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Mario Lunetta

Patti: la storia, le leggende,i miracoli

Catalogo della mostradi Livia Pertile

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Al Cap. Antonino Mosca e al Dott. Antonino Sperandeo,

due amici e maestri di vita

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Alla mia famigliae in particolar modo

ai miei nipoti Marco, Mario, Andrea e Matilde, perché imparino a conoscere

ed amare sempre di più la nostra Patti

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Durante il mio ultimo e breve incarico assessoriale (da gennaio a luglio2003) pensai di realizzare un’iniziativa per la città di Patti, che servissea ricordare alcuni momenti significativi della sua lunga e importantestoria.Santo Stefano di Camastra ha lungo le sue vie parecchie opere in cera-mica che testimoniano l’attività che da tempo caratterizza quella città.E così pure Caltagirone.Mi chiedevo perché Patti, decantata come “u paisi da crita” non doves-se avere nessuna testimonianza di quella sua antica e rinomata produ-zione.Parlai di questa mia idea col Sindaco e con i componenti della Giunta.Acquisita la loro disponibilità, con un giovane geometra del Comuneper parecchi giorni andammo avanti e indietro per le vie della città, avisionare e misurare.Il progetto che avevo in testa consisteva nel cercare di abbellire le scali-nate più importanti della nostra città(che sono tante e belle) collocandovi dei pannelli in ceramica, su cuifosse riprodotto un fatto o un personaggio storico di Patti. Individuaiuna quarantina di soggetti da raffigurare. Contattai quindi le aziendedi ceramica della città e alcuni artisti, ma per tutta sincerità non riscon-trai il giusto interesse e la necessaria sensibilità.Esposi la situazione al Sindaco e alla Giunta e li sollecitai a far assumereal Comune l’onere dell’iniziativa. Mi fu risposto che purtroppo le risor-se a disposizione erano limitate e servivano ad opere più indispensabi-li.Non mi restò perciò che accantonare quel piano, al quale però non smi-si mai di pensare. Qualche anno dopo, da privato cittadino, pensai diriprendere l’iniziativa, modificandone per forza di cose il progetto.Decisi di far realizzare a mie spese dei pannelli in ceramica nel labora-torio della ditta Filippo Melita, affidandone i disegni ad una affermataartista.Dopo tanto lavoro, finalmente le opere sono pronte e quanto prima sa-ranno messe a disposizione di Enti ed Associazioni della città e del cir-

Presentazione

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condario per renderne possibile la fruizione a tutti. In modo particolareai giovani, che troveranno in esse un utile strumento per il recuperodella memoria della nostra comunità. E ai turisti perché si rendano con-to, tra l’altro, dell’importante storia vissuta dalla città che hanno sceltodi visitare.

Mario Lunetta

Che uomo è, un uomo che non cerca di migliorare il proprio paese?

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Una straordinaria sequenza della millenaria storia di Tindari e Patti.Come in un film, scorrono le immagini fissate invece che sulla celluloi-de, sulla ceramica, memoria di arte e creatività pattese nel mondo. 40grandi pannelli dell’artista Livia Pertile che in un sapiente mixage diluci ed ombre nei blu e nei gialli delle più grandi tradizioni della nostraterra, disegnano la storia della nostra città. Dai Tindaridi, al miracolodella Madonna Nera, a Verre e Cicerone, al Conte Ruggero, alla ReginaAdelasia, a S. Febronia, al grande Vescovado, ai Vespri siciliani, a Gari-baldi… La storia di una comunità fissata dalla passione di Mario Lu-netta, cultore di memorie e mecenate. Per non dimenticare miti, tradi-zioni, storia e storie, indispensabili per costruire il futuro di una terrastraordinaria.

Pasquale Nastasi

Prefazione

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Negli anni dal 73 al 71 a.C. Roma nominò propretore (Governatore Pro-vinciale) della Sicilia, Caio Licinio Verre, il quale, apprestandosi a visita-re la città di Tindari, veniva a conoscenza che nel grandioso tempio diHermes (Mercurio), c’era la presenza di una maestosa statua dello stessoDio, tutta in oro, costruita nella lontana Grecia.Quella statua, che precedentemente era stata rubata dai Cartaginesi, dopola distruzione di quella città ad opera del console Scipione, fu restituitaai legittimi proprietari, i cittadini di Tindari , come ricompensa per laloro provata lealtà verso Roma.Verre pretese che gli fosse consegnata, ma a questa richiesta i tindaritanie tutta la Gherusia risposero con un netto rifiuto. A questa opposizioneVerre fece subito arrestare, senza alcun riguardo, il proagoro (GiudiceSupremo) Sopatro, la persona più autorevole di Tindari, assai noto per lasua nobiltà d’animo. Lo fece quindi colpire svariate volte a vergate, dopoaverlo fatto denudare e legare alla statua di Caio Marcello che si trovavanell’agorà, la piazza più importante di Tindari.Sopatro fu lasciato lì, in segno di scherno, per un’intera giornata, sottouna tempesta di pioggia e di vento, fino a quando i tindaritani e tutta la

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Sopatro, Proagoro(Giudice Supremo di Tindari),

viene umiliato da Caio Licino Verre,Propretore (Governatore provinciale) della Sicilia

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gherusia furono costretti a cedere alle richieste dello scellerato Verre e aconsegnare, malvolentieri, la statua d’oro del dio Mercurio. Da allora diquella statua non si seppero più notizie e mai più fece ritorno a Tindari.

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Quando comparve sulla scena la potenza di Roma, Siracusa e Cartagine,da secoli rivali, si allearono. Nel 264 ebbe inizio la prima guerra punica.L’esercito romano sbarcò a Messana e i cartaginesi si ritirarono fino aTindari. Qui la popolazione locale cercò di allearsi con Roma, ma i carta-ginesi riuscirono a controllare la città, prendendo in ostaggio e deportan-do a Lilibeo, l’attuale Mazzara del Vallo, numerosi cittadini, in particola-re quelli che ricoprivano le principali cariche pubbliche.Nello stesso periodo, intorno al 263 a.C., fu sottratta a Tindari e traspor-tata in Africa una statua d’oro del Dio Hermes (Mercurio) che divenneoggetto di contesa per due secoli, prima con Cartagine e poi con Roma.Dopo la seconda disfatta della marina cartaginese, comandata da Amil-care, avenuta nell’anno 257 nelle acque di fronte al promontorio di Tin-dari ad opera del Console Caio Attilio Regolo, la città dei Dioscuri siconsegnò spontaneamente ai Romani. Tindari restò alleata dei romaniper tutto il resto delle guerre puniche, tanto da partecipare con un pro-prio contingente alla spedizione in Africa, guidata dal Console Scipione,conclusasi con la distruzione di Cartagine. Per questo motivo Tindari fu

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I Tindaritani, rappresentati da Marco Tullio Cicerone,chiedono ed ottengono un processo

contro Caio Licino Verre, reo di aver sottrattola famosa statua d’oro del Mercurio

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ricompensata dai romani con la restituzione della statua del Mercuriod’oro sottratta dai Cartaginesi.La città ebbe un notevole sviluppo, furono costruiti grandiosi monu-menti e suntuose abitazioni e la popolazione arrivò a contare alcunedecine di migliaia di abitanti. Ma con l’arrivo al potere di Caio LicinioVerre, propretore (Governatore Provinciale) della Sicilia dal 73 al 71a.C. , per Tindari, come per tutte le città dell’isola, si aprì un periodo dioppressione, ruberie e corruzione. Verre negò alla popolazione dirittigarantiti da leggi e trattati, imponendo tributi superiori a quelli stabilitidalla stessa Roma, per intascare la differenza .Inoltre Verre si appropriò di ricchezze e opere d’arte di ogni genere,sottraendole ad abitazioni private, edifici pubblici e templi e pretesealtresì la consegna della celebre statua del Mercurio d’Oro. I senatoridi Tindari si opposero. Verre allora fece legare alla statua di Caio Mar-cello il proagoro (Magistrato Supremo) Sopratro, lasciandolo, per un’in-tera giornata, sotto una tempesta di vento e pioggia finché i Tindaritanicedettero e consegnarono la statua del Mercurio d’Oro che da alloramai più fece ritorno a Tindari.La popolazione tindaritana non si arrese e inviò a Roma una rappre-sentanza ufficiale che, assieme alle delegazioni di altre città siciliane,chiese ed ottenne l’apertura di un processo contro Verre. La città diTindari fu difesa in giudizio da Marco Tullio Cicerone.Nelle verrine l’avvocato definì Tindari “Nobilissima civitas” e denun-ciò con forza le malefatte del propretore Verre con queste parole:“Costui non ha lasciato nulla in casa di nessuno, neppure in quella de-gli ospiti, nulla nei luoghi pubblici, neppure nei santuari, in una parolanulla che cadesse sotto i suoi occhi o che risvegliasse la sua cupidigia,nulla di privato o di pubblico, nulla di profano o di sacro”.Dopo l’arringa di Cicerone fu pronunciata la sentenza. Verre fu con-dannato e dovette pagare ai Siciliani 40 milioni di sesterzi e andare inesilio. I Tindaritani abbatterono la sua statua e la trascinarono esultantiper le vie della città. Da quel momento, ininterrottamente per 21 anni,la città visse un periodo di grande tranquillità e benessere.

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Santa Febronia ebbe i suoi natali nella parte settentrionale della Sicilia,sopra di un colle non lontano dal mar Tirreno, fra Tindari e il colle Aga-tirso (Capo d’Orlando), presumibilmente nell’anno del Signore 285, daillustri e nobili genitori.Il padre Teodosio, che trasse il proprio cognome dalla famiglia Vizzocao Vizzola, assieme alla moglie, non che madre di Febronia, di nomeBona, avevano individuato in Numidio lo sposo da destinare.La giovinetta crebbe così applicata all’osservanza della verginità ed alculto del vero Dio, rifiutando i falsi idoli che i genitori volevano impor-le.Invano la madre con lusinghe, e il genitore con minacce, volevano ri-muoverla dal santo proposito, ma la pudica donzella aveva fatto votodi perpetua castità.Un giorno arrivò a Patti una nave, da dove sbarcò S. Agatone.

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S.Febronia battezzata S.Agatonealla fonte dell’Acquasanta

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I genitori, che erano a conoscenza dell’arrivo, subito lo presentarono aFebronia, come maestro delle virtù morali.Ma dopo aver intrapreso gli studi e gli insegnamenti del maestro, Fe-bronia, di nascosto dal padre e dalla madre chiese ed ottenne da S. Aga-tone il battesimo nella fonte di un suo podere, chiamato del Piano (Ac-quasanta) o acqua di Febronia.Il padre, mal sopportando l’affronto subito e non potendo mantenerela promessa fatta a Numidio, accecato dall’ira, la sposò alla morte, dopovari e disumani tormenti.In seguito, pare che il padre, corroso dal pentimento e dal dolore perl’orrendo misfatto commesso, e così pure la madre, si siano convertitial Cristianesimo.

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La giovinetta Febronia passava solitamente alcune ore di svago e digioco, a ridosso di un boschetto, assieme ad altri concittadini richiamatidalla bella frescura.Fu qui che il miracolo avvenne sotto gli occhi di tanti paesani, che piùvolte erano stati terrorizzati dalla presenza di un grosso serpente. Sen-za esitare, mentre tutti gli altri, grandi e piccoli, scappavano per allon-tanarsi dal pericolo incombente, aspettò che lo spregevole rettile si av-vicinasse a lei, per poi colpirlo con un sasso mortalmente.Così, con questo evento miracoloso poneva fine al terrore, che l’orren-do animale aveva sempre procurato a tutti i frequentatori di quel luogodi riposo e di svago.Il boschetto che viene menzionato doveva trovarsi nella zona dove oggisorgono la villa comunale e l’orfanotrofio Santa Rosa.Infatti a distanza di tempo, a ricordo dell’evento miracoloso avvenutoin quel luogo, fu eretta la chiesa dell’orfanotrofio di Santa Rosa dedica-

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Primo Miracolo di Santa Febronia: giovinetta,uccide un serpente con un sasso

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ta a Santa Febronia e sulla parte alta del portale di entrata si può notareuna piccola nicchia con una statuetta della nostra Santa Febronia.

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La città di Tindari fu fondata nel 396 a.C., in una posizione strategicaper il controllo delle rotte marittime verso le isole Eolie e lo stretto diMessina. Il tiranno di Siracusa Dionigi I° popolò la nuova colonia conseicento mercenari provenienti da Messana, l’attuale Messina. Fu chia-mata Tindari in onore di Castore e Polluce, i Dioscuri o Tindariti, mito-logici figli di Leda e Tindaro.La città ebbe un notevole sviluppo economico grazie al commercio,all’agricoltura e alla pesca. In pochi anni arrivò a battere moneta, co-niando monete d’oro, d’argento e bronzo. Godette di ampia autono-mia, con leggi e magistrati propri. La sua forma di governo fu inizial-mente repubblicana, ma col passare del tempo si trasformò in oligar-chia.Nel 257 a. C., proprio nelle acque di fronte al suo promontorio, la flottacartaginese, comandata da Amilcare, subì una disfatta ad opera delConsole Caio Attilio Regolo. Tindari restò alleata dei romani e parteci-pò con un proprio contingente alla spedizione guidata da Scipione, chesi concluse con la distruzione di Cartagine.

