Ma sotto le Mura potrebbero cantare i Foo Fighters A Lucca ...ma Cena travolta dall'annuncio del...

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Corriere Fiorentino Martedì 9 Maggio 2017 FI 13 A Lucca la grande attesa per i Rolling Stones, oggi l’annuncio Ma sotto le Mura potrebbero cantare i Foo Fighters La grande attesa sta per finire: stamani Mimmo D’Alessandro, patron del Summer Festival, annuncia il nome della band che a settembre darà vita al primo, storico concerto sotto gli spalti delle Mura di Lucca (nell’area ex Balilla), momento clou della 20. edizione della kermesse musicale. In questi giorni i rumors sull’identità degli artisti si sono sprecati, di fronte al muro di silenzio eretto dallo stesso D’Alessandro. Si parla da tempo dei Rolling Stones, vecchio sogno del patron, e si attende un video dello stesso Mick Jagger ma nelle ultime ore è spuntato a sorpresa il nome della band americana dei Foo Fighters (S.D.) Culture L’altra Firenze A lungo attribuito a Raffaello il Cenacolo del Fuligno è fuori dal caos cittadino Dipinto sui muri del convento di Sant’Onofrio e coperto per secoli, è tornato alla luce nel 1843 Il tradimento del Perugino «Uno di voi mi tradirà»: sulle pareti del refettorio del Fuligno l’annuncio cade senza fragore. Tommaso si versa da bere, Bar- tolomeo affetta le vivande. Si- mone e Taddeo continuano a conversare pacatamente. Gesù sembra già assente. Solo Giu- da, profano e scuro, lancia allo spettatore un’occhiata che tra- figge, mentre sfodera il prezzo del tradimento. Quello sguar- do sospende il tempo, inchio- da lo spazio. Tutto il resto è ar- monia e silenzio. Nessuna commozione o pathos: il dramma è annunciato, ma la reazione del gruppo composta. È il 1495: mentre sui muri di S. Maria delle Grazie a Milano Leonardo ribalta la tradizione dei Cenacoli fiorentini — spar- gendo per la prima volta onde di panico sul tavolo di un’Ulti- ma Cena travolta dall’annuncio del tradimento — a Firenze il divin pittore paralizza i convi- tati del Fuligno in un estrania- mento malinconico. È come se gli apostoli assorbissero inter- namente uno sgomento che non vogliono mostrare, che mascherano anche a se stessi. La scena è semplice, proprio come il paesaggio in cui è ac- colta: un portico racchiuso fra dolci colline, cassa di risonan- za dei sentimenti dei commen- sali. Per secoli, il convivio affre- scato sui muri del convento di Sant’Onofrio — detto anche del Fuligno (o Foligno) perché da qui arrivano le monache nel 1419 — accompagna i pasti del- le Terziarie Francescane. Ma la storia, si sa, non avanza in linea retta: a un certo momento del cammino, per motivi scono- sciuti l’affresco viene scialbato, gli apostoli coperti. Strati di calce sciolta in acqua inghiot- tono la Cena. Quando arrivano le soppressioni di fine ‘700, le suore sono costrette ad abban- donare il convento che l’ammi- nistrazione napoleonica desti- na a istituto per l’educazione di orfane e fanciulle povere: nasce l’Educatorio del Fuligno. Il re- fettorio viene staccato dal resto del complesso, creando una fe- rita fra i due spazi mai più risa- nata. Prima l’ex Cenacolo è ac- quisito dallo Scrittoio delle Re- ali Fabbriche, poi incorporato dai napoleonici, alla fine riven- duto a privati. Nel 1810 — se- condo gli atti notarili — diven- ta laboratorio per la lavorazio- ne della seta, poi si trasforma in officina per la verniciatura di carrozze. Ed è qui che un gior- no di luglio del 1843 un tassello del dipinto torna a far capoli- no, bucando gli strati