«CONCERTONE» PER TRIO JAZZ E ORCHESTRA SINFONICA (BOLLANI - SILVESTRI)

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“CONCERTONE” PER TRIO JAZZ E ORCHESTRA (Stefano Bollani – Paolo Silvestri) Tentativi attuali (e riusciti…) di forma estesa nella Musica Improvvisata Contributo Analitico a cura di GIANPIERO LO BELLO

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Tentativi attuali (e riusciti...) di forma estesa nella musica improvvisata

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“CONCERTONE” PER TRIO JAZZ E ORCHESTRA (Stefano Bollani – Paolo Silvestri)

Tentativi attuali (e riusciti…) di forma estesa

nella Musica Improvvisata

Contributo Analitico a cura di GIANPIERO LO BELLO

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INDICE

PREFATIO 3

«CONCERTONE»: I CONTENUTI

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Primo movimento 8

Secondo Movimento 10

Terzo movimento 13

Quarto Movimento 15

CONCLUSIONI

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P r e f a t i o

Una delle tre monografie che hanno costituito il programma del corso di

Storia ed Estetica del Jazz1 ha preso in esame le grosse difficoltà incontrate dai

grandi compositori della musica afro – americana nel momento in cui si

cimentano con forme più estese, e riconducibili alla musica “euro – colta”, rispetto

alla canzone classica di 32 misure (A-A-B-A). Questa monografia, dal titolo

fortemente programmatico “L’impossibilità della forma sonata”, prendeva come

spunto alcuni tentativi di ampliamento della suddetta struttura armonica, la più

funzionale, utilizzata e “stravolta” durante la storia del jazz: tutti questi tentativi,

sebbene animati dai migliori propositi, spesso e volentieri naufragarono, o al più

non riscuoterono il successo preventivato.

La disamina ha focalizzato il proprio interesse su due grandi argomenti: la

suite “Black, Brown And Beige” (e relative revisioni successive) e i lavori dell’ultimo

periodo della produzione ellingtoniana, e quella corrente che prende corpo negli

anni Cinquanta, nota come Third Stream e che annovera, tra i propri esponenti,

musicisti come Gorge Russell, Gunther Schuller, Stan Kenton e, per motivi diversi,

Charles Mingus.

Le problematiche comuni a questi grandi musicisti, nel loro lavoro di ricerca

della forma estesa, furono sostanzialmente due, una complementare dell’altra e

viceversa:

a) fin dalle origini, i materiali usati dai musicisti di jazz presentavano una

grande disomogeneità, quasi al limite del caos; oltretutto, questi materiali

difficilmente possedevano più di un tema principale: unica eccezione, con tutta

probabilità, i ragtimes di Scott Joplin (ad esempio, “Treemonisha”) ed il “Concerto

in Fa” di James P. Johnson, di parecchio precedente a quello di Gershwin;

b) la parte dedicata allo sviluppo del tema, nelle composizioni jazz, veniva

sostituita in blocco dall’improvvisazione; anche in questo caso, ci sono nobili

eccezioni, prima fra tutte “A Love Supreme” di John Coltrane, organizzata

secondo lo schema della suite.

1 Anno Accademico 2006-2007, Conservatorio “Paganini” di Genova, Docente Pietro Leveratto

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La domanda, tuttora molto discussa e apparentemente senza risposta, è la

seguente: perché i tentativi di estensione delle forme sono, nella maggior parte

dei casi, fallimentari?

Nel caso di Ellington, bisogna andare un po’ indietro nel tempo.

Nel 1932, “Reminiscing In Tempo” venne inciso su ben quattro facciate di

dischi da 78 giri, per cui costituisce il primo esempio di composizione jazz che

sfonda i limiti dei tre minuti concessi alla canzone. La struttura è quella tipica del

tema con variazioni, ma la scrittura è complicata, e l’orchestra lo provò

ripetutamente prima di entrare in studio di registrazione. Poco successiva è

“Boola”, sulla carta un’opera “sinfonica”, un luogo musicale dove sviluppare idee

diverse: ad oggi, di quel lavoro, è sopravvissuta la sola “Ko – Ko”. Le necessità

lavorative, unita alla moda del momento – la swing craze – convinsero Ellington ad

accantonare temporaneamente il territorio delle forme estese.