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I musulmani distruggono Tindari nell’anno 836

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Al tempo del governatorato di Verre, subì le sue ruberie e venne spo-gliata di opere d’arte di ogni genere. Nell’anno 42 a. C. divenne rocca-forte di Sesto Pompeo nella guerra contro Ottaviano. Nel 36 a. C. fuconquistata da Agrippa, ammiraglio della flotta di Ottaviano. Al termi-ne degli scontri la città era spopolata ed immiserita. Nell’anno 20-21 a.C. l’imperatore Ottaviano la ripopolò e le diede il nome di “ColoniaAugusta Tindaritanorum”.Intorno al primo secolo d.C. subì una frana, che fece crollare a valle laparte nord- orientale. Non è stato accertato se la calamità fu provocatadall’instabilità del terreno, dall’erosione marina, da un terremoto, daun maremoto o da più di uno di tali fenomeni congiuntamente. Da quelmomento cominciò per la città un periodo di decadenza e spopolamen-to. La situazione si aggravò ancora di più per i successivi eventi sismici,in particolare per il disastroso terremoto del 365.Nell’anno 836 Tindari ebbe il colpo di grazia definitivo, subendo la di-struzione completa da parte dei musulmani. La poca popolazione ri-masta fuggì e si sparse nel territorio circostante, a Scala, Mongiove,Oliveri e soprattutto a Patti.

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Sull’origine del nome della città di Patti si fanno diversi ipotesi: c’è chisostiene che Patti provenga dalla voce greca Epacten ,”sulla sponda”,che poi sarebbe la sponda del torrente Provvidenza nelle cui vicinanzesorge Polline, il più antico rione di Patti.Lo storico Claudio Mario Arezio è del parere che Patti sia sorta dalladistruzione di Tindari e viene ricordata ora col nome di Foedera (Patti)ora di Foedus (patto), da cui deriverebbe il nome di Patti.Invece lo storico pattese, Crisostomo Sciacca, ritiene che Tindari, cadu-ta nel IX secolo per opera dei saraceni, si sarebbe resa a patti dopo esse-re stata completamente smantellata.Sicché si diede alla nuova città il nome di “Patti”.Un altro storico, Filadelfio Mugnos, in “Blasone di Sicilia” fa questoracconto: “Patti, famiglia di antica e chiara nobiltà messinese, originatada Anfusio, cavaliere greco e signore del castello di Sterpore, nell’anno892, assediato dall’Almirante dei saraceni, s’arrese a patti che non furo-no mantenuti. Però Anfusio prevedendo ciò, aveva chiesto in ostaggioil figlio del principe saraceno Vendicoir.

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Anfusio uccide il figlio del principe saracenoVendicoir per vendetta, per non aver mantenuto

i patti, nell’anno 892

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Così Anfusio, appena uscito con i suoi dal forte, giunto nel luogo oveoggi sorge la città di Patti venne dai saraceni assalito.Lo scontro fu duro; Anfusio si difese strenuamente, ma nell’ira per ven-detta strangolò il giovane ostaggio, per non essere stati osservati e man-tenuti i patti.Quindi fuggì, rinserrandosi nella fortezza, ma venne raggiunto e ucci-so barbaramente.A quel sito, a perpetua memoria, venne dato il nome di Patti”.Il canonico Nicolò Giardina, storico pattese, del racconto sopra citatonon esprime giudizio; solo dice: “ quanta fede meriti questo racconto iolo lascio in arbitrio dei benigni lettori, in quanto a me non azzardo, nédogmatizzo”.

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La città di Patti subì diversi attacchi da parte dei pirati. Il primo avven-ne il 16 luglio del 1027 ad opera del saraceno Gaito Maimone, prove-niente dalla Spagna. Costui depredò la città e la distrusse incendiando-la.Narra una leggenda che durante uno di questi attacchi furono rubatenon solo tutte le cose di valore che capitavano a portata di mano, mapure le campane del campanile della cattedrale. Pare che emanasseroun suono così melodioso e soave da spingere i pirati a sbarcare sullacosta della città, decisi ad impadronirsene.A spiegare il motivo della celestiale melodia che proveniva da quellecampane la leggenda diceva che durante la fusione si fosse presentatala regina Adelasia e avesse versato nel contenitore un grosso quantita-tivo di oggetti d’oro, contenuti nel proprio grembiule.Dopo aver caricato le campane sulle loro navi, i pirati salparono, ma allargo, proprio all’altezza dello scoglio di Patti Marina, la nave fu inve-stita da una poderosa tempesta, tanto che essi dovettero scaricare a maretutto il loro carico, comprese le campane.

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Il pirata saraceno Gaito Maimonedistrugge Patti (16 luglio dell’anno 1027)

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Questa leggenda mi è stata narrata da mia nonna, Febronia Settineri, eda mia madre. Come dice il reverendissimo canonico D. Nicolò Giardi-na “quanta fede meriti questo racconto io lo lascio in arbitrio dei beni-gni lettori; in quanto a me non azzardo, né dogmatizzo”.

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Altra ipotesi sul nome della città di Patti la avanza lo storico sicilianoMichele Amari, il quale sostiene che fu un pattese, e precisamente An-saldo da Patti, ad invitare Roberto il Guiscardo e il fratello Ruggero adintraprendere la conquista della Sicilia. Ansaldo, assieme ai due messi-nesi Iacopo Saccano e Nicolò Camulio, si recò a Mileto , dove Ruggeroaveva stabilito la sua sede dopo l’occupazione di tutta la Calabria.L’ambasceria capitanata dall’Ansaldo in quella occasione offrì al conteRuggero il vessillo dell’Imperatore Arcadio, che i messinesi avevanoricevuto in dono per i meriti acquisiti nella battaglia di Tessalonica.Questo confermerebbe l’esistenza di Patti prima dell’arrivo dei nor-manni in Sicilia.E’ assai probabile che il conte Ruggero, anziché ricostruire Tindari, ab-bia preferito dare impulso ad un centro già abitato, che disponeva diuna posizione ideale per la sua difesa e che aveva buone prospettiveagricole per la fertilità del terreno e la ricchezza d’acqua.

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Il Conte Ruggero e il fratello Robertoil Guiscardo ricevono Ansaldo da Patti e i messinesi

Iacopo Saccano e Nicolò Camulio, i quali invitanoad intraprendere la conquista della Sicilia

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Sicuramente nella scelta di Patti ha influito sulla decisione del conteRuggero un fattore di riconoscenza verso Ansaldo da Patti, che avevapropiziato la conquista della Sicilia e che aveva combattuto al suo fian-co con onore.

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I normanni, provenienti dal ducato di Normandia in Francia, si eranostabiliti nell’Italia meridionale, combattendo da mercenari, sotto la spintadi esigenze economica.Guglielmo d’Altavilla, detto “Braccio di Ferro”, per i servizi prestatiottenne dal duca di Salerno Guaimano il ducato di Menfi. Il fratelloRoberto il Guiscardo si impossessò di tanti altri feudi, minacciando purela città di Benevento, tant’è che il pontefice Leone IX e la stessa cittàscatenarono una guerra contro i Normanni, ma Roberto, con l’aiutodell’altro fratello Ruggero, sconfisse le truppe nemiche nella battagliadi Civita ( 1053), facendo prigioniero lo stesso Pontefice. Roberto abil-mente seppe sfruttare la situazione e trattò con molto riguardo LeoneIX, tanto che fu conclusa una tregua. Col successivo Pontefice, NicolòII, fu siglato un accordo a Menfi nel 1059.I Normanni Roberto e Ruggero, in base all’accordo, ricevettero l’inve-stitura del Ducato di Puglia e di Calabria, in cambio di aiuti militari alPapa. A questo punto Ruggero d’Altavilla poteva intraprendere la cro-ciata contro i musulmani in Sicilia. La lotta fu dura e difficile, e Rugge-

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Il Gran Conte Ruggero affida il Monastero del SS. Salvatore ai Benedettini eall’Abate Ambrogio con funzioni vescovili con

Bolla datata 6 marzo 1094

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ro poté completare la conquista solo nel 1091, assumendo il titolo diGran Conte di Sicilia.Da qui ha inizio ufficialmente la nascita della città di Patti. Infatti, conbolla datata 6 marzo 1094, Ruggero affidava il monastero del SS. Salva-tore di Patti ai Benedettini, sottoponendolo all’abate di Lipari Ambro-gio, con funzioni vescovili.Il fatto che il conte Ruggero fondò in Patti un monastero, dimostra cheesisteva già un nucleo abitativo non indifferente. A conferma di tuttociò, Ruggero già nell’anno 1088 aveva decretato la costruzione del Tem-pio di S. Bartolomeo in Lipari e quella del monastero e del Tempio delSS. Salvatore di Patti.

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Adelasia, dopo la morte del marito, il Conte Ruggero, avvenuta il 22giugno 1101, assunse la reggenza della contea di Sicilia e di Calabria, innome e per conto prima, del figlio Simone e dopo del figlio Ruggero,entrambi minorenni.Nell’anno 1112, Adelasia smetteva di reggere il regno perché sposavain seconde nozze, Baldovino I° di Fiandra, re di Gerusalemme, cognatodi Goffredo di Buglione.Da sposa di Baldovino ottenne com’è naturale, il titolo di regina.Si narra che quando Adelasia partì alla volta di Gerusalemme era scor-tata da nove navi da guerra siciliane, di cui due dromoni che portavanocinquecento uomini ciascuno, tutte le altre navi rifulgevano d’oro, d’ar-gento e porpora, senza contare i tesori profusi nella nave di Adelasia,nella quale la poppa, al par della prora, splendeva d’oro e d’argentolavorato.Su altre navi erano imbarcate molti saraceni, che indossavano suntuosivestiti, che furono dati in dono allo sposo, assieme ad una gran sommadi denaro.

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Ritorno di Adelasia da Gerusalemmea Patti nell’anno 1115

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Ma dopo due anni di pace domestica col nuovo marito Adelasia vennea conoscenza che Baldovino era sposato con una armena, di nome Ardache egli aveva ripudiato e fatta rinchiudere in un convento al solo sco-po di intrappolare Adelasia, e venire così in possesso della cospicuadote, con cui far fronte ai bisogni del suo dissestato erario.Però avvenne che il re si ammalò gravemente, forse di lebbra, e quasivicino alla morte, fece voto che, se fosse guarito, avrebbe richiamato aletto nuziale la prima moglie e si sarebbe allontanato dalla seconda.Ciò avvenne, perché Baldovino guarì.Nella scelta di Adelasia di sposare Baldovino, giocò un ruolo decisivoil Patriarca di Gerusalemme Arnolfo Malacorona che, non onorandol’alta carica che ricopriva, ingannò assieme al suo re, la contessa Adela-sia che, delusa e affranta dal dolore, abbandonò Gerusalemme e feceritorno in Sicilia nell’anno 1115.Adelasia, per l’affronto subito, non si sentì di ritornare alla corte di Pa-lermo, presso il figlio Ruggero II°; ma stabilì la sua dimora definitivanella quiete di Patti.

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Adelasia, dopo aver abbandonato Gerusalemme nell’anno 1115, delusae affranta dal dolore per l’affronto subito non si sentì di ritornare allaCorte di Palermo presso il figlio Ruggero II°, ma stabilì la sua dimora aPatti, dove fece ingrandire il castello, attorno all’esistente Monasterodei Benedettini, fondato dal Gran Conte Ruggero, suo defunto sposo.Si dice che la Regina Adelasia, durante il suo soggiorno a Gerusalemme,sia stata colpita da lebbra, e che, al suo ritorno a Patti, si fosse bagnataalla fonte dell’Acquasanta dove Santa Febronia fu battezzata da San-t’Agatone che, per un miracolo della nostra santa protettrice, fosse gua-rita.

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Guarigione della Regina Adelasia dalla lebbradopo essersi bagnata nelle acque miracolose

dell’Acquasanta

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La Contessa Adelasia del Vasto, discendente della stirpe di Aleramo,nata presumibilmente nell’anno 1070 da Manfredo, dei marchesi di Mon-ferrato, nel 1079 rimase orfana e fu affidata alla tutela dello zio paterno,Bonifacio del Vasto. Il quale, in onore di Adelasia, fondò in Liguria lacittadina di Alassio.Nel 1089, ancora giovane, andò sposa al Conte Ruggero d’Altavilla.Dal matrimonio tra Adelasia e il Conte Ruggero, nacquero due figli,Simone nel 1093 e Ruggero il 22 Dicembre del 1095.Alla morte del marito, Conte Ruggero, avvenuta il 22 Giugno 1101,Adelasia, dietro consenso, assunse la reggenza della contea di Sicilia eCalabria per l’erede Simone e in seguito alla sua morte prematura, av-venuta nel 1103, per Ruggero II°, anch’egli minorenne.Durante la sua reggenza fu rigida e imparziale nell’amministrare la giu-stizia; governò con saggezza ed equilibrio.Il Conte Ruggero non aveva fissato la capitale della contea, pur prefe-rendo come residenza abituale Mileto in Calabria; Adelasia invece af-frontò il problema e scelse come capitale Palermo, anche perché la Sici-

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Morte della Regina Adelasia, 26 aprile 1118

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lia, rispetto alla Calabria, era meno turbolenta e migliore fonte di red-dito.La reggenza di Adelasia ebbe fine nell’anno 1112 alla maggiore età delfiglio Ruggero, che ella aveva educato alla corte di Palermo affidando-lo a dotti greci, latini ed arabi.Ruggero non smentì le aspettative della madre e fu sovrano dotto esapiente, precursore del grande nipote Federico II°.Il 16 aprile 1118 la regina Adelasia moriva, confortata dalla devozionedei Pattesi, lasciando in tutti i sudditi dell’isola un dolce e buon ricor-do.Nell’animo del figlio Ruggero ispirò tanto rancore nei confronti di Bal-dovino che, nonostante la sua ben nota magnanimità, fu l’unico sovra-no d’Europa a non mandare soccorsi in Palestina quando i musulmanistringevano sempre più da vicino il territorio dei crociati.Adelasia dorme, quindi, il suo sonno eterno nella cattedrale di Patti enella medesima cappella le fa compagnia, in ispirito, Santa Febronia,pattese di nascita e di Patti la protettrice. Due donne che ebbero in co-mune le sofferenze della vita terrena.La cappella con la tomba della regina Adelasia è spesso visitata da tantituristi e pure da moltissimi pattesi, orgogliosi di una così illustre ospi-te.Nel sarcofago, dove sono conservate le spoglie dell’amata regina, anco-ra oggi si può leggere la seguente iscrizione: “hic jacet corpus nobilis do-minae Andilasiae Reginae Matris Serenissimi Domini Rogerii primi RegisSiciliae; cuius Anima per misericordiam Dei requiemscat in pace.”