di un in- tonaco sotto cui la Storia l’aveva sepolto e preservato. I critici dell’epoca sono entusiasti e (quasi) unanimi: è Raffaello. C’è la semplicità, lo stile dolce degli anni giovanili del Mae- stro. Qualcuno pensa di legger- ne la firma. «Probabilmente è il del refettorio da quello del re- sto del convento. Finché qual- cuno non comincia ad avanzar dubbi: fondamentale il lavoro di fine secolo dello storico del- l’arte tedesco August Schmar- sow. Alla fine si è costretti ad ammettere: l’elegante equili- brio dispiegato nel Fuligno non è opera del Sanzio, bensì del suo maestro, il divin pitto- re. Il Perugino. Per quanto sembri un declassamento, la verità è che a fine ‘400 — nella cerniera fra i due secoli — Pie- tro di Cristoforo Vannucci è probabilmente il più impor- tante pittore di Firenze. «Gran- de il successo imprenditoriale della sua bottega in Sant’Egidio — afferma Rosanna Caterina Proto Pisani, curatrice di varie pubblicazioni sul Cenacolo — il suo stile si diffonde in Euro- pa, creando, per la prima volta dopo Giotto, un linguaggio ar- tistico comune». Il toscanocen- trico Vasari non ama il Perugi- no, ma deve ammettere : de l’opre sue s’empié non solo Fio- renza et Italia, ma la Francia, la Spagna e molti altri paesi dove elle furono mandate [...] venute le cose sue in riputazio- ne e pregio grandissimo. È lui a incarnare lo spirito del tempo a Firenze. Spazzate via dal Savo- narola le aspirazioni intellet- tuali dell’età laurenziana, è la sua arte — essenziale e devota — a incarnare i nuovi ideali promossi dal frate ferrarese. Piace, il Perugino. Piacciono quegli «uomini e donne che avevano perso le loro caratteri- stiche terrene e assunto quel- l’aria angelica et molto dolce — scrive un informatore del duca di Milano nel 1494 — e di cui tutti allora sentivano il biso- gno”. Così nascono gli apostoli del Fuligno, raffigurazioni ide- ali più che umane incarnazio- ni. Sarà gloria poco duratura, presto soppiantata dall’urgen- za di vita, di plasticità seminate da Michelangelo e Leonardo… Oggi, Perugino ha ripreso il posto dovuto nell’olimpo della pittura rinascimentale. E così il suo Cenacolo, finalmente emancipato dall’insostenibile peso della delusione. Dopo aver alloggiato la seta e le car- rozze, aver fatto da deposito ai reperti egiziani ed etruschi (negli anni seguenti all’Unità d’Italia), essersi trasformato in magazzino di dipinti (della Collezione Feroni) e aver infine accolto anche le opere travolte dal fango (con l’alluvione del ‘66), il refettorio ha ritrovato di- gnità. Nel 2005, una grande mostra riunisce qui le opere di molti che accanto al Perugino lavorano o ne subiscono l’in- fluenza, da Gerino da Pistoia allo Spagna, da Lorenzo di Cre- di a Ridolfo del Ghirlandaio. Alcuni di quei lavori sono ri- masti lì. Uniti in un luogo di quiete al riparo dal caos cittadi- no, in cui il decoro che lo acco- glie, rende più sacro l’annuncio del tradimento. 12. Continua. Le puntate precedenti sono uscite il 23/3, 12/4, 6/5, 14/9, 30/10, 20/11, 17/12 del 2016 e il 24/1 e 11/2, 5/3 del 2017 © RIPRODUZIONE RISERVATA di Daniela Cavini contesto storico a spingere in questa direzione — spiega Marco Mozzo, direttore del Ce- nacolo — solo pochi anni pri- ma si era svolta al Pantheon la ricognizione delle ossa del pit- tore. Una cerimonia che rap- presenta il momento di massi- mo culto dell’artista». Come sottrarsi all’autorevo- lezza del mito? Anche il raccon- to del tradimento di via Faenza cade nella Raffaello-mania ot- tocentesca. Una