MAGAZINE PAMA NATALIZIO TERAMO 2016

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MAGAZINE MERRY CHRISTMAS 2016 Supplemento a Paese Nostro n. 23 - Anno 7 - Maggio 2016 Registrazione al Trib. di TeramoN. 625 del 8 marzo 2010Direttore Responsabile: Giuliano Marsili

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Marketing & Comunicazione di Patrizia ManenteVia Luigi Longo, 21 - Teramo

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StampaEditPress - Castellalto (TE)

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MAGAZINEMERRY CHRISTMAS

Auguri

di buone feste

Ai lettori

e Agli Amici

inserzionisti

Paola Manente

Questo magazine è sfogliabile on-line all’indirizzo:http://www.lelcomunicazione.it/blog/magazine-pama-natalizio-teramo-2016/

sommArionAtAle in Abruzzo 4di Elisabetta Mancinelli

il buon brodo di cArdo 8di Patrizia Manente

li cAggiunitt’ 9di Patrizia Manente

PAlAzzo liberAti 10Hollywood e il suo mito 12di Michela Cialini

l’Antico mulino 14

VittorinA cAstellAno 16di Patrizia Manente

QuAndo nei sAlotti teleVisiVi 17non c’erA lA cronAcA nerAdi Marcello Martelli

inVito A cAsA miA 18di Chie Yoshida

il fAscino Antico dellA scArPA 20di Michela Cialini

QuAndo A fonte reginA 22si beVeVA l’AcQuA dell’Amoredi Luca Di Dionisio

ecco come fAre 23lA cotognAtA in cAsAdi Graziano Celani

mAdonnA delle grAzie 24di Vincenzo Di Gennaro

troPPe tAsse e non HAi Piu’ soldi? 26il rimedio si cHiAmA “bArAtto” di Giovanna D’Alessandro

il Polittico del duomo A riscHio 27di Paola Di Girolamo

sAntA elisAbettA e lA suA storiA 28di Elisabetta Mancinelli

dAllA PreVenzione AllA ricostruzione 30di Enzo Saraceni

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nAtAle in Abruzzodi Elisabetta Mancinelli

Il ciclo natalizio, che parte dal solstizio d’inverno e termi-na con l’Epifania, celebra la festività in cui viene ricor-data la nascita di Gesù che, nella cristianità occidentale

cade il 25 dicembre in quella orientale il 6 gennaio. Ma la data della nascita di Cristo non è nota e i Vangeli non ne indicano né il giorno né l’anno. Le fu probabilmente asse-gnata la data del solstizio d’inverno perché, nel giorno in cui il sole comincia il suo ritorno nei cieli boreali, i pagani celebravano il dies natalis del Sol Invictus. Dunque l’ori-gine della natività potrebbe essere collegata con la festa del dio del sole e signore dei pianeti e il Vangelo stesso parla del Messia descrivendolo come Sole di giustizia. La preferenza per il 25 dicembre sarebbe derivata dalla ne-cessità di contrapporre una festa cristiana ad una pagana nel momento in cui si diffondeva il Cristianesimo. La data del 25 dicembre prima di diventare il ”compleanno di Gesù” era dunque un giorno di festa per i popoli del pe-riodo primitivo in quanto la loro esi-stenza dipendeva dal “ciclo della na-tura” che aveva al centro il Sole l’astro indispensabile per la sopravvivenza. Nell’antica Roma dal 17 al 24 dicem-bre, nel periodo in cui si viveva in pace, si festeggiavano anche i “Saturnali” in onore di Saturno dio dell’agricoltura, ci si scambiava doni e si facevano luculliani banchetti abbandonando ogni divisione sociale. Ma le verità storiche sulle origini del Natale spaziano da-gli antichi culti pagani ai culti orientali del dio indo-per-siano Mitra, ai Saturnalia romani fino alle varie metamor-fosi di Babbo Natale: dallo sciamano tribale custode del fuoco al vescovo cristiano San Nicola al testimonial per la propaganda della Coca Cola.

NATALE DI UN TEMPOPer ricchezza di simbolismo e antichissimi riti il Natale in Abruzzo è stato da sempre celebrato con una eccezionale solennità. Il nuovo anno nella regione comincia proprio col Natale, il Capodanno è quasi un’appendice e l’Epifania chiude il ciclo delle feste. Un tempo nella nostra regione i preparativi che precede-vano il Natale erano festosi e lunghi: novene dell’Avvento nelle chiese, allestimento dei presepi, dolci e cibi tipici e

l’accensione del ceppo nel-le case e nelle vie, il suono caratteristico delle zampo-gne e l’antica usanza della “Squilla” nel pomeriggio dell’antivigilia di Natale. Un miscuglio di tradizioni pagane e cristiane che con le sue luci e i suoi colori conferivano un’atmosfera di suggestione in particolar modo ai piccoli paesi ar-roccati sui cocuzzoli delle nostre montagne.

TRADIZIONI:IL RITO DEL cEPPOIl ceppo o “tecchie” era il tronco che, al momento della provvista della legna, veniva messo da parte per essere bruciato la notte di Natale e rimaneva nel camino ed ar-deva dalla sera della vigilia di Natale sino a Capodanno. Ogni famiglia si riuniva davanti al camino e vi metteva il ciocco dicendo: “Si rallegri il ceppo, domani è il giorno del pane. Ogni grazia di Dio entri in questa casa. Le don-ne facciano figlioli, le capre capretti, le pecore agnelletti, abbondi il grano e la farina e si riempia la conca di vino”. Poi i bambini, con gli occhi bendati, dovevano battere sul ceppo con un bastone recitando una canzoncina detta “Ave Maria del Ceppo” che aveva la virtù di far piovere su di loro dolci e regalini.Sul ceppo acceso, si aggiungeva sempre altra legna che doveva bruciare lentamente per la durata di dodici giorni che stavano a significare i dodici mesi dell’anno ed erano in analogia al sole che, nascendo al solstizio d’inverno, avrebbe nutrito la terra per un anno intero. Per questo motivo si diceva.”domani è il giorno del pane” e si festeg-giava mangiando dolci a base di farina.Nel rito dell’accensione si fondono due elementi propi-ziatori; il valore del fuoco immagine del sole e della vita e il simbolico consumarsi del tronco che voleva significare anche la fine del vecchio anno con tutto ciò che di nega-tivo ha portato. Al culto del sole si è sovrapposta nella liturgia cristiana la figura di Cristo che si è incarnato e sacrificato per salvare l’uma-nità e sostenere l’uomo nel suo viaggio terreno. Per questo al ceppo si aggiun-gevano dodici pezzi di legno in memoria degli apostoli oppure gli si posavano accanto porzioni di cibo. I carboni

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del ceppo, considerati sacri, la mattina di Capodanno ve-nivano riaccesi nelle campagne poi una volta spenti veni-vano sparsi nelle zolle a scopo propiziatorio.

