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LUDOVICO GEYMONAT Storia del pensiero filosofico e scientifico VOLUME QUINTO L'Ottocento (2) Con specifici contributi di Corrado Mangione, Felice Mondella, Enrico Rambaldi GARZANTI

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LUDOVICO GEYMONAT

Storia del pensiero

filosofico e scientifico

VOLUME QUINTO

L'Ottocento (2)

Con specifici contributi di Corrado Mangione, Felice Mondella, Enrico Rambaldi

GARZANTI

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I edizione: ottobre 1971 Nuova edizione: ottobre 1975

Ristampa 1981

© Garzanti Editore s.p.a., 1971, 1975, 1981

Ogni esemplare di quest'opera che non rechi il contrassegno della

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SEZIONE SETTIMA

Sviluppo della razionalità scientifica. Inizi e crescita del marxismo

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CAPITOLO PRIMO

Caratteri positivi e negativi della nuova epoca

I · CONSIDERAZIONI PRELIMINARI

Le vicende economico-politiche dell'importante periodo storico che inizia nel decennio I840-50 e si conclude con la prima guerra mondiale, sono così vicine a noi che possiamo senz'altro supporle note ad ogni lettore, almeno nelle loro linee generalissime: rafforzamento economico della borghesia, fonda­zione della I Internazionale socialista (I 864), sua crisi dopo il fallimento della Comune di Parigi (I871), fondazione della 11 Internazionale (1889), guerra di secessione negli Stati Uniti d'America, unificazione politica della Germania e dell'Italia, intensificarsi dell'attività coloniale da parte delle grandi potenze europee, nascita della fase imperialistica del capitalismo e insorgere di gravis­simi conflitti tra i vari imperialismi. Si tratta d 'altra parte di vicende così com­plesse, che riuscirebbe estremamente difficile tentare di rinchiuderle in un quadro unitario e coerente. Ci riserviamo comunque di richiamarne alcune partico­larmente significative, quando- nel corso dei successivi capitoli -la cosa si ren­

derà indispensabile per chiarire qualche punto specifico della nostra esposi­zione.

Un carattere generale della cultura durante il periodo in esame è l'impo­nente aumento di peso specifico che vi assumono le ricerche scientifiche, e il parallelo graduale declino dell'importanza generalmente riconosciuta alle ricerche filosofiche, non solo in Francia e in Inghilterra ma nella stessa Germania che pur aveva dato luogo qualche decennio prima alla creazione dei più arditi sistemi metafisici. Risulterà chiaro del resto, dalle pagine stesse che dedicheremo in questo e nel prossimo volume all'esposizione del pensiero filosofico propria­mente detto, che la seconda metà dell'Ottocento non ci presenta dei nuovi filo­sofi di statura paragonabile a quella di un Hegel o di un Comte, dei quali par­lammo a lungo nella sezione precedente. Va fatta eccezione per Marx ed Engels, i quali - dopo avere iniziato la propria formazione attraverso i dibattiti che se­gnarono la crisi e il rovesciamento dell'hegelismo (cui sono dedicati i capitoli II

e III del presente volume) -pervennero a risultati che non possono più dirsi filosofici nel senso tradizionale del termine, non avendo nulla a che vedere con

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Caratteri positivi e negativi della nuova epoca

la vecchia metafisica, ma certamente sono forniti del più notevole peso filoso­fico, scientifico e pratico.

Comunque, anche a prescindere dalle nuove prospettive aperte da Marx e da Engels, dobbiamo riconoscere che affiorano, nelle stesse ricerche scientifiche della seconda metà del secolo, alcuni importanti problemi di innegabile rilievo filosofico : basti pensare a quelli connessi alla profonda crisi del meccanicismo o a quelli suggeriti dalle tesi innovatrici dell'evoluzionismo. Trattasi però di problemi che si legano direttamente, non alle speculazioni astratte e generali dei filosofi, bensl al concreto travaglio delle scienze: per esempio, la crisi del meccanicismo (che pur era nato nel Seicento come indirizzo essenzialmente filosofit::o) sorge ora soprattutto nell'ambito della fisica, mentre le nuove vedute deN'evoluzionismo affondano le proprie radici in ben determinate ricerche biologi­che. Questo travaglio di idee vecchie e nuove sta al centro di numerosi dibattiti assai significativi (anche filosoficamente), e chi volesse prescindere da esso rischie­rebbe senza dubbio di non comprendere i temi di fondo della cultura dell'epoca.

Ciò premesso, è chiaro che la trattazione del presente volume si incentrerà su due grandi temi: per un lato, la nascita e la crescita del marxismo; per l'altro, lo sviluppo del pensiero scientifico con particolare riguardo alle istanze critiche sorte all'interno di esso. Non è, del resto, a credere che i due temi risultino senza relazioni fra loro, poiché è certo che Marx ed Engels, pur formatisi nell'atmo­sfera dell'hegelismo, provarono un autentico vivissimo interesse per gli straor­dinari progressi delle scienze e contribuirono in misura notevolissima a farne maturare il senso critico.

Una posizione in certo senso a parte è occupata dai capitoli v e VI: il v verrà dedicato al cosl detto «materialismo volgare o dogmatico>>, il cui esame ser­virà comunque a porre in luce le differenze che lo separano dal nuovo tipo di materialismo elaborato da Marx e da Engels; il VI verrà invece dedicato a due autori (Schopenhauer e Kierkegaard), le cui originali riflessioni filosofiche eserciteranno una grande influenza sulla successiva cultura europea quando questa si ribellerà al predominio della scienza per sfociare in posizioni apertamente irrazionalistiche.

Prima di concludere queste considerazioni preliminari, vogliamo avvertire il lettore che nel presente volume non intendiamo esporre in dettaglio la storia di questa o quella scienza, ma mettere in luce le principali innovazioni scienti­fiche realizzate nel periodo in esame, le difficoltà di principio emerse in esse, le rivoluzioni metodologiche cui si dovette fare ricorso per tentar di risolvere tali difficoltà. Anzitutto dovremo, però, dedicare qualche paragrafo di questo medesimo primo capitolo a delineare le nuove funzioni assunte dalla scienza in rapporto alla tecnica, e le illusorie speranze che i successi conseguiti dal pro­gresso tecnico-scientifico fecero sorgere in larghi strati della popolazione: il­lusioni che solo uno studio critico delle società (come appunto quello instaurato da Marx e da Engels) sarà in grado di dissolvere e sconfiggere.

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Il · LA SCIENZA A SERVIZIO DELLA PRODUZIONE

Uno dei mutamenti essenziali fra la prima e la seconda metà dell'Ottocento è costituito dalla nuova importanza che vengono ad assumere le cosiddette scienze applicate.

Già Bacone e poi via via altri pensatori avevano intuito con straordinaria chiarezza che le applicazioni delle scoperte scientifiche avrebbero trasformato radicalmente la struttura della nostra civiltà. Ora però queste applicazioni diven­tano un fatto concreto, una realtà che si impone a qualunque osservatore. Il loro numero e la loro fecondità crescono a dismisura, sì da incidere in modo deter­minante sullo sviluppo stesso dell'economia. È un fatto che avrà notevolissime conseguenze sia sul piano pratico sia su quello teorico, giungendo a modificare la valutazione stessa del sapere scientifico.

Mentre la prima rivoluzione industriale, prodottasi - come sappiamo -nel Settecento, si era spesso e largamente avvalsa delle ingegnose e fortunate invenzioni di abili tecnici che lavoravano ai margini della scienza senza ricevere da essa precise istruzioni (si ricordi quanto venne detto nella sezione v a pro­posito della costruzione delle prime macchine a vapore), la cosiddetta seconda rivoluzione industriale, che inizia appunto verso la metà dell'Ottocento, trova invece nelle scoperte scientifiche uno degli ausili principali per il proprio po­tenziamento. Si pensi, per esempio, allo straordinario significato che ebbe per l'industria, per i trasporti, ecc. la nascita dell'elettrotecnica, resa possibile dalle grandi scoperte di elettrologia compiute dai fisici della prima metà del secolo; o alla radicale svolta, subita dalla fabbricazione dei prodotti chimici in seguito ai nuovi ritrovati ottenuti nei grandi laboratori di chimica inorganica e organi­ca da poco istituiti nelle università.

Oggi è risaputo da tutti che il progresso della scienza e della tecnica possiede certamente un carattere globale: da un lato le varie discipline scientifiche si for­niscono a vicenda un aiuto determinante, in quanto le conquiste dell'una vengono utilizzate dalle altre per conseguire nuovi successi altrimenti irraggiungibili, e lo stesso accade per le vatie tecnologie in continuo, fecondo interscambio tra loro; dall'altro lato, ogni scienza si avvale, per il potenziamento dei propri appa­rati sperimentali, di tutte le novità (costruzione di nuovi materiali, di nuovi ap­parecchi di misura, ecc.) che i progressi tecnici mettono a sua disposizione, e viceversa si sforza di determinare sempre nuove leggi che renderanno possi­bili ulteriori progressi della tecnica.

È negli ultimi decenni dell'Ottocento che questa globalità diventa vieppiù manifesta e finisce per imporsi come un carattere, fra i più significativi, della nuova epoca. Essa implica l'impossibilità di guardare alle singole discipline come a qualcosa di isolato, di fornito di vita propria, di capace di svilupparsi indipen­dentemente dalla collaborazione delle altre discipline. Diversamente da oggi,

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viene però intesa dalla maggioranza degli studiosi, come una globalità fortemente gerarchizzata, in cui la funzione dirigente spetta in modo incontestabile alla scien­za, mentre le ricerche tecniche, pur fornendo utili strumenti a quelle scientifiche, non hanno in sostanza altro compito che quello di adeguarsi ai loro progressi.

L'idea dominante è quella che già illustrammo nell'esporre il pensiero di Comte, e cioè che la tecnica non sia altro, in ultima istanza, che un'ancella della scienza, potendo avanzare solo quando obbedisca scrupolosamente ai dettami di essa. L'antica distinzione fra lavoro teorico e lavoro pratico assume qui, com'è ovvio, l'aspetto della distinzione fra ricerca scientifica pura, intesa a scoprire i segreti della natura, e scienza applicata - o tecnica - che utilizza tali sco­perte per la risoluzione dei problemi della vita quotidiana (problemi della produ­zione, dei trasporti, dello sfruttamento di sempre nuove fonti di energia, ecc.).

È opportuno a questo punto ricordare i profondi mutamenti che l 'impe­tuoso sviluppo delle scienze applicate produsse in breve tempo nell'animo di parecchi scienziati; non solo perché offrì la possibilità ad alcuni di essi (per esem­pio al grande fisico inglese lord Kelvin) di trarre personalmente notevoli pro­fitti dalle proprie invenzioni, ma perché fece sorgere in loro la sensazione di trovare negli imprenditori industriali i propri più naturali alleati. Il fatto più grave è che il riconoscimento ufficiale della posizione di netta superiorità spettante alla « scienza pura » rispetto alla tecnica fornì, nel contempo, agli scienziati un alibi per disinteressarsi o fingere di disinteressarsi del modo come le loro. scoperte venivano utilizzate e a vantaggio di chi. La cosa essenziale appariva, ai loro occhi, che la società fornisse sempre nuovi mezzi ai ricercatori per compiere le loro più difficili indagini, e che riconoscesse i meriti dei più bravi e li additasse all'am­mirazione generale.

Noi sappiamo però che in realtà le cosiddette nazioni civili non si preoccupa­vano tanto dell'avanzamento del sapere, quanto piuttosto dei notevolissimi risul­tati che le scoperte scientifiche avrebbero potuto recare nel campo pratico (ivi in­clusa la produzione degli armamenti). Si continuava cioè a dichiarare, a parole, che la ricerca scientifica possiede un valore intrinseco ( « puro » proprio perché trattasi di una ricerca teorica ben distinta dalle sue applicazioni), ma in verità si tenevano essenzialmente d'occhio i vantaggi (tutt'altro che puri) che se ne potevano ricavare. Era la distinzione stessa fra aspetto prettamente teorico e aspetto pratico della ricerca a offrire un'apparente giustificazione a chi, pur senza poter negare l 'universalità della scienza, aveva interesse a considerare il progresso tecnico non come un autentico patrimonio di tutta l 'umanità, bensì come un bene esclusivo dei popoli « civili » destinato a moltiplicarne le ricchezze ed a garantire anche per il futuro la loro superiorità rispetto ai paesi « arretrati ».

È un equivoco che accompagnò a lungo - e in un certo senso favorì -la sistematica utilizzazione della scienza da parte della nuova fase della rivolu­zione industriale: utilizzazione che se valse, per un lato, a popolarizzare l 'impor-

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tanza delle ricerche scientifiche, ebbe, per un altro lato, l'effetto di trasformarne radicalmente il significato, tendendo a ridurle - di fatto se non a parole - al rango di meri strumenti nelle mani di chi traeva i maggiori vantaggi dal poten­ziamento della produzione.

Vedremo nei prossimi volumi che la riduzione della scienza a mero stru­mento pratico, privo di valore conoscitivo, verrà teorizzata in termini generali da alcuni autorevoli pensatori del secolo xx (per esempio in Italia da Benedetto Croce) ed anzi costituirà uno dei cardini delle loro concezioni filosofiche. Trat­tasi di concezioni che vengono di solito analizzate solo nella loro struttura teo­rica, ma che possono venire assai meglio comprese, se le colleghiamo alla situa­zione pratica testé accennata.

A questa complessa situazione (sfruttamento della scienza e della tecnica a vantaggio di ristrette minoranze) dovremo fare comunque riferimento, quando si tratterà di spiegare le ricorrenti esplosioni di irrazionalismo antiscientifico proprio nell'età della scienza.

III · LA FEDE NELLA SCIENZA E NEL PROGRESSO

Come accennammo nel paragrafo precedente, l'utilizzazione sistematica delle scoperte scientifiche da parte dell'industria e gli straordinari successi ottenuti mediante tale utilizzazione non tardarono a procurare alla scienza una larghissima popolarità, alimentando la speranza che essa avrebbe finito per risolvere ogni problema dell'umanità. Ciascuno poteva constatare direttamente che le appli­cazioni della fisica, della chimica, della biologia stavano davvero trasformando il modo di vivere dei popoli « civili » (dai mezzi di comunicazione e di trasporto a quelli di illuminazione, dalle abitazioni private all'urbanistica, dalla medicina all'agricoltura, dall'arte tipografica a quella della guerra): come stupirsi se tutto ciò fece sorgere, in vasti strati di persone, attese addirittura miracolistiche? È vero che di tanto in tanto l'economia subiva gravissime crisi, che toglievano a milioni di lavoratori le modeste conquiste faticosamente acquisite, ma nemmeno tali crisi riuscivano in realtà a fermare per lungo tempo lo sviluppo della pro­duzione e tanto meno ad arrestare il progresso scientifico-tecnico; qualcuno po­teva giungere a considerarle come semplici crisi di crescenza, altri più seriamente le attribuiva al modo di procedere caotico (non scientifico) dei dirigenti dell'eco­nomia.

Fiducia nella scienza e fiducia nel progresso risultano, così, abbinate nella mente dei più e determinano a poco a poco l'atmosfera culturale che si diffonde in gran parte dell'Europa, in specie presso i ceti borghesi. Poiché tale doppia fiducia aveva già costituito i cardini della concezione filosofica di Comte, si suole affermare che l'atmosfera da essa determinata è caratteristicamente positivistica; va però subito chiarito che la sua rapida diffusione non fu tanto dovuta alla lettura

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delle opere del fondatore del positivismo francese, quanto alla semplice (a volte semplicistica) riflessione su ciò che stava accadendo nel mondo. Proprio perciò abbiamo preferito parlare di «atmosfera culturale» anziché di filosofia, dif­ferenziandoci in tal modo da una terminologia solitamente accolta dai trattati di storia del pensiero ottocentesco. Il « positivismo » della seconda metà del secolo non fu infatti un'autentica corrente filosofica; non rappresentò cioè un complesso di teorie più o meno coerenti ricavate da un'analisi critica paragona­bile a quella comtiana, ma piuttosto un modo di pensare spontaneo, spesso ingenuo, direttamente scaturito dall'ammirata contemplazione dei successi della scienza e della tecnica.l

Avremo più volte occasione di sottolineare, nel seguito della nostra espo­sizione, il carattere vago e impreciso della nozione testé accennata di progresso, cioè del senso che le si attribuiva nell'epoca in esame. Né avremo timore di denunciare gli equivoci che si celavano in essa: disponibilità a lasciarsi trarre in inganno dalle apparenze, incapacità di individuare le contraddizioni di fondo che minavano lo sviluppo della società industriale, insensibilità di fronte a ciò che stava accadendo al di fuori della stretta cerchia dei paesi cosiddetti civili. Biso­gna ciò malgrado riconoscere che la fiducia nel progresso - spesso trasformatasi in vera e propria fede dogmatica- ebbe l'indiscutibile merito di alimentare la convinzione che l'umanità dovesse fare assegnamento solo su se stessa per mi­gliorare le proprie condizioni, che dovesse preoccuparsi più della propria sorte in terra che non di un'ipotetica vita ultraterrena, che potesse guardare con otti­mismo al futuro pur se questo non era garantito dalla provvidenza divina.

Anche la fiducia, ben giustificata, nella scienza si trasformò spesso in una ingenua fede nelle sue possibilità taumaturgiche. Questa fede si traduceva nel­l'affermazione (riecheggiante essa pure una ben nota tesi comtiana) che solo le sco­perte della scienza costituiscono delle autentiche verità, mentre le concezioni religiose e metafisiche non rappresenterebbero altro che rozzi tentativi di com­prendere il mondo e perciò, se pur legittime in fasi anteriori dello sviluppo del­l'umanità, sono prive oggi di qualunque seria ragione di sopravvivere. Il ca­rattere essenzialmente laico di tale affermazione è manifesto, anche se non man­carono i tentativi di trovare una qualche forma di conciliazione tra l'anzidet­ta fede nella scienza e la conservazione delle antiche tradizioni religiose.

Purtroppo l'uso sempre più diffuso del termine «scienza» non fu sempre di giovamento allo sviluppo dell'autentico spirito scientifico. Quanto più si molti­plicavano le cosiddette scienze, tanto più crescevano i motivi adducibili da co-

I Ecco, ad esempio, le parole con cui Lev Trotzkij, in una commemorazione di Dmitrij Mendeleev (1925), sintetizza il punto di vista del grande scienziato russo del! 'Ottocento: « Il vero cardine della filosofia di Mendeleev può essere ri­cercato in un ottimismo tecnico-scientifico coin-

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cidente con la linea di sviluppo del capitalismo ... Mendeleev credeva nella vittoria dell'uomo su tutte le forze della natura... Egli considerava le possibilità di un futuro migliore solo in rap­porto a uno sviluppo della tecnologia scien­tifica. »

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loro che intendevano combattere non solo le scienze tuttora imperfette, ma la scienza in generale, o- per dirla più chiaramente- la stessa razionalità scien­tifica, ovunque si esprimesse.

Vedremo, nel corso del volume sesto, che saranno molte le obiezioni sol­levate contro la fede nel progresso e la fede nella scienza: dall'accusa generica di dogmatismo alla precisa denuncia dei presupposti metafisici che esse celavano in sé (presupposti tanto più pericolosi in quanto accolti senza alcuna effettiva con­sapevolezza). Queste obiezioni non devono però farci dimenticare che lo stra­ordinario sviluppo della scienza (pura e applicata) e il rapido progresso della produzione furono incontestabilmente due fatti tra i più importanti dell'epoca che ci accingiamo ad esaminare, onde risulta assolutamente necessario fare rife­rimento ad essi in una storia del pensiero che voglia tenere conto della realtà. La stessa reazione contro la scienza e contro il tipo di progresso da essa sorretto, non risulterebbe comprensibile nelle specifiche forme che assunse alla fine del­l'Ottocento, senza tale sistematico riferimento; e, ciò che è ancora più grave, non sarebbe possibile misurare l'autentico peso di quelle correnti di pensiero che, senza opporsi aprioristicamente alla scienza, si accinsero di proposito al difficile compito di chiarire a fondo il vero significato e la vera portata della conoscenza scientifica.

IV. IL SORGERE DI UNA NUOVA ISTANZA METODOLOGICA

ENTRO LA SCIENZA

La novità di gran lunga più importante dal punto di vista della storia del pensiero filosofico-scientifico non è costituita - a parere dello scrivente - dalle innovazioni che i filosofi di professione cercarono di introdurre nella propria disciplina, per reagire in qualche modo al peso via via crescente assunto dalla scienza pura e applicata, o viceversa per abbozzare sistemi più o meno fantasiosi (come l'evoluzionismo di Spencer) che potessero ambire essi pure al titolo di «scientifici». Consiste, invece, come cercheremo di spiegare, nelle trasforma­zioni radicali del concetto di scienza, che ebbero inizio negli anni in questione ad opera degli scienziati stessi, o·almeno di alcuni di essi che rivelarono una par­ticolare sensibilità per il problema dei fondamenti del sapere scientifico.

Queste trasformazioni assunsero ·un aspetto di particolare rilievo in riferi­mento alla matematica e alla fisica, dando luogo, tra i matematici, alla nascita della cosiddetta logica moderna e, tra i fisici, a una consapevolezza del tutto nuova intorno alla natura dei postulati della meccanica, alla funzione spettante ai modelli, all'effettiva realtà da riconoscere -o non riconoscere - ad alcuni enti generalmente accolti dalla tradizione scientifica (come l'etere, lo spazio assoluto, ecc.). Trattasi, come già accennammo nel capitolo xvr della sezione precedente, di ricerche originariamente sorte all'interno delle singole discipline

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con intenti piuttosto limitati (di porre in chiaro i procedimenti dimostrativi usati dalla matematica e dalla fisica), ma trasformatesi poi in discussioni via via più ampie, che finirono ben presto per assumere un valore generale, as­sorbendo quasi tutti i compiti che una volta erano affidati alla cosiddetta gno­seologia filosofica.

È senza dubbio esatto rilevare, come fa la maggior parte degli storici, una certa convergenza tra i risultati ottenuti da questi metodologi nelle loro sottilis­sime analisi della scienza e i risultati conseguiti dagli indirizzi filosofici a carat­tere apertamente antiscientifico di cui faremo parola nel volume sesto. Si tratta però di una convergenza più apparente che reale, data la profonda diversità del punto di partenza da cui prendevano le mosse gli uni e gli altri. Ben di­verso, infatti, era il significato delle critiche alla vecchia scienza newtoniana fatte da chi si proponeva di andare oltre di essa, senza negarne l'eredità, e le critiche alla razionalità scientifica in generale, mosse da filosofi che operavano al di fuori della scienza e si proponevano di dimostrare l'esistenza di un sapere più valido di quello scientifico, più capace - secondo essi - di farci penetrare nel cuore della realtà~

Come vedremo nei successivi capitoli, le istanze metodologiche dei matema­tici non furono altro che il naturale sviluppo dell'importante svolta rigoristica, delineatasi fin dall'inizio del secolo negli studi di geometria, di analisi infinite­simale e di algebra, come si è accennato nella sezione precedente; anzi ne co­stituirono in certo senso la logica conclusione.

Anche 1e istanze metodologiche avanzate dai fisici risultarono strettamente connesse alle vicende subite da questa scienza nella prima metà dell'Ottocento; qui va però aggiunto che tali vicende furono meno lineari di quelle della ma­tematica, in quanto ::oinvolsero un vasto complesso di problemi spesso assai diversi fra loro, quali per esempio: il problema dei rapporti tra sperimentazione e teorizzazione, quello della funzione spettante alla matematica nello sviluppo delle teorie fisiche, quello dell'esistenza di sperimenti cruciali atti a guidare la scelta fra teorie alternative, ecc. Né va dimenticato il peso che continuò ad avere, per alcuni decenni, la cosiddetta concezione meccanicistica della natura, sorta nel Seicento per ragioni essenzialmente filosofiche e fatta propria (sia pure con caratteri alquanto diversi) da alcuni grandi fisici dell'inizio dell'Ottocento, come Laplace.

A proposito di tutte le ricerche ora menzionate, vanno sottolineati due fatti di fondamentale importanza: 1) che l'esigenza di un approfondimento critico sorse all'interno stesso della scienza; 2.) che questo approfondimento condusse a poco a poco a modificare radicalmente l'impostazione della ricerca scientifica, aprendo la via a quella rivoluzione della matematica e della fisica (e in un se­condo tempo anche della biologia) che avrà luogo nel Novecento.

Se la nascita della scienza moderna è universalmente riconosciuta come uno

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dei fatti più importanti della storia della cultura nel XVI e xvn secolo, la svolta avvenuta, all'interno del sapere scientifico, tra il XIX secolo e il xx è un fatto altrettanto importante; anzi, in un certo senso, lo è ancor più del precedente, date. le funzioni di ben maggiore rilievo compiute dalla scienza nella nostra epoca.

Fra le principali conseguenze di questa svolta, ci limiteremo a ricordarne due: I) la graduale conquista di una sempre maggiore consapevolezza circa la necessità di rivedere il significato preciso delle cosiddette « verità scientifiche », consapevolezza che porterà nel corso di alcuni decenni alla fondamentale di­stinzione tra verità assolute e verità relative; 2) la problematizzazione del feno­meno della «crescita della scienza», che per l'innanzi si immaginava dovuta a un semplicistico processo di accumulazione (cioè all'aggiunta di nuove «ve­rità assolute» a quelle precedentemente acquisite), mentre ora si comincia a comprendere che è qualcosa di assai più complesso, esigendo in taluni casi un coraggioso mutamento delle basi stesse delle teorie scientifiche, un rivoluzio­namento dei metodi di indagine, una completa innovazione dei quadri categoriali (per esempio il trapasso da una visione discontinuista [atomica] della realtà naturale ad una visione continuistica di essa [teoria dei campi]), ecc.

Viene cosl a cadere la concezione di Comte, secondo cui le sole innovazioni radicali avrebbero luogo nel trapasso dal primo al secondo stadio del conoscere umano (cioè dallo stadio teologico a quello metafisica), e poi dal secondo al terzo (positivo), ma non oltre; si comprende invece che la stessa conoscenza scientifica possiede una propria storia, la cui evoluzione non è meno laboriosa e significativa dell'evoluzione del sapere prescientifico.

Questo risultato costituisce la base concettuale che rese possibile, alla fine dell'Ottocento, il sorgere di una nuova disciplina - la storia della scienza, non riducibile a mera cronaca - da affiancarsi alla metodologia, quasi suo banco di prova, per decidere se questa risulti veramente in grado di farci capire il signi­ficato delle grandi trasformazioni del pensiero scientifico, i motivi di fondo che condussero ad operarle, l'ampiezza delle conseguenze che ne derivarono. Ma la storia della scienza non si occuperà soltanto delle grandi trasformazioni del pensiero scientifico, cioè del trapasso da una teoria scientifica all'altra, della innovazione dei metodi di ricerca, ecc. ; essa si occuperà pure dei legami tra scienza e tecnica, tra scienza e filosofia, tra scienza e società. Si suddividerà per­tanto in due rami: la cosiddetta storia interna e la cosiddetta storia esterna; rami che hanno interessi diversi, ma che sono connessi fra loro, in quanto en­trambi diretti all'approfondimento del medesimo oggetto,« la scienza », nonché all'analisi della sua esatta collocazione nella storia della civiltà.

Se la visione dialettica di altri settori della cultura è stata una conquista che reca evidente in sé l'impronta della tradizione hegeliana, la visione dialettica delle scienze propriamente dette è stata invece - a parere dello scrivente -una conquista resa possibile soltanto dal paziente lavoro dei metodologi. Una

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volta conquistata, questa visione dialettica aprirà però la via a nuovi contatti tra sapere scientifico e sapere filosofico, e in particolare - come riusd a intuire Friedrich Engels - tra le rappresentazioni dei singoli settori della natura (inor­ganica e organica) che ci vengono via via suggerite dalle diverse teorie scienti­fiche e la concezione generale del mondo che ha sempre costituito uno degli obiettivi specifici di tutte le grandi filosofie (inclusa quella di Hegel). È questo un argomento di notevolissimo interesse che verrà ripreso nell'ultimo capitolo della presente sezione, dedicato per l'appunto a Engels.