Amen MCXVIII

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Alla morte del gran conte Ruggero, nell’anno 1101, dopo un periodo direggenza della contessa e poi Regina Adelasia ( dal 1101 al 1112 ), suc-cesse al potere il figlio Ruggero II° ( 1090-1154) , che la notte di Nataledel 1130 veniva incoronato nella Cattedrale di Palermo Re di Sicilia e diPuglia. In occasione della visita a Messina del sovrano, avvenuta treanni dopo la sua incoronazione, una numerosa rappresentanza di citta-dini pattesi si recò da Lui per protestare contro l’Abate Giovanni, accu-sandolo di voler aggravare le costituzioni del predecessore Abate Am-brogio.Il Re Ruggero, sentite le lagnanze dei pattesi, formulò una transazionesulle antiche consuetudini, che stabiliva gli usi civici. Egli era certamentelegato a Patti per il fatto che la città era stata la dimora degli ultimi annidi vita della madre Regina Adelasia e che conservava nella cattedrale lesue spoglie.La transazione emanata fu ridotta in “duo scripta, unum pactensibus,aliud episcopo”, fu formulata per i pattesi “vulgariter exposita” dalmaestro Guarrino, cancelliere del Re, e sottoscritta dai rappresentantidella città.

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Il Re Ruggero II dispone una transazione in favoredei cittadini pattesi. Messina anno 1133

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Questo avvenimento è molto importante per tre ordini di fattori:- testimonia la manifesta volontà dei pattesi di agire contro l’autoritàdel vescovo;- dimostra la capacità dei pattesi di eleggere tra i propri stessi mem-bri dei rappresentanti per sostenere e comporre, a fronte dell’autori-tà costituita, contestazioni riguardanti il possesso della terra;- attesta che a Patti, già prima del secolo XII°, si parlava la linguavolgare.

Gli stessi atti emanati dall’Abate Ambrogio in lingua greca o latinavenivano tradotti nella lingua del paese, perché fossero compresi datutto il popolo pattese.

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Enrico VI°, figlio di Barbarossa e padre di Federico II°, aveva sposatoCostanza, figlia di Ruggero II°, Re di Sicilia, per cui avanzò pretese disuccessione sul Regno dell’isola.Alcuni notabili della corte di Palermo, rimasti fedeli ai normanni, gliopposero Tancredi, conte di Lecce, figlio illegittimo del defunto Rug-gero II°. E così questi, venuto nell’isola nell’anno 1190 assieme al figlio-letto Ruggero III°, si fece incoronare Re di Sicilia, col consenso del PapaClemente III°. Appresa la notizia, Enrico VI° si precipitò in Italia e dalsuccessivo Pontefice Celestino III° ottenne l’investitura di Re di Sicilia.Sottomise quindi con le armi la Puglia e la Calabria e poi tornò in Ger-mania, lasciando a Salerno come reggente la moglie Costanza. Intantomoriva Tancredi (1194), preceduto nella tomba dal figlioletto RuggeroIII° (1193). La Sicilia perciò rimase sotto il governo della vedova Sibilla.Incoraggiato da tanti luttuosi avvenimenti, Enrico VI° venne in Sicilia,entrò in Palermo e fu incoronato Re dall’Arcivescovo Bartolomeo Off-mil. Fece prigioniero l’ultimo rampollo di casa normanna, GuglielmoIII°, lo fece accecare e rinchiudere nella fortezza di Amburgo, dove poco

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Il Conte di Brenna, Reggente del Regno di Sicilia,ospite a Patti del Vescovo Stefano nell’anno 1200

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tempo dopo morì. La Regina Sibilla e le sue tre figlie vennero rinserra-te in un convento, mentre le soldatesche di Enrico mettevano a ferro efuoco la Sicilia. Anche Patti subì distruzione e rapine e solo per inter-cessione del vescovo Stefano furono risparmiate tante vite umane.Alla morte di Enrico VI°, nell’anno 1197, essendo ancora minorenne ilfuturo Re Federico II°, fu nominato reggente del Regno di Sicilia il con-te di Brenna. Grazie alla buona politica del vescovo di Patti, Stefano, gliSvevi instaurarono buoni rapporti con la chiesa pattese, tant’è che ilConte di Brenna, mentre era nelle sue funzioni, fu ospite del vescovoStefano e dimorò a Patti con il suo seguito, prima di procedere versoMessina per assediarla e sottometterla. Ma qui durante il suo soggior-no fu colpito da violente coliche renali; non potendo sopportare gli atrocitormenti gli fu consigliato dai medici di sottoporsi ad un interventochirurgico per l’asportazione dei calcoli. L’operazione non ebbe buonesito e il conte morì proprio a Patti, nell’anno 1200. L’intervento fu ese-guito nella nostra città. Parrebbe di sì, anche perché nel 1200 esisteva aPatti una struttura ospedaliera (probabilmente il San Bartolomeo) ed imedici di allora erano in grado di intervenire chirurgicamente su pa-zienti affetti di calcolosi renale.Questo primo ospedale, appunto quello della chiesa di San Bartolomeo,gestito da monaci, era stato creato a Tindari nell’anno 1142. Il successi-vo, l’ospedale Santo Spirito, ubicato sotto le mura della parrocchia SanMichele, risale all’anno 1312. Dell’ospedale Sant’Agnese, ubicato vici-no la chiesa San Biagio, si hanno notizie a partire dal 1548.Per quanto riguarda l’ultimo, “Il Santa Croce”, ubicato sotto il conven-to San Francesco, le notizie risalgono al 1592. In questo ospedale trovia-mo, per la prima volta, la presenza di un medico che somministrava lemedicine ai malati.

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S. Antonio da Padova nacque a Lisbona il 25 agosto 1195. Il suo nomedi battesimo era Ferdinando di Buglione e nell’anno 1221, durante ilregno di Federico II, giunse a Patti proveniente dal Marocco.Discepolo di S. Francesco d’Assisi, dopo aver fondato i conventi di Notoe Lentini, nel 1222 fondò quello di Patti, scegliendo l’area a nord dellachiesa S. Ippolito. Per la costruzione ebbe l’appoggio del Vescovo An-selmo, l’aiuto dei fedeli e il mandato e l’approvazione del Papa Grego-rio IX con la seguente lettera:“Tibi, frati Antonio, licentiam concedemus, ut ecclesiam tui ordinis aedificarepossis, prope civitatis moenia pactarum – datum Sarni”A S. Antonio, durante il suo soggiorno a Patti, è stato attribuito un mi-racolo. Mentre si trovava a pranzo col Vescovo Anselmo, pare che leossa di un cappone fossero tramutate in spine di pesce. Altra fonte in-vece riferisce che trasformò delle carni in pesce.Il canonico D. Nicolò Giardina ci riferisce che nel compendio del Vad-digno di frate Aroldo, la costruzione del convento S. Francesco, volutada S. Antonio da Padova, è stata osteggiata da una parte dei pattesi,

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S. Antonio da Padova posa la prima pietraper la costruzione del Convento S. Francesco

nell’anno 1222

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tant’è che spesso durante la notte veniva distrutto quello che durante ilgiorno veniva costruito. Questi litigi non cessarono finché non inter-venne il Pontefice Gregorio IX, il quale minacciò di scomunica queiPattesi contrari alla costruzione del convento.Successivamente il convento di S. Francesco, venuta meno la presenzadei frati cappuccini, fu adibito a ginnasio e scuola professionale, men-tre ancora oggi sul frontespizio dell’antica porta d’ingresso si può leg-gere la seguente scritta: “Divo Antonio patuano fundatori anno MCCXXII”.

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Federico II di Svevia, re di Sicilia, fu uomo colto, protettore delle arti egrande rinnovatore. Alla chiesa di Patti fece diverse donazioni, dalle mi-niere di allume dell’isola di Vulcano ai boschi di Sinagra e di Ficarra.Nato a Iesi il 26 dicembre 1194 da Enrico VI, figlio di Federico I detto ilBarbarossa, e da Costanza d’Altavilla, figlia di Ruggero II il normanno,primo re di Sicilia, fu incoronato re il 26 dicembre 1208, all’età di quattor-dici anni, e subito dimostrò di avere le idee chiare. Fondò a Napoli laprima università statale del mondo occidentale, per avere giuristi e fun-zionari ben preparati e per potenziare l’apparato burocratico-ammini-strativo dello stato, creò la scuola medica di Salerno e su una collina dellacapitanata di Puglia fece edificare il celebre Castel del Monte, che eglistesso aveva progettato.Morì il 13 dicembre 1250 a Firenzuola di Puglia; il suo corpo fu trasferitoin Sicilia, dove il 3 febbraio 1251, fu sbarcato a Messina e da lì trasferito aPatti, dove rimase esposto per parecchi giorni nella cattedrale parata alutto e vegliata dai pattesi. Successivamente fu trasportato a Palermo,dove ebbe luogo la sepoltura.Molti si chiedono il motivo per il quale il corpo del Re fu fatto sostare a

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Veglia della salma del Re Federico IInella Cattedrale di Patti (1251)

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Patti. Possiamo azzardare delle ipotesi: la prima è che Patti nel 1251 erala città più importante sulla tratta Messina –Palermo; la seconda è che lamadre di Federico II, Costanza d’Altavilla, figlia di Ruggero II, era lanipote della Regina Adelasia, che era stata sepolta proprio a Patti nellastessa chiesa dove i pattesi vegliarono per parecchi giorni anche la salmadell’Imperatore.

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Nell’anno 1254, fu nominato vescovo di Patti dal papa Innocenzo IX° ildomenicano Bartolomeo I° Varellis.Nato a Lentini, uomo controverso, in principio non ben visto dai patte-si per via delle decime che voleva loro fare pagare e per averli più voltescomunicati.Intanto nell’isola si era sparsa la voce della morte di Corrado, legittimoerede di Federico II°; come tutti i baroni di Sicilia, il Varellis presenziòalla solenne incoronazione di Manfredi avvenuta in Palermo nell’anno1258, mentre a Roma il papa Clemente IV° investiva della corona diSicilia Carlo d’Angiò.L’angioino, uomo astuto, selvaggio, feroce e ipocrita, dopo la famosabattaglia di Benevento che costò la vita al re di Sicilia Manfredi avvenu-ta il 27 febbraio 1266, senza altro colpo ferire si impossessò del Ducatodi Napoli, della Calabria e del Regno di Sicilia.Due anni dopo con la battaglia di Tagliacozzo avvenuta il 29 settembredel 1268 e con la decapitazione di Corradino, cessava il dominio Svevoin Sicilia.

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Allocuzione contro Carlo d’Angiò,fatta dal Vescovo Varellis alla presenza

del Papa Martino IV nell’anno 1281

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A governare la Sicilia, il re Carlo inviava Guglielmo Stendard, uomosanguinario, feroce, inumano, ladro, crudele, sprezzatore di misericor-dia e pietà.A tutto questo va aggiunto l’odio che i pattesi e il vescovo avevano neiconfronti di Carlo d’Angiò e dei suoi aguzzini, che taglieggiavano sem-pre di più il popolo siciliano e i pattesi, con nuove tasse e crescenti bal-zelli.Il Varellis che non era uomo che subiva a cuor leggero affronti e anghe-rie, protestò energicamente nei confronti del re Carlo d’Angiò, si feceinterprete di tutti i malumori dei siciliani e ottenuta l’udienza dal pon-tefice Martino IV°, si diresse alla volta di Roma.Il nostro vescovo era di carattere franco, onesto e leale.Nel viaggio intrapreso si fece accompagnare dal domenicano Bongio-vanni Marino da Messina; era l’anno 1281, quando davanti al ponteficeMartino IV° perorava, contro i francesi la causa del popolo siciliano,oppresso, avvilito e spogliato.Senza esitare, compì il nobile mandato ricevuto con una allocuzionerecitata ai piedi del Sommo Pontefice , e alla presenza dello stesso reCarlo d’Angiò, esponendo minutamente le fierezze, le libidini, l’enor-mità delle vessazioni e delle rapine commesse dai francesi, nel regno diSicilia.Appena il Varellis uscì dall’alloggio pontificio, venne arrestato daglisgherri angioini e messo in prigione assieme al padre Bongiovanni chelo aveva accompagnato.Padre Bongiovanni, non sopportando le sofferenze della prigionia pocodopo moriva, mentre il nostro vescovo sopravvisse e astutamente sep-pe procurarsi dai pattesi il denaro sufficiente (20.000 onze in oro ) percorrompere le guardie ed evadere e far ritorno a Patti.Il vescovo Bartolomeo Varellis ha una valenza storica importante, per-ché è stato, l’unico vescovo che ha osteggiato il governo angiono inSicilia, governo che invece era tenuto in grande considerazione e spal-leggiato dai Pontefici di (Roma).

