Luigi Pirandello, Novelle per un anno - Lute Milazzo

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1 Luigi Pirandello, Novelle per un anno Una breve antologia LUMÍE DI SICILIA - Teresina sta qui? Il cameriere, ancora in maniche di camicia, ma già impiccato in un altissimo solino, squadrò da capo a piedi il giovanotto che gli stava davanti sul pianerottolo della scala: campagnolo all'aspetto, col bavero del pastrano ruvido rialzato fin su gli orecchi e le mani paonazze, gronchie dal freddo, che reggevano un sacchetto sudicio di qua, una vecchia valigetta di là, a contrappeso. - Teresina? E chi è? - domandò a sua volta, marcando le folte ciglia giunte, che parevano due baffi rasi dal labbro e appiccicati lí per non perderli. Il giovanotto scosse prima la testa per far saltare dalla punta del naso una gocciolina di freddo, poi rispose: - Teresina, la cantante. - Ah, - esclamò il cameriere, con un sorriso d'ironico stupore: - Si chiama cosí, senz'altro, Teresina? E voi chi siete? - C'è o non c'è? - domandò il giovanotto, corrugando le ciglia e sorsando col naso. - Ditele che c'è Micuccio e lasciatemi entrare. - Ma non c'è nessuno a quest'ora, - rispose il cameriere, col sorriso rassegato su le labbra. - La signora Sina Marnis è ancora a teatro e... - Anche zia Marta? - lo interruppe Micuccio. - Ah, lei è il nipote? E il cameriere si fece subito cerimonioso. - Favorisca allora, favorisca. Non c'è nessuno. Anche lei a teatro, la Zia. Prima del tocco non ritorneranno. È la serata d'onore di sua... come sarebbe di lei, la signora? cugina, allora? Micuccio restò un istante impacciato. - Non sono... no, non sono cugino, veramente. Sono... sono Micuccio Bonavino; lei lo sa. Vengo apposta dal paese. A questa risposta il cameriere stimò innanzi tutto conveniente ritirare il lei e riprendere il voi; introdusse Micuccio in una cameretta al bujo presso la cucina, dove qualcuno ronfava strepitosamente, e gli disse: - Sedete qua. Adesso porto un lume. Micuccio guardò prima dalla parte donde veniva quel ronfo, ma non poté discernere nulla; guardò poi in cucina, dove il cuoco, assistito da un guattero, apparecchiava da cena. L'odor misto delle vivande in preparazione lo vinse: n'ebbe quasi un'ebbrietà vertiginosa: era poco men che digiuno dalla mattina; veniva dalla provincia di Messina; una notte e un giorno intero in ferrovia. Il cameriere recò il lume, e quello che ronfava nella stanza, dietro una cortina sospesa a una funicella da una parete all'altra, borbottò tra il sonno: - Chi è? - Ehi, Dorina, sú! - chiamò il cameriere. - Vedi che c'è qui il signor Bonvicino. - Bonavino, - corresse Micuccio, che stava a soffiarsi su le dita. - Bonavino, Bonavino, conoscente della signora. Tu dormi della grossa: suonano alla porta e non senti. Io ho da apparecchiare, non posso far tutto io, capisci?, badare al cuoco che non sa, alla gente che viene.

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Luigi Pirandello, Novelle per un anno

Una breve antologia

LUMÍE DI SICILIA

- Teresina sta qui?

Il cameriere, ancora in maniche di camicia, ma già impiccato in un altissimo solino, squadrò da

capo a piedi il giovanotto che gli stava davanti sul pianerottolo della scala: campagnolo all'aspetto,

col bavero del pastrano ruvido rialzato fin su gli orecchi e le mani paonazze, gronchie dal freddo, che

reggevano un sacchetto sudicio di qua, una vecchia valigetta di là, a contrappeso.

- Teresina? E chi è? - domandò a sua volta, marcando le folte ciglia giunte, che parevano due

baffi rasi dal labbro e appiccicati lí per non perderli.

Il giovanotto scosse prima la testa per far saltare dalla punta del naso una gocciolina di freddo, poi

rispose:

- Teresina, la cantante.

- Ah, - esclamò il cameriere, con un sorriso d'ironico stupore: - Si chiama cosí, senz'altro,

Teresina? E voi chi siete?

- C'è o non c'è? - domandò il giovanotto, corrugando le ciglia e sorsando col naso. - Ditele che c'è

Micuccio e lasciatemi entrare.

- Ma non c'è nessuno a quest'ora, - rispose il cameriere, col sorriso rassegato su le labbra.

- La signora Sina Marnis è ancora a teatro e...

- Anche zia Marta? - lo interruppe Micuccio.

- Ah, lei è il nipote?

E il cameriere si fece subito cerimonioso.

- Favorisca allora, favorisca. Non c'è nessuno. Anche lei a teatro, la Zia. Prima del tocco non

ritorneranno. È la serata d'onore di sua... come sarebbe di lei, la signora? cugina, allora?

Micuccio restò un istante impacciato.

- Non sono... no, non sono cugino, veramente. Sono... sono Micuccio Bonavino; lei lo sa. Vengo

apposta dal paese.

A questa risposta il cameriere stimò innanzi tutto conveniente ritirare il lei e riprendere il voi;

introdusse Micuccio in una cameretta al bujo presso la cucina, dove qualcuno ronfava

strepitosamente, e gli disse:

- Sedete qua. Adesso porto un lume.

Micuccio guardò prima dalla parte donde veniva quel ronfo, ma non poté discernere nulla; guardò

poi in cucina, dove il cuoco, assistito da un guattero, apparecchiava da cena. L'odor misto delle

vivande in preparazione lo vinse: n'ebbe quasi un'ebbrietà vertiginosa: era poco men che digiuno

dalla mattina; veniva dalla provincia di Messina; una notte e un giorno intero in ferrovia.

Il cameriere recò il lume, e quello che ronfava nella stanza, dietro una cortina sospesa a una

funicella da una parete all'altra, borbottò tra il sonno:

- Chi è?

- Ehi, Dorina, sú! - chiamò il cameriere. - Vedi che c'è qui il signor Bonvicino.

- Bonavino, - corresse Micuccio, che stava a soffiarsi su le dita.

- Bonavino, Bonavino, conoscente della signora. Tu dormi della grossa: suonano alla porta e non

senti. Io ho da apparecchiare, non posso far tutto io, capisci?, badare al cuoco che non sa, alla gente

che viene.

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Un ampio sonoro sbadiglio, protratto nello stiramento delle membra e terminato in un nitrito per

un brividore improvviso, accolse la protesta del cameriere, il quale s'allontanò esclamando:

- E va bene!

Micuccio sorrise, e lo seguí con gli occhi, attraverso un'altra stanza in penombra, fino alla vasta

sala in fondo, illuminata, dove sorgeva splendida la mensa, e restò meravigliato a contemplare,

finché di nuovo il ronfo non lo fece voltare a guardar la cortina.

Il cameriere, col tovagliolo sotto il braccio, passava e ripassava, borbottando or contro Dorina che

seguitava a dormire, or contro il cuoco che doveva esser nuovo, chiamato per l'avvenimento di quella

sera, e lo infastidiva chiedendo di continuo spiegazioni. Micuccio, per non infastidirlo anche lui,

stimò prudente ricacciarsi dentro tutte le domande che gli veniva di rivolgergli. Avrebbe poi dovuto

dirgli o fargli intendere ch'era il fidanzato di Teresina, e non voleva, pur non sapendone il perché lui

stesso; se non forse per questo, che quel cameriere allora avrebbe dovuto trattar lui, Micuccio, da

padrone, ed egli, vedendolo cosí disinvolto ed elegante, quantunque ancor senza marsina, non

riusciva a vincere l'impaccio che già ne provava solo a pensarci. A un certo punto però, vedendolo

ripassare, non seppe tenersi dal domandargli:

- Scusi... questa casa di chi è?

- Nostra, finché ci siamo, - gli rispose in fretta il cameriere.

E Micuccio rimase a tentennare il capo.

Perbacco, era vero dunque! La fortuna acciuffata. Affaroni. Quel cameriere che pareva un gran

signore, il cuoco e il guattero, quella Dorina che ronfava di là: servi tutti a gli ordini di Teresina. Chi

l'avrebbe mai detto?.

Rivedeva col pensiero la soffitta squallida, laggiú laggiú, a Messina, dove Teresina abitava con la

madre. Cinque anni addietro, in quella soffitta lontana, se non fosse stato per lui, mamma e figlia

sarebbero morte di fame. E l'aveva scoperto lui, lui, quel tesoro nella gola di Teresina! Ella cantava

sempre, allora, come una passera dei tetti, ignara del suo tesoro: cantava per dispetto, cantava per

non pensare alla miseria a cui egli cercava di sovvenire alla meglio, non ostante la guerra che gli

movevano in casa i genitori, la madre specialmente. Ma poteva abbandonar Teresina in quello stato,

dopo la morte del padre? Abbandonarla perché non aveva nulla, mentre lui, bene o male, un

posticino ce l'aveva, di sonator di flauto nel concerto comunale? Bella ragione! E il cuore?

Ah, era stata una vera ispirazione del cielo, un suggerimento della fortuna, quel far caso alla voce

di lei, quando nessuno ci badava, in quella bellissima giornata d'aprile, presso la finestra dell'abbaino

che incorniciava vivo vivo l'azzurro del cielo. Teresina canticchiava un'appassionata arietta siciliana,

di cui Micuccio ricordava ancora le tènere parole. Era triste Teresina, quel giorno, per la recente

morte del padre e per l'ostinata opposizione dei parenti di lui; e anch'egli - ricordava - era triste, tanto

che gli erano spuntate le lagrime, sentendola cantare. Pure tant'altre volte l'aveva sentita,

quell'arietta; ma cantata a quel modo, mai. N'era rimasto cosí impressionato, che il giorno appresso,

senza prevenire né lei né la madre, aveva condotto con sé, sú nella soffitta, il direttore del concerto,

suo amico. E cosí erano cominciate le prime lezioni di canto, e, per due anni di fila egli aveva speso

per lei quasi tutto il suo stipendio: le aveva preso a nolo un pianoforte, comperate le carte di musica e

qualche amichevole compenso aveva pur dato al maestro. Bei giorni lontani! Teresina ardeva tutta

nel desiderio di spiccare il volo, di lanciarsi nell'avvenire che il maestro le prometteva luminoso; e,

frattanto, che carezze di fuoco a lui, per dimostrargli tutta la sua gratitudine, e che sogni di felicità

comune!

Zia Marta, invece, scoteva amaramente il capo: ne aveva viste tante in vita sua, povera vecchietta,

che ormai non aveva piú fiducia. nell'avvenire: temeva per la figliola, e non voleva che ella pensasse

neppure alla possibilità di togliersi da quella rassegnata miseria; e poi sapeva, sapeva ciò che costava

a lui la follia di quel sogno pericoloso.

Ma né lui né Teresina le davano ascolto, e invano essa si era ribellata quando un giovane maestro

compositore, avendo udito Teresina in un concerto, aveva dichiarato che sarebbe stato un vero delitto

non darle migliori maestri e una compiuta educazione artistica: a Napoli, bisognava mandarla al

conservatorio di Napoli a qualunque costo.

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E allora lui, Micuccio, senza pensarci due volte, l'aveva rotta coi parenti, aveva venduto un

poderetto lasciatogli in eredità dallo zio prete, e mandato Teresina a Napoli a compiere gli studi.

Non l'aveva piú riveduta, da allora. Lettere, sí... aveva le sue lettere dal conservatorio e poi quelle

di zia Marta, quando già Teresina si era lanciata nella vita artistica, contesa dai principali teatri, dopo

l'esordio clamoroso al San Carlo. A piè di quelle tremule incerte lettere raspate alla meglio su la

carta dalla povera vecchietta c'eran sempre due paroline di lei, di Teresina, che non aveva mai tempo

di scrivere: «Caro Micuccio, confermo quanto ti dice la mamma. Sta' sano e voglimi bene». Eran

rimasti d'accordo che egli le avrebbe lasciato cinque, sei anni di tempo per farsi strada liberamente:

erano giovani entrambi e potevano aspettare. E quelle lettere, nei cinque anni già trascorsi, egli le

aveva sempre mostrate a chi voleva vederle, per distruggere le calunnie che i suoi parenti

scagliavano contro Teresina e la madre. Poi s'era ammalato; era stato per morire; e in

quell'occasione, a sua insaputa, zia Marta e Teresina avevano inviato al suo indirizzo una buona

somma di danaro: parte se n'era andata durante la malattia, ma il resto egli lo aveva strappato a viva

forza dalle mani rapaci dei suoi parenti e ora, ecco, veniva a ridarlo a Teresina. Perché, denari -

niente! egli non ne voleva. Non perché gli paressero elemosina, avendo egli già speso tanto per lei;

ma... niente! non lo sapeva dire lui stesso, e ora piú che mai, lí, in quella casa... - denari, niente!

Come aveva aspettato tant'anni, poteva ancora aspettare. Che se poi denari Teresina ne aveva

d'avanzo, segno che l'avvenire le si era schiuso, ed era tempo perciò che l'antica promessa

s'adempisse, a dispetto di chi non voleva crederci.

Micuccio sorse in piedi, con le ciglia corrugate, come per raffermarsi in questa conclusione; si

soffiò di nuovo su le mani diacce e pestò i piedi per terra.

- Freddo? - gli disse, passando, il cameriere. - Poco ci vorrà, adesso. Venite qua in cucina. Starete

meglio.

Micuccio non volle seguire il consiglio del cameriere che, con quell'aria da gran signore, lo

sconcertava e l'indispettiva. Si rimise a sedere e a pensare, costernato. Poco dopo, una forte

scampanellata lo scosse.

- Dorina, la signora! - strillò il cameriere infilandosi in fretta e in furia la marsina, mentre correva

ad aprire; ma vedendo che Micuccio stava per seguirlo, s'arrestò di botto per intimargli:

- Voi state qua; prima lasciate che la avverta.

- Ohi, ohi, ohi... - si lamentò una voce insonnolita dietro la cortina; e, poco dopo, apparve un

donnone tozzo, affagottato, che strascicava una gamba e non riusciva ancora a spiccicar gli occhi,

con uno scialle di lana fin sopra il naso, i capelli ritinti d'oro.

Micuccio stette a mirarla allocchito. Anche colei, sorpresa, sgranò tanto d'occhi in faccia

all'estraneo.

- La signora, - ripeté Micuccio.

Allora Dorina riprese d'un subito coscienza:

- Eccomi, eccomi... - disse, togliendosi e buttando dietro la cortina lo scialle e adoperandosi con

tutta la pesante persona a correr verso l'entrata.

L'apparizione di quella strega ritinta, l'intimazione del cameriere diedero a un tratto a Micuccio,

avvilito, un angoscioso presentimento. Sentí la voce stridula di zia Marta:

- Di là, in sala! in sala, Dorina!

E il cameriere e Dorina gli passarono davanti, reggendo magnifiche ceste di fiori. Sporse il capo a

guardare, in fondo, la sala illuminata e vide tanti signori in marsina, che parlavano confusamente. La

vista gli s'annebbiò: era tanto lo stupore, tanta la commozione, che non s'accorse egli stesso che gli

occhi gli si erano riempiti di lagrime: li chiuse, e in quel bujo si strinse tutto in sé, quasi per resistere

allo strazio che gli cagionava una lunga squillante risata. Era di Teresina? Oh Dio, e perché rideva

cosí, di là?

Un grido represso gli fece riaprir gli occhi, e si vide davanti - irriconoscibile - zia Marta, col

cappello in capo, poveretta! oppressa da una ricca splendida mantiglia di velluto.

- Come! Micuccio... tu qui?

- Zia Marta... - esclamò Micuccio, quasi impaurito, restando a contemplarla.

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- Come mai! - seguitò la vecchietta, sconvolta. - Senza avvertire? Che è stato? Quando sei

arrivato? Giusto questa sera... Oh Dio, Dio...

- Son venuto per... - balbettò Micuccio, non sapendo piú che dire.

- Aspetta! - lo interruppe zia Marta. - Come si fa? come si fa? Vedi quanta gente, figliuolo mio? È

la festa di Teresina, la sua serata... Aspetta, aspetta un po' qua...

- Se voi, - si provò a dir Micuccio, a cui l'angoscia stringeva la gola, - se voi credete che me ne

debba andare...

- No, aspetta un po', ti dico, - s'affrettò a rispondergli la buona vecchietta, tutta imbarazzata.

- Io però, - riprese Micuccio, - non saprei dove andare in questo paese... a questa ora...

Zia Marta lo lasciò, facendogli con una mano inguantata segno d'attendere, ed entrò nella sala,

nella quale poco dopo a Micuccio parve si aprisse una voragine: vi s'era fatto d'improvviso silenzio.

Poi udí, chiare, distinte, queste parole di Teresina:

- Un momento, signori.

E di nuovo la vista gli s'annebbiò, nell'attesa ch'ella comparisse. Ma Teresina non comparve, e la

conversazione fu ripresa nella sala. Tornò invece, dopo pochi minuti che a lui parvero eterni, zia

Marta senza cappello, senza mantiglia, senza guanti, meno imbarazzata.

- Aspettiamo un po' qua, sei contento? - gli disse. - Io starò con te... Adesso si fa cena... Noi ce ne

staremo qua. Dorina ci apparecchierà questo tavolino, e ceneremo insieme, qua; ci ricorderemo de'

bei tempi, eh?... Non mi par vero di trovarmi con te, figlietto mio, qua; qua, appartati... Lí, capirai,

tanti signori... Lei, poverina, non può farne a meno... La carriera, m'intendi? Eh, come si fa! Li hai

veduti i giornali? Cose grandi, figlio mio! Ma io... io, come sopra mare, sempre... Non mi par vero

che me ne possa star qua con te, stasera.

E la buona vecchietta, che aveva parlato parlato, istintivamente, per non dar tempo a Micuccio di

pensare, alla fine sorrise e si stropicciò le mani, guardandolo, intenerita.

Dorina venne ad apparecchiare la tavola, in fretta, perché già di là, in sala, il pranzo era

cominciato.

- Verrà? - domandò cupo, Micuccio, con voce angosciata. - Dico, per vederla almeno.

- Certo che verrà, - gli rispose subito la vecchietta, sforzandosi di vincere l'impaccio. - Appena

avrà un momentino di largo: già me l'ha detto.

Si guardarono tutt'e due e si sorrisero, come se finalmente si riconoscessero. Attraverso l'impaccio

e la commozione le loro anime avevano trovato la via per salutarsi con quel sorriso. «Voi siete zia

Marta» dicevano gli occhi di Micuccio. - «E tu, Micuccio, il mio caro e buon figliuolo, sempre lo

stesso, poverino!» - dicevano quelli di zia Marta. Ma subito la buona vecchietta abbassò i suoi,

perché Micuccio non vi leggesse altro. Si stropicciò di nuovo le mani e disse:

- Mangiamo, eh?

- Ho una fame, io! - esclamò, tutto lieto e raffidato, Micuccio.

- La croce, prima: qua posso farmela, davanti a te, - aggiunse la vecchietta con aria birichina,

strizzando un occhio, e si segnò.

Il cameriere venne a offrir loro il primo servito. Micuccio stette bene attento a osservare come

faceva zia Marta a trarre dal piatto la porzione. Ma quando venne la sua volta, nel levar le mani,

pensò che le aveva sporche dal lungo viaggio, arrossí, si confuse, alzò gli occhi a sogguardare il

cameriere, il quale, compitissimo ora, gli fece un lieve inchino col capo e un sorriso, come per

invitarlo a servirsi. Fortunatamente zia Marta venne a trarlo d'impaccio.

- Qua qua, Micuccio, ti servo io.

Se la sarebbe baciata dalla gratitudine! Avuta la porzione, appena il cameriere si fu allontanato, si

segnò anche lui in fretta.

- Bravo figliuolo! - gli disse zia Marta.

Ed egli si sentí beato, a posto, e si mise a mangiare come non aveva mangiato mai in vita sua,

senza piú pensare alle sue mani, né al cameriere.

Tuttavia, ogni qual volta questi, entrando o uscendo dalla sala, schiudeva la bussola a vetri e

veniva di là come un' ondata di parole confuse o qualche scoppio di risa, egli si voltava turbato e poi

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guardava gli occhi dolenti e affettuosi della vecchina, quasi per leggervi una spiegazione. Ma vi

leggeva invece la preghiera di non chieder nulla per il momento, di rimettere a piú tardi le

spiegazioni. E tutt'e due di nuovo si sorridevano e si rimettevano a mangiare e a parlare del paese

lontano, d'amici e conoscenti, di cui zia Marta gli domandava notizie senza fine.

- Non bevi?

Micuccio stese la mano per prendere la bottiglia; ma, in quella, la bussola della sala si riaprí: un

fruscío di seta, tre passi frettolosi, uno sbarbaglio, quasi la cameretta si fosse d'un tratto

violentemente illuminata, per accecarlo.

- Teresina...

E la voce gli morí sulle labbra, dallo stupore. Ah, che regina!

Col volto in fiamme, gli occhi sbarrati, la bocca aperta, egli restò a contemplarla, istupidito. Come

mai ella... cosí? Nudo il seno, nude le spalle, le braccia nude... tutta fulgente di gemme e di stoffe...

Non la vedeva, non la vedeva piú come una persona viva e vera davanti a sé. Che gli diceva? Non la

voce, né gli occhi, né il riso: nulla, nulla piú riconosceva di lei, in quell'apparizione di sogno.

- Come va? Stai bene ora, Micuccio? Bravo, bravo... Sei stato malato, se non m'inganno... Ci

rivedremo tra poco. Tanto, qui hai con te la mamma... Siamo intesi, eh?

E Teresina scappò via in sala, tutta frusciante.

- Non mangi piú? - domandò timorosa, poco dopo, zia Marta per rompere lo sbalordimento di

Micuccio.

Questi si voltò appena a guardarla.

- Mangia, - insistette la vecchina indicandogli il piatto.

Micuccio si portò due dita al colletto affumicato e spiegazzato e se lo stirò, provandosi a trarre un

lungo respiro.

- Mangiare?

E agitò piú volte le dita presso il mento, come se salutasse, per significare: non mi va piú, non

posso. Stette ancora un pezzo silenzioso, avvilito, assorto nella visione di poc'anzi, poi mormorò:

- Come s'è fatta...

E vide che zia Marta scoteva amaramente il capo e che aveva sospeso di mangiare anche lei,

come se aspettasse.

- Ma neanche a pensarci piú... - aggiunse poi, quasi tra sé, chiudendo gli occhi.

Vedeva ora, in quel suo bujo, l'abisso che s'era aperto tra loro due. No, non era piú lei - quella lí -

la sua Teresina. Era tutto finito... da un pezzo, da un pezzo ed egli, sciocco, egli stupido, se

n'accorgeva solo adesso. Glielo avevano detto là al paese, e lui s'era ostinato a non crederci... E ora,

che figura ci faceva a star lí, in quella casa? Se tutti quei signori, se quel cameriere stesso avessero

saputo che egli, Micuccio Bonavino, s'era rotte le ossa a venire di cosí lontano, trentasei ore di

ferrovia, credendosi sul serio ancora il fidanzato di quella regina, che risate, quei signori e quel

cameriere e il cuoco e il guattero e Dorina! Che risate, se Teresina lo avesse trascinato al loro

cospetto, lí in sala, dicendo: «Guardate, questo poveretto, sonator di flauto, dice che vuol diventare

mio marito!» Glielo aveva promesso lei stessa, è vero; ma come avrebbe potuto allora supporre che

un giorno sarebbe divenuta cosí? Ed era anche vero, sí, che egli le aveva schiuso quella via e le

aveva dato modo d'incamminarvisi; ma ecco, ella era ormai arrivata tanto, tanto lontano, che egli,

rimasto lí, sempre lo stesso, a sonare il flauto le domeniche nella piazza del paese, come avrebbe piú

potuto raggiungerla? Neanche a pensarci... E che cos'erano poi quei pochi quattrinucci spesi allora

per lei, divenuta adesso una gran signora? Si vergognava solo a pensare che qualcuno potesse

sospettare che egli, con la sua venuta, volesse accampar qualche diritto per quei pochi quattrinucci

miserabili. Gli sovvenne in quel punto di avere in tasca il denaro inviatogli da Teresina durante la

malattia. Arrossí: ne provò onta, e si cacciò una mano nella tasca in petto della giacca, dove era il

portafogli.

- Ero venuto, zia Marta, - disse in fretta, - anche per restituirvi questo denaro che mi avete

mandato. Che ha voluto essere, pagamento? restituzione? Vedo che Teresina è divenuta una..., sí, mi

pare una regina! vedo che... niente! neanche a pensarci piú! Ma, questo denaro, no: non mi meritavo

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questo da lei... È finita, e non se ne parla piú... ma, denari, niente! Mi dispiace solo che non sono

tutti...

- Che dici, figliuolo mio? - cercò d'interromperlo, afflitta e con le lagrime agli occhi, zia Marta.

Micuccio le fe' cenno di star zitta.

- Non li ho spesi io: li hanno spesi i miei parenti, durante la malattia, senza ch'io ne sapessi nulla.

Ma vanno per quella miseria che spesi io allora... vi ricordate? Non ci pensiamo piú. Qua c'è il resto.

E io me ne vado.

- Ma come? Cosí di furia? - esclamò zia Marta, cercando di trattenerlo. - Aspetta almeno che lo

dica a Teresina. Non hai sentito che voleva rivederti? Vado a dirglielo...

- No, è inutile, - le rispose Micuccio, deciso. - Lasciatela star lí con quei signori; lí sta bene, al suo

posto. Io, poveretto... L'ho veduta; m'è bastato... O piuttosto, andate pure... andate anche voi di là...

Sentite come si ride? Io non voglio che si rida di me... Me ne vado.

Zia Marta interpretò nel peggior senso quella risoluzione improvvisa di Micuccio: come un atto di

sdegno, un moto di gelosia. Le sembrava ormai, poverina, che tutti - vedendo sua figlia - dovessero

d'un tratto concepire il piú tristo dei sospetti, quello appunto per cui ella piangeva inconsolabile,

trascinando senza requie il suo cordoglio segreto fra il tumulto di quella vita di lusso odioso che

disonorava sconciamente la sua stanca vecchiaja.

- Ma io, - le scappò detto, - io ormai non posso piú farle la guardia, figliuolo mio...

- Perché? - domandò allora Micuccio, leggendole a un tratto negli occhi il sospetto ch'egli non

aveva ancora avuto; e si rabbujò in volto.

La vecchietta si smarrí nella sua pena e si nascose la faccia con le mani tremule, ma non riuscí a

frenar l'impeto delle lagrime irrompenti.

- Sí, sí, vattene, figliuolo mio, vattene... - disse soffocata dai singhiozzi. - Non è piú per te, hai

ragione... Se mi aveste dato ascolto!

- Dunque, - proruppe Micuccio chinandosi su lei e strappandole a forza una mano dal volto. Ma fu

tanto accorato e miserevole lo sguardo con cui ella gli chiese pietà portandosi un dito su le labbra,

che egli si frenò e aggiunse con altro tono, forzandosi a parlar piano - Ah, lei dunque, lei... lei non è

piú degna di me. Basta, basta, me ne vado lo stesso.. anzi, tanto piú, ora... Che sciocco, zia Marta:

non l'avevo capito! Non piangete... Tanto, che fa? Fortuna, dicono... fortuna...

Prese la valigetta e il sacchettino di sotto la tavola, e s'avviava per uscire, quando gli venne in

mente che lí, dentro il sacchetto, c'eran le belle lumíe ch'egli aveva portato a Teresina dal paese.

- Oh, guardate, zia Marta, - riprese.

Sciolse la bocca al sacchetto e, facendo riparo d'un braccio, versò quei freschi frutti fragranti sulla

tavola.

- E se mi mettessi a tirare tutte queste lumíe, - soggiunse, - sulla testa di quei galantuomini là?

- Per carità, - gemette la vecchina tra le lagrime, facendogli un nuovo cenno supplichevole di

tacere.

- No; niente, - riprese Micuccio, ridendo acre e rimettendosi in tasca il sacchetto vuoto. - Le

avevo portate a lei; ma ora le lascio a voi sola, zia Marta.

Ne prese una e la accostò al naso di zia Marta.

Sentite, zia Marta; sentite l'odore del nostro paese... E dire che ci ho anche pagato il dazio... Basta.

A voi sola, badate bene... A lei dite cosí: «Buona fortuna! » a nome mio.

Riprese la valigetta e andò via. Ma per la scala, un senso d'angoscioso smarrimento lo vinse: solo,

abbandonato, di notte, in una grande città sconosciuta, lontano dal suo paese; deluso, avvilito,

scornato. Giunse al portone, vide che pioveva a dirotto. Non ebbe il coraggio d'avventurarsi per

quelle vie ignote, sotto quella pioggia. Rientrò pian piano, rifece una branca di scala, poi sedette sul

primo scalino e appoggiando i gomiti su le ginocchia e la testa tra le mani, si mise a piangere

silenziosamente.