Tenendo conto dell'enorme peso acquisito dalla scienza nel mondo moderno, è facile comprendere l'importanza del trapasso testé accennato da una visione statica a una visione dialettica del sapere scientifico. Molte difficoltà che ancor oggi ostacolano il processo di unificazione delle due culture (filosofico-umani­stica e tecnico-scientifica) dipendono proprio dal non avere ancora assimilato appieno il significato di tale trapasso. Comunque, il tenerlo fin d'ora presente ci faciliterà la scoperta di un filo conduttore per comprendere e valutare - al di fuori dei soliti schemi - la storia del pensiero filosofico e scientifico nel periodo che ci accingiamo ad esaminare.

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CAPITOLO SECONDO

La crisi dell' begelismo DI ENRICO RAMBALDI

I · CARATTERI GENERALI

Fra i tratti caratteristici della scuola hegeliana negli anni dell'insegnamento di Hegel a Berlino troviamo l 'illusione, favorita dal trionfo allora incontrato dal filosofo, che ormai non vi fosse più nessuna seria contraddizione tra il mondo della ragione e la realtà; i due termini apparivano completamente conciliati, o quasi, nella Logica, nell'Enciclopedia e nella Filosofia del diritto. Ma, come è stato messo in luce nella trattazione della filosofia di Hegel, questa conciliazione - che aveva la pretesa di essere deducibile a priori, assolutamente razionale e necessaria - di fatto restava precaria e contingente, poiché introduceva surretti­ziamente, nell'edificio apparentemente razionalissimo della deduzione logica, gli aspetti più immediati della realtà del tempo, cadendo così nella « cattiva empiria», cioè nell'accettazione acritica dello stato di cose esistente, in specie nell'accettazione della restaurazione in Germania di una visione profondamente antiscientifica della natura della dogmatica cristiana protestante.

Ma per erigere in un articolato sistema filosofico questa canonizzazione del reale, Hegel aveva usato un metodo almeno in gran parte razionale, tentando di dare dell'epoca sua una interpretazione basata sulla ragione. Tra il suo sistema ed il suo metodo appare quindi una discrepanza : l'esigenza dialettica e razionale contraddice quella sistematica e conservatrice. Certo Hegel offriva alla politica reazionaria di Federico Guglielmo m, re di Prussia, il destro di interpretare l'espressione «tutto ciò che è reale è razionale, e tutto ciò che è razionale è reale» mettendo l'accento sull'esistenza reale del proprio regno, giustificando il dispotismo, le misure di polizia, la censura, il maggio:rascato etc., ma ciò non toglieva che la proposizione citata si potesse facilmente rovesciare in una mas­sima rivoluzionaria: solo ciò che è razionale ha diritto di esistere, mentre ciò che non è razionale, e nondimeno esiste, va spazzato via dalla scena della storia. Non a caso quindi ancora a Berlino Hegel aveva parlato del I 789 come di un momento trionfale per la ragione, perché allora era stata distrutta (seppur in modo che il filosofo giudicava unilaterale) una realtà storica - l' ancien régime -che da tempo aveva perduto ogni attributo di razionalità ed era divenuta espres-

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sione dell'arbitrio, della prepotenza, dell'ingiustizia. Interpretata mettendo l'accento sulla razionalità anziché sulla realtà, la filosofia di Hegel diveniva uno strumento per contestare dalle fondamenta la restaurazione, per scalzare l'ordi­namento europeo uscito dal congresso di Vienna, che a prima vista pareva ca­nonizzato per sempre.

La crisi della scuola hegeliana non venne tuttavia causata solo dalla contrad­dizione tra metodo e sistema. I più geniali discepoli di Hegel giunsero ben presto ad invalidare anche il metodo, individuandone il carattere antiscientifico ed antirealistico, quello stesso che consentiva di introdurre surrettiziamente il dato empirico immediato nel sistema filosofico, facendolo passare per razionalmente fon­dato e dando quindi luogo alla « cattiva empiria ». La caratteristica del metodo hegeliano è infatti duplice: da un lato l'esigenza di comprendere razionalmente e globalmente il reale, dall'altro la pretesa di dare della realtà una deduzione spe­culativa ed aprioristica. Anche la crisi della filosofia hegeliana ebbe quindi due caratteristiche: una fu la polemica tra i sostenitori del metodo dialettico (si­nistra hegeliana) contro i difensori del sistema (destra), cioè l'accentuazione, da parte dei primi, della razionalità come metro per criticare la realtà esistente; l'altra, l'individuazione del presupposto idealistico ed aprioristico del metodo, e quindi il rifiuto della sua fondazione speculativa. La contraddizione tra metodo e sistema in verità era solo secondaria, perché non usciva dall'impostazione idea­listica. Solo l'elaborazione di una concezione antidealistica del sapere (nell'am­bito della quale i più geniali ex-hegeliani, come Marx, conservarono anche la dialettica, ma del tuttG rinnovata) segnò veramente la fine della filosofia hege­liana.

Il manifestarsi di una contraddizione tra metodo e sistema era inevitabile, data la macroscopica sproporzione tra la non sopibile irrequietezza dinamica della dialettica e l'uso sistematico che Hegel ne aveva fatto. Nella conciliazione tra reale e razionale il filosofo aveva invero lasciato qualche lacuna: la Filosofia del diritto prospettava la legittimità razionale anche di istituzioni che in Prussia non esistevano: i tribunali giurati, una risistemazione delle corporazioni, la pub­blicità dei dibattiti delle deputazioni degli stati sociali. Ma nella vita concreta, nonostante che questi suggerimenti fossero rimasti lettera morta e che la prassi governativa del regno fosse ben lungi dall'essere fondata sulla ragione, Hegel mantenne sempre ottimi rapporti con le autorità, e si mosse in direzione di una conciliazione sempre più stretta, scrivendo ad esempio sugli «Annali per la critica scientifica» una recensione elogiativa dell'opera di un giurista bigotto e conserva­tore, Karl Friedrich Goschel (178I-I86I), Aphorismen iiber Nichtwissen und absolutes Wissen im Verhèiltnisse zur Christlichen Glaubenserkenntniss (Ajòrismi sul non sapere e il sapere assoluto in relazione alla confessione cristiana, 1 829); opera che applicava la filosofia hegeliana in modo da ottenere una deduzione speculativa dei dogmi della religione protestante. Quasi simbolicamente il caso volle che l'ultimo impor-

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tante scritto di Hegel apparisse sull'organo del governo, la« Gazzetta generale del­lo stato prussiano »; si trattava di un saggio imperniato su di una critica del proget­to inglese di riforma politica (Reformbi/1) ove più che gli aspetti concreti della legge si attaccavano i suoi principi ispiratori, e cioè che un parlamento eletto suppur in parte a suffragio diretto, l'esistenza di una minoranza organizzata in partito e di una monarchia costituzionale potessero realizzare l'avvento della ragione e della libertà meglio che non una monarchia assoluta come quella prussiana.

Ma poiché Hegel non rinunciò mai al metodo dialettico ed all'esigenza che fondamento della realtà fosse la ragione, vi era pur sempre un limite all'utilizza­zione reazionaria della sua filosofia. Ciò appare chiaramente dalla risoluta oppo­sizione del filosofo ad altri indirizzi culturali: la scuola storica del diritto, il sen­timentalismo ed il pietismo religiosi, il liberalismo romantico.

Di particolare rilievo l'opposizione di Hegel alla scuola storica del diritto, che aveva il maggiore rappresentante nel professore dell'università di Berlino Savigny. 1

Uno dei più brillanti discepoli di Hegel, Eduard Gans (1789-1839) venne im­messo come professore ordinario nella facoltà di diritto di Berlino proprio per con­trastare l'influenza della scuola storica sui giovani. Un altro hegeliano, il teologo Philipp Marheineke ( 178o-r 846) fu ordinario nella facoltà di teologia e polemizzò tutta la vita contro coloro che sostenevano la preminenza, in campo religioso, del sentimento sulla ragione (ad esempio Schleiermacher).

Molto interessante anche l'opposizione di Hegel alliberalismo dei romantici. Per quanto a prima vista possa apparire strano, anche in questo caso il suo pen­siero svolse una funzione progressiva. Teorico del liberalismo romantico era Fries, il quale chiedeva, è vero, che Federico Guglielmo m promulgasse la co­stituzione promessa durante la lotta antinapoleonica e poi mai concessa, ma fon­dava la sua richiesta su di un nebuloso romanticismo, che tra i giovani goliar­di dava luogo al richiamo ad Arminio, alla tradizione germanica medioevale, a velleità mal definite.2

Mancando di un'adeguata fondazione razionale, molti goliardi seguaci di

I Friedrich Karl von Savigny (1779-186x) pubblicòneli814,quindi in pieno periodo antina­poleonico ed antifrancese, un'opera che sosteneva l'improponibilità in Germania di un codice simile a quello napoleonico, nonché la vanità di ogni ten­tativo di fondazione giusnaturalistica delle norme legali (Sulla vocazione del nostro tempo per la legisla­zione e la scienza giuridica). Secondo Savigny, sol­tanto la tradizione è fonte autentica del diritto, ed appellarsi contro il diritto storicamente configu­rato in nome di norme naturali, universali, razio­nali e «più giuste» è per lui un'assurdità. In tal modo egli codificava come intoccabili i tradizio­nali arbitri dei potenti e le ingiustizie dell'ordina­mento feudale. Savigny era molto ben visto, in­fatti, dagli ambienti più reazionari della corte, che

facevano capo al principe ereditario, futuro Fede­rico Guglielmo IV. Nel 1842, dopo la salita al trono di questo re, Savigny lasciò l'insegnamento per assumere la guida del dicastero della rifor­ma legislativa. Il 1848 lo costrinse a lasciare la carica.

2 Di Fries si è già parlato nel capitolo x del volume quarto, in connessione alla Naturphiloso­phie. Qui basti ricordare che, sebbene la sua filo­sofia si ricl)iamasse a Kant, in realtà su di essa in­fluirono profondamente anche correnti irrazionali­stiche come il sistema di Jacobi e la impostazione di Schleiermacher. Ma fu soprattutto contro gli atteggiamenti politici concreti di Fries che Hegel polemizzò molto duramente, accusandolo di blan­dire ed adulare l'irrazionalismo dei giovani.

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Fries divennero più tardi strumenti della reazione e si convertirono al pietismo, al cattolicesimo, spesso anche facendo proprie le convinzioni reazionarie della scuola storica del diritto. Opponendosi al liberalismo romantico, Hegel seppe trascinare dalla propria parte tutti i giovani migliori (come Marx), cioè coloro che avevano una concezione razionale e non misticheggiante della vita pubblica. Quando poi questi giovani, attraverso l'esperienza della sinistra hegeliana, colle­garono sempre più strettamente-la teoria filosofica con la prassi politica e di­vennero dei rivoluzionari, lo furono in modo ben più radicale che non i ro­mantici.

La tendenza di sinistra si manifestò dapprima su problemi di carattere re­ligioso. Nella Germania restaurata ben pochi erano infatti gli argomenti per i quali si godesse di una parziale libertà d'espressione e rari i problemi che potes­sero venire affrontati direttamente ed esplicitamente. I problemi pratici e politici che allora appassionavano i giovani erano soprattutto due: la riforma costitu­zionale e la questione religiosa. Ma mentre riguardo al primo problema la soli­darietà di tutti i governi tedeschi ed il controllo della santa alleanza erano tali, che risultava ben difficile evadere dalle maglie della censura, in campo religioso le cose stavano diversamente: qui il dibattito era acceso in tutta la Germania. In Prussia vi erano aspri contrasti tra la tendenza di una politica ecclesiastica accen­tratrice perseguita da Federico Guglielmo m (che nel 1827 aveva fondato l'Unione evangelica, prendendo a modello la chiesa anglicana) da un lato, e dall'al­tro sia i protestanti che non accettavano quest'impostazione autoritaria, sia i catto­lici che resistevano all'influenza di Berlino per restare fedeli alle direttive di Roma. Soprattutto il contrasto tra protestanti e cattolici aveva in Prussia un sot­tofondo politico che la religione velava appena: dopo la caduta di Napoleone, il regno degli Hohenzollern aveva incorporato tutta la Renania, una delle roc­caforti del cattolicesimo tedesco, e tra Berlino e Colonia vi furono ben presto gravi tensioni: il governo inviava in Renania funzionari e professori prussia:ni (e quindi protestanti), e cercava di favorire in ogni modo la religione evangelica per rafforzare il proprio dominio su quelle regioni d'incipiente industrializzazione, di intensi commerci e di fertile agricultura. I renani, dal canto loro, cercavano di resistere all'egemonia prussiana manifestando, tra l'altro, una tenace opposi­zione alla penetrazione del protestantesimo. Inoltre si tenga presente che l'arci­vescovo di Colonia era legato al Vaticano, antiprotestante ed antiprussiano. Di qui la grande importanza che ebbe una questione apparentemente solo teologica come quella dei matrimoni misti: secondo Berlino, quando un coniuge era cat­tolico e l 'altro protestante bastava che la prole fosse educata in modo generica­mente «cristiano», che era quanto a dire, di fatto, «protestante». L'arcivescovo di Colonia chiedeva invece la rigida applicazione del diritto canonico romano, che consentiva il matrimonio con un « eretico » solo a patto che la prole fosse allevata nel culto cattolico. La disputa culminò, nel 1837, con l'arresto dell'ar-

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civescovo di Colonia e l'esplosione, in tutta la Germania, di una violentissima polemica religiosa che diede grande impulso alla formazione della sinistra.

Si tenga inoltre presente che la santa alleanza aveva strettamente unito i troni e gli altari (di tutte le confessioni cristiane) nella comune difesa dell'ordi­namento feudale; che la polemica contro ogni forma di ortodossia religiosa era un mezzo per infirmare questo cardine dell'ordine costituito; che nelle università tedesche lo studio della teologia era ancora diffusissimo, ed aveva una tradizione plurisecolare di polemiche e di conflitti; che questo studio non attirava solo chi avesse inclinazioni mistiche o astratte, ma anche chi sentisse il desiderio di de­dicarsi ad una funzione pratica: l'esercizio dell'attività pastorale tra la massa dei fedeli; che l'ordinamento politico della Germania era ancora condizionato da una guerra di religione che aveva lungamente insanguinato il paese: la guerra dei trent'anni (1618-48). Tutto ciò può ben spiegare come mai un movimento rivoluzionario quale fu la sinistra hegeliana abbia inizialmente concesso tanta attenzione a problemi di carattere religioso: in breve l'atmosfera si chiarì, le cause anche politiche del malcontento dei giovani hegeliani balzarono in pri­mo piano, e dall'eterodossia religiosa si passò all'ateismo ed al radicalismo politico.

Accanto a questa massiccia presenza della problematica religiosa è da notare l'assenza, anche per la sinistra, di una problematica inerente alla conoscenza scien­tifica della natura. Il mondo umano (religioso, politico, storico, sociale), che inHegel era stata una parte molto importante del sistema ma non l'unica, assume ora un ruo­lo decisamente primario. Il motivo di questa carenza riguardo ai problemi della conoscenza scientifica della natura va ricercato in quel divorzio, illustrato nella trattazione di Hegel, tra metodo speculativo hegeliano e metodo scientifico spe­rimentale. Occorre inoltre tenere presente che la scienza di cui Hegel si era occu­pato era in larga misura già invecchiata al tempo in cui egli componeva e rida­barava l'Enciclopedia. In campo matematico, ad esempio, i primi decenni dell'Ot­tocento furono di fondamentale importanza, perché misero in crisi· i fondamenti di quelle che erano le discipline « scientifiche » per eccellenza, e che erano valse come canone di scientificità per gli altri campi del sapere umano: l'aritmetica e la geometria euclidea, che ancora per Kant era stata la geometria senz'altro, la sola possibile e pensabile. I discepoli di Hegel si occuparono ben poco di scienza della natura, fin tanto che non si furono liberati dal metodo hegeliano, soprat­tutto perché il metodo hegeliano, come abbiamo visto, aveva fatto sì che essi fossero rimasti molto indietro rispetto all'impetuoso sviluppo delle conoscenze scientifiche nella prima metà dell'Ottocento.

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Il · FILOSOFIA TEDESCA, DIALETTICA HEGELIANA

E RIVOLUZIONE FRANCESE

Quando in un'opera famosa, Ludwig Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutscher Philosophie (Ludovico Feuerbach e il punto d'approdo della filosofia classica te­desca, I888), Friedrich Engels riepilogò il movimento della sinistra hegeliana, il­lustrò come, contrariamente a quanto pensavano i liberali come Fries ed i rea­zionari come Federico Guglielmo m, la « regia filosofia di stato prussiana >> di Hegel contenesse enormi potenzialità rivoluzionarie, e scrisse tra l'altro: «Ma ciò che non vedevano né il governo né i liberali, lo vide sin dal I 8 3 3 per lo meno un uomo. È vero ch'egli si chiamava Heinrich Heine! » 1

Heine manifestò uno spirito d'opposizione all'ordinamento feudale ed allo spietato sfruttamento cui era sottoposto il popolo sin dal I82.4, nella prima parte-;- Die Harzreise (Viaggio nello Harz)- di una delle sue opere più famose, i Reisebilder (Impressioni di viaggio). Nel I8z.8, quando compose la seconda parte Englische Fragmente(Frammenti inglesi) delle Impressioni di viaggio, si soffermò sulla mi­seria spaventosa di certi quartieri di Londra, contrapponendola al lusso ed allo sfarzo delle vie in cui abitavano i nobili ed i ricchi. Tra l'inumana povertà delle vittime della prima rivoluzione industriale e la sfacciata ricchezza di pochi privilegiati egli vedeva già un rapporto, anche perché negli stessi mesi aveva cominciato a leggere la stampa della setta socialista francese dei saint-simoniani.

Questa sensibilità politica e sociale non poteva non renderlo diffidente verso l'àspetto sistematico della filosofia di Hegel, che teorizzava la compiuta realizza­zazione della ragione nello stato di cose esistente. Heine era invece avversario della santa alleanza e della restaurazione, nonché dell'ortodossia e delle gerarchie religiose. Nei Frammenti inglesi scrive che i preti sono i migliori alleati dei ricchi e dei nobili nell'opprimere il popolo, che il cristianesimo va radicalmente negato e che al posto dei suoi dogmi e dei suoi valori vanno messi i principi della grande rivoluzione del I 789: la dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. Egli difende apertamente Robespierre, il terrore e la ghigliottina: « Questa macchina salutare è stata messa in opera un poco spesso, ma tuttavia solo per malattie in-

I Heinrich Heine nacque a Diisseldorf nel I 797. Falliti vari tentativi della famiglia per av­viarlo alla carriera finanziaria, si iscrisse a legge e frequentò varie università, soggiornando tra l'altro a Berlino, ove conobbe personalmente Hegel, e laureandosi nel I825 a Gottinga. Intra­prese poi lunghi viaggi attraverso la Germania e visitò l 'Inghilterra. Nel I 8 26 divenne redattore di un periodico di Monaco, gli « Annali politici », e sperò in una cattedra universitaria. Deluso in questo progetto, riprese a viaggiare, visitando anche l'Ita­lia. Nel frattempo si era affermato come poeta ed es­ponente di una corrente letteraria di fronda, la « Giovane Germania » ( « J unges Deutschland » ).

Dopo che nel I83o a Parigi fu scoppiata la rivolu­zione, Heine-preso dall'entusiasmo per quella che sembrava la rinascita della libertà - si trasferì nella capitale francese, ove rimase fino alla morte facendo solo due brevi viaggi in patria (I843-44). A Pa­rigi strinse amicizia con Marx, dopo che anche questi ebbe scelto la via dell'emigrazione, e colla­borò attivamente ai« Deutsch-franzosiche Jahrbii­cher »(«Annali franco-tedeschi») ed a« Vorwarts » («Avanti! »). Sposatosi nel I844, qualche anno più tardi manifestò i primi gravi sintomi di una paralisi progressiva che lo condusse a morte, tra atroci sofferenze, nel I856.

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guaribili, ad esempio tradimento, menzogna, debolezza. » Della grande rivolu­zione scrive che fu «un'epoca d'importanza mondiale, nella quale la dottrina della libertà e dell'uguaglianza sorse vittoriosamente da quell'universale fonte di conoscenza che chiamiamo ragione».

Sotto la spinta di questi interessi politici, in un'altra parte- Die Stadt Lucca (La città di Lucca, I 8 3 I) -delle Impressioni di viaggio, Heine negò che la giusta in­terpretazione dell'equivalenza tra razionalità e realtà fosse quella dei «vecchi» che accettavano lo stato di cose esistente, e sostenne che avevano ragione quei « giovani » che coraggiosamente pretendevano di modificare la realtà alla luce della razionalità: « La gioventù è disinteressata nel pensare e nel sentire, e per questo pensa e sente la verità nel modo più profondo, e non è avara quando è questione di un'ardita partecipazione a professioni di fede o ad azioni. Gli anziani sono egoisti e meschini... e frattanto forse narrano che anch'essi nella loro gio­ventù sarebbero corsi a testa bassa contro il muro, ma che poi si sarebbero ricon­ciliati con il muro, perché il muro sarebbe l'assoluto, ciò che è posto, ciò che è in sé e per sé, che, perché è, è anche razionale, dal che consegue anche che è irra­gionevole colui che non vuole tollerare un assolutismo supremamente razionale, che innegabilmente è ed è posto in modo solido. » In questo passo, l 'ironia contro la conciliazione di realtà e razionalità attuata dal sistema hegeliano è evidente.

Quando Heine si trasferisce a Parigi, questi elementi di interpretazione di sinistra dell'hegelismo si caratterizzano come sforzo per congiungere la tradi­zione politica, culturale, sociale e rivoluzionaria francese · con la filosofia tedesca. La moderna filosofia tedesca viene interpretata come il riflesso teorico della rivoluzione del I 789. In Francia, scrive Heine, il popolo era politicamente attivo, e fece la rivoluzione nel mondo della realtà; in Germania regnava invece l'inerzia politica, e la rivoluzione venne fatta in campo filosofico: « Noi ebbimo la rottura con lo stato di cose presente e con la tradizione nel campo del pensiero, così come i francesi la ebbero nel campo della società; intorno alla Critica della ragion pura si raccolsero i nostri giacobini filosofici, e non lasciarono sussistere nulla se non ciò che resisteva a quella critica; Kant fu il nostro Robespierre. » L'idealismo etico di Fichte, che fonda tutto sull'io, viene paragonato all'impero di Napoleone, e la restaurazione dell'ancien régime al sistema di Schelling.Hegel viene interpretato in modo almeno parzialmente progressivo anche per gli aspetti si­stematici: egli rappresenterebbe nel campo del pensiero il regime costituzionale di Luigi Filippo: « H e gel, l 'Orléans della filosofia, fondò, o meglio ordinò, un nuovo regime eclettico», nel quale a tutto ed a tutti assegna« una collocazione precisa e conforme alla costituzione ». Ma, diversamente da Hegel, Heine nega che il cam­mino della storia sia concluso. Occorre, scrive, passare all'azione pratica, realizzare il regno della ragione nella storia, poiché « nella filosofia abbiamo ormai concluso il grande cammino circolare, ed è naturale che ora passiamo alla politica».

Nel I 8 34 apparve la più organica delle opere di Heine pensatore, Zur

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Geschichte der Religion und Philosophie in Deutschland (Per la storia della religione e della filosofia in Germania); in essa Heine critica violentemente il cristianesimo che, di­lacerando l'uomo tra anima e corpo, tra cielo e terra, mutila la sua pienezza ed è uno strumento nelle mani dei despoti per opprimere il popolo. Il primo atto per la riscossa politica dell'uomo non poteva quindi essere che l'emancipazione, compiuta da Lutero, dall'autorità del papa. Il principio del libero esame della Bibbia da parte di ogni fedele innalzò la ragione a giudice supremo di tutte le di­spute teologiche; questo atteggiamento razionalistico è per Heine la matrice della filosofia classica tedesca, ciò che la rende rivoluzionaria. Qualunque siano stati i comportamenti pratici ed i compromessi teorici di Kant e di Hegel nella loro veste di professori prussiani, i loro metodi filosofici « hanno sviluppato energie rivo­luzionarie che non attendono se non il momento opportuno per esplodere e riem­pire il mondo di spavento e di ammirazione »; si avrà allora uno scotimento « rispetto al quale la rivoluzione francese non sarà che un idillio innocente ».

Sotto l'influenza del socialismo francese, nel 18 34 Heine arriva anche ad affermare che la prossima rivoluzione sarà non solo politica, ma anche sociale, e scrive: « La verità è che oggi con la parola aristocratico non intendo solo la no­biltà di nascita, ma tutti coloro, qualunque sia il nome che portano, che vivono a spese del popolo. La bella espressione che noi, come molte altre, dobbiamo ai saint­simoniani, lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, ci porta ben al di là di tutte le decla­mazioni sul privilegio della nascita »; « le pain est le droit du peuple, disse Saint­Just, e questa è la più grande parola che fosse pronunciata in tutta la rivoluzio­ne».

Della futura rivoluzione sociale, Heine dice che sarà guidata dai comunisti. Dopo i saint-simoniani egli aveva conosciuto socialisti e comunisti di altri indi­rizzi, più radicali e più coerenti, e si era reso conto che quando le masse proletarie fossero entrate in azione, avrebbero fatto le cose ben più radicalmente che non i rivoluzionari di cinquant'anni prima: «La borghesia, non il popolo, ha iniziato la rivoluzione nel 1789 e l'ha portata a compimento nel 183o; è essa che ora go­verna », ed ha paura del proletariato perché sa che una nuova rivoluzione met­terebbe in moto una valanga che la travolgerebbe, e che « al suo posto verrebbero le classi inferiori, come negli spaventevoli anni novanta, ma meglio organizzate, con una coscienza più chiara, con nuove dottrine, con nuovi dei, con nuove forze del cielo e della terra» (Lutezia, passo del 184o).

Secondo Heine, base filosofica della futura rivoluzione sarà l'hegelismo di si­nistra. Solo apparentemente, afferma, la filosofia di Hegel è un'esaltazione del presente, una conciliazione della filosofia con la religione, della razionalità con la realtà contingente del dispotismo. In verità essa è piuttosto la filosofia dell'atei­smo, perché nega l'esistenza di un dio personale; è la filosofia della rivoluzione, perché costringe sotto la ghigliottina della ragione tutto ciò che è irrazionale ed ingiusto. Heine traccia una linea ininterrotta che parte dalla negazione dell'autorità

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papale (L utero), passa attraverso il criticismo ed i principi del I 789 (Kant e Ro­bespierre), per giungere, con l'ateismo (Hegel nell'interpretazione di sinistra), alla rivoluzione comunista, guidata dagli eredi della filosofia classica tedesca (Marx). L'ateismo è per Heine la principale forza politica eversiva: « L'annien­tamento della fede nel cielo ha un'importanza non solo morale ma anche politica: le masse non sopportano più con cristiana pazienza la loro miseria terrena, ed aspirano ardentemente ad una beatitudine sulla terra. Il comunismo è una conse­guenza naturale di questa mutata visione del mondo, e si estende per tutta la Ger­mania. Una manifestazione altrettanto naturale è che i proletari, nella loro lotta contro lo stato di cose esistente, abbiano come guide gli spiriti più avanzati, i filosofi della grande scuola [della filosofia classica tedesca in generale, ed hegeliana di sinistra in particolare]; questi trapassano dalla dottrina all'azione, scopo ultimo di ogni pensare» (Briefe iiber Deutschland [Lettere sulla Germania], I 844).