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Il vescovo Varellis, dopo aver corrotto gli sgherri, con la somma di 20.000onze in oro, raccolta dal popolo pattese per evadere dal carcere di Roma,dove il re Carlo D’Angiò lo aveva fatto rinchiudere, arrivò a Patti quan-do a Palermo scoccava l’ora dei Vespri (lunedì di Pasqua del 30 marzo1282).Il vescovo, radunato il popolo Pattese e raccontate le sofferenze patite aRoma, con parole roventi si scagliò contro il malgoverno Angioino inSicilia e infiammò gli animi esasperati dalla oppressione francese.A seguito del discorso del vescovo il popolo si allontanò a gruppi, ar-mati di forcale, accette e quant’altro, affrontando quanti francesi incon-trava, attaccandoli e colpendoli a morte.Si cominciò la mattanza presso la porta dello stesso palazzo vescovile,nel quale aveva stanza la guarnigione di guardia al castello.Un numeroso gruppo di insorti si appostò alla porta sud del castello, emassacrarono tutti quei francesi che di li volevano scappare.

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Massacro della guarnigione francese di guardiaalla porta del castello, che da quel giorno venne

denominata “La porta della morte”

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Quella porta, a perpetua memoria della carneficina fatta, venne deno-minata “la porta della morte”.I Pattesi si vendicarono col sangue e con la strage degli oppressori, perripagarsi delle angherie subite e della somma di 20.000 onze in oro ver-sata, per liberare dalla prigionia il loro vescovo.Due anni dopo, nell’anno 1284, il vescovo Varellis moriva a Patti; conlui scompare uno dei vescovi più importanti della storia del nostro pa-ese ed è per questo che viene ricordato come eroe dei Vespri Sicilianidal popolo Pattese con una lapide, posta nella facciata nella chiesa S.Ippolito e precisamente dal lato di Piazza Municipio, ed è per questomotivo che i Pattesi piansero a lungo il loro combattivo e venerato pa-store.

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Nell’anno 1285, alla morte del re Pietro D’Aragona, i figli Alfonso eGiacomo ereditarono rispettivamente la corona di Spagna e Sicilia.In seguito, Giacomo ereditò anche la corona Aragonese, resasi vacanteper la morte del fratello Alfonso e lasciò la Sicilia al fratello Federico.Il Papa Bonifacio VIII°, che non vedeva di buon occhio il dominio ara-gonese, tentò di fare ritornare gli angioini in Sicilia e nello stesso tempocercò di distogliere Federico di venire nell’isola.I siciliani, mal sopportando le ingerenze del papa, nel 1296 nel parla-mento convocato a Catania elessero loro re, Federico III° di Aragona.Nel frattempo Giacomo D’Aragona si alleò con Carlo II° d’Angiò.La Sicilia, compatta attorno al suo re Federico III°, si trovò a combatte-re per diversi anni contro la potenza angioina e aragonese, sostenutadal Papa.Le truppe siciliane passarono anche in Calabria e in Puglia al comando

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I due eroi pattesiPeregrino da Patti e Guglielmo Pallotta,

che si distinsero nell’assedio della città di Brindisi

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dell’ammiraglio Ruggero Loria, per cacciare definitivamente gli angioiniche si erano trincerati nella città di Brindisi.Durante l’assedio della città di Brindisi il Loria, con alcuni soldati, uscìdall’accampamento in cerca di vettovaglie, spingendosi sino ad un fiu-miciattolo.Ma non tardò a capire che il luogo era adatto ad un agguato ed ordinòai suoi soldati di rientrare nell’accampamento.Subito dopo uno squadrone di cavalieri francesi, comandati dal capita-no Goffredo di Jonville, cercarono di conquistare il ponte per impedireai soldati nemici di rientrare nel campo.Ma, due cavalieri pattesi: Peregrino da Patti e Guglielmo Pallotta, silanciarono a sprezzo della propria vita, in difesa del ponte, grondantidi sangue per le ferite subite fronteggiarono da soli la cavalleria france-se fino all’arrivo del Loria e dei rinforzi.Le truppe siciliane, a seguito della vittoria, riuscirono ad avere via libe-ra per rientrare nel proprio accampamento.In seguito i due eroi pattesi, divisero il loro percorso durante la guerrafratricida tra Federico e Giacomo d’Aragona , il Pallotta, amico di Loriasi schierò col re Giacomo D’Aragona divenendo governatore di Cata-nia e, dopo la pace di Caltabellotta (che assegnava il Regno di Sicilia aFederico III°), si ritirava definitivamente in Catalogna.Peregrino da Patti, invece, rimase sempre fedele al re Federico III° e ,nel 1300 al comando della flotta siciliana sconfisse nello stretto di Mes-sina la flotta nemica.Inoltre inviato in Africa dal re Federico III° nel 1312, al comando del-l’esercito per sedare una sommossa di mori nell’isola di Gerbe, rimaseferito mortalmente, durante un’aspra battaglia, sopraffatto dalla pre-ponderanza numerica dei nemici, pose fine alla sua vita, spesa per l’in-dipendenza e la libertà della Sicilia.

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In Sicilia era divampata la rivolta che diede origine alla lunga guerradel Vespro (1282-1303) tra Angioini e siciliani. Intanto la feudalità sici-liana si riuniva a Palermo e nominava Pietro III° d’Aragona Re di Sici-lia. Per 20 anni i siciliani si batterono contemporaneamente contro truppefrancesi, spagnole e pontificie. Il re Pietro III°, nell’accettare l’invito deisiciliani, intendeva riaffermare i diritti della moglie Costanza, ultimaerede sveva, sulla Sicilia.Informato della rivolta dei pattesi, inviò a Patti un contingente di trup-pe, temendo una riconquista della città da parte dei francesi che intantosi erano arroccati nel Castello di Milazzo. Con l’arrivo delle truppe in-viate dal Re Pietro si esaurirono le poche scorte di vettovaglie, per cuiPatti si trovò ad affrontare una grave carestia, tanto che il Re, preoccu-pato dalla situazione, inviò da Termini Imerese 1000 salme di frumentoper far fronte ai bisogni delle truppe e della popolazione.Sicuro del presidio di Patti, nel 1283 marciò su Milazzo, ancora in pos-sesso degli Angioini. Gli era accanto un cittadino pattese, GiovanniOddone, che era stato uno dei principali artefici della rivolta del Ve-

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Il Re Pietro D’Aragona inviail pattese Giovanni Oddone

come ambasciatore per trattare col presidio francesela capitolazione della fortezza di Milazzo

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spro a Palermo. Dopo una breve sosta a Patti, il re giungeva a Furnari eda qui inviava Oddone come ambasciatore plenipotenziario per tratta-re col presidio francese la capitolazione della fortezza di Milazzo.L’abile diplomazia di Oddone fece risparmiare tante vite umane tra isoldati schierati dall’una e dell’altra parte. Consigliò ai francesi di la-sciare armi e cavalli e di evacuare il castello portandosi dietro i soliviveri. Fornì loro un salvacondotto per passare da Messina, ormai inrivolta e risalire la penisola. E ottenne così la resa di Milazzo senza col-po ferire.La missione ebbe esito positivo e Oddone ricevette i meritati elogi dalRe, che, nel rinnovare l’ordinamento giuridico ed amministrativo dellecittà siciliane, riconoscente, lo nominò quindi capitan d’armi di Patti.

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Il I° settembre 1298 da Ostia giungeva a Patti, a capo di una potenteflotta, il Re Giacomo d’Aragona per muovere guerra al fratello Federi-co III°, Re di Sicilia. Fu accolto con tutti gli onori dal nuovo vescovoGiovanni II° (1296-1320) che, come il suo predecessore Pandolfo II°,assecondava il volere del Pontefice Bonifacio VIII°.Tra i pattesi destò grande impressione quello scontro tra fratelli, per dipiù nell’interesse di un antico nemico della Sicilia, il Re di Francia Carlod’Angiò.Patti si arrese senza alzare un dito, così come subito dopo caddero Mi-lazzo, Novara, Monforti e Sampieri. A questo punto il Re Giacomo par-tì alla volta di Siracusa per assediarla. Approfittando del suo allontana-mento, la città di Patti ritornò sotto l’egemonia di Re Federico, ma Gia-como, appena saputo della ribellione, mandò Giovanni Lauria per sot-tometterla.Il Re Federico a quel puntò sollecitò i Messinesi a muovere in difesa diPatti. Così la flotta messinese, composta da 16 galee, si scontrò con ilLauria, che di galee ne aveva 20. Dopo un’aspra battaglia i messinesi

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Il Re di Spagna Giacomo d’Aragonail I° settembre del 1298 giunge a Patti

con la sua flotta, accolto dal Vescovo Giovanni II

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sconfissero la flotta del Re Giacomo. Furono catturate 16 navi e lo stes-so Lauria, assieme ad altri nobili siciliani, venne fatto prigioniero, giu-dicato in seduta stante e condannato a morte come traditore.La flotta del Re Federico trionfante fece ritorno nel porto di Messinaassieme alle galee catturate in battaglia. Il Re Giacomo, nonostante avesseperso quasi l’intera flotta e ben 18.000 uomini, non si diede per vinto.Così il 4 luglio 1299 con una nuova flotta angioina ed aragonese, com-posta da 56 galee, si scontrò nelle acque al largo del promontorio diCapo d’Orlando , con la flotta siciliana composta da 39 galee e capita-nata dal Re Federico. I due fratelli si trovarono l’uno di fronte all’altro.Lo scontro fu durissimo, ma alla fine Federico fu sconfitto, anche per-ché le sue forze erano inferiori di numero.La guerra del Vespro, sempre tra alterne vicende, durò per altri 3 annie si concluse con la pace di Caltabellotta nell’anno 1303. Federico con-servò, vita natural durante, la corona di Sicilia, mentre Giacomo feceritorno nel suo regno in Spagna.

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Dopo l’assedio di Brindisi, dove i nostri eroi si erano coperti di gloria,per i due pattesi Peregrino da Patti e Guglielmo Pallotta le strade sidivisero, a causa della guerra fratricida tra Federico III° e Giacomod’Aragona.Il Pallotta, amico dell’ammiraglio Ruggero Loria, si schierò con il ReGiacomo d’Aragona, diventando successivamente governatore di Ca-tania. Ma dopo la pace di Caltabellotta (1303), che assegnava il regno diSicilia al Re Federico, egli si ritirò definitivamente in Catalogna.Peregrino da Patti invece rimase sempre fedele al re Federico III°.Nell’anno 1300, al comando della flotta siciliana, sconfisse nello strettodi Messina la flotta nemica, inseguendola sino a Catania.Nel 1312 venne inviato dal Re in Africa, per sedare una sommossa dimori che si erano ribellati nell’isola di Gerbe. Ma qui, sopraffatto dalla

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Morte dell’eroe Peregrino da Pattinell’isola di Gerbe. Anno 1312

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preponderanza numerica dei nemici e ferito mortalmente, pose fine allasua vita, conscio di averla spesa per l’indipendenza e la libertà dellaSicilia e fedele sempre al suo Re.

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San Pietro IV° Tommaso nacque nel 1305 nel borgo di Sales, nella Fran-cia meridionale, da padre contadino.All’età di vent’anni entrò nel convento dei Carmelitani e, dopo averstudiato a Parigi, si recò ad Avignone, allora residenza dei pontefici.Dal papa Innocenzo VI° fu nominato Nunzio Apostolico a Napoli, poifu incaricato di trattare la pace tra Genova e Milano. Nel 1353 fu nomi-nato vescovo di Olbia.L’anno successivo (1354) fu trasferito alla sede vescovile di Patti, dadove, dopo un anno di permanenza, fu inviato dal pontefice in missio-ne nei paesi dell’Europa.Dopo 5 anni del suo vescovado in Patti, ove non risiedette che per pocotempo, affidò il governo della diocesi ad un suo Vicario Generale.Nell’anno 1364 moriva il cardinale Tilleyrand, Legato della crociata chei potenti d’Europa stavano per intraprendere per liberare il Santo Se-polcro.

