Lulù - Leonardo Patrignani

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Lulù di Leonardo Patrignani Non vai più bene, ci dispiace. Le parole si ripetevano con insistenza nella testa di Jason Foster. Pronunciate ora da Gordon, il chitarrista, ora dalla bassista Lisa. Perfino dal nuovo arrivato Jamie, il batterista mancino che avevano preso in prestito dai Burning Leeds. Mentre camminava con la testa bassa e la custodia della chitarra acustica a tracolla per le strade innevate di Brighton, una leggera pioggia cadeva fastidiosa picchiettando sulle cassette delle lettere e rimbalzando sulla carrozzeria delle macchine parcheggiate. Il gelo di quella notte di fine ottobre

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Il prim racconto dello Speciale Paranormal October, organizzato dal blog letterario Sangue d'inchiostro.

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Lulù

di Leonardo Patrignani

Non vai più bene, ci dispiace.Le parole si ripetevano con insistenza nella

testa di Jason Foster. Pronunciate ora da Gordon, il chitarrista, ora dalla bassista Lisa. Perfino dal nuovo arrivato Jamie, il batterista mancino che avevano preso in prestito dai Burning Leeds.

Mentre camminava con la testa bassa e la custodia della chitarra acustica a tracolla per le strade innevate di Brighton, una leggera pioggia cadeva fastidiosa picchiettando sulle cassette delle lettere e rimbalzando sulla carrozzeria delle macchine parcheggiate. Il gelo di quella notte di fine ottobre era figlio di un vento che soffiava dritto sulla sua anima ferita. Gli occhi gonfi di Jason trattenevano a stento le lacrime mentre la sua memoria riproduceva come in un odioso ritornello quelle parole cariche di imbarazzo che avevano segnato la fine della sua militanza nei

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Dealers. “Ho fondato io quella band”, pensò mentre dava un calcio a una lattina e la spediva dall’altro lato della strada, “e ora mi buttano fuori, mi trattano come una mela marcia.”

D’un tratto gli sovvennero le parole che suo zio, ex sassofonista jazz, gli aveva detto tanti anni prima, quando aveva scoperto che il nipote aveva la passione per il rock e voleva mettere insieme un gruppo. Ricordati sempre questo, figliolo: una catena non è mai più forte del suo anello più debole.

- Dannazione – sussurrò mentre un bus gli sfrecciava accanto, sollevando del fango da una pozzanghera. – A quanto pare, ora quell’anello sono io.

In un attimo, come diapositive sistemate alla rinfusa si alternarono i momenti più emozionanti di quei tre anni trascorsi da quando aveva fondato il gruppo insieme a Lisa, quasi per scherzo, dopo quattro giri di tequila al Barry’s.

Il primo concerto ufficiale alla festa della scuola, quando perfino gli insegnanti avevano sopportato le loro sonorità dure, influenzate dalla vena punk dei Wildhearts; la prima

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indimenticabile trasferta a Reading in occasione di un festival di band emergenti al Purple Turtle; la storia con Lisa, che aveva accompagnato i pimi due anni di vita della band per poi finire da un giorno all’altro, come accade a diciassette anni, quando ci si rende conto che quell’amore che sembrava solido come una cattedrale era nient’altro che un castello di carte, destinato a crollare al primo soffio di vento.

Era tutto finito. Una convocazione in sala prove, alcune parole biascicate guardando da un’altra parte, e l’anello debole era stato scaricato.

Jason sapeva il perché.Il suo carattere era il problema. Le bottiglie

di vodka lasciate in sala prove erano il problema. La rissa al Barry’s con quell’uomo grasso in giacca e cravatta di cui non ricordava il nome, che si era proposto come manager della band, era il problema.

Dovevano essere le nove, forse le nove e mezza, per quello che ne sapeva e che gli importava in quel momento. Le luci dei lampioni erano deboli aloni che a fatica illuminavano il tratto di strada che l’avrebbe

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portato a casa, mentre la pioggia si faceva sempre più insistente. I jeans neri erano appiccicosi e ghiacciati, mentre la giacca di pelle aperta su una maglietta attillata dei NOFX era una sfida al rigido clima autunnale che imperversava da diverse settimane sulla contea dell’East Sussex. Perfino la Manica, che il ragazzo costeggiò per qualche centinaio di metri, sembrava una tavola di ghiaccio. Muta, immobile testimone di quel giorno da cancellare dagli almanacchi.