Sul finir della cena, Sina Marnis fece un'altra comparsa nella cameretta. Vi trovò la mamma che

piangeva anche lei, sola, mentre di là quei signori schiamazzavano e ridevano.

- È andato via? - domandò, sorpresa.

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Zia Marta accennò di sí col capo, senza guardarla. Sina fissò gli occhi nel vuoto, assorta, poi

sospirò

- Poverino...

Ma subito dopo le venne di sorridere.

- Guarda, - le disse la madre, senza frenar piú le lagrime col tovagliolo. - Ti aveva portato le

lumíe...

- Oh, belle! - esclamò Sina, con un balzo. Strinse un braccio alla vita e ne prese con l'altra mano

quanto piú poteva portarne.

- No, di là no! - protestò vivamente la madre.

Ma Sina scrollò le spalle e corse in sala gridando:

- Lumíe di Sicilia! Lumíe di Sicilia!

LONTANO

I

Dopo aver cercato inutilmente dappertutto questo e quel capo di vestiario e avere imprecato: -

Porco diavolo! - non si sa quante volte, tra sbuffi e grugniti e ogni sorta di gesti irosi, alla fine Pietro

Mílio (o Don Paranza come lo chiamavano in paese) sentí il bisogno d'offrirsi uno sfogo andando a

gridare alla parete che divideva la sua camera da quella della nipote Venerina:

- Dormi, sai! fino a mezzogiorno, cara. Ti avverto però che oggi non c'è lo sciocco che piglia

pesci per te.

E veramente quella mattina don Paranza non poteva andare alla pesca, come da tanti anni era

solito. Gli toccava invece (porco diavolo!) vestirsi di gala, o impuparsi secondo il suo modo di dire.

Già! perché era viceconsole, lui, di Svezia e Norvegia. E Venerina, che dalla sera avanti sapeva del

prossimo arrivo del nuovo piroscafo norvegese - ecco qua - non gli aveva preparato né la camicia

inamidata, né la cravatta, né i bottoni, né la finanziera: nulla, insomma.

In due cassetti del canterano, in luogo delle camíce, aveva intravisto una fuga di spaventatissimi

scarafaggi.

- Comodi! Comodi! Scusate del disturbo!

Nel terzo, una sola camicia, chi sa da quanto tempo inamidata, ingiallita. Don Paranza l'aveva

tratta fuori con due dita, cautamente, come se anche quella avesse temuto abitata dai prolifici

animaletti dei due piani superiori; poi, osservando il collo, lo sparato e i polsini sfilacciati:

- Bravi! - aveva aggiunto. - Avete messo barba?

E s'era dato a stropicciare sulle sfilàcciche un mozzicone di candela stearica.

Era chiaro che tutte le altre camíce (che non dovevano poi esser molte) stavano ad aspettare da

mesi dentro la cesta della biancheria da mandare al bucato i vapori mercantili di Svezia e Norvegia.

Viceconsole della Scandinavia a Porto Empedocle, don Paranza faceva nello stesso tempo anche

da interprete su i rari piroscafi che di là venivano a imbarcar zolfo. A ogni vapore, una camicia

inamidata: non piú di due o tre l'anno. Per amido, poca spesa.

Certo non avrebbe potuto vivere con gli scarsi proventi di questa saltuaria professione, senza

l'ajuto della pesca giornaliera e di una misera pensioncina di danneggiato politico. Perché, sissignori,

bestia non era soltanto da jeri - come egli stesso soleva dire: - bestione era sempre stato: aveva

combattuto per questa cara patria, e s'era rovinato.

Cara-patria perciò era anche il nome con cui chiamava qualche volta la sua miserabile finanziera.

Venuto da Girgenti ad abitare alla Marina, come allora si chiamavano quelle quattro casucce sulla

spiaggia, alle cui mura, spirando lo scirocco, venivano a rompersi furibondi i cavalloni, si ricordava

di quando Porto Empedocle non aveva che quel piccolo molo, detto ora Molo Vecchio, e quella torre

alta, fosca, quadrata, edificata forse per presidio dagli Aragonesi, al loro tempo, e dove si tenevano ai

lavori forzati i galeotti: i soli galantuomini del paese, poveretti!

Page 8: Luigi Pirandello, Novelle per un anno - Lute Milazzo

8

Allora sí Pietro Mílio faceva denari a palate! Di interpreti, per tutti i vapori mercantili che

approdavano nel porto, non c'era altri che lui e quella pertica sbilenca di Agostino Di Nica, che gli

veniva appresso, allora, come un cagnolino affamato per raccattar le briciole ch'egli lasciava cadere.

I capitani, di qualunque nazione fossero, dovevano contentarsi di quelle quattro parole di francese

che scaraventava loro in faccia, imperterrito, con pretto accento siciliano: - mossiurre, sciosse, ecc.

- Ma la cara patria! la cara patria!

Una sola, veramente, era stata la bestialità di don Paranza: quella di aver avuto vent'anni, al

Quarantotto. Se ne avesse avuti dieci o cinquanta, non si sarebbe rovinato. Colpa involontaria,

dunque. Nel bel meglio degli affari, compromesso nelle congiure politiche, aveva dovuto esulare a

Malta. La bestialità d'averne ancora trentadue al Sessanta era stata, si sa! conseguenza naturale della

prima. Già a Malta, a La Valletta, in quei dodici anni, s'era fatto un po' di largo, ajutato dagli altri

fuorusciti. Ma il Sessanta! Ci pensava e fremeva ancora. A Milazzo, una palla in petto: e di quel

regalo d'un soldato borbonico misericordioso non aveva saputo approfittare: - era rimasto vivo!

Tornato a Porto Empedocle, aveva trovato il paese cresciuto quasi per prodigio, a spese della

vecchia Girgenti che, sdrajata su l'alto colle a circa quattro miglia dal mare, si rassegnava a morir di

lenta morte, per la quarta o la quinta volta, guardando da una parte le rovine dell'antica Acragante,

dall'altra il porto del nascente paese. E al suo posto il Mílio aveva trovato tant'altri interpreti, uno piú

dotto dell'altro, in concorrenza fra loro.

Agostino Di Nica, dopo la partenza di lui per l'esilio, rimasto solo, s'era fatto d'oro e aveva smesso

di far l'interprete per darsi al commercio con un vaporetto di sua proprietà, che andava e veniva

come una spola tra Porto Empedocle e le due vicine isolette di Lampedusa e di Pantelleria.

- Agostino, e la patria?

Il Di Nica, serio serio, picchiava con una mano su i dindi nel taschino del panciotto:

- Eccola qua!

Era rimasto però tal quale, bisognava dirlo, senza superbia. Madre natura, nel farlo, non s'era

dimenticata del naso. Che naso! Una vela! In capo, quella stessa berrettina di tela, dalla visiera di

cuojo; e a tutti coloro che gli domandavano perché, con tanti bei denari, non si concedesse il lusso di

portare il cappello:

- Non per il cappello, signori miei, - rispondeva invariabilmente, - ma per le conseguenze del

cappello.

Beato lui! - «A me, invece, - pensava don Paranza, - con tutta la mia miseria, mi tocca d'indossare

la finanziera e d'impiccarmi in un colletto inamidato. Sono viceconsole, io!»

Sí, e se qualche giorno non gli riusciva di pigliar pesci, correva il rischio d'andare a letto digiuno,

lui e la nipote, quella povera orfana lasciatagli dal fratello, anche lui cosí sfortunato che appena

sbarcato in America vi era morto di febbre gialla. Ma don Paranza aveva in compenso le medaglie

del Quarantotto e del Sessanta.

Con la canna della lenza in mano e gli occhi fissi al sughero galleggiante, assorto nei ricordi della

sua lunga vita, gli avveniva spesso di tentennare amaramente il capo. Guardava le due scogliere del

nuovo porto, ora tese al mare come due lunghe braccia per accogliere in mezzo il piccolo Molo

Vecchio, al quale, in grazia della banchina, era stato serbato l'onore di tener la sede della Capitaneria

e la bianca torre del faro principale; guardava il paese che gli si stendeva davanti agli occhi, da

quella torre detta il Rastiglio a piè del Molo fino alla stazione ferroviaria laggiú e gli pareva che,

come su lui gli anni e i malanni, cosí fossero cresciute tutte quelle case là, quasi l'una su l'altra, fino

ad arrampicarsi all'orlo dell'altipiano marnoso che incombeva sulla spiaggia col suo piccolo e bianco

cimitero lassú, col mare davanti, e dietro la campagna. La marna infocata, colpita dal sole cadente,

splendeva bianchissima mentre il mare, d'un verde cupo, di vetro, presso la riva, s'indorava tutto

nella vastità tremula dell'ampio orizzonte chiuso da Punta Bianca a levante, da Capo Rossello a

ponente.

Quell'odore del mare tra le scogliere, l'odore del vento salmastro che certe mattine nel recarsi alla

pesca lo investiva cosí forte da impedirgli il respiro o il passo facendogli garrire addosso la giacca e i

calzoni, l'odore speciale che la polvere dello zolfo sparsa dappertutto dava al sudore degli uomini

Page 9: Luigi Pirandello, Novelle per un anno - Lute Milazzo

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affaccendati, l'odore del catrame, l'odore dei salati, l'afrore che esalava sulla spiaggia dalla

fermentazione di tutto quel pacciame d'alghe secche misto alla rena bagnata, tutti gli odori di quel

paese cresciuto quasi con lui erano cosí pregni di ricordi per don Paranza che, non ostante la miseria

della sua vita, era per lui un rammarico pensare che gli anni che facevano lui vecchio erano invece la

prima infanzia del paese; tanto vero che il paese prendeva sempre piú, di giorno in giorno, vita coi

giovani, e lui vecchio era lasciato indietro, da parte e non curato. Ogni mattina, all'alba, dalla

scalinata di Montoro, il grido tre volte ripetuto d'un banditore dalla voce formidabile chiamava tutti

al lavoro sulla spiaggia:

- Uomini di mare, alla fatica!

Don Paranza li udiva dal letto, ogni alba, quei tre appelli e si levava anche lui, ma per andarsene

alla pesca, brontolando. Mentre si vestiva, sentiva giú stridere i carri carichi di zolfo, carri senza

molle, ferrati, traballanti sul brecciale fradicio dello stradone polveroso popolato di magri asinelli

bardati, che arrivavano a frotte, anch'essi con due pani di zolfo a contrappeso. Scendendo alla

spiaggia, vedeva le spigonare, dalla vela triangolare ammainata a metà su l'albero, in attesa del

carico, oltre il braccio di levante, lungo la riva, sulla quale si allineava la maggior parte dei depositi

di zolfo. Sotto alle cataste s'impiantavano le stadere, sulle quali lo zolfo era pesato e quindi caricato

sulle spalle degli uomini di mare protette da un sacco commesso alla fronte. Scalzi, in calzoni di tela,

gli uomini di mare recavano il carico alle spigonare, immergendosi nell'acqua fino all'anca, e le

spigonare, appena cariche, sciolta la vela, andavano a scaricare lo zolfo nei vapori mercantili

ancorati nel porto o fuori. Cosí, fino al tramonto del sole, quando lo scirocco non impediva

l'imbarco.

E lui? Lui lí, con la canna della lenza in mano. E non di rado, scotendo rabbiosamente quella

canna, gli avveniva di borbottare nella barba lanosa che contrastava col bruno della pelle cotta dal

sole e con gli occhi verdastri e acquosi:

- Porco diavolo! Non m'hanno lasciato neanche pesci nel mare!

II

Seduta sul letto, coi capelli neri tutti arruffati e gli occhi gonfi dal sonno, Venerina non si

risolveva ancora a uscire dalla sua cameretta, quando udí per la scala uno scalpiccío confuso tra

ànsiti affannosi e la voce dello zio che gridava:

- Piano, piano! Eccoci arrivati.

Corse ad aprire la porta; s'arrestò sgomenta, stupita, esclamando:

- Oh Dio! Che è?

Davanti alla porta, per l'angusta scala, una specie di barella sorretta penosamente da un gruppo di

marinaj ansanti, costernati. Sotto un'ampia coperta d'albagio qualcuno stava a giacere su quella

barella.

- Zio! Zio! - gridò Venerina.

Ma la voce dello zio le rispose dietro quel gruppo d'uomini che s'affannava a salire gli ultimi

gradini.

- Niente; non ti spaventare! Ho fatto pesca anche stamattina! La grazia di Dio non ci abbandona.

Piano, piano, figliuoli: siamo arrivati. Qua, entrate. Ora lo adageremo sul mio letto.

Venerina vide accanto allo zio un giovine di statura gigantesca, straniero all'aspetto, biondo, e dal

volto un po' affumicato, che reggeva sotto il braccio una cassetta; poi chinò gli occhi su la barella,

che i marinaj, per riprender fiato, avevano deposta presso l'entrata, e domandò:

- Chi è? Che è avvenuto?

- Pesce di nuovo genere, non ti confondere! - le rispose don Pietro, promovendo il sorriso dei

marinaj che s'asciugavano la fronte. - Vera grazia di Dio! Sú, figliuoli: sbrighiamoci. Di qua, sul mio

letto.

E condusse i marinaj col triste carico nella sua camera ancora sossopra.

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Lo straniero, scostando tutti, si chinò su la barella; ne tolse via cautamente la coperta, e sotto gli

occhi di Venerina raccapricciata scoprí un povero infermo quasi ischeletrito, che sbarrava nello

sgomento certi occhi enormi d'un cosí limpido azzurro, che parevano quasi di vetro, tra la squallida

magrezza del volto su cui la barba era rispuntata; poi, con materna cura, lo sollevò come un bambino

e lo pose a giacere sul letto.

- Via tutti, via tutti! - ordinò don Pietro. - Lasciamoli soli, adesso. Per voi, figliuoli, penserà il

capitano dell'Hammerfest. - E, richiuso l'uscio, aggiunse, rivolto alla nipote: - Vedi? Poi dici che non

siamo fortunati. Un vapore a ogni morte di papa; ma quell'uno che arriva, è la manna! Ringraziamo

Dio.

- Ma chi è? Si può sapere che è avvenuto? - domandò di nuovo Venerina.

E don Paranza:

- Niente! Un marinajo malato di tifo, agli estremi. Il capitano m'ha visto questa bella faccia di

minchione e ha detto: «Guarda, voglio farti un regaluccio, brav'uomo». Se quel poveraccio moriva in

viaggio, finiva in bocca a un pesce-cane; invece è voluto arrivare fino a Porto Empedocle, perché

sapeva che c'era Pietro Mílio, pesce-somaro. Basta. Andrò oggi stesso a Girgenti per trovargli posto

all'ospedale. Passo prima da tua zia donna Rosolina! Voglio sperare che mi farà la grazia di tenerti

compagnia finché io non ritornerò da Girgenti. Speriamo che, per questa sera, sia tutto finito. Aspetta

oh... debbo dire...

Riaprí l'uscio e rivolse qualche frase in francese a quel giovane straniero, che chinò piú volte il

capo in risposta; poi, uscendo, soggiunse alla nipote:

- Mi raccomando: te ne starai di là, in camera tua. Vado e torno con tua zia.

Per istrada, alla gente che gli domandava notizie, seguitò a rispondere senza nemmeno voltarsi:

- Pesca, pesca: tricheco!

Forzando la consegna della serva, s'introdusse in casa di donna Rosolina. La trovò in gonnella e

camicia, con le magre braccia nude e un asciugamani su le spallucce ossute, che s'apparecchiava il

latte di crusca per lavarsi la faccia.

- Maledizione! - strillò la zitellona cinquantaquattrenne, riparandosi d'un balzo dietro una cortina.

- Chi entra? Che modo!

- Ho gli occhi chiusi, ho gli occhi chiusi! - protestò Pietro Mílio. - Non guardo le vostre bellezze!

- Subito, voltatevi! - ordinò donna Rosolina.

Don Pietro obbedí e, poco dopo, udí l'uscio della camera sbatacchiare furiosamente. Attraverso

quell'uscio, allora, egli le narrò ciò che gli era accaduto, pregandola di far presto.

Impossibile! Lei, donna Rosolina, uscir di casa a quell'ora? Impossibile! Caso eccezionale, sí. Ma

quel malato, era vecchio o giovane?

- Santo nome di Dio! - gemette don Pietro. - Alla vostra età, dite sul serio? Né vecchio, né

giovane: è moribondo. Sbrigatevi!

Ah sí! prima che donna Rosolina si risolvesse a licenziarsi dalla propria immagine nello specchio,

dovette passare piú di un'ora. Si presentò alla fine tutta aggeggiata, come una bertuccia vestita,

l'ampio scialle indiano con la frangia fino a terra, tenuto sul seno da un gran fermaglio d'oro smaltato

con pendagli a lagrimoni, grossi orecchini agli orecchi, la fronte simmetricamente virgolata da certi

mezzi riccetti unti non si sa di qual manteca, e tinte le guance e le labbra.

- Eccomi, eccomi...

E gli occhietti lupigni, guarniti di lunghissime ciglia, lappoleggiando, chiesero a don Pietro

ammirazione e gratitudine per quell'abbigliamento straordinariamente sollecito. (Ben altro un tempo

quegli occhi avevano chiesto a don Pietro: ma questi, Pietro di nome, pietra di fatto.)

Trovarono Venerina su tutte le furie. Quel giovine straniero s'era arrischiato a picchiare all'uscio

della camera, dove ella s'era chiusa, e chi sa che cosa le aveva bestemmiato nella sua lingua; poi se

n'era andato.

- Pazienza, pazienza fino a questa sera! - sbuffò don Paranza. - Ora scappo a Girgenti. Di', un po':

lui, il malato, s'è sentito?

Tutti e tre entrarono pian pianino per vederlo. Restarono, trattenendo il fiato, presso la soglia.

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Pareva morto.

- Oh Dio! - gemette donna Rosolina. - Io ho paura! Non ci resisto.

- Ve ne starete di là, tutt'e due, - disse don Pietro. - Di tanto in tanto vi affaccerete qua all'uscio,

per vedere come sta. Tirasse almeno avanti ancora un pajo di giorni! Ma mi par proprio ch'accenni

d'andarsene e non mi mancherebbe altro! Ah che bei guadagni, che bei guadagni mi dà la Norvegia!

Basta: lasciatemi scappare.

Donna Rosolina lo acchiappò per un braccio.

- Dite un po': è turco o cristiano?

- Turco, turco: non si confessa! - rispose in fretta don Pietro.

- Mamma mia! Scomunicato! - esclamò la zitellona, segnandosi con una mano e tendendo l'altra

per portarsi via Venerina fuori di quella camera. - Sempre cosí! - sospirò poi, nella camera della

nipote, alludendo a don Pietro che già se n'era andato. - Sempre con la testa tra le nuvole! Ah, se

avesse avuto giudizio...

E qui donna Rosolina, che toglieva ogni volta pretesto dalle continue disgrazie di don Paranza per

parlare con mille reticenze e sospiri del suo mancato matrimonio, anche in quest'ultima volle vedere

la mano di Dio, il castigo, il castigo d'una colpa remota di lui: quella di non aver preso lei in moglie.

Venerina pareva attentissima alle parole della zia; pensava invece, assorta, con un senso di

pauroso smarrimento, a quell'infelice che moriva di là, solo, abbandonato, lontano dal suo paese,

dove forse moglie e figliuoli lo aspettavano. E a un certo punto propose alla zia d'andare a vedere

come stesse.

Andarono strette l'una all'altra, in punta di piedi, e si fermarono poco oltre la soglia della camera,

sporgendo il capo a guardare sul letto.

L'infermo teneva gli occhi chiusi: pareva un Cristo di cera, deposto dalla croce. Dormiva o era

morto? Si fecero un po' piú avanti; ma al lieve rumore, l'infermo schiuse gli occhi, quei grandi occhi

celesti, attoniti. Le due donne si strinsero vieppiú tra loro; poi, vedendogli sollevare una mano e far

cenno di parlare, scapparono via con un grido, a richiudersi in cucina.

Sul tardi, sentendo il campanello della porta, corsero ad aprire; ma, invece di don Pietro, si videro

davanti quel giovine straniero della mattina. La zitellona corse ranca ranca a rintanarsi di nuovo; ma

Venerina, coraggiosamente, lo accompagnò nella camera dell'infermo già quasi al bujo, accese una

candela e la porse allo straniero, che la ringraziò chinando il capo con un mesto sorriso; poi stette a

guardare, afflitta: vide che egli si chinava su quel letto e posava lieve una mano su la fronte

dell'infermo, sentí che lo chiamava con dolcezza:

- Cleen... Cleen.

Ma era il nome, quello, o una parola affettuosa?

L'infermo guardava negli occhi il compagno, come se non lo riconoscesse; e allora ella vide il

corpo gigantesco di quel giovine marinajo sussultare, lo sentí piangere, curvo sul letto, e parlare

angosciosamente, tra il pianto, in una lingua ignota. Vennero anche a lei le lagrime agli occhi. Poi lo

straniero, voltandosi, le fece segno che voleva scrivere qualcosa. Ella chinò il capo per significargli

che aveva compreso e corse a prendergli l'occorrente. Quando egli ebbe finito, le consegnò la lettera

e una borsetta.

Venerina non comprese le parole ch'egli le disse, ma comprese bene dai gesti e dall'espressione

del volto, che le raccomandava il povero compagno. Lo vide poi chinarsi di nuovo sul letto a baciare

piú volte in fronte l'infermo, poi andar via in fretta con un fazzoletto su la bocca per soffocare i

singhiozzi irrompenti.

Donna Rosolina poco dopo, tutta impaurita, sporse il capo dall'uscio e vide Venerina che se ne

stava seduta, lí, come se nulla fosse, assorta, e con gli occhi lagrimosi.

- Ps, ps! - la chiamò, e col gesto le disse: - che fai? sei matta?

Venerina le mostrò la lettera e la borsetta, che teneva ancora in mano e le accennò d'entrare. Non

c'era piú da aver paura. Le narrò a bassa voce la scena commovente tra i due compagni, e la pregò

che sedesse anche lei a vegliare quel poveretto che moriva abbandonato.

Nel silenzio della sera sopravvenuta sonò a un tratto, acuto, lungo, straziante, il fischio d'una

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sirena, come un grido umano.

Venerina guardò la zia, poi l'infermo sul letto, avvolto nell'ombra, e disse piano:

- Se ne vanno. Lo salutano.

III

- Zio, come si dice bestia in francese?

Pietro Mílio, che stava a lavarsi in cucina, si voltò con la faccia grondante a guardare la nipote:

- Perché? Vorresti chiamarmi in francese? Si dice bête, figlia mia: bête bête! E dimmelo forte, sai!

Altro che bestia si meritava d'esser chiamato. Da circa due mesi teneva in casa e cibava come un

pollastro quel marinaio piovutogli dal cielo. A Girgenti - manco a dirlo! - non aveva potuto trovargli

posto all'ospedale. Poteva buttarlo in mezzo alla strada? Aveva scritto al Console di Palermo - ma sí!

- Il Console gli aveva risposto che desse ricetto e cura al marinajo dell'Hammerfest, fin tanto che

esso non fosse guarito, o - nel caso che fosse morto - gli desse sepoltura per bene, che delle spese poi

avrebbe avuto il rimborso.

Che genio, quel Console! Come se lui, Pietro Mílio, potesse anticipare spese e dare alloggio ai

malati. Come? dove? Per l'alloggio, sí: aveva ceduto all'infermo il suo letto, e lui a rompersi le ossa

sul divanaccio sgangherato che gli cacciava tra le costole le molle sconnesse, cosí che ogni notte

sognava di giacer lungo disteso sulle vette di una giogaja di monti. Ma per la cura, poteva andare dal

farmacista, dal droghiere, dal macellajo a prender roba a credito, dicendo che la Norvegia avrebbe

poi pagato? - Lí, boghe e cefaletti, il giorno, e gronghi la sera, quando ne pescava; e se no, niente!

Eppure quel povero diavolo era riuscito a non morire! Doveva essere a prova di bomba, se non ci

aveva potuto neanche il medico del paese, che aveva tanto buon cuore e tanta carità di prossimo da

ammazzare almeno un concittadino al giorno. Non diceva cosí, perché in fondo volesse male a quel

povero straniero; no, ma - porco diavolo! - esclamava don Pietro - chi piú poveretto di me?

Manco male che, fra pochi giorni, si sarebbe liberato. Il Norvegese, ch'egli chiamava L'arso (si

chiamava Lars Cleen), era già entrato in convalescenza, e di lí a una, a due settimane al piú, si

sarebbe potuto mettere in viaggio.

Ne era tempo, perché donna Rosolina non voleva piú saperne di far la guardia alla nipote:

protestava d'esser nubile anche lei e che non le pareva ben fatto che due donne stessero a tener

compagnia a quell'uomo ch'ella credeva veramente turco, e perciò fuori della grazia di Dio. Già si

era levato di letto, poteva muoversi e... e... non si sa mai!

Donna Rosolina non aggiungeva, in queste rimostranze a don Pietro, che il contegno di Venerina,

verso il convalescente, da un pezzo non le garbava piú.

Il convalescente pareva uscito dalla malattia mortale quasi di nuovo bambino. Il sorriso, lo

sguardo degli occhi limpidi avevano proprio una espressione infantile. Era ancora magrissimo; ma il

volto gli s'era rasserenato, la pelle gli si ricoloriva leggermente; e gli rispuntavano piú biondi, lievi,

aerei, i capelli che gli erano caduti durante la malattia.

Venerina, nel vederlo cosí timido, smarrito nella beatitudine di quel suo rinascere in un paese

ignoto, tra gente estranea, provava per lui una tenerezza quasi materna. Ma tutta la loro

conversazione si riduceva, per Venerina che non intendeva il francese e tanto meno il norvegese, a

una variazione di tono nel pronunziare il nome di lui, Cleen. Cosí, se egli si ricusava, arricciando il

naso, scotendo la testa, di prendere qualche medicina o qualche cibo, ella pronunziava quel Cleen

con voce cupa, d'impero, aggrottando le ciglia su gli occhi fermi, severi, come per dire: «Obbedisci:

non ammetto capricci!». - Se poi egli, in uno scatto di gioconda tenerezza, vedendosela passar da

presso, le tirava un po' la veste, col volto illuminato da un sorriso di gratitudine e di simpatia,

Venerina strascicava quel Cleen in una esclamazione di stupore e di rimprovero, come se volesse

dirgli: «Sei matto?».

Ma lo stupore era finto, il rimprovero dolce: espressi l'uno e l'altro per ammansare gli scrupoli di

donna Rosolina che, assistendo a quelle scene, sarebbe diventata di centomila colori, se non avesse

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avuto sulle magre gote quella patina di rossetto.

Anche lei, Venerina, si sentiva quasi rinata. Avvezza a star sempre sola, in quella casa povera e

nuda, senza cure intime, senza affetti vivi, da un pezzo s'era abbandonata a un'uggia invincibile, a un

tedio smanioso: il cuore le si era come isterilito, e la sterilità del sentimento si disfaceva in lei nella

pigrizia piú accidiosa. Lei stessa, ora, non avrebbe saputo spiegarsi perché le andasse tanto di

sfaccendare per casa, lietamente, di levarsi per tempo e d'acconciarsi.

- Miracoli! Miracoli! - esclamava don Paranza, rincasando la sera, con gli attrezzi da pesca, tutto

fragrante di mare. Trovava ogni cosa in ordine: la tavola apparecchiata, pronta la cena.

- Miracoli!

Entrava nella camera dell'infermo, fregandosi le mani:

- Bon suarre, mossiur Cleen, bon suarre!

- Buona sera, - rispondeva in italiano il convalescente, sorridendo, staccando e quasi incidendo

con la pronunzia le due parole.

- Come come? - esclamava allora don Pietro stupito, guardando Venerina che rideva, e poi donna

Rosolina che stava seria, seduta, intozzata su di sé, con le labbra strette e le palpebre gravi,

semichiuse.

A poco a poco Venerina era riuscita a insegnare allo straniero qualche frase italiana e un po' di

nomenclatura elementare, con un mezzo semplicissimo. Gl'indicava un oggetto nella camera e lo

costringeva a ripeterne piú e piú volte il nome, finché non lo pronunziasse correttamente: - bicchiere,

letto, seggiola, finestra... - E che risate quando egli sbagliava, risate che diventavano fragorose se

s'accorgeva che la zia zitellona, legnosa nella sua pudibonda severità, per non cedere al contagio del

riso si torturava le labbra, massime quando l'infermo accompagnava con gesti comicissimi quelle

parole staccate, telegrafando cosí a segni le parti sostanziali del discorso che gli mancavano. Ma

presto egli poté anche dire: aprire, chiudere finestra, prendere bicchiere, e anche voglio andare

letto. Se non che, imparato quel voglio, cominciò a farne frequentissimo uso, e l'impegno che

metteva nel superare lo stento della pronunzia, dava un piú reciso tono di comando alla parola.