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San Pietro IV Tommaso, Vescovo di Patti,prima della partenza della Crociata ordina

una Comunione generale. Rodi 30 settembre 1365

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A seguito della morte del cardinale, però, l’entusiasmo per iniziare lacrociata si era affievolito.A questo punto il pontefice Urbano V° affidò al Beato Pietro il delicatis-simo incarico di predicare ed infervorare gli animi dei potenti realid’Europa, affinchè intraprendessero una nuova crociata contro i Mu-sulmani.Il motivo del fallimento della crociata si deve al fatto che nel 1364 il suocapo, Giovanni II° re di Francia, moriva nella Torre di Londra, prigio-niero di Edoardo III° re d’Inghilterra. Così l’incarico di guidare l’eserci-to della nuova crociata fu affidato a Pietro Lusignano Re di Cipro.Quando tutto era pronto per la partenza il Santo Prelato ordinò unacomunione generale. Il re, tutti i grandi della corte e i capi dell’esercitofurono i primi a dare il buon esempio a ricevere la Santa Comunione.Era il 30 settembre 1365 quando da Rodi partiva la flotta, che, dopoquattro giorni di viaggio, giunse in vista di Alessandria d’Egitto. Subi-to ebbe inizio la battaglia; il Santo Legato, tenendo alta la croce, bene-disse l’esercito, ispirando tanto ardore nei soldati che, nonostante ve-nisse scoccata una moltitudine di frecce da parte dei saraceni, la batta-glia fu vinta e gli infedeli furono cacciati da Alessandria.Caduta la città, dopo averla saccheggiata per quattro giorni, essa fuabbandonata con il pretesto dell’insufficienza numerica rispetto alleforze nemiche.Ritornati a Cipro, il Santo Prelato, ormai travagliato dal digiuno, logo-rato dalla penitenza, infiacchito da tanto lavoro e pare anche ferito dauna freccia nella battaglia di Alessandria, rese la sua anima a Dio a Ci-pro il 6 gennaio dell’anno 1376, all’età di 71 anni, senza poter più prose-guire nella crociata.La Chiesa Romana l’ha glorificato sugli altari, dando così grande lustroalla nostra Cattedra Vescovile.Nella Diocesi di Patti la festa di rito dedicata a questo nostro Santo sicelebra ogni anno il 15 di Febbraio, mentre i Carmelitani la celebrano il29 di Gennaio.

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Con la pace di Caltabellotta (1303) finiva la guerra del Vespro. Patti,che era stata saccheggiata e ridotta ad un cumulo di macerie, rinacquepiù fiorente di prima e conquistò l’agognata libertà.Intanto l’autorità dei baroni non tardò a farsi sentire anche sulle cittàdemaniali della Sicilia. Approfittando della debolezza degli Aragonesi,la feudalità siciliana, sempre più prepotente ed invadente, ridusse i resenza prerogative, senza erario, senza demanio. Molte città demanialiottennero la “Capitania”, ossia una sorta di potestà, che serviva a farsentire il peso di una signoria. Patti non si poté sottrarre a queste pre-varicazioni.Nel 1345 la Capitania di Patti fu concessa dal Re Pietro II° a Blasco II° diAlagona, Conte di Mistretta, Gran Giustiziere del regno, tutore di Lud-ovico, Federico III°, Leonora e Costanza, figli del Re. Egli fece costruirela propria dimora in un palazzo che sovrastava l’alto colle su cui sorge-va la città. Il palazzo era un fortilizio che doveva proteggere il lato nord-ovest, controllare la valle del torrente Provvidenza e il mare. Il 3 Aprile1402 l’edificio venne ceduto dal Re Martino al Vescovo e convertito inconvento delle Clarisse (oggi Sacra Famiglia).

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Sancho d’Aragona saccheggia edevasta Patti nell’anno 1357

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La Capitania di Patti fu tramandata da Blasco d’Alagona al figlio Arta-le. Nel 1357, essendo Capitano della città Bonifacio di Alagona, Sanchod’Aragona, barone di San Marco, approfittando del malcontento deipattesi, sollevò la popolazione contro Bonifacio, a favore degli Angioi-ni. Ma i pattesi subito dopo si pentirono e ritornarono all’obbedienzadel re Federico III° d’Aragona, perché non volevano più sottostare algioco Angioino. Allora Sancho, con truppe francesi reclutate a Napoli efatte affluire a San Marco, invase Patti e ne prese possesso.La città fu messa a ferro e fuoco, molti furono uccisi, specialmente quel-li che erano contrari alle aspettative di Sancho. Fu devastato e saccheg-giato pure il palazzo Vescovile, mentre il Vescovo di Patti, Pietro IV°Tommaso, era assente perché inviato come Nunzio Apostolico dal PapaInnocenzo a Costantinopoli.

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A Sancho d’Aragona successe Vinciguerra, suo fratello, che nel 1361ottenne la Capitania di Patti a vita. Vinciguerra governò Patti da “Si-gnore”. Stabilì buoni rapporti con la corte di Palermo e quando il ReFederico III° visitò Patti prestò la debita obbedienza, consegnandogli lechiavi della città e del castello.Alla morte di Vinciguerra la situazione di Patti peggiorò. Infatti ilConte Bartolomeo D’Aragona, figlio di Vinciguerra , ammiraglio delregno, accentrò in suo potere sia la Capitania che la Castillania e resseda deposta la città e il vescovado.A questo assurdo stato di cose pose fine il nuovo Re Martino, successonel 1392 al Re Federico III°, di cui aveva sposato la figlia Maria.

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Vinciguerra d’Aragona consegna le chiavi della cittàal Re Federico III in visita a Patti nell’anno 1361

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Il Re Martino aveva compreso che i capitani d’armi esercitavano le lorofunzioni nelle città demaniali con grande tirannia. Dopo aver sedato laribellione degli Alagona, dei Ventimiglia e dei Chiaromonte, convocòun parlamento generale a Siracusa, nel quale riformò lo Stato.Nel quadro di questa riforma Martino, il 18 aprile 1402, per intercessio-ne del titolare della capitania, Bartolomeo D’Aragona, confermò Patticittà demaniale con tutti i privilegi e le immunità elargite a suo tempodal Re Federico III° d’Aragona. Difese altresì con grande fermezza lesue prerogative sulle città demaniali ed in particolare su Patti, tanto datrattare con durezza persino l’amico e cognato Conte Bartolomeo.Nel 1403 infatti, a causa del mancato rispetto dell’autorità regia nei feu-di posseduti in Sicilia, bandì Bartolomeo e il figlio Giovanni, che erastato nominato vescovo di Patti, privandoli di tutti i privilegi e dell’am-ministrazione dei beni appartenenti alla chiesa.Un gruppo di Messinesi si recò allora a Siracusa, dove dimorava il ReMartino, per implorare il suo perdono nei confronti del conte Bartolo-meo, dei suoi figli e del vescovo Giovanni. Il re acconsentì, a patto che

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Il Re Martino conferma Patti Città demaniale. 18 aprile 1402

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Bartolomeo lasciasse la Sicilia e rinunciasse ai suoi beni in favore delfiglio Federico. Concesse anche il ritorno del vescovo Giovanni a Patti,a condizione che la sua nomina fosse approvata dal pontefice. Ma ilPapa Clemente VII° non diede l’assenso, sicché Bartolomeo e Giovannifurono privati di tutto e dovettero allontanarsi definitivamente dallaSicilia. Il Conte Bartolomeo partì per Genova e poi si stabilì a Milano,presso Galeazzo Visconti.

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Nel 1520 sale al trono di Costantinopoli Solimano II° il Magnifico (1520-1566), il quale subito si prepara ad una poderosa offensiva contro lacristianità; per terra e per mare.Solimano, dopo essersi alleato con Francesco I° re di Francia, iniziò unalotta spietata contro Carlo V° re di Spagna e imperatore del Sacro Ro-mano Impero.Creò così una grande flotta da guerra ed affidò il comando delle sueforze marittime ad un vecchio corsaro dell’Africa settentrionale, Chair-Ed-Din detto “Ariadeno il Barbarossa”, signore di Algeri.Le navi turche ed algerine infestarono il mediterraneo con la loro pira-teria e gettarono il terrore su tutte le coste dell’Italia e della Spagna,rubando tutto quello che gli capitava e portando via schiavi cristiani amigliaia.La situazione era diventata tale da costringere Carlo V° ad armare unapotente flotta per debellare il nemico nei suoi porti dell’Africa e, dopodura lotta, strappò Tunisi al Barbarossa.Questa sconfitta non scoraggiò più di tanto Chair-Ed-Din, da abile ed

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Nell’anno 1544 il pirata algerino Chair-Ed-Din Ariadenodetto il Barbarossa distrugge Patti

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audace corsaro che era, anzi continuò le sue scorribande piratesche,tanto che, nel 1544, dopo aver assaltato Lipari, piombò su Patti, contrenta galee.Gli abitanti di Patti non potendo resistere alle forze e alla ferocia deipirati, fuggirono dalla città.Patti abbandonata fu saccheggiata per diversi giorni, furono rubati tut-ti gli arredi sacri e pure le campane, furono incendiate le case, e abbat-tute le mura di cinta.Furono trucidate vecchi e bambini che non avevano potuto trovare scam-po con la fuga.I più forti, furono fatti prigionieri e portati via come schiavi.Si sono salvati solo alcuni documenti importanti, ancora oggi custoditinell’Arca Magna della cattedrale, portati in salvo dai canonici.Il massacro, le ruberie, le distruzioni, ebbero fine solo quando giunseroda Messina alcune compagnie di cavalleria, che costrinsero il Barbaros-sa e la sua orda di barbari a scappare ed imbarcarsi precipitosamente e,prendere il largo, verso nuove incursioni.

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Il 27 settembre 1654 Ascanio Ansalone, con l’aiuto del suo amico ViceréGiovanni d’Austria (niente a che vedere con l’eroe della battaglia diLepanto), riuscì ad acquistare la città di Patti per la somma di 20.000onze in oro, acquisendo pure il titolo di principe.A questo atto malandrino dell’Ansalone, i pattesi reagirono con fer-mezza e coraggio per difendere la libertà e quei privilegi conquistati alprezzo di duri sacrifici dai loro padri. Furono costretti ad ingaggiareun’ aspra lotta, che durò ben quattordici anni (dal 1655-1669).L’Ansalone, forte dell’amicizia del Viceré e del fatto che aveva pagatole 20.000 onze, si mosse da Montagnareale col suo procuratore Anto-nio Lazzaro, giudice della gran Corte Criminale, e con i suoi bravacciper prendere possesso della città.Ma ai rintocchi della campana di sant’Ippolito il consiglio comunalemobilitò e armò il popolo per combattere contro l’invasore. I cittadinipattesi chiusero le porte della città in faccia all’intruso mercenario e fudichiarato lo stato di emergenza per fronteggiare eventuali attacchi deibravacci di Ascanio, alla parola d’ordine “alle maramme! alle maram-me!”.

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Ascanio Ansalone con Antonio Lazzaro,giudice della Gran Corte Criminale,

muove da Montagnareale per prendere possessodella città di Patti nell’anno 1655

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Il principato di Patti per Ascanio Ansalone fu solo una chimera, un so-gno svanito con la definitiva sentenza della Corte di Madrid del 1669,che riconosceva Patti libera ed affrancata dai diritti feudali.Nel frattempo i pattesi all’arrivo del Giudice Lazzaro e di Ansalone,che volevano prendere possesso della città, fecero voto alla Madonnadel Tindari che avrebbero consegnato le chiavi della città, qualora fos-se stato scongiurato il pericolo dell’Ansalone. Ottenuta la libertà, sciol-sero il voto formulato. Con in testa le autorità civili e religiose si recaro-no a Tindari per consegnare le chiavi della città alla Madonna nera. Daallora in poi, ogni anno i pattesi rinnovano questo rito nell’ultimo saba-to di maggio, ripetendo il gesto dei propri avi, con in testa il Sindaco ela Giunta Comunale.Un evento miracoloso aiutò la città a respingere l’assalto del potenteAnsalone, mentre Vescovo di Patti era Ludovico De Los Cameros. San-ta Febronia, nostra concittadina e patrona, che veglia in difesa della suadiletta patria, fece sì che, per miracolo, nella chiesetta del quartiere Pol-line, con le porte chiuse e senza la presenza di persona alcuna, per trevolte risuonassero le campane per avvertire i pattesi del pericolo cheincombeva .Benché forte fosse l’avversario che minacciava la città, altrettanto fortefu la determinazione dei pattesi nel respingere l’invasore. Spronati daquei replicati rintocchi di campana riuscirono a vincere l’ostinata pre-potenza del nemico. Questo evento miracoloso fu chiamato “il miraco-lo del suono delle campane”. Era il 2 luglio 1655. Da allora i pattesifesteggiano, ogni anno, questa ricorrenza con un pellegrinaggio che dallachiesetta di Polline porta i fedeli alla chiesa di contrada Acquasanta.