Jason passò una mano nei lunghi capelli castani, lisci e fradici. Li agitò per qualche istante, quindi alzò il colletto della giacca e sistemò meglio la tracolla della chitarra sulla spalla destra. Mentre attraversava un incrocio, vide un gruppetto di bambini uscire da un fuoristrada, aprire in fretta gli ombrelli e correre verso un portone. Stavano rientrando da una festa, a quanto sembrava. In un istante Jason si guardò attorno e notò che alle finestre delle case erano appese le classiche Jack o’ Lantern, le zucche lavorate a mano tipiche di Halloween, con la candela accesa all’interno.

Oh ecco, ci mancava anche questa…

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Lo sguardo basso, Jason tirò dritto senza guardare in faccia i bambini, impegnati in un trick-or-treat di fronte alla casa di uno sconosciuto. Da quello che ricordava, a quell’ora i ragazzini dovevano già essere a casa, per legge. Ma in fondo, che gli importava? Se li lasciò alle spalle accelerando il passo, quindi sparì dietro un angolo e proseguì verso casa. Ancora un paio di isolati e avrebbe raggiunto la palazzina di tre piani in cui viveva con il padre da ormai quasi due anni, da quando sua madre era morta per un tumore fulminante al cervello. L’alcool era stato il migliore amico di Jason, il compagno di mille confidenze. Protagonista assoluto della sua solitudine, sovrano incontrastato delle sue abitudini, specie dal momento in cui aveva rotto con Lisa.

L’unico sfogo sano che aveva era la band. La sola via di fuga erano i brani che scriveva nella sua stanza, quando il padre era in fabbrica e non poteva sentirlo. Le dita sciolte ed esperte scivolavano sulla tastiera della sua chitarra e si portavano via pensieri tormentati e oscuri, pronti a tornare non appena avesse ripreso a regnare il silenzio.

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La musica era stata la sua salvezza. L’unica strada possibile.

E adesso era fuori dalla band.

Jason salì le scale di casa e fu al riparo, finalmente. Quando si chiuse alle spalle la porta d’ingresso notò che l’appartamento era vuoto. Ci aveva fatto l’abitudine, del resto. Suo padre rimaneva spesso fuori tutta la notte, e si ripresentava il mattino seguente senza dare spiegazioni. Che andasse a donne, che sperperasse soldi in qualche bisca clandestina o che si ubriacasse in un pub, a lui interessava ben poco. Aveva smesso di confidarsi col suo vecchio da quando si erano trasferiti in quel bilocale, e non era più in grado di aprirsi con lui, di condividere alcuna emozione.

Il ragazzo appoggiò la chitarra acustica al muro sotto l’attaccapanni a forma di tavolo da biliardo, quindi lasciò cadere la giacca su un bracciolo consunto del divano in pelle, si sfilò la maglia e i jeans e andò verso il bagno. Mentre ruotava la manopola della doccia, sentì un ronzio provenire dall’ingresso. Controvoglia, tornò verso la porta a piedi nudi e infilò una mano nella tasca della custodia

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dello strumento. Tirò fuori il cellulare e scosse la testa non appena vide il messaggio:

DETESTO CHE SIA FINITA IN QUESTO MODO.

SE VUOI NE PARLIAMO. LISA

Prevedibile. Quasi scontato. Eppure, se era stato buttato fuori, il parere della sua ex doveva aver contato qualcosa. Gordon non aveva gli attributi per fare il leader, e il nuovo acquisto dietro le pelli era dentro da troppo poco tempo. Lisa aveva fondato i Dealers insieme a lui, li aveva visti nascere. Se in quel momento era fuori dal gruppo, dipendeva certamente da lei, prima che dagli altri.

Jason non rispose. Abbandonò il cellulare sul tavolino di fronte al divano, invaso da riviste, lattine vuote e posaceneri di varie forme, quindi tornò nel piccolo bagno e si infilò sotto la doccia.

No, non bastava.Non bastava il getto di acqua bollente sulla

testa per cancellare gli anni più tristi della sua vita. Serviva solo a mascherare le lacrime. Non bastava chiudere gli occhi per trovare un

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rifugio, per scacciare pensieri terribili e ricordi tragici. Sarebbero tornati tutti, dopo l’ennesima sbronza. Uno dopo l’altro, impietosi e puntuali.

Jason rimase qualche minuto sotto l’acqua, poi decise di uscire. Si mise addosso un accappatoio senza legarlo in vita, quindi camminò a piedi nudi fino al divano. Che altro non era se non il suo letto, dal momento che l’unica stanza di quel bilocale era la camera del padre.

