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L'URBANISTICA ROMANA

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L'URBANISTICA ROMANA

ORIGINI E PRINCIPI TECNICI

L’urbanistica romana, secondo gli stessi Romani, trovò le sue basi nella storia greca. La

razionalità dei Greci sarebbe stata applicata, in periodo ellenistico, anche alla

progettazione urbana.

Nel V sec. a.C. visse, infatti, Ippodamo da Mileto(1) che, per primo, teorizzò la necessità di

costruire le città secondo schemi planimetrici regolari. Se difatti fino ad allora nascevano

prima le case e nello spazio tra esse venivano costruite le strade, con la pianificazione

urbana teorizzata da Ippodamo da Mileto, venivano prima disegnate le strade e poi, tra

esse, trovavano posto gli edifici. Con ciò si potevano ottenere città con tracciati viari tra

loro perpendicolari.

La scacchiera tipica ipotizzata da Ippodamo da Mileto si basava su tre assi longitudinali,

detti decumani, che procedevano in direzione est-ovest, intersecati da assi perpendicolari,

detti cardi, secondo l’orientamento nord-sud. L’intersezione di questi assi viari

determinava isolati rettangolari dalla forma allungata.

Questo schema ippodameo fu applicato alla pianificazione di numerose città antiche.

Pianta di Mileto(2), sistemata nel V sec. a.C. da

Ippodamo da Mileto dopo le guerre persiane;

gli isolati misurano 100 x 175 piedi (30 x 52 m.).

(BENEVOLO, L’arte e la città antica, Laterza,

1981)

Pianta di Olinto dopo l’ampliamento

ippodameo (432 a.C.).

L’area a puntini in basso, è quella del nucleo

più antico.

(BENEVOLO, L’arte e la città antica, Laterza,

1981)

Più dei Greci, i Romani furono dei grandi ingegneri, ed applicarono le loro capacità

tecniche alla realizzazione di numerose costruzioni dalle molteplici tipologie. Ma non si

limitarono solo all’architettura. Essi crearono le prime grandi infrastrutture del territorio:

le strade e gli acquedotti.

Costruirono numerose città, applicando il sistema ortogonale già sperimentato da

Ippodamo da Mileto, creando un sistema urbano di piccoli e grandi centri, che ebbe

notevole estensione. Rilevante fu anche la ripartizione del territorio in proprietà agrarie

dalla forma regolare, che presero il nome di «centuriazioni».

Bisogna dire (si confronti anche quanto detto altrove) che l’attitudine a costruire città di

pianta più o meno rigidamente ortogonale era propria di varie culture greche preromane

ed apparteneva al modus operandi urbanistico italico anche prima che esso entrasse in

contatto coll’elemento greco.

Tuttavia è certo che i Romani ebbero una visione molto precisa e schematica del territorio,

che essi utilizzarono quasi totalmente, modificandolo e rendendolo funzionale alle

esigenze di un grande impero, quale essi crearono.

I TRATTATISTI

Vitruvio Pollione(4) fu nel 27 a.C. autore del De Architectura, l'unico trattato di architettura

pervenutoci dagli antichi. Il De Architectura, che ha costituito un supporto teorico

indispensabile per le generazioni successive, tratta della costruzione, della gnomonica,

della meccanica enunciando originali stili architettonici, fondati sulla simmetria e sulla

proporzionalità delle parti al tutto. Inoltre, Vitruvio nella sua opera non si limita a trattare

dell’atteggiamento che deve seguire l’architetto rispetto al suo lavoro ma motiva anche le

scelte di questo in campo architettonico. È necessario parlare di questo grande scrittore

poiché nella sua opera descrive quindi la tecnica costruttiva, la scelta dei materiali e dei

luoghi adatti alla costruzione: "Questi saranno i criteri da seguire per le mura delle città.

Dapprima la scelta di un luogo particolarmente salubre, non nebbioso né brinoso, rivolto a zone del

cielo né calde, né fredde, ma temperate, quindi lontano da luoghi paludosi(5)."

La città romana a scacchiera nel trattato di Vitruvio

da una illustrazione del 1536.

(BENEVOLO, L’arte e la città antica, Laterza,

1981)

Una volta trovato un luogo adatto, normalmente un terreno pianeggiante, l’esercito

romano si accampava. Prima venivano tracciate due strade a croce, chiamate Cardo e

Decumano poi si scavava un fossato tutto intorno al luogo scelto e si costruiva una

palizzata di difesa o un muro di pietra.

Nella foto, i resti dell’accampamento romano a Masada (Israele).