Fu l’arrivo di Billy Strayhorn, musicista colto e molto preparato, a risvegliare

(se mai si spensero…) i sopiti ardori, e lo fa andando ad implementare con le

conoscenze teoriche il lavoro pratico di Ellington. L’occasione per concentrarsi

sulla scrittura si presentò loro tra il 1942 ed il 1943: fu allora che venne composta

“Black, Brown And Beige”, suite in tre movimenti, della durata originaria di 53

minuti, la cui prima esecuzione avrebbe dovuto avere luogo alla Carnegie Hall.

L’importanza dell’evento comportò ben venti giorni di prove, ma nonostante

questo il riscontro della critica dell’epoca si rivelò tutt’altro che positivo, per cui

Ellington non la eseguì mai più nella sua versione originale, ma sempre modificata

e mai per intero.

Lo sforzo profuso nel creare qualcosa di completamente afro – americano

fu notevole: egli utilizza piccoli spunti (molto caratterizzati dal punto di vista ritmico,

melodico ed armonico) omogenei e monotematici, assemblandoli secondo

regole e meccanismi propri del rondò: una specie di “alibi” per dare coerenza

reciproca ai diversi momenti i quali, diversamente, risulterebbero sconnessi tra di

loro. Risultato: si scatenarono sia le ire dei jazzisti tout court, i quali lo accusavano

di aver creato qualcosa che non “swingava” abbastanza, sia dei musicisti colti,

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che poco gradivano le contaminazioni “nere” del loro habitat, acquisito per diritto

dinastico.

Per quanto riguarda la Third Stream, invece, si partiva da un duplice

processo di “eterna variazione” e di “improvvisazione modulare” - quest’ultimo

molto caro al Miles Davis del periodo della produzione “elettrica” – al quale

veniva cucita addosso una veste che possedeva forti legami con la musica

elettronica post – darmstadtiana. Inoltre, anche il fattore cronologico giocò un

ruolo determinante: infatti, all’inizio degli Anni Cinquanta, Charlie Parker aveva già

tracciato la strada che avrebbe seguito l’evoluzione del jazz, dalla ricerca

esasperata delle sovrastrutture alla modalità passando attraverso il cromatismo

più spinto. In sostanza, i musicisti appartenenti a quel movimento, tutti dotati di

una solida formazione classica, provano ad utilizzare gli stilemi tipici della musica

colta europea del periodo (gestione delle timbriche, uso di dinamiche e tessiture

estreme, e quant’altro). Purtroppo, però, situazioni e motivazioni come quelle

descritte scontentavano, anche in questo caso, sia gli estimatori della musica

colta, i quali ancora una volta poco gradivano che un jazzista di colore (Mingus)

entrasse nei loro ambienti culturali, sia l’ascoltatore “medio” di jazz, che non

disdegnava alzare il piedino e ciondolare al ritmo di un robusto “4” e poco

gradiva sonorità troppo estremizzate.

Il caso del concerto della Town Hall del 1962 fu decisamente originale: una

cinquantina di musicisti – amici, colleghi ed ex – colleghi di Mingus – riuniti insieme i

una enorme e poco organizzata orchestra, con la finalità di registrare il concerto

dal vivo. Ne venne fuori una summa di tutti gli stilemi tipici dello stile mingusiano:

un risultato decisamente stimolante dal punto di vista strettamente artistico, ma di

scarso successo, in quanto la forma ampia poté salvarsi soltanto grazie ai moduli.

Con una memoria storica di questo tipo, e tenendo conto che, in questi

ultimi quarant’anni, sulla scena musicale mondiale se ne sono viste proprio di tutti i

colori, pensare che al giorno d’oggi ci sia ancora qualche musicista che tenti

coraggiosamente di addentrarsi nel difficile terreno delle forme estese potrebbe

risultare poco produttivo… Eppure, qualcuno c’è, ed ha il nome di Stefano Bollani.

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Il giovane e talentuosissimo pianista, milanese di nascita ma toscano di

adozione, ormai quattro anni fa (nel 2003), inizia a concepire un lavoro di ampio

respiro, in collaborazione con Paolo Silvestri, pianista, compositore ed arrangiatore

genovese di chiara fama e dalla condotta professionale ed impeccabile. I due

producono e co – firmano un concerto per trio jazz ed orchestra sinfonica,

costruito sullo schema del concerto classico, in quattro movimenti (Allegro –

Andante – Scherzo – Allegro): a parere di chi scrive – il quale ha anche avuto la

fortuna di suonare in diverse occasione quella musica, in qualità di Prima Tromba –

questo concerto costituisce un tentativo riuscito di ampliamento della forma,

attraverso il necessario processo di contaminazione con elementi diversi.

