voglia di nuovi incontri»Un rischio che corri?«Mi piacerebbe essere come Chick Corea, altro grande con cui suono e che, a 70 anni, è sempre interessato ad ascoltare».Ma con Corea, alfiere del jazz, si gioca in casa; più lungo (e rischioso) è il passo se l’appuntamento è con una grande or-chestra, come la Gewandhaus di Lipsia diretta da Riccardo Chailly, e la classica.«Incontro che mi ha intimorito, perché con autori classici (per l’incisione di Rap-sodia in blu e Concerto in fa di Gershwin nel 2010 è arrivato il Disco d’oro, men-

tre Sounds of 30’s, appena uscito, allinea Ravel, Stravinsky, De Sabata e Weill ndr) sei al servizio di una musica in cui ogni nota ha un perché, da restituire con ri-spetto. Non sono ancora abituato».E se la musica non è soltanto tecni-ca, ma attenzione all’altro non esa-geriamo dandole un valore civico.«Con me si sfonda una porta aperta; bi-sognerebbe chiedere a chi non la pensa così. A scuola è una disciplina cenerento-la. Per me è un esempio di democrazia».Cosa si può fare a scuola? Il piffero per molti, Muti in testa, allontana più che avvicinare alla musica.«A cosa serve imparare il piffero? Prima impariamo tutti ad ascoltare la musica, poi chi vorrà impari uno strumento».Riferimento per chi fa musica, l’altro è anche il cardine del volontariato.«Di cui non posso che dire bene, perché si dà il massimo per un obiettivo comu-ne. Bisogna parlarne ricordando che si può essere vicini alle associazioni con la dichiarazione dei redditi»

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Il responsabile delle risorse umanedi Ottavio Ferrario

E uscito, tra i dvd più inte-ressanti, quello del film «Il responsabile delle risor-se umane», regia di Eran

Riklis, tratto dall’omonimo roman-zo di Abraham B. Yehoshua. È sem-pre curioso indagare perché certi meccanismi letterari funzionano o non funzionano una volta diventati meccanismi cinematografici. In ge-nere si dice che il cinema è cinema e non si debba fare paragoni con i vari testi letterari, se non come elementi al massimo “ispirativi”; e più il modello di scrittura è basso o modesto, più il prodotto filmico è svincolabile, indipendente, a volte “geniale”. È in larga parte il conte-sto dei film del gigante Hitchcock, che attingeva le sceneggiature sul-la base di romanzi di serie B o C per avere mano libera, e fare ciò che ne volesse. È giusto e succede per ogni arte (in pittura Bacon rifà Raffaello destrutturandolo, la scul-

tura di Mitorai rifà, monca, quella greco-romana), ma il Cinema, co-me acutamente annotava Pasolini, che era scrittore e regista, è in po-sizione “ancillare” rispetto alla let-teratura e quindi è legittima la cu-riosità di sceverare come un testo viene tradotto in immagini (il che significa anche come il regista l’ha letto, rispetto a un lettore qualsia-si). È una piccola digressione che ho già fatto in altre occasioni («The reader-a voce alta» di S. Daldry, «I vicere» di Faenza, «Non è un paese per vecchi» dei fratelli Coen, «La fi-ne di una storia» di Neil Jordan) e che persisto a proseguire ogni vol-ta che letteratura e cinema s’incon-trano (come qui) o si scontrano co-me succede il più delle volte.Uno, dei tanti, scrittori rilevan-ti ma scomodi. Abraham Yeho-shua (Gerusalemme 1936) è uno scrittore israeliano (con quel nome, poi, un accrescitivo etni-

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co) scomodo, cri-tico, insofferente, scontento della politica naziona-le, che, derivando da una mentalità e da una filosofia date direttamente dall’onnipotente, pone seri proble-mi interpretati-vi. Sarà il “popolo prediletto” a comportarsi male o il Dio tifo-so a esagerare col tifo? Al pari di Amos Oz che («Una terra, due stati») vede obbligatoriamente nel compromesso -una bestem-mia per gli oltranzisti delle due parti- l’unica via d’uscita, e di Grossman che autocriticamente ammette «gli ebrei sono capaci di far impazzire i loro nemici», Yehoshua ha una visione pessimi-stica della situazione e ne scrive con pacato furore. «Il responsa-

bile delle risorse umane» non è il suo libro migliore, anzi forse è il meno riuscito (leggete, se vi in-teressa, «L’amante», del 1977, con una scrittura morbida, essenzia-le e con un incipit alla grande: «[…] e noi nell’ultima guerra ab-biamo perso un amante. Aveva-mo un amante, e da quando è incominciata la guerra non lo si trova più, è sparito. Lui e la vec-chia Morris di sua nonna». Come si vede la guerra “ultima” per gli scrittori israeliani c’è sempre, e

Scheda tecnica film:distribuzione: Sacher

Durata: 103 minuti Origine: Israele/Germania/Francia/Romania

Anno: 2010

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la guerra in questione era quel-la del 76, ma poi non è che sia cambiato granché. Questo però è il romanzo forse più incisivo, più didatticamente funzionale a chiarire una situazione politica-mente più modesta -rispetto alla guerra, tutto diventa più mode-sto-, eppure estendibile a tutte le comunità occidentali, anche italiane: quella del destino de-gli immigrati. Un’immigrata che lavorava nella grande panetteria israeliana è morta, praticamen-te sconosciuta nell’azienda stes-sa. «Il responsabile delle risorse umane» -notare il senso buro-cratico del termine-, colpevole di disinteresse, deve riportare la salma nella nazione d’origine e là curarne le esequie. Una specie di lungo racconto dove il concreto della vita, sconosciuta ma rea-le, si scontra con l’astratto: chi era questa persona? Come posso

sentirla, venuta da lontano, una foglia portata dal vento, una di noi? E poi, quel noi è noi isra-eliani o non piuttosto noi mon-do? La vicenda non può essere solo locale, visto che ormai gli spostamenti etnici interessano tutto il mondo. Non c’è da farla lunga. Lo scrittore si sforza per dare un colore locale alla storia, ma per dare spessore al ragiona-mento che deve per forza diven-tare universale, astrae, teorizza.