(AA.VV., Società e storia, Bruno Mondatori, 1994)

Al centro del campo, il castra, trovavano posto le tende dei generali e l’altare per i sacrifici.

Le quattro porte si trovano sui quattro lati. Talvolta gli accampamenti, in particolare quelli

situati nei luoghi più lontani dell’impero, restavano abitati per anni e andavano

trasformandosi in veri e propri centri urbani.

Nel disegno, lo schema di un accampamento, rispondente alla

organizzazione della legione.(AA.VV., Società e storia 1, Bruno

Mondatori, 1994)

Un accampamento romano secondo lo storico Polibio. (GIARDINA, Le linee del tempo, Laterza,

1997)

Da una struttura provvisoria del castra si passa poi a quella definitiva del centro urbano

propriamente detto, composto non solo da piccole tende militari o da un ara sacrificale ma

anche da piccole case, terme, teatri, fognature e strade.

LA PIANIFICAZIONE DEL TERRITORIO

I Romani sapevano che difendere un territorio appena conquistato era una impresa

particolarmente difficile e impegnativa e perciò, in genere, favorivano insediamenti di

popolazioni indigene amiche o di cittadini romani come per esempio gli ex-legionari. La

realizzazione di tali insediamenti richiedeva necessariamente la costruzione di nuove vie

di comunicazione, la fondazione di nuove colonie e soprattutto una radicale

ristrutturazione del territorio con enormi lavori di bonifica, disboscamento, opere

idrauliche, costruzioni di insediamenti rurali, riduzioni a coltura.

L'insieme di tutti questi lavori poteva portare alla realizzazione di una centuriazione che

era costituita da un reticolo di strade o corsi d'acqua perpendicolari fra loro che

delimitavano grandi quadrati di terreno solitamente di circa 720 metri di lato (20 actus),

chiamati centurie.

Il terreno all'interno delle centurie era suddiviso in appezzamenti che venivano poi

assegnati ai coloni. Il nome centuria deriva dal fatto che originariamente, come narra

Varrone(7) nel "De re rustica", una centuria veniva suddivisa in 100 parti uguali (heredia)

pari a circa 5046 mq e assegnata a 100 coloni.

Alcune aree invece erano adibite a pascolo o bosco e lasciate ad uso comunitario. Le strade

che delimitavano le centurie erano chiamate decumani e cardini massimi, che usualmente

avevano una larghezza maggiore delle altre strade.

Le centuriazioni si sono diffuse in vaste aree dell'impero romano ed il loro reticolo si è

impresso nel paesaggio agrario di molte regioni costituendo una delle testimonianze

archeologiche più imponenti della civiltà romana. Infatti, in numerosi casi la continuità

abitativa dei territori dall'epoca romana all'attuale ha favorito il persistere

dell'orientamento stradale e la distribuzione degli insediamenti odierni secondo lo schema

tracciato dagli agrimensores romani.

Già nella fondazione delle prime colonie da parte delle città greche nell'VIII secolo a.C.

furono applicati criteri geometrici con divisioni del terreno secondo schemi regolari che

permettevano chiarezza nella distribuzione della proprietà e funzionalità nell'utilizzo del

suolo (drenaggio, viabilità). Nel VI secolo l'invenzione di nuovi strumenti come il

traguardo ottico e la livella hanno permesso impianti di città e divisioni agrarie di territori

secondo direttrici perfettamente ortogonali. Ne sono validi esempi l'organizzazione di

città come Selinunte, Locri e Metaponto.

Groma: strumento particolarmente usato dai geometri romani (perciò detti gromatici) per la

misurazione e la determinazione del tracciato delle strade. Guardando tra le opposte coppie di filo a

piombo, appese alle estremità dei due bracci incrociatisi ad angolo retto, era possibile tracciare sul

terreno coppie di allineamenti perfettamente ortogonali fra loro.

(AA.VV.,Società e storia, Bruno Mondatori, 1989)

Questi principi di pianificazione urbanistica furono quindi assorbiti dai Romani fin

dall'età arcaica.

Le norme per l'esecuzione delle centuriazioni sono pervenute fino a noi tramite trattati, a

volte frammentari ed interpolati, scritti dagli agrimensores . Prima dell'affermazione del

sistema delle centurie è documentata una divisione agraria secondo il sistema detto della

strigatio e scamnatio, rappresentato da lunghe bande rettangolari di terreno disposte nel

senso della lunghezza o della larghezza.