III · LA CRITICA RELIGIOSA E LA SCISSIONE

NELLA SCUOLA HEGELIANA

La prima approfondita interpretazione di sinistra del metodo hegeliano fu opera di un giovane teologo originario, come Hegel, del Wiirttemberg: David Friedrich Strauss (I8o8-74). Nato a Ludwigsburg, nel I825 venne ammesso allo Stift protestante di Tubinga, che quasi quarant'anni prima aveva ospitato Hegel e Schelling. Già durante gli studi medi Strauss ricevette una saldissima pre­parazione filologica e storiografica, giacché ebbe come insegnante Ferdinand Chri­stian Baur (1792-186o), più tardi fondatore della scuola storica di Tubinga. Baur risentiva a sua volta dell'influenza di uno dei fondatori della storiografia e filologia classica moderne, Barthold Georg Niebuhr ( 1776-18 3 1 ). Baur fu professore di Strauss anche dopo l'ammissione di questi allo Stift, cosicché i due studiosi fu­rono in stretto contatto per quasi dieci anni di seguito.

Nello Stift Strauss rimase fino al 1830, subendo una tumultuosa evoluzione spirituale: dapprima fu acceso seguace della filosofia della natura di Schelling, poi fu influenzato dalla dottrina di Schleiermacher, infine (verso gli anni 1828-29) si accostò ad Hegel. La filosofia dell'ex-allievo dello Stift, che in quegli anni trionfava a Berlino, era pressoché ignota a Tubinga. Strauss ed alcuni amici ini­ziarono da soli la lettura della Fenomenologia dello spirito, e ci si applìcarono con te­nacia per più di un anno. Nel 18 30, quando lasciava lo Stift per recarsi a fare il vicario pastorale in un paesino svevo, Strauss era ormai hegeliano convinto.

Come conciliava il giovane vicario l'ufficio di pastore con lo hegelismo? Certo il cristianesimo positivo (nella confessione protestante) conservava per Hegel una grande validità, essendo riconosciuto come « religione assoluta ». Tuttavia nel sistema del filosofo la religione era pur sempre solo un modo imma­ginifico per intendere, nella rappresentazione, l'assolutezza del concetto filosofico,

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concetto che costituiva l'unica verità autenticamente e compiutamente dispiegata. Ciò non poteva non suscitare problemi gravi in un ecclesiastico. Quando nei

vangeli si parla di miracoli, ad esempio, questi vanno interpretati come rappre­sentazione immaginifica del concetto filosofico che lo spirito sia superiore alla materia e quindi possa prescindere dalle leggi naturali, o si deve piuttosto in­tendere che effettivamente l'acqua venne tramutata in vino, i pani ed i pesci ven­nero moltiplicati, i ciechi, gli storpi ed i lebbrosi vennero guariti? Optando per una concezione hegeliana della religione cristiana Strauss in verità aveva perso la fede nella narrazione evangelica come narrazione storicamente vera. Il cristiane­simo era per lui solo la rappresentazione immaginifica della verità filosofica, senza più miracoli né resurrezioni, senza cioè quel corpo dogmatico difeso dall'ortodos­sia. Ma come poteva Strauss predicare la verità del vangelo, se lo considerava mera rappresentazione immaginifica, ad una comunità di fedeli che quel vangelo con­siderava la verità senz'altro, e che accettava per veri i miracoli e le resurrezioni mentre ignorava, per contro, la filosofia hegeliana? Le contraddizioni in cui il giovane veniva a trovarsi esorbitavano dal campo esclusivamente teorico, e di­venivano politiche e pratiche. Politiche perché le gerarchie ecclesiastiche e statali non avrebbero tollerato che un pastore predicasse di abbandonare un corpus dogmatico che era tra i pilastri della restaurazione; pratiche perché Strauss aveva studiato lunghi anni per divenire pastore, non era ricco e quindi non poteva vi­vere né coltivare gli studi che tanto amava se non restando alle dipendenze della chiesa e dello stato del Wiirttemberg.

Per risolvere queste contraddizioni, Strauss escogitò un compromesso, elabo­rando una teoria della « doppia verità »: certo i dogmi del cristianesimo non sono che rappresentazioni immaginifiche delle verità filosofiche concettuali, ma poiché al popolo mancano gli strumenti culturali per arrivare ad intendere queste ultime, il pastore hegeliano gli parlerà solo nel linguaggio della rappresentazione, senza nemmeno fargli sospettare che esista una verità superiore; terrà invece per sé e per gli altri iniziati alle dottrine filosofiche la coscienza che non nella rappresen­tazione, bensì nel concetto filosofico, è la verità.

Il giovane però puntava non all'esercizio pastorale, bensì alla carriera acca­demica. Nel I 8 3 I chiese ed ottenne di recarsi a Berlino per perfezionare la sua preparazione. Giunse nella capitale prussiana appena in tempo per intendere qualche lezione del grande filosofo idealista e per conoscerlo personalmente. A Berlino si trattenne un semestre, stringendo amicizia con i maggiori esponenti della scuola hegeliana e concependo il piano di Das Leben .fesu (La vita di Gesù). Nella primavera del I 8 3 z tornò allo Stift in qualità di assistente interno, primo gradino della carriera accademica. Per qualche semestre tenne affollatissime lezioni di filosofia hegeliana. Nel frattempo, collaborava alla rivista della scuola hegeliana, gli « Jahrbiicher fiir wissenschaftliche Kritik » («Annali per la critica scientifica»), ed iniziava la stesura de La vita di Gesù .

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La crisi dell'hegelismo

Secondo il piano steso a Berlino, La vita di Gesù avrebbe dovuto suddivi­dersi in tre parti, corrispondenti alla triadicità del metodo filosofico hegeliano (tesi, antitesi, sintesi). La tesi avrebbe dovuto esser costituita dal corpus dogmatico della religione cristiana protestante; l'antitesi dalla negazione critica dell'orto­dossia e dalla dimostrazione della non attendibilità storica dei vangeli; la sintesi, negazione della negazione, avrebbe dovuto reinterpretare la religione cristiana come rappresentazione della verità filosofica. Nell'esecuzione dell'opera Strauss lasciò però cadere la prima parte perché universalmente nota, e non giunse, come vedremo, ad elaborare in forma compiuta la terza. Il massimo risalto venne quindi dato al momento critico e negativo della antitesi, per realizzare il quale già a Berlino Strauss aveva cominciato a leggere avidamente le opere degli illuministi che avevano criticato gli aspetti positivi di ogni religione, in parti­colare però di quella ebraico-cristiana. Tramite queste letture, Strauss entrò in contatto con la cultura razionalistica del Settecento, la quale aveva già ampia­mente avanzato la tesi che i testi della rivelazione ebraico-cristiana avessero un valore prevalentemente simbolico e mitologico più che storico.

Ne La vita di Gesù si scorgono chiaramente le tre componenti fondamentali della formazione di Strauss: quella hegeliana, quella illuministica e quella filo­logico-storiografica. Il concetto straussiano di « mito », pur mutuato dalla tradi­zione illuministica, è chiaramente delineato su di una base filosofica hegeliana, cioè sulla « differenza», sulla dialettica tra « verità» e « concetto», quale è esposta soprattutto nella Fenomenologia dello spirito. Si ripensi ad esempio alla dia­lettica cui viene sottoposta da Hegella certezza sensibile del qui e dell'ora, sulla quale ci si è soffermati nella trattazione della filosofia hegeliana: la « verità » della certezza sensibile non risiede nel concetto immediato che di essa si fa la coscienza, bensì nella percezione. Tra la verità della certezza sensibile ed il concetto che la coscienza ne ha, si origina quindi una «differenza», che sprigiona da sé prima la negazione, e poi la negazione della negazione, cioè il movimento dialettico che dalla tesi porta alla sintesi. La differenza tra verità e concetto è quindi l'ori­gine della « immane forza del negativo », il motore di un processo logico che è ad un tempo anche fenomenologico, e coincide, nella sostanza, con l'esperienza storica dell'umanità. Quando dalla tesi la coscienza giunge alla sintesi, tra « ve­rità » e « concetto » ha luogo una adeguazione, cosicché ciò che nella tesi appa­riva alla coscienza come verità, ora non le appare più tale. Di questa impostazione hegeliana Strauss si avvale per distinguere, nei vangeli, tra senso storico-letterale da un lato e cultura del XIX secolo dall'altro, e per sostenere che ormai l'umanità, nel corso della sua storia, è giunta ad elaborare un concetto del vero per cui ciò che le appariva vero ai tempi in cui vennero scritti i vangeli, ora non le può più apparire tale. I vangeli, nel loro senso letterale, vengono relegati nel passato, ascritti ad una forma di cultura che ha perso validità: « Quando una religione che si fonda su monumenti scritti si estende per ampie regioni spaziali e temporali,

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ed accompagna coloro che la professano lungo i complessi gradi che salgono sem-pre più in alto nello sviluppo e nella cultura, allora prima o poi si manifesta sem­pre una differenza tra ciò che quelle antiche fonti offrono e la nuova cultura di coloro che li intendono come libri sacri. » Ciò vale, in generale, per ogni forma di rivelazione; per quanto attiene in particolare ai vangeli, Strauss ricorda come anch'essi, analogamente a quanto accade per i libri sacri delle altre religioni, sono caratterizzati dall'intervento diretto, immediato di dio nella vita dell'uo-· mo: « Ma poiché in generale cultura significa mediazione, allora anche la pro­grediente formazione dei popoli acquista sempre più chiaramente coscienza delle mediazioni che all'idea sono necessarie per la sua realizzazione, e così quella differenza tra la nuova cultura e le antiche fonti religiose, in relazione alla loro parte avente l'aspetto di storia, appare segnatamente in modo tale, che quell'im­mediato intervento del divino nell'umano perde la propria verosimiglianza. » I vangeli non sono quindi più da considerarsi storia, bensì mito.

Non è però da credere che Strauss voglia spazzar via dalla sua epoca la re­ligione cristiana. Egli la riduce a mito, è vero, ma per lui questo mito resta pur sempre una rappresentazione immaginifica della verità filosofica. Strauss resta quindi fedele all'impostazione hegeliana per due aspetti: sia perché il suo metodo euristico è basato sulla dialettica fenomenologica, sia perché egli cerca sempre ancora una conciliazione tra filosofia e religione, pur insistendo sulla subordi­nazione della seconda alla prima. È tuttavia hegeliano di sinistra per quella che vedremo essere una peculiarità del suo metodo: che egli non tenta una deduzione aprioristica dei vangeli dal concetto filosofico, come farà invece la destra hegeliana. Il metodo hegeliano non viene usato da Strauss come metodo deduttivo, bensì come metodo critico per distinguere radicalmente la religione dalla filosofia, la rappresentazione dal concetto, pur riservandosi egli poi, hegelianamente an­cora, di ricercare una mediazione, un modus vivendi tra questi due campi. In questo uso antideduttivistico del metodo hegeliano è chiaramente presente l'influenza delle letture illuministiche del giovane teologo, come risulta dall'esposizione che egli fa dei criteri metodologici usati per distinguere nei vangeli il mito dalla sto­ria. In generale, afferma Strauss, il mito presenta due aspetti: da un lato esso non è storia, dall'altro è il prodotto immaginifico di una determinata comunità storica. A questi due aspetti corrispondono criteri positivi e negativi per l'individuazione dei miti. Criteri negativi sono: a) che una narrazione si discosti dalle leggi uni­versali che reggono gli accadimenti naturali (non può esser vero un episodio che infranga le leggi fisiche, chimiche, biologiche ecc.); b) che i vangeli presentino aporie e contraddizioni cronologiche, topologiche ecc. (dal punto di vista crono­logico, ad esempio, è impossibile che il censimento di Augusto abbia avuto luogo nell'anno in cui lo collocano i vangeli). Criteri positivi per considerare mito una narrazione evangelica sono: a) che essa abbia una forma non razionale e scientifica, bensì immaginifica e fantastica; b) che riprenda credenze molto dif-

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fuse in un determinato periodo storico ed in una specifica area geografica: la credenza, largamente diffusa durante l'antichità in tutto il bacino del Mediterra­neo, che se una donna lungamente sterile partorisce un figlio, questi sarà un grande personaggio, induce a ritenere mitica la nascita di Giovanni il battista da Elisabetta, come certo mitica fu la nascita di !sacco da Sara, avvenuta quando Abramo disperava o:rmai di avere un figlio dall'anziana consorte.

Il mito non esclude però la presenza di un sottofondo storico, più o meno trasfigurato: storica fu ad esempio la nascita, durante l'impero di Augusto, di un ebreo di nome Gesù, che p:redicò un rinnovamento religioso e politico e venne ucciso per questo. Mitico è invece tutto il contorno immaginifico che accompagna le quattro narrazioni evangeliche della vita di quell'uomo. La spie­gazione che Strauss dà di come questi miti siano nati mostra chiaramente la pro­fondità dell'influenza illuministica sulla sua opera: egli inquadra la situazione concreta in cui vennero a trovarsi le prime comunità cristiane, sconvolte ed ango­sciate dalla morte di Gesù, e mostra come nulla fosse più naturale della mitizza­zione della vita, morte e resurrezione di lui. Tanto più che quella protocomuni­tà cristiana aveva un tessuto concreto al quale riferirsi: il mito nazionale ebraico dell'Antico testamento. Il mito nazionale ebraico era infatti denso di profezie che annunciavano l'avvento di un messia che avrebbe compiuto miracoli e superato i profeti antichi. Una volta morto Gesù, che vi era di più naturale per la giovane comunità cristiana che ricollegarsi al mito ebraico onde mostrare che Gesù aveva adempiuto a quanto era stato profetizzato del messia? Era del tutto naturale ce:rca:r di mostrare che Gesù avesse compiuto miracoli maggiori di quelli attribuiti ai profeti; avesse perfezionato la legge di Mosè; avesse assommato in sé le caratteristiche che' dovevano essere del messia: nascere dalla stirpe di Davide, essere partorito da una vergine come aveva profetizzato Isaia, veck-re la luce a Betlemme come aveva profetizzato Miehea_. e~c_ .. ~l mito -nirlonale ebraico costituisce la premessa di una induzione storiografica che si articola così: secon­do le profezie contenute nell'Antico testamento, il messia avrebbe dovl.\to fare questo e quest'altro; ma Gesù, nella fede degli evangelisti e della protocomunità cristiana, è stato il messia; dunque, doveva aver adj;:mpiuto a quelle. profezie. I vangeli, come ogni mito, divengono quindi il frutto empiricamente spiegabjle della psicologia generale di un popolo: « Le leggi di un popolo o di una setta religiosa sono, nelle loro autentiche parti costitutive, opera non mai di un si~go­lo, bensì dell'individuo universale, di quella società, e appunto per questo non sono nate né consciamente né volutamente. » Questo individuo universale non viene da Strauss definito aprioristicamente, bensì viene caratterizzato attraver­so la stratificazione empirica della tradizione orale: « Un simile produrre inav­vertito e comune diviene possibile per il fatto che in esso il mezzo .dèlla comuni"' cazione è la trasmissione orale, poiché mentre a causa della scrittura' la crescita del mito si arresta, o quanto meno diventa :ravvisabile quanta parte delle aggiun-

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te spetti ad ogni scrittore successivo, nella trasmissione orale le cose stanno in modo tale che ciò che viene trasmesso nella seconda bocca assume forse un aspetto poco diverso che nella prima, e similmente nella terza po.co si aggiunge rispetto alla seconda, ed anche nella quarta non vi sono variazioni sostanziali rispetto alla terza: e ciò nonostante p.ella terza e nella quarta bocca l'oggetto può essere diventato tutt'altro da quello che era nella prima, senza che un qual­che singolo narratore abbia apportato questa modifica consciamente. »

Facciamo un esempio del concreto modo di lavorare di Strauss: due vangeli (Matteo e Luca) contengono due diverse genealogie, esposte con l'intento di dimostrare come Gesù fosse di stirpe davidica. Strauss prende in esame queste due genealogie, operando una vera e propria critica delle fonti osserva: in primo luogo come la genealogia di Matteo sia in contrasto con quella di Marco; in se­condo, che nessuna delle due riesce a colmare l'arco di tempo che va dal regno di Davide all'impero di Augusto. Strauss esamina anche le varie soluzioni pro­poste dalla tradizione ecclesiastica per superare queste difficoltà, e dimostra, con argomentazioni filologiche e storiografiche, che si tratta di soluzioni inade­guate. Alla fine di questa analisi, il critico conclude: le due genealogie non hanno valore storico, bensì sono miti elaborati per confermare la profezie dell'Antico testamento, che aveva annunciato che il messia sarebbe nato dalla stirpe di Da­vide. Licenziando il primo volume dell'opera (1835), Strauss insisteva sul suo carattere storiografico e scientifico, lanciando una vera sfida agli ortodossi: ho considerato i vangeli, proclama, nello stesso modo in cui avrei considerato qualsiasi altra fonte storica, cioè prescindendo da ogni pregiudiziale confessiona­le; ebbene, «i teologi trovino pure non cristiana questa mancanza di pregiudi­ziali della mia opera; io trovo non scientifiche le pregiudiziali, basate sulla fede, delle loro».

D'altra parte, Strauss insisteva anche sulla teoria della doppia verità:« Dichia­rando che la religione è una rappresentazione immaginifica e che i vangeli sono miti, » scrive, « non voglio rigettare il cristianesimo. Esso conserva la propria validità, seppure inferiore a quella della filosofia, la quale del resto è riservata a pochi eletti. »

La teoria della doppia verità poteva costituire la base di una conciliazione tra la critica storiografica dei vangeli e la confessione protestante positiva. Ma le autorità del Wiirttemberg non si accontentarono di questo compromesso, e ravvisarono nel razionalismo storiografico di Strauss un pericolo per la fede e per l'ordine costituito. Pochi giorni dopo l'apparizione del primo volume del­l'opera, Strauss venne posto sotto inchiesta. Invano egli si appellò alla dottrina della doppia verità: prima ancora che apparisse il secondo volume, e cioè senza che al giovane fosse dato il destro di esporre la « sintesi » che avrebbe dovuto « ricostruire » la fede, egli venne espulso .dallo Stift e relegato ad insegnare lin­gue classiche nel ginnasio di Ludwigsburg. Frattanto l'opera incontrava un

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enorme successo (in pochi anni se ne fecero ben quattro edizioni). Tra le teorie del giovane autore e la realtà storica del tempo si istituì quindi un rapporto di interazione: respingendo il compromesso e la mediazione che Strauss aveva pro­posto, ed espellendolo dall'università, gli esponenti della Germania restaurata spinsero Strauss ad un bivio: o abiurare, o gettare alle ortiche la teoria della dop­pia verità e radicalizzare la propria posizione.

IV · L 'HEGELISMO DI DESTRA

L'utilizzazione che Strauss aveva fatto del metodo hegeliano, congiungendolo strettamente con la tradizione illuministica e con gli aspetti empirici del lavoro storiografico (filologia, critica delle fonti, ecc.), costituiva un serio pericolo per la destra hegeliana che, interpretando l'equivalenza tra razionalità e realtà in modo da legittimare lo stato di cose esistente, utilizzava il metodo di Hegel in modo acritico, non per distinguere nell'esistente il vero dal falso (o dal non più vero), bensì per generalizzare quell'apriorismo deduttivistico e surrettizio che è stato illustrato a proposito della deduzione hegeliana del maggiorascato. L'opera di Strauss metteva in forse tutta la politica culturale della scuola, minacciando di guastare i suoi buoni rapporti con le autorità e ingenerando il sospetto che il metodo hegeliano fosse fondamentalmente ateo e rivoluzionario. I pietisti ed i romantici, infatti, non si limitarono a criticare Strauss, bensì attaccarono di­rettamente Hegel, accusandolo di aver propagato la « semente di drago » di una nuova, incombente rivoluzione.

L'attacco dell'organo ufficiale della scuola (gli« Annali per la critica scientifi­ca») ali' opera di Strauss non si fece quindi attendere, e fu portato già nel I 8 3 5 da un giovane teologo che più tardi passerà clamorosamente alla sinistra, Bruno Bauer (18o9-188z). Bauer si era immatricolato nella facoltà di teologia di Berlino nel 1828 ed era divenuto l'allievo prediletto di Marheineke. Conclusi nel 1834 gli studi, aveva cominciato ad insegnare quale libero docente all'università di Berlino ed a collaborare agli « Annali per la critica scientifica >>. Con la sua recensio­ne a St:rauss sembrò che l'hegelismo di Berlino dovesse conciliarsi definitivamente con la reazione.

Lo scritto baueriano riguarda solo il primo volume de La vita di Gesù, giac­ché il secondo era ancora in via di stampa. Sin dalle prime battute, Bauer rico­nosce esplicitamente i legami di Strauss con il razionalismo illuministico, e si sforza di aggirare proprio questo scoglio per giungere ad una conciliazione com­pleta tra fede e ragione. Nella recensione, Bauer ha la pretesa di porsi da un punto di vista « più alto » di quello straussiano, « sintetico », e di indicare a Strauss la via per giungere, nell'imminente secondo volume de La vita di Gesù, ad una « ricostruzione speculativa » della dogmatica ortodossa e della verità storica degli episodi narrati dai vangeli. L'assunto di Bauer è questo: la logica

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hegeliana è l'espressione compiuta della verità; quindi, da questa logica si può e si deve dedurre l'antologia, in quanto tutto ciò che è razionale (logicamente vero) deve essere anche reale (antologicamente esistente). I vangeli fanno parte, insieme alla dogmatica cristiana protestante, della realtà, in quanto il cristianesi­mo, come lo stato prussiano, è parte essenziale dell'epoca presente; esso è «re­ligione assoluta » poiché ha, nella forma della rappresentazione, lo stesso con­tenuto della «filosofia assoluta» (cioè hegeliana). Deve quindi essere possibile dedurre, partendo dal piano logico, la verità antologica dei vangeli, cioè dimo­strare la realtà storica di quanto è in essi narrato.

Vediamo un esempio di queste deduzioni baueriane: Strauss aveva criticato la credenza della verginità di Maria sia perché essa contraddice le leggi naturali, sia perché i vangeli sono in contraddizione tra di loro (nel vangelo di Marco, ad esempio, si dice che Gesù aveva dei« fratelli»), ed aveva concluso affermando che la verginità di Maria è un mito nato dall'esigenza di mostrare che Gesù adempiva alla profezia di Isaia, secondo cui il messia sarebbe stato partorito da una vergine. Bauer replica invece che con la logica hegeliana si può dimo­strare che Maria era stata realmente vergine, e che quindi le affermazioni di Luca e di Matteo hanno un riscontro nella realtà storica. L'incarnazione di dio, scrive Bauer, era necessaria, poiché è nel concetto stesso di infinito che esso non resti separato dal finito, bensì si congiunga ad esso. Ma questa unione dell'infinito con il finito doveva (ecco la deduzione dell'antologia dalla logica, della realtà dalla razionalità) manifestarsi in modo assolutamente originario, senza subire condi­zionamenti da parte del finito. Questa originarietà era possibile solo con un atto di creazione operato dallo spirito (dio) stesso. Ma rispetto alle normali leggi della natura (quelle invocate dal razionalismo settecentesco e da Strauss ), la creazione è un miracolo; ergo, l'incarnazione dello spirito nel mondo doveva avvenire nel più miracoloso dei modi, facendo cioè nascere il figlio di dio da una vergine. Quanto alle contraddizioni di fatto che Strauss aveva rilevato tra i vari vangeli, nemmeno una parola: quella era per Bauer «meta storia», come le leggi biolo­giche erano « mera fisiologia », e come tale priva di valore rispetto alla dedu­zione logica della realtà dalla ragione speculativa.

Con questa recensione anche Bauer e gli «Annali per la critica scientifica>> po­nevano Strauss di fronte allo stesso bivio che già gli era stato indicato dalle au­torità del Wiirttemberg: o attuare la conciliazione, o passare all'opposizione aper­ta. Strauss non si lasciò piegare. Nel 1836 apparve il secondo volume de La vita di Gesù, che non solo ripresentava lo stesso metodo critico del primo, ma con­teneva anche una radicalizzazione teorica e politica: al posto che avrebbe dovuto essere occupato dalla parte «sintetica» e «costruttiva», il volume presentava una conclusione in cui si rigettava la teoria della doppia verità e si esprimeva la necessità di un passaggio all'opposizione esplicita ed attiva.

Ai teologi della destra hegeliana, Strauss replica: voi pretendete di dedurre

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l'antologia dalla logica. Se questo apriorismo venisse accettato come valido, ritrascrivere in chiave speculativa i dogmi cristiani diverrebbe un giochetto da bambini. Ma quale è allora la differenza tra la teologia della destra e la teologia ortodossa, pietista, reazionaria? Solo che si userebbe un metodo diverso per giun­gere agli stessi risultati: « Come infatti nella teologia ortodossa dal fatto che la storia evangelica fosse giusta si deduceva la verità del concetto ecclesiastico di Cristo, così nella teologia speculativa dalla verità dei concetti si deduce il fatto che la storia sia giusta. Il razionale è anche reale, l'idea non è più un mero dover essere kantiano, ma altresì un essere. » ~Ma, » chiede Strauss, «attraverso que­sta deduzione sono poi state sciolte quelle contraddizioni che si sono palesate nella dottrina cristiana?» Evidentemente no, poiché l'analisi critica, storiogra­fica e filologica dei vangeli ha lasciato un galileiano eppur si muove che nessuna dia­lettizzazione aprioristica vale a cancellare. E tra i risultati della mia critica, in­calza Strauss, c'è anche questo: che non i miracoli evangelici sono reali, bensì il progresso storico e scientifico dell'umanità: «L'umanità è l'autrice dei miracoli, nella misura in cui nella storia umana lo spirito si appropria sempre più com­piutamente della natura, e questa di fronte ad esso viene abbassata a materiale impotente della di lui attività. >> Agli attacchi della reazione e della destra, Strauss replica quindi con una evidenziazione delle componenti illuministiche e razio­nalistiche, scientifiche e progressive della propria opera.

In questa prospettiva anche il compromesso della doppia verità viene a ca­dere, tanto più dopo che si era rivelato praticamente inefficace. Che posizione deve assumere il filosofo critico della religione, si chiede Strauss, di fronte alla comunità dei fedeli (quindi alle masse)? Come si vede, il passaggio dalla critica religiosa alla critica politica appare chiaramente. L'atteggiamento, risponde Strauss, può essere duplice: o la rinuncia a dire la verità, rinchiudendosi vuoi nel silenzio, vuoi nell'ipocrisia, o proclamare apertamente l'opposizione all'or­dine costituito. Nella conclusione a La vita di Gesù Strauss passa dall'ipocrisia della doppia verità all'opposizione dichiarata, e mostra quindi di essersi reso chiaramente conto del dilemma in cui la situazione storica della restaurazione l'aveva posto. Dopo i fermenti provocati dalle barricate parigine del I 8 3 o, che già avevano trascinato Heine all'opposizione aperta, anche Strauss giunge a met­tere in questione l'affermazione fatta da Hegel nella Filosofia del diritto, laddove si dice: « Ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale. » Hegel in quelle stesse pagine aveva scritto che al pensiero, alla filosofia, non compete mutare il mondo, bensì comprenderlo e descriverlo come razionale, ed aveva paragonato la filosofia all'uccello di Minerva, la civetta, che inizia il suo volo al crepuscolo, quando la storia ha già compiuto il suo corso. Rivendicando il diritto di procla­mare la propria opposizione all'ordine costituito, all'esistente, anziché solo cer­care di capirlo e di conciliarsi con esso, Strauss si pone di fronte al mondo reale non come la civetta, ma come l'allodola, che canta il sorgere del sole prima che

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questo illumini la terra. Non c'è bisogno oggi, afferma, di uomini che cerchino, come Bauer e la destra hegeliana, il compromesso a tutti i costi, perché « di simili uomini ce ne sono già a sufficienza nel nostro tempo, e non ci sarebbe bisogno di sforzarsi di renderli sempre più numerosi, vilipendendo coloro che parlano secondo lo spirito della scienza che ha progredito. Ma vi sono anche coloro che, incuranti di questi attacchi, professano lo stesso liberamente ciò che non può più esser tenuto nascosto - ed il tempo insegnerà se la chiesa, l'umanità e la verità vengono meglio servite dagli uni o dagli altri ».