Venerina ne rideva, ma pensò d'attenuare quel tono insegnando all'infermo di premettere ogni volta a

quel voglio un prego. Prego, sí, ma poiché egli non riusciva a pronunziare correttamente questa

nuova parola, quando voleva qualche cosa, aspettava che Venerina si voltasse a guardarlo, e allora

congiungeva le mani in segno di preghiera e quindi spiccicava piú che mai imperioso e reciso il suo

voglio.

La premessa di quel segno di preghiera era assolutamente necessaria ogni qual volta egli voleva

presso di sé lo stipetto che il compagno gli aveva portato dal piroscafo, il giorno in cui ne era sceso

moribondo. Venerina glielo porgeva ogni volta di malanimo e senza il garbo consueto. Quella

cassetta rappresentava per lui la patria lontana: c'erano tutti i suoi ricordi e tante lettere e alcuni

ritratti. Guardandolo obliquamente, mentr'egli rileggeva qualcuna di quelle lettere, o se ne stava

astratto, con gli occhi invagati, Venerina lo vedeva quasi sotto un altro aspetto, come se fosse

avvolto in un'altra aria che lo allontanasse da lei all'improvviso, e notava tante particolarità della

diversa natura di lui, non mai prima notate. Quella cassetta, in cui egli frugava con tanta insistenza,

le richiamava davanti agli occhi l'immagine di quell'altro marinajo che lo aveva sollevato dalla

barella come un bambino per deporlo sul letto, lí, e poi se n'era andato, piangendo. Ed ella si era

presa tanta cura di quell'abbandonato! Chi era egli? Donde veniva? Quali ricordi custodiva con tanto

amore in quella cassetta? Venerina scrollava a un tratto le spalle con un moto di dispetto, dicendo a

se stessa: - Che me n'importa? - e lo lasciava lí solo nella camera, a pascersi di quei suoi segreti

ricordi, e si tirava con sé la zia, che la seguiva stordita di quella risoluzione repentina:

- Che facciamo?

- Nulla. Ce n'andiamo!

Venerina ricadeva d'un tratto, in quei momenti, nel suo tedio neghittoso, inasprito da una sorda

stizza o aggravato da una pena d'indefiniti desiderii: la casa le appariva vuota di nuovo, vuota la vita,

e sbuffava: non voleva far nulla, piú nulla!

Page 14: Luigi Pirandello, Novelle per un anno - Lute Milazzo

14

IV

Lars Cleen, appena solo, si sentiva come caduto in un altro mondo, piú luminoso, di cui non

conosceva che tre abitanti soli e una casa, anzi una camera. Non si rendeva ragione di quei

dispettucci di Venerina. Non si rendeva ragione di nulla. Tendeva l'orecchio ai rumori della via, si

sforzava d'intendere; ma nessuna sensazione della vita di fuori riusciva a destare in lui un'immagine

precisa. La campana... sí, ma egli vedeva col pensiero una chiesa del suo remoto paese! Un fischio di

sirena, ed egli vedeva l'Hammerfest perduto nei mari lontani. E com'era restato una sera, nel silenzio,

alla vista della luna, nel vano della finestra! Era pure, era pure la stessa luna ch'egli tante volte in

patria, per mare, aveva veduta; ma gli era parso che lí, in quel paese ignoto, ella parlasse ai tetti di

quelle case, al campanile di quella chiesa, quasi un altro linguaggio di luce, e l'aveva guardata a

lungo, con un senso di sgomento angoscioso, sentendo piú acuta che mai la pena dell'abbandono, il

proprio isolamento.

Viveva nel vago, nell'indefinito, come in una sfera vaporosa di sogni. Un giorno, finalmente,

s'accorse che sul coperchio della cassetta erano scritte col gesso tre parole: - bet! bet! bet! - cosí.

Domandò col gesto a Venerina che cosa volessero significare, e Venerina, pronta:

- Tu, bet!

Lars Cleen restò a guardarla con gli occhi chiari ridenti e smarriti. Non comprendeva, o meglio

non sapeva credere che... No, no - e con le mani le fece segno che avesse pietà di lui che tra poco

doveva partire. Venerina scrollò le spalle e lo salutò con la mano.

- Buon viaggio!

- No, no, - fece di nuovo il Cleen col capo, e la chiamò a sé col gesto: aprí la cassetta e ne trasse

una veduta fotografica di Trondhjem. Vi si vedeva, tra gli alberi, la maestosa cattedrale marmorea

sovrastante tutti gli altri edifici, col camposanto prossimo, ove i fedeli superstiti si recano ogni

sabato a ornare di fiori le tombe dei loro morti.

Ella non riuscí a comprendere perché le mostrasse quella veduta.

- Ma mère, ici, - s'affannava a dirle il Cleen, indicandole col dito il cimitero, lí, all'ombra del

magnifico tempio. Anche lui, come don Pietro, non era molto padrone della lingua francese, che del

resto non serviva affatto con Venerina. Trasse allora dalla cassetta un'altra fotografia: il ritratto d'una

giovine. Subito Venerina vi fissò gli occhi, impallidendo. Ma il Cleen si pose accanto al volto il

ritratto, per farle vedere che quella giovine gli somigliava.

- Ma soeur, - aggiunse.

Questa volta Venerina comprese e s'ilarò tutta. Se poi quella sorella fosse fidanzata o già moglie

del giovane marinajo che aveva recato la cassetta, Venerina non si curò piú che tanto d'indovinare.

Le bastò sapere che L'arso era celibe. Sí: ma non doveva ripartire fra pochi giorni? Era già in grado

di uscir di casa e di recarsi a piedi, sul tramonto, al Molo Vecchio.

Una frotta di monellacci scalzi, stracciati, alcuni ignudi nati, abbrustiti dal sole, seguiva ogni volta

Lars Cleen in quelle sue passeggiate: lo spiavano, scambiandosi ad alta voce osservazioni e

commenti che presto si mutavano in lazzi. Egli, stordito, abbagliato nell'aria che grillava di luce, si

voltava ora verso l'uno ora verso l'altro, sorridendo; talora gli toccava di minacciare col bastone i piú

insolenti; poi sedeva sul muricciuolo della banchina a guardare i bastimenti ormeggiati e il mare

infiammato dal riflesso delle nuvole vespertine. La gente si fermava a osservarlo, mentre egli se ne

stava in quell'atteggiamento, tra smarrito ed estatico: lo guardava, come si guarda una gru o una

cicogna stanca e sperduta, discesa dall'alto dei cieli. Il berretto di pelo, il pallore del volto e l'estrema

biondezza della barba e dei capelli attiravano specialmente la curiosità. Egli alla fine se ne stancava e

piano piano rincasava, triste.

Dalla lettera lasciatagli dal compagno, insieme col denaro, sapeva che l'Hammerfest dopo il

viaggio in America, sarebbe ritornato a Porto Empedocle, fra sei mesi. Ne erano trascorsi già tre.

Volentieri si sarebbe rimbarcato sul suo piroscafo di ritorno, volentieri si sarebbe riunito ai

compagni; ma come trattenersi tre altri mesi, cosí, senza piú alcuna ragione, nella casa che

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l'ospitava? Il Mílio aveva già scritto al console in Palermo per fargli ottenere gratuitamente il

rimpatrio. Che fare? partire o attendere? - Decise di consigliarsi col Mílio stesso, una di quelle sere,

al ritorno dalla pesca dei gronghi.

Venerina assistette, dopo cena, a quel dialogo che voleva essere in francese tra lo zio e lo

straniero. Dialogo? Si sarebbe detto diverbio piuttosto, a giudicare dalla violenza dei gesti ripetuti

con esasperazione dall'uno e dall'altro. Venerina, sospesa, costernata, a un certo punto, nel vedersi

additata rabbiosamente dallo zio, diventò di bragia. Eh che! Parlavano dunque di lei? a quel modo?

Vergogna, ansia, dispetto le fecero a un tratto tale impeto dentro, che appena il Cleen si ritirò, saltò

sú a domandare allo zio:

- Che c'entro io? Che avete detto di me?

- Di te? Niente, - rispose don Pietro, rosso e sbuffante, dopo quella terribile fatica.

- Non è vero! Avete parlato di me. Ho capito benissimo. E tu ti sei arrabbiato!

Don Pietro non si raccapezzava ancora.

- Che t'ha detto? Che t'ha inventato? - incalzò Venerina, tutta accesa. - Vuole andarsene? E tu

lascialo andare! Non me n'importa nulla, sai, proprio nulla.

Don Paranza restò a guardare ancora un pezzo la nipote, stordito, con la bocca aperta.

- Sei matta? O io...

All'improvviso si diede a girare per la stanza come se cercasse la via per scappare e, agitando per

aria le manacce spalmate:

- Che asino! - gridò. - Che imbecille! Oh somarone! A settantotto anni! Mamma mia! Mamma

mia!

Si voltò di scatto a guardare Venerina, mettendosi le mani tra i capelli.

- Dimmi un po', per questo m'hai domandato... per dirlo a lui in francese, ch'ero bestia?

- No, non per te... Che hai capito?

Di nuovo don Pietro, con la testa tra le mani, si mise ad andare in qua e in là per la stanza.

- Bestione, somarone, e dico poco! Ma quella bertuccia di tua zia che ha fatto qui? ha dormito?

Porco diavolo! E tu? e questo pezzo di... Aspetta, aspetta che te l'aggiusto io, ora stesso!

E in cosí dire si lanciò verso l'uscio della camera, dove s'era chiuso il Cleen. Venerina gli si parò

subito davanti.

- No! Che fai, zio? Ti giuro che egli non sa nulla! Ti giuro che tra me e lui non c'è stato mai nulla!

Non hai inteso che se ne vuole andare?

Don Pietro restò come sospeso. Non capiva piú nulla!

- Chi? lui? Se ne vuole andare? Chi te l'ha detto? Ma al contrario! al contrario! Non se ne vuole

andare! M'hai preso per bestia sul serio? Io, io te lo caccio via però, ora stesso!

Venerina lo trattenne di nuovo, scoppiando questa volta in singhiozzi e buttandoglisi sul petto.

Don Paranza sentí mancarsi le gambe. Con la mano rimasta libera accennò il segno della croce.

- In nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, - sospirò. - Vieni qua, vieni qua, figlia

mia! Andiamocene nella tua camera e ragioniamo con calma. Ci perdo la testa!

La trasse con sé nell'altra camera, la fece sedere, le porse il fazzoletto perché si asciugasse gli

occhi e cominciò a interrogarla paternamente.

Frattanto Lars Cleen, che aveva udito dalla sua camera il diverbio tra lo zio e la nipote senza

comprenderne nulla, apriva pian piano l'uscio e sporgeva il capo a guardare, col lume in mano, nella

saletta buja. Che era avvenuto? Intese solo i singhiozzi di Venerina, di là, e se ne turbò

profondamente. Perché quella lite? E perché piangeva ella cosí? Il Mílio gli aveva detto che non era

possibile che egli stesse nella casa piú oltre: non c'era posto per lui; e poi quella vecchia matta della

zia s'era stancata; e la nipote non poteva restar sola con un estraneo in casa. Difficoltà, ch'egli non

riusciva a penetrare. Mah! tant'altre cose, da che usciva di casa, gli sembravano strane in quel paese.

Bisognava partire, senz'aspettare il piroscafo: questo era certo. E avrebbe perduto il posto di

nostromo. Partire! Piangeva per questo la sua giovane amica infermiera?

Fino a notte avanzata Lars Cleen stette lí, seduto sul letto, a pensare, a fantasticare. Gli pareva di

vedere la sorella lontana; la vedeva. Ah, lei sola al mondo gli voleva bene ormai. E anche quest'altra

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fanciulla qua, possibile?

- Questa? E tu vorresti?

Chi sa! Ogni qual volta ritornava in patria, la sorella gli ripeteva che volentieri avrebbe preferito

di non rivederlo mai piú, mai piú in vita, se egli, in uno di quei suoi viaggi lontani, si fosse

innamorato di una buona ragazza e la avesse sposata. Tanto strazio le dava il vederlo cosí, svogliato

della vita e rimesso, anzi abbandonato alla discrezione della sorte, esposto a tutte le vicende, pronto

alle piú rischiose, senz'alcun ritegno d'affetto per sé, come quella volta che, traversando l'Oceano in

tempesta, s'era buttato dall'Hammerfest per salvare un compagno! Sí, era vero; e senza alcun merito;

perché la sua vita, per lui, non aveva piú prezzo.

Ma lí, ora? possibile? Questo paesello di mare, in Sicilia, cosí lontano lontano, era dunque la meta

segnata dalla sorte alla sua vita? era egli giunto, senz'alcun sospetto, al suo destino? Per questo s'era

ammalato fino a toccare la soglia della morte? per riprendere lí la via d'una nuova esistenza? Chi sa!

- E tu gli vuoi bene? - concludeva intanto di là don Pietro, dopo avere strappato a Venerina, che

non riusciva a quietarsi, le scarse, incerte notizie che ella aveva dello straniero e la confessione di

quegli ingenui passatempi, donde era nato quell'amore fino a quel punto sospeso in aria, come un

uccello sulle ali.

Venerina s'era nascosto il volto con le mani.

- Gli vuoi bene? - ripeté don Pietro. - Ci vuol tanto a dir di sí?

- Io non lo so, - rispose Venerina, tra due singhiozzi.

- E invece lo so io! - borbottò don Paranza, levandosi. - Va', va' a letto ora, e procura di dormire.

Domani, se mai... Ma guarda un po' che nuova professione mi tocca adesso d'esercitare!

E, scotendo il capo lanoso, andò a buttarsi sul divanaccio sgangherato.

Rimasta sola, Venerina, tutta infocata in volto, con gli occhi sfavillanti, sorrise; poi si nascose di

nuovo il volto con le mani; se lo tenne stretto, stretto, cosí, e andò a buttarsi sul letto, vestita.

Non lo sapeva davvero, se lo amava. Ma, intanto, baciava e stringeva il guanciale del lettuccio.

Stordita da quella scena imprevista, a cui s'era lasciata tirare, per un malinteso, dal suo amor proprio

ferito, non riusciva ancor bene a veder chiaro in sé, in ciò che era avvenuto. Un senso scottante di

vergogna le impediva di rallegrarsi di quella spiegazione con lo zio, forse desiderata inconsciamente

dal suo cuore, dopo tanti mesi di sospensione su un pensiero, su un sentimento, che non riuscivano

quasi a posarsi sulla realtà, ad affermarsi in qualche modo. Ora aveva detto di sí allo zio, e certo

avrebbe sentito un gran dolore, se il Cleen se ne fosse andato; sentiva orrore del tedio mortale in cui

sarebbe ricaduta, sola sola, nella casa vuota e silenziosa; era perciò contenta che lo zio fosse ora con

lei, di là, a pensare, a escogitare il modo di vincere, se fosse possibile, tutte le difficoltà che avevano

fino allora tenuto sospeso il suo sentimento.

Ma si potevano vincere quelle difficoltà? Il Cleen, pur lí presente, le pareva tanto, tanto lontano:

parlava una lingua ch'ella non intendeva; aveva nel cuore, negli occhi, un mondo remoto, ch'ella non

indovinava neppure. Come fermarlo lí? Era possibile? E poteva egli aver l'intenzione di fermarsi, per

lei, tutta la vita, fuori di quel suo mondo? Voleva, sí, restare; ma fino all'arrivo del piroscafo

dall'America. Intanto, certo, in patria nessun affetto vivo lo attirava; perché, altrimenti, scampato per

miracolo dalla morte, avrebbe pensato subito a rimpatriare. Se voleva aspettare, era segno che anche

lui doveva sentire... chi sa! forse lo stesso affetto per lei, cosí sospeso e come smarrito nell'incertezza

della sorte.

Fra altri pensieri si dibatteva don Pietro sul divanaccio che strideva con tutte le molle sconnesse.

Le molle stridevano e don Paranza sbuffava:

- Pazzi! Pazzi! Come hanno fatto a intendersi, se l'uno non sa una parola della lingua dell'altra?

Eppure, sissignori, si sono intesi! Miracoli della pazzia! Si amano, si amano, senza pensare che i

cefali, le boghe, i gronghi dello zio bestione non possono dal mare assumersi la responsabilità e

l'incarico di fare le spese del matrimonio e di mantenere una nuova famiglia. Meno male, che io...

Ma sí! Se padron Di Nica vorrà saperne! Domani, domani si vedrà... Dormiamo!

Faceva affaroni, col suo vaporetto, Agostino Di Nica. Tanto che aveva pensato di allargare il suo

commercio fino a Tunisi e Malta e, a tale scopo, aveva ordinato all'Arsenale di Palermo la

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costruzione di un altro vaporetto, un po' piú grande, che potesse servire anche al trasporto dei

passeggeri.

- Forse, - seguitava a pensare don Pietro, - un uomo come L'arso potrà servirgli. Conosce il

francese meglio di me e l'inglese benone. Lupo di mare, poi. O come interprete, o come marinajo,

purché me lo imbarchi e gli dia da vivere e da mantenere onestamente la famiglia... Intanto Venerina

gli insegnerà a parlare da cristiano. Pare che faccia miracoli, lei, con la sua scuola. Non posso

lasciarli piú soli. Domani me lo porto con me da padron Di Nica e, se la proposta è accettata, egli

aspetterà, se vuole, ma venendosene con me ogni giorno alla pesca; se non è accettata, bisogna che

parta subito subito, senza remissione. Intanto, dormiamo.

Ma che dormire! Pareva che le punte delle molle sconnesse fossero diventate piú irte quella notte,

compenetrate delle difficoltà, fra cui don Paranza si dibatteva.

V

Da circa quindici giorni Lars Cleen seguiva mattina e sera il Mílio alla pesca: usciva di casa con

lui, vi ritornava con lui.

Padron Di Nica, con molti se, con molti ma, aveva accettato la proposta presentatagli dal Mílio

come una vera fortuna per lui (e le conseguenze?). Il vaporetto nuovo sarebbe stato pronto fra un

mese al piú, e lui, il Cleen, vi si sarebbe imbarcato in qualità di interprete - a prova, per il primo

mese.

Venerina aveva fatto intender bene allo zio che il Cleen non s'era ancora spiegato con lei

chiaramente, e gli aveva perciò raccomandato di comportarsi con la massima delicatezza, tirandolo

prima con ogni circospezione a parlare, a spiegarsi. Il povero don Paranza, sbuffando piú che mai,

nel cresciuto impiccio, si era recato dapprima solo dal Di Nica e, ottenuto il posto, era ritornato a

casa a offrirlo al Cleen, soggiungendogli nel suo barbaro francese che, se voleva restare, come gliene

aveva espresso il desiderio, se voleva trattenersi fino al ritorno dell'Hammerfest, doveva essere a

questo patto: che lavorasse; il posto, ecco, glielo aveva procurato lui: quando poi il piroscafo sarebbe

arrivato dall'America, ne avrebbe avuti due, di posti; e allora, a sua scelta: o questo o quello, quale

gli sarebbe convenuto di piú. Intanto, nell'attesa, bisognava che andasse con lui ogni giorno alla

pesca.

Alla proposta, il Cleen era rimasto perplesso. Gli era apparso chiaro che la scena di quella sera tra

zio e nipote era avvenuta proprio per la sua prossima partenza, e che era stato lui perciò la cagione

del pianto della sua cara infermiera. Accettare, dunque, e compromettersi sarebbe stato tutt'uno. Ma

come rifiutare quel benefizio, dopo le tante cure e le premure affettuose di lei? quel benefizio offerto

in quel modo, che non lo legava ancora per nulla, che lo lasciava libero di scegliere, libero di

mostrarsi, o no, grato di quanto gli era stato fatto?

Ora, ogni mattina, levandosi dal divanaccio con le ossa indolenzite, don Pietro si esortava cosí:

- Coraggio, don Paranza! alla doppia pesca!

E preparava gli attrezzi: le due canne con le lenze, una per sé, l'altra per L'arso, i barattoli

dell'esca, gli ami di ricambio: ecco, sí, per i pesci era ben munito; ma dove trovare l'occorrente per

l'altra pesca: quella al marito per la nipote? chi glielo dava l'amo per tirarlo a parlare?

Si fermava in mezzo alla stanza, con le labbra strette, gli occhi sbarrati; poi scoteva in aria le mani

ed esclamava:

- L'amo francese!

Eh già! Perché gli toccava per giunta di muovergliene il discorso in francese, quando non avrebbe

saputo dirglielo neppure in siciliano.

- Monsiurre, ma nièsse...

E poi? Poteva spiattellargli chiaro e tondo che quella scioccona s'era innamorata o incapricciata di

lui?

Dalla Norvegia o dal console di Palermo avrebbe avuto il rimborso delle spese, probabilmente;

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ma di quest'altro guajo qui chi lo avrebbe ricompensato?

- Lui, lui stesso, porco diavolo! M'ha attizzato il fuoco in casa? Si scotti, si bruci!

Quell'aria da mammalucco, da innocente piovuto dal cielo, gliel'avrebbe fatta smettere lui. E lí, su

la scogliera del porto, mentre riforniva gli ami di nuova esca, si voltava a guardare L'arso, che se ne

stava seduto su un masso poco discosto, diritto su la vita, con gli occhi chiari fissi al sughero della

lenza che galleggiava su l'aspro azzurro dell'acqua luccicante d'aguzzi tremolii.

- Ohé, Mossiur Cleen, ohé!

Guardare, sí, lo guardava; ma lo vedeva poi davvero quel sughero? Pareva allocchito.

Il Cleen, all'esclamazione, si riscoteva come da un sogno, e gli sorrideva; poi tirava pian piano

dall'acqua la lenza, credendo che il Mílio lo avesse richiamato per questo, e riforniva anche lui gli

ami chi sa da quanto tempo disarmati.

Ah, cosí, la pesca andava benone! Anch'egli, don Paranza, pensando, escogitando il modo e la

maniera d'entrare a parlargli di quella faccenda cosí difficile e delicata, si lasciava intanto mangiar

l'esca dai pesci: si distraeva, non vedeva piú il sughero, non vedeva piú il mare, e solo rientrava in sé,

quando l'acqua tra gli scogli vicini dava un piú forte risucchio. Stizzito, tirava allora la lenza, e gli

veniva la tentazione di sbatterla in faccia a quell'ingrato. Ma piú ira gli suscitava l'esclamazione che

il Cleen aveva imparata da lui e ripeteva spesso, sorridendo, nel sollevare a sua volta la canna.

- Porco diavolo!

Don Paranza, dimenticandosi in quei momenti di parlargli in francese, prorompeva:

- Ma porco diavolo lo dico sul serio, io! Tu ridi, minchione! Che te n'importa?

No, no, cosí non poteva durare: non conchiudeva nulla, non solo, ma si guastava anche il fegato.

- Se la sbrighino loro, se vogliono!

E lo disse una di quelle sere alla nipote, rincasando dalla pesca.

Non s'aspettava che Venerina dovesse accogliere l'irosa dichiarazione della insipienza di lui con

uno scoppio di risa, tutta rossa e raggiante in viso.

- Povero zio!

- Ridi?

- Ma sí!

- Fatto?

Venerina si nascose il volto con le mani, accennando piú volte di sí col capo, vivacemente. Don

Paranza, pur contento in cuor suo, alleggerito da quel peso quando meno se l'aspettava, montò su le

furie.

- Come! E non me ne dici niente? E mi tieni lí per tanti giorni alla tortura? E lui, anche lui, muto

come un pesce!

Venerina sollevò la faccia dalle mani:

- Non t'ha saputo dir nulla, neanche oggi?

- Pesce, ti dico! Baccalà! - gridò don Paranza al colmo della stizza. - Ho il fegato grosso cosí,

dalla bile di tutti questi giorni!

- Si sarà vergognato - disse Venerina, cercando di scusarlo.

- Vergognato! Un uomo! - esclamò don Pietro. - Ha fatto ridere alle mie spalle tutti i pesci del

mare, ha fatto ridere! Dov'è? Chiamalo; fammelo dire questa sera stessa: non basta che l'abbia detto a

te!

- Ma senza codesti occhiacci, - gli raccomandò Venerina, sorridendo.

Don Paranza si placò, scosse il testone lanoso e borbottò nella barba:

- Sono proprio... già tu lo sai, meglio di me. Di' un po', come hai fatto, senza francese?

Venerina arrossí, sollevò appena le spalle, e i neri occhioni le sfavillarono.

- Cosí, - disse, con ingenua malizia.

- E quando?

- Oggi stesso, quando siete tornati a mezzogiorno, dopo il desinare. Egli mi prese una mano... io...

- Basta, basta! - brontolò don Paranza, che in vita sua non aveva mai fatto all'amore. - È pronta la

cena? Ora gli parlo io.

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Venerina gli si raccomandò di nuovo con gli occhi, e scappò via. Don Pietro entrò nella camera

del Cleen.

Questi se ne stava con la fronte appoggiata ai vetri del balcone, a guardar fuori; ma non vedeva

nulla. La piazzetta lí davanti, a quell'ora, era deserta e buja. I lampioncini a petrolio quella sera

riposavano, perché della illuminazione del borgo era incaricata la luna. Sentendo aprir l'uscio, il

Cleen si voltò di scatto. Chi sa a che cosa stava pensando. Don Paranza si piantò in mezzo alla

camera con le gambe aperte, tentennando il capo: avrebbe voluto fargli un predicozzo da vecchio zio

brontolone; ma sentí subito la difficoltà d'un discorso in francese consentaneo all'aria burbera a cui

già aveva composta la faccia e l'atteggiamento preso. Frenò a stento un solennissimo sbuffo

d'impazienza e cominciò:

- Mossiur Cleen, ma nièsse m'a dit...

Il Cleen, sorrise, timido, smarrito, e chinò leggermente il capo piú volte.

- Oui? - riprese don Paranza. - E va bene!

Tese gl'indici delle mani e li accostò ripetutamente l'uno all'altro, per significare: «Marito e

moglie, uniti...»

- Vous et ma nièsse... mariage... oui?

- Si vous voulez, - rispose il Cleen aprendo le mani, come se non fosse ben certo del consenso.

- Oh, per me! - scappò a don Pietro. Si riprese subito. - Très-heureux, mossiur Cleen, très-

heureux. C'est fait! Donnez-moi la main...

Si strinsero la mano. E cosí il matrimonio fu concluso. Ma il Cleen rimase stordito. Sorrideva, sí,

d'un timido sorriso, nell'impaccio della strana situazione in cui s'era cacciato senza una volontà ben

definita. Gli piaceva, sí, quella bruna siciliana, cosí vivace, con quegli occhi di sole; le era gratissimo

dell'amorosa assistenza: le doveva la vita, sí... ma, sua moglie, davvero? già concluso?

- Maintenant, - riprese don Paranza, nel suo francese, - je vous prie, mossiur Cleen: cherchez,

cherchez d'apprendre notre langue... je vous prie...

Venerina venne a picchiare all'uscio con le nocche delle dita.

- A cena!

Quella prima sera, a tavola, provarono tutti e tre un grandissimo imbarazzo. Il Cleen pareva

caduto dalle nuvole; Venerina, col volto in fiamme, confusa, non riusciva a guardare né il fidanzato

né lo zio. Gli occhi le si intorbidivano, incontrando quelli del Cleen e s'abbassavano subito.

Sorrideva, per rispondere al sorriso di lui non meno impacciato, ma volentieri sarebbe scappata a

chiudersi sola sola in camera, a buttarsi sul letto, per piangere... Sí. Senza saper perché.

«Se non è pazzia questa, non c'è piú pazzi al mondo!» pensava tra sé dal canto suo don Paranza,

aggrondato, tra le spine anche lui, ingozzando a stento la magra cena.

Ma poi, prima il Cleen, con qualche ritegno, lo pregò di tradurre per Venerina un pensiero gentile

che egli non avrebbe saputo manifestarle; quindi Venerina, timida e accesa, lo pregò di ringraziarlo e

di dirgli...

- Che cosa? - domandò don Paranza, sbarrando tanto d'occhi.

E poiché, dopo quel primo scambio di frasi, la conversazione tra i due fidanzati avrebbe voluto

continuare attraverso a lui, egli battendo le pugna su la tavola:

- Oh insomma! - esclamò. - Che figura ci faccio io? Ingegnatevi tra voi.

Si alzò, fra le risa dei due giovani, e andò a fumarsi la pipa sul divanaccio, brontolando il suo

porco diavolo nel barbone lanoso.

VI

Il vaporetto del Di Nica compiva, l'ultima notte di maggio, il suo terzo viaggio da Tunisi. Fra

un'ora, verso l'alba, il vaporetto sarebbe approdato al Molo Vecchio. A bordo dormivano tutti, tranne

il timoniere a poppa e il secondo di guardia sul ponte di comando.

Il Cleen aveva lasciato la sua cuccetta, e da un pezzo, sul cassero, se ne stava a mirare la luna

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declinante di tra le griselle del sartiame, che vibrava tutto alle scosse cadenzate della macchina.