LA FARchIA DI TUFILLOAnche nel borgo di Tufillo (Ch) un paese sulla sponda abruzzese del fiume Trigno, il fuoco è protagonista della vigilia di Natale, o meglio la “farchia”, un tronco lungo e diritto che può arrivare anche a venti metri in-torno al quale vengo-no inseriti altri tronchi minori, fino a formare un grosso fascio, tenu-to insieme da cerchi di ferro. Il pomeriggio del 24 dicembre davanti alla chiesa di San Vito la farchia viene “vesti-ta” dagli abitanti del paese che, sfilando in corteo, procedono tra i vicoli del centro storico, a torcia spenta, facendo tappa nei vari punti di ristoro a base di vino e dolci tipici di Natale: torcinelli, cagionet-ti, biscotti di mandorle e pizzelle. A mezzanotte il rito si compie: davanti alla chiesa di Santa Giusta viene appicca-to il fuoco alla farchia mentre i visitatori intonano i canti natalizi.

LE “NTOSSE” La notte del 24 dicembre, poco prima della mezzanotte a Santo Stefano di Sante Marie (Aq) si svolge una proces-sione con le fiaccole accese, “ntosse”, che anima le vie del piccolo borgo; le torce, realizzate con querciole spac-cate, riempite con stecche, o fasci di ginestre essiccate, vengono poi deposte davanti alla chiesa per alimentare un grande fuoco. La processione ricorda il cammino dei pastori che si recavano alla capanna di Betlemme e, in passato, quando non c’era la pubblica illuminazione, le “ntosse” illuminavano la strada ai fedeli che si recavano in chiesa per la messa di mezzanotte.

LA SQUILLA A LANcIANO

Il 23 dicembre a Lanciano si ripete da secoli un’ antica originale usanza che continua a conservare tutto il fa-scino di un tempo. Nel pomeriggio dell’antivigilia il dol-ce e ripetuto rintocco di una campana “La squilla” apre le feste natalizie in un rituale di pace e di concordia. I fedeli portano in mano delle candele, le cui fiammelle illuminano il corteo che avanza col sottofondo musicale della magica campana. Chi non partecipa al corteo può accendere una candela nella propria abitazione. Secondo la tradizione, la squilla ricorda il viaggio che un arcivesco-vo di Lanciano, Tasso, compiva ogni anno dal 1588 al 1607, a piedi scalzi dal suo palazzo alla chiesetta dell’Iconicella (3 km) in segno di penitenza e per ricordare il viaggio dei

pastori verso la grotta di Betlemme; molti fedeli lo ac-compagnavano per ascoltare la sua predica di pace. Du-rante il pellegrinaggio la campanella suonava senza mai fermarsi, si fermava soltanto al rientro del vescovo nel suo palazzo. Per i lancianesi la campanella della squilla è il simbolo ed il rito del Natale.

I PRESEPI IN ABRUZZOIl Presepio nella nostra regione ha una tradizione anti-chissima. Si ricorda il primo esemplare di presepe dome-stico presso la casa della nobile famiglia Piccolomini di celano in quanto la sua esistenza viene menzionata in un Inventario proveniente dal Castello di Celano redatto nel 1567 che enumera gli oggetti appartenenti alla duchessa Costanza Piccolomini.I presepi folcloristici si sono tramandati fin dai tempi an-tichi in Abruzzo.Alla tradizione del presepe popolare è collegato il Pre-sepe vivente di grande contenuto mistico. Tanti “presepi viventi” vengono allestiti nella nostra regione.

Sicuramente il primo e più famoso “presepe vivente” d’A-bruzzo è quello che ha luogo a Rivisondoli il 6 gennaio. Ambientato in un suggestivo scenario pastorale naturale, il Presepe Vivente di Rivisondoli, fa rivivere in una magi-ca atmosfera il grande evento della natività. il Presepe Vivente, tra i più antichi d’Italia, si svolge per quadri che ripercorrono fedelmente il racconto evangelico. Una ma-nifestazione a cui Rivisondoli ha legato da cinquant’anni il proprio nome. Animata dalle figure classiche del Pre-sepe, la rappresentazione vede la partecipazione di tutta la popolazione. Tradizione vuole che Gesù Bambino sia impersonato dall’ultimo nato del paese. In località “Piè Lucente”, ai margini del Piano delle Cinque Miglia, la ma-nifestazione è seguita da migliaia di turisti.

A cerqueto di Fano Adriano (Te) il 26 dicembre in un’at-mosfera magica e raccolta alle pendici del Gran Sasso, si svolge uno dei più antichi presepi viventi della regione. Il rito coinvolge tutti gli abitanti sia nei preparativi, che du-

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rano l’intero anno, sia nella rappresentazione vera e pro-pria che ha luogo la sera di Santo Stefano nella piazza più grande del paese appositamente predisposta. Qui, nella penombra appena rischiarata da torci fumanti, figuranti in abiti d’epoca romana narrano la Natività iniziando dai racconti biblici della Creazione.

Dall’ 8 dicembre al 6 gennaio di ogni anno dal 1996, all’in-terno delle Grotte di Stiffe (S. Demetrio dei Vestini Aq) viene allestito un suggestivo Presepe artistico in uno sce-nario originale e di grande impatto visivo.

Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelliemail: [email protected] documenti sono tratti dall’Archivio di Stato da “Le radici pagane del Natale” di Elena Savino; da “Folklore abruzzese” Lia Giancristofaro. Le immagini sono tratte dal patrimonio fotografico di Tonino Tucci che ne autorizza la pubblicazione. Indirizzo: Via Veneto, 10 Montesilvanoemail: [email protected]

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Altro piatto della tradizione natalizia teramana è il prelibato brodo con il cardo. E’ un delizioso e leg-gero ortaggio perché contiene pochissime calorie e

molto vicino al gusto del carciofo. La parte del gambo è quella commestibile, resa più tenera dalle gelate inver-nali. Il cardo migliore si presenta chiaro e con i gambi chiusi. Per cucinarlo richiede molto tempo, sia per pulirlo (dovrà essere ben sfilato) che per la cottura. Per non farlo scurire, tagliarlo a dadini e immergerlo in acqua con suc-

co di limone. Per lessarlo va messo nella pentola con abbondante acqua bollente. A cottura avvenuta,

divenuto morbido e tenero, scolarlo bene e riemmergerlo in una pentola smaltata con acqua fredda. Quindi strizzare bene i dadini di cardo e riporre. Al brodo rigorosamente di gallina o gallotta verranno aggiunte le polpettine di carne (preparate con carne di vitello, parmigiano, sale, noce moscata) stracciatella (uova sbattute) che si cuoce-ranno con il calore del brodo. In aggiunta al brodo fegatini e durelli tagliati fine-mente come anche la carne di gallina o della gallotta. Infine, una spruzzata di parmigiano. E’ un piatto completo e gustosissimo, che non mancherà sulla tavola il giorno di Natale.

il buon brododi cArdo Per lAtAVolA di nAtAledi Patrizia Manente

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li cAggiunitt’(cagionetti)di Patrizia Manente

Sono dolci della mensa tradizionale delle feste natali-zie, presenti in molte famiglie abruzzesi per onorare le ricette e i segreti culinari delle nonne. Specialità

tipiche locali che fanno bella mostra nelle vetrine dei forni e delle pasticcerie di Teramo e dintorni. Specialmente nel periodo natalizio, quando la caccia ai dolci della tradizio-ne è aperta e non c’è mensa che non ne sia fornita. Li caggiunitt’, per la loro forma, ricordano i ravioli, ma con un sapore tutto diverso e sicuramente eccellente.