Dal II secolo a.C. si sono abbandonate queste divisioni e si è arrivati ad una diffusione

generalizzata della centuriazione che offriva maggiori vantaggi per l'organizzazione del

territorio e le comunicazioni.

La centuriazione di un territorio e la sua assegnazione veniva decisa dal potere centrale

tramite l'emanazione di una legge che stabiliva l'ubicazione e l'estensione del territorio da

centuriare, il numero dei coloni e le modalità della distribuzione dei lotti.

Per sovrintendere alla fase esecutiva veniva composta una commissione di magistrati

straordinari. Il terreno veniva suddiviso con fossati e strade rettilinei che, incrociandosi

perpendicolarmente tra loro, formavano i quadrati delle centurie.

Questi allineamenti, detti limites, prendevano il nome di decumani e cardi a seconda del

loro orientamento: i decumani da E ad O, i cardi da N a S. Essi venivano tracciati per primi

quando veniva impostata la centuriazione, determinandone così l'orientamento. Questo

spesso si discostava dalle regole teoriche e veniva scelto in base all'inclinazione del

terreno, orientando strade e fossati secondo il corso dei fiumi per facilitare il drenaggio

delle acque dai campi coltivati. Altre volte invece si seguiva l'orientamento di strade di

collegamento preesistenti come nel caso delle numerose centuriazioni emiliane in cui il

decumano massimo è rappresentato dalla via Aemilia. In genere i limites erano in terra

battuta e solo le strade più importanti erano pavimentate. Una volta delimitate le centurie

si procedeva alla loro suddivisione interna per separare una proprietà dall'altra.

I confini interni erano chiamati limites intercisivi ed erano quasi sempre costituiti da fossati

e sentieri paralleli o perpendicolari ai decumani.

Dove i limites si incrociavano venivano posti dei cippi chiamati termini che potevano

essere in legno o in pietra di forma cilindrica o prismatica e in genere recavano incisi sulla

faccia superiore il decussis (due linee in croce indicanti le direzioni dei limites) e le

coordinate della centuriazione in riferimento al decumano ed al cardine massimo. Agli

incroci usualmente venivano erette edicole o are sacrificali o piccoli templi per il culto

degli dei.

Ancora oggi notiamo la presenza di edifici sacri come chiese o capitelli nei pressi dei punti

in cui i limites della centuriazione si incrociavano, per la persistenza dei luoghi di culto nel

passaggio dal rito pagano a quello cristiano e sembra che l'ubicazione dei luoghi sacri sia

l'unica caratteristica dell'antico territorio trasmessa e arrivata fino a noi. I confini tra le

proprietà erano sacri e spostare una pietra di confine era considerato sacrilegio ed era

punito con gravi pene.

LE STRADE

Basilare è parlare delle prime strade romane, che nacquero per necessità militari e di

collegamento con le colonie. Ad esempio, il tracciato della via Appia, la prima strada

romana, si sviluppò per consentire il controllo militare del territorio e facilitare gli

spostamenti dell'esercito durante la conquista dell'Italia meridionale. In epoca

repubblicana la costruzione della rete viaria romana fu affidata ai consoli e ai pretori,

mentre la cura delle strade provinciali rientrava nei compiti dei governatori.

Piantina che indica le più importanti strade

italiane.

(GUARRACINO, nuova Società e storia, Bruno

Mondatori, 1994)

Intorno al IV sec. a.C. a Roma esistevano solo tre strade: la Salaria (via del sale) che

arrivava ad Asculum (Ascoli), la via Ostiensis e la via Latina.

Salaria e Ostiense costituivano un’asse che collegava il mare alle montagne del Reatino,

utilizzati soprattutto per la transumanza; la via Latina era un tracciato naturale che partiva

dall'isola Tiberina, usciva dalla città e, aggirando i Colli Albani, arrivava a Capua. Anche

le future Nomentana e Tiburtina erano sentieri usati per le pecore.

Pianta di Roma in età repubblicana con

l’indicazione delle grandi strade consolari in

partenza dalla città.

(BRANCATI, Civiltà a confronto 1, La Nuova

Italia, 1997)

La via Appia fu la prima vera strada romana (e quindi d'Italia), fatta costruire da Appio

Claudio Cieco attorno al 312 a.C. contemporaneamente al primo acquedotto di Roma

(l'aqua Appia, come riportano Livio e Diodoro Siculo). La nuova strada permetteva ai

romani di viaggiare ad una media di 200 miglia al giorno, grazie al sistema del lastricato.