Fu allora che suonò il campanello.Ma non ha le chiavi… si chiese Jonas mentre

pensava al suo vecchio malconcio, l’alito di vino rosso, magari fradicio e barcollante fuori dalla porta.

- Sì? – urlò mentre appoggiava un occhio sullo spioncino e non riusciva a scorgere alcuna figura sul pianerottolo del primo piano.

- Dolcetto o scherzetto? – intonò una voce di bambina dall’altra parte.

Jason alzò le sopracciglia, seccato, quindi si legò l’accappatoio in vita e aprì la porta.

Di fronte a lui, una bimba di non più di dieci anni, i capelli biondi ricci raccolti e seminascosti sotto il cappuccio della giacca a

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vento gialla, gli occhi grandi color nocciola e un sorriso in grado di scaldare anche il più glaciale degli animi. O il più tormentato.

- Tesoro, mi spiace… non ho niente da darti. Figurati, non sapevo nemmeno che fosse il 31 ottobre.

La bambina corrugò la fronte.- Ma scherzi? Oggi è Halloween!- Sì… va bene – Jason si raccolse i capelli

lunghi in una coda, quindi addentò un elastico che teneva sul polso, lo sfilò dalla mano e legò la chioma. - Vedo se ho dei biscotti.

- Lascia stare. Posso chiederti un favore?Lo sguardo della piccola era quello di un

cucciolo indifeso, bisognoso di aiuto. Solo in quel momento Jason si rese conto che era quantomeno strano che la piccola si fosse presentata da sola, a quell’ora. Solitamente i bambini si muovevano in gruppo, e alle venti erano già di ritorno nelle rispettive case.

- Dimmi.- I miei amici mi hanno lasciata sola… Puoi

riportarmi dai miei genitori? – chiese con tono educato e le labbra distese in un sorriso dolce e irresistibile.

Jason sbuffò.

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- Ragazzina, io non so se…- Ti prego. Non voglio tornare da sola.

Diluvia. Mi riporti dai miei genitori? Non abitano poi tanto lontano da qui.

Jason si rivestì in fretta e furia, dopo aver buttato jeans e maglia dei NOFX nella cesta di vimini in bagno. Indossò un altro paio di pantaloni pieni di lacerazioni e strappi che andavano tanto di moda, mise su una maglia nera e una felpa che aveva comprato a una festa medievale, quindi prese la giacca di pelle e un ombrello e uscì dall’appartamento.

- Non mi hai detto come ti chiami – disse mentre scendeva alcuni gradini e raggiungeva il portone della palazzina.

- Il mio soprannome è Lulù. E tu?- Io sono Jason. Sappi che hai scelto la

giornata sbagliata per venire a suonare alla mia porta. Ti riaccompagno solo perché ultimamente a Brighton girano troppi fuori-di-testa. Avrei dovuto chiamare la polizia.

Lulù sorrise strizzando gli occhi. - Sei un ragazzo buono, sotto la corazza.

Jason uscì in strada e aprì l’ombrello, la bambina gli prese la mano e si rannicchiò sotto

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il suo braccio. Faceva freddo, la temperatura ballava attorno allo zero, ma quel contatto fisico e la ricerca di protezione della piccola scaldarono per un attimo il suo cuore, da troppo tempo abituato ad arrancare e incassare colpi.

La tempesta intanto si era fatta violenta e il vento trascinava la cascata di acqua trasformandola in un getto diagonale che non conosceva un attimo di sosta.

Al riparo sotto l’ombrello, mentre Jason si preoccupava più di coprire la bambina che se stesso, Lulù ricominciò con le domande.

- Cosa ti è successo? Perché hai lo sguardo triste?

Jason si voltò verso la bambina e alzò un sopracciglio come a dire cosa vuoi saperne tu, quindi tornò a fissare la strada di fronte a sé.

- Dimmi dove dobbiamo andare.- Lì dove c’è quel ristorante dalle tende blu,

a sinistra – Lulù diede una gomitata nel fianco al ragazzo. -Allora? Mi rispondi?

- Non è una bella giornata. La mia band mi ha cacciato, proprio stasera. E la mia vita, parlando in generale… è una merda.

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Jason si fermò di colpo, quindi regalò un sorriso forzato a Lulù. - Scusa, cancella l’ultima parola.