volta attribuito all’Urbinate, il Cenacolo diven- ta fenomeno di massa: tutti lo studiano, lo riproducono. Il clamore è tale che nel dicem- bre del 1847 il Granduca di To- scana Leopoldo II è costretto a ricomprare l’aula monumenta- le, facendo la fortuna del pro- prietario del garage: è proprio la scoperta dell’affresco a sepa- rare definitivamente il destino Da sapere Nella foto grande «L’ultima Cena» del Perugino Qui sopra un ritratto del pittore Vasari De l’opre sue s’empié non solo Fiorenza et Italia, ma la Francia, la Spagna e molti altri paesi Non c’è Carlo V, spettro o meno che sia, a trascinare con sé nella cripta Don Carlo; questi invece muore, infilzato dal padre Filippo II. Così si conclude il Don Carlo in scena all’Opera di Firenze (repliche 11, 14 maggio), con un finale spiazzante e non indicato da Verdi. Giancarlo Del Monaco, il regista dell’allestimento (coprodotto dai teatri di Bilbao, Oviedo, Siviglia e Tenerife), ha detto di essersi ispirato alla cosiddetta Leyenda negra, ossia a quella narrazione storica di propaganda portata avanti dagli inglesi in funzione antispagnola. Peccato che Verdi alla Leyenda negra non abbia mai fatto cenno. E soprattutto, la drastica conclusione non solo invalida gravemente l’atmosfera di sospensione, soprannaturale e misteriosa, voluta da libretto e musica, ma stride pure con la fedeltà al testo che, in generale, guida nell’ambientazione la lettura registica. La scatola scenica, negli interni con le pareti tappezzate di carte geografiche emblema dell’impero di Filippo II, accoglie i personaggi rivestiti di accurati abiti cinquecenteschi (di Jesus Ruiz), ambienti, arredi e dettagli delle scene (di Carlo Centalovigna) rimandano alla Spagna del tempo; anche il Crocifisso marmoreo viene da lì, è quello di Cellini per il monastero dell’Escorial, ma reso gigantesco (e denudato, chissà perché): però ingombra inutilmente la scena dell’autodafé, costringendo i pur validi cantanti del Coro del Maggio a movimenti impacciati, e vanificando così tutta la grandiosità spettacolare della cerimonia. Tutto lo spettacolo in realtà traballa, con il suo formulario di convenzioni scontate. La recitazione dei personaggi ha la banale schematicità di un saggio scolastico, i movimenti delle masse sono faticosi; e i tempi dei cambi scena, inspiegabilmente lunghissimi, certo non aiutano. Alla fine, questo Don Carlo però qualche applauso se lo prende: sarà per il suo sapore rassicurante e antico, quello delle buone cose di pessimo gusto di gozzaniana memoria. Si vola invece alti con la direzione di Zubin Mehta, che modella negli attenti professori del Maggio sonorità e accenti di una visione struggente e crepuscolare, intensa e commovente soprattutto negli ultimi due atti. A venir fuori è così l’umanità sofferente dei personaggi. Fra i quali si distinguono, agli opposti, l’Elisabetta di Julianna Di Giacomo, per vocalità fluida e bel fraseggio, e lo sgraziato Grande Inquisitore di Eric Halfvarson. Massimo Cavalletti è un Rodrigo appassionato ma con qualche incertezza tecnica, Dimitri Beloselsky impersona con efficacia un Filippo II altero, Roberto Aronica in Don Carlo mette a frutto qualità più espressive che di canto, Ekaterina Gubanova è una Eboli più agile che drammatica. © RIPRODUZIONE RISERVATA In scena Don Carlo e Filippo II La recensione DON CARLO A METÀ: MEHTA TRASCINA, LA REGIA NO di Francesco Ermini Polacci Spettacolo che traballa, troppo scolastico e faticoso Anche nei cambi di scena molto lunghi E di certo non aiutano