Ingredienti per il ripieno

Castagne o marroni lessati e ridotti a purea (in passato si adoperavano anche i ceci), mandorle tostate e frulla-te, rum aromatizzato, buccia di limone grattugiata, zuc-

chero, cioccolato fondente, cannella, cedro grattugiato o sminuzzato, un po’ di caffe’ macinato e liquido.

Per l’impasto

Farina, vino bianco, olio evo, acqua, olio di semi di mais o arachidi

Preparazione

Per prima cosa occorre preparare il ripieno un giorno o due giorni prima (per meglio insaporire) mescolando tutti gli ingredienti in una terrina. Poi procedere con la pre-parazione dell’impasto, mescolare gli ingredienti fino ad ottenere un composto morbido ed elastico, far riposare per circa un’ora. Stendere la pasta in modo sottile con il matterello, oppure con la macchinetta e formare delle strisce di pasta adagiando nel mezzo un po’ di ripieno come si usa fare per i ravioli, infine usare il taglia ravioli e intorno pigiare con i denti della forchetta. In una pen-tola profonda mettere abbondante olio e quando questo risulta ben caldo buttare un po’ alla volta i cagionetti, gi-rarli una sola volta e non farli colorare. Tolti dalla frittura, poggiarli delicatamente su carta straccia o carta assor-bente. Raffreddati metterli su vassoi spolverizzandoli con un po’ di zucchero e cannella in polvere.

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PAlAzzo liberAtie le sue storiche cantine

Il Palazzo Liberati è uno dei principali edifici storici dell’antico borgo di Tortoreto Alta, di proprietà delle sorelle Angela Rita, Maria e Vincenza. Esso presenta

tracce dell’antico Castrum Salini nella cinta muraria a scarpa e nella cisterna sempre di epoca romana.Duran-te il Medioevo era parte del borgo fortificato verso Ovest insieme con la costruzione difensiva chiamata cassero. Attualmente l’edificio, di estese dimensioni, presen-ta particolari caratteristiche architettoniche, risultanti dall’accorpamento di più parti risalenti ad epoche diver-se.Prospiciente la vallata, ha un aspetto tipico delle abita-zioni nobiliari con soffitti affrescati e decori vari; ad esso è aggregato un manufatto più vecchio, situato ad ovest, che mostra reminiscenze marcatamente medioevali, con piccole finestrature e feritoie proprio di un baluardo, e rappresenta certamente il nucleo originario del castello, sorto a difesa del territorio che, da questo punto, spazia dal mare alle montagne. Il tutto si completa con un’ulte-riore costruzione di forma quadrata, a suo tempo desti-nata a stalle e rimessaggio, collegata al corpo principale da un arco con sovrastante passaggio coperto. Un’altra caratteristica storico architettonica è rappresentata dalle cantine valorizzate dalla presenza di una grotta scavata nel sottostante strato di terreno, composto da sabbie compatte ed agglomerati ghiaiosi, adibita al man-tenimento di prodotti alimentari, vista la temperatura sempre costante in ogni stagione. Un ampio giardino,che circonda per due terzi l’intera proprietà, mette maggior-mente in risalto l’imponenza della struttura. La scorsa

estate il Palazzo Liberati è stato gentilmente concesso per la famosa rievocazione storica del Palio del Barone.

Bibliografia: Santangelo E.,Tortoreto – Guida storico-ar-tistica, Carsa edizioni 2002

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Hollywoode il suo mito di Michela Cialini

Hollywood ad oggi rappresenta un gigante dell’indu-stria del cinema. Ma è stato sempre così?Nel 1912, la capitale mondiale dell’industria del ci-

nema era Parigi grazie alla produzione di lungometraggi

che diedero forma ai generi cinematografici. Al contrario, l’industria statunitense era arretrata, i film erano cor-ti, non elaborati e venivano trasmessi durante spettacoli dal vivo perché le sale cinematografiche erano fatiscen-ti. Questa differenza veniva rimarcata dal fatto che negli Stati Uniti si fosse costituito un cartello di dieci aziende, il cosiddetto Film Trust, che costituiva un limite allo svilup-po dell’industria del cinema. In effetti l’obiettivo del Film Trust era quello di evitare la competizione con altri pro-duttori e distributori filmici, motivo per cui decise di fissa-re i prezzi di ogni fase della produzione e della distribuzio-ne di pellicole e bloccò l’importazione di film stranieri in quanto venivano privilegiati cortometraggi semplici e non controversi. Al contrario di come agirebbe un monopolio,

il Film Trust realizzava prodotti economici e di conseguenza faceva di-minuire i prezzi andan-do però ad intaccare la qualità dei film che per forza di cose dovevano essere contenuti nei limiti di durata e preve-nire l’eccesso di fama di un attore. A questa situazione decisero di opporsi gli Indipenden-ti, i quali accettavano di malgrado le regole im-poste dal cartello.Nel 1912, quindi, non c’era ragione per cre-

dere che Hollywood avrebbe occupato un posto di premi-nenza nel pano-rama del cinema data la spaccatura tra il Film Trust che rappresentava l’America bianca, proprietaria di sale e brevetti e gli In-dipendenti costituiti da immigrati senza agganci economici

e politici. Tuttavia, gli Indipendenti, iniziarono a ribaltare la situazione indovinando un giusto processo di innovazio-ne del cinema e avvicinandosi sempre più ad un pubblico giovane e multietnico. Fu così che ci si avvicinò pian piano alla denuncia del Trust, da parte degli Indipendenti, che pertanto venne sciolto nel 1915 rendendo per la prima volta l’industria cinematografica un mercato aperto. In seguito, l’industria filmica americana cambiò radical-mente, sviluppando una grande capacità creativa, in grado di sfidare il mercato europeo. Per questo, quando l’Euro-pa venne messa in ginocchio dalla Grande Guerra, Pari-gi perse il suo status di capitale del cinema, conferendo all’industria americana la supremazia globale. I fondatori di Hollywood divennero ricchi e famosi e i loro studi domi-narono il mercato americano. Inoltre venne inaugurata la stagione del cosiddetto divismo che vide tra i suoi primi protagonisti Charlie Chaplin.Ad oggi, gli Stati Uniti rappresentano un colosso del si-stema cinematografico mondiale non solo per quanto già detto ma anche perché gode di budget illimitati e utilizza la lingua inglese capace di raggiungere un pubblico mag-giore rispetto a quanto non riesca a fare l’Europa.