Provava un senso d'opprimente angustia, lí, su quel guscio di noce, in quel mare chiuso, e anche... sí,

anche la luna gli pareva piú piccola, come se egli la guardasse dalla lontananza di quel suo esilio,

mentr'ella appariva grande là, su l'oceano, di tra le sartie dell'Hammerfest donde qualcuno dei suoi

compagni forse in quel punto la guardava. Lí egli con tutto il cuore era vicino. Chi era di guardia, a

quell'ora, su l'Hammerfest? Chiudeva gli occhi e li rivedeva a uno a uno, i suoi compagni: li vedeva

salire dai boccaporti; vedeva, vedeva col pensiero il suo piroscafo, come se egli proprio vi fosse;

bianco di salsedine, maestoso e tutto sonante. Udiva lo squillo della campana di bordo; respirava

l'odore particolare della sua antica cuccetta; vi si chiudeva a pensare, a fantasticare. Poi riapriva gli

occhi, e allora, non già quello che aveva veduto ricordando e fantasticando gli sembrava un sogno,

ma quel mare lí, quel cielo, quel vaporetto, e la sua presente vita. E una tristezza profonda lo

invadeva, uno smanioso avvilimento. I suoi nuovi compagni non lo amavano, non lo

comprendevano, né volevano comprenderlo; lo deridevano per il suo modo di pronunziare quelle

poche parole d'italiano che già era riuscito a imparare; e lui, per non far peggio, doveva costringere

la sua stizza segreta a sorridere di quel volgare e stupido dileggio. Mah! Pazienza L'avrebbero

smesso, col tempo. A poco a poco, egli, con l'uso continuo e l'ajuto di Venerina, avrebbe imparato a

parlare correttamente. Ormai, era detto: lí, in quel borgo, lí, su quel guscio e per quel mare, tutta la

vita.

Incerto come si sentiva ancora, nella nuova esistenza, non riusciva a immaginare nulla di preciso

per l'avvenire. Può crescere l'albero nell'aria, se ancora scarse e non ben ferme ha le radici nella

terra? Ma questo era certo, che lí ormai e per sempre la sorte lo aveva trapiantato.

L'Hammerfest, che doveva ritornare dall'America tra sei mesi, non era piú ritornato. La sorella, a

cui egli aveva scritto per darle notizia della sua malattia mortale e annunziarle il fidanzamento, gli

aveva risposto da Trondhjem con una lunga lettera piena d'angoscia e di lieta meraviglia, e

annunziato che l'Hammerfest a New York aveva ricevuto un contr'ordine ed era stato noleggiato per

un viaggio nell'India, come le aveva scritto il marito. Chi sa, dunque, se egli lo avrebbe piú riveduto.

E la sorella?

Si alzò, per sottrarsi all'oppressione di quei pensieri. Aggiornava. Le stelle erano morte nel cielo

crepuscolare; la luna smoriva a poco a poco. Ecco laggiú, ancora accesa, la lanterna verde del Molo.

Don Paranza e Venerina aspettavano l'arrivo del vaporetto, dalla banchina. Nei due giorni che il

Cleen stava a Porto Empedocle, don Pietro non si recava alla pesca; gli toccava di far la guardia ai

fidanzati, poiché quella scimunita di donna Rosolina non s'era voluta prestare neanche a questo:

prima perché nubile (e il suo pudore si sarebbe scottato al fuoco dell'amore di quei due), poi perché

quel forestiere le incuteva soggezione.

- Avete paura che vi mangi? - le gridava don Paranza. - Siete un mucchio d'ossa, volete capirlo?

Non voleva capirlo, donna Rosolina. E non s'era voluta disfare di nulla, in quella occasione,

neppur d'un anellino, fra tanti che ne aveva, per dimostrare in qualche modo il suo compiacimento

alla nipote..

- Poi, poi, - diceva.

Giacché pure, per forza, un giorno o l'altro, Venerina sarebbe stata l'erede di tutto quanto ella

possedeva: della casa, del poderetto lassú, sotto il Monte Cioccafa, degli ori e della mobilia e anche

di quelle otto coperte di lana che ella aveva intrecciate con le sue proprie mani, nella speranza non

ancora svanita di schiacciarvi sotto un povero marito.

Don Paranza era indignato di quella tirchieria; ma non voleva che Venerina mancasse di rispetto

alla zia.

- È sorella di tua madre! Io poi me ne debbo andare prima di lei, per legge di natura, e da me non

hai nulla da sperare. Lei ti resterà, e bisogna che te la tenga cara. Le farai fare un po' di corte da tuo

marito, e vedrai che gioverà. Del resto, per quel poco che il Signore può badare a uno sciocco come

me, stai sicura che ci ajuterà.

Erano venuti, infatti, dal consolato della Norvegia quei pochi quattrinucci per il mantenimento

prestato al Cleen. Aveva potuto cosí comperare alcuni modesti mobili, i piú indispensabili, per

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metter sú, alla meglio, la casa degli sposi. Erano anche arrivate da Trondhjem le carte del Cleen.

Venerina era cosí lieta e impaziente, quella mattina, di mostrare al fidanzato la loro nuova casetta

già messa in ordine! Ma, poco dopo, quando il vaporetto finalmente si fu ormeggiato nel Molo e il

Cleen poté scenderne, quella sua gioja fu improvvisamente turbata dalla stizza, udendo il saluto che

gli altri marinaj rivolgevano, quasi miagolando, al suo fidanzato:

- Bon cion! Bon cion!

- Brutti imbecilli! - disse tra i denti, voltandosi a fulminarli con gli occhi.

Il Cleen sorrideva, e Venerina si stizzí allora maggiormente.

- Ma non sei buono da rompere il grugno a qualcuno, di' un po'? Ti lasci canzonare cosí,

sorridendo, da questi mascalzoni?

- Eh via! - disse don Paranza. - Non vedi che scherzano, tra compagni?

- E io non voglio! - rimbeccò Venerina, accesa di sdegno. - Scherzino tra loro, e non

stupidamente, con un forestiere che non può loro rispondere per le rime.

Si sentiva, quasi quasi, messa in berlina anche lei. Il Cleen la guardava, e quegli sguardi fieri gli

parevano vampate di passione per lui: gli piaceva quello sdegno; ma ogni qualvolta gli veniva di

manifestarle ciò che sentiva o di confidarle qualcosa, gli pareva d'urtare contro un muro, e taceva e

sorrideva, senza intendere che quella bontà sorridente, in certi casi, non poteva piacere a Venerina.

Era colpa sua, intanto, se gli altri erano maleducati? se egli ancora non poteva uscire per le strade,

che subito una frotta di monellacci non lo attorniasse? Minacciava, e faceva peggio: quelli si

sbandavano con grida e lazzi e rumori sguajati.

Venerina n'era furibonda.

- Storpiane qualcuno! Da' una buona lezione! È possibile che tu debba diventare lo zimbello del

paese?

- Bei consigli! - sbuffava don Pietro. - Invece di raccomandargli la prudenza!

- Con questi cani? Il bastone ci vuole, il bastone!

- Smetteranno, smetteranno, sta' quieta, appena L'arso avrà imparato.

- Lars! - gridava Venerina, infuriandosi ora anche contro lo zio che chiamava a quel modo il

fidanzato, come tutto il paese.

- Ma se è lo stesso! - sospirava, seccato, don Pietro, alzando le spalle.

- Càmbiati codesto nome! - ripigliava Venerina, esasperata, rivolta al Cleen. - Bel piacere sentirsi

chiamare la moglie de L'arso!

- E non ti chiamano adesso la nipote di Don Paranza? che male c'è? Lui L'arso, e io, Paranza.

Allegramente!

Non rideva piú, ora, Venerina nell'insegnare al fidanzato la propria lingua: certe bili anzi ci

pigliava!

- Vedi? - gli diceva. - Si sa che ti burlano, se dici cosí! chiaro, chiaro! Ci vuol tanto, Maria

Santissima?

Il povero Cleen - che poteva fare? - sorrideva, mansueto, e si provava a pronunziar meglio. Ma

poi, dopo due giorni, doveva ripartire; e di quelle lezioni, cosí spesso interrotte, non riusciva a

profittare quanto Venerina avrebbe desiderato.

- Sei come l'uovo, caro mio!

Questi dispettucci parevano puerili a don Pietro, condannato a far la guardia, e se ne infastidiva.

La sua presenza intanto impacciava peggio il Cleen, che non arrivava ancora a comprendere perché

ci fosse bisogno di lui: non era egli il fidanzato di Venerina? non poteva uscir solo con lei a

passeggiare lassú, su l'altipiano, in campagna? Lo aveva proposto un giorno; ma dalla stessa

Venerina si era sentito domandare:

- Sei pazzo?

- Perché?

- Qua i fidanzati non si lasciano soli, neppure per un momento.

- Ci vuole il lampione! - sbuffava don Pietro.

E il Cleen s'avviliva di tutte queste costrizioni, che gli ammiserivano lo spirito e lo intontivano.

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Cominciava a sentire una sorda irritazione, un segreto rodío, nel vedersi trattato, in quel paese, e

considerato quasi come uno stupido, e temeva di istupidirsi davvero.

VII

Ma che non fosse stupido, lo sapeva bene padron Di Nica, dal modo con cui gli disimpegnava le

commissioni e gli affari con quei ladri agenti di Tunisi e di Malta. Non voleva dirlo - al solito - non

per negare il merito e la lode, ma per le conseguenze della lode, ecco.

Credette tuttavia di dimostrargli largamente quanto fosse contento di lui con l'accordargli dieci

giorni di licenza, nell'occasione del matrimonio.

- Pochi, dieci giorni? Ma bastano, caro mio! - disse a don Pietro che se ne mostrava malcontento.

- Vedrai, in dieci giorni, che bel figliuolo maschio ti mettono sú! Potrei al massimo concedere che,

rimbarcandosi, si porti la sposa a Tunisi e a Malta; per un viaggetto di nozze. È giovane serio: mi

fido. Ma non potrei di piú.

Spiritò alla proposta di don Pietro di far da testimonio nelle nozze.

- Non per quel buon giovine, capirai; ma se, Dio liberi, mi ci provassi una volta, non farei piú

altro in vita mia. Niente, niente, caro Pietro! Manderò alla sposa un regaluccio, in considerazione

della nostra antica amicizia, ma non lo dire a nessuno: mi raccomando!

Dal canto suo, la zia donna Rosolina si strizzò, si strizzò in petto il buon cuore che Dio le aveva

dato e venne fuori con un altro regaluccio a Venerina: un pajo d'orecchini a pendaglio, del mille e

cinque. Faceva però la finezza di offrire agli sposi, per quei dieci giorni di luna di miele, la sua

campagna sotto il Monte Cioccafa.

- Purché, la mobilia, mi raccomando!

Camminavano sole quelle quattro seggiole sgangherate, a chiamarle col frullo delle dita, dai tanti

tarli che le popolavano! E il tanfo di rinchiuso in quella decrepita stamberga, perduta tra gli alberi

lassú, era insopportabile.

Subito Venerina, arrivata in carrozza con lo sposo, e i due zii, dopo la celebrazione del

matrimonio, corse a spalancare tutti i balconi e le finestre.

- Le tende! I cortinaggi! - strillava donna Rosolina, provandosi a correr dietro l'impetuosa nipote.

- Lasci che prendano un po' d'aria! Guardi guardi come respirano! Ah che delizia!

- Sí, ma, con la luce, perdono il colore.

- Non sono di broccato, zia!

Quell'oretta passata lassú con gli sposi fu un vero supplizio per donna Rosolina. Soffrí nel veder

toccare questo o quell'oggetto, come se si fosse sentita strappare quei mezzi ricci unti di tintura che

le virgolavano la fronte; soffrí nel vedere entrare coi pesanti scarponi ferrati la famiglia del garzone

per porgere gli omaggi agli sposini.

Stava quel garzone a guardia del podere e abitava con la famiglia nel cortile acciottolato della

villa, con la cisterna in mezzo, in una stanzaccia buja: casa e stalla insieme. Perplesso, se avesse fatto

bene o male, recava in dono un paniere di frutta fresche.

Lars Cleen contemplava stupito quegli esseri umani che gli parevano d'un altro mondo, vestiti a

quel modo, cosí anneriti dal sole. Gli parevano siffattamente strani e diversi da lui, che si

meravigliava poi nel veder loro battere le pàlpebre, com'egli le batteva, e muovere le labbra, com'egli

le moveva. Ma che dicevano?

Sorridendo, la moglie del garzone annunziava che uno dei cinque figliuoli, il secondo, aveva le

febbri da due mesi e se ne stava lí, su lo strame, come un morticino.

- Non si riconosce piú, figlio mio!

Sorrideva, non perché non ne sentisse pena, ma per non mostrare la propria afflizione mentre i

padroni erano in festa.

- Verrò a vederlo, - le promise Venerina.

- Nonsí! Che dice, Voscenza? - esclamò angustiata la contadina. - Ci lasci stare, noi poveretti.

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Voscenza, goda. Che bello sposo! Ci crede che non ho il coraggio di guardarlo?

- E me? - domandò don Paranza. - Non sono bello io? E sono pure sposo, oh! di donna Rosolina.

Due coppie!

- Zitto là! - gridò questa, sentendosi tutta rimescolare. - Non voglio che si dicano neppure per

ischerzo, certe cose!

Venerina rideva come una matta.

- Sul serio! sul serio! - protestava don Pietro.

E insistette tanto su quel brutto scherzo, per far festa alla nipote, che la zitellona non volle

tornarsene sola con lui, in carrozza, al paese. Ordinò al garzone che montasse in cassetta, accanto al

cocchiere.

- Le male lingue... non si sa mai! con un mattaccio come voi.

- Ah, cara donna Rosolina! che ne volete piú di me, ormai? non posso farvi piú nulla io! - le disse

don Pietro in carrozza, di ritorno, scotendo la testa e soffiando per il naso un gran sospiro, come se si

sgonfiasse di tutta quell'allegria dimostrata alla nipote. - Vorrei aver fatto felice quella povera

figliuola!

Gli pareva di aver raggiunto ormai lo scopo della sua lunga, travagliata, scombinata esistenza.

Che gli restava piú da fare ormai? mettersi a disposizione della morte, con la coscienza tranquilla, sí,

ma angosciata. Altri quattro giorni di noja... e poi, lí.

La carrozza passava vicino al camposanto, aereo su l'altipiano che rosseggiava nei fuochi del

tramonto.

- Lí, e che ho concluso?

Donna Rosolina, accanto a lui, con le labbra appuntite e gli occhi fissi, acuti, si sforzava

d'immaginare che cosa facessero in quel momento gli sposi, rimasti soli, e dominava le smanie da

cui si sentiva prendere e che si traducevano in acre stizza contro quell'omaccio, ormai vecchio, che le

stava a fianco. Si voltò a guardarlo, lo vide con gli occhi chiusi: credette che dormisse.

- Sú, sú, a momenti siamo arrivati.

Don Pietro riaprí gli occhi rossi di pianto contenuto, e brontolò:

- Lo so, sposina. Penso ai gronghi di questa sera. Chi me li cucina?

VIII

Superato il primo impaccio, vivissimo, della improvvisa intrinsechezza piú che ogni altra intima,

con un uomo che le pareva ancora quasi piovuto dal cielo, Venerina prese a proteggere e a condurre

per mano, come un bambino, il marito incantato dagli spettacoli che gli offriva la campagna, quella

natura per lui cosí strana e quasi violenta.

Si fermava a contemplare a lungo certi tronchi enormi, stravolti, d'olivi, pieni di groppi, di sproni,

di giunture storpie, nodose, e non rifiniva d'esclamare:

- Il sole! il sole! - come se in quei tronchi vedesse viva, impressa, tutta quella cocente rabbia

solare, da cui si sentiva stordito e quasi ubriacato.

Lo vedeva da per tutto, il sole, e specialmente negli occhi e nelle labbra ardenti e succhiose di

Venerina, che rideva di quelle sue meraviglie e lo trascinava via, per mostrargli altre cose che le

parevano piú degne d'esser vedute: la grotta del Cioccafa, per esempio. Ma egli si arrestava, quando

ella se l'aspettava meno, davanti a certe cose per lei cosí comuni.

- Ebbene, fichi d'India. Che stai a guardare?

Proprio un fanciullo le pareva, e gli scoppiava a ridere in faccia, dopo averlo guardato un po', cosí

allocchito per niente! e lo scoteva, gli soffiava sugli occhi, per rompere quello stupore che talvolta lo

rendeva attonito.

- Svégliati! svégliati!

E allora egli sorrideva, l'abbracciava, e si lasciava condurre, abbandonato a lei, come un cieco.

Ricadeva sempre a parlarle, con le stesse frasi d'orrore, della famiglia del garzone, a cui entrambi

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avevano fatto la visita promessa. Non si poteva dar pace che quella gente abitasse lí, in quella

stanzaccia, ch'era divenuta quasi una grotta fumida e fetida, e invano Venerina gli ripeteva:

- Ma se togli loro l'asino, il porcellino e le galline dalla camera, non vi possono piú dormire in

pace. Devono star lí tutti insieme; fanno una famiglia sola.

- Orribile! orribile! - esclamava egli, agitando in aria le mani.

E quel povero ragazzo, lí, sul pagliericcio per terra, ingiallito dalle febbri continue e quasi

ischeletrito? Lo curavano con certi loro decotti infallibili. Sarebbe guarito, come erano guariti gli

altri. E, intanto, il poverino, che pena! se ne stava a rosicchiare, svogliato, un tozzo di pan nero.

- Non ci pensare! - gli diceva Venerina, che pur se ne affliggeva, ma non tanto, sapendo che la

povera gente vive cosí. Credeva che dovesse saperlo anche lui, il marito, e perciò, nel vederlo cosí

afflitto, sempre piú si raffermava nell'idea che egli fosse di una bontà non comune, quasi morbosa, e

questo le dispiaceva.

Passarono presto quei dieci giorni in campagna. Ritornati in paese, Venerina accompagnò fino al

vaporetto il marito, ma non volle imbarcarsi con lui per il viaggio di nozze concesso dal Di Nica.

Don Pietro ve la spingeva.

- Vedrai Tunisi, che quei cari nostri fratelli francesi, sempre aggraziati, ci hanno presa di furto.

Vedrai Malta, dove tuo zio bestione andò a rovinarsi. Magari potessi venirci anch'io! Vedresti di che

cuore mi schiaffeggerei, se m'incontrassi con me stesso per le vie de La Valletta, com'ero allora,

giovane patriota imbecille.

No, no; Venerina non volle saperne: il mare le faceva paura, e poi si vergognava, in mezzo a tutti

quegli uomini.

- E non sei con tuo marito? - insisteva don Pietro. -Tutte cosí, le nostre donne! Non debbono far

mai piacere ai loro uomini. Tu che ne dici? - domandava al Cleen.

Non diceva nulla, lui: guardava Venerina col desiderio di averla con sé, ma non voleva che ella

facesse un sacrifizio o che avesse veramente a soffrire del viaggio.

- Ho capito! - concluse don Paranza, - sei un gran babbalacchio!

Lars non comprese la parola siciliana dello zio, ma sorrise vedendo riderne tanto Venerina. E,

poco dopo, partí solo.

Appena si fu allontanato dal porto, dopo gli ultimi saluti col fazzoletto alla sposa che agitava il

suo dalla banchina del Molo e ormai quasi non si distingueva piú, egli provò istintivamente un gran

sollievo, che pur lo rese piú triste, a pensarci. S'accorse ora, lí, solo davanti allo spettacolo del mare,

d'aver sofferto in quei dieci giorni una grande oppressione nell'intimità pur tanto cara con la giovane

sposa. Ora poteva pensare liberamente, espandere la propria anima, senza dover sforzare il cervello a

indovinare, a intendere i pensieri, i sentimenti di quella creatura tanto diversa da lui e che tuttavia gli

apparteneva cosí intimamente.

Si confortò sperando che col tempo si sarebbe adattato alle nuove condizioni d'esistenza, si

sarebbe messo a pensare, a sentire come Venerina, o che questa, con l'affetto, con l'intimità sarebbe

riuscita a trovar la via fino a lui per non lasciarlo piú solo, cosí, in quell'esilio angoscioso della mente

e del cuore.

Venerina e lo zio, intanto, parlavano di lui nella nuova casetta, in cui anche don Pietro aveva

preso stanza.

- Sí, - diceva lei, sorridendo, - è proprio come tu hai detto!

- Babbalacchio? Minchione? - domandava don Paranza. - Va' là, è buono, è buono...

- E buono che significa, zio? - osservava, sospirando, Venerina.

- Quest'è vero! - riconosceva don Pietro. - Infatti, i birbaccioni, oggi, si chiamano uomini accorti,

e tuo zio per il primo li rispetta. Ma speriamo che l'aria del nostro mare, che dev'essere, sai, piú

salato di quello del suo paese, gli giovi. Ho gran paura anch'io, però, che somigli troppo a me, quanto

a giudizio.

Gli si era affezionato, lui, don Pietro, ma non si proponeva, neppure per curiosità, di cercar

d'indovinare com'egli la pensasse, né gli veniva in mente di consigliarlo a Venerina.

- Vedrai, - anzi le diceva, - vedrai che a poco a poco prenderà gli usi del nostro paese. Testa, ne

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25

ha.

Prima di partire, il Cleen aveva suggerito a Venerina di non lasciar andar piú il vecchio zio alla

pesca; ma don Pietro, non solo non volle saperne, ma anche s'arrabbiò:

- Non sapete piú che farvene adesso de' miei gronghi? Bene, bene. Me li mangerò io solo.

- Non è per questo, zio! - esclamò Venerina.

- E allora volete farmi morire? - riprese don Paranza. - C'era ai miei tempi un povero contadino

che aveva novantacinque anni, e ogni santa mattina saliva dalla campagna a Girgenti con una gran

cesta d'erbaggi su le spalle, e andava tutto il giorno in giro per venderli. Lo videro cosí vecchio, ne

sentirono pietà, pensarono di ricoverarlo all'ospedale e lo fecero morire dopo tre giorni. L'equilibrio,

cara mia! Toltagli la cesta dalle spalle, quel poveretto perdette l'equilibrio e morí. Cosí io, se mi

togliete la lenza. Gronghi han da essere: stasera e domani sera e fin che campo.

E se ne andava con gli attrezzi e col lanternino alla scogliera del porto.

Sola, Venerina, si metteva anche a pensare al marito lontano. Lo aspettava con ansia, sí, in quei

primi giorni; ma non sapeva neppur desiderarlo altrimenti che cosí; due giorni in casa e il resto della

settimana fuori; due giorni con lui, e il resto della settimana, sola, ad aspettare ogni sera che lo zio

tornasse dalla pesca; e poi, la cena; e poi, a letto, sí, sola. Si contentava? No. Neppure lei, cosí.

Troppo poco... E restava a lungo assorta in una segreta aspettazione, che pure le ispirava una certa

ambascia, quasi di sgomento.

- Quando?

IX

- Ih, che prescia! - esclamò don Paranza, appena si accorse delle prime nausee, dei primi capogiri.

- Lo previde quel boja d'Agostino! Di' un po', hai avuto paura che tuo zio non ci arrivasse a sentire la

bella musica del gattino?

- Zio! - gli gridò Venerina, offesa e sorridente.

Era felice: le era venuto il da fare, in quelle lunghe sere nella casa sola: cuffiette, bavaglini, fasce,

camicine... - e non le sere soltanto. Non ebbe piú tempo né voglia di curarsi di sé, tutta in pensiero

già per l'angioletto che sarebbe venuto, - dal cielo, zia Rosolina! dal cielo! - gridava alla zitellona

pudibonda, abbracciandola con furia e scombinandola tutta.

- E me lo terrà lei a battesimo, lei e zio Pietro!

Donna Rosolina apriva e chiudeva gli occhi, mandava giú saliva, con l'angoscia nel naso, fra le

strette di quella santa figliuola che pareva impazzita e non aveva nessun riguardo per tutti i suoi

cerotti.

- Piano piano, sí, volentieri. Purché gli mettiate un nome cristiano. Io non lo so ancora chiamare

tuo marito.

- Lo chiami L'arso, come lo chiamano tutti! - le rispondeva ridendo Venerina. - Non me n'importa

piú, adesso!

Non le importava piú di niente, ora: non s'acconciava neppure pochino, quand'egli doveva

arrivare.

- Rifatti un po' i capelli, almeno! - le consigliava donna Rosolina. - Non stai bene, cosí.

- Ormai! Chi n'ha avuto, n'ha avuto. Cosí, se mi vuole! E se non mi vuole, mi lasci in pace: tanto

meglio!

Era cosí esclusiva la gioja di quella sua nuova attesa, che il Cleen non si sentiva chiamato a

parteciparne, come di gioja anche sua: si sentiva lasciato da parte, e n'era lieto soltanto per lei, quasi

che il figlio nascituro non dovesse appartenere anche a lui, nato lí in quel paese non suo, da quella

madre che non si curava neppure di sapere quel che egli ne sentisse e ne pensasse.

Lei aveva già trovato il suo posto nella vita: aveva la sua casetta, il marito; tra breve avrebbe

avuto anche il figlio desiderato; e non pensava che lui, straniero, era sul principio di quella sua nuova

esistenza e aspettava che ella gli tendesse la mano per guidarlo. Noncurante, o ignara, lei lo lasciava

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lí, alla soglia, escluso, smarrito.

E ripartiva, e lontano, per quel mare, su quel guscio di noce, si sentiva sempre piú solo e piú

angosciato. I compagni, nel vederlo cosí triste, non lo deridevano piú come prima, è vero, ma non si

curavano di lui, proprio come se non ci fosse: nessuno gli domandava: - Che hai? - Era il forestiere.

Chi sa com'era fatto e perché era cosí!

Non se ne sarebbe afflitto tanto, egli, se anche a casa sua, come lí sul vaporetto, non si fosse

sentito estraneo. Casa sua? Questa, in quel borgo di Sicilia? No, no! Il cuore gli volava ancora

lontano, lassú, al paese natale, alla casa antica, ove sua madre era morta, ove abitava la sorella, che

forse in quel punto pensava a lui e forse lo credeva felice.

X

Una speranza ancora resisteva in lui, ultimo argine, ultimo riparo contro la malinconia che lo

invadeva e lo soffocava: che si vedesse, che si riconoscesse nel suo bambino appena nato e si

sentisse in lui, e con lui, lí, in quella terra d'esilio, meno solo, non piú solo.

Ma anche questa speranza gli venne subito meno, appena guardato il figlioletto, nato da due

giorni, durante la sua assenza. Somigliava tutto alla madre.

- Nero, nero, povero ninno mio! Sicilianaccio - gli disse Venerina dal letto, mentre egli lo

contemplava deluso, nella cuna. - Richiudi la cortina. Me lo farai svegliare. Non m'ha fatto dormire

tutta la notte, poverino: ha le dogliette. Ora riposa, e io vorrei profittarne.

Il Cleen baciò in fronte, commosso, la moglie; riaccostò gli scuri e uscí dalla camera in punta di

piedi. Appena solo, si premette le mani sul volto e soffocò il pianto irrompente.

Che sperava? Un segno, almeno un segno in quell'esseruccio, nel colore degli occhi, nella prima

peluria del capo, che lo palesasse suo, straniero anche lui, e che gli richiamasse il suo paese lontano.

Che sperava? Quand'anche, quand'anche, non sarebbe forse cresciuto lí, come tutti gli altri ragazzi

del paese, sotto quel sole cocente, con quelle abitudini di vita, alle quali egli si sentiva estraneo,

allevato quasi soltanto dalla madre e perciò con gli stessi pensieri, con gli stessi sentimenti di lei?

Che sperava? Straniero, straniero anche per suo figlio.

Ora, nei due giorni che passava in casa, cercava di nascondere il suo animo; né gli riusciva

difficile, poiché nessuno badava a lui: don Pietro se n'andava al solito alla pesca, e Venerina era tutta

intenta al bambino, che non gli lasciava neppur toccare:

- Me lo fai piangere... Non sai tenerlo! Via, via, esci un po' di casa. Che stai a guardarmi? Vedi

come mi sono ridotta? Sú, va' a fare una visita alla zia Rosolina, che non viene da tre giorni. Forse

vuol fatta davvero la corte, come dice zio Pietro.

Ci andò una volta il Cleen, per far piacere alla moglie, ma ebbe dalla zitellona tale accoglienza,

che giurò di non ritornarci piú, né solo né accompagnato.

- Solo, gnornò, - gli disse donna Rosolina, vergognosa e stizzita, con gli occhi bassi. - Mi

dispiace, ma debbo dirvelo. Nipote, capisco; siete mio nipote, ma la gente vi sa forestiere, con certi

costumi curiosi, e chi sa che cosa può sospettare. Solo, gnornò. Verrò io piú tardi a casa vostra, se

non volete venire qua con Venerina.

Si vide, cosí, messo alla porta, e non seppe, né poté riderne, come Venerina, quand'egli le

raccontò l'avventura. Ma se ella sapeva che quella vecchia era cosí fastidiosamente matta, perché

spingerlo a fargli fare quella ridicola figura? voleva forse ridere anche lei alle sue spalle?

- Non hai trovato ancora un amico? - gli domandava Venerina.

- No.