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19a tu per tu con avis | maggio 2012

Nessuno dei suoi protagonisti ha un nome (tranne la morta, che ne ha addirittura tre) sino alla fine e così “il responsabile delle risorse umane” sarà identificato sempre con il ruolo, non col nome. La funzione, anziché l’uomo, uno straniamento infinito, simbolico, parente stretto dei deserti umani schiaccianti di Kafka. Ma il film è quasi piacevole: un sorriso fi-losofico, assurdo nel risvolto, dolente quanto basta. Riklis (Ge-

rusalemme 1954) è regista impe-gnato e ha già proposto due anni fa il doloroso e polemico «Il giar-dino di limoni». Cresciuto tra Sta-ti Uniti e Brasile, si è diplomato alla National Film School di Bea-consfield in Inghilterra. Ha girato i soliti molti cortometraggi e una decina di film, tra i quali spiccano il citato «Il giardino di limoni» e «La sposa siriana», pluripremiato. Le tematiche sono sempre sociali-politiche. Lo sguardo è semplifi-cato, diretto, didattico. Qui segue senza distaccarsi (solo il padro-ne del panificio diventa -perché mai?- la padrona) lo svolgimen-to narrativo del romanzo, e pro-babilmente lo fa sia per rispetto al grande scrittore, sia perché il narrato basta anche al film, un po’ visionario, un po’ folkloristi-co, molto stringato nel percorso essenziale. Film sul viaggio salvi-fico, come ormai si usa dire (ma

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20 maggio 2012 | a tu per tu con avis

non saranno troppi, questi road movie pieni di significati? Mah, adeguiamoci), cerca di mescola-re al meglio il realismo visivo e la sottolineatura assurda dell’e-volversi della situazione, sino a sfiorare il divertente, dopo aver filmato il grottesco: per esempio tutta la scena nel bunker rome-no, dove l’assurdità del fortilizio ora (speriamo anche in seguito) inutile, squallido e abbandonato, coincide con la crisi di vomito dei protagonisti. L’indifferenza del figlio-orfano ribelle (per età, per status, per situazione, per man-canza di alternative: simbolico? Sì, anche se scontato), è pari all’indifferenza del responsabile, quando, vedendo alla tv l’enne-sima cronaca dell’attentato (sen-za sapere che proprio là muore la sua dipendente), spegne infasti-dito. Ci si abitua a tutto, ancorché doloroso, come da noi rivedere

200 volte la tragedia del Giglio in overdosi sempre più massicce di “approfondimenti”. Inutile sve-lare oltre la trama, ma insomma il punto è che una dipendente è stata uccisa in un attentato, che tra l’altro non la riguardava (vit-tima due volte), che nessuno si interessa al suo corpo dilaniato, perché assente al panificio dove lavorava e soprattutto assente socialmente. Colpa di chi? Del Responsabile delle risorse uma-ne, dove “responsabile” implica un concetto più esteso del ruolo, quasi -ci si vuol dire, e noi civil-mente (almeno ideologicamen-te, poi la realtà è più indigesta) l’accettiamo- universale. E quel “risorse umane” è tecnocratico, anzi burocratico, come burocra-tico sarà molto dello svolgimento successivo (la restituzione della salma alla patria natia), perché burocrazia a ben guardare sono i

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21a tu per tu con avis | maggio 2012

confini, i permessi, i ricongiungi-menti e persino l’umano impegno del responsabile. Fa parte della burocrazia anche l’atteggiamento insofferente, infastidito, del re-sponsabile, che fa perché non può sottrarsi, ma che è preoccupato solo da un altro viaggio, quello promesso alla figlia e più anco-ra infastidito dalla presenza del giornalista colpevolizzante, che gli ricorda continuamente la sua insensibilità da “sbatti il mostro in prima pagina”, simbolo del mo-ralismo comodo: ahi, l’oscenità di certi giornali! A ben vedere tutto è intriso di moralismo scivoloso e aspettative umanitarie secondo una retorica cinematografica un po’ stantia. Ma il finale -come nel romanzo- è un piccolo colpo di genio, capovolgendo, come fa, la logica più temprata nella sacralità dei popoli. Dov’è la nostra terra? Dov’è, quindi, la Patria? È dove

sono sepolti i miei avi, dove sarò sepolto anch’io? Sì, c’è tutta una letteratura. «[…] Non è questa la patria in ch’io mi fido, / madre benigna e pia, / che copre l’un e l’altro mio parente?» (Petrarca, Le rime). E invece, ecco la novità, la Patria è -meglio può essere- dove si vive, dove s’è deciso di trasferirsi, o si è stati costretti a trasferirsi. Dove si è stabilita una vita nuova. Questo è il messag-gio. Ammettiamolo è un “pen-siero debole”, ancorché rivolu-zionario. Per ora è debole, oggi è debole. Ci siamo mai chiesti dove vengano seppelliti tutti gli extra-comunitari che vivono da noi? Sappiamo cosa sono loro per noi, ma non sappiamo cosa siamo noi per loro. Dove sarà la sepoltura che per Petrarca corrispondeva e corrisponde alla Patria. Le cose e le mentalità stanno cambiando, e in fretta.

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