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l’Antico mulino

Per il Mulino Di Giovannantonio, tutto ha inizio nel lontano 1812, quando è di proprietà della famiglia Marcozzi. Successivamente, intorno ai primi del

‘900, passa alla famiglia Pistocchi, per poi essere ac-quistato nel 1930 dalla famiglia Di Giovannantonio. Da questo momento in poi si sussegue nel tempo un’arte di mugnai esperti che si tramanda per cinque genera-zioni. Comincia con il capostipite Luigi senior, mugnaio nel mulino Cerulli di Castelnuovo, che con i risparmi del suo lavoro acquistò il mulino a Castellalto. Dove la tradizione si è tramandata con Mario, per poi passare all’attuale proprietario Luigi e, infine, al figlio Mario junior. Quello di Luigi Di Giovannantonio è uno degli ultimi rari ed antichi mulini originali ancora presen-ti nella provincia di Teramo. Simbolo delle tradizioni artigianali del territorio e di arti e mestieri, che si tra-

mandano, ancora oggi, con passione e diligenza. Oltre al mulino “storico”, interessante per visite guidate ed escursioni turistiche, è presente un secondo mulino “tecnologico”, che dedica particolare attenzione alla qualità della farina. Dispone infatti di una macinazione a pietra che permette la conservazione migliore di tut-te le proprietà del prodotto finito.Il mulino ad acqua con le macine in pietra ha un’o-rigine antichissima e accomuna tutte le civiltà che si sono succedute nel corso dei secoli. La funzione prin-cipale sempre quella della macinazione di cereali, ma sono stati usati mulini ad acqua anche per le industrie del legno e della carta. Nella nostra provincia è facile immaginare quanto fosse importante il mulino per le comunità teramane. Nei mulini alimentati dalle acque dei torrenti, di cui la provincia di Teramo è ricchissima, venivano trasformati in farina il grano, il granturco e i cereali minori coltivati nel fondovalle e nelle aree col-linari. Anche le castagne raccolte nei vasti castagneti delle zone montuose venivano portate alla macina, per ottenere la farina di castagne tanto prelibata nella tra-dizione culinaria locale.

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VittorinA cAstellAnoun talento a 360 gradidi Patrizia Manente

Vittorina Castellano, nata a Montesilvano, vive a Pe-scara. Docente di scienze naturali, già presidente dell’Accademia Kronos, è fondatrice e presidente

dell’Associazione Culturale Teatranti d’Abruzzo. Comme-diografa, attrice e regista, ha scritto e messo in scena nu-merose commedie. Ha pubblicato i libri “Un po’ d’Abruzzo nel cuore”, “Lu ponte de Pescare”, “Niente è come sembra” e “Passato che uccide”. Le sono stati conferiti numerosi premi tra cui Pegasus Città di Cattolica, Macroproblemi Club Roma, Fondazione Veronesi di Milano, Premio Eu-ropeo del Museo Roma, Premio Internazionale Consorzio Interuniversitario Chimica verde, Premio Nazionale Fe-derchimica, Giulio Natta Politecnico di Milano, Luigi Dom-marco di Ortona, Premio Letterario Nazionale Civitaquana, Premio Nazionale Poesia“Pellicciotta”, Golden Selection di San Marino, medaglia del Comune di Roma alla carriera e Premio Europeo scrittori delle Associazioni culturali Club Roma e L’Età Verde, Premio alla Cultura Internazionale World Literary Prize Internazionale di Parigi. Ha esordito negli anni novanta con saggi e video di denuncia ambienta-lista. E’ anche filmaker, poetessa e autrice di romanzi gialli e commedie teatrali.

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QuAndo neisAlotti teleVisiVinon c’erA lAcronAcA nerAricordi di un vecchio cronista e di Beppe Monti, re deipaparazzi in Abruzzodi Marcello Martelli

Intercettazioni o no, meglio le indagini giudiziarie di una volta, nonostante tutto. Ho fatto a lungo il cronista di nera in importanti quotidiani come “Il Giornale d’Italia” e poi

“Il Tempo”. Prima ancora per “Crimen” (poi “Detective”), settimanale specializzato, una specie di bibbia del “noir” che andava a ruba nelle edicole. Al timone una donna, la direttrice più generosa e munifica che abbia incontrato. Le vendite di copie, con i fattacci quando non c’era la tv, andavano a gonfie vele e facevano incassare un bel muc-chio di lire al giornale, sempre ricco di servizi e inchieste. Dovevano ancora arrivare le interminabili dirette televisive

che adesso anticipano e dilatano fatti e gossip. Ho seguito efferati de-litti persino in zone iso-late del profondo Sud. Era durissimo trovare le notizie per ricostruire in profondità ogni vicenda. Cavare una parola dalla bocca degli inquirenti era un’autentica lotte-ria. Un giorno, mentre con l’intraprendente re dei “paparazzi”, Beppe Monti, mi stavo avvici-nando alla scena di un complicato uxoricidio, il Pm impegnato nel so-pralluogo ci bloccò con un perentorio: “Qui non vogliamo interferenze…”. La fatica dei gazzettieri, quando andava bene, veniva chiamata “interferenze” dagli arcigni ma-gistrati e poliziotti d’altri tempi. Normalmente poco abi-tuati a concedere confidenze a cronisti-ficcanaso, allora che la presunzione d’innocenza era sacra per inquisiti e imputati. Il segreto istruttorio c’era davvero e i processi si celebravano solo nelle aule di giustizia. Dopo laboriose indagini top-secret su malfattori e assassini, che spesso non la facevano franca. E i casi irrisolti non erano poi tanti.

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inVito A cAsA miA tra bella musica escuola di cucina giapponesedi Chie Yoshida

Mi chiamo Chie Yoshida e sono una musicista giapponese. Nel 1998, dopo il diploma in violino a Tokyo, mi sono trasferita in Italia per appro-

fondire gli studi musicali. Nel 2005, diplomata anche in viola a Livorno, ho iniziato a girare tutta la penisola suo-nando con varie orchestre e formazioni cameristiche. Parallelamente ho anche collaborato con numerose celebrità della musica e del teatro come Ron, Pavarot-ti, Enrico Rava, Skin, Marco Paolini, Natalino Balasso. Nel 2010 ho sposato un ragazzo ascolano. Anche lui è musicista ma autodidatta, suona molti strumenti a fiato e tastiera, canta ed è anche produttore di musica elet-tronica. Insieme abbiamo creato un duo elettro acusti-co che si chiama Kousagi Project (siamo su Fb) con il

quale ci esibiamo dal vivo in Italia e all’estero, collabo-rando anche con importanti video artisti e compagnie di danza. La nostra musica è in bilico fra classica, melodie tradizionali giapponesi, elettronica colta e anche dan-ce. Dopo una parentesi di due anni in Giappone, dove insegnavo musica e mio marito lingua e cucina italiana, abbiamo deciso di tornare a vivere nel Piceno, perché nel frattempo è nata nostra figlia e volevamo crescerla

in un contesto più tranquillo e meno frenetico. Un anno fa, quasi per gioco, ho intrapreso un corso di cucina tradizionale casereccia giapponese. Fin da bambina ho infatti sempre affiancato mia madre nella preparazione di piatti tipici casalinghi. Questa mia pas-sione è cresciuta negli anni, soprattutto da quando vivo in Italia perché qui è difficile mangiare piatti originali giapponesi nei ristoranti. La maggior parte degli italiani crede che la nostra cucina sia soltanto pesce crudo e riso. Allora per divulgare le tante ricette tradizionali che conosco, ho deciso di intitolare simpaticamente il mio

workshop ‘Non solo Sushi’ (corso di vera cucina ca-sereccia giappo-nese). Le lezioni si svol-gono a casa mia, in un ambiente intimo, che può