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Corriere Fiorentino Martedì 9 Maggio 2017 FI13

A Lucca la grande attesa per i Rolling Stones, oggi l’annuncio Ma sotto le Mura potrebbero cantare i Foo Fighters La grande attesa sta per finire: stamani Mimmo D’Alessandro, patron del Summer Festival, annuncia il nome della band che a settembre darà vita al primo, storico concerto sotto gli spalti delle Mura di Lucca (nell’area ex Balilla), momento clou della 20. edizione della kermesse musicale. In questi giorni i rumors

sull’identità degli artisti si sono sprecati, di fronte al muro di silenzio eretto dallo stesso D’Alessandro. Si parla da tempo dei Rolling Stones, vecchio sogno del patron, e si attende un video dello stesso Mick Jagger ma nelle ultime ore è spuntato a sorpresa il nome della band americana dei Foo Fighters (S.D.)

Culture

L’altra Firenze A lungo attribuito a Raffaello il Cenacolo del Fuligno è fuori dal caos cittadinoDipinto sui muri del convento di Sant’Onofrio e coperto per secoli, è tornato alla luce nel 1843

Il tradimento del Perugino«Uno di voi mi tradirà»: sulle

pareti del refettorio del Fulignol’annuncio cade senza fragore.Tommaso si versa da bere, Bar-tolomeo affetta le vivande. Si-mone e Taddeo continuano aconversare pacatamente. Gesùsembra già assente. Solo Giu-da, profano e scuro, lancia allospettatore un’occhiata che tra-figge, mentre sfodera il prezzodel tradimento. Quello sguar-do sospende il tempo, inchio-da lo spazio. Tutto il resto è ar-monia e silenzio. Nessunacommozione o pathos: i ldramma è annunciato, ma lareazione del gruppo composta.

È il 1495: mentre sui muri diS. Maria delle Grazie a MilanoLeonardo ribalta la tradizionedei Cenacoli fiorentini — spar-gendo per la prima volta ondedi panico sul tavolo di un’Ulti-ma Cena travolta dall’annunciodel tradimento — a Firenze ildivin pittore paralizza i convi-tati del Fuligno in un estrania-mento malinconico. È come segli apostoli assorbissero inter-namente uno sgomento chenon vogliono mostrare, chemascherano anche a se stessi.La scena è semplice, propriocome il paesaggio in cui è ac-colta: un portico racchiuso fradolci colline, cassa di risonan-za dei sentimenti dei commen-sali. Per secoli, il convivio affre-scato sui muri del convento diSant’Onofrio — detto anchedel Fuligno (o Foligno) perchéda qui arrivano le monache nel1419 — accompagna i pasti del-le Terziarie Francescane. Ma lastoria, si sa, non avanza in linearetta: a un certo momento delcammino, per motivi scono-sciuti l’affresco viene scialbato,gli apostoli coperti. Strati dicalce sciolta in acqua inghiot-tono la Cena. Quando arrivanole soppressioni di fine ‘700, lesuore sono costrette ad abban-donare il convento che l’ammi-nistrazione napoleonica desti-na a istituto per l’educazione diorfane e fanciulle povere: nasce

l’Educatorio del Fuligno. Il re-fettorio viene staccato dal restodel complesso, creando una fe-rita fra i due spazi mai più risa-nata. Prima l’ex Cenacolo è ac-quisito dallo Scrittoio delle Re-ali Fabbriche, poi incorporatodai napoleonici, alla fine riven-duto a privati. Nel 1810 — se-condo gli atti notarili — diven-ta laboratorio per la lavorazio-ne della seta, poi si trasformain officina per la verniciatura dicarrozze. Ed è qui che un gior-no di luglio del 1843 un tassellodel dipinto torna a far capoli-no, bucando gli strati di un in-tonaco sotto cui la Storia l’avevasepolto e preservato. I criticidell’epoca sono entusiasti e(quasi) unanimi: è Raffaello.C’è la semplicità, lo stile dolcedegli anni giovanili del Mae-stro. Qualcuno pensa di legger-ne la firma. «Probabilmente è il