- È difficile, lo so: siamo orsi, caro mio! Tu poi sei cosí, ancora come una mosca senza capo. Non

ti vuoi svegliare? Va' a trovare lo zio, almeno: sta al porto. Tra voi uomini, v'intenderete. Io sono

donna, e non posso tenerti conversazione: ho tanto da fare!

Egli la guardava, la guardava, e gli veniva di domandarle: «Non mi ami piú?» - Venerina,

sentendo che non si moveva, alzava gli occhi dal cucito, lo vedeva con quell'aria smarrita e rompeva

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in una gaja risata:

- Che vuoi da me? Un omaccione tanto, che se ne sta in casa come un ragazzino, Dio benedetto!

Impara un po' a vivere come i nostri uomini: piú fuori che dentro. Non posso vederti cosí. Mi fai

rabbia e pena.

Fuori non lo vedeva. Ma dall'aria triste, con cui egli si disponeva a uscire, cacciato cosí di casa,

come un cane caduto in disgrazia, avrebbe potuto argomentare come egli si trascinasse per le vie del

paese, in cui la sorte lo aveva gettato, e che egli già odiava.

Non sapendo dove andare, si recava all'agenzia del Di Nica. Trovava ogni volta il vecchio dietro

gli scritturali, col collo allungato e gli occhiali su la punta del naso, per vedere che cosa essi

scrivessero nei registri. Non perché diffidasse, ma, chi sa! si fa presto, per una momentanea

distrazione, a scrivere una cifra per un'altra, a sbagliare una somma; e poi, per osservare la

calligrafia, ecco. La calligrafia era il suo debole: voleva i registri puliti. Intanto in quella stanzetta

umida e buja, a pian terreno, certi giorni, alle quattro, ci si vedeva a mala pena: si dovevano

accendere i lumi.

- È una vergogna, padron Di Nica! Con tanti bei denari...

- Quali denari? - domandava il Di Nica. - Se me li date voi! E poi, niente! Qua ho cominciato! qua

voglio finire.

Vedendo entrare il Cleen, si angustiava:

- E mo'? E mo'? E mo'?

Gli andava incontro, col capo reclinato indietro per poter guardare attraverso gli occhiali insellati

su la punta del naso, e diceva:

- Che cosa volete, figlio mio? Niente? E allora, prendetevi una seggiola, e sedete là, fuori della

porta.

Temeva che gli scritturali si distraessero davvero, e poi non voleva che colui sapesse gli affari

dell'agenzia prima del viaggio.

Il Cleen sedeva un po' lí, su la porta. Nessuno, dunque, lo voleva? Già egli non portava piú il

berretto di pelo; era vestito come tutti gli altri; eppure, ecco, la gente si voltava a osservarlo, quasi

che egli si tenesse esposto lí, davanti all'agenzia; e a un tratto si vedeva girar innanzi su le mani e sui

piedi, a ruota, un monellaccio, che per quella bravura da pagliaccetto gli chiedeva poi un soldo; e

tutti ridevano.

- Che c'è? che c'è? - gridava padron Di Nica, facendosi alla porta. - Teatrino? Marionette?

I monellacci si sbandavano urlando, fischiando.

- Caro mio, - diceva allora il Di Nica al Cleen, - voi lo capite, sono selvaggi. Andatevene; fatemi

questo piacere.

E il Cleen se ne andava. Anche quel vecchio, con la sua tirchieria diffidente, gli era venuto in

uggia. Si recava su la spiaggia, tutta ingombra di zolfo accatastato, e con un senso profondo

d'amarezza e di disgusto assisteva alla fatica bestiale di tutta quella gente, sotto la vampa del sole.

Perché, coi tesori che si ricavavano da quel traffico, non si pensava a far lavorare piú umanamente

tutti quegli infelici ridotti peggio delle bestie da soma? Perché non si pensava a costruire le banchine

su le due scogliere del nuovo porto, dove si ancoravano i vapori mercantili? Da quelle banchine non

si sarebbe fatto piú presto l'imbarco dello zolfo, coi carri o coi vagoncini?

- Non ti scappi mai di bocca una parola su questo argomento! - gli raccomandò don Paranza, una

sera, dopo cena. - Vuoi finire come Gesú Cristo? Tutti i ricchi del paese hanno interesse che le

banchine non siano costruite, perché sono i proprietarii delle spigonare, che portano lo zolfo dalla

spiaggia sui vapori. Bada, sai! Ti mettono in croce.

Sí, e intanto su la spiaggia nuda, tra i depositi di zolfo, correvano scoperte le fogne, che

appestavano il paese; e tutti si lamentavano e nessuno badava a provveder d'acqua sufficiente il

paese assetato. A che serviva tutto quel denaro con tanto accanimento guadagnato? Chi se ne

giovava? Tutti ricchi e tutti poveri! Non un teatro, né un luogo o un mezzo di onesto svago, dopo

tanto e cosí enorme lavoro. Appena sera, il paese pareva morto, vegliato da quei quattro lampioncini

a petrolio. E pareva che gli uomini, tra le brighe continue e le diffidenze di quella guerra di lucro,

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non avessero neanche tempo di badare all'amore, se le donne si mostravano cosí svogliate,

neghittose. Il marito era fatto per lavorare: la moglie per badare alla casa e far figliuoli.

- Qua? - pensava il Cleen, - qua, tutta la vita?

E si sentiva stringere la gola sempre piú da un nodo di pianto.

XI

- L'Hammerfest! arriva l'Hammerfest! - corse ad annunziare a Venerina don Paranza, tutto

ansante. - Ho l'avviso, guarda: arriverà oggi! E L'arso è partito. Porco diavolo! Chi sa se farà a

tempo a rivedere il cognato e gli amici!

Scappò dal Di Nica, con l'avviso in mano:

- Agostino, l'Hammerfest!

Il Di Nica lo guardò, come se lo credesse ammattito.

- Chi è? Non lo conosco!

- Il vapore di mio nipote.

- E che vuoi da me? Salutamelo!

Si mise a ridere, con gli occhi chiusi, d'una sua speciale risatina nel naso, sentendo le bestialità

che scappavano a don Pietro nel tumultuoso dispiacere che gli cagionava quel contrattempo.

- Se si potesse...

- Eh già! - gli rispose il Di Nica. - Detto fatto. Ora telegrafo a Tunisi, e lo faccio tornare a rotta di

collo. Non dubitare.

- Sempre grazioso sei stato! - gli gridò don Paranza, lasciandolo in asso. - Quanto ti voglio bene!

E tornò a casa, a pararsi, per la visita a bordo. Su l'Hammerfest, appena entrato in porto, fu accolto

con gran festa da tutti i marinai compagni del Cleen. Egli, che per gli affari del vice-consolato se la

sbrigava con quattro frasucce solite, dovette quella volta violentare orribilmente la sua immaginaria

conoscenza della lingua francese, per rispondere a tutte le domande che gli venivano rivolte a

tempesta sul Cleen; e ridusse in uno stato compassionevole la sua povera camicia inamidata, tanto

sudò per lo stento di far comprendere a quei diavoli che egli propriamente non era il suocero de

L'arso, perché la sposa di lui non era propriamente sua figlia, quantunque come figlia la avesse

allevata fin da bambina.

Non lo capirono, o non vollero capirlo. - Beau-père! Beau-père!

- E va bene! - esclamava don Paranza. - Sono diventato beau-père!

Non sarebbe stato niente se, in qualità di beau-père, non avessero voluto ubriacarlo, nonostante le

sue vivaci proteste:

- Je ne bois pas de vin.

Non era vino. Chi sa che diavolo gli avevano messo in corpo. Si sentiva avvampare. E che

enorme fatica per far entrare in testa a tutto l'equipaggio che voleva assolutamente conoscere la

sposina, che non era possibile, cosí, tutti insieme!

- Il solo beau-frère! il solo beau-frère! Dov'è? Vous seulement! Venez! venez!

E se lo condusse in casa. Il cognato non sapeva ancora della nascita del bambino: aveva recato

soltanto alla sposa alcuni doni, per incarico della moglie lontana. Era dispiacentissimo di non poter

riabbracciare Lars. Fra tre giorni l'Hammerfest doveva ripartire per Marsiglia.

Venerina non poté scambiare una parola con quel giovine dalla statura gigantesca, che le richiamò

vivissimo alla memoria il giorno che Lars era stato portato su la barella, moribondo, nell'altra casa

dello zio. Sí, a lui ella aveva recato l'occorrente per scrivere quella lettera all'abbandonato; da lui

aveva ricevuto la borsetta, e per averlo veduto piangere a quel modo ella s'era presa tanta cura del

povero infermo. E ora, ora Lars era suo marito, e quel colosso biondo e sorridente, chino su la culla,

suo parente, suo cognato. Volle che lo zio le ripetesse in siciliano ciò che egli diceva per il piccino.

- Dice che somiglia a te, - rispose don Paranza. - Ma non ci credere, sai: somiglia a me, invece.

Con quella porcheria che gli avevano cacciato nello stomaco, a bordo, se lo lasciò scappare, don

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Paranza. Non voleva mostrare il tenerissimo affetto che gli era nato per quel bimbo, ch'egli chiamava

gattino. Venerina si mise a ridere.

- Zio, e che dice adesso? - gli domandò poco dopo, sentendo parlare lo straniero, suo cognato.

- Abbi pazienza, figlia mia! - sbuffò don Paranza. -Non posso attendere a tutt'e due... Ah, Oui…

L'arso, sí. Dommage! che rabbia, dice... Eh! certo, non sarà possibile vederlo... se il capitano,

capisci?... Già! già! oui... Engagement... impegni commerciali, capisci! Il vapore non può aspettare.

Eppure quest'ultimo strazio non fu risparmiato al Cleen. Per un ritardo nell'arrivo delle polizze di

carico, l'Hammerfest dovette rimandare d'un giorno la partenza. Si disponeva già a salpare da Porto

Empedocle, quando il vaporetto del Di Nica entrò nel Molo.

Lars Cleen si precipitò su una lancia, e volò a bordo del suo piroscafo, col cuore in tumulto. Non

ragionava piú! Ah, partire, fuggire coi suoi compagni, parlare di nuovo la sua lingua, sentirsi in

patria, lí, sul suo piroscafo - eccolo! grande! bello! - fuggire da quell'esilio, da quella morte! - Si

buttò tra le braccia del cognato, se lo strinse a sé fin quasi a soffocarlo, scoppiando irresistibilmente

in un pianto dirotto.

Ma quando i compagni intorno gli chiesero, costernati, la cagione di quel pianto convulso, egli

rientrò in sé, mentí, disse che piangeva soltanto per la gioja di rivederli.

Solo il cognato non gli chiese nulla: gli lesse negli occhi la disperazione, il violento proposito con

cui era volato a bordo, e lo guardò per fargli intendere che egli aveva compreso. Non c'era tempo da

perdere: sonava già la campana per dare il segno della partenza.

Poco dopo Lars Cleen dalla lancia vedeva uscire dal porto l'Hammerfest e lo salutava col

fazzoletto bagnato di lagrime, mentre altre lagrime gli sgorgavano dagli occhi, senza fine. Comandò

al barcajolo di remare fino all'uscita del porto per poter vedere liberamente il piroscafo allontanarsi

man mano nel mare sconfinato, e allontanarsi con lui la sua patria, la sua anima, la sua vita. Eccolo,

piú lontano... piú lontano ancora... spariva...

- Torniamo? - gli domandò, sbadigliando, il barcaiolo.

Egli accennò di sí, col capo.

LA GIARA

Piena anche per gli olivi quell'annata. Piante massaje, cariche l'anno avanti, avevano raffermato

tutte, a dispetto della nebbia che le aveva oppresse sul fiorire.

Lo Zirafa, che ne aveva un bel giro nel suo podere delle Quote a Primosole, prevedendo che le

cinque giare vecchie di coccio smaltato che aveva in cantina non sarebbero bastate a contener tutto

l'olio della nuova raccolta, ne aveva ordinata a tempo una sesta piú capace a Santo Stefano di

Camastra, dove si fabbricavano: alta a petto d'uomo, bella panciuta e maestosa, che fosse delle altre

cinque la badessa.

Neanche a dirlo, aveva litigato anche col fornaciajo di là per questa giara. E con chi non

l'attaccava Don Lollò Zirafa? Per ogni nonnulla, anche per una pietruzza caduta dal murello di cinta,

anche per una festuca di paglia, gridava che gli sellassero la mula per correre in città a fare gli atti.

Cosí, a furia di carta bollata e d'onorarii agli avvocati, citando questo, citando quello e pagando

sempre le spese per tutti, s'era mezzo rovinato.

Dicevano che il suo consulente legale, stanco di vederselo comparire davanti due o tre volte la

settimana, per levarselo di torno, gli aveva regalato un libricino come quelli da messa: il codice,

perché ci si scapasse a cercare da sé il fondamento giuridico alle liti che voleva intentare.

Prima, tutti coloro con cui aveva da dire, per prenderlo in giro gli gridavano: «Sellate la mula!»

Ora, invece: «Consultate il calepino!»

E Don Lollò rispondeva:

- Sicuro, e vi fulmino tutti, figli d'un cane!

Quella bella giara nuova, pagata quattr'onze ballanti e sonanti, in attesa del posto da trovarle in

cantina, fu allogata provvisoriamente nel palmento. Una giara cosí non s'era mai veduta. Allogata in

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quell'antro intanfato di mosto e di quell'odore acre e crudo che cova nei luoghi senz'aria e senza luce,

faceva pena.

Da due giorni era cominciata l'abbacchiatura delle olive, e Don Lollò era su tutte le furie perché,

tra gli abbacchiatori e i mulattieri venuti con le mule cariche di concime da depositare a mucchi su la

costa per la favata della nuova stagione, non sapeva piú come spartirsi, a chi badar prima. E

bestemmiava come un turco e minacciava di fulminare questi e quelli, se un'oliva, che fosse un'oliva,

gli fosse mancata, quasi le avesse prima contate tutte a una a una sugli alberi; o se non fosse ogni

mucchio di concime della stessa misura degli altri. Col cappellaccio bianco, in maniche di camicia,

spettorato, affocato in volto e tutto sgocciolante di sudore, correva di qua e di là, girando gli occhi

lupigni e stropicciandosi con rabbia le guance rase, su cui la barba prepotente rispuntava quasi sotto

la raschiatura del rasojo.

Ora, alla fine della terza giornata, tre dei contadini che avevano abbacchiato, entrando nel

palmento per deporvi le scale e le canne, restarono alla vista della bella giara nuova, spaccata in due,

come se qualcuno, con un taglio netto, prendendo tutta l'ampiezza della pancia, ne avesse staccato

tutto il lembo davanti.

- Guardate! guardate!

- Chi sarà stato?

- Oh, mamma mia! E chi lo sente ora Don Lollò? La giara nuova, peccato!

Il primo, piú spaurito di tutti, propose di raccostar subito la porta e andare via zitti zitti, lasciando

fuori, appoggiate al muro, le scale e le canne.

Ma il secondo:

- Siete pazzi? Con don Lollò? Sarebbe capace di credere che gliel'abbiamo rotta noi. Fermi qua

tutti!

Uscí davanti al palmento e, facendosi portavoce delle mani, chiamò:

- Don Lollò! Ah, Don Lollòoo!

Eccolo là sotto la costa con gli scaricatori del concime: gesticolava al solito furiosamente, dandosi

di tratto in tratto con ambo le mani una rincalcata al cappellaccio bianco. Arrivava talvolta, a forza di

quelle rincalcate, a non poterselo piú strappare dalla nuca e dalla fronte. Già nel cielo si spegnevano

gli ultimi fuochi del crepuscolo, e tra la pace che scendeva su la campagna con le ombre della sera e

la dolce frescura, avventavano i gesti di quell'uomo sempre infuriato.

- Don Lollò! Ah, Don Lollòoo!

Quando venne su e vide lo scempio, parve volesse impazzire. Si scagliò prima contro quei tre; ne

afferrò uno per la gola e lo impiccò al muro gridando:

- Sangue della Madonna, me la pagherete!

Afferrato a sua volta dagli altri due, stravolti nelle facce terrigne e bestiali, rivolse contro se stesso

la rabbia furibonda, sbatacchiò a terra il cappellaccio, si percosse le guance, pestando i piedi e

sbraitando a modo di quelli che piangono un parente morto:

- La giara nuova! Quattr'onze di giara! Non incignata ancora!

Voleva sapere chi gliel'avesse rotta! Possibile che si fosse rotta da sé? Qualcuno per forza doveva

averla rotta, per infamità o per invidia! Ma quando? Ma come? Non gli si vedeva segno di violenza!

Che fosse arrivata rotta dalla fabbrica? Ma che! Sonava come una campana!

Appena i contadini videro che la prima furia gli era caduta, cominciarono ad esortarlo a calmarsi.

La giara si poteva sanare. Non era poi rotta malamente. Un pezzo solo. Un bravo conciabrocche

l'avrebbe rimessa su, nuova. C'era giusto Zi' Dima Licasi, che aveva scoperto un mastice miracoloso,

di cui serbava gelosamente il segreto: un mastice, che neanche il martello ci poteva, quando aveva

fatto presa. Ecco, se don Lollò voleva, domani, alla punta dell'alba, Zi' Dima Licasi sarebbe venuto lí

e, in quattro e quattr'otto, la giara, meglio di prima.

Don Lollò diceva di no, a quelle esortazioni: ch'era tutto inutile; che non c'era piú rimedio; ma

alla fine si lasciò persuadere, e il giorno appresso, all'alba, puntuale, si presentò a Primosole Zi'

Dima Licasi con la cesta degli attrezzi dietro le spalle.

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Era un vecchio sbilenco, dalle giunture storpie e nodose, come un ceppo antico di olivo saraceno.

Per cavargli una parola di bocca ci voleva l'uncino. Mutria o tristezza radicate in quel suo corpo

deforme; o anche sconfidenza che nessuno potesse capire e apprezzare giustamente il suo merito

d'inventore non ancora patentato.

Voleva che parlassero i fatti, Zi' Dima Licasi. Doveva poi guardarsi davanti e dietro, perché non

gli rubassero il segreto.

- Fatemi vedere codesto mastice - gli disse per prima cosa Don Lollò, dopo averlo squadrato a

lungo con diffidenza.

Zi' Dima negò col capo, pieno di dignità.

- All'opera si vede.

- Ma verrà bene?

Zi' Dima posò a terra la cesta; ne cavò un grosso fazzoletto di cotone rosso, logoro e tutto

avvoltolato; prese a svolgerlo pian piano, tra l'attenzione e la curiosità di tutti, e quando alla fine

venne fuori un pajo d'occhiali col sellino e le stanghette rotte e legate con lo spago, lui sospirò e gli

altri risero. Zi' Dima non se ne curò; si pulí le dita prima di pigliare gli occhiali; se li inforcò; poi si

mise a esaminare con molta gravità la giara tratta sull'aja. Disse:

- Verrà bene.

- Col mastice solo però - mise per patto lo Zirafa - non mi fido. Ci voglio anche i punti.

- Me ne vado - rispose senz'altro Zi' Dima, rizzandosi e rimettendosi la cesta dietro le spalle.

Don Lollò lo acchiappò per un braccio.

- Dove? Messere e porco, cosí trattate? Ma guarda un po' che arie da Carlomagno! Scannato

miserabile e pezzo d'asino, ci devo metter olio, io, là dentro, e l'olio trasuda! Un miglio di

spaccatura, col mastice solo? Ci voglio i punti. Mastice e punti. Comando io.

Zi' Dima chiuse gli occhi, strinse le labbra e scosse il capo. Tutti cosí! Gli era negato il piacere di

fare un lavoro pulito, filato coscienziosamente a regola d'arte, e di dare una prova della virtú del suo

mastice.

- Se la giara - disse - non suona di nuovo come una campana...

- Non sento niente, - lo interruppe Don Lollò. - I punti! Pago mastice e punti. Quanto vi debbo

dare?

- Se col mastice solo...

- Càzzica che testa! - esclamò lo Zirafa. - Come parlo? V'ho detto che ci voglio i punti.

C'intenderemo a lavoro finito: non ho tempo da perdere con voi.

E se ne andò a badare ai suoi uomini.

Zi' Dima si mise all'opera gonfio d'ira e di dispetto. E l'ira e il dispetto gli crebbero ad ogni foro

che praticava col trapano nella giara e nel lembo spaccato per farvi passare il fil di ferro della

cucitura. Accompagnava il frullo della saettella con grugniti a mano a mano piú frequenti e piú forti;

e il viso gli diventava piú verde dalla bile e gli occhi piú aguzzi e accesi di stizza. Finita quella prima

operazione, scagliò con rabbia il trapano nella cesta; applicò il lembo staccato alla giara per provare

se i fori erano a egual distanza e in corrispondenza tra loro, poi con le tenaglie fece del fil di ferro

tanti pezzetti quanti erano i punti che doveva dare, e chiamò per ajuto uno dei contadini che

abbacchiavano.

- Coraggio, Zi' Dima! - gli disse quello, vedendogli la faccia alterata.

Zi' Dima alzò la mano a un gesto rabbioso. Aprí la scatola di latta che conteneva il mastice, e lo

levò al cielo, scotendolo, come per offrirlo a Dio, visto che gli uomini non volevano riconoscerne le

virtú: poi col dito cominciò a spalmarlo tutt'in giro al lembo staccato e lungo la spaccatura; prese le

tenaglie e i pezzetti di fil di ferro preparati avanti, e si cacciò dentro la pancia aperta della giara,

ordinando al contadino di applicare il lembo alla giara, cosí come aveva fatto lui poc'anzi. Prima di

cominciare a dare i punti:

- Tira! - disse dall'interno della giara al contadino. - Tira con tutta la tua forza! Vedi se si stacca

piú? Malanno a chi non ci crede! Picchia, picchia! Suona, sí o no, come una campana anche con me

qua dentro? Va', va' a dirlo al tuo padrone!

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- Chi è sopra comanda, Zi' Dima, - sospirò il contadino - e chi è sotto si danna! Date i punti, date i

punti.

E Zi' Dima si mise a far passare ogni pezzetto di fil di ferro attraverso i due fori accanto, l'uno di

qua e l'altro di là della saldatura; e con le tanaglie ne attorceva i due capi. Ci volle un'ora a passarli

tutti. I sudori, giú a fontana, dentro la giara. Lavorando, si lagnava della sua mala sorte. E il

contadino, di fuori, a confortarlo.

- Ora ajutami a uscirne, - disse alla fine Zi' Dima.

Ma quanto larga di pancia, tanto quella giara era stretta di collo. Zi' Dima, nella rabbia, non ci

aveva fatto caso. Ora, prova e riprova, non trovava piú il modo di uscirne. E il contadino invece di

dargli ajuto, eccolo là, si torceva dalle risa. Imprigionato, imprigionato lí, nella giara da lui stesso

sanata e che ora - non c'era via di mezzo - per farlo uscire, doveva essere rotta daccapo e per sempre.

Alle risa, alle grida, sopravvenne Don Lollò. Zi' Dima, dento la giara, era come un gatto

inferocito.

Fatemi uscire! - urlava -. Corpo di Dio, voglio uscire! Subito! Datemi ajuto!

Don Lollò rimase dapprima come stordito. Non sapeva crederci.

- Ma come? là dentro? s'è cucito là dentro?

S'accostò alla giara e gridò al vecchio:

- Ajuto? E che ajuto posso darvi io? Vecchiaccio stolido, ma come? non dovevate prender prima

le misure? Su, provate: fuori un braccio... cosí! e la testa... su... no, piano! Che! giú... aspettate! cosí

no! giú, giú... Ma come avete fatto? E la giara, adesso? Calma! Calma! Calma! - si mise a

raccomandare tutt'intorno, come se la calma stessero per perderla gli altri e non lui. - Mi fuma la

testa! Calma! Questo è caso nuovo... La mula!

Picchiò con le nocche delle dita su la giara. Sonava davvero come una campana.

- Bella! Rimessa a nuovo... Aspettate! - disse al prigioniero. - Va' a sellarmi la mula! - ordinò al

contadino; e, grattandosi con tutte le dita la fronte, seguitò a dire tra sé: «Ma vedete un po' che mi

capita! Questa non è giara! quest'è ordigno del diavolo! Fermo! Fermo lí!»

E accorse a regger la giara, in cui Zi' Dima, furibondo, si dibatteva come una bestia in trappola.

- Caso nuovo, caro mio, che deve risolvere l'avvocato! Io non mi fido. La mula! La mula! Vado e

torno, abbiate pazienza! Nell'interesse vostro... Intanto, piano! calma! Io mi guardo i miei. E prima di

tutto, per salvare il mio diritto, faccio il mio dovere. Ecco: vi pago il lavoro, vi pago la giornata.

Cinque lire. Vi bastano?

- Non voglio nulla! - gridò Zi' Dima. - Voglio uscire.

- Uscirete. Ma io, intanto, vi pago. Qua, cinque lire.

Le cavò dal taschino del panciotto e le buttò nella giara. Poi domandò, premuroso:

- Avete fatto colazione? Pane e companatico, subito! Non ne volete? Buttatelo ai cani! A me basta

che ve l'abbia dato.

Ordinò che gli si désse; montò in sella, e via di galoppo per la città. Chi lo vide, credette che

andasse a chiudersi da sé in manicomio, tanto e in cosí strano modo gesticolava.

Per fortuna, non gli toccò di fare anticamera nello studio dell'avvocato; ma gli toccò d'attendere

un bel po', prima che questo finisse di ridere, quando gli ebbe esposto il caso. Delle risa si stizzí.

- Che c'è da ridere, scusi? A vossignoria non brucia! La giara è mia!

Ma quello seguitava a ridere e voleva che gli rinarrasse il caso com'era stato, per farci su altre

risate. "Dentro, eh? S'era cucito dentro? E lui, don Lollò che pretendeva? Te... tene... tenerlo là

dentro... ah ah ah... ohi ohi ohi... tenerlo là dentro per non perderci la giara?"

- Ce la devo perdere? - domandò lo Zirafa con le pugna serrate. - Il danno e lo scorno?

- Ma sapete come si chiama questo? - gli disse infine l'avvocato. - Si chiama sequestro di persona!

- Sequestro? E chi l'ha sequestrato? - esclamò lo Zirafa. - Si è sequestrato lui da sé! Che colpa ne

ho io?

L'avvocato allora gli spiegò che erano due casi. Da un canto, lui, Don Lollò, doveva subito

liberare il prigioniero per non rispondere di sequestro di persona; dall'altro il conciabrocche doveva

rispondere del danno che veniva a cagionare con la sua imperizia o con la sua storditaggine.

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- Ah! - rifiatò lo Zirafa. Pagandomi la giara!

- Piano! - osservò l'avvocato. - Non come se fosse nuova, badiamo!

- E perché?

- Ma perché era rotta, oh bella!

- Rotta? Nossignore. Ora è sana. Meglio che sana, lo dice lui stesso! E se ora torno a romperla,

non potrò piú farla risanare. Giara perduta, signor avvocato!

L'avvocato gli assicurò che se ne sarebbe tenuto conto, facendogliela pagare per quanto valeva

nello stato in cui era adesso.

- Anzi - gli consigliò - fatela stimare avanti da lui stesso.

- Bacio le mani - disse Don Lollò, andando via di corsa.

Di ritorno, verso sera, trovò tutti i contadini in festa attorno alla giara abitata. Partecipava alla

festa anche il cane di guardia, saltando e abbajando. Zi' Dima s'era calmato, non solo, ma aveva

preso gusto anche lui alla sua bizzarra avventura e ne rideva con la gajezza mala dei tristi.

Lo Zirafa scostò tutti e si sporse a guardare dentro la giara.

- Ah! Ci stai bene?

- Benone. Al fresco - rispose quello. - Meglio che a casa mia.

- Piacere. Intanto ti avverto che questa giara mi costò quattr'onze nuova. Quanto credi che possa

costare adesso?

- Come me qua dentro? - domandò Zi' Dima.

I villani risero.

- Silenzio! - gridò lo Zirafa. - Delle due l'una: o il tuo mastice serve a qualche cosa, o non serve a

nulla: se non serve a nulla tu sei un imbroglione; se serve a qualche cosa, la giara, cosí com'è, deve

avere il suo prezzo. Che prezzo? Stimala tu.

Zi' Dima rimase un pezzo a riflettere, poi disse:

- Rispondo. Se lei me l'avesse fatta conciare col mastice solo, com'io volevo, io, prima di tutto,

non mi troverei qua dentro, e la giara avrebbe su per giú lo stesso prezzo di prima. Cosí conciata con

questi puntacci, che ho dovuto darle per forza di qua dentro, che prezzo potrà avere? Un terzo di

quanto valeva, sí e no.

- Un terzo? - domandò lo Zirafa. - Un'onza e trentatré?

- Meno sí, piú no.

- Ebbene, - disse Don Lollò. - Passi la tua parola, e dammi un'onza e trentatré.

- Che? - fece Zi' Dima, come se non avesse inteso.

- Rompo la giara per farti uscire, - rispose Don Lollò - e tu, dice l'avvocato, me la paghi per

quanto l'hai stimata: un'onza e trentatré.