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ospitare al massimo sette persone. Tutti gli amici e i parenti che hanno partecipato sono rimasti piacevol-mente sorpresi e affascinati dalle mie ricette. Cerco di programmare dei menù con ingredienti di facile re-peribilità in Italia in modo tale che chiunque partecipi possa replicarli. Fra gli ospiti del mio corso ho avuto anche l’immenso piacere della presenza di veri e pro-pri chef abruzzesi e marchigiani, i quali sono rimasti entusiasti delle mie proposte. Su richiesta ho anche organizzato lezioni in forma di pacchetto regalo per amici che volevano festeggiare in modo originale un compleanno. Insieme a mio marito sto organizzando anche un pro-getto di aperitivo-cena giapponese in locali e bistrot. In futuro vorremmo anche abbinare la nostra musica italo nipponica al cibo, chissà che non ne nasca qual-cosa di davvero originale. Mi rende felice sapere che sempre nuove persone possano apprezzare le mie proposte culinarie nip-

poniche oltre a quelle della cucina italiana. Cucina quest’ultima che comunque amo moltissimo e nella quale mi cimento spesso cercando di recuperare ri-cette tradizionali, sane e gustose per la gioia della mia famiglia.

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il fAscino Antico dellA scArPAda Messalina ai giorni nostridi Michela Cialini

L’esatto inizio della storia della calzatura è difficile da stabilire con precisione. Tuttavia è possibile trac-ciare un excursus ripercorrendo le tappe e le date

principali che hanno caratterizzato questo accessorio.Inizialmente la calzatura ha l’unico scopo di protezione dei piedi, è quindi considerata come una necessità.Nell’Antica Roma, le scarpe sono un elemento caratte-rizzante del rango sociale di chi le indossa. I Cittadini con uno status alto utilizzano i “Calcei”, consistenti in toma-ie in pelle che avvolgono tutto il piede; i Senatori romani indossano i “Calcei Senatorii” di colore nero mentre le stesse, di colore rosso, sono indossate dai rappresentanti delle più alte cariche civili. I popolani e i contadini indos-sano un altro tipo di calzatura, la “Perones”, scarpa con

una tomaia in pelle alta alla caviglia. Senza dubbio bisogna r i c o n o s c e r e che i Roma-ni sono stati grandi maestri “calzolai, tutto-ra fonte di ispi-razione da par-

te di stilisti della moda.Ma i tacchi quando na-scono? Nel XVI secolo in Francia emerge la moda, lanciata da Caterina de’ Medici, delle scarpe con il tacco dette “Souliers à pont”. Da questo

momento in poi, la tecnica del tacco si è sviluppata con-tinuamente fino a raggiungere ot-timi rapporti tra altezza ed equi-

librio che caratte-rizzano la maggior

parte delle scarpe at-tuali. Si inizia a parlare

quindi di scarpa come vezzo e della Francia come fulcro della moda. Nel periodo post-bellico, infatti, la moda vie-ne guidata dalla Francia con la rivoluzione dettata da C. Chanel. A ruota, anche l’Italia inizia ad assumere pian piano il suo ruolo da protagonista grazie a S. Ferragamo, che sarà uno dei più influenti designer di calzature del XX secolo; è celebre la sua scarpa con la zeppa in sughero, considerata ancora oggi un must per molte donne.Dal 1950 in poi inizia l’ascesa della moda italiana a Roma, Firenze e Milano con la conseguente competizione per aggiudicarsi il titolo di Capitale della Moda. Sono questi gli anni in cui si sviluppano le decolleté, scarpe pretta-mente femminili caratterizzate da uno stiletto molto alto. Per questo motivo provocatoriamente C. Chanel e R. Massaro lanciano sul mercato una décolleté col tacco basso conferendole maggiore eleganza. Se negli anni ’50

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la moda è molto femminile e classica, nel decennio suc-cessivo tutto cambia.Negli anni ’60 lo sguardo è rivolto a Londra, è qui che si concentrano tutte le nuove tendenze, trionfa lo stile an-drogino. Le scarpe tornano ad essere basse: abbiamo ballerine e stiletti, i cosiddetti “kitten”, e poi ancora gli iconici zoccoli Dr. Scholl e stivali alti fino al ginocchio.Negli anni ’70 l’Italia ritorna ad essere protagonista nel campo della moda trionfando con la creatività e la qualità del proprio Made in Italy delle firme più prestigiose: Ar-mani, Valentino, Ferrè e Versace. È in questo periodo che i tacchi cominciano ad assumere quelle forme stravagan-ti che siamo abituati a vedere anche oggi! La moda degli anni ’80 è esagerata, colorata, rock, punk. I simboli di questo periodo sono gli scaldamuscoli an-che sopra le scarpe col tacco, le scarpe da ginnastica ma anche le jelly shoes e le scarpe colorate in pvc. Vige l’assoluta comodità in fatto di calzature. Il tutto inizia con Madonna che si impone nel panorama femminile come

dettatrice di stile e icona giovane della moda dell’epoca.

Gli anni ’90 sono invece caratterizzati da una

moda più austera e minimal dove domina il nero. Gli anfibi di Dr Martens o

della Cult

diventano la calzatura più rappresenta-tiva del periodo.Negli ultimi anni invece, saltano tutte le regole e, complice la globa-lizzazione del mer-cato e con esso delle abitudini, la moda segue qual-siasi tipo di tenden-za utilizzando colori, forme, materiali e tessuti di ogni tipo non perseguendo nessun diktat e dando slancio ad ogni tipo di fantasia. L’assenza di canoni ha portato alla pre-senza di eccessi, basti pensare alle zeppe di Alexander McQueen e a quelle indossate da Lady Gaga che innalza-no fino a 35/40 centimetri. Si parla di una vera e propria venerazione per i tacchi alti. Inoltre è opportuno segnala-

re come il tacco a spillo sia ritornato di moda e ormai possiamo dire che probabilmente non

passerà mai più, è diventato a tutti gli

effetti un’icona intramonta-

bile.