del refettorio da quello del re-sto del convento. Finché qual-cuno non comincia ad avanzardubbi: fondamentale il lavorodi fine secolo dello storico del-l’arte tedesco August Schmar-sow. Alla fine si è costretti adammettere: l’elegante equili-brio dispiegato nel Fulignonon è opera del Sanzio, bensìdel suo maestro, il divin pitto-re. Il Perugino. Per quantosembri un declassamento, laverità è che a fine ‘400 — nellacerniera fra i due secoli — Pie-tro di Cristoforo Vannucci èprobabilmente il più impor-tante pittore di Firenze. «Gran-de il successo imprenditorialedella sua bottega in Sant’Egidio— afferma Rosanna CaterinaProto Pisani, curatrice di variepubblicazioni sul Cenacolo —il suo stile si diffonde in Euro-pa, creando, per la prima volta

dopo Giotto, un linguaggio ar-tistico comune». Il toscanocen-trico Vasari non ama il Perugi-no, ma deve ammettere : del’opre sue s’empié non solo Fio-renza et Italia, ma la Francia,la Spagna e molti altri paesidove elle furono mandate [...]venute le cose sue in riputazio-ne e pregio grandissimo. È lui aincarnare lo spirito del tempo aFirenze. Spazzate via dal Savo-narola le aspirazioni intellet-tuali dell’età laurenziana, è lasua arte — essenziale e devota— a incarnare i nuovi idealipromossi dal frate ferrarese.Piace, il Perugino. Piaccionoquegli «uomini e donne cheavevano perso le loro caratteri-stiche terrene e assunto quel-l’aria angelica et molto dolce —scrive un informatore del ducadi Milano nel 1494 — e di cuitutti allora sentivano il biso-gno”. Così nascono gli apostolidel Fuligno, raffigurazioni ide-ali più che umane incarnazio-ni. Sarà gloria poco duratura,presto soppiantata dall’urgen-za di vita, di plasticità seminateda Michelangelo e Leonardo…

Oggi, Perugino ha ripreso ilposto dovuto nell’olimpo dellapittura rinascimentale. E così ilsuo Cenacolo, finalmenteemancipato dall’insostenibilepeso della delusione. Dopoaver alloggiato la seta e le car-rozze, aver fatto da deposito aireperti egiziani ed etruschi(negli anni seguenti all’Unitàd’Italia), essersi trasformato inmagazzino di dipinti (dellaCollezione Feroni) e aver infineaccolto anche le opere travoltedal fango (con l’alluvione del‘66), il refettorio ha ritrovato di-gnità. Nel 2005, una grandemostra riunisce qui le opere dimolti che accanto al Peruginolavorano o ne subiscono l’in-fluenza, da Gerino da Pistoiaallo Spagna, da Lorenzo di Cre-di a Ridolfo del Ghirlandaio.Alcuni di quei lavori sono ri-masti lì. Uniti in un luogo diquiete al riparo dal caos cittadi-no, in cui il decoro che lo acco-glie, rende più sacro l’annunciodel tradimento.

12. Continua. Le puntateprecedenti sono uscite il 23/3,12/4, 6/5, 14/9, 30/10, 20/11,17/12 del 2016 e il 24/1 e 11/2,5/3 del 2017

© RIPRODUZIONE RISERVATA

di Daniela Cavini

contesto storico a spingere inquesta direzione — spiegaMarco Mozzo, direttore del Ce-nacolo — solo pochi anni pri-ma si era svolta al Pantheon laricognizione delle ossa del pit-tore. Una cerimonia che rap-presenta il momento di massi-mo culto dell’artista».