Durante il I 8; 6 Strauss ha anche modo di constatare che il successo della sua opera è tale da consentirgli di prendere in esame la possibilità di vivere della pro­pria attività letteraria, respingendo i condizionamenti dei pubblici poteri del Wurttemberg. Alla fine dell'anno scrive al governo chiedendo l'assegnazione di una cattedra universitaria. La risposta è un secco no, e Strauss reagisce dimet­tendosi e trasferendosi a Stoccarda per vivere della propria penna. Questo nuovo passo innanzi nella rottura con l'ordine costituito comporta una radicaliz­zazione anche delle sue p6~izioni teoriche: appena giunto a Stoccarda, compone e pubblica le Streitschriften (Scritti polemici, I 8 37), in cui replica ai più importanti attacchi di cui era stato oggetto.

Strauss riprende un tema che avevamo visto in Heine, e paragona la restau­razione filosofica e teologica alla restaurazione politica, riprendendo anche il parallelismo tra pensiero critico tedesco e tradizione politica francese. Nei nostri anni di restaurazione, scrive, vediamo « anche in campo teologico la follia, come · se dopo lo svolgimento di una lotta interna, di una rivoluzione, si potesse par­lare della restaurazione dell'antico esattamente quale era prima. Ma non vi siete resi conto in campo politico che questo è impossibile? Non avete appena visto qui, nella nazione a noi vicina, il fallimento della restaurazione? »

Né è lecito, afferma energicamente Strauss, sostenere che Hegel fosse sen­z'altro filosofo conservatore, come aveva fatto Wolfgang Menzel (I798-I87;), già acerrimo avversario di Heine. A lui il nostro autore replica: «Dunque il barbaro non sa che in Hegel tra essere semplicemente esistente e reale c'è una grande diffe­renza? Che per nulla affatto Hegel qualifica già come reale tutto ciò che è pre­sente in quanto tale? Che il reale per lui è solo il nocciolo sostanziale di ciò che è, ricoperto da uno spesso strato di ciò che è solo apparente? Cosicché dalla proposizione attaccata [quella che affermava l'ormai nota equivalenza di realtà e razionalità] - la quale sanziona come razionale solo ciò che è essenziale in quanto è presente in ogni epoca data - scompare tutto ciò che è favorevole al principio della stabilità? »

Nonostante questa difesa di Hegel dalle affermazioni di Menzel, Strauss era intelletto troppo acuto per non avvedersi che il problema era più profondo: come era mai possibile che si potesse interpretare la filosofia di Hegel in modo reazionario? Il giovane teologo eterodosso entra qui in polemica diretta con

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Bauer e la destra, rivendicando in primo luogo il proprio buon diritto di di­chiararsi hegeliano: « Sin dalle origini, » scrive, « la mia critica della vita di Gesù fu in intimo rapporto con la filosofia di Hegel », in quanto basata sull'he­geliana distinzione tra rappresentazione religiosa e concetto filosofico. Tuttavia, prosegue Strauss, bisogna ammettere che nell'applicare questa distinzione meto­dologica Hegel non è mai uscito da una certa ambiguità, in quanto non ha mai precisato se il preteso contenuto « storico » dei vangeli fosse da ascriversi alla :rappresentazione (e quindi riconducibile al mito) o al concetto (e quindi reale e vero): « In Hegel, segnatamente nella Fenomenologia dello spirito, in questo punto si palesava tutta l'ambiguità del concetto di sublimazione dialettica. A volte sem­brava che di fronte al raggiunto concetto della cosa la storia venisse lasciata ca­dere in quanto meramente rappresentata; a volte sembrava che insieme all'idea fosse mantenuta anche la storia; non era chiaro se il fatto evangelico fosse il vero ... oppure se la concentrazione dell'idea in quell'unico fatto dovesse essere solo un'abbreviazione per la coscienza rappresentante. »

Fu quest'ambiguità, osserva Strauss, che permise a Bauer ed agli altri espo­nenti della destra di aver buon gioco nella loro pretesa di dedurre aprioristica­mente la verità storica dei vangeli dal concetto speculativo. Quando dunque que­sti hegeliani « si richiamano a Hegel stesso, ed assicurano che egli non avrebbe riconosciuto il mio libro come espressione del suo modo di pensare, non dicono nulla di cui non sia convinto anch'io. Personalmente Hegel non era un amico della critica storica. Si stizziva, come si stizziva Goethe, nel vedere rose da dubbi critici le figure eroiche dell'antichità... Da qui i giudizi sfavorevoli e patente­mente ingiusti di Hegel su Niebuhr, e la riprovazione delle ricerche di questo critico che egli espresse in ogni occasione».

Questa insensibilità storiografica diede al sistema hegeliano un carattere acritico, speculativo: « Il sistema hegeliano, nel rapporto con il suo tempo e con i sistemi immediatamente precedenti, ha un aspetto che doveva volgerlo contro la critica »; esso rinunciò infatti al criticismo di Kant, che anche Fichte in certa misura aveva mantenuto, per far propria l'esigenza di maggiore positività con­tenuta nella filosofia di Schelling. In questo senso, è vero che il suo fu «il sistema della restaurazione di fronte ai sistemi della rivoluzione ». Anche nella Fenome­nologia, la più critica tra le opere hegeliane, questa menda è presente. Ma ciò non toglie che la Fenomenologia sia prevalentemente un'opera critica, poiché in essa si parte dalla critica della certezza sensibile per giungere alla filosofia assoluta. Analogamente, in campo religioso si deve partire dalla critica della certezza fi­deistica per giungere al superamento della religione nel sapere filosofico.

Ciò che Strauss respinge della destra hegeliana ed in parte anche di Hegel è precisamente il deduzionismo aprioristico dell'antologia dalla logica, poiché qui è la radice della « confusione tra realtà in generale e questa determinata realtà. L'idea della bellezza, della virtù, deve avere realtà: ma posso mai dedurre da que-

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La crisi dell'hegelismo

sto semplice fatto che, di conseguenza, questo o quell'uomo particolare debba essere bello, virtuoso?» No, perché la bellezza o virtuosità di un uomo concreto devono essere dimostrate a posteriori. Se Bauer vuole sostenere che Gesù fu veramente figlio di dio e di una vergine, deve darne una prova storiografica, non deduttivo-speculativa. Ciò che egli ha scritto nella recensione alla mia opera, continua Strauss, non mi ha convinto, e fin tanto che egli non avrà dato una pro­va a posteriori dei miracoli, «io potrò mantenere la mia affermazione che la vit­toria che l'uomo riporta sulla natura dentro di sé mediante la cultura e la vittoria su se stesso, così come quella che riporta sulla natura fuori di sé mediante in­venzioni e macchine, ha maggior valore che non la sopraffazione della natura attraverso la mera parola del taumaturgo ».

Riappare così, attraverso la crisi dell'apriorismo speculativo, il problema della conoscenza scientifica della natura e del progresso. La scissione della scuola avviene su di un problema gnoseologico con precisi riflessi politici: di destra sono gli hegeliani che accettano la deduzione speculativa del reale e, in sostanza, accolgono acriticamente l'esistente; di sinistra quelli che usano del metodo he­geliano per sceverare, nell'esistente, ciò che è veramente reale da ciò che non lo è, e non si lasciano trarre in inganno dall'apriorismo logico. Per gli esponenti della sinistra, evidentemente, ciò che non è razionale, e non di meno esiste, va criticato a fondo, spazzato via dalla scena della storia.

Da questo momento (1837) la scissione della scuola è un fatto compiuto. Dal primo di gennaio del 1 8 3 8 cominceranno ad uscire gli « Hallische J ahrbiicher » («Annali di Hall e » ), che in breve diverranno l'organo della sinistra, e che sin dal primo numero recheranno la firma di David Friedrich Strauss.

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CAPITOLO TERZO

Il rovesciamento del/' hegelismo DI ENRICO RAMBALDI

I · LUDWIG FEUERBACH

Ludwig Feuerbach (I8o4-72) nacque a Landshut, in Baviera, quartogenito di un eminente giurista tedesco, Paul Johann Anselm Feuerbach (1775-I833). Nel I 82 3 si immatricolò alla facoltà di teologia di Heidelberg, ed ebbe come mae­stri un esegeta della Bibbia legato alla tradizione settecentesca, Heinrich Eberhard Gottlob Paulus (I7I6-I8p), nonché un teologo speculativo profondamente in­fluenzato da Hegel, Karl Daub (I765-I836). Nel I824 il giovane Ludwig si trasferì a Berlino ove, profondamente affascinato dall'insegnamento di Hegel, passò alla facoltà di filosofia. Lasciò Berlino nel I 826, e due anni dopo ottenne la laurea e l'abilitazione ad Erlangen, piccola università protestante bavarese, ove presentò una dissertazione intitolata De rati;ne, una, universali, infinita. Problema centrale di quest'opera sono i rapporti tra individuo e ragione universale, ed il risultato cui il giovane giunge è una totale svalutazione dell'individuo, inteso solo come modo di essere della ratio universalis.

Feuerbach basava questa tesi soprattutto sulla Logica e la Fenomenologia di Hegel, ma in parte già si staccava dal maestro, che si era sempre sforzato di mantenere un equilibrio tra individuo particolare e ragione universale. Una conseguenza immediata dell'universalismo feuerbachiano era la rigorosa imma­nentizzazione della divinità, la negazione che dio fosse un'entità personale. Feuerbach spezzava così anche l'equilibrio hegeliano tra fede e ragione. Inviando a Hegel una copia della dissertazione, gli scriveva infatti di considerarsi sì he­geliano, ma di presumere di aver fatto compiere alla filosofia un passo innanzi verso « l 'incarnazione del puro logos », dimostrando la necessità di un radicale su­peramento del cristianesimo, da intendersi non più come religione assoluta, bensì come rudere del vecchio mondo. Hegel lasciò senza risposta questa lettera, ed il suo silenzio può essere interpretato come disapprovazione dell'irruenza teoretica del giovane.

Ad Erlangen, come a Tubinga, l'hegelismo era poco noto e mal giudicato. Quando, nel I 829, Feuerbach cominciò ad insegnare come libero docente storia della filosofia, logica e metafisica, vi fu chi raccomandò agli studenti di non fre-

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Il rovesciamento dell'hegelismo

quentare quelle lezioni hegeliane e «non cristiane». L'isolamento dell'autore divenne ancora maggiore dopo che nel I 8 30 ebbe pubblicato i Gedanken iiber Tod und Unsterblichkeit (Pensieri sulla morte e l'immortalità). L'opera uscì anonima, ma non fu difficile individuarne l'autore. Feuerbach riprendeva infatti l'universalismo e l'anticristianesimo della dissertazione e negava recisamente ogni possibilità di sopravvivenza personale dell'anima. Il carattere di «opposizione» dei Pen­sieri investe non solo la religione ortodossa, ma anche il mondo della restaura­zione, dei cui rigori liberticidi il giovane aveva fatto dura esperienza: suo fra­tello Karl era stato in carcere per più di un anno sotto l'accusa di complotto contro lo stato, e lo stesso Ludwig, quando si era recato a Berlino, era stato a lungo controllato e pedinato dalla polizia. Non è da stupire quindi che nei Pensieri sia arrivato ad affermazioni come queste: una volta la religione era so­stegno dello stato, mentre oggi è lo stato ad essere sostegno della religione; la teologia ortodossa si regge con l'aiuto della polizia.

Il libro fu confiscato, e significò per Feuerbach ciò che La vita di Geszì signi­ficò per Strauss: gli precluse la carriera accademica. Per qualche anno egli con­tinuò ad insegnare, saltuariamente, come libero docente, ed a guardarsi attorno alla ricerca di una cattedra anche fuori dalla Baviera. Sperò in una sistemazione nel regno di Prussia, ove godeva dell'appoggio di hegeliani influenti, soprattutto dopo che ebbe pubblicato la Geschichte der neueren Philosophie von Bacon von Verulam bis Benedikt Spinoza (Storia della filosofia moderna da Bacone a Spinoza, I 8 33) ed ini­ziato la collaborazione agli« Annali per la critica scientifica». Ma lo spirito di oppo­siziòne del giovane filosofo era troppo vivo per non riemergere continuamente. N el I 8 3 4 diede alle stampe un'operetta intitolata Abii/ard und Heloi'se (Abelardo ed Eloisa), nella quale sviluppava i temi anticristiani ed antiortodossi, ed accen­nava esplicitamente all'amarezza della propria posizione di isolato e discriminato, affermando però nel contempo che questo status esistenziale era componente ine­liminabile della vivacità del proprio pensiero.

Ciò che spinse definitivamente Feuerbach all'opposizione fu, come per Strauss, l'interazione tra lo sviluppo del suo pensiero e la situazione storica gene­rale. Verso la metà degli anni trenta, con la pubblicazione de La vita di Gesù e la polemica all'interno della scuola hegeliana, presero sempre più piede nelle sfere statali anche prussiane gli indirizzi che si opponevano all 'hegelismo in generale: i pietisti, i romantici, gli ortodossi, i cattolici, gli esponenti della scuola storica del di­ritto. Il ministro Altenstein, che aveva chiamato Hegel a Berlino e poi insediato sul­la cattedra del grande filosofo il suo primo discepolo, Georg Andreas Gabler (I 786-I 8 53), fu costretto a tollerare che nel dicastero s'infiltrassero avversari dichiarati dell'hegelismo. Nella corte si diffondeva la simpatia per la «speculazione positi­va », largamente influenzata dalla tarda filosofia di Schelling. Questo indirizzo culturale faceva della giustificazione dell'esistente un principio tassativo, e la sua « positività » consisteva appunto nel riconoscere come «vero» il mondo

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Il rovesciamento dell'hegelismo

«dato» (in campo politico, teologico ecc.), il che comportava una estrema dif­fidenza verso quel razionalismo critico che Hegel, con il riconoscimento della insopprimibilità della « negazione », aveva sempre mantenuto. La situazione si faceva difficile per l 'hegelismo in generale, e Gans, paladino della filosofia he­geliana nella facoltà di diritto ed oppositore accanito di Savigny e dei suoi se­guaci, fu oggetto di frequenti attacchi da parte del ministero degli interni.

In tale contesto si andò affermando l'opera di Friedrich Julius Stahl (I8oz-6I). Questi, come molti romantici e reazionari, in gioventù era stato un goliardo liberale; ma negli stessi anni in cui con Feuerbach e Strauss si formava la sinistra, Stahl pubblicò un'opera, Die Philosophie des Rechts nach geschichtlicher Ansicht(La filo­sofia del diritto considerata storicamente, I83o-37), in cui poneva sotto accusa l'he­gelismo e metteva tutto l'accento sulla giustificazione «positiva» del diritto come pilastro degli « stati cristiani » tedeschi della restaurazione. Gli « Annali per la critica scientifica» affidarono la recensione dei primi due volumi di questo scritto a Feuerbach, il quale ne fece una stronca tura (I 8 3 5 ). Feuerbach si affiancò così a Strauss nell'ingenerare ed alimentare sempre più il sospetto che l'hegelismo fosse un indirizzo di pensiero molto pericoloso. Non per nulla qualche anno dopo a Berlino venne chiamato non già Feuerbach, ma Stahl, e per di più ad occupare la cattedra che era stata di Gans (I 84o); la reazione antihegeliana a livello acca­demico culminò con la chiamata di Schelling alla cattedra di Hegel (I84I).

Nella recensione a Stahl, Feuerbach critica la filosofia positiva e le sue com­ponenti schellinghiane con argomentazioni molto simili a quelle usate da Strauss contro la destra hegeliana. Il metodo della filosofia positiva è basato, scrive, sul tentativo di assumere la rappresentazione di una cosa per la cosa stessa, e di de­durre poi la cosa realmente esistente da quella rappresentazione, ormai misti­ficata come « universale ». Si ottiene così una catena di deduzioni assurde, che si risolvono in una« idolatria» dell'esistente accettato acriticamente, nella sua forma più bruta. Si veda la deduzione stahliana della proprietà privata: l 'uomo è stato creato ad immagine e somiglianza di dio non solo perché è libero ed ha una personalità morale, ma anche perché gli spetta il diritto di usare a proprio pro­fitto della natura; posto nel mondo come re del creato, può servirsene per sod­disfare le sue necessità, e quindi può «possedere». «Ma questa deduzione, » osserva Feuerbach, « fonda così poco le proprietà, ne fornisce così poco un concetto determinante, che un fisiologo che filosofasse secondo lo spirito di Stahl potrebbe usare dello stesso argomento per dedurre così il bere ed il man­giare: " affinché l 'uomo sia simile a dio anche per il potere sulla materia, per questo e solo per questo scopo egli ha nelle sue mandibole denti trituranti e nella parte inferiore del suo corpo uno stomaco capace di tutto consumare. Egli è posto nella natura quale signore: essa deve servir lo per la sua soddisfazione - su ciò riposano il mangiare ed il bere ". »

Questa di Feuerbach è una vera e propria critica del metodo speculativo

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Il rovesciamento dell'hegelisrno

come deduzione del reale dall'ideale, della corrispondenza aprioristica tra logica ed antologia. Come già in Strauss, anche in Feuerbach sta venendo in primo piano il problema gnoseologico del metodo.

Accenti violentemente anticristiani sono contenuti anche nella seconda opera di storiografia filosofica di Feuerbach, Darstellung, Entwicklung und Kritik der Leibnitz' schen Philosophie (Esposizione, sviluppo e critica della filosofia di Leibniz, I 8 3 7). Tra religione e filosofia, scrive, vi è un abisso incolmabile, giacché la prima rende l'uomo schiavo del proprio egoismo, lo illude di avere un'anima immortale e gli preclude una visione razionale della storia e della realtà. Nello stesso anno della pubblicazione del Leibniz, Feuerbach prende atto dell'impossibilità di fare la carriera accademica: chiede di essere cancellato dall'annuario dei docenti di Erlangen, si ammoglia e si ritira a vivere in un paesino, Bruckberg, dove comporrà le sue opere più famose. Nello stesso periodo gli giunge anche l'invito a colla­borare agli «Annali di Halle ».

II · GLI « HALLISCHE JAHRBUCHER »

Gli« Hallische Jahrbiicher » (« Annali di Halle ») furono frutto soprattutto dell'iniziativa di un giovane hegeliano, Arnold Ruge (I 8oz-8o ), che, seppur privo di grande originalità filosofica, seppe catalizzare intorno al periodico la tendenza di sinistra e svolgere per diversi anni un'efficacissima politica culturale progressiva.

Ruge si era formato nelle università di Jena, Halle e Heidelberg. Nel I 82 5 era stato condannato a quattordici anni di fortezza per aver appartenuto ad un'as­sociazione segreta. Durante gli anni di segregazione compose varie opere lette­tarie, studiò molto, si convinse dell'inanità del liberalismo goliardico, si di­chiarò hegeliano convinto ed entrò in corrispondenza con alti funzionari hege­liani del regno di Prussia. N el I 8 3 o ottenne la grazia, e nel I 8 32 si stabilì a Halle, avviandosi alla carriera accademica e cominciando ad insegnare, come libero docente, estetica, logica, metafisica e filosofia del diritto. Pubblicò due opere di filosofia dell'estetica, Di e platonische Aesthetik (L'estetica platonica, I 8 32); Neue Vorschule der Aesthetik (Nuova propedeutica all'estetica, I 8 3 6), e sollecitò la conces­sione di una cattedra. Ma i suoi tentativi di inserirsi nel corpo accademico prus­siano andarono delusi, sia per i suoi trascorsi, sia soprattutto perché Strauss e Feuerbach avevano ormai portato lo scompiglio nella scuola hegeliana, e Ruge si era già qualificato come esponente della sinistra. In questa atmosfera di rea­zione politica, di frustrazione personale e di crisi generale dell'hegelismo, Ruge de­cise- insieme ad un altro libero docente di Halle, Theodor Echtermeyer (I8o5-44)- di dar vita agli «Annali di Halle ».Nell'autunno del I837 il giovane percorse in lungo ed in largo la Germania, assicurando al periodico la collaborazione di molti nomi illustri e dei « giovani hegeliani ». La rivista vide la lu~e il primo gen-

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Il rovesciamento dell'hegelismo

naio del I 8 3 8. Per qualche mese gli «Annali di Balle» evitarono di assumere posi­zioni troppo esplicitamente radicali, pur essendo sin dal primo numero molto più li­berali degli « Annali per la critica scientifica». Ma, proprio per il loro carattere gior­nalistico, in breve divennero il luogo in cui la sinistra poteva con più tempestività ed incisività rispondere agli altri indirizzi culturali ed ai colpi della reazione.

La linea iniziale degli « Annali di Balle » era di difesa del « liberalismo prote­stante». Come ha mostrato Begel, affermava Ruge, la Prussia è l'incarnazione della ragione, l'erede storica del protestantesimo di Lutero e di tutta la tradizione che dall'opera del monaco riformatore trae origine. Il regno di Prussia è quindi antirivoluzionario, perché la rivoluzione, in quanto antistorica, è antirazionale, ma non è antiprogressista; anzi, esso è per vocazione progressista e riformista, perché riforme e progresso sono il modo in cui la ragione si realizza nella storia. La Prussia non può quindi essere avversa a Strauss e Feuerbach, veri interpreti della funzione progressiva della filosofia hegeliana. Indicativamente nel primo numero gli «Annali di Balle» recavano la firma di Strauss.

La rivista aspirava insomma ad essere una « terza forza » che lottasse su due fronti: la reazione da un lato, e la rivoluzione «alla francese» dall'altro. Questa linea è chiaramente espressa dal primo saggio di rilievo che vi pubblicò Ruge: Heinrich Heine, charakterisiert nach seinen Schriften (Enrico Heine caratterizzato secondo i suoi scritti, gennaio-febbraio I 8 3 8). Il poeta renano, che aveva preannunziato una rivoluzione in Germania ed esaltato il I 789, viene violentemente stroncato.

Ma l'oggettiva brutalità della reazione scardinò questa posizione di «terza forza». Nel I 8 37 il governo di Berlino aveva arrestato l'arcivescovo di Colonia a causa delle divergenze sul diritto matrimoniale. Ruge giubilava, perché vedeva in questo episodio una conferma del carattere progressivo del regno. Ma Federico Guglielmo m combatteva il cattolicesimo non certo per liberalismo, bensì per rafforzare il dominio sulla Renania ed imporre la propria politica ecclesiastica autoritaria. L'arresto provocò una violenta filippica antiprussiana ed antiprote­stante da parte di un ex esponente del giacobinismo e delliberalismo romantico, Johann Joseph Gorres (I776-I848), passato alla reazione più cieca, convertito al cattolicesimo e riparato a Monaco, dove predicava, da una cattedra universita­ria, che tutti i mali del mondo derivavano dal fatto che Lutero avesse spezzato l'equilibrio organico tra papato ed impero. Gorres pubblicò un opuscolo, Atha­nasius (I 8 3 7 ), in cui non solo difendeva la posizione del prelato e del vaticano, ma anche attaccava la Prussia come roccaforte di due demoni rivoluzionari ever­sivi: il luteranesimo e l'hegelismo. L'Athanasius ebbe una diffusione enorme e suscitò polemiche violentissime.

La posizione di Gorres era diametralmente opposta a quella degli «Annali di Balle» : cattolicesimo anziché protestantesimo, restaurazione anziché riformismo liberaleggiante, romanticismo anziché dialettica razionale, regno di Baviera an­ziché regno di Prussia. Ma anche all'interno del campo protestante e prussiano

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Il rovesciamento dell'hegelismo

le posizioni erano l ungi dall'essere unitarie: tra Ruge e Federico Guglielmo 111

vi era un abisso. Il tentativo di Ruge di delineare due blocchi compatti - da un lato i cattolici, i romantici ed i reazionari, dall'altro gli hegeliani, i protestanti ed i progressisti - era irrealistico, come apparve chiaramente quando un profes­sore di Halle, lo storico protestant5 Heinrich Leo (I799-I878)- che tra l'altro poteva vantare di essere stato intimo di Hegel, e che aveva un passato di goliardo liberale e romantico - replicò a Gorres con lo scritto Sendschreiben an]. Giirre! (Lettera aperta a Gorres, I 8 3 8) dichiarandosi d'accordo con lui nel temere che i neo­razionalisti della sinistra preparassero una nuova rivoluzione, ma affermando che l'azione del re era ispirata da principi saldamente conservatori ed invitando l'avver­sario a non suscitare tra cattolici e protestanti una lotta che sarebbe andata a tutto vantaggio dei rivoluzionari. Ruge stroncò l'opera di Leo sugli «Annali di Halle » (giugno I 8 3 8), accusando lo storico di tradire la vocazione della Prussia ed il prote­stantesimo, di rinnegare l'antica amicizia con Hegel, di essere un provocatore che tentava di far credere alle autorità che gli hegeliani di sinistra fossero pericolosi sov­versivi. Per tutta risposta Leo rincarò la dose, pubblicando Die Hegelingen (l giovani hegeliani, I 8 3 8): tralasciò ogni polemica contro Gorres ed invocò l 'intervento della censura e della polizia contro i giovani hegeliani, accusati di essere atei, razio­nalisti, illuministi, giacobini che battevano la strada che già aveva condotto al I 789 ed al I 8 30. Contro gli «Annali di Halle » si scatenarono anche i seguaci di Savigny, i pietisti guidati da Hengstenberg, i cattolici ultramontani: tutti costoro chiamarono in causa direttamente Hegel, accusandolo di essere il primo respon­sabile delle « pericolose » posizioni dei suoi discepoli. Le autorità prestarono buon orecchio a queste accuse: nel I839, dopo poco più di un anno che gli «Annali di Halle » avevano visto la luce, Altenstein comunicava a Ruge che non si illudesse di andare mai in cattedra. Feuerbach aveva rinunciato sin dal I 8 3 7. Strauss compì un ultimo e sfortunato tentativo a cavallo tra il I 8 3 8 ed il I 8 3 9 : il teologo eterodosso ottenne una chiamata dall'università di Zurigo (cantone in cui i liberali moderati avevano una sia pur esigua maggioranza), ma i pietisti reagirono violentemente, scatenando i contadini sanfedisti e rovesciando il go­verno con manifestazioni di massa, nonostante che questo avesse subito ceduto e mandato Strauss in pensione senza che avesse nemmeno posto piede in Zu­rigo. Inutilmente il giovane autore de La vita di Gesù aveva rispolverato, per l'oc­casione, una nuova versione della dottrina della doppia verità, pubblicando tra l'altro un'operetta, Vergiingliches und Bleibendes im Christenthum (Su ciò che è tran­seunte e ciò che è stabile nel cristianesimo, I 8 3 8) in cui aveva cercato, ricorrendo in parte anche ad apriorismi logici simili a quelli che aveva criticato in Bauer, di mostrare che se anche non era stato figlio carnale di dio, Gesù era pur sempre stato il massimo genio di tutti i tempi, passati, presenti e futuri.

A volte i giovani hegeliani ebbero qualche incertezza, ma quasi sempre fi­nirono per trovarsi all'opposizione, e dal sinistrismo culturale approdarono a

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Il rovesciamento dell'hegelismo

quello politico. Strauss reagì allo smacco di Zurigo ritrattando tutte le conces­sioni. Ruge fece il punto delle polemiche con Leo, Hengstenberg e la reaziòne pubblicando un volumetto Preussen und die Reaktion (La Prussia e la reazione, 18 3 8), nel quale prospettava il pericolo che nel regno degli Hohenzollern pren­desse piede una « inquisizione protestante », cioè un protestantesimo illiberale e fanatico, sostanzialmente cattolico, che rinnegasse Lutero per sposare il conser­vatorismo del concilio di Trento; Ruge criticava anche come antihegeliana ed antiprotestante la santa alleanza, ed esaltava la monarchia costituzionale di Luigi Filippo.