Nel prosieguo, si darà una breve descrizione formale e stilistica dell’opera,

per poi inquadrarla nell’ottica dell’asserto iniziale della monografia.

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«Concertone»: i contenuti

Come già detto, la struttura dell’opera è quella, ampiamente collaudata e

sfruttata, del concerto per strumento solista ed orchestra.

L’ispirazione originaria è quasi interamente di tipo letterario, in quanto i

temi del Primo Movimento sono stati concepiti per musicare i versi della poesia “Il

Vecchio Combattente” del francese Benjamin Peret, mentre quelli del Secondo

Movimento sono stati suggeriti a Bollani dalla lettura di un thriller intitolato “Eden

Andata E Ritorno”, il cui autore è uno scrittore spagnolo, di nome Josè Pablo

Feinmann. Il Terzo Movimento, solitamente indicato come “Scherzo”, è uno

scherzo nel vero senso della parola, come vedremo in seguito, mentre il sottotitolo

del Quarto Movimento è”Distanti”: in quest’ultima sezione del concerto, temi ed

arrangiamenti si devono interamente a Silvestri.

Prima di addentrarci nella descrizione, per quanto sommaria, di ognuno

dei movimenti, qualche parola sull’organico. Il trio che gestisce i momenti solistici

improvvisati è quello classico, con pianoforte, contrabbasso e batteria; l’orchestra,

invece, presenta una distribuzione delle famiglie di strumenti tipica del periodo

tardo – romantico, cioè:

a) Archi: 12 Violini Primi – 12 Violini Secondi – 6 o 8 Viole – 4 o 6 Violoncelli;

b) Legni: Flauti, Oboi, Fagotti e Clarinetti a 2 parti (I e II);

c) Ottoni: Trombe, Tromboni e Corni a 4 parti (I, II, III e IV).

d) 1 Saxofono Contralto e 1 Saxofono Tenore.

Da notare che alla Prima Tromba ed al Primo Trombone vengono richieste,

per esigenze di scrittura delle parti, sia qualità di lettura “orchestrale” e

“disciplinata” che capacità di interpretazione in chiave jazzistica. Infine, ai Legni,

spesso e volentieri, viene richiesto l’utilizzo di strumenti diversi (Corno Inglese,

Ottavino, Clarinetto Basso).

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PRIMO MOVIMENTO

Il componimento in versi al quale si ispirano i temi descrive una sorta di

parata di reduci della Seconda Guerra Mondiale; i loro discorsi, intrisi di autoironia,

senso della tragedia e un pizzico di rassegnazione, sono scanditi dalla marcia

cadenzata della parata, pertanto l’aspetto ritmico risulta essere fondamentale.

Quella ritmica, dunque, risulta essere la caratteristica predominante dei due temi, i

quali vengono gestiti, nella forma, esattamente nello stesso modo in cui i

compositori romantici gestivano i loro temi nei Primi Movimenti di concerto, per

loro natura bi – tematici e tri – partiti. Unica eccezione, le tonalità: la tradizione

impone che primo tema e secondo tema siano ad una quarta di distanza, mentre

nel caso del Primo Movimento di “Concertone” il primo è in Do Maggiore, il

secondo in Si Bemolle Minore.

L’apertura è evocativa e fortemente caratterizzata: pedale degli archi,

breve interludio di sapore free (sibili di flauti, gemiti dei saxofoni), la voce

malinconica del corno inglese che prende un breve tema, riportato di sotto e che

verrà riproposto anche prima dello “stretto” finale, la sezione dei corni armonizzata

che fa subito eco al solo del corno inglese.

Il tutto per una durata di 28 misure, più o meno libere.

Dopo un rapido episodio che consente al pianoforte di presentarsi, già sul

tempo metronomico e lungo 16 misure, vengono esposti entrambi i temi, uno di

seguito all’altro.

La frenesia di questo momento iniziale viene interrotta da una cadenza

intermedia del pianoforte, che funge anche da lancio per la riproposizione del

secondo tema, alla metà del tempo precedente e in un’atmosfera più intima.

Questo cambio di mood conduce al primo momento improvvisativo, costituito da

due strutture armoniche suonate per intero (in totale, 100 misure): nuovamente il

secondo tema al tempo originario, quindi un nuovo solo improvvisato, stavolta

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appannaggio del contrabbasso. Proprio qui, in questo blocco appena descritto

dove l’alternanza degli stati d’animo la fa da padrone, si riscontra l’equivalente

dello sviluppo tematico del concerto classico, sviluppo che culmina, nel nostro

caso, con un accordo alterato il quale costituisce il picco dinamico più alto del

movimento.