Lei rise di gusto, quindi riprese a camminare trascinandolo per il braccio.

- Come se non avessi mai sentito certe parole… sono grande, ormai. Che strumento suoni?

- Io canto. E accompagno con la chitarra acustica. Ma forse dovrei iniziare a coniugare i verbi al passato.

- E perché mai? Se credi di valere, sono loro ad aver perso qualcosa.

Un’espressione di stupore si dipinse sul volto di Jason. – Quanta saggezza…

- Lo diceva sempre mio nonno. Se le persone non ti apprezzano, e tu sei certo di valere, l’errore è loro. Non tuo.

I due svoltarono a sinistra e presero un lungo viale dalle palazzine basse. Alcune macchine sfrecciarono sull’asfalto bagnato, mentre sui marciapiedi c’era ancora traccia della nevicata che aveva imbiancato Brighton durante tutto il week end.

- Sta di fatto che non suonerò più nei Dealers, e… anche il resto va da schifo.

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- Tutti sanno che oggi è Halloween – Lulù cambiò discorso. - Non è bello che tu non lo sappia.

- Sai cosa me ne frega…- Ah-ah, Jason, non si dice così. Non conosci

le tradizioni? Questa è una giornata importante. Io so tutto su Halloween, sai?

Jason chiuse la cerniera della giacca di pelle e tirò su il colletto, tenendo l’ombrello per qualche istante tra il mento e la spalla destra.

- Mi fa piacere. Prossima svolta?- Laggiù in fondo, al semaforo, sinistra. E’

una festa celtica, sai? Il primo novembre era il vecchio capodanno, dunque la sera prima i contadini, col raccolto completato e al sicuro, potevano rilassarsi e godersi i doni degli dèi. In questa notte le porte ultraterrene si aprono e generano un varco tra il mondo degli spiriti e quello umano. Solo per una notte. Una notte in cui le due dimensioni si mescolano.

- Tutto questo te l’ha raccontato tuo nonno? – chiese Jason, che aveva ancora stampato nella mente il messaggio fuori luogo di Lisa. Di che diavolo dovevano parlare, se le loro strade artistiche si stavano separando per sempre?

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- Sì, certo. Ma mi stai ascoltando? Tu non credi a niente, vero?

Il ragazzo e la bambina arrivarono in prossimità del semaforo, mentre una macchina svoltava a velocità sostenuta e alzava un muro d’acqua. Quindi presero la via di sinistra e continuarono a camminare sotto il diluvio.

- Ho altri problemi.- Ah beh, certo – lo prese in giro la piccola. -

Non puoi più suonare nei Dealers. Che dramma!

Jason non rispose. Non era il caso di raccontare a Lulù la storia della morte improvvisa di sua madre. Non era il caso di soffermarsi sulle abitudini e i vizi di un padre con cui ormai l’unico dialogo avveniva quando il frigo era vuoto o arrivava qualche bolletta troppo salata. Era meglio farle credere che il suo unico problema, al momento, fosse la fine dell’avventura musicale con la band.

- Quanto manca? Avevi detto che era vicino.- Siamo quasi arrivati. Al prossimo incrocio

giriamo in Lewes Road.I due proseguirono nel silenzio, mentre

l’acquazzone sembrava diminuire lievemente d’intensità. Camminarono mano nella mano,

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sotto l’ombrello, finché non furono in prossimità dell’ultimo incrocio.

- Così tu non credi in niente, e il tuo vero problema è che sei stato cacciato dalla band.

Jason esitò un istante, voltandosi verso Lulù che lo guardava con aria maliziosa dal basso verso l’alto. – Sì… menomale che siamo arrivati, non amo gli interrogatori.

- Dovresti lasciare che il tuo cuore si abbandoni alle tradizioni, ogni tanto.

- E perché mai? Per riempire di dolcetti gli scocciatori come te?

- Sì, anche…- Lulù alzò lo sguardo, e il mento iniziò a tremarle.

- Cos’hai? – domandò Jason, perplesso, mentre gli occhi della bambina si facevano lucidi.

- Niente. Sei stato molto gentile. Puoi lasciarmi qui.

Jason si guardò attorno. Il cartello che indicava Lewes Road era davanti ai suoi occhi, di fronte a una lungo cancello in ferro battuto che delimitava il Woodvale Crematorium.

- Non capisco… mi hai chiesto di riaccompagnarti dai tuoi genitori.