Sin dal18 3 8 agli «Annali di Balle» collaborava anche Feuerbach, che verso la fine dell'anno (quando lo scontro tra Ruge, Leo e Hengstenberg era già accesis­simo) vi pubblicò una violentissima Zur Kritik der « positiven Philosophie » (Per la critica della «filosofia positiva»). In questo scritto egli riprendeva la polemica contro quel metodo che aveva già attaccato in Stahl, e ripeteva l'accusa che la speculazione positiva fosse idolatria dell'esistente che usurpava il posto della razionalità con la « realtà empirica e volgare ». Analizzando i rapporti di predi­cazione della speculazione positiva, Feuerbach rilevava la presenza di un predicato -la realtà empirjca immediata- che in verità era un soggetto empirico mistificato, divinizzato surrettiziamente come soggetto razionale. Feuerbach si stava insomma muovendo verso un risultato cui giungerà ben presto: la speculazione in generale - quella hegeliana compresa - va rovesciata, nel senso che ciò che da essa viene considerato soggetto, in realtà è predicato, e viceversa. Questi temi sono presenti anche nella più bella tra le opere storiografiche del filosofo, la monografia Pierre Bqyle ( 18 3 8). Anche questo scritto è violentemente anticristiano, e Feuerbach osserva che l'essenza della religione è d'innalzare una barriera insormontabile tra cielo e terra, sì che i due termini vengono ad essere in rapporto inversamente proporzionale. Se, ad esempio, sulla terra il cattolicesimo nega l'amore sessuale e maledice il corpo come zavorra dello spirito, in cielo verrà esaltata la verginità, e si parlerà di una resurrezione della carne come compensazione di ciò che si perde nel mondo profano rinunciando alla perpetuazione della specie. Feuerbach è più prudente di Ruge sull'interpretazione progressiva del protestantesimo: certo Lutero liberò l'uomo dalla dilacerazione cattolica tra cielo e terra, ma la sua fu una emancipazione solo parziale, pratica e non teorica: la ragione rimase sotto­messa ai ceppi della fede, mentre venne tolta la proscrizione dell'attività sessuale e si çoncesse ai pastori protestanti di ammogliarsi.

Di Bayle Feuerbach mette in evidenza che non era né teologo ufficiale, né professore accademico. Questa posizione esistenziale di « irregolare » fu, afferma, un aspetto inalienabile della sua opera liberatrice. L'allusione autobiografica (che vale anche per gli altri autori della sinistra) è evidente, e indica la cosciente accettazione di quello che per i giovani hegeliani era ormai un dato di fatto: essere banditi dalle istituzioni ufficiali. Sotto la spinta delle contraddizioni storiche

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Il rovesciamento dell'hegelismo

e culturali la politica di terza forza tentata da Ruge andava a pezzi, come era andata in pezzi la dottrina della doppia verità elaborata da Strauss.

Feuerbach intervenne anche nella polemica dell'arcivescovo di Colonia, iniziando la pubblicazione(« Annali di Halle »,marzo I 839) di un saggio che venne poi cassato dalla censura, e che Feuerbach pubblicò come opuscolo autonomo con il titolo ()ber Philosophie und Christenthum (Sulla ftlosofta ed il cristianesimo, I 8 39). Leo, pur accusando velatamente anche Hegel, aveva soprattutto distinto tra il maestro ed i suoi discepoli di destra - rispettosi della tradizione e della religione - da un lato, ed i giovani hegeliani, che avevano sviluppato in senso ateo e ri­voluzionario il suo insegnamento, dall'altro. Feuerbach accetta questa distin­zione, e la generalizza in una distinzione tra quei vecchi hegeliani che sono solo « storici », cioè pigri rimasticatori dogmatici del sistema di Hegel, ed i giovani hegeliani ai quali spetta il merito di essere dei « filosofi », proprio perché sono capaci di non restare fermi alle proposizioni hegeliane. Logico gli appare anche che i giovani vengano accusati di ateismo, dato che i vecchi non avevano mai operato una chiara distinzione tra fede e ragione. Ma la colpa di ciò, afferma, ricade anche su Hegel, che non considerò la religione per ciò che fu ed è, bensì la caratterizzò solo dal punto di vista logico-temporale, come un momento (quello della rap­presentazione) del processo dialettico verso la filosofia assoluta.

Le affermazioni feuerbachiane hanno un chiaro risvolto politico: una delle conseguenze dell'ambiguità hegeliana era la pretesa dei reazionari di dare un fondamento « cristiano », anziché « razionale », allo stato. Già nella critica di Stahl, Feuerbach aveva polemizzato contro questa pretesa, ora riprende ed appro­fondisce il tema, sostanziandolo di considerazioni politiche concrete, come l'os­servazione che gli stati moderni contraddicono lo spirito evangelico già con le loro guerre ed i loro cannoni.

III · FILOSOFIA GENETICO-CRITICA

Poco dopo (agosto-settembre I839) Feuerbach sviluppa queste critiche a Hegel pubblicando sugli «Annali di Halle» il lungo saggio Zur Kritik der Hegel' schen Philosophie (Per la critica della ftlosofta hegeliana). Riprendendo ed ampliando le affermazioni di Strauss, egli rileva che ciò che caratterizza la filosofia di Hegel è di aver analizzato la «differenza» tra le diverse manifestazioni dello spirito (tra religione e filosofia, tra filosofia ed arte, tra le diverse forme di filosofia, ecc.), e ciò fa sì che il metodo hegeliano sia critico, e si distingua daquello schellinghiano, basato sul principio di « identità » e quindi acritico. Tuttavia anche Hegel resta un filosofo speculativo, poiché la differenza è da lui analizzata solo dal punto di vista logico, come successione temporale. Si veda come Hegel tratta la storia: la appiat­tisce in una monotona serie di differenziazioni temporali, prive di drammaticità spaziale, incapaci di rendere ragione della realtà. Secondo l'unidimensionalità

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della dialettica hegeliana l'uomo, ad esempio, è l'apogeo dello sviluppo dell'idea, il re del creato. Ma potrebbe esserlo se nello spazio reale in cui esercita il dominio non coesistessero gli animali, inferiori a lui dal punto di vista dello sviluppo logico-temporale dell'idea? Non solo: anche il metodo hegeliano si regge su di un errore di predicazione, poiché l'idea pone in primo piano se stessa e riduce le manifestazioni storiche reali, ovvero la totalità spazio-temporale, a predicato del proprio processo di sviluppo. Così quando Hegel afferma che la religione cristiana sarebbe religione assoluta, si basa esclusivamente sulla differenza tra essa e le altre religioni, e non rileva il genere a tutte comune; la assolutizza perché la esamina solo dal punto di vista logico, anziché anche da quello della totalità storico-spaziale. Analogo è l'errore della destra hegeliana quando afferma che la filosofia di Hegel è filosofia assoluta. Se non può esaurirsi nel tempo, la filosofia non può infatti nemmeno esaurirsi nella mente di un unico filosofo (che idealmente vivrebbe solo nel tempo), bensì deve trovare un completamento nelle menti degli uomini che con il filosofo coesistono in uno stesso spazio. Questa conspazialità impone anche che si tenga conto dell'empiria dei sensi, cioè che la dialettica non sia un monologo della speculazione con se stessa, bensì un dialogo della ragione con la realtà.

L'antico maestro appare però a Feuerbach ancora come colui che, in forza del suo principio critico, rispetto all'acriticismo di Schelling e della filosofia positiva è « un sobrio tra ubriachi ». Ma il criticismo di Hegel è solo logico-tempo­rale; esso va esteso anche alla dimensione storico-spaziale, va criticato per dar luogo ad un metodo genetico-critico. Non basta, ad esempio, fare ciò che fa Hegel nella Logica: partire dal concetto di « nulla » e poi mostrarne criticamente le diffe­renziazioni logiche interne. Occorre anche mostrare quale sia la genesi del concetto di nulla: il dualismo tra l'io ed i tu che vivono nello spazio storico reale, cioè il dualismo tra l'uomo ed il genere.

Attraverso l'impostazione genetico-critica, nell'impianto speculativo hege­liano irrompevano considerazioni antideduttivistiche ed antiaprioristiche, anche se Feuerbach non giunge ancora ad identificare Hegel con Schelling. Dal punto di vista politico-culturale, la filosofia genetico-critica comportava ovviamente una maggiore consapevolezza polemica nei confronti del mondo storico della re­staurazione, nonché delle ideologie, compresa quella hegeliana, che quel mondo tentavano di giustificare teoricamente. Del nuovo metodo Ruge si avvalse per radicalizzare la lotta contro la reazione. Tra la fine del 1839 e l'inizio del 1840 egli pubblicò sugli «Annali di Halle », insieme ad Echtermeyer, il saggio Der Pro­testantismus und die Romantik (Il protestantesimo ed il romanticismo). L'impianto filosofico era largamente mutuato da Feuerbach, e Ruge riprendeva quasi alla lettera le affermazioni dell'amico, dichiarando che gli «Annali di Halle » erano l'organo di tutti coloro che non erano meri « storici », ma anche « filosofi ». Nel saggio Ruge cercava di dare una base storico-critica alla tesi che il protestan-

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tesimo costituisse un retaggio progressivo, coronato dalla filosofia di Hegel prima e dall'hegelismo di sinistra poi. Anch'egli però insisteva ormai sul fatto che l'emancipazione protestante era stata solo parziale, tant'era vero che romanti­cismo e reazione avevano potuto affermarsi. Di qui la necessità che i giovani hegeliani rompessero con la pigra ricerca di una conciliazione a tutti i costi con l'esistente, e si proponessero di incidere sul contesto storico con l'azione politica.' L'hegelismo di sinistra diveniva così un partito di pressione politico-culturale, anche se non ancora un vero partito politico: « Quanto più la filosofia è vera, tanto più decisamente deve opporsi allo spirito ormai morto. La filosofia diviene partitica - è contro il passato e per il vero presente. » Negli stessi mesi Ruge ribadì in varie note e recensioni che solo la concessione di una costituzione avrebbe suggellato il carattere protestante del regno, che altrimenti sarebbe ripiombato in una forma di sclerotizzazione sostanzialmente cattolica. Via via che passavano i mesi, Ruge diveniva sempre più pessimista, ed i~ una lettera privata del I 840 scrive: « Se continua così, la Prussia è alla fine della propria storia »; « la missione protestante minaccia di emigrare in un altro paese».

Nel I 840 il trono di Prussia fu occupato dal « romantico » Federico Gugliel­mo IV, che affidò il dicastero dell'istruzione ad un fanatico antihegeliano, Johann Albrecht Friedrich Eichhorn (I779-I856). In Europa vi fu una grande crisi poli­tica a causa della politica mediorientale di Luigi Filippo, e si assistette alla forma­zione di uno schieramento di potenze ostili alla Francia (Prussia, Russia, Austria e Inghilterra). In tutta la Germania i governi si prepararono alla guerra, ed orchestrarono una violenta campagna sciovinistica antifrancese. Anche su que­sto terreno gli «Annali di Halle » si trovarono ali' opposizione, sostenendo la mo­narchia costituzionale di Luigi Filippo. La fobia antifrancese spinse gli hegeliani di sinistra a rivedere vieppiù approfonditamente il giudizio sull'illuminismo, ed un amico dell'allora giovanissimo Karl Marx, Friedrich Koppen (I8o8-63), pubblicò un'opera che esaltava il roi philosophe, amico di Voltaire e nemico dei preti: Friedrich der Grosse und seine Widersacher (Federico il grande ed i suoi opposi­tori, 1840 ).

Per una estensione dell'impostazione genetico--critica al campo politico, il testo con il quale occorreva misurarsi era in primo luogo ovviamente la Filosofia del diritto di Hegel. Il compito venne affrontato da Ruge in un saggio intitolato Zur Kritik des gegenwiirtigen Staats und Volkerrecht (Per la critica del presente diritto dello stato e dei popoli, I84o). Tenendo presente Feuerbach, Ruge affermava che Hegel aveva avuto il torto di sviluppare le categorie giuridiche e politiche senza tener conto della storia, cioè del loro contesto genetico. La storia è il « divenire della libertà», mentre lo stato è« l'essere della libertà». Ne consegue che l'ultimo stato in ordine di tempo non può essere ipso facto concepito come assoluto, fisso, immutabile: la storia non arresta mai il suo divenire, e quindi lo stato non può irrigidirsi in una forma statica, bensì deve conservare una malleabilità progressiva,

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ed accogliere in sé le sollecitazioni della storia. Hegel ha invece anteposto lo stato alla storia; egli va quindi criticato, ed occorre teorizzare esplicitamente l'azione pratica dell'individuo, veicolo dell'incarnazione della ragione. Ciò comporta una critica delle teorizzazioni aprioristiche ed antistoriche contenute nella Filosofia del diritto, ad esempio quella del maggiorascato. Simili teorizzazioni prendono una realtà di fatto, la astraggono dal suo contesto genetico e storico, la innalzano ad assoluto, ed infine deducono da questo assoluto fittizio una cano­nizzazione e razionalizzazione del dato empirico immediato. Ma quanto è acca­duto alla dinastia dei Borboni dimostra che non basta il « concetto » della monar­chia ereditaria perché una corona sia legittima; essa lo è solo quando rispecchia lo sviluppo della razionalità della storia. Veramente legittima oggi in Francia è non la dinastia dei Borboni bensì quella degli Orléans, che sola ha saputo in­terpretare lo « spirito nazionale » del popolo francese, riflettere il grado di « di­venire della libertà» che esso ha raggiunto. Ovvie le conseguenze che da questa tesi di Ruge si possono trarre: una dinastia che non assolva questo compito va cacciata dal trono.

L'autore termina con richieste politiche che indicano come il giovane he­gelismo tenda sempre più chiaramente ad esprimere le concezioni politiche del­la borghesia tedesca, vieppiù insofferente dell'assolutismo feudale: solo conce­dendo ai cittadini la libertà, l'uguaglianza e la partecipazione alla vita dello stato la Prussia potrà strappar:e alla Francia il primato fra le nazioni.

IV · IL PASSAGGIO DI BRUNO BAUER ALLA SINISTRA

Il movimento della sinistra, la crisi europea del I 840 ed i mutamenti avvenuti al vertice dello stato prussiano restringevano sempre più i margini della destra hegeliana, attaccata ormai su due fronti: pietisti, romantici e cattolici da un lato, giovani hegeliani di sinistra dall'altro. Un significativo esempio del successo della sinistra fu il passaggio alle sue file di Bauer.

Dal I836 al I838 era sembrato che Bauer dovesse divenire il più attivo ed intransigente esponente dell 'hegelismo conservatore. In quegli anni egli fu re­dattore di un periodico che difendeva le posizioni teologiche della destra e acco­glieva sulle sue colonne anche la teologia della speculazione « positiva », la « Zeitschrift fiir speculative Theologie » («Rivista di teologia speculativa»). Nel I838 Bauer aveva pubblicato un'opera che, dal punto di vista metodologico, avreb­be voluto costituire la confutazione del metodo straussiano: Kritik der Geschichte der O.ffenbarung (Critica della storia della rivelazione). Lo scritto era imperniato sul deduzionismo a priori di cui l'autore aveva dato saggio nella recensione anti­straussiana.

Ma il I 8 3 8 fu anche l'anno dell'apparizione degli «Annali di Hall e » e della polemica di Ruge contro il protestantesimo cattolicheggiante e reazionario di

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Leo, Hengstenberg e della destra. In tale contesto, Bauer ruppe con la reazione ed attaccò, in un volumetto intitolato Herr Dr. Hengstenberg (Il signor dottor Hengstenberg, 1839), il leader del pietismo romantico, accusandolo di non aver capito nulla di filosofia della religione hegeliana. Il ministro Altenstein, che pure lo aveva in simpatia, fu allora costretto a trasferire Bauer all'università di Bonn, e ciò indicò quanto i rapporti di forza si fossero spostati a favore degli antihege­liani.

Bauer si era spostato a sinistra anche per l'influenza di un gruppo di amici, il « club dei dottori », tra i quali figuravano anche il giovanissimo Karl Marx e Friedrich Koppen. Da Bonn egli rimase in contatto con i « dottori », e la sua evoluzione continuò rapidissima. Dopo pochi mesi aveva già composto un'opera intitolata Kritik der evangelischen Geschichte des Johannes (Critica della Jtoria evangelica di Giovanni, 184o), nella quale dava la seguente interpretazione del quarto vangelo: Giovanni mostra di avere di Cristo, inteso come « Verbo », una concezione filosofica, in quanto lo presenta come unità di finito ed infinito (unità che, come sappiamo, costituiva il supremo principio dell'idealismo assoluto hegeliano). Ma come era stato possibile che questo concetto si diffondesse nella comunità protocristiana? La risposta dell'autore mostra l'assimilazione almeno parziale delle tesi di Feuerbach e di Strauss; egli individua infatti dei fattori che spiegano la genesi storica della concezione giovannea del « Verbo »: Giovanni visse a lungo ad Efeso, dove erano vive le tre confessioni religiose del tempo (politeismo, cri­stianesimo, ebraismo), e ciò diede luogo ad una polemica dottrinaria e quindi ad un approfondimento speculativo del messaggio di Gesù. Bauer è quindi ormai lontano dalla pretesa di « dedurre » la validità del valore storico letterale del vangelo: egli nega che il vangelo di Giovanni sia un monumento storia­grafico, ed afferma che esso ha valore solo come libera rielaborazione speculativa del messaggio di Gesù.

Subito dopo Bauer pubblicò un'opera di polemica politica, Die evangelische Landeskirche Preussens und die Wissenschaft (La chiesa evangelica prussiana e la scienza, 184o), nella quale è viva l'influenza di Ruge. Da più di un secolo, rileva, la Prussia è la patria della ragione, ma oggi c'è il pericolo che perda questa egemonia con­quistatale da Federico n: con la teorizzazione dello « stato cristiano », romantici e reazionari vogliono sottomettere la ragione alla fede, lo stato alla chiesa. Noi però, afferma Bauer, non possiamo accettare questa umiliazione della ragione, ed alla luce della nuova situazione dobbiamo anche rivedere il giudizio sull'illumi­nismo e sul laicismo del Settecento, cercando di salvaguardarne il patrimonio. Fu in armonia con l'opera del roi philosophe, prosegue Bauer, che Federico Gu­glielmo nr fondò, nel 18z7, l'Unione evangelica, cioè una chiesa subordinata allo stato. Bauer esorta Federico Guglielmo IV, da poco salito al trono, a realizzare senza indugi quel programma di politica ecclesiastica.

Le cose andarono ben diversamente. Il programma di governo del nuovo re

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era « io e la mia casa vogliamo servire il Signore »; egli perseguì una politica di alleanza conservatrice con tutte le confessioni cristiane, compresa quella cattolica che suo padre aveva osteggiato. Cercò di sminuire la tensione con i cattolici assistendo ai loro culti nella cattedrale di Colonia, ed insistette sul carattere « cri­stiano » del regno. Ancora una volta, le contraddizioni oggettive della storia ebbero la meglio sui sogni ottimistici dei giovani hegeliani, che per qualche mese avevano sperato nel nuovo re. Nel 1841 (giugno) Bauer ne prese atto, e pubblicò sugli «Annali di Halle » un saggio intitolato Der christliche Staat und unsre Zeit (Lo stato cristiano ed il nostro tempo) nel quale accusava il governo di essersi schierato contro la filosofia e contro l'insegnamento di Hegel. Noi giovani hegeliani, affermava, resisteremo a tutte le persecuzioni, ci costituiremo in partito e lotteremo anche contro il governo per difendere il concetto razionale dello stato.

Nello stesso anno Bauer pubblicava altri due volumi di critica evangelica, Kritik der evangelischen Geschichte der Synoptiker (Critica della storia evangelica dei sinottici), nei quali si dichiarava apertamente alla sinistra di Strauss. Questi, come sappiamo, aveva sostenuto che i vangeli sono frutto non tanto del singolo evangelista, quanto piuttosto della protocomunità cristiana nel suo complesso. Secondo Bauer, questo denoterebbe che Strauss resta ancora prigioniero di una categoria trascendente, astratta, indeterminata, simile al concetto spinoziano di « sostanza ». La vera soluzione della questione evangelica è per Bauer che i quattro vangeli sono frutto non già di una indeterminata e sostanzialistica «tra­dizione», bensì dell'« autocoscienza» dei quattro evangelisti: ognuno di questi concepì liberamente il proprio scritto come creazione letteraria ed elaborazione filosofica del concetto di unione di finito ed infinito.

Nonostante fosse convinto di aver superato « a sinistra » Strauss, Bauer era ancora molto più legato di quanto non fosse il teologo svevo ad un impianto speculativo idealistico. Egli trasformò il problema storiografico della critica delle fonti evangeliche in una questione astratta, e della disputa tra lui e Strauss giusta­mente Engels più tardi scrisse: « Alla teoria della formazione dei miti [svolta da Strauss ne La vita di Gesù] si oppose più tardi Bruno Bauer, dimostrando che una grande parte delle narrazioni evangeliche vennero inventate dagli autori stessi. La contesa tra di loro venne condotta nel travestimento filosofico di una lotta dell "' autocoscienza " contro la " sostanza "; la questione se le teorie miracolose dei vangeli fossero sorte in seno alla comunità attraverso una creazione incosciente di miti tradizionali, oppure fossero state inventate dagli evangelisti stessi, venne trasformata nella questione se la " sostanza " o l"' autocoscienza " è la forza motrice decisiva della storia universale. »

Strauss confermò la propria posizione in Die christliche Glaubenslehre (La dot­trina cristiana della fede, 1 840 ), mentre Bauer ribadì la propria nel volume Kritik der evangelischen Geschichte der Synoptiker und des Johannes (Critica della storia evangelica

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dei sinottici e di Giovanni; I 842). La citata opera di Strauss è l'ultima di questo autore che abbia importanza per lo sviluppo della sinistra: in essa egli dà di tutta la storia della dottrina sia cattolica sia protestante un'interpretazione unitaria: si tratta, affermava, di uno sviluppo dialettico continuo verso la dissoluzione della « rappre­sentazione » religiosa in « concetto » filosofico. Strauss non andava però al di là dei rilievi critici su Hegel formulati negli Scritti polemici, e dichiarava di dissentire dalla posizione di Feuerbach, che escludeva che la religione fosse una « rappre­sentazione» di verità razionali e la riduceva completamente all'egoismo indi­viduale umano.

Il passaggio di Bauer alla sinistra ebbe sviluppi clamorosi anche sul piano politico ed istituzionale. Nel I 84I egli scriveva a Marx che gli «Annali di Halle » erano troppo moderati e che occorreva fondare una nuova rivista che riprendesse, in campo teorico, il terrore giacobino: «Il terrore della vera teoria deve fare piazza pulita, » esclamava. Il suo atteggiamento e le sue opere diedero pretesto al mini­stro di aprire contro di lui un'inchiesta (I84I) per esaminare se fosse ancora «degno» di insegnare teologia in un'università prussiana. Mentre il procedi­mento era in corso, Bauer pubblicò un'opera anonima di cui ben presto tutti individuarono l 'autore: Die Posaune des jiingsten Gerichts iiber Hegel den Atheisten und Antichristen. Ein Ultimatum. (La tromba del giudizio universale contro Hegel, ateo ed anticristo. Un ultimatum, I 84I ). Fingendosi un pietista alla Hengstenberg, egli di fatto screditava gli sforzi della destra hegeliana per assicurare che Hegel non fosse responsabile della piega che il suo insegnamento andava prendendo; fin­gendo di attaccare Hegel come ateo ed anticristo, indirettamente sosteneva che il filosofo in realtà non aveva mai cercato una conciliazione con la fede, non aveva mai accettato l'ordinamento della restaurazione, era sempre stato un rivoluziona­rio, un criptogiacobino, un senzadio.

Nel I842 Bauer venne espulso dall'università e la sua libera docenza venne revocata. L'episodio mise a nudo l'intolleranza del governo di Federico Gu­glielmo rv, gettò alle ortiche ogni velleità di presentare il regno di Prussia come la patria di un protestantesimo progressivo, sanzionò l'inimicizia tra il governo e l'hegelismo. Il governo del resto aveva già fatto da tempo la sua scelta: il I5 novembre I84I, mentre la Germania era in rumore anche per l'apparizione del­l'opera Das Wesen des Christenthums (L'ersenza del cristianesimo) di Feuerbach, Schelling teneva a Berlino la sua prolusione dalla cattedra che era stata di Hegel, ed alla quale il re ed il nuovo ministro l'avevano chiamato con il preciso com­pito di contrastare le conseguenze rivoluzionarie lasciate dall'insegnamento di Hegel negli anni venti.

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V · L 'ESSENZA DEL CRISTIANESIMO

Nel 184I, con la pubblicazione de L'essenza del cristianesimo, Feuerbach di­venne il più prestigioso filosofo tedesco degli anni quaranta. Il principio fonda­mentale dell'opera è che «l'essenza oggettiva stessa della religione, della cristiana in particolare, altro non è che l'essenza del sentimento umano, del cristiano in parti­colare». L'antropologia (scienza dell'uomo) è la vera essenza della teologia (scienza di dio), e ciò che Feuerbach si propone è di ridurre la teologia ad antro­pologia, dio all'uomo.

Base della religione, afferma Feuerbach, è la coscienza, e « coscienza nel senso più rigoroso si ha solo quando un ente abbia come oggetto il proprio genere», cioè quando l'uomo abbia come oggetto il genere umano. L'uomo non è infatti mai un essere isolato, bensì sempre generico, è un io-tu caratterizzato dal­l'infinita potenzialità di rapporti con altri uomini: «L'uomo è ad un tempo l'io ed il tu di se stesso; egli può rappresentare se stesso al posto dell'altro appunto perché ha come oggetto il proprio genere, la propria essenza, e non esclusiva­mente la propria individualità.» Orbene, l'essenza della coscienza umana è co­stituita da ragione, volontà morale e sentimento (odio e amore). Questi tre attri­buti sono la coscienza individuale, ma al tempo stesso trascendono l'individuo, poiché sono attributi anche del genere. Ecco allora che la coscienza generica ap­pare all'individuo singolo come un oggetto esterno a sé, un oggetto trascendente. Dio non è altra cosa che l'aggettivazione, l'alienazione della coscienza generica dell'uomo, la personalizzazione di essa in un ente astratto. Compito dell'antropo­logia (de L'essenza del cristianesimo, cioè), è mostrare come tutto ciò che la religione cristiana presenta come divino, originario, primario, sia in realtà umano, sia una derivazione dell'essenza generica dell'uomo o, meglio, sia questa essenza alienata come dio: « Tutto ciò che dal punto di vista della speculazione iperfisica e della religione trascendente ha solo il significato det secondario, del soggettivo, del mezzo, dell'organo, ciò ha, dal punto di vista della verità, il significato del primitivo, del­l'essenziale, dell'oggetto stesso. Se, ad esempio, il sentimento è l'organo specifico della religione, allora l'essenza di dio non esprime altro che l'essenza del sentimento. » Dio è un parassita dell'uomo: quanti attributi umani vengono alienati in lui, tanto più l 'uomo reale si impoverisce: « Per arricchire dio, l 'uomo deve diven­tare povero; perché dio sia tutto, l 'uomo non deve essere nulla. »

In tal modo dio si appropria dei tre attributi fondamentali della coscienza umana: ragione, volontà, sentimento. L'uomo, avvertendo che la ragione non si esaurisce nella sua individualità, anziché attribuirne la universalizzazione al genere, la aliena in un dio personale: un dio onnisapiente. Riducendo antropolo­gicamente questa proposizione teologica, cioè reinvertendo primario e secondario (soggetto e predicato), si ottiene la verità: dio onnisapiente non esiste, esprime solo l'essenza della ragione umana (il vero soggetto) attribuita ad una divinità

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personale ed astratta anziché al genere. Analogamente, dio assumera m sé anche la volontà dell'uomo, che nella forma alienata si presenterà come legge morale dettata da dio. Ma se dio esprimesse solo ragione e volontà non esprime­rebbe tutta l'essenza dell'uomo, che è anche sentimento: dio sarebbe solo un giudice implacabile (ragione) delle infrazioni dell'uomo alla sua legge (volontà). L'uomo, d'altra parte, non può non infrangere continuamente questa legge, in quanto egli è sì volontà, ma volontà individuale, particolare, infinitamente povera rispetto alla volontà generica oggettivata in dio. In dio l 'uomo aliena quindi anche il sentimento, sicché dio cessa di essere un giudice implacabile e diviene un padre benigno che perdona le debolezze umane. I peccati dell'uomo però, a loro volta, sono debolezze sensibili, dovute al corpo, alla carne, ed al sangue dell'uomo, e poiché dio esprime l'essenza dell'uomo, dovrà esprimere anche la sua sensibi­lità corporale, divenire egli stesso carne e sangue: questa è la spiegazione antro­pologica dell'incarnazione di Cristo: «La coscienza dell'amore è ciò grazie a cui l 'uomo si concilia con dio o, piuttosto, con se stesso, con la propria essenza che, nella legge, egli si pone di fronte come un'altra essenza. La contemplazione, la coscienza dell'amore divino o, ciò che fa tutt'uno, di dio come un essere esso stesso umano - questa contemplazione è il mistero dell'incarnazione. »

Seguendo questo procedimento Feuerbach riduce antropologicamente i misteri della religione cristiana. Dio è trino perché nessun uomo, individual­mente, è autosufficiente, e quindi nemmeno dio, che in verità è secondario rispetto all'uomo e dipende da lui, può esserlo. L'uomo è io-tu: in dio l'io diventa il Padre, il tu diventa il Figlio, e poiché tra l'io ed il tu umani v'è anche una rela­zione d'amore, questa sarà alienata in dio come terza persona, lo Spirito. Ma poiché l'uomo terreno vive con una madre ed una sposa terrene, e non può vivere senza di esse, nel cielo cristiano-cattolico viene assunta anche la femminilità, e Maria diventa parte integrante della famiglia divina.