Come sottrarsi all’autorevo-lezza del mito? Anche il raccon-to del tradimento di via Faenzacade nella Raffaello-mania ot-tocentesca. Una volta attribuitoall’Urbinate, il Cenacolo diven-ta fenomeno di massa: tutti lostudiano, lo riproducono. Ilclamore è tale che nel dicem-bre del 1847 il Granduca di To-scana Leopoldo II è costretto aricomprare l’aula monumenta-le, facendo la fortuna del pro-prietario del garage: è propriola scoperta dell’affresco a sepa-rare definitivamente il destino

Da sapere Nella foto grande «L’ultima Cena» del PeruginoQui sopra un ritratto del pittore

Vasari De l’opre sue s’empié non solo Fiorenza et Italia, ma la Francia, la Spagna e molti altri paesi

Non c’è Carlo V, spettro o meno che sia, a trascinare con sé nella cripta Don Carlo; questi invece muore, infilzato dal padre Filippo II. Così si conclude il Don Carlo in scena all’Opera di Firenze (repliche 11, 14 maggio), con un finale spiazzante e non indicato da Verdi. Giancarlo Del Monaco, il regista dell’allestimento (coprodotto dai teatri di Bilbao, Oviedo, Siviglia e Tenerife), ha detto di essersi ispirato alla cosiddetta Leyenda negra, ossia a quella narrazione storica di propaganda portata avanti dagli inglesi in funzione antispagnola. Peccato che

Verdi alla Leyenda negra non abbia mai fatto cenno. E soprattutto, la drastica conclusione non solo invalida gravemente l’atmosfera di sospensione, soprannaturale e misteriosa, voluta da libretto e musica, ma stride pure con la fedeltà al testo che, in generale, guida nell’ambientazione la lettura registica. La scatola scenica, negli interni con le pareti tappezzate di carte geografiche emblema dell’impero di Filippo II, accoglie i personaggi rivestiti di accurati abiti cinquecenteschi (di Jesus Ruiz), ambienti, arredi e dettagli delle scene (di Carlo Centalovigna) rimandano alla Spagna del tempo; anche il

Crocifisso marmoreo viene da lì, è quello di Cellini per il monastero dell’Escorial, ma reso gigantesco (e denudato, chissà perché): però ingombra inutilmente la scena dell’autodafé, costringendo i pur validi cantanti del Coro del Maggio a movimenti impacciati, e vanificando così tutta la grandiosità

spettacolare della cerimonia. Tutto lo spettacolo in realtà traballa, con il suo formulario di convenzioni scontate. La recitazione dei personaggi ha la banale schematicità di un saggio scolastico, i movimenti delle masse sono faticosi; e i tempi dei cambi scena, inspiegabilmente lunghissimi, certo non aiutano. Alla fine, questo Don Carlo però qualche applauso se lo prende: sarà per il suo sapore rassicurante e antico, quello delle buone cose di pessimo gusto di gozzaniana memoria. Si vola invece alti con la direzione di Zubin Mehta, che modella negli attenti professori del Maggio sonorità e accenti di una visione struggente e

crepuscolare, intensa e commovente soprattutto negli ultimi due atti. A venir fuori è così l’umanità sofferente dei personaggi. Fra i quali si distinguono, agli opposti, l’Elisabetta di Julianna Di Giacomo, per vocalità fluida e bel fraseggio, e lo sgraziato Grande Inquisitore di Eric Halfvarson. Massimo Cavalletti è un Rodrigo appassionato ma con qualche incertezza tecnica, Dimitri Beloselsky impersona con efficacia un Filippo II altero, Roberto Aronica in Don Carlo mette a frutto qualità più espressive che di canto, Ekaterina Gubanova è una Eboli più agile che drammatica.

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In scenaDon Carlo e Filippo II

La recensione DON CARLO A METÀ: MEHTA TRASCINA, LA REGIA NOdi Francesco Ermini Polacci

Spettacoloche traballa, tropposcolasticoe faticosoAnchenei cambidi scenamoltolunghi E di certo non aiutano