- Io pagare? - sghignazzò Zi' Dima. - Vossignoria scherza! Qua dentro ci faccio i vermi.

E, tratta di tasca con qualche stento la pipetta intartarita, l'accese e si mise a fumare, cacciando il

fumo per il collo della giara. Don Lollò ci restò brutto. Quest'altro caso, che Zi' Dima ora non volesse piú uscire dalla giara, nè lui nè l'avvocato l'avevano previsto. E come si risolveva adesso? Fu lí lí per

ordinare di nuovo: - La mula -, ma pensò che era già sera.

- Ah, sí - disse. - Tu vuoi domiciliare nella mia giara? Testimonii tutti qua! Non vuole uscirne lui,

per non pagarla; io sono pronto a romperla! Intanto, poiché vuole stare lí, domani io lo cito per

alloggio abusivo e perché mi impedisce l'uso della giara.

Zi' Dima cacciò prima fuori un'altra boccata di fumo, poi rispose placido:

- Nossignore. Non voglio impedirle niente, io. Sto forse qua per piacere? Mi faccia uscire, e me

ne vado volentieri. Pagare... neanche per ischerzo, vossignoria!

Don Lollò, in un impeto di rabbia, alzò un piede per avventare un calcio alla giara; ma si

trattenne; la abbrancò invece con ambo le mani e la scrollò tutta, fremendo.

- Vede che mastice? - gli disse Zi' Dima.

- Pezzo da galera! - ruggí allora lo Zirafa. - Chi l'ha fatto il male, io o tu? E devo pagarlo io?

Muori di fame là dentro! Vediamo chi la vince!

E se ne andò, non pensando alle cinque lire che gli aveva buttate la mattina dentro la giara. Con

esse, per cominciare, Zi' Dima pensò di far festa quella sera coi contadini che, avendo fatto tardi per

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quello strano accidente, rimanevano a passare la notte in campagna, all'aperto, su l'aja. Uno andò a

far le spese in una taverna lí presso. A farlo apposta, c'era una luna che pareva fosse raggiornato.

A una cert'ora don Lollò, andato a dormire, fu svegliato da un baccano d'inferno. S'affacciò a un

balcone della cascina, e vide su l'aja, sotto la luna, tanti diavoli; i contadini ubriachi che, presisi per

mano, ballavano attorno alla giara. Zi' Dima, là dentro, cantava a squarciagola.

Questa volta non poté piú reggere, Don Lollò: si precipitò come un toro infuriato e, prima che

quelli avessero tempo di pararlo, con uno spintone mandò a rotolare la giara giú per la costa.

Rotolando, accompagnata dalle risa degli ubriachi, la giara andò a spaccarsi contro un olivo.

E la vinse Zi' Dima.

LA PATENTE

Con quale inflessione di voce e quale atteggiamento d'occhi e di mani, curvandosi, come chi regge

rassegnatamente su le spalle un peso insopportabile, il magro giudice D'Andrea soleva ripetere: «Ah,

figlio caro!» a chiunque gli facesse qualche scherzosa osservazione per il suo strambo modo di

vivere!

Non era ancor vecchio; poteva avere appena quarant'anni; ma cose stranissime e quasi

inverosimili, mostruosi intrecci di razze, misteriosi travagli di secoli bisognava immaginare per

giungere a una qualche approssimativa spiegazione di quel prodotto umano che si chiamava il

giudice D'Andrea.

E pareva ch'egli, oltre che della sua povera, umile, comunissima storia familiare, avesse notizia

certa di quei mostruosi intrecci di razze, donde al suo smunto sparuto viso di bianco eran potuti

venire quei capelli crespi gremiti da negro; e fosse consapevole di quei misteriosi infiniti travagli di

secoli, che su la vasta fronte protuberante gli avevano accumulato tutto quel groviglio di rughe e

tolto quasi la vista ai piccoli occhi plumbei, e scontorto tutta la magra, misera personcina.

Cosí sbilenco, con una spalla piú alta dell'altra, andava per via di traverso, come i cani. Nessuno

però, moralmente, sapeva rigar piú diritto di lui. Lo dicevano tutti.

Vedere, non aveva potuto vedere molte cose, il giudice D'Andrea; ma certo moltissime ne aveva

pensate, e quando il pensare è piú triste, cioè di notte.

Il giudice D'Andrea non poteva dormire.

Passava quasi tutte le notti alla finestra a spazzolarsi una mano a quei duri gremiti suoi capelli da

negro, con gli occhi alle stelle, placide e chiare le une come polle di luce, guizzanti e pungenti le

altre; e metteva le piú vive in rapporti ideali di figure geometriche, di triangoli e di quadrati, e,

socchiudendo le palpebre dietro le lenti, pigliava tra i peli delle ciglia la luce d'una di quelle stelle, e

tra l'occhio e la stella stabiliva il legame d'un sottilissimo filo luminoso, e vi avviava l'anima a

passeggiare come un ragnetto smarrito.

Il pensare cosí di notte non conferisce molto alla salute. L'arcana solennità che acquistano i

pensieri produce quasi sempre, specie a certuni che hanno in sé una certezza su la quale non possono

riposare, la certezza di non poter nulla sapere e nulla credere non sapendo, qualche seria

costipazione. Costipazione d'anima, s'intende.

E al giudice D'Andrea, quando si faceva giorno, pareva una cosa buffa e atroce nello stesso

tempo, ch'egli dovesse recarsi al suo ufficio d'Istruzione ad amministrare - per quel tanto che a lui

toccava - la giustizia ai piccoli poveri uomini feroci.

Come non dormiva lui, cosí sul suo tavolino nell'ufficio d'Istruzione non lasciava mai dormire

nessun incartamento, anche a costo di ritardare di due o tre ore il desinare e di rinunziar la sera,

prima di cena, alla solita passeggiata coi colleghi per il viale attorno alle mura del paese.

Questa puntualità, considerata da lui come dovere imprescindibile, gli accresceva terribilmente il

supplizio. Non solo amministrare la giustizia gli toccava; ma d'amministrarla cosí, su due piedi.

Per poter essere meno frettolosamente puntuale, credeva d'ajutarsi meditando la notte. Ma,

neanche a farlo apposta, la notte, spazzolando la mano a quei suoi capelli da negro e guardando le

stelle, gli venivano tutti i pensieri contrarii a quelli che dovevano fare al caso per lui, data la sua

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qualità di giudice istruttore; cosí che, la mattina dopo, anziché aiutata, vedeva insidiata e ostacolata

la sua puntualità da quei pensieri della notte e cresciuto enormemente lo stento di tenersi stretto a

quell'odiosa sua qualità di giudice istruttore.

Eppure, per la prima volta, da circa una settimana, dormiva un incartamento sul tavolino del

giudice D'Andrea. E per quel processo che stava lí da tanti giorni in attesa, egli era in preda a una

irritazione smaniosa, a una tetraggine soffocante.

Si sprofondava tanto in questa tetraggine, che gli occhi aggrottati, a un certo punto, gli si

chiudevano. Con la penna in mano, dritto sul busto, il giudice D'Andrea si metteva allora a pisolare,

prima raccorciandosi, poi attrappandosi come un baco infratito che non possa piú fare il bozzolo.

Appena, o per qualche rumore o per un crollo piú forte del capo, si ridestava e gli occhi gli

andavano lí, a quell'angolo del tavolino dove giaceva l'incartamento, voltava la faccia e, serrando le

labbra, tirava con le nari fischianti aria aria aria e la mandava dentro, quanto piú dentro poteva, ad

allargar le viscere contratte dall'esasperazione, poi la ributtava via spalancando la bocca con un

versaccio di nausea, e subito si portava una mano sul naso adunco a regger le lenti che, per il sudore,

gli scivolavano.

Era veramente iniquo quel processo là: iniquo perché includeva una spietata ingiustizia contro alla

quale un pover'uomo tentava disperatamente di ribellarsi senza alcuna probabilità di scampo. C'era in

quel processo una vittima che non poteva prendersela con nessuno. Aveva voluto prendersela con

due, lí in quel processo, coi primi due che gli erano capitati sotto mano, e - sissignori - la giustizia

doveva dargli torto, torto, torto, senza remissione, ribadendo cosí, ferocemente, l'iniquità di cui quel

pover'uomo era vittima.

A passeggio, tentava di parlarne coi colleghi; ma questi, appena egli faceva il nome del

Chiàrchiaro, cioè di colui che aveva intentato il processo, si alteravano in viso e si ficcavano subito

una mano in tasca a stringervi una chiave, o sotto sotto allungavano l'indice e il mignolo a far le

corna, o s'afferravano sul panciotto i gobbetti d'argento, i chiodi, i corni di corallo pendenti dalla

catena dell'orologio. Qualcuno, piú francamente, prorompeva:

- Per la Madonna Santissima, ti vuoi star zitto?

Ma non poteva starsi zitto il magro giudice D'Andrea. Se n'era fatta proprio una fissazione, di quel

processo. Gira gira, ricascava per forza a parlarne. Per avere un qualche lume dai colleghi - diceva -

per discutere cosí in astratto il caso.

Perché, in verità, era un caso insolito e speciosissimo quello d'un jettatore che si querelava per

diffamazione contro i primi due che gli erano caduti sotto gli occhi nell'atto di far gli scongiuri di rito

al suo passaggio.

Diffamazione? Ma che diffamazione, povero disgraziato, se già da qualche anno era diffusissima

in tutto il paese la sua fama di jettatore? se innumerevoli testimonii potevano venire in tribunale a

giurare che egli in tante e tante occasioni aveva dato segno di conoscere quella sua fama, ribellandosi

con proteste violente? Come condannare, in coscienza, quei due giovanotti quali diffamatori per aver

fatto al passaggio di lui il gesto che da tempo solevano fare apertamente tutti gli altri, e primi fra tutti

- eccoli là - gli stessi giudici?

E il D'Andrea si struggeva; si struggeva di piú incontrando per via gli avvocati, nelle cui mani si

erano messi quei due giovanotti, l'esile e patitissimo avvocato Grigli, dal profilo di vecchio uccello

di rapina, e il grasso Manin Baracca, il quale, portando in trionfo su la pancia un enorme corno

comperato per l'occasione e ridendo con tutta la pallida carnaccia di biondo majale eloquente,

prometteva ai concittadini che presto in tribunale sarebbe stata per tutti una magnifica festa.

Orbene, proprio per non dare al paese lo spettacolo di quella «magnifica festa» alle spalle d'un

povero disgraziato, il giudice D'Andrea prese alla fine la risoluzione di mandare un usciere in casa

del Chiàrchiaro per invitarlo a venire all'ufficio d'Istruzione. Anche a costo di pagar lui le spese,

voleva indurlo a desistere dalla querela, dimostrandogli quattro e quattr'otto che quei due giovanotti

non potevano essere condannati, secondo giustizia, e che dalla loro assoluzione inevitabile sarebbe

venuto a lui certamente maggior danno, una piú crudele persecuzione.

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Ahimè, è proprio vero che è molto piú facile fare il male che il bene, non solo perché il male si

può fare a tutti e il bene solo a quelli che ne hanno bisogno; ma anche, anzi sopra tutto, perché

questo bisogno d'aver fatto il bene rende spesso cosí acerbi e irti gli animi di coloro che si

vorrebbero beneficare, che il beneficio diventa difficilissimo.

Se n'accorse bene quella volta il giudice D'Andrea, appena alzò gli occhi a guardare il

Chiàrchiaro, che gli era entrato nella stanza, mentr'egli era intento a scrivere. Ebbe uno scatto

violentissimo e buttò all'aria le carte, balzando in piedi e gridandogli:

- Ma fatemi il piacere! Che storie son queste? Vergognatevi!

Il Chiàrchiaro s'era combinata una faccia da jettatore, ch'era una meraviglia a vedere. S'era

lasciata crescere su le cave gote gialle una barbaccia ispida e cespugliuta; s'era insellato sul naso un

pajo di grossi occhiali cerchiati d'osso, che gli davano l'aspetto d'un barbagianni; aveva poi indossato

un abito lustro, sorcigno, che gli sgonfiava da tutte le parti.

Allo scatto del giudice non si scompose. Dilatò le nari, digrignò i denti gialli e disse sottovoce:

- Lei dunque non ci crede?

- Ma fatemi il piacere! - ripeté il giudice D'Andrea. - Non facciamo scherzi, caro Chiàrchiaro! O

siete impazzito? Via, via, sedete, sedete qua.

E gli s'accostò e fece per posargli una mano su la spalla. Subito il Chiàrchiaro sfagliò come un

mulo, fremendo:

- Signor giudice, non mi tocchi! Se ne guardi bene! O lei, com'è vero Dio, diventa cieco!

Il D'Andrea stette a guardarlo freddamente, poi disse:

- Quando sarete comodo... Vi ho mandato a chiamare per il vostro bene. Là c'è una sedia, sedete.

Il Chiàrchiaro sedette e, facendo rotolar con le mani su le cosce la canna d'India a mo' d'un

matterello, si mise a tentennare il capo.

- Per il mio bene? Ah, lei si figura di fare il mio bene, signor giudice, dicendo di non credere alla

jettatura?

Il D'Andrea sedette anche lui e disse:

- Volete che vi dica che ci credo? E vi dirò che ci credo! Va bene cosí?

- Nossignore, - negò recisamente il Chiàrchiaro, col tono di chi non ammette scherzi. - Lei deve

crederci sul serio, e deve anche dimostrarlo istruendo il processo!

- Questo sarà un po' difficile, - sorrise mestamente il D'Andrea. - Ma vediamo di intenderci, caro

Chiàrchiaro. Voglio dimostrarvi che la via che avete preso non è propriamente quella che possa

condurvi a buon porto.

- Via? porto? Che porto e che via? - domandò, aggrondato, il Chiàrchiaro.

- Né questa d'adesso, - rispose il D'Andrea, - né quella là del processo. Già l'una e l'altra, scusate,

son tra loro cosí.

E il giudice D'Andrea infrontò gl'indici delle mani per significare che le due vie gli parevano

opposte.

Il Chiàrchiaro si chinò e tra i due indici cosí infrontati del giudice ne inserí uno suo, tozzo, peloso

e non molto pulito.

- Non è vero niente, signor giudice! - disse, agitando quel dito.

- Come no? - esclamò il D'Andrea. - Là accusate come diffamatori due giovani perché vi credono

jettatore, e ora qua voi stesso vi presentate innanzi a me in veste di jettatore e pretendete anzi ch'io

creda alla vostra jettatura.

- Sissignore.

- E non vi pare che ci sia contraddizione?

Il Chiàrchiaro scosse piú volte il capo con la bocca aperta a un muto ghigno di sdegnosa

commiserazione.

- Mi pare piuttosto, signor giudice, - poi disse, - che lei non capisca niente.

Il D'Andrea lo guardò un pezzo, imbalordito.

- Dite pure, dite pure, caro Chiàrchiaro. Forse è una verità sacrosanta questa che vi è scappata

dalla bocca. Ma abbiate la bontà di spiegarmi perché non capisco niente.

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- Sissignore. Eccomi qua, - disse il Chiàrchiaro, accostando la seggiola. - Non solo le farò vedere

che lei non capisce niente; ma anche che lei è un mio mortale nemico. Lei, lei, sissignore. Lei che

crede di fare il mio bene. Il mio piú acerrimo nemico! Sa o non sa che i due imputati hanno chiesto il

patrocinio dell'avvocato Manin Baracca?

- Sí. Questo lo so.

- Ebbene, all'avvocato Manin Baracca io, Rosario Chiàrchiaro, io stesso sono andato a fornire le

prove del fatto: cioè, che non solo mi ero accorto da piú d'un anno che tutti, vedendomi passare,

facevano le corna, ma le prove anche, prove documentate e testimonianze irrepetibili dei fatti

spaventosi su cui è edificata incrollabilmente, incrollabilmente, capisce, signor giudice? la mia fama

di jettatore!

- Voi? Dal Baracca?

- Sissignore, io.

Il giudice lo guardò, piú imbalordito che mai:

- Capisco anche meno di prima. Ma come? Per render piú sicura l'assoluzione di quei giovanotti?

E perché allora vi siete querelato?

Il Chiàrchiaro ebbe un prorompimento di stizza per la durezza di mente del giudice D'Andrea; si

levò in piedi, gridando con le braccia per aria:

- Ma perché io voglio, signor giudice, un riconoscimento ufficiale della mia potenza, non capisce

ancora? Voglio che sia ufficialmente riconosciuta questa mia potenza spaventosa, che è ormai l'unico

mio capitale!

E ansimando, protese il braccio, batté forte sul pavimento la canna d'India e rimase un pezzo

impostato in quell'atteggiamento grottescamente imperioso.

Il giudice D'Andrea si curvò, si prese la testa tra le mani, commosso, e ripeté:

- Povero caro Chiàrchiaro mio, povero caro Chiàrchiaro mio, bel capitale! E che te ne fai? che te

ne fai?

- Che me ne faccio? - rimbeccò pronto il Chiàrchiaro. - Lei, padrone mio, per esercitare codesta

professione di giudice, anche cosí male come la esercita, mi dica un po', non ha dovuto prender la

laurea?

- La laurea, sí.

- Ebbene, voglio anch'io la mia patente, signor giudice! La patente di jettatore. Col bollo. Con

tanto di bollo legale! Jettatore patentato dal regio tribunale.

- E poi?

- E poi? Me lo metto come titolo nei biglietti da visita. Signor giudice, mi hanno assassinato.

Lavoravo. Mi hanno fatto cacciar via dal banco dov'ero scritturale, con la scusa che, essendoci io,

nessuno piú veniva a far debiti e pegni; mi hanno buttato in mezzo a una strada, con la moglie

paralitica da tre anni e due ragazze nubili, di cui nessuno vorrà piú sapere, perché sono figlie mie;

viviamo del soccorso che ci manda da Napoli un mio figliuolo, il quale ha famiglia anche lui, quattro

bambini, e non può fare a lungo questo sacrifizio per noi. Signor giudice, non mi resta altro che di

mettermi a fare la professione del jettatore! Mi sono parato cosí, con questi occhiali, con quest'abito;

mi sono lasciato crescere la barba; e ora aspetto la patente per entrare in campo! Lei mi domanda

come? Me lo domanda perché, le ripeto, lei è un mio nemico!

- Io?

- Sissignore. Perché mostra di non credere alla mia potenza! Ma per fortuna ci credono gli altri,

sa? Tutti, tutti ci credono! E ci son tante case da giuoco in questo paese! Basterà che io mi presenti;

non ci sarà bisogno di dir nulla. Mi pagheranno per farmi andar via! Mi metterò a ronzare attorno a

tutte le fabbriche; mi pianterò innanzi a tutte le botteghe; e tutti, tutti mi pagheranno la tassa, lei dice

dell'ignoranza? io dico la tassa della salute! Perché, signor giudice, ho accumulato tanta bile e tanto

odio, io, contro tutta questa schifosa umanità, che veramente credo d'aver ormai in questi occhi la

potenza di far crollare dalle fondamenta una intera città!

Il giudice D'Andrea, ancora con la testa tra le mani, aspettò un pezzo che l'angoscia che gli

serrava la gola desse adito alla voce. Ma la voce non volle venir fuori; e allora egli, socchiudendo

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dietro le lenti i piccoli occhi plumbei, stese le mani e abbracciò il Chiàrchiaro a lungo, forte forte, a

lungo.

Questi lo lasciò fare.

- Mi vuol bene davvero? - gli domandò. - E allora istruisca subito il processo, e in modo da farmi

avere al piú presto quello che desidero.

- La patente?

Il Chiàrchiaro protese di nuovo il braccio, batté la canna d'India sul pavimento e, portandosi l'altra

mano al petto, ripeté con tragica solennità:

- La patente.

CIÀULA SCOPRE LA LUNA

I picconieri, quella sera, volevano smettere di lavorare senz'aver finito d'estrarre le tante casse di

zolfo che bisognavano il giorno appresso a caricar la calcara. Cacciagallina, il soprastante, s'affierò

contr'essi, con la rivoltella in pugno, davanti la buca della Cace, per impedire che ne uscissero.

- Corpo di... sangue di... indietro tutti, giú tutti di nuovo alle cave, a buttar sangue fino all'alba, o

faccio fuoco!

- Bum! - fece uno dal fondo della buca. - Bum! - echeggiarono parecchi altri; e con risa e

bestemmie e urli di scherno fecero impeto, e chi dando una gomitata, chi una spallata, passarono

tutti, meno uno. Chi? Zi' Scarda, si sa, quel povero cieco d'un occhio, sul quale Cacciagallina poteva

far bene il gradasso. Gesú, che spavento! Gli si scagliò addosso, che neanche un leone; lo agguantò

per il petto e, quasi avesse in pugno anche gli altri, gli urlò in faccia, scrollandolo furiosamente:

- Indietro tutti, vi dico, canaglia! Giú tutti alle cave, o faccio un macello!

Zi' Scarda si lasciò scrollare pacificamente. Doveva pur prendersi uno sfogo, quel povero

galantuomo, ed era naturale se lo prendesse su lui che, vecchio com'era, poteva offrirglielo senza

ribellarsi. Del resto, aveva anche lui, a sua volta, sotto di sé qualcuno piú debole, sul quale rifarsi piú

tardi: Ciàula, il suo caruso.

Quegli altri... eccoli là, s'allontanavano giú per la stradetta che conduceva a Comitini; ridevano e

gridavano:

- Ecco, sí! tienti forte codesto, Cacciagallí! Te lo riempirà lui il calcherone per domani!

- Gioventú! - sospirò con uno squallido sorriso d'indulgenza zi' Scarda a Cacciagallina.

E, ancora agguantato per il petto, piegò la testa da un lato, stiracchiò verso il lato opposto il labbro

inferiore, e rimase cosí per un pezzo, come in attesa.

Era una smorfia a Cacciagallina? o si burlava della gioventú di quei compagni là?

Veramente, tra gli aspetti di quei luoghi, strideva quella loro allegria, quella velleità di baldanza

giovanile. Nelle dure facce quasi spente dal bujo crudo delle cave sotterranee, nel corpo sfiancato

dalla fatica quotidiana, nelle vesti strappate, avevano il livido squallore di quelle terre senza un filo

d'erba, sforacchiate dalle zolfare, come da tanti enormi formicaj.

Ma no: zi' Scarda, fisso in quel suo strano atteggiamento, non si burlava di loro, né faceva una

smorfia a Cacciagallina. Quello era il versaccio solito, con cui, non senza stento, si deduceva pian

piano in bocca la grossa lagrima, che di tratto in tratto gli colava dall'altro occhio, da quello buono.

Aveva preso gusto a quel saporino di sale, e non se ne lasciava scappar via neppur una.

Poco: una goccia, di tanto in tanto; ma buttato dalla mattina alla sera laggiú, duecento e piú metri

sottoterra, col piccone in mano, che a ogni colpo gli strappava come un ruglio di rabbia dal petto, zi'

Scarda aveva sempre la bocca arsa: e quella lagrima, per la sua bocca, era quel che per il naso

sarebbe stato un pizzico di rapè.

Un gusto e un riposo.

Quando si sentiva l'occhio pieno, posava per un poco il piccone e, guardando la rossa fiammella

fumosa della lanterna confitta nella roccia, che alluciava nella tenebra dell'antro infernale qualche

scaglietta di zolfo qua e là, o l'acciajo del palo o della piccozza, piegava la testa da un lato,

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stiracchiava il labbro inferiore e stava ad aspettar che la lagrima gli colasse giú, lenta, per il solco

scavato dalle precedenti.

Gli altri, chi il vizio del fumo, chi quello del vino; lui aveva il vizio della sua lagrima.

Era del sacco lacrimale malato e non di pianto, quella lagrima; ma si era bevute anche quelle del

pianto, zi' Scarda, quando, quattr'anni addietro, gli era morto l'unico figliuolo, per lo scoppio d'una

mina, lasciandogli sette orfanelli e la nuora da mantenere. Tuttora gliene veniva giú qualcuna piú

salata delle altre; ed egli la riconosceva subito: scoteva il capo, allora, e mormorava un nome:

- Calicchio...

In considerazione di Calicchio morto, e anche dell'occhio perduto per lo scoppio della stessa

mina, lo tenevano ancora lí a lavorare. Lavorava piú e meglio di un giovane; ma ogni sabato sera, la

paga gli era data, e per dir la verità lui stesso se la prendeva, come una carità che gli facessero: tanto

che, intascandola, diceva sottovoce, quasi con vergogna:

- Dio gliene renda merito.

Perché, di regola, doveva presumersi che uno della sua età non poteva piú lavorar bene.

Quando Cacciagallina alla fine lo lasciò per correre dietro agli altri e indurre con le buone

maniere qualcuno a far nottata, zi' Scarda lo pregò di mandare almeno a casa uno di quelli che

ritornavano al paese, ad avvertire che egli rimaneva alla zolfara e che perciò non lo aspettassero e

non stessero in pensiero per lui; poi si volse attorno a chiamare il suo caruso, che aveva piú di

trent'anni (e poteva averne anche sette o settanta, scemo com'era); e lo chiamò col verso con cui si

chiamano le cornacchie ammaestrate:

- Te', pa'! te', pa'!

Ciàula stava a rivestirsi per ritornare al paese.

Rivestirsi per Ciàula significava togliersi prima di tutto la camicia, o quella che un tempo era stata

forse una camicia: l'unico indumento che, per modo di dire, lo coprisse durante il lavoro. Toltasi la

camicia, indossava sul torace nudo, in cui si potevano contare a una a una tutte le costole, un

panciotto bello largo e lungo, avuto in elemosina; che doveva essere stato un tempo elegantissimo e

sopraffino (ora il luridume vi aveva fatto una tal roccia, che a posarlo per terra stava ritto). Con

somma cura Ciàula ne affibbiava i sei bottoni, tre dei quali ciondolavano, e poi se lo mirava addosso,

passandoci sopra le mani, perché veramente ancora lo stimava superiore a' suoi meriti: una

galanteria. Le gambe nude, misere e sbilenche, durante quell'ammirazione, gli si accapponavano,

illividite dal freddo. Se qualcuno dei compagni gli dava uno spintone e gli allungava un calcio,

gridandogli: - Quanto sei bello! - egli apriva fino alle orecchie ad ansa la bocca sdentata a un riso di

soddisfazione, poi infilava i calzoni, che avevano piú d'una finestra aperta sulle natiche e sui

ginocchi; s'avvolgeva in un cappottello d'albagio tutto rappezzato, e, scalzo, imitando

meravigliosamente a ogni passo il verso della cornacchia - cràh! cràh! - (per cui lo avevano

soprannominato Ciàula), s'avviava al paese.

- Cràh! cràh! - rispose anche quella sera al richiamo del suo padrone; e gli si presentò tutto nudo,

con la sola galanteria di quel panciotto debitamente abbottonato.

- Va', va' a rispogliarti, - gli disse zi' Scarda. - Rimettiti il sacco e la camicia. Oggi per noi il

Signore non fa notte.

Cjàula non fiatò; restò un pezzo a guardarlo a bocca aperta, con occhi da ebete; poi si poggiò le

mani su le reni e, raggrinzando in sú il naso, per lo spasimo, si stirò e disse:

- Gna bonu! (Va bene).

E andò a levarsi il panciotto.

Se non fosse stato per la stanchezza e per il bisogno del sonno, lavorare anche di notte non

sarebbe stato niente, perché laggiú, tanto, era sempre notte lo stesso. Ma questo, per zi' Scarda.

Per Ciàula, no. Ciàula, con la lumierina a olio nella rimboccatura del sacco su la fronte, e

schiacciata la nuca sotto il carico, andava sú e giú per la lubrica scala sotterranea, erta, a scalini rotti,

e sú, sú, affievolendo a mano a mano, col fiato mózzo, quel suo crocchiare a ogni scalino, quasi in un

gemito di strozzato, rivedeva a ogni salita la luce del sole. Dapprima ne rimaneva abbagliato; poi col

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respiro che traeva nel liberarsi dal carico, gli aspetti noti delle cose circostanti gli balzavano davanti;

restava, ancora ansimante, a guardarli un poco e, senza che n'avesse chiara coscienza, se ne sentiva

confortare.

Cosa strana; della tenebra fangosa delle profonde caverne, ove dietro ogni svolto stava in agguato

la morte, Ciàula non aveva paura; né paura delle ombre mostruose, che qualche lanterna suscitava a

sbalzi lungo le gallerie, né del subito guizzare di qualche riflesso rossastro qua e là in una pozza, in

uno stagno d'acqua sulfurea: sapeva sempre dov'era; toccava con la mano in cerca di sostegno le

viscere della montagna: e ci stava cieco e sicuro come dentro il suo alvo materno.

Aveva paura, invece, del bujo vano della notte.

Conosceva quello del giorno, laggiú, intramezzato da sospiri di luce, di là dall'imbuto della scala,

per cui saliva tante volte al giorno, con quel suo specioso arrangolío di cornacchia strozzata. Ma il

bujo della notte non lo conosceva.