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- Ed è quello che hai fatto. Ora puoi lasciarmi da sola? Ti prego. Grazie ancora per avermi portato qui. E mi raccomando, non dimenticare le tradizioni.

Lulù sorrise e si voltò, poi si allontanò sotto la pioggia che si era finalmente attenuata e lasciò Jason all’incrocio con il manico dell’ombrello in mano, lo sguardo stupito e confuso. Il ragazzo fece per girarsi e tornare verso casa, quindi esitò. Lasciò un piccolo margine di vantaggio alla bambina, poi si mise sulle sue tracce. Da lontano la vide costeggiare il perimetro del cimitero, talvolta saltellando alla maniera dei ragazzini. Quindi la scorse mentre si fermava di fronte all’entrata e si inoltrava lungo una striscia di asfalto circondata da due file di alberi.

Lulù non si voltò mai durante il tragitto, e Jason poté seguirla senza farsi vedere, finché non la vide inoltrarsi nei sentieri del cimitero e fermarsi di fronte a una tomba.

Non può essere…Jason si bloccò di colpo, gli occhi spalancati,

mentre l’ombrello gli cadeva di mano. Cominciò a correre mentre nella sua testa rimbalzavano le immagini di quegli ultimi anni

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di sofferenze, che cercava invano di scacciare chiudendo gli occhi e scuotendo la testa. Volti e voci di una storia che avrebbe voluto dimenticare. Ma non poteva.

Quando arrivò di fronte alla tomba, di Lulù non c’era più traccia.

Jason si guardò attorno, ansimando e gettando lo sguardo tra i sentieri del cimitero mentre gli occhi, di tanto in tanto, gli cadevano sulla lapide che aveva davanti. La conosceva e ricordava bene. Era la tomba dei suoi nonni.

Ti prego. Non voglio tornare da sola. Mi riporti dai miei genitori? Non abitano poi tanto lontano da qui.

Jason mise una mano sulla fronte e si ravviò i capelli, mentre le parole di Lulù echeggiavano nella sua testa.

Iniziò a camminare a passo spedito tra le lapidi, percorrendo tutti i sentieri possibili che formavano il cimitero di Woodvale, mentre la neve tutt’attorno si era ormai trasformata in una fanghiglia scivolosa.

In questa notte le porte ultraterrene si aprono e generano un varco tra il mondo degli spiriti e quello umano. Solo per una notte. Una notte in cui le due dimensioni si mescolano.

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Il groppo in gola si fece insopportabile. Jason si fermò. Era inutile proseguire nella ricerca.

Alzò lo sguardo al cielo, un manto grigio e anonimo che non aveva risposte alle sue mille domande. Aveva smesso di piovere.

Grazie ancora per avermi portato qui. E mi raccomando, non dimenticare le tradizioni.

Jason cadde sulle ginocchia. In lontananza un nuovo tuono preannunciava il ritorno della tempesta. Appoggiò le mani per terra e le affondò tra la ghiaia e la neve, mentre si accorgeva di essere tornato al punto di partenza, di fronte a quella tomba che conosceva e ricordava così bene, anche se forse era troppo tempo che non si recava a cambiare i fiori.

I nomi dei suoi nonni materni, incisi sulla lapide, erano la risposta che stava cercando: Luis Fernandez e Lucinda Weller. Luis e Lucinda. Lulù. Come quel soprannome di cui lui non era mai venuto a conoscenza, un buffo appellativo che qualcuno aveva dato a sua madre Virginia durante l’infanzia e che si era perso in adolescenza.

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Quella notte Jason dormì sereno. Niente di paranormale era accaduto. Era solo l’amore di una mamma volata via troppo presto, solo quello, a essere rimasto incastrato tra la dimensione dei defunti e quella terrena. Una mamma che sentiva il bisogno di tornare, di tenere sotto braccio il suo ragazzo, una volta ancora. E di ascoltarlo, perché anche la fine di un piccolo sogno artistico merita uno sfogo come si deve. Aveva chiesto solo di fare due passi assieme, sotto la pioggia, e di essere accompagnata a casa. Niente di paranormale.

Forse era il caso di credere a qualche vecchia storia, pensò Jason prima di addormentarsi, o forse no. Ma mentre chiudeva gli occhi, il sorriso di quella bambina dai capelli biondi ricci avvolta in una giacca a vento gialla era ben impresso nella sua anima, la accarezzava delicatamente.

E non faceva più tanto freddo.

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Per gentile concessione dell’autore, rappresentato da PNLA & Associati Srl