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QuAndoA fonte reginAsi beVeVA l’AcQuA dell’Amoredi Luca Di Dionisio

Il quartiere di Fonte Regina, oggi, è un quartiere popolo-so ed è molto trafficato. Non sempre è stato così, piut-tosto la storia ci racconta di un’aperta campagna ritiro

delle più importanti personalità teramane, fin dall’epoca romana. È stata infatti ritrovata in questo quartiere la co-siddetta Venere di Fonte Regina, tutt’ora visibile al museo

archeologico di Teramo, fra i resti di una domus con an-nessi impianti termali, segno che in quell’epoca la ricca borghesia considerava l’attuale Fonte Regina un luogo deputato per il proprio buen retiro. Con la fine dell’Impero romano, la vocazione da luogo tranquillo per le più im-portanti personalità teramane non svanisce. È in questa zona che sorgeva il casino del vescovo dove, nelle caldi estati, la massima autorità religiosa della città (e, per di-versi secoli, anche civile) veniva a ritirarsi, tra le placide campagne ed il fiume Vezzola, tenuto a bada dagli argini. Nella zona c’era anche una torre del vescovo, di cui già al tempo di Nicola Palma era scomparsa ogni traccia. Nello scorrere dei secoli ci sono alcuni eventi da ricor-dare: il primo, il più importante, anche perché ha dato nome al quartiere, è ovviamente l’arrivo della Regina Ma-dre Giovanna d’Aragona, con la figlia, anche lei di nome Giovanna. Questa storia si ricollega a quella della Fonte della Noce. Le due Regine, in visita a Teramo, trovarono squisite le verdure dell’Acquaviva (al tempo tutta la riva sinistra del Vezzola, in corrispondenza dello sviluppo ri-nascimentale di Teramo) e, chiedendo da dove venisse quell’acqua, fu loro risposto che veniva dalla Fonte della Noce. Da qui deriva anche la leggenda secondo la quale chi beve da questa fonte rimane innamorato della città e non riesce a staccarsene. Il secondo episodio è il pranzo patriottico tenuto nel 1799, durante l’occupazione france-se, tenuto, fra gli altri, da Melchiorre Delfico. La scelta di questo luogo era ovviamente significativa, in quanto si voleva sottolineare il nuovo potere illuminista, di contro al potere religioso. L’altro pranzo patriottico si tenne nel-la piazza di Sopra (l’attuale piazza Martiri). È del periodo della costruzione della stazione il già citato ritrovamento della Venere di Fonte Regina. Dopo il ritorno dei Borboni, ed ancor più dopo l’unità d’Italia, moltissime cose sono cambiate a Teramo, fra queste anche la vocazione del quartiere di Fonte Regina.

Giovanna D’AragonaCostume rinascimentale

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La “cotognata” è stata fatta con le pere cotogne. Ri-cetta per 6 kg: lavare le pere bene e poi sbucciarle. Tagliare a pezzetti nelle parti morbide e poi metterle

a bollire. Scolati i pezzetti, passarli in una griglia per i po-modori a fori grandi. Il tutto va poi messo in una pentola con lo zucchero e il succo di limone. I pezzi puliti di co-togna sono diventati 3 kg. Occorrenti 4 limoni medi non trattati e 2 kg. di zucchero. La pentola sul fuoco si gira sempre, fino alla cottura. Usare guanti di plastica per evi-tare gli schizzi bollenti. La cucchiara va girata per h. 1,30. Aggiungere un bicchiere di Varnelli (anice secco) a fuoco spento. Poi si versa il tutto su una tavola ricoperta da fogli di carta da forno. Si stende ben bene tutto e poi si lascia riposare per un paio di settimane. A questo punto si taglia a pezzi e poi incartare con carta forno e sopra la carta pane. Infiocchettare e le tavolette sono pronte. Ben con-servate, durano per un anno intero. Ottime da abbinare ai formaggi e anche come energetici. Meglio: si mangiano per il piacere di mangiarle.

ecco come fAre lA cotognAtAin cAsAdi Graziano Celani

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mAdonnAdelle grAzieoasi di spiritualitàdi Vincenzo Di Gennaro

Il santuario mariano della Madonna delle Grazie, posto a sud del nucleo antico di Teramo, riveste un ruolo di primaria importanza nel circuito dei siti religiosi della

provincia. Nel tempo dell’appena concluso anno giubilare, ha offerto a ogni pellegrino un adeguato contesto in cui alimentare e fortificare la propria spiritualità. Gli ottocen-

to ex voto con-servati, parte di una collezione ben più ricca, sono testimo-nianza di una devozione che per i cittadini assume un va-lore identitario, e che nel pas-sato ha trava-licato i confini abruzzesi per diventare, in epoca borbo-nica, culto uf-ficiale di Stato. Il centro da cui si irradia questo legame spirituale è la statua (più correttamente il gruppo scul-toreo) scolpita in legno e dipinta nel Quattrocento dalle sapienti mani di un artista di origine aquilana, Giovanni di Biasuccio, che hanno fatto dell’opera un vero capolavoro dell’arte rinascimentale italiana. Possiamo aggiungere che la Madonna delle Grazie rappresenta una delle vette artistiche di un filone iconografico in cui si specializzarono gli scultori abruzzesi di XV e XVI secolo, ossia la Madonna assisa in trono che adora il Bambino distesole sul grem-bo. Si tratta di un tema, presente anche nella pittura del periodo (basterebbe pensare alla cosiddetta Pala di Brera di Piero della Francesca) ma che nelle creazioni sculto-

Dott.ssa Barbara Di Dionisio

Psicologa • PsicoterapeutaAnalista transazionale

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madre in quello sguardo lievemente turbato, che vuole essere rassicurante e protettivo verso il Piccolo, ma che sembra già conoscere il destino tragico, seppur salvifico per l’Umanità, di quel Bambino, il suo bambino. Possiamo dire che in un’unica opera si concentra tutta l’esperienza mariana legata a Cristo, dalla nascita del Fi-glio di Dio alla sua morte: il Fanciullo è disteso sulle gam-be della Madre nudo come lo sarà, nell’iconografia della Pietà, l’Uomo spiccato esanime dalla croce. Il sicuro contatto dell’artista con la committenza, proba-bilmente cittadina, e l’ambiente religioso destinato ad ac-cogliere il simulacro mariano, i frati francescani dell’Os-servanza bernardiniana (probabilmente i veri ispiratori di questo genere di sculture), ha trasformato una scultura alta 168 cm in un capolavoro di stile e di spiritualità.

ree, soprattutto lignee, dei maestri abruzzesi assume una valenza particolare. Il legno policromato aiuta certamen-te ad amplificare la capacità comunicativa del soggetto rappresentato, poiché la facilità della lavorazione di al-cune essenze arboree permette di raggiungere un effetto realistico delle forme, che nelle mani degli intagliatori abruzzesi diventa mirabile traduzione di carni vere e di espressioni mimiche credibili. Osservando la Madonna delle Grazie, quello scambio di sguardi creato tra la Ma-dre e il Figlio fa vivere la sensazione di assistere a un vero dialogo, in cui Lei sussurra la sua preghiera per i penitenti accorsi ai suoi piedi, mentre dalla bocca del Bambino fuo-riescono incontenibili risa fanciullesche. Siamo davanti a una particolare rappresentazione della Natività di Gesù, tutta concentrata nel vitale rapporto Ma-dre-Figlio. Dai banchi del santuario i pellegrini contem-plano l’esaltazione della natura umana di Cristo: un Bam-bino rappresentato nei minimi particolari anatomici, dai capelli ancora radi, alle piegoline di grasso che segnano dita e gambe, fino alla commovente lingua che guizza fuori dalla boccuccia sorridente. Ma l’aspetto più sorprendente di quest’opera risiede forse nel volto di Maria. La giovane madre, finemente abbigliata come una nobildonna, che ri-sponde pienamente ai canoni di bellezza rinascimentale, sembra animata in volto da un’espressione ben diversa dal tradizionale senso di pacatezza, di serenità che siamo abituati a leggere in un’immagine natalizia. La Madonna delle Grazie dichiara tutta la sua umanità di donna e di