Ogni sera, terminato il lavoro, ritornava al paese con zi' Scarda; e là, appena finito d'ingozzare i

resti della minestra, si buttava a dormire sul saccone di paglia per terra, come un cane; e invano i

ragazzi, quei sette nipoti orfani del suo padrone, lo pestavano per tenerlo desto e ridere della sua

sciocchezza; cadeva subito in un sonno di piombo, dal quale, ogni mattina, alla punta dell'alba,

soleva riscuoterlo un noto piede.

La paura che egli aveva del bujo della notte gli proveniva da quella volta che il figlio di zi'

Scarda, già suo padrone, aveva avuto il ventre e il petto squarciati dallo scoppio della mina, e zi'

Scarda stesso era stato preso in un occhio.

Giú, nei vani posti a zolfo, si stava per levar mano, essendo già sera, quando s'era sentito il

rimbombo tremendo di quella mina scoppiata. Tutti i picconieri e i carusi erano accorsi sul luogo

dello scoppio; egli solo, Ciàula, atterrito, era scappato a ripararsi in un antro noto soltanto a lui.

Nella furia di cacciarsi là, gli s'era infranta contro la roccia la lumierina di terracotta, e quando

alla fine, dopo un tempo che non aveva potuto calcolare, era uscito dall'antro nel silenzio delle

caverne tenebrose e deserte, aveva stentato a trovare a tentoni la galleria che lo conducesse alla

scala; ma pure non aveva avuto paura. La paura lo aveva assalito, invece, nell'uscir dalla buca nella

notte nera, vana.

S'era messo a tremare, sperduto, con un brivido per ogni vago alito indistinto nel silenzio arcano

che riempiva la sterminata vacuità, ove un brulichío infinito di stelle fitte, piccolissime, non riusciva

a diffondere alcuna luce.

Il bujo, ove doveva esser lume, la solitudine delle cose che restavan lí con un loro aspetto

cangiato e quasi irriconoscibile, quando piú nessuno le vedeva, gli avevano messo in tale subbuglio

l'anima smarrita, che Ciàula s'era all'improvviso lanciato in una corsa pazza, come se qualcuno lo

avesse inseguito.

Ora, ritornato giú nella buca con zi' Scarda, mentre stava ad aspettare che il carico fosse pronto,

egli sentiva a mano a mano crescersi lo sgomento per quel bujo che avrebbe trovato, sbucando dalla

zolfara. E piú per quello, che per questo delle gallerie e della scala, rigovernava attentamente la

lumierina di terracotta.

Giungevano da lontano gli stridori e i tonfi cadenzati della pompa, che non posava mai, né giorno

né notte. E nella cadenza di quegli stridori e di quei tonfi s'intercalava il ruglio sordo di zi' Scarda,

come se il vecchio si facesse ajutare a muovere le braccia dalla forza della macchina lontana.

Alla fine il carico fu pronto, e zi' Scarda ajutò Ciàula a disporlo e rammontarlo sul sacco attorto

dietro la nuca.

A mano a mano che zi' Scarda caricava, Ciàula sentiva piegarsi, sotto, le gambe. Una, a un certo

punto, prese a tremargli convulsamente cosí forte che, temendo di non piú reggere al peso, con quel

tremitio, Ciàula gridò:

- Basta! basta!

- Che basta, carogna! - gli rispose zi' Scarda.

E seguitò a caricare.

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Per un momento la paura del bujo della notte fu vinta dalla costernazione che, cosí caricato, e con

la stanchezza che si sentiva addosso, forse non avrebbe potuto arrampicarsi fin lassú. Aveva lavorato

senza pietà tutto il giorno. Non aveva mai pensato Ciàula che si potesse aver pietà del suo corpo, e

non ci pensava neppur ora; ma sentiva che, proprio, non ne poteva piú.

Si mosse sotto il carico enorme, che richiedeva anche uno sforzo d'equilibrio. Sí, ecco, sí, poteva

muoversi, almeno finché andava in piano. Ma come sollevar quel peso, quando sarebbe cominciata

la salita?

Per fortuna, quando la salita cominciò, Ciàula fu ripreso dalla paura del bujo della notte, a cui tra

poco si sarebbe affacciato.

Attraversando le gallerie, quella sera, non gli era venuto il solito verso della cornacchia, ma un

gemito raschiato, protratto. Ora, sú per la scala, anche questo gemito gli venne meno, arrestato dallo

sgomento del silenzio nero che avrebbe trovato nella impalpabile vacuità di fuori.

La scala era cosí erta, che Ciàula, con la testa protesa e schiacciata sotto il carico, pervenuto

all'ultima svoltata, per quanto spingesse gli occhi a guardare in sú, non poteva veder la buca che

vaneggiava in alto.

Curvo, quasi toccando con la fronte lo scalino che gli stava sopra, e su la cui lubricità la lumierina

vacillante rifletteva appena un fioco lume sanguigno, egli veniva sú, sú, sú, dal ventre della

montagna, senza piacere, anzi pauroso della prossima liberazione. E non vedeva ancora la buca, che

lassú lassú si apriva come un occhio chiaro, d'una deliziosa chiarità d'argento.

Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò

che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiaría cresceva, cresceva sempre piú, come se il

sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato.

Possibile?

Restò - appena sbucato all'aperto - sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le

braccia; aprí le mani nere in quella chiarità d'argento.

Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna.

Sí, egli sapeva, sapeva che cos'era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai

importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna?

Ora, ora soltanto, cosí sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva.

Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna...

C'era la Luna! la Luna!

E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza

che sentiva, nell'averla scoperta, là, mentr'ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce,

ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva piú

paura, né si sentiva piú stanco, nella notte ora piena del suo stupore.

TU RIDI

Scosso dalla moglie, con una strappata rabbiosa al braccio, springò dal sonno anche quella notte, il

povero signor Anselmo.

- Tu ridi!

Stordito, e col naso ancora ingombro di sonno, e un po' fischiante per l'ansito del soprassalto,

inghiottí; si grattò il petto irsuto; poi disse aggrondato:

- Anche... perdio... anche questa notte?

- Ogni notte! ogni notte! - muggí la moglie, livida di dispetto.

Il signor Anselmo si sollevò su un gomito, e seguitando con l'altra mano a grattarsi il petto,

domandò con stizza:

- Ma proprio sicura ne sei? Farò qualche versaccio con le labbra, per smania di stomaco; e ti pare

che rida.

- No, ridi, ridi, ridi, - riaffermò quella tre volte. - Vuoi sentir come? cosí.

E imitò la risata larga, gorgogliante, che il marito faceva nel sonno ogni notte.

Page 42: Luigi Pirandello, Novelle per un anno - Lute Milazzo

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Stupito, mortificato e quasi incredulo, il signor Anselmo tornò a domandare:

- Cosí?

- Cosí! Cosí!

E la moglie, dopo lo sforzo di quella risata, riabbandonò, esausta, il capo sui guanciali e le braccia

su le coperte, gemendo:

- Ah Dio, la mia testa...

Nella camera finiva di spegnersi, singhiozzando, un lumino da notte davanti a un'immagine della

Madonna di Loreto, sul cassettone. A ogni singhiozzo del lumino, pareva sobbalzassero tutti i

mobili.

Irritazione e mortificazione, ira e cruccio sobbalzavano allo stesso modo nell'animo stramazzato

del signor Anselmo, per quelle sue incredibili risate d'ogni notte, nel sonno, le quali facevano

sospettare alla moglie che egli, dormendo, guazzasse chi sa in quali beatitudini, mentr'ella, ecco, gli

giaceva accanto, insonne, arrabbiata dal perpetuo mal di capo e con l'asma nervosa, la palpitazione di

cuore, e insomma tutti i malanni possibili e immaginabili in una donna sentimentale presso alla

cinquantina.

- Vuoi che accenda la candela?

- Accendi, sí, accendi! E dammi subito le gocce: venti, in un dito d'acqua.

Il signor Anselmo accese la candela e scese quanto piú presto poté dal letto. Cosí in camicia e

scalzo, passando davanti all'armadio per prendere dal cassettone la boccetta dell'acqua antisterica e il

contagocce, si vide nello specchio, e istintivamente levò la mano a rassettarsi sul capo la lunga

ciocca di capelli, con cui s'illudeva di nascondere in qualche modo la calvizie. La moglie dal letto se

n'accorse.

- S'aggiusta i capelli! - sghignò. - Ha il coraggio d'aggiustarsi i capelli, anche di notte tempo, in

camicia, mentr'io sto morendo!

Il signor Anselmo si voltò, come se una vipera lo avesse morso a tradimento; appuntò l'indice

d'una mano contro la moglie e le gridò:

- Tu stai morendo?

- Vorrei, - si lamentò quella allora, - che il Signore ti facesse provare, non dico molto, un poco di

quello che sto soffrendo in questo momento!

- Eh, cara mia, no, - brontolò il signor Anselmo. - Se davvero ti sentissi male, non baderesti a

rinfacciarmi un gesto involontario. Ho alzato appena la mano, ho alzato... Mannaggia! Quante ne

avrò fatte cadere?

E buttò per terra con uno scatto d'ira l'acqua del bicchiere, in cui, invece di venti, chi sa quante

gocce di quella mistura antisterica erano cadute. E gli toccò andare in cucina, cosí scalzo e in

camicia, a prendere altra acqua.

- Io rido...! Signori miei, io rido... - diceva tra sé, attraversando in punta di piedi, con la candela in

mano, il lungo corridojo.

Un vocino d'ombra venne fuori da un uscio aperto su quel corridojo.

- Nonnino...

Era la voce d'una delle cinque nipotine, la voce di Susanna, la maggiore e la piú cara al signor

Anselmo, che la chiamava Susí.

Aveva accolto in casa da due anni quelle cinque nipotine, insieme con la nuora, alla morte

dell'unico figliuolo. La nuora, trista donnaccia, che a diciotto anni gli aveva accalappiato quel suo

povero figliuolo, per fortuna se n'era scappata di casa da alcuni mesi con un certo signore, amico

intimo del defunto marito; e cosí le cinque orfanelle (di cui la maggiore, Susí, aveva appena otto

anni) erano rimaste sulle braccia del signor Anselmo, proprio sulle braccia di lui, poiché su quelle

della nonna, afflitta da tutti quei malanni, è chiaro che non potevano restare. La nonna non aveva

forza neanche di badare a se stessa.

Ma badava, sí, se il signor Anselmo involontariamente alzava una mano a raffilarsi sul cranio i

venticinque capelli che gli erano rimasti. Perché, oltre tutti quei malanni, aveva il coraggio, la nonna,

d'essere ancora ferocemente gelosa di lui, come se nella tenera età di cinquantasei anni, con la barba

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bianca, il cranio pelato, in mezzo a tutte le delizie che la sorte amica gli aveva prodigate; e quelle

cinque nipotine sulle braccia, alle quali col magro stipendio non sapeva come provvedere; col cuore

che gli sanguinava ancora per la morte di quel suo disgraziato figliuolo; egli potesse difatti attendere

a fare all'amore con le belle donnine!

Non rideva forse per questo? Ma sí! Ma sí! Chi sa quante donne se lo sbaciucchiavano in sogno,

ogni notte!

La furia con cui la moglie lo scrollava, la rabbia livida con cui gli gridava: «Tu ridi!» non

avevano certo altra ragione, che la gelosia.

La quale... niente, via, che cos'era? una piccola, ridicola scheggina di pietra infernale, data da

quella sua sorte amica in mano alla moglie, perché si spassasse a inciprignirgli le piaghe, tutte quelle

piaghe, di cui graziosamente aveva voluto cospargergli l'esistenza.

Il signor Anselmo posò a terra presso l'uscio la candela, per non svegliare col lume le altre

nipotine, ed entrò nella cameretta, al richiamo di Susí.

Per maggior consolazione del nonno, che le voleva tanto bene, Susí cresceva male; una spalluccia

piú alta dell'altra e di traverso, e di giorno in giorno il collo le diventava sempre piú come uno stelo

troppo gracile per sorregger la testina troppo grossa. Ah, quella testina di Susí...

Il signor Anselmo si chinò sul letto, per farsi cingere il collo dal magro braccino della nipote; le

disse:

- Sai, Susí? Ho riso!

Susí lo guardò in faccia con penosa meraviglia.

- Anche stanotte?

- Sí, anche stanotte. Una risatoooòna... Basta, lasciami andare, cara, a prender l'acqua per la

nonna... Dormi, dormi, e procura di ridere anche tu, sai? Buona notte.

Baciò la nipotina sui capelli, le rincalzò ben bene le coperte, e andò in cucina a prender l'acqua.

Ajutato con tanto impegno dalla sorte, il signor Anselmo era riuscito (sempre per sua maggior

consolazione) a sollevar lo spirito a considerazioni filosofiche, le quali, pur senza intaccargli affatto

la fede nei sentimenti onesti profondamente radicati nel suo cuore, gli avevano tolto il conforto di

sperare in quel Dio, che premia e compensa di là. E non potendo in Dio, non poteva per conseguenza

neanche piú credere, come gli sarebbe piaciuto, in qualche diavolaccio buffone che gli si fosse

appiattato in corpo e si divertisse a ridere ogni notte, per far nascere i piú tristi sospetti nell'animo

della moglie gelosa.

Era sicuro, sicurissimo il signor Anselmo di non aver mai fatto alcun sogno, che potesse

provocare quelle risate. Non sognava affatto! Non sognava mai! Cadeva ogni sera, all'ora solita, in

un sonno di piombo, nero, duro e profondissimo, da cui gli costava tanto stento e tanta pena destarsi!

Le pàlpebre gli pesavano sugli occhi come due pietre di sepoltura.

E dunque, escluso il diavolo, esclusi i sogni, non restava altra spiegazione di quelle risate che

qualche malattia di nuova specie; forse una convulsione viscerale, che si manifestava in quel sonoro

sussulto di risa.

Il giorno appresso, volle consultare il giovane medico specialista di malattie nervose, che un

giorno sí e un giorno no veniva a visitar la moglie.

Oltre la dottrina, questo giovane medico specialista si faceva pagare dai clienti i capelli biondi,

che per il troppo studio gli erano caduti precocemente e la vista che, per la stessa ragione, gli si era

anche precocemente indebolita.

E aveva, oltre la sua scienza speciale delle malattie nervose, un'altra specialità, che offriva gratis

però ai signori clienti: gli occhi, dietro gli occhiali, di colore diverso: uno giallo e uno verde.

Chiudeva il giallo, ammiccava col verde, e spiegava tutto. Ah spiegava tutto lui, con una chiarezza

maravigliosa, per dare ai signori clienti, anche nel caso che dovessero morire, intera soddisfazione.

- Dica dottore, può stare che uno rida nel sonno, senza sognare? Forte, sa? Certe risatooòne...

Il giovane medico prese a esporre al signor Anselmo le teorie piú recenti e accontate sul sonno e

sui sogni; per circa mezz'ora parlò, infarcendo il discorso di tutta quella terminologia greca che fa

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cosí rispettabile la professione del medico, e alla fine concluse che - no - non poteva stare. Senza

sognare, non si poteva ridere a quel modo nel sonno.

- Ma io le giuro, signor dottore, che proprio non sogno, non sogno, non ho mai sognato! - esclamò

stizzito il signor Anselmo, notando il riso sardonico con cui la moglie aveva accolto la conclusione

del giovane medico.

- Eh no, creda! Cosí le pare, - soggiunse questi, tornando a chiudere l'occhio giallo e ad

ammiccare col verde. - Cosí le pare... Ma lei sogna. È positivo. Soltanto, non serba il ricordo de'

sogni, perché ha il sonno profondo. Normalmente, gliel'ho spiegato, noi ci ricordiamo soltanto dei

sogni che facciamo, quando i veli, dirò cosí, del sonno si siano alquanto diradati.

- Dunque rido dei sogni che faccio?

- Senza dubbio. Sogna cose liete e ride.

- Che birbonata! - scappò detto allora al signor Anselmo. - Dico esser lieto, almeno in sogno,

signor dottore, e non poterlo sapere! Perché io le giuro che non ne so nulla! Mia moglie mi scrolla,

mi grida: «Tu ridi!» e io resto balordo a guardarla in bocca, perché non so proprio né d'aver riso, né

di che ho riso.

Ma ecco qua, ecco qua: c'era, alla fine! Sí, sí. Doveva esser cosí. Provvidenzialmente la natura, di

nascosto, nel sonno lo ajutava. Appena egli chiudeva gli occhi allo spettacolo delle sue miserie, la

natura, ecco, gli spogliava lo spirito di tutte le gramaglie, e via se lo conduceva, leggero leggero,

come una piuma, pei freschi viali dei sogni piú giocondi. Gli negava, è vero, crudelmente, il ricordo

di chi sa quali delizie esilaranti; ma certo, a ogni modo, lo compensava, gli ristorava

inconsapevolmente l'animo, perché il giorno dopo fosse in grado di sopportare gli affanni e le

avversità della sorte.

E ora, ritornato dall'ufficio, il signor Anselmo si toglieva su le ginocchia Susí, che sapeva imitar

cosí bene la risatona ch'egli faceva ogni notte, per averla sentita ripetere tante volte dalla nonna; le

accarezzava l'appassito visetto di vecchina, e le domandava:

- Susí, come rido? Sú, cara, fammela sentire, la mia bella risata.

E Susí, buttando indietro la testa e scoprendo il gracile colluccio di rachitica, prorompeva

nell'allegra risatona, larga, piena, cordiale.

Il signor Anselmo, beato, la ascoltava, la assaporava, pur con le lacrime in pelle per la vista di

quel colluccio della bimba; e, tentennando il capo e guardando fuori della finestra, sospirava:

- Chi sa come sono felice, Susí! Chi sa come sono felice, in sogno, quando rido cosí.

Purtroppo, però, anche questa illusione doveva perdere il signor Anselmo.

Gli avvenne una volta, per combinazione, di ricordarsi d'uno dei sogni, che lo facevano tanto

ridere ogni notte.

Ecco: vedeva un'ampia scalinata, per la quale saliva con molto stento, appoggiato al bastone, un

certo Torella, suo vecchio compagno d'ufficio, dalle gambe a roncolo. Dietro al Torella, saliva svelto

il suo capo-ufficio, cavalier Ridotti, il quale si divertiva crudelmente a dar col bastone sul bastone di

Torella che, per via di quelle sue gambe a roncolo, aveva bisogno, salendo, d'appoggiarsi

solidamente al bastone. Alla fine, quel pover'uomo di Torella, non potendone piú, si chinava,

s'afferrava con ambo le mani a un gradino della scalinata e si metteva a sparar calci, come un mulo,

contro il cavalier Ridotti. Questi sghignazzava e, scansando abilmente quei calci, cercava di cacciare

la punta del suo crudele bastone nel deretano esposto del povero Torella, là, proprio nel mezzo, e alla

fine ci riusciva.

A tal vista, il signor Anselmo, svegliandosi, col riso rassegato d'improvviso su le labbra, sentí

cascarsi l'anima e il fiato. Oh Dio, per questo dunque rideva? per siffatte scempiaggini?

Contrasse la bocca, in una smorfia di profondo disgusto, e rimase a guardare innanzi a sé.

Per questo rideva! Questa era tutta la felicità, che aveva creduto di godere nei sogni! Oh Dio... Oh

Dio...

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Se non che, lo spirito filosofico, che già da parecchi anni gli discorreva dentro, anche questa volta

gli venne in soccorso, e gli dimostrò che, via, era ben naturale che ridesse di stupidaggini. Di che

voleva ridere? Nelle sue condizioni, bisognava pure che diventasse stupido, per ridere.

Come avrebbe potuto ridere altrimenti?

IL TRENO HA FISCHIATO...

Farneticava. Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni

d'ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall'ospizio, ov'erano stati a visitarlo.

Pareva provassero un gusto particolare a darne l'annunzio coi termini scientifici, appresi or ora dai

medici, a qualche collega ritardatario che incontravano per via:

— Frenesia, frenesia.

— Encefalite.

— Infiammazione della membrana.

— Febbre cerebrale.

E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo cosí contenti, anche per quel dovere compiuto;

nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo azzurro della mattinata invernale.

— Morrà? Impazzirà?

— Mah!

— Morire, pare di no...

— Ma che dice? che dice?

— Sempre la stessa cosa. Farnetica...

— Povero Belluca!

E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell'infelice viveva

da tant'anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che

pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione piú semplice di quel

suo naturalissimo caso.

Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s'era fieramente ribellato al suo capo-ufficio, e che

poi, all'aspra riprensione di questo, per poco non gli s'era scagliato addosso, dava un serio argomento

alla supposizione che si trattasse d'una vera e propria alienazione mentale.

Perché uomo piú mansueto e sottomesso, piú metodico e paziente di Belluca non si sarebbe

potuto immaginare.

Circoscritto... sí, chi l'aveva definito cosí? Uno dei suoi compagni d'ufficio. Circoscritto, povero

Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida mansione di computista, senz'altra memoria che

non fosse di partite aperte, di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e

impostazioni; note, librimastri, partitarii, stracciafogli e via dicendo. Casellario ambulante: o

piuttosto, vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d'un passo, sempre per la stessa strada la

carretta, con tanto di paraocchi.

Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, cosí per ridere,

per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po', a fargli almeno almeno drizzare un po' le

orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio. Niente!

S'era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come

se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse piú, avvezzo com'era da anni e anni alle continue

solenni bastonature della sorte.

Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto d'una improvvisa

alienazione mentale.

Tanto piú che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprio aveva il diritto di

fargliela, il capo-ufficio. Già s'era presentato, la mattina, con un'aria insolita, nuova; e - cosa

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veramente enorme, paragonabile, che so? al crollo d'una montagna - era venuto con piú di mezz'ora

di ritardo.

Pareva che il viso, tutt'a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i paraocchi gli fossero tutt'a un

tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d'improvviso all'intorno lo spettacolo della vita.

Pareva che gli orecchi tutt'a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci,

suoni non avvertiti mai.

Cosí ilare, d'una ilarità vaga e piena di stordimento, s'era presentato all'ufficio. E, tutto il giorno,

non aveva combinato niente.

La sera, il capo-ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri, le carte:

— E come mai? Che hai combinato tutt'oggi?

Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un'aria d'impudenza, aprendo le mani.

— Che significa? — aveva allora esclamato il capo-ufficio, accostandoglisi e prendendolo per

una spalla e scrollandolo. — Ohé, Belluca!

— Niente, — aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d'impudenza e d'imbecillità su

le labbra. — Il treno, signor Cavaliere.

— Il treno? Che treno?

— Ha fischiato.

— Ma che diavolo dici?

— Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L'ho sentito fischiare...

— Il treno?

— Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia... oppure oppure... nelle foreste del

Congo... Si fa in un attimo, signor Cavaliere!

Gli altri impiegati, alle grida del capo-ufficio imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo

parlare cosí Belluca, giú risate da pazzi.

Allora il capo-ufficio - che quella sera doveva essere di malumore - urtato da quelle risate, era

montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli.

Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s'era ribellata, aveva

inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non piú,

ora ch'egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva piú, non voleva piú esser trattato a quel modo.

Lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all'ospizio dei matti.

Seguitava ancora, qua, a parlare di quel treno. Ne imitava il fischio. Oh, un fischio assai

lamentoso, come lontano, nella notte; accorato. E, subito dopo, soggiungeva:

— Si parte, si parte... Signori, per dove? per dove?

E guardava tutti con occhi che non erano piú i suoi. Quegli occhi, di solito cupi, senza lustro,

aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli d'un bambino o d'un uomo felice; e frasi senza

costrutto gli uscivano dalle labbra. Cose inaudite, espressioni poetiche, immaginose, bislacche, che

tanto piú stupivano, in quanto non si poteva in alcun modo spiegare come, per qual prodigio,

fiorissero in bocca a lui, cioè a uno che finora non s'era mai occupato d'altro che di cifre e registri e

cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita: macchinetta di computisteria. Ora parlava di

azzurre fronti di montagne nevose, levate al cielo; parlava di viscidi cetacei che, voluminosi, sul

fondo dei mari, con la coda facevan la virgola. Cose, ripeto, inaudite.

Chi venne a riferirmele insieme con la notizia dell'improvvisa alienazione mentale rimase però

sconcertato, non notando in me, non che meraviglia, ma neppur una lieve sorpresa.

Difatti io accolsi in silenzio la notizia.

E il mio silenzio era pieno di dolore. Tentennai il capo, con gli angoli della bocca contratti in giú,

amaramente, e dissi:

— Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche cosa dev'essergli

accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiegare, perché nessuno sa bene come quest'uomo ha

vissuto finora. Io che lo so, son sicuro che mi spiegherò tutto naturalissimamente, appena l'avrò

veduto e avrò parlato con lui.

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Cammin facendo verso l'ospizio ove il poverino era stato ricoverato, seguitai a riflettere per conto

mio:

«A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita "impossibile", la cosa piú

ovvia, l'incidente piú comune, un qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d'un

ciottolo per via, possono produrre effetti straordinarii, di cui nessuno si può dar la spiegazione, se

non pensa appunto che la vita di quell'uomo è "impossibile". Bisogna condurre la spiegazione là,

riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi

veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per se

stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà piú tale; ma quale

dev'essere, appartenendo a quel mostro.

«Una coda naturalissima.»

Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca.

Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della casa si domandavano con

me come mai quell'uomo potesse resistere in quelle condizioni di vita.

Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste due, vecchissime,

per cataratta; l'altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa; palpebre murate.

Tutt'e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le serviva. Le

due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l'una con quattro, l'altra con tre

figliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da badare ad esse; se mai, porgevano qualche ajuto

alla madre soltanto.

Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da mangiare a tutte

quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa: carte da ricopiare. E ricopiava tra gli

strilli indiavolati di quelle cinque donne e di quei sette ragazzi finché essi, tutt'e dodici, non trovavan

posto nei tre soli letti della casa.

Letti ampii, matrimoniali; ma tre.

Zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti, urli, tonfi, perché

qualcuno dei ragazzi, al bujo, scappava e andava a cacciarsi fra le tre vecchie cieche, che dormivano

in un letto a parte, e che ogni sera litigavano anch'esse tra loro, perché nessuna delle tre voleva stare

in mezzo e si ribellava quando veniva la sua volta.

Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tarda notte, finché la penna non

gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano da sé.

Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e subito sprofondava in un

sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava a stento, piú intontito che mai.

Ebbene, signori: a Belluca, in queste condizioni, era accaduto un fatto naturalissimo.

Quando andai a trovarlo all'ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per segno. Era, sí, ancora

esaltato un po', ma naturalissimamente, per ciò che gli era accaduto. Rideva dei medici e degli

infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credevano impazzito.

— Magari! — diceva. — Magari!

Signori, Belluca, s'era dimenticato da tanti e tanti anni - ma proprio dimenticato - che il mondo

esisteva.

Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto il giorno nei conti

del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una bestia bendata, aggiogata alla stanga

d'una nòria o d'un molino, sissignori, s'era dimenticato da anni e anni - ma proprio dimenticato - che

il mondo esisteva.

Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l'eccessiva

stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d'addormentarsi subito. E, d'improvviso, nel silenzio

profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un treno.

Gli era parso che gli orecchi, dopo tant'anni, chi sa come, d'improvviso gli si fossero sturati.

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Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d'un tratto la miseria di tutte quelle sue

orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s'era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto

arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt'intorno.

S'era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero

dietro a quel treno che s'allontanava nella notte.

C'era, ah! c'era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c'era il mondo, tanto,

tanto mondo lontano, a cui quel treno s'avviava... Firenze, Bologna, Torino, Venezia... tante città, in

cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sí,

sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella

vita; aveva sempre seguitato, mentr'egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino.

Non ci aveva pensato piú! Il mondo s'era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell'arida, ispida

angustia della sua computisteria... Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello

spirito. L'attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico

per tutto il mondo, e lui con l'immaginazione d'improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo

per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari... Questo stesso brivido, questo stesso palpito

del tempo. C'erano, mentr'egli qua viveva questa vita «impossibile», tanti e tanti milioni d'uomini

sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch'egli qua soffriva,

c'erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti... Sí, sí, le

vedeva, le vedeva, le vedeva cosí... c'erano gli oceani... le foreste...

E, dunque, lui - ora che il mondo gli era rientrato nello spirito - poteva in qualche modo

consolarsi! Sí, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l'immaginazione una boccata

d'aria nel mondo.

Gli bastava!

Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S'era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d'un tratto:

un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebro della troppa troppa aria, lo

sentiva.

Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capo-ufficio, e avrebbe ripreso

come prima la sua computisteria. Soltanto il capo-ufficio ormai non doveva pretender troppo da lui

come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l'altra da registrare,

egli facesse una capatina, sí, in Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo:

— Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato...

LA SIGNORA FROLA E Il SIGNOR PONZA, SUO GENERO

Ma insomma, ve lo figurate? c'è da ammattire sul serio tutti quanti a non poter sapere chi tra i due sia

il pazzo, se questa signora Frola o questo signor Ponza, suo genero. Cose che càpitano soltanto a

Valdana, città disgraziata, calamíta di tutti i forestieri eccentrici!