In sostanza la riduzione antropologica si attua invertendo in ogni proposi­zione teologica il soggetto ed il predicato, il primario ed il secondario. La reli­gione dice che «dio ama l'uomo»? fa cioè dell'amore un predicato della di­vinità? L'antropologia dirà: «L'amore [inteso come soggetto, principio] è la cosa più alta dell'uomo. » La religione dice che Cristo, il Figlio, ha sofferto ed è morto per l'uomo? L'antropologia dirà: «Soffrire per gli altri è divino, chi soffre per gli altri è un dio per l 'uomo. »

Nella realtà umana non si trova solo il mistero rivelato della fede, ma anche il movente per demistificarla. Emancipazione umana e riduzione antropologica vanno di pari passo. Lutero ha abolito il culto mariano quando ha provato l'amplesso di una donna reale, terrena: « È ovvio che il protestantesimo non sen­tisse più l'esigenza di una donna celeste, dal momento che ha accolto a braccia aperte sul proprio cuore la donna terrena. » Tra cielo e terra vi è un rapporto inversamente proporzionale: quanto più la vita reale dell'uomo è povera, tanto

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più egli si aliena in dio. L'origine di dio è la miseria, la lacunosità della vita dell'uomo. Quando questa miseria venga superata, le lacune vengano chiuse, allora l 'impalcatura religiosa crolla: al miracolo subentra la scienza ed il pro­gresso, alla provvidenza le polizze d'assicurazione, alla castità la pienezza sessuale. Se si sente impotente a modificare il mondo che gli sta attorno, l 'uomo si aliena in un dio creatore, padrone assoluto della materia, che fa ciò che egli stesso, nel suo egoismo individuale, vorrebbe fare: dominare e strumentalizzare la natura. «La creazione dal nulla è la massima espressione dell'onnpotenza. Ma l'onnipo­tenza altro non è che la soggettività che si svincola da tutti i limiti e le frontiere iniziali e celebra questo proprio essere svincolata come il massimo della potenza e dell'essenzialità - la potenza della facoltà di porre soggettivamente come irreale tutto ciò che è reale, e come possibile tutto ciò che è immaginabile -la potenza della forza d'immaginazione o della volontà in quanto coincide con la forza d'immaginazione: la potenza dell'arbitrio.» La creazione dal nulla che il cri­stiano attribuisce a dio è simile al miracolo: è una soluzione egoistica, una scor­ciatoia innaturale e fondamentalmente inumana, alienata, per ottenere senza la fatica del lavoro e del pensiero ciò di cui il singolo ha bisogno: «Il miracolo è sentimentale appunto perché, come si è detto, soddisfa i desideri dell'uomo senza lavoro, senza fatica. Il lavoro è privo di sentimento, incredulo, razionalista, poiché in esso l'uomo fa dipendere il proprio essere dall'attività finalistica, la quale a sua volta è mediata esclusivamente dal concetto del mondo oggettivo.» La religione è quindi una forma di prassi alienata, distorta, innaturale, un modo illusorio ed egoistico di superare i propri limiti non nella realtà, ma con l'ar­bitrio egoistico della fantasia soggettiva. E come la pienezza sessuale fa sparire il culto mariano, così il progresso scientifico ed intersoggettivo dell'umanità fa sparire l'idea di un dio creatore e miracoloso: per annichilire dio, occorre recuperare al genere umano i suoi attributi, cioè assurgere ad una concezionein­tersoggettiva, generica. Il singolo individuo deve accettare che il completamento di se stesso avvenga nel genere umano intero: ciò che non posso io, deve dirsi, può l'umanità; io sono limitato nello spazio e nel tempo, ma la vita del genere trascende questi limiti, sopravvive alle molteplici morti individuali e progredisce, come dimostrano la storia della filosofia e della scienza.

Per ottenere un:a radicale negazione antropologica del cristianesimo occorre quindi mutare la prospettiva dell'uomo cristiano storicamente determinato. Ciò illustra lo spirito di opposizione anche politica dell'opera di Feuerbach, che paragona i dogmi della speculazione e dell'ortodossia alle istituzioni statali rea­zionarie: «N ella storia dei dogmi e delle speculazioni accade come nella storia degli stati. Consuetudini ed istituzioni decrepite si trascinano dopo che hanno perduto il loro significato da un pezzo. Ciò che è esistito una volta, non vuole più lasciarsi togliere il diritto di esistere per sempre; ciò che una volta era buono, vuole ora restar buono per tutti i tempi. E poi vengono i cavillatori, gli speculativi,

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e parlano del senso profondo perché non conoscono più il senso vero. Allo stesso modo la speculazione religiosa considera i dogmi avulsi dal contesto nel quale soltanto hanno senso; essa non li riduce criticamente alla loro vera ed intima ori­gine, bensì fa del derivato l'originario e dell'originario il derivato. Dio è la prima cosa, l'uomo la seconda. In questo modo essa rovescia l'ordine naturale delle cose. La prima cosa è proprio l'uomo, la seconda è l'essenza dell'uomo o,ggettivata a sé: dio.»

Il risultato della riduzione antropologica è questo: « Homo ho mini deus est, questo è il supremo principio pratico, questa è la svolta nella storia del mondo. I rapporti tra il figlio ed i genitori, tra il marito e la moglie, tra il fratello ed il fratello, tra l'amico e l'amico, in generale tra l'uomo e l'uomo, i rapporti morali, insomma, sono per sé veri rapporti religiosi. »

VI · IL ROVESCIAMENTO DEL METODO HEGELIANO

L'essenza del cristianesimo restava però opera d'impostazione genetico-critica, che anche se si staccava da Hegel, non rompeva radicalmente con la speculazione idealistica. L'opera venne interpretata come sostanzialmente affine a La tromba del giudizio universale, nonostante che la posizione di Feuerbach fosse ben più radicale che non quella di Bauer, il quale si limitava a dare un'interpretazione di sinistra al metodo hegeliano, senza contestarne i fondamenti. Da quella confusione con Bauer, Feuerbach fu spinto ad approfondire i termini del distacco da Hegel, e giunse così ad una rottura completa con la speculazione idealistica con una serie di testi composti tra il I 842 ed il I 843 : le Vorlauftge Thesen zur R~form der Philo­sophie (Tesi provvisorie per una rijòrma della .filosofia, I 842 ), la prefazione alla seconda edizione de L'essenza del cristianesimo (I843), i Grundsatze der Philosophie der Zukunjt (Principi della .filosofia dell'avvenire, I843). In queste opere Hegel viene ormai assi­milato completamente alla speculazione, e la superiorità critica della sua filosofia rispetto a quella di Schelling (superiorità in base a cui in Per la critica della .filoso­fia hegeliana Hegel era sembrato a Feuerbach ancora « sobrio », Schelling invece « ubriaco ») viene lasciata cadere: Hegel e Schelling sono due facce complemen­tari di uno stesso atteggiamento speculativo, che da Descartes e Leibniz giunge, attraverso Spinoza, alla filosofia tedesca contemporanea.

La filosofia speculativa, scrive Feuerbach, è la razionalizzazione, cioè la for­mulazione in termini di pensiero della teologia religiosa: « Il mistero della teo­logia è l'antropologia, ma il mistero della .filosofia speculativa è la teologia: la teologia speculativa, che si differenzia da quella volgare per il fatto che traspone nell'al di qua, cioè rende presente, determina, realizza l'essenza divina che l'altra, per timore ed incomprensione, relegava nell'al di là. » Come la trascendenza del genere ri­spetto all'individuo è la radice della teologia, così la trascendenza del pensiero in generale rispetto a quello individuale è la radice della logica speculativa he-

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geliana. Hegel è il filosofo dell'alienazione: «la filosofia hegeliana ha estraniato l'uomo a se stesso» perché ha preteso di sopprimere la materia, il finito (quindi anche l'uomo), riducendolo a predicato dello spirito, dell'infinito, a mera manifesta­zione secondaria. Nella filosofia di Hegel il finito appare solo come momento negativo, come antitesi, mentre la tesi è l'infinito (spirito astratto) e la sintesi (negazione della negazione) riafferma l'infinito (spirito oggettivo): «<l finito è [in Hegel] la negazione dell'infinito, e di nuovo l'infinito la negazione del finito.» Ecco perché nella filosofia hegeliana il finito appare mistificato: « Come nella teologia l 'uomo è la verità, la realtà di dio, così nella filosofia speculativa la verità dell'infinito è il finito.» La dottrina hegeliana che la natura, la realtà, venga pro­dotta dall'idea è solo l'espressione speculativa della dottrina teologica che la natura venga creata da dio: per la teologia era dio che creava il mondo; per Hegel, è il pensiero.

Se l'errore fondamentale di Hegel sta nell'inversione di primario e secondario, di soggetto e predicato, il sensismo antropologico dovrà rovesciare questi rapporti alienati, ristabilendo la vera realtà: «Il metodo della critica riformatrice della filosofia speculativa in generale non si differenzia da quello già applicato nella filosofia della religione. Ci basta fare del predicato il soggetto, e come soggetto farne l'oggetto ed il principio - quindi ci basta rovesciare la filosofia speculativa, e così otteniamo la verità senza veli, pura, limpida.» L'inversione tra soggetto e predicato attuata da Hegel aveva l'effetto di gabellare il finito come una manifestazione secondaria dell'infinito? La nuova filosofia avrà invece il compito di ridurre l'infinito al finito, di mostrare che l 'inizio della filosofia non è l 'infinito, bensì il particolare, il finito. La filosofia dell'assoluto diviene così filosofia dell'empirico: «La vera speculazione, o filosofia, non è altro che la vera ed universale empiria. »

Categoria fondamentale di questo sensismo antropologico è l'amore, poiché in esso l'essere finito, particolare, acquista un valore insopprimibile. L'amore diviene la prova antologica dell'essere: «Se la vecchia filosofia diceva: ciò che non è pensato, non è, allora la nuova filosofia invece dice: ciò che non è amato, che non può essere amato, non è. »

Alla categoria dell'amore si connette quella dell'intersoggettivismo, la cui base è l'alterità tra essere e pensiero. Che l'io riesca ad avere il concetto di un oggetto esterno a sé dipende, in ultima istanza, dall'esperienza che ogni io fa di un tu quale soggetto distinto da sé: autonomo. Senza l'alterità sensibile, l'in­tersoggettivismo non avrebbe senso, poiché « solo la sensibilità risolve il mi­stero dell'azione e reazione reciproca. Solo esseri sensibili agiscono l'uno sul­l'altro. Io sono io- per me- ed al tempo stesso tu- per altri. Ma ciò io sono soltanto in quanto essere sensibile». Dall'iiltersoggettivismo sensibile nascono le idee: « Solo mediante comunicazione, solo dalla conversazione dell'uomo con l'uomo nascono le idee. Non da solo, ma unicamente insieme con l'altro si giunge ai concetti, alla ragione in generale. » Il motto della nuova filosofia non sarà

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dunque «tutto ciò che è reale, è razionale», bensì «solo l'umano è il razionale; l'uomo è la misura della ragione».

Il sensismo antropologico permette anche di riaffrontare il problema della conoscenza scientifica della natura: « La filosofia, » proclama Feuerbach, « deve di nuovo collegarsi con la scienza della natura, la scienza della natura con la filosofia. » L'intersoggettivismo, il completamento delle conoscenze dell'indi­viduo nel sapere del genere è il veicolo del progresso scientifico. Teologia e speculazione si affermano quando l'uomo si sente impotente di fronte alla natura; allora, gli è naturale pensare che solo dio possa conoscere il numero delle stelle e le infinite varietà dei pesci nei mari. Ma con il telescopio, anche l 'uomo può contare le stelle, e con il microscopio conosce uno per uno le migliaia di mu­scoli del corpo di un insetto. Certo questa sapienza non è alla portata del singolo, ma « ciò che non sa e non può il singolo, ciò sanno e possono gli uomini insieme. Così il sapere divino, che sa contemporaneamente ogni singola cosa, ha la propria realtà nel sapere del genere ».

Per evadere dall'angustia speculativa, scrive poi Feuerbach, la tradizione filosofica tedesca deve congiungersi con la tradizione sensistica, politica e sociale francese. Torna così un'idea che era stata di Heine e che venne poi ripresa da Ruge e da Marx con la fondazione dei « Deutsch-franzosische Jahrbiicher »(«An­nali franco-tedeschi») su cui ritorneremo nel prossimo capitolo. Richiamarsi alla Francia significava dissociarsi dalla restaurazione; la nuova filosofia di Feuerbach viene così ad avere anche un carattere di precisa contestazione politica, che il filosofo proclamò apertamente, anche se rifuggì sempre da un impegno poli­tico concreto. Diversamente da quanto aveva scritto in Per la critica della filosofia hegeliana, ora Feuerbach pensa che la metafisica di Hegel ignori non solo lo spazio, ma anche il tempo, inteso come tempo storico e reale anziché come tempo logico astratto. Il popolo tedesco, osserva allora Feuerbach, è prigio­niero di questa speculazione, ed « un popolo che esclude dalla sua filosofia il tem­po, che divinizza l'esistenza eterna, cioè astratta, che prescinde dal tempo, questo è un popolo che, coerentemente, esclude il tempo anche dalla sua politica, che divinizza il principio di stabilità, principio antistorico che contraddice il diritto e la ragione ». Un simile popolo è certo schiavo non solo della speculazione, ma anche del suo corrispettivo teologico che è la religione, e « chi è schiavo dei pro­pri sentimenti religiosi non merita di esser trattato che da schiavo anche politica­mente».

La nuova filosofia antropologica è il frutto del processo storico, esprime la realtà di fatto che gli uomini hanno ormai occupazioni terrene, vivono mutando praticamente il mondo mediante la politica, l'industria, l'arte, la ragione. Il nuovo dio dell'uomo è il lavoro dell'uomo, mediante cui egli fa della terra il proprio paradiso, scacciandone l'inferno del bisogno. Il lavoro e l'industria hanno preso il posto della preghiera e del miracolo, e quindi è giusto che la religione cristiana

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scompaia, che il suo posto sia preso dalla politica, affinché l 'uomo emancipato possa perseguire l'edificazione di uno stato laico e repubblicano. Il monarca assoluto rappresenta infatti nello stato ciò che il papa rappresenta nel cattolice­simo: l'abdicazione dell'individuo alla propria libertà.

VII · I « DEUTSCHE JAHRBUCHER »

Con la pubblicazione de L'essenza del cristianesimo e de La tromba del giudizio universale, la situazione politico-culturale tedesca precipitava verso uno scontro frontale. Schelling insegnava a Berlino, Bauer era stato espulso dall'università, gli hegeliani erano visti con sempre maggiore ostilità, gli «Annali di Balle» veni­vano sottoposti a continue angherie e tagli da parte della censura. Nell'estate del I841 Ruge prese atto che il suo ottimismo di tre anni addietro sulla Prussia era chimera: gli « Annali di Balle » cessarono le pubblicazioni, Ruge si trasferì a Dresda, in Sassonia, e diede vita ai « Deutsche Jahrbiicher »(«Annali tedeschi»). Il trasferimento venne presentato come una rottura con la reazione di Federico Guglielmo IV: « I filosofici cambiamenti di località, » scriveva Ruge nel primo numero della nuova rivista, « non sono senza significato. Il filosofo è un apostolo del futuro. Questo è il suo concetto. Egli scuote la polvere dai suoi calzari, e ciò che lascia dietro di sé è il retaggio della morte. »

Gli« Annali tedeschi» iniziavano la pubblicazione di articoli violentemente an­tireazionari ed antiprussiani. In Der protestantische Absolutismus und seine Entwick­lung (L'assolutismo protestante ed il suo sviluppo, novembre 1841), Ruge riprendeva l'esaltazione di Federico II fatta da Koppen, ma dichiarava che con il roi philoso­phe la monarchia assoluta aveva perso la sua funzione storica, ed era cominciata una nuova epoca, «l'epoca della rivoluzione». Federico II aveva dichiarato di essere il primo servitore dello stato. Dopo di lui, questa convinzione, ancora sog­gettiva, doveva estrinsecarsi oggettivamente, permeare la vita del regno, dando luogo ad una pacifica rivoluzione politica che eliminasse l'assolutismo mediante una costituzione che sanzionasse la nascita di una « monarch~a repubblicana », cioè di una monarchia controllata da un parlamento nella quale al re compe­tesse di regnare, ma non di governare. Ma Federico Guglielmo III, afferma Ruge, non seppe realizzare questo programma, si lasciò egemonizzare dalla santa al­leanza, scatenò la reazione, abdicò al ruolo storico che incombeva alla sua dina­stia ed al regno di Prussia. Ciò ha provocato una contraddizione di fondo nel regno degli Bohenzollern: «In Prussia, nello stato protestante, il re è il papa politico, al quale ogni suddito deve credere in modo incondizionato; » invece del libe­ralismo protestante trionfò il servilismo politico di stampo cattolico.

Ma la reazione, aggiunge Ruge, è una controrivoluzione violenta contro il processo della storia, che conduce alla libertà dei popoli; essa genera quindi dal suo seno la rivoluzione violenta. « Nei popoli civili, la rivoluzione è dunque

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l'affermazione forzata di una forma di libertà che spiritualmente è già presente e che interiormente è già conquistata, ma che viene repressa con la violenza e con mezzi coercitivi materiali; in questo caso, ovviamente, essa rivoluzione non è sempre giustificata dal punto di vista giuridico, ma dal punto di vista storico sì. » Uno sviluppo ordinato e privo di scosse violente è certo preferibile, pensa ancora Ruge, ma quando la reazione impone la camicia di forza al popolo, è essa stessa ad evocare i demoni della rivoluzione violenta.

In un altro saggio, Die Restauration des Christenthu1ns (La restaurazione del cri­stianesimo, dicembre I84I), Ruge osserva che Hegel ha avuto paura del suo stesso principio, la dialettica, che insegnava la realizzazione della ragione nella storia. Hegel non ha capito che per fare questo occorreva l'aiuto delle masse, ed ha in­teso la filosofia solo come suo patrimonio individuale e personale. Egli ha quindi mantenuto in campo teorico un atteggiamento aristocratico ed autocratico si­mile a quello del re assolutista in campo politico. L'atteggiamento hegeliano va corretto alla luce dell'eredità e dell'esperienza illuministica, cioè con un atteggia­mento politico e culturale che non si restringa al singolo filosofo, ma si trasfonda in larghi strati della popolazione. Ora che l'autocratismo hegeliano è superato, afferma Ruge, «il mondo ripeterà in forma più alta il miracolo dell'illuminismo: penserà nelle masse».

Se con Feuerbach la sinistra hegeliana si era staccata da Hegel, con Ruge essa si avviava sempre più chiaramente alla formazione di un partito politico. Sul primo numero degli «Annali tedeschi» del I 842, il giovane autore pubblicava un saggio Die Zeit und die Zeitschrift (L'epoca ed il suo periodico) nel quale esprimeva sempre più chiaramente una tendenza politica eversiva: « Si può rimprovera­re alla teoria, » chiedeva, « di essere estremista? L'essere estremista non è l'es­sere stesso della teoria? Per essere, non deve essere l 'ultima? Similmente non è un rimprovero per la teoria il fatto di essere rivoluzionaria: solo pensieri ever­sivi sono pensieri. » Ed è per realizzare questo compito eversivo, scrive Ruge in Chi è e chi non è partito («Annali tedeschi», I 842), che essa deve dar luogo ad un par­tito: «Chi è partito? ... chi pensa, e come uomo pensante si dichiara pro o contro. Quindi essere partito non significa altro che avere una volontà razionale, decisa. Solo una natura canina può non volere questo, solo da una tale natura si può non pretendere questo. » I reazionari ci rimproverano di essere faziosi, negatori di tutto, rivoluzionari. Hanno ragione: siamo faziosi perché siamo partito; ne­gatori perché neghiamo ciò che non ha più ragione di esistere; rivoluzionari perché vogliamo incidere sul corso della storia.

All'inizio del I842 Ruge leggeva, per primo, le Tesi di Feuerbach, origina­riamente destinate agli «Annali tedeschi», che però non poterono pubblicarle a cau­sa della censura. Profondamente influenzato da quella lettura, poco dopo si accin­geva ad una critica anche metodologica della Filosofia del diritto di Hegel: Die hegelsche Rechtsphilosophie und die Politik unsrer Zeit (La filosofia del diritto hegeliana

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e la politica del nostro tempo, in «Annali tedeschi», I 842 ). « La nostra epoca,» scri­veva, « è politica; la nostra politica vuole la libertà di questo mondo. Noi non edifichiamo più uno stato ecclesiastico, bensì uno stato terreno. » Dobbiamo quindi criticare il vecchio mondo sia nei suoi aspetti teologico-speculativi (come aveva fatto Feuerbach), sia in quelli giuridico-politici. La reazione vuole im­pedirci di occuparci della cosa pubblica. Ma il mondo degli uomini coscienti respinge questo tentativo di costringerli in una minore età artificiosa, e si occupa sempre più davvicino della vita dello stato e del popolo, come mostra il crescente interesse per le sorti del proletariato. Basta con l'idea che la filosofia sia la ci­vetta di Minerva cui spetta di volare al crepuscolo, di guardare, osservare e capire, ma non di agire. Hegel è rimasto un teoretico, mentre per noi, esclama Ruge, «solo il volere è il pensiero reale».

Ispirandosi a Feuerbach, Ruge muove a Hegel una critica metodologica di fondo:« La filosofia del diritto hegeliana, per avere l'aspetto di "speculazione" o di teoria assoluta, innalza le esistenze o le determinazioni storiche a determina­zioni logiche. » « Hegel quindi intraprende l'esposizione della monarchia eredi­taria, del maggiorascato, del sistema bicamerale, ecc., come necessità logiche, mentre invece poteva solo essere questione di mostrare tutte queste istituzioni come pro­dotto della storia e di spiegarle e criticarle come esistenze storiche. »

Come per Feuerbach, anche per Ruge la politica è la vera religione del­l'uomo moderno. Anche Ruge prospetta la necessità di una fusione delle due·tra­dizioni tedesca e francese.

Nel gennaio del I 843 gli« Annali tedeschi »dovevano cessare le pubblicazioni. Il governo prussiano aveva premuto su quello sassone, e questi soppresse il periodico, sequestrò i piombi, mise a soqquadro la tipografia. Pochi giorni pri­ma, Ruge aveva pubblicato, sull'ultimo fascicolo della rivista, un bilancio critico ed autocritico di tutta l'esperienza passata Bine Selbstkritik des Liberalismus (Un'au­tocritica delliberalismo, gennaio I843). Passando da Halle a Dresda, afferma Ruge, non abbiamo fatto sostanziali passi innanzi, perché in Sassonia non godiamo di libertà molto maggiore che in Prussia. La causa di ciò, è che in nessuno stato tedesco esistono partiti politici, e quindi anche la buona causa della libertà, non essendo difesa da un concreto partito, resta astratta, priva di significato reale. «Noi,» scrive amaramente il filosofo, «gustiamo la felicità della morte politica. » Che cosa è quindi quel liberalismo protestante che io stesso ho tanto difeso in passato? Un liberalismo astratto, che non può sostituire il liberalismo concreto, quale sarebbe quello di un partito politico liberale. Tutte le teorie sul retaggio protestante e perciò stesso liberale e progressivo del regno di Prussia erano fasulle, anche perché velavano il dato di fatto incontrovertibile che nessuna classe dirigente ha mai ceduto volontariamente il potere. Un'aspra lotta per il potere è quindi inevitabile, necessaria, e la speranza del liberalismo astratto protestante che i cambiamenti avvengano senza che nessuno « venga colpito nella proprietà,

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nel corpo, nella vita » è una speranza utopistica, antistorica, una velleità di li­bertà. Ciò che noi vogliamo è invece investire realmente il popolo di responsa­bilità politica: solo affidando la soluzione dei problemi politici al popolo si può rinnovare dalle fondamenta la vita della nostra epoca.

Un aspetto essenziale della trasformazione del vacuo liberalismo protestante in partito politico concreto è la lotta contro il cristianesimo. Un popolo che pensa al paradiso non può pensare a costruirsi una felicità terrena. Anche Ruge concepisce l'ateismo come una forza politica, e sulla scorta di Feuerbach, af­ferma: «La prova della teoria è la prassi. » Una teoria ha vita ed avvenire solo quando sa mobilitare le masse in partiti politici, spingerle alla lotta. I contrasti tra cattolici e protestanti, che io stesso ho alimentato sugli «Annali di Halle », erano in realtà - confessa Ruge - falsi contrasti, come è provato dall'odierna solida­rietà di tutti i« cristiani» contro la libertà. Anche la critica contro la speculazione, contro l'astrazione, va innalzata a livello politico, poiché solo i contrasti pratici e politici sono veri contrasti: «La dissoluzione dello spirito astrattamente teo­retico anche nella sua forma filosofica è da ottenersi mediante il fatto che la filo­sofia viene intrecciata con la vita politica ed assume come proprio compito ri­formare radicalmente le coscienze, accendere la religione della libertà. » Ruge propone concreti obiettivi politici: scuole al posto di chiese, rinnovamento del­

l'esercito, sistema parlamentare rappresentativo, tribunali giurati. In una massi­ma, conclude, il nostro programma è questo: «Trasformiamo illiberalismo in demo­cratisf!to. »

Al momento della soppressione degli «Annali tedeschi» il sistema ed il metodo hegeliano erano stati dissolti da più punti di vista: teoretico, religioso, politico. Con l'opera di Feuerbach, la sinistra aveva trovato una base filosofica non più solo giovane hegeliana, ma antihegeliana ed antispeculativa. In questo clima di impegno politico e culturale, di opposizione aperta e radicale, di tensione verso la prassi, si inserirono la formazione di Marx e quella di Engels.