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troPPe tAsse enon HAi Piu’ soldi? il rimedio si cHiAmA “bArAtto” di Giovanna D’Alessandro

Non si contano più i balzelli che hanno prosciu-gato quasi tutte le tasche. Nei piccoli come nei grandi Comuni è già operante una soluzione

nuova. Lo strumento miracoloso si chiama “baratto amministrativo” e sta già dando una mano un po’ a tutti. Dal governo centrale, sempre più a corto di mezzi per fronteggiare le esigenze dei territori, ai sindaci che così possono dare risposte alle attese delle popolazio-ni. Il nuovo strumento è inserito nella legge “Sblocca Italia” per dare ai Comuni una nuova possibilità. Strade abbandonate? Piazze malridotte? Edifici pubblici ca-denti? Verde da curare? Tanti i problemi e quasi sem-pre i Comuni non sono in grado d’intervenire per man-canza di personale e di risorse finanziarie. Mentre, dall’altra parte, numerosi i cittadini che non pagano

più le tasse comunali per la crisi o perché disoccupati e senza lavoro. Ma ora ecco il rimedio (pescato nello scrigno della fantasia italica) chiamato “baratto ammi-nistrativo”. Fra i primi a capire che potesse funzionare il sindaco di Chieti (Umberto Di Primio) capoluogo e poi di Tollo, piccolo centro abruzzese. Quest’ultimo ha subito varato il regolamento, mettendo mano in questo modo alle tante esigenze delle dodici contrade e dei quindici km quadrati d’un territorio da ripulire e tenere in ordine. Sindaci tutti uniti per salvare i contribuenti morosi e anche la faccia, la loro, per i troppi problemi locali irrisolti. Mentre ai cittadini non resta che bussa-re alla porta del Comune, indossando l’abito da lavoro. Se davvero con le tasse da pagare non ce la fanno più.

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Buone Feste!

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il Politticodel duomoA riscHioadottato dai cittadinidi Paola Di Girolamo

Esemplare iniziativa del Lions Club per amare e conservare i gioielli di famiglia. Mobilitazione esemplare per salvare il Polittico di Jacobello Del

Fiore, capolavoro dell’arte quattrocencentesca, in pes-simo stato di conservazione nel Duomo di Teramo. E’ scattata, per fortuna, una benemerita opera di salvatag-gio e tutta la città ha praticamente “adottato” il Polittico a rischio. Come conferma la studiosa di storia dell’arte Raffaella Morselli, che ha fatto la sua parte svelando passato-pre-sente dell’opera e del suo celebre autore, già al centro in passato di molteplici studi, a cominciare da quelli dello storico Nicola Palma. L’appello degli studiosi è stato su-bito raccolto dal Lions e dal suo presidente Michele Capomacchia, grazie alla convenzione sottoscritta con una grande azienda (la Brico-fer operativa presso il centro com-merciale Gran Sasso). Dove ver-ranno raccolte le adesioni dei molti cittadini sensibili difensori dei te-sori artistici della città. Soddisfatto

il Vescovo Michele Seccia nel ricevere la convenzione dalle mani del presidente Capomacchia, teramano d’a-dozione, che meglio di un indigeno riesce sempre a dare intelligenti prove di “teramanità”. Un “cemento” effica-ce per una città assetata di nuovi alleati ed energie per riaffermare ruolo e identità. Interessante scoprire ciò che l’ex prefetto Capomacchia sta facendo nel suo orti-cello lionistico, rilanciando con prestigiose personalità la missione del club, attraverso la cultura della legalità e l’arte (il salvataggio del Polittico ne è conferma ec-cellente). Come importante è il dibattito socio-culturale che il Lions propone fra gli aderenti e sul territorio. L’a-ria di entusiastica partecipazione che da ospite respiro, mi fa pensare che questo carismatico ex prefetto-ser-vitore dello Stato di grande esperienza (che con la te-ramanissima signora Nadia ha sposato pure Teramo), potrebbe essere la figura idonea nel Palazzo di città o in altro importante ruolo istituzionale. Candidato sindaco? No, meglio commissario con pieni poteri, ammesso che l’interessato sia propenso a scendere in campo.

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Buone Feste!

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sAntA elisAbettAe lA suA storiA di Elisabetta Mancinelli

L’etimologia

Il significato più probabile del nome Elisabetta è: “il Si-gnore è giuramento” essendo il nome composto da El “Signore”, sheva “sette” e nishba “egli giurò”.Le sante e le beate che portano questo nome sono nume-rose tra le più note si ricordano: santa Elisabetta, madre di Giovanni il Battista, commemorata il 23 settembre e sant’Elisabetta d’Ungheria, regina e religiosa, ricordata il 17 novembre. Elisabetta secondo i Vangeli fu madre di san Giovanni Battista, cugina di Maria e moglie del sacerdote ebreo Zaccaria. I due coniugi ebbero il figliolo in età avanzata e Zaccaria ne ebbe l’annuncio dall’arcangelo Gabriele mentre svolgeva il suo servizio nel Tempio di Gerusalem-me. Al sesto mese di gravidanza, Elisabetta ricevette la visita di Maria, che nel corso dell’Annunciazione era stata avvertita che sua cugina era incinta. All’udire il saluto di Maria, Elisabetta riconobbe Maria come la madre del Sal-vatore salutandola con le famose parole “benedetta fra le donne” e “madre del mio Signore”.

Nel luogo in cui abitava Elisabetta nella località di Ain Karem nella periferia di Gerusalemme è stata costruita la chiesa cattolica della Visitazione. Essa fa riferimento all’episodio evangelico della visita di Maria alla cugina Elisabetta, come raccontato dall’evangelista Luca, al ter-

mine dell’incontro la madre di Gesù rispo-se con la preghiera del Magnificat.

SANTA ELISABETTA D’UNGhERIAFESTEGGIATA IL 17 NOVEMBRE

Elisabetta, figlia di Andrea II re d’Un-gheria e di Gertrude, nobildonna di Merano, ebbe una vita breve. Nata nel 1207 venne promessa in sposa a Ludovico figlio ed erede del re di Turingia. All’età di 4 anni fu portata alla sua corte nel castello di Warburg ed ivi educata. Aborriva le gale e gli abbigliamenti superflui ed ebbe sin da bambina una particolare inclinazione alla pietà e alla carità. Allorché andava in Chiesa portando in testa una corona d’oro ar-ricchita di gemme, nell’entrare se la levava e se la rimet-teva dopo che n’era uscita. Si sposò nel 1221 a quattordici anni e divenne madre a quindici. Dopo il primogenito Er-manno vennero al mondo due bambine: Sofia e Gertrude, quest’ultima data alla luce già orfana di padre, Elisabetta rimase infatti vedova a 20 anni. Il marito Ludovico IV morì ad Otranto in attesa di imbarcarsi con Federico II per la crociata in Terra Santa. Elisabetta provò sommo dispia-cere per la sua morte ma si rassegnò al volere divino e da allora il suo unico scopo fu l’educazione della prole e l’attività caritatevole già incoraggiata dal marito. Ma la suocera e i cognati, contrari alla sua scelta di povertà, la costrinsero ad lasciare il castello e ad abbandonare i figli e cercare rifugio a Marburgo in una modesta casa. Di-

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dipinto della Madonna degli Angeli, i frati francescani posi-zionarono anche le statua di Santa Elisabetta d’Ungheria.