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La Spagna alla fine della guerra dei trent’anni (1618-1648) contro laFrancia si ritrovò con le casse del regno dissanguate, per cui il gover-nare si ridusse alla questione: trovare cibo e denaro. La Sicilia fu tra lepiù colpite dalle pesanti e reiterate richieste di mezzi e di denaro. Così,temendo il malcontento dei contribuenti siciliani, il governo spagnolo,per procacciare denaro per le casse dell’erario, decise di “vendere quantosi può e non si può”. Molti plebei furono ansiosi di salire la scala socia-le, acquistando titoli, uffici e cariche, feudi, tonnare e persino città.Il 13 luglio del 1639 un signorotto, di nome Ascanio Ansalone, dopoessersi impossessato di Montagna, denominata poi Montagna Reale,col titolo di Duca, nel giugno 1642 si impossessò di Sorrentini e Rocca,col titolo di Marchese. Venuto a conoscenza della situazione economicadeficitaria della città di Patti, accarezzò il sogno di diventare anche ilsignore di questa città . Il 27 settembre 1654, al prezzo di ventimila onze,l’Ansalone ottenne Patti, col titolo di principe, dal Vicerè di Sicilia Gio-vanni d’Austria.La notizia gettò i pattesi nella costernazione, ma tutti seppero trovare il

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I pattesi riscattano la città restituendo la sommadi ventimila onze in oro ad Antonio Ansalone,

erede di Ascanio Ansalone. Anno 1669

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coraggio di reagire alla ingiusta decisione del Viceré, così ingaggiaronouna lunga e dura lotta per non perdere la libertà e quei privilegi con-quistati dai padri al prezzo di duri sacrifici. La lotta durò 14 anni (1655-1669), durante i quali i cittadini pattesi nulla lasciarono di intentato pernon cadere nelle mani di Ascanio Ansalone. La città offrì di pagare 20mila onze in oro per restare nel regio demanio ed il Viceré Duca diOssuma trasmise favorevolmente la proposta alla corte di Madrid. Maessa rimase inevasa per 5 anni, a causa della guerra tra Spagna e Fran-cia e della peste che non consentiva agli ambasciatori di spostarsi.Finito il conflitto franco-spagnolo (1618-1648) nel gennaio 1660 giunge-va a Palermo il nuovo Vicerè, conte di Ayala. I giurati pattesi non per-sero occasione per accattivarsi le sue simpatie, sicché quando nel mag-gio 1655 giunse l’ordine di procedere alla consegna della città di Pattiall’Ansalone, il Conte Ayala, che aveva tanta ammirazione per la fermadeterminazione della città di rimanere nel regio demanio, temporeggiòa mettere in esecuzione l’ordine venuto da Madrid. Nel frattempo i giu-rati della città il 21 febbraio 1663 si rivolsero direttamente a Filippo IV° Re di Spagna facendo sapere che i pattesi “vogliono morire, co-mann’hanno campato, fedelissimi vasalli di V.M. Suo Signore”. Re Fi-lippo IV° di Spagna, vista l’ostinazione dei pattesi, il 10 aprile 1665 scri-veva al Primo Ministro Olivares, Duca di San Lucar, che si provvedessea rimborsare le 20 mila onze al Duca e non se ne parlasse più. L’Ansa-lone con la sua influenza alla corte di Madrid fece ritardare l’applica-zione della volontà del Re.Alla morte di Ansalone però fu emanata la definitiva sentenza e Patti,con decreto regio, nel 1669 fu confermata città demaniale. Ovviamente,si dovette rimborsare la somma di 20 mila onze a suo tempo pagatadall’Ansalone. Il Vescovo D’Amico generosamente offrì gran parte diquella somma, ma concorsero pure il Barone Florulli, Don AntonioMangilardo e tanti altri benemeriti cittadini, compresi gli ecclesiastici.Morto Ascanio Ansalone, e non avendo figli, lasciò tutta la sua ereditàal nipote Antonio Ansalone, figlio del fratello Pietro, compreso la som-ma di 20 mila onze pagata dai pattesi per riscattare la propria città.

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Il canonico Alfonso Sidoti, nel libro “Santa Febronia Trofimena”, parladi un miracolo della Madonna Nera.La Madonna del Tindari, al pari di Santa Febronia, ha sempre vegliatosu Patti e sui pattesi, i quali si sono rivolti a Lei nelle varie calamità chehanno colpito la città: la spagnola, i terremoti, i maremoti, gli attacchidei pirati, lo scontro con Ascanio Ansalone etc.La città di Patti da tutti questi eventi disastrosi è sempre rinata, graziealla caparbietà del suo popolo, sempre convinto di poter contare sullaprotezione assicurata da Santa Febronia e dalla Madonna nera di Tin-dari.Ma torniamo all’evento miracoloso accaduto nell’anno 1619. Biserta,pirata turco o tunisino, approdò con le sue galee sulla spiaggia di Mari-nello, dopo aver saccheggiato e devastato le terre di San Marco e Fur-nari. Salito a Tindari, seguito dalla sua orda di barbari, la saccheggiò ela devastò, senza nulla risparmiare.

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Il pirata musulmano Bisertacon la sua ciurma cerca di portare via la statua

della Madonna bruna (1619)

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Entrato nel tempio, dov’era esposta la statua della Madonna Nera, vo-leva portarla via, ma questo non gli fu possibile.È risaputo che i musulmani, turchi o tunisini che fossero, nutrivanoodio per i cristiani e la religione cattolica. Il loro intento perciò era dicaricare la statua sulla nave e poi buttarla a mare, o addirittura precipi-tarla dal monte.Ma tutto questo rimase una chimera per il pirata Biserta e la sua orda dibarbari, perché la statua non si mosse dal suo posto, anche se tirata conle funi da una moltitudine di pirati.Intanto, sparsasi la voce di quello che stava accadendo, accorsero indifesa di Tindari e della bruna madonna i pattesi e gli abitanti di Mon-giove e Scala, i quali, armati di tutto punto, misero in fuga quella ciur-ma di predatori. Ciò è stato riferito da uno schiavo fuggito dalle grinfiedei pirati.

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Monsignor Vincenzo Napoli nacque a Troina nel 1574 da Paolo e Aga-tina Pizzuto. Proposto dal Re Filippo III, fu consacrato vescovo di Pattidal Papa Paolo V il 5 dicembre 1609.Molti lo ricordano per la realizzazione dell’omonima monumentale fon-tana, che dava acqua alla popolazione pattese. Restaurò inoltre il mona-stero dei Benedettini, gettò le basi della costruzione del seminario, fondòun ospizio per pellegrini, ampliò il Santuario di Tindari, fece realizzarecondotte per fornire acqua alle frazioni di Tindari e Scala, completò lacostruzione del convento di Santa Maria del Gesù e realizzò tante altreopere.Pagò più volte, attingendo al suo patrimonio personale (come scrisse ilcanonico Nicolò Giardina) le tasse applicate dal governo spagnolo.Comprò spesso enormi quantitativi di frumento per sfamare le popola-zioni della diocesi, pagò riscatti per liberare prigionieri pattesi caduti

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Onoranze funebri a Mons. Vincenzo Napoli,morto il 23 agosto 1648

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in mano ai corsari musulmani, dotò il campanile della cattedrale di unacampana grande, di cui esso era privo sin dai tempi delle razzie musul-mane.Nel 1625 rinunciò alla sede vescovile di Girgenti, preferendo rimanerea Patti accanto ai suoi fedeli. Nel 1648 venne nominato arcivescovo diPalermo e, poiché indugiava ad accettare, il vicerè Teodoro Trivulziomandò a Patti una galea a rilevarlo. Fu tanto il dispiacere di dover la-sciare la città, che preso da malore svenne e non raggiunse la prestigio-sa sede. Non volle nemmeno ascoltare i medici che gli consigliavano diriposare nell’aria natìa di Troina. Preferì ritirarsi nel convento dei Filip-pini, a Gioiosa Guardia, dove morì il 23 agosto 1648.Le solenni onoranze funebri si svolsero a Patti tra una cornice di popo-lo in lutto: parteciparono tutti i notabili della città, che accompagnaro-no con ceri in mano la bara portata a spalla dai sacerdoti. Facevanocorona inoltre gli alabardieri del comune, nelle loro sfavillanti divise.Seguivano i giurati e le altre autorità, chiudevano il corteo gli artigianie le sette confraternite.Ancora oggi il popolo pattese ricorda che la chiesa di Patti raramenteebbe un così fattivo prelato, insigne per dottrina e carità, generoso efortemente legato alla nostra città.

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L’8 maggio 1661 padre Placido Agitta inviava da Roma alcune reliquiedi Santa Febronia, da cui i pattesi trassero un buon auspicio. Esse giun-sero a Patti il 5 luglio di quell’anno, data che segnò l’inizio del cultopubblico della santa in città. Da allora in quel giorno ogni anno i pattesicelebrano la festa della patrona e concittadina. Nel 1665 a quelle inviateda Padre Agitta se ne aggiunsero altre, arrivate da Minori .Giovedì 11 gennaio dell’anno 1693 un violento terremoto scosse la Sici-lia. Patti subì distruzioni e rovine. Non vi furono però vittime, perché,come riferisce il canonico Antonino Mungitore, ci fu il cosiddetto “mi-racolo delle campane”. L’orologio della Cattedrale, che segnava le oreper tutta la popolazione, quel giorno provvidenzialmente era in antici-po di mezz’ora, per cui suonò l’Ave Maria prima del tempo, permet-tendo ai canonici di lasciare il “Coro”pochi minuti prima dell’iniziodelle scosse. Sicché quei reverendi ebbero il tempo di porsi in salvo e divedere dall’esterno crollare la Cattedrale.

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Arrivo a Patti delle reliquie di Santa Febronia.5 luglio 1661

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Da allora in poi rimase l’usanza di suonare ogni giovedì le campanedell’Ave Maria con un quarto d’ora d’anticipo rispetto all’ora solita.

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Il trattato di Utrech, firmato nel marzo 1713, segnò la fine del dominiospagnolo in Italia. In virtù di questo trattato la Sicilia toccò al DucaVittorio Amedeo di Savoia, che pertanto ottenne il titolo di Re.Il Duca in un primo momento si era alleato con la Francia e la Spagna,ma durante il conflitto abbandonò il genero Filippo di Borbone, Re diFrancia, e passò dalla parte della grande Alleanza (Inghilterra, Olanda,Austria, Prussia) che alla fine risultò vittoriosa. Nell’ottobre del 1713venne in Sicilia e fu incoronato Re a Palermo. Nel 1714 tornò in Pie-monte, affidando il governo dell’isola al Viceré Conte Annibale Maffei,il quale poté fare poco per risolvere i problemi che affliggevano la no-stra terra. Vittorio Amedeo pensò pertanto che fosse più vantaggiosouno scambio dell’isola con un altro possedimento. La Spagna, incorag-giata dalla situazione venutasi a creare, operò in Sicilia uno sbarco di20.000 soldati. L’Austria allora, decisa a combattere l’aggressione spa-gnola, imbarcò a Napoli 18.000 uomini, che sbarcarono a Patti, sullaspiaggia di Mongiove, per poi dirigersi verso Messina.A questo punto, è il caso di rievocare un racconto riferito da persone

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Sbarco di 18.000 soldati austriacisulla spiaggia di Mongiove. Anno 1719

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anziane di Tindari e di Patti. Pare che i Tindaritani, avendo osservatodal promontorio di Rocca femmina l’avvicinarsi della flotta, lo sbarco esuccessivamente l’incolonnamento dei soldati austriaci lungo la traz-zera che conduceva a Tindari, si erano convinti che era in atto un attac-co alla loro città. Pertanto corsero alle armi nell’intento di tender loroun’imboscata e di coglierli di sorpresa.L’ufficiale austriaco, che comandava l’avanguardia, notando dei movi-menti strani, fermò subito la colonna e gridò che non erano lì per assa-lire la città, ma stavano percorrendo quella strada per recarsi a Messinaed occuparla. Fu così scongiurato un massacro, anche se pare che qual-che piccola scaramuccia tra i due eserciti ci sia stata.Lo scontro frontale tra l’esercito austriaco e quello spagnolo avvennenell’anno 1719 a Francavilla, dove gli austriaci batterono l’esercito spa-gnolo, mentre la flotta spagnola veniva battuta da quella inglese.Alla luce dell’esito delle due battaglie, si pose fine alla guerra tra Fran-cia e Spagna e grande alleanza e fu sottoscritta la pace dell’Aja. La Sici-lia fu assegnata all’Austria, mentre Vittorio Amedeo in cambio di essaotteneva la Sardegna.

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Durante le vicende napoleoniche il Re delle due Sicilie, Ferdinando IIdi Borbone, si rifugiò nell’isola, protetta dalla flotta inglese, che impedìa Gioacchino Murat, cognato di Napoleone, di occuparla.Fu allora che il re, nella seduta del Parlamento generale del 10 luglio1806, concesse alla città di Patti il titolo di “Senato” e nominò senatorii giurati, con diritto ad indossare la toga. Le condizioni per tale privile-gio erano che le spese e il mantenimento non fossero a carico della po-vera gente e i giurati si pagassero i diritti stabiliti per simili grazie.Nel 1810 Ferdinando II° visitò Patti e fu ospite del Vescovo Moncada.La città fece gran festa: archi di trionfo e luminarie accolsero il sovrano,tra il tripudio dei cittadini.In questa occasione, padre Manfrè, Superiore dei Minori Osservanti,donò al Re la lettera con la quale il Papa Gregorio IX autorizzava S.Antonio da Padova a costruire a Patti il Convento di S. Francesco. Diquesto importante documento da quel momento purtroppo si son per-se le tracce e non se n’è avuta più notizia.Col Congresso di Vienna del 1815 gli Organi amministrativi di Patti,come di tante altre città del Regno delle Due Sicilie, subirono una radi-

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Il Re Ferdinando II di Borbone in visita a Patti,ospite del Vescovo Moncada (1810)

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cale trasformazione. Vennero soppressi i giurati e al loro posto fu isti-tuita la carica di Sindaco quale capo dell’Amministrazione cittadina.Il Consiglio Comunale fu portato a dieci membri, che presero il nomedi decurioni. Questi partecipavano assieme al Sindaco alle adunanzeche si tenevano nella sala decurionale e sottoscrivevano le delibere egli atti relativi alle decisioni adottate.Il primo sindaco di Patti fu, nell’anno 1820, Gioacchino Calcagno Pisa-no.