Una mappa in marmo posta nel Foro Romano mostrava il sistema viario con le tappe, le

fontane e i ristori. Il primo troncone della via Appia conduceva da Roma a Capua

passando per Tarracina, Formia, Minturno, Casilinum (Capua), dove si univa con la via

Latina. Poco dopo la costruzione della via Appia fu lastricata anche la via Latina, che ne

divenne l'alternativa. La via Appia fu prolungata per la prima volta nel 268 a.C. fino a

Beneventum (Benevento).

Via Appia, asse fondamentale del sistema viario romano.

(MAGNANI-MARCACCINI, La storia e la vita, Sansoni,

2OOO)

La via Salaria portava da Roma a Castrum Truentinum (Porto d'Ascoli), sulla costa

adriatica. Seguiva il Tevere fino a Passo Corese, si addentrava nella Sabina passando per

Reate (Rieti), Cittaducale, Antrodoco, oltrepassava l'Appennino tra le gole del Terminillo e

discendeva verso l'Adriatico, raggiungendo Asculum (Ascoli Piceno) e Castrum

Truentinum.

La via Nomentana usciva dalla porta Collina, cavalcava

l'Aniene e risaliva fino a Nomentum (Mentana). Anche la via

Tiburtina era di antichissima origine; lasciava Roma alla porta

Esquilina e conduceva a Tibur (Tivoli) superando il fiume

Aniene. Fu ristrutturata nel 307 a.C. da Marco Valerio

Massimo e fu da lui prolungata fino a Corfinium (Corfinio). Questo nuovo tratto prese il

nome di via Tiburtina Valeria. La via Praenestina è un tracciato di antica origine, che dalla

porta Esquilina conduceva a Gabii e a Praeneste (Preneste), attraverso delle placide

campagne. Fu sistemata quando Roma conquistò Praeneste, nel 338 a.C.. La via Collatina

si distaccava dalla via Tiburtina poco dopo l'arco dell'Acqua Marcia (in seguito integrato

nelle mura Aureliane, ora ha il nome di porta S. Lorenzo) e conduceva alla vicina Collatia.

La via Aurelia fu aperta nel 241 a.C. dal censore Caio Aurelio Cotta. Usciva da Roma dal

ponte Emilio (l'odierno ponte Rotto), saliva sul Gianicolo e conduceva a Cosa (Ansedonia).

La via Sacra, che portava sul Campidoglio al tempio

di Giove Capitolino e sullo sfondo l’arco di Tito.

(CERCHIARI-DE VECCHI, Arte nel Tempo,

Bompiani, Milano, 1992)

La via Flaminia fu fatta costruire dal censore Caio Flaminio (223-219 a.C.), era finalizzata

alla colonizzazione dell'“ager Gallicus”. Fuoriusciva dalla porta Fontinalis della cinta

repubblicana (in seguito passerà anche sotto la porta Flaminia delle mura Aureliane,

l'odierna porta del Popolo), raggiungeva, passando per l'Umbria, Fanum (Fano) e

terminava ad Ariminum (Rimini).

Particolare della via Flaminia.

Immagine tratta dal sito http://www.vieverdi.it

LA ROMA REPUBBLICANA

Pianta in scala 1:2.000.

(BENEVOLO,L’arte e la città antica,Laterza, 1981)

Roma costituisce sicuramente un’eccezione per quanto riguarda la pianta originata dal

castrum. L 'origine della città è collegata, come sempre, alla natura dei luoghi; ma il luogo

prescelto, sul corso inferiore del Tevere, si distingue appena da molti altri luoghi vicini e le

sue caratteristiche originarie sembrano sproporzionate all’importanza degli sviluppi

successivi. Il corso del fiume, dopo una curva molto pronunciata rallenta e si divide in due

rami, lasciando in mezzo un isola (l'isola Tiberina); qui il fiume può essere guadato,

traghettato più facilmente, e sulla riva sinistra una serie di colline arrivano vicino alla

sponda con le loro pareti scoscese. Gli Etruschi che occupano la riva destra hanno interesse

a tener libero il passaggio, per raggiunge possedimenti in Campania. Così in questo punto

si formano una fiera e un mercato (che resteranno nella città col nome foro Boario e foro

Holitorium) mentre sulle colline più prossime nascono i primi villaggi fortificati che

dominano il passaggio del fiume.

Più tardi si forma una città che include i sette colli tradizionali. Durante l’incursione dei

Galli nel 378.a.C. tutta la città è stata occupata e incendiata, ad eccezione del Campidoglio.

Subito dopo Roma viene ricostruita senza correggere il suo tracciato irregolare, difesa da

una nuova cinta di mura che porta per tradizione il nome di Servio Tullio.