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CAPITOLO QUARTO

La fondazione del socialismo scientifico DI ENRICO RAMBALDI

I · FORMAZIONE DI MARX

Ka:rl Marx nacque a T:revi:ri il 5 maggio 18 I 8, figlio di un avvocato, Hein:rich,. e di Hen:riette P:ressbu:rg, entrambi discendenti da famiglie rabbiniche. Compiuti gli studi medi nella città natia, nel I 8 3 5 si immatricola alla facoltà di giurisp:ru­denza di Bonn. Due semestri dopo si trasferisce all'università di Berlino, dove si getta a capofitto nel lavoro, dedicandosi principalmente ad argomenti filosofici. Inizia lo studio della filosofia hegeliana, ma la prima impressione è negativa: Hegel gli sembra troppo aridamente prosaico, tanto che inizia la composizione di un dialogo filosofico - Kleanthes, oder vom Ausgangspunkt und notwendingen Fortgang der Philosophie (Cieante, o del punto di partenza e dello sviluppo necessario della filosofia)­prop:rio con l'intento di confutare Hegel. I :risultati di questo sforzo furono la conversione alla filosofia hegeliana ed il trasfe:rimento alla facoltà di filosofia. Nello stesso volger di tempo Marx entra in contatto con un circolo di giovani hegeliani :radicali, il « club dei dottori », che ruotava principalmente intorno a Bruno Bauer ed a Karl Freidrich Koppen. Tra il I839 ed il I84I stende la disse:r­tazione di dotto:rato, che presenta all'università di Jena: Differenz der Demokri­tischen und Epikurischen Naturphilosophie (Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro, I84I).

Secondo il giovane Ma:rx, l'atomismo democriteo avrebbe il difetto di non andare oltre una descrizione meccanica del movimento degli atomi; Epicu:ro si sarebbe invece sforzato di darne una interpretazione dialettica. È in questa chiave hegeliana che Marx interpreta il clindmen, la libera declinazione degli atomi dalla normale: anche se - rileva - come spiegazione del fenomeno fisico è da respin­gersi, tuttavia filosoficamente esprime l'estrinsecazione nel mondo naturale della libe:rtà dell'autocoscienza, tratto fondamentale dell'« illuminismo antico» di Epi­curo, della sua critica antireligiosa.

Pur nel fondamentale hegelismo dell'opera, non mancano spunti originali. In p:rimo luogo Marx nut:re per i problemi concernenti la natura un interesse che, dopo Hegel, la scuola aveva quasi del tutto trascurato; ma soprattutto ha della dialettica una concezione che lo porta più ad accentuare le opposizioni e le nega-

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zioni che non il momento della conciliazione. Dal punto di vista hegeliano orto­dosso, infatti, l'affermazione dell'individualità autocosciente e libera è solo una delle figure logiche-ontologiche della dialettica dello spirito, un particolare mo­mento della totalità. Sorge allora un problema: qual è il rapporto tra la filosofia epicurea, che esprime un momento (autocoscienza) dello sviluppo dialettico dello spirito, e le filosofie antiche della totalità (Platone o Aristotele)? Nello sviluppo di tutta la filosofia, risponde Marx, ricorrono due aspetti: uno in cui la filosofia assurge a sistema, configurandosi come scienza della totalità; l'altro, in cui «la filosofia volge gli occhi al mondo», configurandosi come tensione pratica del­l'autocoscienza. Il ricorso dell'autocoscienza pratica succede di norma alle grandi sintesi metafisiche: così fu per le filosofie postaristoteliche, come l'epicurea; così è - aggiunge - per la filosofia posthegeliana. Dal punto di vista di un sistema della totalità queste filosofie rappresentano uno scadimento; dal punto di vista pratico del « divenire mondo » della ragione, rappresentano invece un progresso. In questa luce, prosegue Marx, sono da interpretarsi anche i rapporti delle due scuole hegeliane, la destra e la sinistra, con la filosofia del maestro : la sinistra è un progresso nel « divenire mondo » della ragione, ma nessuna critica a Hegel che non investa anche i fondamenti teorici del suo pensiero può considerarsi ve­ramente esaustiva. Questa serietà di impegno alla riflessione sui principi generali distingue sin d'ora Marx dagli altri hegeliani.

Nell'autunno del '41, Marx partecipava alle riunioni preparatorie per la pub­blicazione della« Rheinische Zeitung »(«Gazzetta renana »), che vide la luce dal primo gennaio '42. Come già gli « Annali di Halle », inizialmente anche questo foglio aveva carattere moderato, ma tra i redattori figuravano uomini della sinistra, come Marx e Moses Hess, 1 che si adoprarono per caratterizzarlo come organo democratico e progressista.

Nel maggio, Marx pubblicava sulla « Gazzetta renana » il saggio Debatten iiber Pressjreiheit und Publikation der Landstéindischen Verhandlungen (Dibattiti sulla liber­tà di stampa e sulla pubblicazione delle discussioni alla dieta), in cui chiedeva la libertà di stampa e una riorganizzazione razionale e democratica dello stato, ispirata al­l'hegelismo radicale di sinistra. Ben presto il foglio ultraconservatore « Kolnische Zeitung » («Gazzetta di Colonia») attaccò violentemente la «Gazzetta renana »,

I Moses Hess (1812-77), geniale autodidatta, ancora ventenne aveva viaggiato per l'Europa, en­trando in contatto con le correnti del socialismo utopistico. Nel 1837, rientrato in Germania, pub­blicava Die heilige Geschichte der Menschheit von einem ]iinger Spinozas (La storia sacra dell'umanità, esposta da un discepolo di Spinoza), preconizzando l'avvento di un comunismo messianico in cui con­fluivano elementi della tradizione chiliastica ebrai­ca, il democraticismo rousseauiano, il panteismo spinozista e la dialettica hegeliana. Più matura un'opera del '41, Die europaische Triarchie (La triarchia europea), ove invitava la Prussia a denun-

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ciare la santa alleanza ed unirsi alla Francia ed al­l 'Inghilterra, formando una triarchia in cui la Ger­mania avrebbe rappresentato la rivoluzione teo­rica (culminata in Hegel), la Francia quella so­ciale, pratica (Saint-Simon), l'Inghilterra la sin­tesi di entrambe. Anche questo disegno storico era condotto sulla falsariga di una dialettica hege­liana intrisa di egualitarismo: l 'Inghilterra che avrebbe operato la sintesi non sarebbe stata quella vittoriana, bensì una nazione totalmente rinno­vata da un'incombente rivoluzione sociale delle masse pauperizzate.

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accusandola di voler distruggere i fondamenti cristiani dello stato prussiano ed invocando l'intervento della censura perché sui giornali non si dibattesse di re­ligione, filosofia e politica. Marx rispose- Der leitende Artikel im N r. I79 der« Kol­nischen Zeitung »(L'articolo di fondo nel nr. z 7 9 della« Gazzetta di Colonia», luglio '42)­affermando che per «divenire mondo», la filosofia doveva dibattere problemi che le. erano specifici anche in articoli di giornale, aderendo alla realtà storica: « La filosofia, soprattutto la filosofia tedesca, ha un profondo attaccamento alla solitudine, all'isolamento sistematico, alla fredda autocontemplazione ... Conforme al suo carattere, non ha mai compiuto il primo passo per mutare i suoi ascetici paramenti sacerdotali con il disinvolto abito da società dei giornali. Ma le filosofie non crescono dalla terra come i funghi: esse sono i frutti del loro tempo e del loro popolo ... Il medesimo spirito che con le mani dell'industria crea le ferrovie, crea nel cervello dei filosofi i sistemi filosofici. La filosofia non abita fuori dal mondo »; dunque deve occuparsi di politica.

Parallelamente al crescere della concretezza dell'impostazione di Marx, ma­turava la rottura con Bauer e gli ex-amici di Berlino, che avevano dato vita ad un nuovo circolo - «I liberi» - che professava sì l'ateismo, ma frammisto ad un radicalismo verbalistico e nichilista e ad un nullismo pratico tipicamente pic­colo-borghese. Sostenendo che la lotta alla reazione fosse da condursi esclusiva­mente sul piano teorico, facevano di una « critica» grottescamente individualistica il cavallo di battaglia, abbandonandosi a sguaiatezze di goliardi troppo cresciuti. Marx, che combatteva la reazione realmente e non a chiacchiere, li attaccò sul giornale.

Contrario al verbalismo ed al teoricismo astratti, egli dissentiva anche dal praticismo cieco, fosse pur animato dalle migliori intenzioni. Nell'ottobre del '42, la«Augsburger allgemeine Zeitung »(«Gazzetta generale d'Augusta») aveva accu­sato la « Gazzetta renana » di propagandare il comunismo. Marx, che pure a quel tempo non era comunista, rispose - Der Kommunismus und die « Augsburger allge­meine Zeitung » (Il comunismo e la «Gazzetta generale d'Augusta») - che per co­munismo non era certo da intendersi velleitarismo e moralismo sciocchi, e sot: tolineava l'importanza della fondazione teorica di una dottrina, « perché agli esperimenti pratici, sia pure esperimenti di massa, si può sempre rispondere con il cannone non appena diventino pericolosi, ma le idee che la nostra intelligenza ha acquisito vittoriosamente, che il nostro animo ha conquistato, alle quali l'in­telletto ha forgiato la nostra coscienza, sono vincoli dai quali non ci si strappa senza lacerarsi il cuore, sono démoni che l'uomo può vincere soltanto sottomet­tendosi ad essi».

In altri saggi Marx difese con vigore gli interessi popolari, criticando ad esempio aspramente l'iniqua legge che privava i diseredati del diritto consuetudi­nario di raccoglier legna secca nei boschi dei signori - Debatten uber das Holzdieb­stahlgesetz (Dibattiti sulla legge contro i furti di legna). -Le sue critiche muovevano

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ancora da una concezione hegeliana di sinistra sulla necessità di « razionalizzare » lo stato prussiano.

Divenutone direttore, Marx diede la sua impronta al giornale, quadruplican­done la tiratura e radicalizzandone l'impostazione politica. Dopo aver invano tentato di imbavagliarla con la censura, Federico Guglielmo IV di Prussia ordinò la soppressione della «Gazzetta renana ». L'esperienza dell'impossibilità di ri­formare « razionalmente » lo stato fu determinante per Marx, facendogli maturare la convinzione dell'erroneità profonda dell'impostazione hegeliana dei rapporti tra reale e razionale e della necessità di un ripensamento generale; decise quindi di «lasciare la scena pubblica per ritirarsi nella stanza di studio».

II · LA ROTTURA CON L'HEGELISMO

Come sappiamo dal capitolo precedente, la primavera del '43 fu il momen­to critico di un distacco da Hegel, più o meno accentuato e fondato, di parte della sinistra. Il maggior contributo teorico in questa direzione era stato dato, sino ad allora, da Feuerbach. Dopo aver lasciato la « Gazzetta renana »~ Marx si era sposato con J enny von Westphalen e momentaneamente stabilito in un piccolo centro, Kreuznach; qui ebbe la « stanza di studio » per il profondo ripen­samento di cui avvertiva la necessità, e che si concretizzò in un manoscritto, Kritik des Hegelschen Staatsrechts (§§ 261-3 I 3) (Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico).l

Marx si sofferma approfonditamente sul problema dei rapporti tra realtà e pensiero. Richiamandosi a Feuerbach, osserva che la filosofia hegeliana è den­sissima di dati empirici, ma assunti acriticamente, in modo immediatistico, nel pensiero, come se l'essere fosse un predicato del pensiero. La realtà, quindi, «non è espressa come se stessa, ma come una realtà diversa», come predicato dell'idea, con il risultato che essa viene sl accolta nella speculazione hegeliana ma in modo immediatistico, acritico, «volgare». La speculazione hegeliana è quindi da re­spingersi sotto un duplice profilo: dal punto di vista teorico stravolge il rapporto realtà-pensiero, invertendo soggetto (realtà) e predicato (pensiero); dal punto di vista pratico, sanziona l'esistente come «realtà razionale» (si ricordi la famosa formula hegeliana: «tutto ciò che è reale, è razionale; tutto ciò che è razionale, è reale ») e puntella ideologicamente la reazione feudale prussiana.

Un esempio gioverà a meglio spiegare questa critica di Marx a Hegel. La base empirica dell'hegeliana Filosofia del diritto è l'ordinamento giuridico prussiano della restaurazione, in cui vigeva la norma del maggiorascato: che i feudi fossero inalienabili ed ereditabili solo dal primogenito. Hegel «interpreta» speculativa­mente questa norma affermando che coloro che affiancano il sovrano nella con-

r Queste pagine vennero pubblicate solo nel 1927.

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duzione dello stato (cioè l'aristocrazia terriera) devono dedicarsi non ai propri interessi particolari, ma alla razionalità universale, di cui lo stato sarebbe incarna­zione. Tale dedizione all'universale non può esser affidata al caso, bensì deve essere necessaria, quindi riposare non sulla « buona disposizione », sempre sog­gettiva ed aleatoria, dell'individuo, ma su di una realtà oggettiva, cogente rispetto all'individuo. Occorre quindi che i componenti l'aristocrazia terriera siano sot­tratti alle « alterne vicende » della società civile, in cui le proprietà, essendo alie­nabili, sono esposte alla fortuna e aleatorie; essi devono possedere un patrimonio che li renda immuni da qualsiasi incertezza, arbitrio, capriccio, proprio od altrui: ecco perché il feudo deve essere indivisibile ed inalienabile, sottratto persino al fatto che un padre desidererebbe lasciare a figli ugualmente amati parti uguali del patrimonio. Per i « supremi fini » dello stato, la norma del maggiorascato è quindi necessaria, rappresenta una incarnazione reale della ragione. Così questo crasso dato di fatto empirico dell'ordinamento politico reazionario prussiano è accettato da Hegel senza nessuna riserva critica, fosse pur solo riformistica. La speculazione hegeliana è dunque un'analogia esoterica, in cui si ricorre allo stratagemma di trasformare l'esistente in categorie ideali con le quali operare poi illusorie dedu­.zioni logiche che, in ultima analisi, altro non sono che tautologie sanzionanti l'empiria volgare. «Non che il pensiero prenda corpo nelle determinazioni po­litiche, bensì che le esistenti determinazioni politiche si volatilizzino in astratti pensieri: questo è [per Hegel] il lavoro filosofico. Ciò che è il momento filosofico non è la logica della cosa, ma la cosa della logica. »

Marx attinge alla critica, basata sull'inversione di soggetto e predicato, mossa da Feuerbach a Hegel, e questo persistente feuerbachismo fa sì che egli non giun­ga ancora a dare una dimensione compiutamente storica alla propria impostazio­ne. Per il marxismo maturo tutti gli istituti giuridici - ad esempio la norma del maggiorascato - sono il frutto, sempre instabile, dell'incessante svolgersi storico della lotta di classe. Si legge nel Manifesto del Partito comunista: «La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotta di classe. »All'idealismo, il marxismo maturo opporrà sempre non un naturalismo antropologico, astorico e quindi astratto, ma la considerazione materialistica di rapporti storicamente deter­minati degli uomini con la natura e tra loro. Non basta però dire che nel '43 Marx non era ancora maturo: occorre anche, senza cadere nel circolo vizioso dei « pre­corrimenti », individuare la differenza specifica, presente sin d'ora, tra Marx e Feuerbach, non lasciandosi tentare dalla facile soluzione o di etichettare un mero « periodo feuerbachiano » di Marx, o di voler a tutti i costi già vedere quello che ancora non c'è: il metodo scientifico marxista compiuto e strutturato. Il progres­so, e quindi la storicità, di una dottrina scientifica sta in due aspetti strettamente congiunti: la soluzione di problemi che prima o non erano avvertiti o non ave­vano trovato soluzione, e la sistematizzazione, l'allargamento, il completamento della teoria stessa, per rendere sempre più incisivamente conto della propria proble-

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matica. Si tratta quindi di individuare, in questo testo giovanile, problemi che Marx si pone, ed ai quali il suo bagaglio categoriale ancora largamente feuerbachiano non riesce a dare soluzione. La ricerca di queste soluzioni sarà la molla dello sviluppo scientifico del pensiero di Marx, sotto la spinta dell'impegno ad affrontare global­mente la comprensione della realtà per incidere su di essa e modificarla. Questo testo del '43 non è, dunque, una mera esercitazione di feuerbachismo, ma piut­tosto l'inglobamento della critica antihegeliana di Feuerbach in una problematica dominante in Marx già nella dissertazione: come attuare il « divenire mondo » della ragione, della filosofia. L'utilizzazione originale, politica, aperta verso la storia, del retaggio feuerbachiano, balza agli occhi quando Marx esamina l'aspetto storico effettivo della speculazione hegeliana: in ultima analisi, essa s;i riduce ad ac­cettazione e giustificazione ideologica dell'ordinamento feudale prussiano. Che cosa è realmente la norma del maggiorascato che Hegel pretende di giustificare filosoficamente? L'espressione concreta del predominio politico della grande pro­prietà terriera, la quale a sua volta è « la proprietà privata pietrificata, la proprietà privata nella sua più alta autonomia ed acuità di sviluppo ». Hegel è quindi il filosofo reazionario della proprietà privata nella sua forma più rozza: il latifondo feudale.

Per la sua stessa impostazione la critica antihegeliana di Marx è dunque tesa alla pratica, implica una lotta attiva contro la radice reale dell'inversione specu­lativa: l'ordinamento feudale. La critica della speculazione hegeliana mossa da Feuerbach era invece statica; restava prigioniera dell'atemporalità del naturalismo antropologico, restringendosi ad un rifiuto filosofico-intellettuale dell'idealismo. La originalità di Marx rispetto a Feuerbach traspare anche dal giudizio molto più complesso che egli dà di Hegel. Dal contesto generale della speculazione, Marx isola e tiene ferma l'esigenza di una dialettica della totalità; esigenza che Hegel aveva possentemente espresso, e Feuerbach pressoché ignorato. Quello di Marx non è certo sincretismo intellettuale, bensì progressivo riformulare delle categorie del suo patrimonio culturale forgiandone di nuove. La più articolata valutazione di Hegel si salda d'altronde con le insufficienze di Feuerbach rispetto alla storia: è la staticità atemporale del naturalismo antropologico che Marx tende a superare quando cerca nella dialettica hegeliana, depurata del suo aspetto speculativo, uno strumento atto ad intendere la realtà come processo (cioè storia). L'affermazione he­geliana che stato politico, società civile e famiglia siano non entità fisse e statica­mente contrapposte, ma fattori del movimento dialettico della storia è, dice Marx, « esattissima »; solo che Hegel dà di questo movimento un'interpretazione stravolta, speculativa, mentre la comprensione della genesi, della necessità di questo movimento della storia « non consiste, come Hegel crede, nel riconoscere ovunque le determinazioni del concetto puro, bensì nel concepire la logica speci: fica dell'oggetto specifico».

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III · GLI «ANNALI FRANCO-TEDESCHI»

Ritirandosi nella stanza di studio, Marx non aveva inteso rinunciare alla lotta pratica, ma meglio armarsi per essa sciogliendo i dubbi sortigli sulla propria prima formazione filosofica. Compiuto un passo decisivo in questa direzione, scende di nuovo in campo con accresciuto vigore, lasciando la Germania, nella quale ogni lotta concreta era impossibile, per un volontario esilio a Parigi, ove insieme a Ruge fonda i« Deutsch-franzosische Jahrbucher »(«Annali franco-tede­schi»), ai quali collaborarono anche Engels, Hess, Heine, Michail Bakùnin (I814-76)- il futuro teorico dell'anarchismo- e ove prende contatto con gli ambienti radicali dei socialisti e comunisti francesi e con la Lega dei giusti.l Degli« Annali» uscì un solo fascicolo (che riuniva due numeri) all'inizio del '44, perché i sequestri operati alle frontiere dalle polizie tedesche ed anche la defezione di Ruge impedirono la prosecuzione dell'iniziativa. Tra Marx e Ruge vi fu una rottura politica, filosofica e personale, resa inevitabile dal fatto che questi restava un borghese liberale, violentemente anticomunista. La defezione di Ruge, che era tra i principali finanziatori dell'iniziativa, lasciò Marx, che viveva unicamente del lavoro di redazione, privo di mezzi, proprio mentre Jenny stava per dare alla luce la prima bambina. Reagì come seppe fare tutta la vita: intensificando il lavoro politi­co e approfondendo le proprie teorie in quaderni densissimi di annotazioni, appun­ti, sistematizzazioni di materiale politico, economico, filosofico: gli Gkonomisch­philosophische Manuscripte aus de m Jahre I 844 (Manoscritti economico-filosofici del I 844 2).

Uno dei saggi che Marx pubblicò sugli « Annali franco-tedeschi » si ricol­lega direttamente agli studi critici di Kreuznach: Zur Kritik der Hegelischen Rechts­philosophie. Einleitung (Per la critica della filosofia del diritto hegeliana. Introduzione). L'analisi del fondamento storico-sociale di ogni forma di estraniazione, là de­lineata con l'indicazione dell'ordinamento feudale prussiano come riscontro della speculazione hegeliana, viene molto approfondita, e così pure la caratterizzazione

1 La Lega dei giusti era stata fondata dagli elementi estremisti, per lo più proletari, scissisi da una lega repubblicana sorta a Parigi nel 1834 per opera di emigrati tedeschi. La Lega, composta di tedeschi, aveva un forte spirito internazionalista, e nel 1839 partecipò all'insurrezione degli operai francesi, condividendone la sconfitta e le persecu­zioni. Le espulsioni di membri della Lega fatte dal governo di Luigi Filippo ne favorirono il diffon­dersi, soprattutto in Svizzera ed a Londra. Tra le diverse sezioni « il collegamento veniva mantenu­to in gran parte per mezzo dei membri in continuo arrivo e in continua partenza, i quali in caso di necessità fungevano anche da emissari. Sotto en­trambi gli aspetti la Lega fu vivamente appoggiata dalla saggezza dei governi, i quali con l'espulsione trasformavano ogni operaio indesiderabile in un emissario» (Engels). L'esponente di maggior spic­co della Lega era allora W. Weitling (18o8-71), au-

todidatta, perseguitato politico, che aveva scritto il manifesto della Lega nel '38, Die Menschheit wie sie ist unti wie sie sein soli (L'umanità come è e come deve essere). In questa opera, seppur tra confusioni, affermava che il proletariato non poteva sperare nessun miglioramento sostanziale dalle riforme, e che avrebbe dovuto strappare il potere alla bor­ghesia con una rivoluzione sociale. Nel '42 Weitling pubblicò la sua opera migliore, Garantien der Harmonie und der Freiheit (Garanzie dell'armonia e della libertà), in cui, frammista ad elementi uto­pistici, rousseauiani, messianici, riaffermava l'im­prescindibile necessità di una rivoluzione sociale per abbattere la borghesia, ribadendo che nessuna riforma avrebbe potuto né arrestare né lenire lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.

2 I Manoscritti vennero pubblicati solo nel 1932.

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pratica, tesa alla lotta politica attiva, che Marx dà alla sua visione del mondo: « L 'uomo non è un essere astratto che. venga fuori dal mondo. L 'uomo non è altro che il mondo dell'uomo, lo stato, la società. Questo stato, questa società, pro­ducono la religione, che è una coscienza capovolta del mondo, appunto perché essi costituiscono il mondo capovolto. » L'analisi critica della realtà storica diviene stru­mento per individuare le radici reali dell'alienazione e combatterla praticamente: « La critica del cielo si trasforma nella critica della terra, la critica della religione in quella del diritto, la critica della teologia in quella della politica.» La praxis di Marx è quindi ben altra da quella di Feuerbach, per il quale praxis era sinonimo del sostituire i «sensi teorici» all'astratto pensiero hegeliano. La dimensione storica reale della prassi marxista è già molto concreta: «L'arma della critica non può, in vèro, sostituire la critica delle armi; la potenza materiale dev'essere abbattuta da potenza materiale. »

Di pari passo con la concretizzazione storica procede l'approfondimento del­l' analisi politico-sociale: prende corpo la teoria dell'antagonismo fra le classi so­ciali. Una teoria diviene praticc1, afferma Marx, quando afferra la radice dei pro­blemi e «s'impadronisce delle masse». Nella visione del mondo del marxismo maturo, la radice di ogni problema è nell'organizzazione della produzione e nei rapporti sociali ad essa connessi. Marx si sta avvicinando a questa concezione (cui diede un contributo importantissimo Engels, proprio sugli « Annali franco-te­deschi»), ed il suo pensiero si sta concretizzando, determinando storicamente, ma non è ancora il materialismo storico. Quando determina questa « radice », Marx usa ancora in larga misura categorie antropologiche: «La radice, per l'uomo, è l'uomo stesso. » Al solito però non si restringe a ricalcare Feuerbach, bensì in­serisce la definizione di « uomo » in un contesto originale, nel quale la tensione pratico-politica e la crescente determinazione storica sono trasparenti: per Marx nel '44 l'« uomo » che deve emancipare se stesso e gli altri, raddrizzando il « mondo capovolto », è già il proletario, anche se manca ancora la definizione scientifica compiuta di proletariato (definizione che può scaturire solo da quella di forza-lavoro come merce e di plusvalore).

Già sin d'ora Marx afferma che l'emancipazione reale può venire solo da una rivoluzione sociale, oltre che politica; e sociale in senso universale, tale cioè da emancipare tutta l'umanità, non solo una classe. Parziale fu, ad esempio, la rivolu­zione francese del 1789, che emancipò solo la classe borghese. Una rivoluzione può essere universale se e solo se opera di una classe che, emancipando se stessa, emancipi tutta l'umanità; se opera, insomma, «di una classe gravata da catene radicali; di una classe della società borghese ... che non si può emancipare senza emanciparsi da tutte le altre sfere della società, emancipandole tutte quante, e che, in una parola, rappresenta la totale perdita e quindi può ritrovare se stessa col totale riscatto dell'uomo. Questa decomposizione della società, identificata in un ceto particolare, è il proletariato». L'azione rivoluzionaria del proletariato non è

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azione spontanea, retta dall'empirismo e dalla «buona volontà». È azione guidata dalla teoria, che realizza, in termini nuovi e sempre più concreti, la problematica del '41, il «divenire mondo» della ragione. Nell'azione rivoluzionaria del prole­tariato teoria e prassi sono due aspetti inscindibili dell'unica emancipazione: «Il cervello di questa emancipazione è la filosofia, il suo cuore è il proletariato. La filosofia non può realizzarsi senza la soppressione del proletariato, il proletariato non può sopprimersi senza la realizzazione della filosofia. »

Che cosa debba intendersi per emancipazione o rivoluzione parziale Marx lumeggia in un altro scritto apparso sugli «Annali», Zur Judenfrage (La questione ebraica), in cui sintetizza i risultati di intensi studi sulla Convenzione e critica il costituzionalismo borghese, gli « immortali principi » della rivoluzione francese, dimostrando che l'enunciazione politica dei « diritti dell'uomo» è tutt'altra cosa dalla loro realizzazione pratica, sociale. Dal punto di vista astrattamente e stret­tamente «politico», ad esempio, la costituzione giacobina del 1793 aboliva la proprietà privata abolendo il censo come discriminante nel diritto di eleggere ed essere eletti. Ma la discriminazione tra cittadini con e senza censo, che non avviene più a livello della società politica dove formalmente tutti sono uguali, avviene a livello della società civile, cioè nella realtà sociale. Lo stato politico fa quindi astrazione dalle relazioni della società civile nello stesso modo in cui il cielo religioso fa astrazione dal mondo profano, del quale, al tempo stesso, espri­me le manchevolezze. Lo stato politico è la proiezione alienata, irreale, della società civile; in questa l'uomo vive da ricco o da povero, e quindi in modo disu­guale, mentre in quello, in cui pure non vive, viene collocata, in un rarefatto cielo costituzionale, una fittizia uguaglianza che « prescinde» dai censi. Come nella religione l'uomo vive una scissione tra la propria« esistenza» terrena e la propria «essenza» umana, così nella costituzione politica vive una scissione tra la propria esistenza terrena di «uomo» membro della società civile e l'astrazione di «citta­dino » membro dello stato politico.