Il piccolo tema iniziale del corno inglese funge da collegamento alla

cadenza finale del piano, alla quale segue la degna conclusione del movimento:

il secondo tema frammentato e “condito” con energici fills di batteria, un tutti

orchestrale dove spicca la Prima Tromba che esegue il tema all’ottava acuta, ed

infine nuovamente il piccolo tema del corno inglese, stavolta affidato a tutta

l’orchestra in un frenetico accelerando dove il piano suona liberamente.

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SECONDO MOVIMENTO

L’aria che si respira nel Secondo Movimento è, com’è giusto che sia e

come ci si aspetta da forme come il concerto per solista e orchestra, decisamente

diversa, rispetto al Primo. Anche i temi confermano questo asserto: il primo, a tinte

scure, simboleggia il viaggio verso il Giardino dell’Eden, il secondo – di decisa

connotazione impressionista, al punto di azzardare una lontana parentela con

certi lavori di Debussy – informa che il viaggio di andata è giunto a compimento,

la ripresa del primo riporta l’ascoltatore al punto di partenza.

Per l’appunto, “Eden Andata E Ritorno”…

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L’introduzione del movimento è affidata al piano solo, che esegue una

sorta di preludio, libero, seguito dall’esposizione del primo tema, a tempo.

Sull’ultimo accordo sospeso, entrano gli archi con un pedale melodico di crome

per seconde maggiori: su questo disegno, il corale dei legni è impegnato nella

riproposizione testuale del primo tema, con gli ottoni che entrano a supporto nelle

seconde otto misure.

Un episodio di quattro misure, quasi un interludio, fa da collegamento tra

primo e secondo tema, anche in questo caso proposto due volte: la prima, solo

per metà, dal piano solo; la seconda, per intero, dal violino accompagnato dal

piano, duo al quale si aggiunge l’intera sezione degli archi nella seconda parte.

La parte dell’esposizione tematica si conclude con una piccola “coda”, dove a

farla da padrone sono ancora i legni.

A questo punto, fanno il loro ingresso il basso e la batteria, ed il primo

prende subito un solo improvvisato, sulla struttura armonica del primo tema. Due

chorus interi, e l’attenzione si sposta sul piano, il quale di chorus ne suona uno in

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trio e ben due con il supporto dell’orchestra (specialmente delle trombe, che

eseguono testualmente la seconda parte del primo tema). Per tutta la durata

dell’improvvisazione, va notato che la batteria si adegua all’atmosfera che si

viene a creare; infatti, il disegno ampio, quasi diafano, dei primi chorus si infittisce

sempre più, fino a diventare massiccio e addirittura dirompente nel finale: un

degno supporto a trombe e tromboni, sezioni alle quali viene assegnata, ancora

una volta, la seconda parte del primo tema, in una lacerante dinamica di

fortissimo.

La riproposizione del secondo tema, senza pianoforte, con gli archi ad

eseguire la melodia e clarinetto e flauto a fare da interlocutori con una

contromelodia cromatica, costituisce il ricordo del Paradiso Terrestre appena

visitato, ma il ritorno è frettoloso e quasi tragico: il finale del Movimento è, infatti,

un incalzare di riffs, uno per ogni sezione, di disegno melodico ascendente ed in

accelerando, con la batteria che aggiunge caos al caos prendendo un solo ai

limiti del free. Il climax viene raggiunto proprio sull’ultima battuta: l’accordo finale,

pieno di dissonanze e suonato da tutta l’orchestra in più che fortissimo,

solitamente blocca gli applausi in attesa del Terzo Movimento…

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TERZO MOVIMENTO

Come accennato nella prefazione, il Terzo Movimento del Concerto per

Solista ed Orchestra veniva sempre indicato come “Scherzo”, quasi ad indicare un

qualcosa di avulso dal resto dell’opera. Nel caso di “Concertone”, questa

indicazione sta proprio a significare che si tratta di un vero e proprio gioco

scherzoso tra il pianoforte e l’orchestra, e l’ilarità che si scatena spontaneamente,

durante l’esecuzione, costituisce una vera e propria boccata di ossigeno, dopo le

tinte scure e le sonorità drammatiche del Secondo Movimento. E pensare che, a

detta di un Silvestri in vena di confidenze, la prima stesura dell’opera non

prevedeva lo Scherzo…

Il tema, semplice e fanciullesco, è una palese dichiarazione di stima nei

confronti dello Stile Galante, in primis verso autori come Haydn e, in maniera meno

marcata, Mozart. L’introduzione è stilisticamente ineccepibile, con il tema e i

successivi spunti melodici che creano un vero e proprio dialogo tra il solista e

l’orchestra; ben presto, però, la geometria equilibrata di questo costrutto inizia a

scricchiolare, attraverso una figurazione melodico – armonica discendente la

quale, verso il finale, degenera nell’esatonale e nel ritmicamente scomposto, con

un’alternanza di misure in 3/4 e 4/4 .