“La riedificazione della città avvenne senza alcuna regola, né ordine. Le tegole furono fornite a spese

dello Stato, fu dato a chiunque il permesso di prendere le pietre e il legname da costruzione dove

ciascuno voleva, purché desse garanzia che gli edifici fossero condotti a termine dentro l'anno. La

fretta tolse la possibilità di tracciare vie diritte e, senza distinzione fra il proprio e l'altrui, ciascuno

edificava nel terreno trovato libero. Questo è il motivo per cui le antiche cloache, che passavano

prima sotto il suolo pubblico, ora in qualche parte passano sotto le case private, sicché la forma della

città assomiglia più a terreno occupato che distribuito secondo un preciso piano regolatore”.

Passando dalla repubblica all’impero, gli interventi edilizi diventano sempre più grandiosi

ed entrano in conflitto con la precedente organizzazione della città: ora per fare spazio alle

nuove sistemazioni bisogna distruggere quel che esisteva prima. Nerone dopo l’incendio

del 64 d.C. ha l’occasione di trasformare più radicalmente la città . Tacito, che descrive

questa ricostruzione, dà un'idea delle condizioni della città in questo periodo: “La città non

fu costruita in modo discontinuo e senza alcun ordine, ma fu misurata la struttura dei quartieri, si

dette larghezza alle strade, si limitò l'altezza degli edifici, si aprirono le piazze, si aggiunsero portici

a protezione delle facciate delle insulae. Nerone promise di costruire questi portici a sue spese di

consegnare le aree ripulite ai padroni. Aggiunse premi secondo le categorie dei cittadini e i

patrimoni familiari, e fissò termini entro i quali, costruite le domus e le insulae, si avrebbe avuto

diritto al premio” .

Con gli imperatori successivi si arriva allo sviluppo della città, come si può notare dalla

pianta della città di Roma nella quale risaltano le due cinte murarie, quelle serviane e quelle

aureliane, costruite tra il 270 e il 275.

LE INFRASTRUTTURE URBANE: L'INSULA

Ricostruzione di un’insula

(CAMILLOCCI, Le rane e lo stagno, Sei, 1997)

Con il crescere della popolazione specialmente nel periodo imperiale, i costruttori romani

cominciarono a demolire le piccole case unifamiliari dell’età repubblicana e al loro posto

innalzarono i grandi e alti caseggiati chiamati insulae. L’insula, termine con il quale i

romani indicavano la casa, in quanto libera dai contatti con gli edifici circostanti, era simile

ad un’isola. Quando le case furono successivamente costruite le une addossate alle altre,

l’insula venne ad assumere il significato di casa d’affitto, mentre il termine domus

continuò ad essere usato nel significato di casa di proprietà. Il termine insula, che in

italiano significa «raggruppamento di case», «caseggiato» erano infatti costruzioni divise

in più appartamenti. Esse potevano svilupparsi fino a tre o quattro piani o anche di più,

tanto è vero che si ha notizia di limitazioni imposte alla loro altezza dagli imperatori

Augusto e Traiano. Il piano terreno era adibito a botteghe oppure a una domus riservata a

un inquilino un po' più benestante. Nei casi più numerosi infatti il pianterreno dell'insula,

era diviso in un infinità di botteghe piccoli laboratori di artigiani o magazzini, le tabernae,

che quasi sempre, oltre allo spazio per il lavoro, nascondevano in un angolo un po’ di

spazio per una rampa a quattro o cinque scalini di mattoni o pietra prolungata da una

scala di legno per la quale si accedeva a un soppalco illuminato direttamente da un'unica

finestra che serviva da abitazione privata ai padroni della bottega e i loro familiari. Ai

piani superiori vi erano gli appartamenti della plebe, tutti uguali gli uni agli altri. Erano

locali di poche stanze comunicanti fra loro che si affacciavano tutti su un grande ballatoio

comune con molte finestre sull'esterno, chiuse da battenti di legno. Questi appartamenti

spesso erano piccoli, poco luminosi e privi di servizi igienici l'acqua, difatti, doveva essere

attinta dai pozzi o dalle fontane. Gli appartamenti, i cenacula, venivano dati in affitto (15) a

prezzi piuttosto onerosi per la povera plebe, tanto che, le famiglie affittuarie erano

costrette a dare a loro volta in affitto le stanze a terzi in modo da poter pagare l’affitto

dell’intero appartamento. In questo modo il singolo appartamento andava a ospitare un

numero superiore di persone rispetto a quello per cui era stato costruito. Di frequente poi

si verificavano casi di speculazione: molti proprietari pretendevano prezzi altissimi per

locali malsani e angusti, approfittando della grande richiesta di alloggi.