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Il 1° settembre 1847 Messina insorse contro l’oppressore borbonico. Unanno dopo, il 12 settembre 1848, iniziò la rivoluzione a Palermo. Nellostesso giorno a Patti si riunì ed entrò in azione il Comitato Rivoluziona-rio composto da: Francesco Accordino, Rosario Amato, Giuseppe Bon-signore, Pietro Bonsignore, Gaetano Bua Greco, Gioacchino Cangemi,Antonino Ceraolo, Raimondo Dissidomino, Nicolò Gatto Ceraolo, Ga-etano Greco Puglisi, Nunzio Greco Zito, Giovanni Battista Natoli Cal-cagno, Antonino Pacì, Antonino Panta Baratta, Giovanni Battista Sciac-ca Foti.Uno dei componenti del comitato rivoluzionario, il giovane falegname epatriota Antonino Ceraolo, salito sul tetto della chiesa di Maria del Tin-dari, ove è posta la croce di ferro, inalberò il tricolore, facendolo svento-lare.Questo gesto, ad imperitura memoria, è ricordato dalla lapide murata

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Il patriota pattese Antonino Ceraolo fa sventolareil tricolore sulla Chiesa di Maria del Tindari

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nella facciata della stessa chiesa, in cui si legge: “Al volgere di un secolooscuro, un eroe del popolo si erge gigante dalla tomba, vessillifero dilibertà e di gloria, sventolando quel tricolore che con intrepida audaciarizzò sulla croce del tempio di Maria del Tindari, sfida e dileggio alBorbone – 1848”. Oggi la Patria onora l’eroe obliato Antonino Ceraoloe ne consacra nel marmo la memoria: “fiero il suo spirito mira nellagiustizia della storia, compiuto il destino d’Italia, e da ogni schiavitùrisorge invitta, libera e grande come la sognò”.Alla fine di Gennaio del 1849 si compiva la liberazione di tutta la Siciliae il 25 marzo dello stesso anno a Palermo si riuniva, nella chiesa di S.Domenico, il parlamento siciliano preseduto da Ruggero Settimo. Lanostra città era rappresentata dai concittadini Francesco AccordinoMarchese e Gaetano Greco Puglisi.Intanto Ferdinando II inviava in Sicilia 16.000 soldati Borbonici al co-mando del Generale Filangeri, mentre l’esercito siciliano, comandatodal generale polacco Mieroslawski, contava una forza di 7.000 uomini.Il 14 maggio 1849 l’esercito siciliano, pur combattendo valorosamente,dovette soccombere nella piana di Catania alle preponderanti forzenumeriche del nemico.Il 22 maggio 1849 veniva firmato l’armistizio, che prevedeva un’amni-stia generale, dalla quale furono esclusi i capi rivoluzionari, i quali fu-rono costretti a lasciare la Sicilia e andare in esilio.

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Nel settembre del 1859, sollecitato da Garibaldi, giungeva in Sicilia Fran-cesco Crispi, con passaporto intestato al commerciante argentino Ema-nuele Pareda.Il suo compito era di sondare le forze dei patrioti siciliani e di infonderela speranza di un imminente sbarco di Garibaldi col suo esercito.Sempre nello stesso mese di settembre Francesco Crispi si recò a Patti e,col pretesto di acquistare una partita di vino in una cantina di contradaVignagrande, tenne un convegno segreto, al quale parteciparono i pa-trioti più rappresentativi dell’irredentismo pattese.Tra i rivoluzionari pattesi di maggiore spicco è stato Don Pietro GrecoZito, arrestato a Patti il 2 giugno 1849. Costui allo sbirro che lo accom-pagnava in carcere e che con aria minacciosa gli pronosticava una con-danna sicura, rispose: “Mi nni futtu di te e du tò re”.Furono anche imprigionati Antonino Ceraolo e Raimondo Dissidomi-no. Altri riuscirono a fuggire, ma furono sempre ricercati e perseguita-ti, come Don Nicolò Gatto Ceraolo, e i due deputati al parlamento rivo-luzionario, Gaetano Greco Puglisi e il dott. Francesco Accordino Mar-chese.

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Convegno segreto di contrada Vignagrandefra Francesco Crispi e i patrioti pattesi

nel mese di settembre del 1859

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Furono imprigionati pure Antonino Pacì ed il patriota Antonino PantaBaratta.Mi corre l’obbligo ricordare Monsignor Martino Orsino, vescovo di Patti(1844-1860), che salvò molti patrioti da sicura morte.Infatti alcuni giovani patrioti pattesi avevano bruciato i ritratti del reborbonico e per questo furono arrestati.Ma il nostro vescovo, intervenendo nella maniera più intelligente, astu-tamente disse agli sgherri di poter dimostrare che quei ritratti, non era-no stati bruciati da quei giovani arrestati, ma erano stati spostati dalmunicipio e custoditi al vescovato .La verità era che nel palazzo vescovile si trovavano molti ritratti similia quelli bruciati nella casa comunale. Così, con una benevola “bugia”,potè ottenere la scarcerazione di quei giovani pattesi e salvarli da sicu-ra prigionia o morte.

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Il 18 luglio 1860 Giuseppe Garibaldi giunse nella rada di Patti, imbarcatosisul piroscafo “City of Aberdeen” ribattezzato “Rosolino Pilo” in omaggiodell’eroe siciliano caduto in combattimento il 17 maggio sulla strada cheda Partinico porta a Monreale.Il piroscafo era scortato dalla corvetta “Carlo Alberto” e dalla “corvettaveloce” ribattezzata “Tukory” in memoria del maggiore ungherese mortonella presa di Palermo.L’obiettivo era Patti, dove le truppe che lo accompagnavano, comandatedal colonnello Corte, si dovevano incontrare con le truppe di Cosenz, chemarciavano per via terra, e assieme dirigersi alla volta di Milazzo.Garibaldi, sbarcato a Patti Marina, venne accolto da tutta la cittadinanzacon in testa il sindaco G.B. Natoli Calcagno e i patrioti del comitato di agi-tazione.Quindi prese posto su di una carrozza dove ai suoi lati sedevano Pietro

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Il 18 luglio 1860, il Generale Giuseppe Garibaldisbarca sul litorale di Patti Marina

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Greco Zito e Nicolò Gatto Ceraolo, componenti del comitato rivoluziona-rio.Fu ricevuto nella sala decurionale del Municipio e, dopo i discorsi di ritoda parte del sindaco e del presidente del comitato di agitazione, scorse chenel rione Polline, che trovasi sotto la casa municipale, attaccate ad ognibalcone e finestra, vi erano esposte delle bandierine di colore bianco-cele-ste, che potevano presumibilmente appartenere alla presenza di forze bor-boniche. Il generale però fu subito rassicurato, infatti non si trattava di bandiereborboniche, ma semplicemente di stendardi con i colori della nostra cittàin onore della padrona S. Febronia di cui in quel periodo ricorrevano ifesteggiamenti.A questo punto mi pare doveroso chiedersi, come l’hanno fatto altri primadi me, perché Garibaldi ha scelto Patti come tappa prima della battaglia diMilazzo.Mi permetto di azzardare delle ipotesi:

- La prima ipotesi è che Garibaldi ha scelto di fermarsi a Patti, perché lanostra città era la più grossa, prima di affrontare la battaglia di Milazzo.Nello stesso tempo poteva chiedere ed ottenere in maniera certa, viveriin gran quantità per la propria truppa e nel contempo incoraggiare ilpopolo ad arruolarsi come volontari.Infatti, i cittadini di Patti, formarono un proprio contingente di volonta-ri, comandati da un nostro concittadino Nicolò Gatto Ceraolo, che par-tecipò con onore ed intrepido ardimento sia alla battaglia di Milazzoche in quella combattuta sul Volturno.- L’altra ipotesi che sottopongo ai benevoli lettori e che è ormai risaputoche la spedizione dei Mille, partita da Quarto, è stata finanziata per buo-na parte dalla massoneria inglese, quindi anche la massoneria italianaha avuto una parte importante specialmente in provincia di Messina e aPatti, che sin dai moti del 1848, ha avuto patrioti arrestati e condannati,con una forte presenza della massoneria.Quindi lo sbarco di Garibaldi a Patti è voluto essere un atto di omaggioin onore di questi eroici amici.Dopo la battaglia sul Volturno Garibaldi, maturò il suo sogno di unitàd’Italia con Roma capitale.

I successivi avvenimenti appartengono alla grande storia, ma pochi sannoche dopo lo storico incontro di Teano, dopo aver consegnato a VittorioEmanuele un regno di nove milioni di abitanti, fece ritorno a Caprera, conun sacco di sementi, tre cavalli e una balla di stoccafisso.Lo seguirono alcuni amici fedeli, ma per pagarsi le spese di viaggio gli funecessario prendere in prestito una somma di 3.000 lire.

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La cittadinanza pattese accolse l’arrivo di Garibaldi con grande tripudioper essersi liberata dal giogo Borbonico.Le autorità con il sindaco, dopo avergli tributato la loro devozione e illoro entusiasmo per la presenza dell’eroe dei “ due mondi”, verso seralo invitarono al “circolo Tindarys” dove Garibaldi con la gentilezza chelo ha sempre distinto conversò con molti soci e si accorse che un signo-re, con occhio scrutatore e penetrante, lo fissava, non andava avanti ,nètornava indietro e allora chiese chi fosse.Gli risposero che era un amico e concittadino: un pittore di nome Fran-cesco Nachera.Da li a qualche giorno, costui dipingeva Garibaldi su quella tela che poifu donata al circolo.Finita la visita, era la notte tra il 18 e il 19 luglio, Garibaldi pernottònella casa del sindaco Natoli Calcagno; in quella notte meditò e concepìil piano di battaglia per la conquista della fortezza di Milazzo.Ultimata la vittoriosa campagna militare, Garibaldi dopo aver donatoun regno senza nulla chiedere a Vittorio Emanuele II ° ritornò nell’isola

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Visita di Garibaldi al “Circolo Tindarys”la sera del 18 luglio 1860

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di Caprera, sua dimora, orgoglioso della sua modestia e della sua nobi-le umiltà.Nella quiete di quell’isola e con la mente rivolta a tanti epici avveni-menti, inviò il suo pensiero anche alla città di Patti, scrivendo la se-guente lettera che ancora oggi è custodita gelosamente nel Libro d’Orodel comune:

Signor Sindaco,

Sensibile alle testimonianze d’affetto che volle darmi codesto municipio delgeneroso popolo di Patti nel giorno 18 dello scorso luglio, la prego, signor sin-daco, di volere esternare a tutti la mia sentita gratitudine.Gradisca intanto i sensi della mia distinta. Saluti

Giuseppe Garibaldi

A Caprera, Garibaldi non fu solo agricoltore, colui che aveva posto lebasi dell’unità d’Italia, divenne il “Vate di Caprera” che fu meta di mi-gliaia di persone, di misteriosi emissari, di influenti personaggi.Andavano a trovarlo rappresentanti di tutti i movimenti indipendenti-stici o rivoluzionari europei, dai russi ai greci, agli ungheresi ai polac-chi agli spagnoli e per tutti egli aveva parole di esortazione, consigli epreziose direttive.Nel settembre del 1861, si recò a trovarlo il Ministro degli Stati Unitiper conoscere la sua decisione all’offerta fattagli dal Presidente Lincolndi porsi al comando delle truppe confederate.Il “Leone di Caprera” negli ultimi anni della sua vita, quando le conse-guenze della ferita di Aspromonte, l’artrite e la malaria contratta in SudAmerica ne minavano il corpo ma non l’indomato spirito, si spense allesei del pomeriggio del 2 giugno 1882, schivo di onori e di ricompense ein assoluta povertà .Nella casa bianca di Caprera l’orologio fu fermato e i fogli di un grandecalendario non furono più staccati: segnano ancora oggi l’ora e il gior-no della morte del grande eroe.