Una breve pausa di silenzio, che dal vivo prevede uno scambio di sguardi

dissimulatamente increduli tra pianista e direttore, e poi via di nuovo al gioco del

dialogo comico, esasperato fino al paradossale ogni due misure. Dopo l’ultima

frase, nella quale tutta l’orchestra risponde al pianoforte, senza mezze misure, il

pianista si alza, va dal direttore e mima, incredulo, una richiesta di spiegazioni; il

direttore annuisce e il pianista si lascia scappare un laconico <<Okay!...>>: ecco

quindi che TUTTA L’ORCHESTRA RISPONDE <<OKAY!...>> AL PIANISTA!!! Va detto,

ad onore di cronaca, che questo siparietto comico, nelle esecuzioni dal vivo,

poteva durare MOLTO a lungo…

Tutto sembra ritornare sui binari della normalità quando il solista ritorna al

pianoforte e riprende il tema per portarlo a conclusione, ma il tenorsassofonista,

probabilmente poco informato, prende una cadenza a solo proprio sull’accordo

di dominante che dovrebbe precedere la tonica conclusiva: per farlo smettere di

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suonare, si scomodano addirittura il bassista ed il batterista, i quali a fatica lo

portano dietro le quinte e gli sparano…

Di nuovo a posto, di nuovo tema conclusivo, ma questa volta è il pianista a

metterci del suo, iniziando a sua volta una lunga cadenza sulla dominante che

non risolve mai: giocando d’astuzia, risolverà sulla tonica un attimo prima che il

direttore dia l’attacco per l’accordo finale all’orchestra, e sentendosi orgoglioso

di aver buggerato sessanta musicisti, si alzerà dal piano urlando <<PRIMO!!...>> .

Insomma, un vero e proprio scherzo, la cui quasi esclusiva utilità è quella di

stemperare i toni seriosi del Secondo Movimento e preparare all’ascolto del Terzo

con uno stato mentale decisamente più leggero.

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QUARTO MOVIMENTO

Interamente concepito da Silvestri, eccetto il secondo tema, il Quarto e

conclusivo Movimento di “Concertone”, dal sottotitolo “Distanti”, presenta la più

forte caratterizzazione ritmica di tutta l’opera, in quanto il primo tema, quello

principale, è costruito sulla scansione dello shorinho, una danza tradizionale

brasiliana.

Ancora una volta, sono i solisti del trio ad iniziare il movimento, e dopo 40

misure entra l’orchestra, con i legni ed il sax soprano a eseguire il primo tema in

risposta al piano e gli archi a sottolineare il ritmo. Di nuovo piano solo a proporre il

secondo tema e di nuovo il trio a chiudere, ancora col primo: nel cappello

introduttivo del movimento, che qui si conclude, si possono ravvisare gli estremi di

una struttura che ricorda quella della forma canzone A – A – B – A, dove la A è il

primo tema e la B è il secondo. Da qui inizia un processo di sviluppo tematico, di

seguito indicato come “break” che riprende la coda del primo tema per sfociare

nel solo improvvisato del basso, che abbassa la “temperatura” emotiva del brano

per tre giri completi della struttura; ci pensa il piano a farla rialzare

progressivamente, improvvisando su quattro strutture complete.

Il rientro dell’orchestra vede la doppia riproposizione del tema da parte

dell’orchestra, una volta in tonalità originale di Re Bemolle Maggiore e la seconda

un semitono sopra: questo momento è interrotto bruscamente dalla cadenza

intermedia del pianoforte, alla quale segue un nuovo “break”, identico al

precedente non fosse per la chiusura, dove Prima e Seconda Tromba suonano la

stessa parte all’ottava superiore.