Inoltre si utilizzavano tecniche come quella ad opus graticium, che impiegavano materiali

poveri e scadenti anche per costruire gli appartamenti dei piani superiori.

Infatti per quanto riguarda il materiale di costruzione venivano sollevate pareti a scheletro

ligneo o a graticciato di cane oppure in cemento rivestito da mattoni sicuramente poco

resistenti e spesso soggette a crolli e incendi, come riportato da Tacito (16). In età imperiale

si edificarono case troppo alte in rapporto all’ampiezza o alla solidità della base, senza

rispettare i limiti e le misure previste dalla legge, per cui capitava che crollassero,

provocando numerosi morti; gli imprenditori così traevano nuovi profitti dai lavori di

ricostruzione.

Ricostruzione di un’ insula.

(DIOTTI, La civiltà romana, DeAgostini, 2000)

A causa delle strutture in legno che le componevano le insulae erano facilmente

incendiabili: addossate le une alle altre alimentavano rapidamente le fiamme. Dato che i

pompieri di quell’epoca, sebbene numerosissimi, non disponevano di mezzi adeguati,

molto spesso un piccolo incendio causava la distruzione di interi quartieri. Con l’altezza

delle sue insulae l’impero romano voleva incutere timore e sottomissione ai forestieri, che

per la prima volta giungevano a Roma, per renderli coscienti della forza romana grazie

all’imponenza di questi edifici. Se però agli occhi degli stranieri queste erano simbolo di

forza e motivo di timore, allo stesso tempo erano un punto debole dell’impero e motivo di

pena, paure e preoccupazioni da parte dei romani stessi, che le abitavano e che rischiavano

la vita su di esse, tanto che fu necessario stabilire delle leggi che fissavano a 60 piedi

l’altezza di questi edifici in modo da evitare gli incidenti. Non avevano questi problemi i

pochi cittadini privilegiati che abitavano nelle domus. Molto spesso queste domus

signorili si potevano trovare anche al pian terreno di una insula al posto delle piccole

tabernae. C’erano quindi delle differenze tra i due generi di stabili d’affitto cui conviene il

nome di insula, ma queste derivano dalla disparità tra le domus e le tabernae del

pianterreno, ma non impedirono che le une e le altre sorgessero affiancate. In quel periodo

non vi erano infatti quartieri aristocratici o popolari ma vi era una tranquilla convivenza

tra ricchi romani e il popolino.

LE INFRASTRUTTURE ROMANE: LA DOMUS

La domus era dunque la casa cittadina di maggior prestigio e ricchezza. Questo tipo di

edificio presentava una pianta a forma rettangolare. L’ingresso della domus romana, che

dall’esterno conduceva allatrium, nella maggior parte dei casi non immetteva direttamente

sulla strada, ma era leggermente arretrato nel corridoio.

L’atrium era il luogo più importante della casa, a forma quadrangolare o rettangolare,

situato al centro dell’ edificio. Il corridoio si presentava diviso in due parti: il vestibulum e

le fauces. Le domus più ricche presentavano nell’atrio una vasca rettangolare, l’impluvium,

che aveva la funzione di raccogliere l’acqua piovana attraverso un’apertura centrale

sovrastante detta compluvium. Le acque dei tetti fluivano entro il compluvium per mezzo di

un sapiente sistema di canali di scolo detto displuviatum. L’acqua raccolta veniva utilizzata

per irrigare l’hortus, o per scopi domestici.

L’interno di una domus.

(AA.VV., Società e storia, Bruno Mondatori,

1994)

Sull’atrio si affacciavano alcune stanze molto importanti: i cubicula e il tablinum. Oltre

l’atrio era possibile trovare come variante all’hortus il cosiddetto peristylium. Al centro del

peristylium era ubicata una seconda vasca, la piscina, che aveva, a differenza

dell’impluvium solo funzioni decorative (veniva usata come fontana o come vasca per

allevare pesci di piccole dimensioni). Sul peristilio si affacciavano gli ambienti più intimi

della casa, come il tablinum e il triclinum, e vi si apriva il posticum. Tanto nella sua forma

primitiva (etrusco-romana), quanto in quella posteriore, nella quale l’impiego del laterizio

nelle murature fu sostituito dall’impiego della pietra, lo schema planimetrico della domus

romana si presenta sempre uguale.