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Durante la dittatura, durata solo cinque mesi, Garibaldi, per poter por-tare a termine la sua opera riformatrice, si scontrò con uno dei proble-mi di fondo, costituito dalla secolare questione agraria.I fatti di Bronte prima, e poi quelli che ci riguardano più da vicino: diAlcara Li Fusi.Ma in entrambi i casi, non tollerando le efferatezze e le violenze, Gari-baldi li represse con esemplare severità.Bisogna riconoscere che la città di Patti si è distinta anche in questo,celebrando la fine del regime Borbonico, con dimostrazioni patriotti-che e non con eccessi di violenze, rapine e saccheggi.La città fu comunque testimone del processo e delle condanne capitali,per l’orrenda carneficina di Alcara Li Fusi.Nel maggio 1860, allorché giunse in Alcara la notizia dello sbarco aMarsala e della vittoriosa avanzata dell’esercito garibaldino, un grup-po di facinorosi, organizzati da un certo Don Ignazio Cozzo, ravvisaro-

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Condanna a morte di 12 cittadini di Alcara Li Fusi,mediante fucilazione. Sentenza eseguita il 20 agosto 1860

alle ore 11.00 sullo spiazzo antistante laChiesa di S. Antonio Abate

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no l’occasione propizia per sfogare il proprio odio verso altri cittadini enel contempo commettere rapine e saccheggi.I congiurati, la sera del 16 maggio, a mezzanotte, convennero nella chiesadel Rosario per eseguire la strage, camuffandosi come patrioti e anti-borbonici.Il mattino del 17, giovedì, festa dell’Ascensione, mentre alcuni cittadinierano riuniti nel loro Circolo, detto Casino di Compagnia, sito in piaz-za Politi, irruppero come belve e trucidarono a colpi di bastone, di scu-re e di coltello le 11 persone che vi si trovavano:Notaio Giuseppe Bartolo, Sindaco; Prof. Ignazio Bartolo, Salvatore Bar-tolo, di anni 15, figlio del precedente, Giuseppe Lanza; Luigi Lanza,Salvatore Lanza, Francesco Lanza, di anni 16, figlio del precedente; Dott.Gaetano Gentile, tesoriere comunale, Vincenzo Artino, esattore comu-nale, Pasqualino Artino, figlio del precedente; Francesco Papa, uscierecomunale.I giovinetti Salvatore Bartolo e Francesco Lanza, studenti, furono ucci-si a colpi di scure e di roncola.Il ragazzo tredicenne Pasqualino Artino, visto cadere il padre e gli altriin un lago di sangue, si nascose atterrito sotto un tavolo, ma un pecora-io lo trasse fuori, se lo strinse tra le cosce, gli sollevò la testa e lo sgozzòcon una cesoia per tosare le pecore.I miseri corpi furono calpestati, mutilati e sfigurati mediante incendiodi carte sul viso.Compiuta l’orrenda carneficina, gli assassini bruciarono tutte le carte ei documenti del Municipio, dell’archivio notarile e di altri uffici.Si impadronirono delle notevoli somme di denaro che si trovavano nel-la cassa comunale e nella tesoreria, rapinarono le case degli uccisi e dialtre persone, appropriandosi di denaro, gioielli e altri oggetti di valo-re; saccheggiarono il monte frumentario e il monastero delle suore Be-nedettine, devastarono frutteti, vigne e raccolti, commisero estorsioni ericatti mediante percorse o minacce di morte.Tutti questi nefandi delitti furono commessi al grido di Viva l’Italia,Viva Vittorio Emanuele, Viva Garibaldi.Garibaldi, finita la campagna di Sicilia con la vittoriosa battagli di Mi-lazzo (20 luglio) venuto a conoscenza dei fatti di Alcara, prese i dovutiprovvedimenti, inviando un colonnello il quale, fingendo di approva-re l’operato degli assassini, li salutò come benemeriti della Patria a nomedel Dittatore, poi li riunì disarmati in un locale, li arrestò e li condusse aSant’Agata di Militello, e quindi al carcere di Patti, dove ebbe luogo ilprocesso.La Commissione Speciale di Giustizia di Patti composta dal Dott. Cri-

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sostomo Gatto: Presidente, Dott. Enrico Lo Re e Dott. Gaetano Bua: Giu-dici, Dott. Ludovico Fulci: relatore e Dott. Basilio Milio Giudice funzio-nate da avvocato fiscale, il 18 agosto 1860: giudicò sessantasei imputatiaccusati di vari reati riguardanti: assassinio con efferatezza, assassiniosenza efferatezza, furti, estorsioni, devastazioni, e saccheggi.Dodici degli imputati riconosciuti colpevoli del delitto di assassinio conefferatezza, furono condannati a morte.La sentenza fu eseguita il 20 agosto alle ore 11.00, sullo spiazzo anti-stante la Chiesa di S. Antonio Abate, mediante fucilazione.Ecco l’elenco dei condannati:Don Ignazio Cozzo, Vincenzo Mileti, Artino Martinello Salvatore, Se-rafino Di Maso Millinciana, Antonino Di Nardo Carcagnintra, MichelePaternita, Nicolò Santoro Quagliata, Giuseppe Papa Sirna, SalvatoreFlagapane Milandro, Salvatore Pazzino Janticchia, Nicolò Vinci, Salva-tore Giovanni Orito.Sui fatti di Bronte e Alcara Li Fusi, l’opinione pubblica Italiana di allorae di oggi, si spacca in due, alcuni li ritengono opera di eroi, altri diassassini.Il sottoscritto, pur non ammettendo nessuna forma di violenza e rico-noscendo giusta la sentenza di allora, anche perché c’era stata quella diBronte, si astiene dall’emettere giudizi, dato che i reati ascritti sono sta-ti commessi in un momento particolare della storia d’Italia.

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Pietro Geremia Michelangelo Celesia nacque a Palermo il 13 gennaio1814, da nobile famiglia.Il 16 marzo 1860 fu nominato Vescovo di Patti dal re Francesco di Bor-bone e confermato dal Pontefice Pio IX. Il 4 aprile dello stesso annoscoppiava a Palermo la rivoluzione, per scacciare i Borboni dalla Sici-lia. Il 12 luglio 1860 il Vescovo giunse a Patti, dopo aver prestato il giu-ramento di fedeltà e di obbedienza al re borbonico e precedendo dipochi giorni l’arrivo di Garibaldi.Anche a Patti, come in molti altri centri della Sicilia, sin dal 27 maggioera scoppiata l’insurrezione; la città vedeva un continuo passaggio del-le truppe garibaldine che andavano a concentrarsi a Merì, dato che iBorboni si erano rinserrati nella fortezza di Milazzo.La situazione non permise a Mons. Celesia di entrare a Patti ed allog-giare nel palazzo vescovile, per cui preferì restare ospite nel sobborgodi Marina di Patti, nella canonica di Santa Caterina. Fu in quella occa-sione che elevò quella chiesa a quarta parrocchia della città. Mons. Ce-lesia aveva in animo di instaurare buoni rapporti con le autorità comu-

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Il Vescovo Pietro G. M. Celesia rifiutadi prestare giuramento al nuovo governo

rappresentato dal Luogotenente Montezemolo.Anno 1860

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nali, ma sapeva che, finchè Garibaldi rimaneva in Sicilia, non si potevaavere reciproca comprensione fra cittadinanza e clero.Quando Garibaldi lasciò l’isola per proseguire nella liberazione del-l’Italia meridionale, il vescovo, senza alcuna cerimonia ufficiale, potéprendere possesso della Sede vescovile. Passati appena due mesi, fuinvitato dal governo provvisorio, rappresentato dal Luogotenente Mon-tezemolo, di recarsi a Palermo per prestare giuramento di fedeltà alnuovo governo, come prevedevano i capitoli e le consuetudini dellaSicilia.Il vescovo si recò a Palermo, ma nel corso del tempestoso colloquio cheebbe con il Luogotenente dichiarò apertamente che non intendeva rin-novare il giuramento che già aveva prestato in favore di Francesco II diBorbone. La risposta ovviamente non garbò al Montezemolo, che lominacciò di non concedergli la temporalità della mensa vescovile, seprima non avesse prestato giuramento al nuovo governo.Fu allora che Mons. Celesia pronunciò la celebre frase riportata dal ca-nonico Giardina: “ Voi non mi prenderete per fame!”, mentre il profes-sor Irato riferisce nel suo libro che la frase pronunciata fu: “Il vescovodi Patti non scende a patti”. La conseguenza fu che il vescovo non tornòa Patti e, recatosi a Roma, continuò a governare la Diocesi a mezzo divicari generali fino al 1865, anno in cui poté fare ritorno in sede, dove fuaccolto con entusiasmanti dimostrazioni di affetto.Nell’anno 1869 si aprivano i lavori del Concilio ecumenico del Vatica-no; Mons. Celesia partì per Roma e fu uno dei personaggi che si distin-se maggiormente, intervenendo in quel consesso mondiale. Fece partedella commissione addetta ad esaminare le proposte dei Padri che do-vevano essere presentate al Concilio. La commissione era composta dadodici Cardinali, due Patriarchi , dieci Arcivescovi e due Vescovi, chefurono Corrado Martin, vescovo di Paterbon, e Pietro Geremia Celesia,vescovo di Patti .Il 27 ottobre 1871 il Pontefice Pio IX lo nominò Arcivescovo di Palermo,ma Mons. Celesia, prima di partire per la nuova sede, volle lasciare aPatti un ricordo della sua congenita pietà, assegnando quanto avevadel patrimonio di famiglia alle quattro parrocchie esistenti. (S. Ippoli-to, S. Nicola, S. Michele e S. Caterina).Successivamente alla nomina alla sede di Palermo, il Pontefice LeoneXIII, a coronamento dei suoi meriti, lo nominava Cardinale. Era il 10novembre 1884.

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Indice dei libri consultati

1) N. GIARDINA - Patti e la cronaca del suo vescovado - Siena Tip. Arciv. S.Bernardino Edit 1888

2) CAN. ALFONSO SIDOTI - S. Febronia Trofimena - Un manoscritto del 1693- Ind. Grafica Tisarcuto -Agrigento - 1994

3) F. IRATO - Patti nella storia - Edizioni Spes -Milazzo - La Grafica - Me -1976

4) EDRISI - La Sicilia nel libro di Ruggero - A cura di Carlo Ruta - E.A.A.Patti Grafica - Palermo - 2004

5) N. CADILI - Il Castello di Patti - Dal mille al duemila -Edizioni Altavilla - Patti - Tip. Panta - Patti - 2000

6) R. MAGISTRI - L’ospedale di Patti “Barone Romeo” - Yorick Editore - Tip.Samperi - Me - 2003

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Livia Pertile, nasce a Padova, dove frequenta l’istituto d’Arte “Selvati-co”; proprio qui ci si accorge del suo talento pittorico ed inizia a fre-quentare dei corsi di pittura a Parigi.Tornata in Italia, frequenta lo studio di Pittura della madre ed è lì, inquella Torre Paladina del ‘500 che incomincia la sua ricerca pittorica,facendo naturalmente tesoro degli studi accademici e dei corsi parigini.Una ricerca influenzata, non dalle tele egregiamente dipinte da TittaRossi (la mamma) che ha una vocazione surrealistico-metafisica, madall’amore e la forte competenza del padre per le auto e del personaleamore verso la natura e gli animali, in particolare i cavalli.Dipinge, alleva levrieri inglesi e cavalli arabi, partecipa a concorsi ippi-ci e raduni d’auto d’epoca.Nel ‘94 la grande svolta, è invitata alla Biennale giovani di Venezia ed èsuccesso.Nonostante la giovane età importanti critici si occupano della sua pit-tura; Lucio Barbera scrive di Livia:“…una moderna fiamminga o un’autentica iperrealista: così mi appareoggi Livia Pertile che mostra di possedere oltre alla mano ed alla menteuna grande pulizia che, nascendo nella testa, arriva direttamente neldipinto.” …era il 1996.Oggi la Pertile dopo circa dieci anni di partecipazioni ad Expo impor-tanti (Bologna, Padova, Palermo, Torino, Milano ecc…) e Mostre Perso-nali, pubbliche e private (Cefalù, Taormina, Palermo, Cortina, Venezia,Padova, Firenze, Vicenza, Montecarlo, New York, Istanbul, EmiratiArabi ecc…), entra ufficialmente nel Metropolismo con una suggestivae qualificante Mostra Personale a Roma presso la Galleria d’Arte Cas-siopea. Entra nel Movimento del Metropolismo anche perché AchilleBonito scriveva:“… il carattere europeo del Metropolismo si contrappone al pragmati-smo informativo di molta arte anglosassone attraverso la restituzionealla pittura di una dimensione sintetica e riflessiva, capace di interro-garsi sul proprio statuto, sulla funzione dentro la storia del nostro tem-po.”

Biografia

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Lo studio di pittura della Pertile, voluto dall’Artista in Sicilia a GioiosaMarea (di fronte alle Isole Eolie), ricco di luce di calore e di colore èfrequentato da mercanti, galleristi e critici particolarmente importanti,fra tutti Vittorio Sgarbi.In Italia la Pertile è un antesignana, forse un capo-scuola; lo conferma ilfatto che alcuni mercanti d’arte orientino i propri pittori a realizzareopere i cui soggetti siano le auto.

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Presentazione .....................................................................9Prefazione .........................................................................11

I ...........................................................................................13II .........................................................................................15III ........................................................................................17IV ........................................................................................19V .........................................................................................21VI ........................................................................................23VII .......................................................................................25VIII .....................................................................................27IX ........................................................................................29X .........................................................................................31XI ........................................................................................33XII .......................................................................................34XIII .....................................................................................36XIV .....................................................................................38XV.......................................................................................40XVI .....................................................................................42XVII ....................................................................................44XVIII ..................................................................................46XIX .....................................................................................48XX .......................................................................................50XXI .....................................................................................52XXII ....................................................................................54XXIII ...................................................................................56XXIV...................................................................................58XXV ....................................................................................60XXVI...................................................................................61XXVII .................................................................................63XXVIII ................................................................................65XXIX ...................................................................................67XXX ....................................................................................69

Indice

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XXXI ...................................................................................71XXXII .................................................................................73XXXIII ................................................................................75XXXIV ................................................................................77XXXV .................................................................................79XXXVI ................................................................................81XXXVII ..............................................................................83XXXVIII .............................................................................85XXXIX ................................................................................87XL .......................................................................................90

Indice dei libri consultati ................................................93Biografia ............................................................................94

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Finito di stampare nel mese di luglio 2010

per conto del

Lions Club Patti