A San Giovanni in Venere, nel-la facciata dello splendido portale in pietra e marmo detto della Luna del sec. XIII, una delle lastre di mar-mo bianco scolpito rappresenta la Vi-sitazione di Maria incinta di Gesù che si incontra con Elisabetta che attende Giovanni Battista.

Infine a L’Aquila nel Museo Nazionale d’Abruzzo un pre-gevole dipinto rappresenta la santa in piedi, in posizione frontale; nelle mani giunte tiene una sottile croce d’oro, il rosario le pende dalle dita della mano sinistra mentre con il braccio sorregge un libro. La figura si staglia su un fondo blu stellato d’oro nella parte superiore, cosparso di rose bianche e rosse nella parte inferiore.

venne terziaria francescana, si spogliò di tutti i suoi beni con i quali fece costruire un ospedale per gli infermi a cui dedicò tutta se stessa visitando gli ammalati due volte al giorno e attribuendosi sempre le mansioni più umili. Morì a 24 anni il 17 novembre del 1231 a Marburgo. È stata cano-nizzata da papa Gregorio IX nel 1235. La santa patrona dei terziari francescani al seguito di Francesco di Assisi, è rite-nuta anche protettrice degli infermieri, società caritatevoli e fornai. Suo emblema è il cesto di pane.In Abruzzo vi sono significative testimonianze del culto del-la Santa: a crecchio, vicino al centro storico sorge un Santuario de-dicato a Santa Elisabetta. La chiesa ha origini molto anti-che, così come la venerazione degli abitanti per la Santa. Danneggiata negli anni 1943-1944, è stata ricostruita nel 1955. Al suo interno è possibile ammirare una statua quat-trocentesca della Santa ed alcuni ex voto del XIX secolo.

A Sulmona la Chiesa di San Francesco della Scarpa, co-struita nel 1200 dai francescani e ampliata per volontà di Carlo II d’Angiò nel 1290 in maniera da diventare “la più importante chiesa francescana medievale d’Abruzzo”, è impreziosita da una tela cinquecentesca, di Olmo Giovan-ni Paolo, raffigurante appunto la Visitazione di Maria a S. Elisabetta.

A Spoltore nella chiesa di San Panfilo nell’altare della Madonna degli Angeli, in stile barocco, accanto al grande

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dAllA PreVenzione AllA ricostruzionei terremoti ci trovanosempre impreparatidi Enzo Saraceni

Sofisticate elaborazioni statistiche, gas radon, osser-vazioni satellitari, monitoraggi di faglie, movimenti dei pianeti, purtroppo non sono in grado di allertare

la popolazione su un probabile evento sismico, né tanto-meno prevederne l’intensità. L’unica certezza su cui pos-siamo sperare e che il 30 ottobre ha salvato vite umane, è che l’evento avvenga nelle ore diurne quando la gente è fuori casa, le scuole non sono aperte, chi è in casa è in grado immediatamente di mettersi in salvo. Oppure che le strutture portanti gli edifici in cui viviamo e lavoriamo siano in grado di resistere agli scuotimenti indotti dalla accelerazione proveniente dal sottosuolo, dovuta a spo-stamenti di grandi superfici orografiche tipiche del nostro appenino centrale e meridionale. Altre nazioni, che non provengono da un retaggio millenario come il nostro, rie-scono a difendersi da queste catastrofi devastanti, uscire indenni da sismi di intensità maggiore di quelli accaduti in Italia, gestire la sicurezza e porla all’attenzione delle masse, inculcarla ad adulti e bambini, addestrare la po-polazione come comportarsi al momento dell’evento ina-spettato. La nostra attenzione alla prevenzione è invece pressoché nulla. Basta una pioggia intensa per provocare disastri ambientali e perdita di vite umane o una mareg-giata che mette in ginocchio l’economia dell’intera costa Adriatica. Le Amministrazioni Comunali della costa, dura constatazione, non sembra mostrino interesse a dotare il territorio di piani di emergenza ad alto valore strategico,

sui quali predisporre uno sviluppo urbanistico ecocom-patibile. Onde istituire un sistema informatizzato per la popolazione e i volontari della protezione civile sui rischi latenti (sisma, alluvioni etc.), e fornire tutte le informa-zioni e i comportamenti da assumere in caso di calami-tà. Lo Stato centrale che dovrebbe accorgersi in anticipo che viviamo su un territorio in continuo spasmodico mo-vimento, purtroppo prende coscienza ed emana decreti legge a raffica il più delle volte incomprensibili e integrati con altrettante raffiche di circolari chiarificatrici che non fanno altro che creare ulteriori confusioni e ritardi: vedi il “sistema L’Aquila” tanto decantato e che nella realtà vede, dopo sette anni dal sisma del 2009, solo il 5% del Centro Storico recuperato, ma privo di servizi efficienti. Solo in questi giorni si sta realizzando il “cavidotto intelli-gente” all’interno del quale alloggiare le tubazioni idriche, fognanti etc... che dovranno servire il centro storico e din-torni. Si spera che il commissario straordinario Errani dia un’impronta diversa alla ricostruzione dei centri abitati distrutti e danneggiati dagli eventi sismici del 24 Agosto e del 30 Ottobre. Si confida in una corretta e giustificata or-ganizzazione della messa in sicurezza degli immobili dan-neggiati costituenti pericolo per la pubblica incolumità e che non si esasperi all’inverosimile (foto fontana di Piazza Santa Maria Paganica a L’Aquila) l’impiego di puntella-menti non necessari che hanno rappresentato in alcuni

Fontana piazza Santa Maria Paganica - L’Aquila

casi solo un ricco business per imprese e amministratori senza scrupoli. Si spera che un “sistema responsabile” che non sia il “sistema L’Aquila” e che non si identifichi con il “sistema Emilia”. Viste le circostanze catastrofiche del sisma che ha interessato le regioni del centro (diverso per intensità e danni dal sisma che ha colpito la provincia Ferrarese) si individuino con chiarezza e senza interessi privati le priorità dei terremotati di Lazio, Umbria, Marche e Abruzzo; si formino con diligenza le figure professionali competenti che dovranno gestire il post-sisma, si classi-fichino i tecnici e le imprese specializzate senza lasciare all’improvvisazione e all’opportunismo la progettazione e la ricostruzione del patrimonio edilizio distrutto,affinché possano tornare alle origini i borghi e i monumenti storici, che rappresentano una parte importante dell’eccellenza del nostro bel paese.Miglioramento sismico aggregato Acciano - L’Aquila

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