Nel complesso la pianta di una ricca domus romana si presentava nel seguente modo:

Immagine tratta dal sito http://www.provincia.brescia.it

Per quanto riguarda i materiali utilizzati per la costruzione della domus romana, i muri

esterni perimetrali erano costituiti da una giustapposizione regolare di pietre e mattoni,

accostati tra di loro sfruttando l’invenzione della malta da presa (o cemento). Questo

impasto, scriveva lo scrittore ed ingegnere M. Pollione Vitruvio, contemporaneo di

Augusto, poteva essere ottenuto o con una parte di calce e due di

sabbia oppure con una di calce e due di pozzolana. Le mura

perimetrali risultavano così sicure e solide.

Esistevano vari metodi di accostamento delle

pietre e dei mattoni; le modalità

maggiormente conosciute erano l’opus

quadratum, l’opus caementicium, l’opus incertum, l’opus reticulatum e

latericium.

Nelle domus romane era molto usato l’arco a tutto sesto perché permetteva di scaricare la

forza peso della struttura equamente sui due lati.In una prima parte della storia romana le

porte, le finestre e generalmente tutti i tipi di infissi, erano molto scarsi. In seguito si iniziò

ad adoperare il legno che veniva ricavato da piante robuste quali il pioppo e l’abete.

LE INFRASTRUTTURE URBANE: LE TERME

La frequentazione quotidiana delle terme era uno dei più tipici costumi dei Romani d'età

imperiale. È, infatti, dalla fine del I sec. a.C. che la costruzione di edifici termali prese

impulso, diffondendosi poi in tutto l'impero e sviluppando complessi di proporzioni

monumentali.

La consuetudine del bagno, quando fu introdotta, divenne in breve abitudine quotidiana,

generale e di tale importanza che si rese necessaria la costruzione di stabilimenti balneari

pubblici, alcuni dei quali grandiosi. Oltre ai piccoli bagni privati, con clientela ristretta di

persone che volevano evitare il chiasso e la curiosità pettegola degli stabilimenti troppo

affollati, esistevano gli stabilimenti aperti a tutti, con il reparto per gli uomini e quello per

le signore, con ambienti separati e con piscine comuni, dove non mancavano ne i bagni

medicati ne quelli profumati. E chi, dopo il bagno, sentiva appetito, trovava da mangiare e

da bere nelle numerose popinae impiantate dentro le terme.

Fra questi edifici, alcuni erano pubblici (termae), altri costruiti e gestiti da imprese private a

scopo di lucro. Le terme appartenevano allo Stato, ma erano date in appalto, dietro

versamento di una determinata somma, a un impresario (conductor) che aveva il diritto di

esigere la tassa d'ingresso, di solito modesta. Gli edifici termali romani offrono come

costruzione una grandissima varietà, ma di tutti sono elementi comuni lo spogliatoio, il

frigidarium, il tepidarium, il calidarium.

Il calidarium delle Terme del Foro e, al centro, il grande bacino che

conteneva acqua calda per lavarsi le mani e il viso.(DIOTTI, La

civiltà romana,DeAgostini, 2000)

Le terme pubbliche erano, peraltro, dotate anche di un ambiente per il calore secco

(Iaconicum). Il frigidarium era la stanza per il bagno freddo, di solito piccola, sormontata da

una cupola con un'apertura nel mezzo. Il tepidarium non era, come il nome può far credere,

un ambiente destinato al bagno tiepido, ma una stanza con panchine di marmo, che dava

modo ai bagnanti di abituarsi alla differenza di temperatura fra il calidarium e il

frigidarium. I calidarium, stanza dove si prendeva il bagno caldo, era spazioso e pieno di

luce, fornito di bacini e di tinozze e, nelle grandi terme, anche di una grande vasca per

nuotare.

Terme di Acquae Sulis in

Britannia.

(DIOTTI, La civiltà romana,

DeAgostini, 2000)

Sistema di riscaldamento delle terme.

(DIOTTI, La civiltà romana,DeAgostini, 2000)

Negli ambienti caldi il sistema di riscaldamento era oltremodo ingegnoso e precorreva, in

certo modo, il moderno riscaldamento ad aria calda. Un forno, sorvegliato e alimentato da

uno schiavo, serviva al doppio scopo di riscaldare l'acqua necessaria all'uso delle terme e

di immettere aria calda nelle cavità appositamente lasciate libere sotto il pavimento e nelle

pareti. Per tale scopo già nel secolo I d.C. si costruivano i pavimenti in modo che, invece di

esser direttamente a contatto con il suolo, fossero sostenuti da colonnette di mattoni

lasciando così sotto l'impiantito uno spazio vuoto nel quale l'aria calda potesse

liberamente circolare. Da questa cavità l'aria calda saliva e si diffondeva nelle cavità delle

pareti mediante tubi di coccio, o mattoni internamente vuoti.