Lo Stretto finale inizia con un brevissimo interludio di piano, sconnesso dal

resto, a cui fa seguito un disegno melodico per terze minori discendenti del basso,

per sfociare in un ostinato ritmico suonato prima dal piano e poi dall’orchestra

intera; la degna conclusione è un violento accordo di Re Bemolle alterato, nel

quale la Prima Tromba può fare sfoggio delle sue doti di estensione nel registro

sovracuto.

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CONCLUSIONI

L’esempio testé analizzato, prescindendo dalle implicazioni emotive del

sottoscritto, il quale, come già detto, ha avuto la fortuna e l’onore di far parte

dell’orchestra in diverse esecuzioni pubbliche dell’opera, costituisce

oggettivamente un valido esempio di musica formalmente (e fortemente…)

organizzata e strutturata, nella quale una cospicua parte del materiale è

improvvisativo. In sostanza, è una composizione di sapore retrò, ispirata

formalmente al Concerto In Sol di Maurice Ravel, che acquista valore mediante

alcune importanti “sporcature”, effettuate con elementi moderni (improvvisazioni

su accordi e modali, momenti free, elementi ritmici esotici, e quant’altro

evidenziato in sede di analisi), il tutto gestito con sapienza teatrale e con una

scrittura sempre equilibrata. Inoltre, la forte caratterizzazione dei temi fanno in

modo che i momenti di improvvisazione siano visti come il vero e proprio

equivalente attuale dello sviluppo tematico di romantica memoria, nell’ottica

della “trasformazione” melodica che finisce per creare climi diversi e contrastanti

tra di loro.

A conclusione della monografia, dunque, ci si può lecitamente porre

l’annosa domanda: perché le suites di Ellington, i lavori di Kenton, Russell e

Schuller, gli sforzi profusi da Mingus nell’organizzazione del concerto della Town

Hall, non hanno sortito l’effetto sperato, cioè quello di sfondare il muro imposto

dalle 32 misure del chorus della forma canzone A – A – B – A? Cosa hanno avuto

Bollani e Silvestri in più, rispetto ai grandi musicisti citati in precedenza?

La risposta ha basi ovviamente e necessariamente storiche, da inquadrare

in due ottiche: una di più ampio respiro, che abbraccia sostanzialmente tutta la

Storia della Musica, ed una strettamente legata al jazz.

Innanzitutto, la vicenda storica e personale dei grandi protagonisti della

Musica, di tutte le epoche, mette in evidenza un parallelismo, o meglio una

complementarità, tra il Genio artistico e una serie di esigenze di ordine pratico:

giusto per fare un esempio, la caparbietà di Wagner nell’imporre la propria

musica, già di per sé totalizzante (ricordiamo il Wort – Ton – Drama…), costituisce

lo spunto iniziale, la miccia accesa; le indicazioni per le modifiche al teatro, inteso

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come luogo fisico, acchè la soglia di attenzione del pubblico durante

l’esecuzione della sua musica si mantenga alta sono il problema pratico da

superare. Ecco, quindi, che il musicista tedesco concepisce un nuovo teatro,

dove l’uso accorto di luci e scenografie e un’accorta ridistribuzione degli spazi

concorrono all’affermazione del genio musicale.

In conseguenza di ciò, non si fa torto a nessuno quando si afferma che la

forma musicale, nella sua ispirazione originale, non si può permettere di

mantenersi avulsa dal contesto sociale in cui nasce, né tantomeno dalla

committenza che richiede l’opera stessa.

Andando più nello specifico, l’analisi oggettiva della vicenda dei musicisti

di jazz evidenzia come la principale necessità di ordine pratico era, per loro, la

vendibilità della loro musica, in quanto il background culturale e sociale di questi

musicisti era sostanzialmente leggero – commerciale. In fin dei conti, il jazz nasce

come musica da ballo, e i produttori, i discografici e gli stessi musicisti non

potevano fare a meno di considerare la soddisfazione del pubblico come

obiettivo primario. Quindi, visto che l’ascoltatore medio non possedeva, non

possiede e, probabilmente, non possederà, un orecchio troppo abituato a

prodotti musicali, diciamo così, “pronto uso”, ecco che i loro tentativi di estensione

della forma – canzone non sortiscono gli effetti sperati, in termini di calorosità del

pubblico, dei critici e, ultimo ma non meno importante, di vendita. A supporto di

questo asserto, si può notare come, il più delle volte, i musicisti americani (bianchi

e neri, senza distinzioni) si siano concessi esibizioni “serie” o “classiche” solo

quando vengono in Europa.

Nulla di nuovo, dunque: la solita dicotomia tra estro artistico sempre in

fermento e pragmatismo quotidiano.