Pazza lei o pazzo lui; non c'è via di mezzo: uno dei due dev'esser pazzo per forza. Perché si tratta

niente meno che di questo... Ma no, è meglio esporre prima con ordine.

Sono, vi giuro, seriamente costernato dell'angoscia in cui vivono da tre mesi gli abitanti di

Valdana, e poco m'importa della signora Frola e del signor Ponza, suo genero. Perché, se è vero che

una grave sciagura è loro toccata, non è men vero che uno dei due, almeno, ha avuto la fortuna

d'impazzirne e l'altro l'ha ajutato, séguita ad ajutarlo cosí che non si riesce, ripeto, a sapere quale dei

due veramente sia pazzo; e certo una consolazione meglio di questa non se la potevano dare. Ma dico

di tenere cosí, sotto quest'incubo, un'intera cittadinanza, vi par poco? togliendole ogni sostegno al

giudizio, per modo che non possa piú distinguere tra fantasma e realtà. Un'angoscia, un perpetuo

sgomento. Ciascuno si vede davanti, ogni giorno, quei due; li guarda in faccia; sa che uno dei due è

pazzo; li studia, li squadra, li spia e, niente! non poter scoprire quale dei due; dove sia il fantasma,

dove la realtà. Naturalmente, nasce in ciascuno il sospetto pernicioso che tanto vale allora la realtà

quanto il fantasma, e che ogni realtà può benissimo essere un fantasma e viceversa. Vi par poco? Nei

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panni del signor prefetto, io darei senz'altro, per la salute dell'anima degli abitanti di Valdana, lo

sfratto alla signora Frola e al signor Ponza, suo genero.

Ma procediamo con ordine.

Questo signor Ponza arrivò a Valdana or sono tre mesi, segretario di prefettura. Prese alloggio nel

casolare nuovo all'uscita del paese, quello che chiamano "il Favo". Lí. All'ultimo piano, un

quartierino. Tre finestre che danno sulla campagna, alte, tristi (ché la facciata di là, all'aria di

tramontana, su tutti quegli orti pallidi, chi sa perché, benché nuova, s'è tanto intristita) e tre finestre

interne, di qua, sul cortile, ove gira la ringhiera del ballatojo diviso da tramezzi a grate. Pendono da

quella ringhiera, lassú lassú, tanti panierini pronti a esser calati col cordino a un bisogno.

Nello stesso tempo, però, con maraviglia di tutti, il signor Ponza fissò nel centro della città, e

propriamente in Via dei Santi n. 15, un altro quartierino mobigliato di tre camere e cucina. Disse che

doveva servire per la suocera, signora Frola. E difatti questa arrivò cinque o sei giorni dopo; e il

signor Ponza si recò ad accoglierla, lui solo, alla stazione e la condusse e la lasciò lí, sola.

Ora, via, si capisce che una figliuola, maritandosi, lasci la casa della madre per andare a convivere

col marito, anche in un'altra città; ma che questa madre poi, non reggendo a star lontana dalla

figliuola, lasci il suo paese, la sua casa, e la segua, e che nella città dove tanto la figliuola quanto lei

sono forestiere vada ad abitare in una casa a parte, questo non si capisce piú facilmente; o si deve

ammettere tra suocera e genero una cosí forte incompatibilità da rendere proprio impossibile la

convivenza, anche in queste condizioni.

Naturalmente a Valdana dapprima si pensò cosí. E certo chi scapitò per questo nell'opinione di

tutti fu il signor Ponza. Della signora Frola, se qualcuno ammise che forse doveva averci anche lei

un po' di colpa, o per scarso compatimento o per qualche caparbietà o intolleranza, tutti

considerarono l'amore materno che la traeva appresso alla figliuola, pur condannata a non poterle

vivere accanto.

Gran parte ebbe in questa considerazione per la signora Frola e nel concetto che subito del signor

Ponza s'impresse nell'animo di tutti, che fosse cioè duro, anzi crudele, anche l'aspetto dei due,

bisogna dirlo. Tozzo, senza collo, nero come un africano, con folti capelli ispidi su la fronte bassa,

dense e aspre sopracciglia giunte, grossi mustacchi lucidi da questurino, e negli occhi cupi, fissi,

quasi senza bianco, un'intensità violenta, esasperata, a stento contenuta, non si sa se di doglia tetra o

di dispetto della vista altrui, il signor Ponza non è fatto certamente per conciliarsi la simpatia o la

confidenza. Vecchina gracile, pallida, è invece la signora Frola, dai lineamenti fini, nobilissimi, e

una aria malinconica, ma d'una malinconia senza peso, vaga e gentile, che non esclude l'affabilità

con tutti.

Ora di questa affabilità, naturalissima in lei, la signora Frola ha dato subito prova in città, e subito

per essa nell'animo di tutti è cresciuta l'avversione per il signor Ponza; giacché chiaramente è apparsa

a ognuno l'indole di lei, non solo mite, remissiva, tollerante, ma anche piena d'indulgente

compatimento per il male che il genero le fa; e anche perché s'è venuto a sapere che non basta al

signor Ponza relegare in una casa a parte quella povera madre, ma spinge la crudeltà fino a vietarle

anche la vista della figliuola.

Se non che, non crudeltà, protesta subito nelle sue visite alle signore di Valdana la signora Frola,

ponendo le manine avanti, veramente afflitta che si possa pensare questo di suo genero. E s'affretta a

decantarne tutte le virtú, a dirne tutto il bene possibile e immaginabile; quale amore, quante cure,

quali attenzioni egli abbia per la figliuola, non solo, ma anche per lei, sí, sí, anche per lei; premuroso,

disinteressato... Ah, non crudele, no, per carità! C'è solo questo: che vuole tutta, tutta per sé la

mogliettina, il signor Ponza, fino al punto che anche l'amore, che questa deve avere (e l'ammette,

come no?) per la sua mamma, vuole che le arrivi non direttamente, ma attraverso lui, per mezzo di

lui, ecco. Sí, può parere crudeltà, questa, ma non lo è; è un'altra cosa, un'altra cosa ch'ella, la signora

Frola, intende benissimo e si strugge di non sapere esprimere. Natura, ecco... ma no, forse una specie

di malattia... come dire? Mio Dio, basta guardarlo negli occhi. Fanno in prima una brutta

impressione, forse, quegli occhi; ma dicono tutto a chi, come lei, sappia leggere in essi: la pienezza

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chiusa, dicono, di tutto un mondo d'amore in lui, nel quale la moglie deve vivere senza mai uscirne

minimamente, e nel quale nessun altro, neppure la madre, deve entrare. Gelosia? Sí, forse; ma a

voler definire volgarmente questa totalità esclusiva d'amore.

Egoismo? Ma un egoismo che si dà tutto, come un mondo, alla propria donna! Egoismo, in fondo,

sarebbe quello di lei a voler forzare questo mondo chiuso d'amore, a volervisi introdurre per forza,

quand'ella sa che la figliuola è felice, cosí adorata... Questo a una madre può bastare! Del resto, non

è mica vero ch'ella non la veda, la sua figliuola. Due o tre volte al giorno la vede: entra nel cortile

della casa; suona il campanello e subito la sua figliuola s'affaccia di lassú.

- Come stai Tildina?

- Benissimo, mamma. Tu?

- Come Dio vuole, figliuola mia. Giú, giú il panierino!

E nel panierino, sempre due parole di lettera, con le notizie della giornata. Ecco, le basta questo.

Dura ormai da quattr'anni questa vita, e ci s'è abituata la signora Frola. Rassegnata, sí. E quasi non ne

soffre piú.

Com'è facile intendere, questa rassegnazione della signora Frola, quest'abitudine ch'ella dice

d'aver fatto al suo martirio, ridondano a carico del signor Ponza, suo genero, tanto piú, quanto piú

ella col suo lungo discorso si affanna a scusarlo.

Con vera indignazione perciò, e anche dirò con paura, le signore di Valdana che hanno ricevuto la

prima visita della signora Frola, accolgono il giorno dopo l'annunzio di un'altra visita inattesa, del

signor Ponza, che le prega di concedergli due soli minuti d'udienza, per una "doverosa

dichiarazione", se non reca loro incomodo.

Affocato in volto, quasi congestionato, con gli occhi piú duri e piú tetri che mai, un fazzoletto in

mano che stride per la sua bianchezza, insieme coi polsini e il colletto della camicia, sul nero della

carnagione, del pelame e del vestito, il signor Ponza, asciugandosi di continuo il sudore che gli

sgocciola dalla fronte bassa e dalle gote raschiose e violacee, non già per il caldo, ma per la violenza

evidentissima dello sforzo che fa su se stesso e per cui anche le grosse mani dalle unghie lunghe gli

tremano; in questo e in quel salotto, davanti a quelle signore che lo mirano quasi atterrite, domanda

prima se la signora Frola, sua suocera, è stata a visita da loro il giorno avanti; poi, con pena, con

sforzo, con agitazione di punto in punto crescenti, se ella ha parlato loro della figliuola e se ha detto

che egli le vieta assolutamente di vederla e di salire in casa sua.

Le signore, nel vederlo cosí agitato, com'è facile immaginare, s'affrettano a rispondergli che la

signora Frola, sí, è vero, ha detto loro di quella proibizione di vedere la figlia, ma anche tutto il bene

possibile e immaginabile di lui, fino a scusarlo, non solo, ma anche a non dargli nessun'ombra di

colpa per quella proibizione stessa.

Se non che, invece di quietarsi, a questa risposta delle signore, il signor Ponza si agita di piú; gli

occhi gli diventano piú duri, piú fissi, piú tetri; le grosse gocce di sudore piú spesse; e alla fine,

facendo uno sforzo ancor piú violento su se stesso, viene alla sua "dichiarazione doverosa".

La quale è questa, semplicemente: che la signora Frola, poveretta, non pare, ma è pazza.

Pazza da quattro anni, sí. E la sua pazzia consiste appunto nel credere che egli non voglia farle

vedere la figliuola. Quale figliuola? È morta, è morta da quattro anni la figliuola: e la signora Frola,

appunto per il dolore di questa morte, è impazzita: per fortuna, impazzita, sí, giacché la pazzia è stata

per lei lo scampo dal suo disperato dolore. Naturalmente non poteva scamparne, se non cosí, cioè

credendo che non sia vero che la sua figliuola è morta e che sia lui, invece, suo genero, che non

vuole piú fargliela vedere.

Per puro dovere di carità verso un'infelice, egli, il signor Ponza, seconda da quattro anni, a costo

di molti e gravi sacrifici, questa pietosa follia: tiene, con dispendio superiore alle sue forze, due case:

una per sé, una per lei; e obbliga la sua seconda moglie, che per fortuna caritatevolmente si presta

volentieri, a secondare anche lei questa follia. Ma carità, dovere, ecco, fino a un certo punto: anche

per la sua qualità di pubblico funzionario, il signor Ponza non può permettere che si creda di lui, in

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città, questa cosa crudele e inverosimile: ch'egli cioè, per gelosia o per altro, vieti a una povera

madre di vedere la propria figliuola.

Dichiarato questo, il signor Ponza s'inchina innanzi allo sbalordimento delle signore, e va via. Ma

questo sbalordimento delle signore non ha neppure il tempo di scemare un po', che rieccoti la signora

Frola con la sua aria dolce di vaga malinconia a domandare scusa se, per causa sua, le buone signore

si sono prese qualche spavento per la visita del signor Ponza, suo genero.

E la signora Frola, con la maggior semplicità e naturalezza del mondo, dichiara a sua volta, ma in

gran confidenza, per carità! poiché il signor Ponza è un pubblico funzionario, e appunto per questo

ella la prima volta s'è astenuta dal dirlo, ma sí, perché questo potrebbe seriamente pregiudicarlo nella

carriera; il signor Ponza, poveretto - ottimo, ottimo inappuntabile segretario alla prefettura, compíto,

preciso in tutti i suoi atti, in tutti i suoi pensieri, pieno di tante buone qualità - il signor Ponza,

poveretto, su quest'unico punto non... non ragiona piú, ecco; il pazzo è lui, poveretto; e la sua pazzia

consiste appunto in questo: nel credere che sua moglie sia morta da quattro anni e nell'andar dicendo

che la pazza è lei, la signora Frola che crede ancora viva la figliuola. No, non lo fa per contestare in

certo qual modo innanzi agli altri quella sua gelosia quasi maniaca e quella crudele proibizione a lei

di vedere la figliuola, no; crede, crede sul serio il poveretto che sua moglie sia morta e che questa

che ha con sé sia una seconda moglie. Caso pietosissimo! Perché veramente col suo troppo amore

quest'uomo rischiò in prima di distruggere, d'uccidere la giovane moglietta delicatina, tanto che si

dovette sottrargliela di nascosto e chiuderla a insaputa di lui in una casa di salute. Ebbene, il povero

uomo, a cui già per quella frenesia d'amore s'era anche gravemente alterato il cervello, ne impazzí;

credette che la moglie fosse morta davvero: e questa idea gli si fissò talmente nel cervello, che non ci

fu piú verso di levargliela, neppure quando, ritornata dopo circa un anno florida come prima, la

moglietta gli fu ripresentata. La credette un'altra; tanto che si dovette con l'ajuto di tutti, parenti e

amici, simulare un secondo matrimonio, che gli ha ridato pienamente l'equilibrio delle facoltà

mentali.

Ora la signora Frola crede d'aver qualche ragione di sospettare che da un pezzo suo genero sia del

tutto rientrato in sé e ch'egli finga, finga soltanto di credere che sua moglie sia una seconda moglie,

per tenersela cosí tutta per sé, senza contatto con nessuno, perché forse tuttavia di tanto in tanto gli

balena la paura che di nuovo gli possa esser sottratta nascostamente. Ma sí. Come spiegare, se no,

tutte le cure, le premure che ha per lei, sua suocera, se veramente egli crede che è una seconda

moglie quella che ha con sé? Non dovrebbe sentire l'obbligo di tanti riguardi per una che, di fatto,

non sarebbe piú sua suocera, è vero? Questo, si badi, la signora Frola lo dice, non per dimostrare

ancor meglio che il pazzo è lui; ma per provare anche a se stessa che il suo sospetto è fondato.

- E intanto, - conclude con un sospiro che su le labbra le s'atteggia in un dolce mestissimo sorriso,

- intanto la povera figliuola mia deve fingere di non esser lei, ma un'altra, e anch'io sono obbligata a

fingermi pazza credendo che la mia figliuola sia ancora viva. Mi costa poco, grazie a Dio, perché è

là, la mia figliuola, sana e piena di vita; la vedo, le parlo; ma sono condannata a non poter convivere

con lei, e anche a vederla e a parlarle da lontano, perché egli possa credere, o fingere di credere che

la mia figliuola, Dio liberi, è morta e che questa che ha con sé è una seconda moglie. Ma torno a

dire, che importa se con questo siamo riusciti a ridare la pace a tutti e due? So che la mia figliuola è

adorata, contenta; la vedo; le parlo; e mi rassegno per amore di lei e di lui a vivere cosí e a passare

anche per pazza, signora mia, pazienza...

Dico, non vi sembra che a Valdana ci sia proprio da restare a bocca aperta, a guardarci tutti negli

occhi, come insensati? A chi credere dei due? Chi è il pazzo? Dov'è la realtà? dove il fantasma?

Lo potrebbe dire la moglie del signor Ponza. Ma non c'è da fidarsi se, davanti a lui, costei dice

d'esser seconda moglie; come non c'è da fidarsi se, davanti alla signora Frola, conferma d'esserne la

figliuola. Si dovrebbe prenderla a parte e farle dire a quattr'occhi la verità. Non è possibile. Il signor

Ponza - sia o no lui il pazzo - è realmente gelosissimo e non lascia vedere la moglie a nessuno. La

tiene lassú, come in prigione, sotto chiave; e questo fatto è senza dubbio in favore della signora

Frola; ma il signor Ponza dice che è costretto a far cosí, e che sua moglie stessa anzi glielo impone,

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per paura che la signora Frola non le entri in casa all'improvviso. Può essere una scusa. Sta anche di

fatto che il signor Ponza non tiene neanche una serva in casa. Dice che lo fa per risparmio, obbligato

com'è a pagar l'affitto di due case; e si sobbarca intanto a farsi da sé la spesa giornaliera, e la moglie,

che a suo dire non è la figlia della signora Frola, si sobbarca anche lei per pietà di questa, cioè d'una

povera vecchia che fu suocera di suo marito, a badare a tutte le faccende di casa, anche alle piú

umili, privandosi dell'ajuto di una serva. Sembra a tutti un po' troppo. Ma è anche vero che questo

stato di cose, se non con la pietà, può spiegarsi con la gelosia di lui.

Intanto, il signor Prefetto di Valdana s'è contentato della dichiarazione del signor Ponza. Ma certo

l'aspetto e in gran parte la condotta di costui non depongono in suo favore, almeno per le signore di

Valdana piú propense tutte quante a prestar fede alla signora Frola. Questa, difatti, viene premurosa a

mostrar loro le letterine affettuose che le cala giú col panierino la figliuola, e anche tant'altri privati

documenti, a cui però il signor Ponza toglie ogni credito, dicendo che le sono stati rilasciati per

confortare il pietoso inganno.

Certo è questo, a ogni modo: che dimostrano tutt'e due, l'uno per l'altra, un meraviglioso spirito di

sacrifizio, commoventissimo; e che ciascuno ha per la presunta pazzia dell'altro la considerazione

piú squisitamente pietosa. Ragionano tutt'e due a meraviglia; tanto che a Valdana non sarebbe mai

venuto in mente a nessuno di dire che l'uno dei due era pazzo, se non l'avessero detto loro: il signor

Ponza della signora Frola, e la signora Frola del signor Ponza.

La signora Frola va spesso a trovare il genero alla prefettura per aver da lui qualche consiglio, o lo

aspetta all'uscita per farsi accompagnare in qualche compera: e spessissimo, dal canto suo, nelle ore

libere e ogni sera il signor Ponza va a trovare la signora Frola nel quartierino mobigliato; e ogni qual

volta per caso l'uno s'imbatte nell'altra per via, subito con la massima cordialità si mettono insieme;

egli le dà la destra e, se stanca, le porge il braccio, e vanno cosí, insieme, tra il dispetto aggrondato e

lo stupore e la costernazione della gente che li studia, li squadra, li spia e, niente!, non riesce ancora

in nessun modo a comprendere quale sia il pazzo dei due, dove sia il fantasma, dove la realtà.

EFFETTI D'UN SOGNO INTERROTTO

Abito in una vecchia casa che pare la bottega d'un rigattiere. Una casa che ha preso, chi sa da quanti

anni, la polvere.

La perpetua penombra che la opprime ha il rigido delle chiese e vi stagna il tanfo di vecchio e

d'appassito dei decrepiti mobili d'ogni foggia che la ingombrano e delle tante stoffe che la parano,

preziose sbrindellate e scolorite, stese e appese da per tutto, in forma di coperte, di tende e

cortinaggi. Io aggiungo di mio a quel tanfo, quanto piú posso, la peste delle mie pipe intartarite,

fumando tutto il giorno. Soltanto quando rivengo da fuori, mi rendo conto che a casa mia non si

respira. Ma per uno che vive come vivo io... Basta; lasciamo andare.

La camera da letto ha una specie d'alcova su un ripiano a due scalini; il soffitto in capo;

l'architrave sorretto da due tozze colonne in mezzo. Cortinaggi anche qui, per nascondere il letto,

scorrevoli su bacchette d'ottone, dietro le colonne. L'altra metà della camera serve da studio. Sotto le

colonne è un divanaccio, per dir la verità molto comodo, con tanti cuscini rammucchiati e, davanti,

una tavola massiccia che fa da scrivania; a sinistra, un grande camino che non accendo mai; nella

parete di contro, tra due finestrette, un antico scaffale con cadaveri di libri rilegati in cartapecora

ingiallita. Sulla mensola di marmo annerito del camino è appeso un quadro secentesco, mezzo

affumicato, che rappresenta la Maddalena in penitenza, non so se copia o originale ma, anche se

copia, non priva d'un certo pregio. La figura, grande al vero, è sdrajata bocconi in una grotta; un

braccio appoggiato sul gomito sorregge la testa; gli occhi abbassati sono intenti a leggere un libro al

lume d'una lucerna posata a terra accanto a un teschio. Certo, il volto, il magnifico volume dei fulvi

capelli sciolti, una spalla e il seno scoperti, al caldo lume di quella lucerna, sono bellissimi.

La casa è mia e non è mia. Appartiene con tutto l'arredo a un mio amico che tre anni fa, partendo

per l'America, me la lasciò in garanzia d'un grosso debito che ha con me. Quest'amico, s'intende, non

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s'è fatto piú vivo, né, per quante domande e ricerche io abbia fatte, son riuscito ad averne notizie.

Certo però non posso ancora disporre, per riavere il mio, né della casa né di quanto vi sta dentro.

Ora, un antiquario di mia conoscenza fa all'amore con quella Maddalena in penitenza e l'altro

giorno mi condusse in casa un signore forestiere per fargliela vedere.

Il signore, sulla quarantina, alto, magro, calvo, era parato di stranissimo lutto, come usa ancora in

provincia. Di lutto, pure la camicia. Ma aveva anche impressa sul volto scavato la sventura da cui è

stato di recente colpito. Alla vista del quadro si contraffece tutto e subito si coprí gli occhi con le

mani, mentre l'antiquario gli domandava con strana soddisfazione:

- Non è vero? Non è vero?

Quello, piú volte, col viso ancora tra le mani, gli fece segno di sí. Sul cranio calvo le vene gonfie

pareva gli volessero scoppiare. Si cavò di tasca un fazzoletto listato di nero e se lo portò agli occhi

per frenare le lagrime irrompenti. Lo vidi a lungo sussultar nello stomaco, con un fiottío fitto nel

naso.

Tutto - meridionalmente - molto esagerato.

Ma fors'anche sincero.

L'antiquario mi volle spiegare che conosceva fin da bambina la moglie di quel signore, ch'era del

suo stesso paese: - Le posso assicurare ch'era precisa l'immagine di questa Maddalena. Me ne son

ricordato jeri, quando il mio amico venne a dirmi che gli era morta, cosí giovane, appena un mese fa.

Lei sa che son venuto da poco a vedere questo quadro.

- Già, ma io...

- Sí, mi disse allora che non poteva venderlo.

- E neanche adesso.

Mi sentii afferrare per il braccio da quel signore, che quasi mi si buttò a piangere sul petto,

scongiurandomi che glielo cedessi, a qualunque prezzo: era lei, sua moglie, lei tal'e quale, lei cosí -

tutta - come lui soltanto, lui, lui marito, poteva averla veduta nell'intimità (e, cosí dicendo, alludeva

chiaramente alla nudità del seno), non poteva piú perciò lasciarmela lí sotto gli occhi, dovevo

capirlo, ora che sapevo questo.

Lo guardavo, stordito e costernato, come si guarda un pazzo, non parendomi possibile che dicesse

una tal cosa sul serio, che potesse cioè sul serio immaginarsi che quello che per me non era altro che

un quadro su cui non avevo mai fatto alcun pensiero potesse ora diventare anche per me il ritratto di

sua moglie cosí col petto tutto scoperto, come lui solo poteva averla veduta nell'intimità e dunque in

uno stato da non poter piú lasciarla sotto gli occhi a un estraneo.

La stranezza di una tale pretesa mi promosse uno scatto di riso involontario.

- Ma no, veda, caro signore: io, sua moglie, non l'ho conosciuta; non posso dunque attaccare a

questo quadro il pensiero che lei sospetta. Io vedo là un quadro con un'immagine che... sí, mostra...

Non l'avessi mai detto! Mi si parò davanti, quasi per saltarmi addosso, gridando:

- Le proibisco di guardarla ora, cosí, in mia presenza!

Per fortuna s'intromise l'antiquario, pregandomi di scusare, di compatire quel povero forsennato,

ch'era stato sempre fin quasi alla follia geloso della moglie, amata fino all'ultimo d'un amore quasi

morboso. Poi si rivolse a lui e lo scongiurò di calmarsi; ch'era stupido parlarmi cosí, farmi un

obbligo di cedergli il quadro in considerazione di cose tanto intime. Osava anche proibirmi di

guardarlo? Era impazzito? E se lo trascinò via, di nuovo chiedendomi scusa della scenata a cui non

s'aspettava di dovermi fare assistere.

Io ne rimasi talmente impressionato che la notte me lo sognai.

Il sogno, a dir piú precisamente, dovette avvenire nelle prime ore del mattino e proprio nel

momento che un improvviso fracasso davanti all'uscio della camera, d'una zuffa di gatti che

m'entrano in casa non so di dove, forse attratti dai tanti topi che l'hanno invasa, mi svegliò di

soprassalto.

Effetto del sogno cosí di colpo interrotto fu che i fantasmi di esso, voglio dire quel signore a lutto

e la immagine della Maddalena diventata sua moglie, forse non ebbero il tempo di rientrare in me e

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rimasero fuori, nell'altra parte della camera oltre le colonne, dov'io nel sogno li vedevo; dimodoché,

quando al fracasso springai da letto e con una strappata scostai il cortinaggio, potei intravedere

confusamente un viluppo di carni e panni rossi e turchini avventarsi alla mensola del camino per

ricomporsi nel quadro in un baleno; e sul divano, tra tutti quei cuscini scomposti, lui, quel signore,

nell'atto che, da disteso, si levava per mettersi seduto, non piú vestito di nero ma in pigiama di seta

celeste a righine bianche e blu, che alla luce man mano crescente delle due finestre si andava

dissolvendo nella forma e nei colori di quei cuscini e svaniva.

Non voglio spiegare ciò che non si spiega. Nessuno è mai riuscito a penetrare il mistero dei sogni.

Il fatto è che, alzando gli occhi, turbatissimo, a riguardare il quadro sulla mensola del camino, io

vidi, chiarissimamente vidi per un attimo gli occhi della Maddalena farsi vivi, sollevar le pàlpebre

dalla lettura e gettarmi uno sguardo vivo, ridente di tenera diabolica malizia. Forse gli occhi sognati

della moglie morta di quel signore, che per un attimo s'animarono in quelli dipinti dell'immagine.

Non potei piú restare in casa. Non so come feci a vestirmi. Di tanto in tanto, con un raccapriccio

che potete bene immaginarvi, mi voltavo a guardar di sfuggita quegli occhi. Li ritrovavo sempre

abbassati e intenti alla lettura, come sono nel quadro; ma non ero piú sicuro, ormai, che quando non

li guardavo piú non si ravvivassero alle mie spalle per guardarmi, ancora con quel brio di tenera

diabolica malizia.

Mi precipitai nella bottega dell'antiquario, che è nei pressi della mia casa. Gli dissi che, se non

potevo vendere il quadro a quel suo amico, potevo però cedergli in affitto la casa con tutto l'arredo,

compreso il quadro, s'intende, a un prezzo convenientissimo.

- Anche da oggi stesso, se il suo amico vuole.

C'era, in quella mia proposta a bruciapelo, tale ansia e tanto affanno, che l'antiquario ne volle

sapere il motivo. Il motivo, mi vergognai a dirglielo. Volli che m'accompagnasse lí per lí all'albergo

dove quel suo amico alloggiava.

Potete figurarvi come restai, quando in una stanza di quell'albergo me lo vidi venire avanti,

appena alzato dal letto, con quello stesso pigiama a righine bianche e blu con cui l'avevo visto in

sogno e sorpreso, ombra, nella mia camera, nell'atto di levarsi per mettersi seduto sul divano tra i

cuscini scomposti.

- Lei torna da casa mia - gli gridai, allibito - lei è stato questa notte a casa mia!

Lo vidi crollare su una sedia, atterrito, balbettando: oh Dio, sí, a casa mia, in sogno, c'era stato

davvero, e sua moglie...

- Appunto, appunto, sua moglie è scesa dal quadro. Io l'ho sorpresa che vi rientrava. E lei, alla

luce, m'è svanito là sul divano. Ma ammetterà ch'io non potevo sapere, quando l'ho sorpreso sul

divano, che lei avesse un pigiama come questo che ha indosso. Dunque era proprio lei, in sogno, a

casa mia; e sua moglie è proprio scesa dal quadro, come lei l'ha sognata. Si spieghi il fatto come

vuole. L'incontro, forse, del mio sogno col suo. Io non so. Ma non posso piú stare in quella casa, con

lei che ci viene in sogno e sua moglie che m'apre e chiude gli occhi dal quadro. Il motivo che ho io

d'averne paura, non può averlo lei, perché si tratta di se stesso e di sua moglie. Vada dunque a

ripigliarsi la sua immagine rimasta a casa mia! Che fa adesso? Non vuole piú? Sviene?

- Ma allucinazioni, signori miei, allucinazioni! - non rifiniva intanto d'esclamare l'antiquario.

Quanto son cari questi uomini sodi che, davanti a un fatto che non si spiega, trovano subito una

parola che non dice nulla e in cui cosí facilmente s'acquetano.

- Allucinazioni.