LE INFRASTRUTTURE URBANE: GLI ACQUEDOTTI

L'acqua necessaria per l'approvvigionamento idrico delle città era fornita attraverso grandi

opere di ingegneria idraulica, gli acquedotti, che in tutto l'impero erano tra i più concreti

segni dell'espansione della civilitas romana.

È, peraltro, importante ricordare che, al di là delle grandi arcate e dei ponti, gli acquedotti

prevedevano spesso dighe, gallerie scavate nei rilievi, condotte sotterranee, sifoni.

È in questa articolata serie e armonizzazione di soluzioni tecniche diverse che va

riconosciuto l'elevato grado di evoluzione della ingegneria idraulica romana e non solo

nelle più spettacolari realizzazioni monumentali.

Un tratto dell'acquedotto Claudio nei pressi di

Roma.

Queste costruzioni coprivano distanze enormi e superando ostacoli naturali di ogni tipo,

valli, colline. Lo scorrere dell'acqua nel canale nella parte alta dell'acquedotto era

permesso dal fatto che le arcate erano progettate in modo da avere una lieve ma continua

pendenza lungo tutto il percorso.

Un tratto dell'acquedotto fatto costruire dall'imperatore Claudio.

(DIOTTI, La civiltà romana, DeAgostini,2000)

LE INFRASTRUTTURE URBANE: IL SISTEMA

FOGNARIO

Sezione di una cloaca: un intrico di corridoi sotterranei costituiva la rete fognaria di

Roma.

(AA.VV., Società e storia, Bruno Mondatori, 1994)

I Romani furono esperti nella costruzione di gallerie, anche se sono meno frequenti tunnel

posti su un tracciato stradale extraurbano. In effetti, i Romani realizzarono i cosiddetti

specus idraulici sotterranei per il trasporto d'acqua a grande distanza. Cavavano materiali

da costruzione da cunicoli scavati nel terreno e sui fianchi delle montagne e coltivavano in

profondo le miniere, in particolare quelle metallurgiche, disponendo di una tecnica

specifica per opere militari in galleria durante gli assedi già sin dall'epoca delle guerre

contro gli etruschi, appena dopo la fondazione dell'Urbe.

Le strade romane, veri e propri manufatti ingegneristici, differivano da quelle delle civiltà

precedenti, poiché venivano realizzate con mura per sostenere il piano stradale, anziché

una pavimentazione incoerente appoggiata sul terreno. A differenza dei Greci, i Romani,

di fronte a un ostacolo naturale non l'aggirano, ma tirano diritto, sfruttando pendenze e

scavando nella roccia. Nascono così gallerie e grotte per culti religiosi, come le catacombe

e i mitrei.

Per meglio illustrare le gallerie transitabili della penisola italiana nell'antichità, è

necessario esaminarne i vari tipi. Esistevano, infatti, gallerie stradali, di servizio, quelle per

il passaggio nelle varie zone cittadine, spesso realizzate con portici coperti (criptoportici),

le gallerie idrauliche per il trasporto d'acqua e le fognarie (20). L'unica differenza tra tutti

questi tunnel e le gallerie stradali, è la dimensione della sezione, che deve essere adatta al

passaggio di uomini e veicoli.

La Cloaca massima opera idraulica attribuita a i Tarquini.(AA.VV., Società e storia, Bruno

Mondatori, 1994)

Non esistono riferimenti storici per comprendere bene quali fossero le tecniche costruttive

dei tunnel stradali romani. Si può soltanto osservare che il posizionamento dell'entrata e il

collegamento tra tunnel lunghi e stretti, con molti canali di ventilazione, assumono

connotazioni progettate in modo da ottenere l'allineamento verticale e orizzontale fra

l'ingresso e l'uscita. Nelle gallerie romane adibite ad acquedotti e fognature, è stato

utilizzato il sistema chiamato cultellandi ratio, un accurato metodo di picchettamento della

montagna. Le parti verticali e orizzontali di una poligonale sono misurate con i comuni

sistemi di agrimensura latini, come il corobate (una primitiva livella) e il groma (una specie

di gnomone), per ottenere l'allineamento verticale e orizzontale degli assi del tunnel.

Cloaca Massima del IV sec. a.C.

(CERCHIARI-DE VECCHI, Arte nel Tempo, Bompiani, 1992)