Che cosa sono allora i tanto vantati «immortali principi»? « Chi è l'ho m me distinto dal citoyen? » Marx risponde con l'analisi della costituzione del 1793, che sanciva i diritti alla libertà, l'uguaglianza, la proprietà e la sicurezza. Il dettato costi­tuzionale definiva la libertà come «il potere spettante all'uomo di fare tutto ciò che non lede i diritti altrui », cioè come libertà individualistica ed egoistica, la cui rea­lizzazione pratica è la proprietà, a sua volta così espressa: «Il diritto che spetta ad ogni cittadino di fruire e disporre a suo talento dei suoi beni, dei suoi redditi, del frutto del suo lavoro e della sua industria. » Cioè, commenta Marx, « il diritto di fruire dei propri beni e di disporne ad arbitrio, senza riguardo agli altri uomini, indipendentemente dalla società, ossia il diritto dell'egoismo». Quanto al diritto all'uguaglianza, non è certo inteso come uguaglianza reale, a livello della società civile, bensì come diritto di ognuno a godere, se può, delle anzidette libertà e pro­prietà. Ed il diritto alla sicurezza? È il sancta sanctorttm dell'egoismo e dell'indivi-

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dualismo, «il concetto della polizia». L'uomo è quindi lungi dall'essere realmente emancipato dalle costituzioni borghesi, giacché in esse « come vero e proprio uomo non viene preso l'uomo citqyen, bensì l'uomo bourgeois ».

IV · FORMAZIONE DI ENGELS

Gli «Annali franco-tedeschi» furono anche il punto d'incontro di Marx con il suo collaboratore, amico e tenace compagno di lotta Friedrich Engels.

Questi nacque a Barmen, nel Wuppertal, il z8 novembre 18zo, figlio di un industriale tessile che possedeva opifici in Renania ed in Inghilterra. Manifestò molto precocemente un acutissimo spirito di osservazione critica, e nella sua mente di adolescente si impressero le dolorose immagini della spaventevole mi­seria del proletariato renano. Al liceo di Elberfeld fu scolaro brillante, irrequieto, appassionato di letteratura. I dubbi religiosi - la famiglia era rigorosamente pietista - cominciarono presto, e questo fu probabilmente uno dei motivi che indussero il padre a ritirarlo dagli studi un anno prima della maturità per avviarlo al commercio, mandandolo come apprendista a Brema. Nella città anseatica, tanto più vivace di Barmen, il giovane si dedicò intensamente alle lettere, com­ponendo poesie e saggi che denotavano influenze romantiche e liberali e che pubblicava su vari periodici, tra cui il « Telegraph fiir Deutschland »(«Telegrafo per la Germania»), diretto da un amico di Ludwig Borne (1786-1837) ed espo­nente della« giovane Germania»: Karl von Gutzkow(18u-78). L'opera di mag­gior spicco di quel periodo ha per titolo Briefe aus dem Wuppertal (Lettere dal Wuppertal, 1839); essa è una raccolta di corrispondenze pubblicate sul «Tele­grafo» in cui Engels fustiga l'ipocrita pietismo della vallata natale e denuncia la collusione tra misticismo da un lato, e miseria, sfruttamento ed alcolismo dall'al­tro. « I ricchi fabbricanti hanno la coscienza elastica, e far morire un bimbo in più o in meno non turba l'animo di un pietista, soprattutto se la domenica va due volte in chiesa. » La lettura de La vita di Gesù porta Engels tra i giovani hegeliani, ma con una sua connotazione originale: egli si propone di operare la sintesi tra il radicalismo teorico e quello pratico, la « sintesi di Hegel e Borne »; di questo secondo autore approvava entusiasticamente soprattutto il giacobinismo delle Lettere da Parigi.

Nell'autunno del '41 - prestando servizio militare - Engels giunge a Ber­lino, ove proprio in quelle settimane Schelling, dalla cattedra che era stata di Hegel, cominciava a vantare la «filosofia della rivelazione», aberrante guazza­buglio di romanticismo, idealismo, ortodossia religiosa e conservatorismo poli­tico. Il giovane prende subito le parti di Hegel, interpretandolo da sinistra e di­fendendone il retaggio liberale e razionale in due opere polemiche: S chelling und die Offenbarung (Schelling e la rivelazione, 184z), Der Triumph des Glaubens (Il trionfo della fede, 1842.). Di queste opere basterà osservare che Engels interpreta la filosofia

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hegeliana soprattutto come filosofia della storia, tracciante l'inarrestabile cammino dell'umanità verso la libertà ed il regno della ragione. È una problematica vicina a quella del futuro amico Marx: il « divenire mondo » della ragione.

Coerentemente con il proposito di sintetizzare teoria e prassi, Engels mostra un impegno politico crescente, e pubblica un saggio contro la politica reazionaria della corte di Berlino: Friedrich Wilhelm IV, Konig von Preussen (Federico Cugliemo IV,

re di Prussia, I 84z); saggio nel quale, in nome della hegeliana filosofia della storia, dichiara che mai la reazione avrebbe potuto arrestare il progresso, e che il popolo avrebbe costretto la corte a concedere libertà di stampa, parlamento elettivo e co­stituzione.

Insofferenza per il teoricismo astratto; acuta coscienza della necessità di le­gare teoria e prassi; uggia per il soffoco della vita tedesca; vivacissima curiosi­tà intellettuale e profondo interesse per i problemi dell'epoca, ivi compresi quelli sociali: questi fattori certo ebbero gran peso nello spingere Engels a recarsi come impiegato nell'industria del padre a Manchester. Nel '42 la regione di Manchester era stata scossa da uno sciopero generale durissimo che al giovane Engels suonò conferma delle previsioni di Hess. Prima di imbarcarsi, si recò a Colonia per concordare la collaborazione alla « Gazzetta renana », e conobbe, ma solo di sfuggita, Marx.

L'Inghilterra, culla del capitalismo, era la prima nazione industriale del mondo. Scosso dalle ricorrenti crisi di stagnazione e sovrapproduzione, il paese conosceva da decenni una lotta di classe acutissima. Seppur priva di una coerente teoria scientifica sullo sviluppo della società, nonché di una avanguardia organiz­zata e cosciente che sapesse guidarla alla vittoria contro la borghesia e gli agrari, la classe operaia inglese era tuttavia estremamente combattiva, ed aveva ottenuto grandi successi, come quando nel I 840 aveva conquistato il diritto ad organiz­zarsi sindacalmente. Il movimento politico più avanzato era il cartismo, che con lo sciopero del '42 si era caratterizzato sempre più come interprete del proletariato.

La realtà della lotta di classe in Inghilterra metteva in crisi le confuse categorie del comunismo idealistico-messianico di Hess. Engels, che pure al momento di sbarcare sull'isola nutriva ancora, come disse più tardi, «una buona dose di arro­ganza filosofica», se ne rese rapidamente conto, e la critica della speculazione diven­ne anche per lui tappa obbligata. Rimase scosso dal fatto che gli inglesi ignoras­sero la dialettica e preconizzassero l'avvento della rivoluzione esclusivamente in base a dati di fatto empirici. Troppo onesto e coraggioso per chiudere gli occhi di fronte a quanto vi era di plausibile in questo atteggiamento e per isterilirsi in una difesa pregiudiziale della propria« arroganza filosofica», era d'altra parte ben cosciente, a causa della sua formazione hegeliana, dell'imprescindibilità di una vi­sione generale della storia e degli accadimenti sociali per accettare un disorganico empirismo. Accentrò dunque la riflessione critica soprattutto sul rapporto tra fattori ideali e fattori materiali nella storia. Da hegeliano, seppur di sinistra, aveva

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sempre dato, ed ancora dava, la preminenza ai primi; ma l'esperienza inglese lo induceva ogni giorno di più a ripensare il problema, al cui approfondimento si dedicò con slancio, avvicinando personalmente gli aspetti della realtà capitalistica, così tremenda e complessa: a Manchester, « Engels non se ne stette soltanto nel­l'ufficio della fabbrica; visitò i luridi tuguri dove erano stipati gli operai, vide con i suoi occhi la loro miseria e le loro sventure» (Lenin). Al suo fianco, nel­l'avvicinare le masse sfruttate, era Mary Burns, un'operaia irlandese che gli di­venne affezionata compagna di vita.

Nel~ 42 Engels osserva sulla «Gazzetta renana » che in Inghilterra i partiti politici muovono le masse non sulla base di principi ideali, ma di interessi ma­teriali. Inoltre insiste già sulla interdipendenza tra espansione industriale capita­listica e pauperismo, cogliendo una connessione dialettica tra fenomeni opposti che sarà ampiamente sviluppata nello Schizzo. Mostra però ancora di credere che in ultima analisi siano le forze ideali quelle che determinano i grandi rivolgimenti storici. Dopo la soppressione della « Gazzetta renana » invia le corrispondenze allo « Schweizerischer Republikaner »(«Repubblicano svizzero»); la progressiva maturazione della sua visione del mondo appare nel lucido giudizio sul cartismo, del quale rileva che, nonostante le buone intenzioni, mancandogli una teoria scien­tifica capace di un'interpretazione generale dei rivolgimenti sociali, non riuscirà mai a fissare con precisione giusti obiettivi di lotta. Per dare una fondazione teo­rica al movimento di massa, dichiara, occorre richiamarsi al socialismo.

Il socialista inglese di maggior spicco era allora Robert Owen (rnr-r858) che, seppur con molti limiti, aveva compreso che salario e capitale sono neces­sariamente in opposizione, e che solo la socializzazione avrebbe potuto eliminare il pauperismo. Utopista, riteneva che questa socializzazione potesse essere otte­nuta pacificamente, con l'esempio, e a questo scopo aveva fondato cooperative di produzione. Owen ignorava l'aspetto violento della lotta di classe, ed Engels individuò e criticò questa lacuna, pur dando un giudizio favorevole degli sforzi del movimento owenista per elevare la coscienza ideologica del proletariato e per dare al socialismo una dottrina sistematica.

Engels stesso si adoprò per porre rimedio a questa lacuna, pubblicando sul pe­riodico owenista « The new moral world » («Il nuovo mondo morale») un sag­gio, Progress and social reform on the continent (Progresso e riforma sociale sul continente, r 84 3 ), nel quale insisteva sulle basi filosofiche del socialismo e del comunismo, collegati alla filosofia classica tedesca ed a Feuerbach, dal quale, come Marx, anche Engels in questo periodo è molto influenzato. Nel contempo entra in contatto con la sezione inglese della Lega dei giusti e studia gli economisti classici. I frutti di questo ripensamento vigoroso e profondo apparvero sugli «Annali franco­tedeschi» in due saggi: Die Lage Englands (La situazione dell'Inghilterra) e Umrisse zu einer Kritik der Nationaliikonomie (Schizzo per una critica dell'economia politica).

La situazione de/l' ltzghilterra prende l'avvio dalla discussione critica dell'opera

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Passato e presente di Carlyle, denuncia dell'Inghilterra capitalista del x1x secolo alla quale il filosofo-poeta contrappone l'Inghilterra feudale del xn. Carlyle flagella con penna apocalittica la mostruosità dell'Inghilterra borghese, «piena di ricchez­ze di ogni genere, e che tuttavia muore di fame », ma propone come rimedio al dilagante pauperismo non una forma, seppur utopistica, di socialismo, bensì un revivalismo religioso che restituisca all'uomo moderno, non importa se operaio, borghese od agrario, l'« anima», e riconduca l'Inghilterra alla spiritualità me­dioevale.

Di Passato e presente Engels apprezza la descrizione dell'Inghilterra capitali­stica, ma condanna la soluzione reazionaria. Egli respinge la tesi di Carlyle, che lo sciopero del '42 fosse fallito perché gli operai in lotta, travolti dalla generale crisi spirituale del secolo, non avevano compreso che i loro veri nemici erano l'utilitarismo, la corruzione morale, il vuoto spirituale. Le cause del fallimento, erano state ben diverse: il cartismo mancava di fondazione teorica che compren­desse le radici del dilagante pauperismo ed indicasse giusti obiettivi di lotta: « Fu appunto questa la sventura dei lavoratori nella sommossa estiva del I 842: essi non conoscevano contro chi avrebbero dovuto combattere. Il loro era un male sociale, ed i mali sociali non possono venir aboliti come si aboliscono la monarchia ed i privilegi... I mali sociali devono essere studiati e conosciuti, e la massa dei lavoratori fino ad oggi non l'ha fatto. »

L'affinità con Marx è chiara: anche Engels insiste sul fatto che ai mali sociali non si può porre riparo con riforme solo politiche, come l'abolizione della monar­chia; anch'egli dichiara che non servono palliativi: «I socialisti inglesi sono emi­nentemente pratici e perciò propongono misure, colonizzazioni in patria l, ecc., in forma equivalente, in certo modo, alle pillole di Morrison. »2 Una vera cono­scenza dei mali sociali, afferma invece Engels, deve essere dialettica, capace di coglierne lo svolgimento storico e di fondere prassi e teoria in una interpreta­zione generale della società tutta del XIX secolo: «Noi non abbiamo bisogno dei nudi risultati quanto piuttosto dello studio; i risultati non sono nulla senza lo svolgimento dello studio; i risultati non sono nulla senza lo svolgimento dk ha condotto ad essi, lo sappiamo molto bene già da Hegel, ed i risultati sono più dannosi che utili quando vengono fissati per se stessi, quando non vengono posti a loro volta come premesse per un ulteriore svolgimento. »

Il richiamo a Hegel è particolarmente interessante, perché denota che anche Engels, come più approfonditamente Marx nei Manoscritti del' 44, continua ari­chiamarsi, seppur criticamente, alla dialettica hegeliana dello svolgimento storico, pur avendo anch'egli ormai rotto, soprattutto assimilando Feuerbach, con la spe­culazione. È infatti richiamandosi al filosofo dell'antropologia che respinge le nostalgie di revivalismo religioso di Carlyle; la religione è anzi la spia dell'aliena-

I Home-çolonies era la denominazione delle cooperative oweniste come New-Lanarck.

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z Purgante molto diffuso in Inghilterra.

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zione e della miseria umane, che « dureranno fino a quando l'umanità non com­prenderà che l'essenza che essa ha adorato come divinità è la sua stessa essenza, fino allora misconosciuta ». Nemmeno Engels è però scolastico ripetitore di Feuer­bach, e d'altra parte il suo interesse per la storia lo rende avvertito alla lacuna dell'atemporalità insita nel naturalismo antropologico. Anch'egli quindi, come farà Marx nei Manoscritti, cerca di piegare le categorie antropologiche alla storia: «Noi rivendichiamo il contenuto della storia; ma noi vediamo nella storia la ri­velazione non già di " dio ", ma dell'uomo e soltanto dell'uomo. » E storia si­gnifica anche per Engels concezione rivoluzionaria della teoria: la mera afferma­zione antropologica che il vero dio è l'uomo non basta; acquisitala, l'uomo deve forgiare il mondo a patria dell'uomo, ed anche per Engels il portatore di questo processo è il proletariato.

L'esigenza di una comprensione teorica generale delle leggi di sviluppo della società capitalistica, trova geniale espressione nello Schizzo, in cui sono esposte le prime linee generali di una critica dell'economia politica borghese.

L'impostazione dell'analisi di Engels è profondamente storica: l'economia politica classica è frutto di un progresso perché «nacque come una conseguenza naturale dell'espansione commerciale», e quindi rappresentò una sistematizza­zione scientifica della spinta all'arricchimento, superando l'angustia teorica del mercantilismo. Ma poiché anche l'economia politica classica, simile in questo al mercantilismo, aveva come oggetto l'arricchimento individttale, neppure essa usci dall'ambito di una visione egoisticamente atomistica della società, non ponendo nemmeno in discussione la proprietà privata. Pur costituendo un progresso ri­spetto al mercantilismo, l'economia politica non è quindi una teoria compiuta­mente scientifica, non risolve il problema di un funzionamento veramente razio­nale dell'economia. Pretende di essere la teoria della «ricchezza delle nazioni» (Smith), mentre è invece la teoria della ricchezza privata di pochi e della mo­struosa povertà e schiavitù dei più; è quindi in contrasto con i suoi stessi presup­posti, perché ha assunto acriticamente ciò che doveva spiegare: la proprietà privata. «L'economia politica non si preoccupò di cercare la giustificazione della proprietà privata. Perciò la nuova economia fu solo un mezzo progresso; fu costretta a tradire e rinnegare i suoi stessi presupposti, a ricorrere al sofisma e al­l'ipocrisia per celare le contraddizioni nelle quali era invischiata, per giungere alle conclusioni alle quali veniva sospinta non dai suoi propri presupposti, ma dallo spirito umano del tempo. »

Dall'atteggiamento storico-critico di Engels discende la spassionata valuta­zione, priva di moralismi, del pur lacunoso portato scientifico dell'economia po­litica classica. Egli ha troppo acuto il senso della realtà come processo, come svolgimento, e delle teorie come congruenti allo sviluppo storico, per negare che anche in teorie non compiutamente scientifiche vi può essere un progresso scientifico. Insiste anche sulla necessità, cioè su di una interpretazione dialettica, del

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progresso: « Era necessario che la teoria della proprietà privata abbandonasse il sentiero della pura empiria, della ricerca meramente oggettiva, e assumesse un carattere scientifico che la rendesse anche responsabile di fronte alle conseguenze e portasse così il problema su di un piano universalmente umano. » Ma ora che tale sistema « delle leggi della proprietà privata » è stato elaborato (da Smith e Ricardo ), si tratta di mostrare che nella misura in cui è basato sulla proprietà pri­vata non può che essere contraddittorio, e che solo la abolizione della proprietà privata consente una sistemazione teorica ed una organizzazione pratica veramente razionali, scientifiche ed umane della produzione e dei rapporti fra produttori.

Qui esaminiamo soltanto, come esempio, la critica di Engels al concetto ' smithiano di «ricchezza delle nazioni». «La " ricchezza nazionale '' degli inglesi è assai grande, e tuttavia essi sono il popolo più povero sotto il sole »: milioni di affamati cronici mentre il paese è zeppo di merci invendute ed invendibili a causa dei bll_ssissimi salari, della disoccupazione, delle ricorrenti crisi di sovrapprodu­zione e di stagnazione. Non la ricchezza nazionale, ma quella individuale è lo scopo dell'economia politica, che« dovrebbe chiamarsi economia privata, poiché le sue relazioni pubbliche esistono soltanto in ragione della proprietà privata ». Il metodo del quale Engels si avvale per demistificare l'economia politica è lar­gamente ispirato alla critica feuerbachiana dell'inversione speculativa: «Nell'eco­nomia tutto è capovolto; il valore, che è l'origine, la fonte del prezzo, vien fatto dipendere da questo, che è il suo proprio prodotto. È noto che, proprio intorno a questo capovolgimento dell'essenza dell'astrazione, è necessario consultare Feuerbach. »

Il metodo dell'inversione non serve però ad Engels per elaborare un astorico essenzialismo, bensì per tradurre la teoria in guida irrinunciabile all'azione rivolu­zionaria. Egli non si restringe a svelare le contraddizioni interne all'economia politica classica, bensì dimostra anche che esse sono confutate in primo luogo dalla realtà storica della società capitalistica, e passa sia ad una visione teorica e ad una riformulazione categoriale che risolva le contraddizioni indicate (ad esem­pio quella tra valore e prezzo), sia ali 'indicazione della necessità di superare prati­camente queste contraddizioni, sopprimendone, con la rivoluzione, la base reale: la proprietà privata. Contro il riformismo pacifista ed empirico delle « pillole di Morrison » egli afferma la necessità di una visione scientifica, generale, rivoluzio­naria, poiché in regime economico borghese le contraddizioni sono insopprimibili, sono « una legge » che « genera la rivoluzione ».

Nella lilaturità Engels si occuperà approfonditamente di scienze della natura; questo interesse non è appendice marginale, bensì componente essenziale del suo pensiero e della sua azione comuniste. Già nello Schizzo egli vede nella scienza uno dei cardini della visione razionale del mondo e della società, e ne usa come stru­mento per confutare teorie economiche borghesi. Criticando la teoria demo­grafica malthusiana, rileva che essa non ha tenuto in nessun conto il progresso

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scientifico, ignorando che la scienza applicata alla produzione industriale ed agrico­la è in grado di garantire un incremento produttivo non aritmetico, ma geometrico, cioè altrettanto rapido di quello della popolazione: «La scienza progredisce almeno al pari della popolazione; questa si accresce in proporzione al numero della gene­razione precedente, la scienza progredisce in rapporto alla quantità di conoscenze tramandatele dalla generazione precedente, dunque, nelle condizioni più normali, in progressione geometrica anch'essa; e che cosa è impossibile alla scienza?»

V · L'INCONTRO DI MARX CON L'ECONOMIA POLITICA

Lo Schizzo contribui a spingere Marx ad affrontare di petto lo studio dell'eco­nomia politica. Con tenacia e penetrazione intellettuale prodigiose, si getta in un « oceano di libri » e dopo circa un anno ha già :riempito alcuni quaderni di abbozzi, frammenti, osservazioni: i Manoscritti del' 44· Da quell'anno data anche l'amicizia fraterna e proletaria tra Ma:rx e Engels. «Quando nell'estate del I844 visitai Marx a Parigi, » narra Engels, « :risultò il nostro completo accordo su tutti i campi della teoria, e da quel momento ebbe inizio il nostro lavoro comune. »

La critica di Ma:rx all'economia politica è molto articolata: delle teorie bor­ghesi classiche analizza le incoerenze interne e la debolezza euristica, :riducendole nel contempo, per quanto hanno di scientificamente valido, a casi particolari di una visione generale della produzione e della società. Anche Ma:rx critica l'econo­mia politica a partire dai suoi stessi presupposti: essa (Smith) asserisce che la libera concorrenza conduce al benessere ed alla felicità della società tutta; ma se si esamina concretamente la situazione operaia, si scopre che il :rapporto t:ra sa­lario e capitale è inversamente proporzionale: aumentando l'espansione del capi­tale, peggiora la situazione operaia, sicché si può ben dire che non la felicità,. ma «l'infelicità della società è lo scopo dell'economia politica». Constatata questa frattura, occorre formulare una teoria più generale che da un lato spieghi « lo stato di miseria» del proletariato, e dall'altro sveli la :radice delle lacune teoriche dell'economia politica classica. Dopo una serrata analisi dei :rapporti reali t:ra sa­lario e capitale, Ma:rx formula la legge generale che, in :regime capitalistico, « tutta intera la società deve scindersi nelle due classi dei proprietari e degli operai senza proprietà».

L'economia politica non riesce a cogliere questa :realtà perché muove imme­diatisticamente dalla proprietà privata; «l'economia politica muove dal fatto della proprietà privata. Ma non ce lo spiega ». Essa è quindi acritica sia perché non rende conto della :realtà, sia perché nei propri fondamenti teorici « presup­pone ciò che deve spiegare ». I dati :reali che la contraddicono non sono inseriti in una teoria che ne colga la necessità - e quindi li spieghi -- bensì appaiono come accidentalità, nonostante siano mac:roscopici (ad esempio la miseria). Una critica dell'economia politica deve dunque basarsi s~ principi che consentano di com-

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prendere la connessione essenziale tra la proprietà privata e l'esistenza della miseria proletaria. Nel '44, la connessione dialettica che Marx istituisce tra questi due opposti è la seguente: producendo, l'operaio oggettivizza il proprio lavoro in merci, che però appartengono non a lui, ma al capitalista, e quindi diventano fat­tori della miseria operaia. Nel prodotto dell'operaio vi sono dunque due lati opposti: l'aggettivazione del lavoro e la sua alienazione. «L'oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente da colui che lo produce. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è diventato una cosa, è l'aggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua aggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare nello stadio dell'economia privata come un annullamento del­l'operaio, l'aggettivazione appare come una perdita e asservimento dell'oggetto, l'ap­propriazione come estraniazione, come alienazione.» Le categorie usate in questo scritto del '44 ricordano certo la critica mossa da Feuerbach alla religione ed alla speculazione; ma, come vedremo, il testo di Marx non può assolutamente essere ridotto ad una esercitazione feuerbachiana.

Stabilito che 1) il punto di vista dell'economia politica è insufficiente perché né spiega tutti i fatti, né coglie la connessione tra fatti opposti; z) la miseria operaia è dialetticamente connessa alla produzione capitalistica, perché i due poli opposti di aggettivazione ed alienazione procedono di pari passo e dalla stessa causa, occorrerà 3) elaborare una teoria critica che comprenda questa connessione tra opposti.

Qui si deve distinguere tra il problema reale, al quale Marx sta cercando una risposta, e lo strumento teorico, categoriale, con cui si sforza di darla. Il problema reale è lo stesso del Capitale: la miseria del proletariato; ma lo strumento teorico del capolavoro di Marx sarà diverso: non si parlerà più, ad esempio, di alienazione, ma di feticismo e soprattutto di merce forza-lavoro e di plusvalore. Nel '44, Marx usa invece ancora categorie in larga misura feuerbachiane. Feuerbach aveva carat­terizzato l'uomo come «essere generico», sviluppando un'antropologia astorica basata sull'esplicazione delle qualità naturali (non storicamente determinate) del­l'uomo. Marx, pur avendo un oggetto ed un problema storico (la miseria operaia del mondo capitalistico), quando definisce l'alienazione operaia usa in larga misura categorie astoriche dell'antropologia di Feuerbach, scrivendo ad esempio: «L 'uo­mo è un essere generico non solo perché del genere, tanto del proprio quanto di quello delle altre cose, fa teoricamente e praticamente il proprio oggetto, ma anche (e si tratta soltanto di una diversa espressione per la stessa cosa) perché si comporta verso se stesso come verso il genere presente e vivente, perché si comporta verso se stesso come verso un essere universale e perciò libero.» L'uomo dunque non ha come fine ultimo la propria sopravvivenza, la propria esistenza; essa è invece un mez­zo per esplicare la propria essenza. Quale è al contrario il risultato del lavoro estra­niato, capitalistico? Esso «rovescia il rapporto in quanto l'uomo ... fa dell'atti-

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vità vitale, della sua essenza, soitanto un mezzo per la sua esistenza»: l'operaio impegna tutti i suoi attributi generici, umani, per guadagnarsi un salario di fame che gli consente non di esplicarsi, ma di sopravvivere a stento.

Questa sfasatura tra la concreta e reale storicità del problema e l'astoricità di alcune categorie, come «alienazione», «essenza umana» ecc., provoca uno squilibrio nel testo di Marx. Nel Capitale, ad esempio, il lavoro è sempre e solo storicamente determinato: lavoro schiavistico antico, lavoro servile medioevale, forza-lavoro come merce del mercato capitalistico. La differenza specifica, reale e storicamente determinata, di queste diverse forme di sfruttamento del lavoro umano non può essere colta se si fa perno su di una concezione antropologica, atemporale, del Wesen(essenza) umano. Ed è alla luce di queste lacune che possia­mo intendere la differenza tra i Manoscritti, opera geniale ma ancora immatura, ed il Capitale, capolavoro del pensiero marxista.

Secondo alcuni interpreti, l'assenza delle categorie scientifiche del Capitale (plusvalore ecc.) denoterebbe anche l'assenza, in questi scritti giovanili, dell'og­getto reale del marxismo maturo: il modo di produzione capitalistico. È una interpretazione manchevole, anche se è ovvio che, qualora Marx avesse già colto il problema reale della produzione del plusvalore come radice dello sfruttamento ca­pitalistico, ne avrebbe formulato anche la categoria. Non è evidentemente pos­sibile cogliere con chiarezza l'esistenza reale della forza di gravità, senza formu­larne la categoria. Ma è altresì ovvio che ogni « nuovo oggetto » di riflessione e sistemazione scientifica non nasce come Minerva dalla testa di Giove. Quando trova una nuova, più esatta e più generale formulazione categoriale, un oggetto di riflessione scientifica viene rinnovato, ma non nel senso che sorga dal nulla, bensì che le sue articolazioni reali vengono colte molto più compiutamente. Così nel '44 non solo esisteva già la produzione del plusvalore che genera la mi­seria operaia, ma anche Marx aveva già individuato nella miseria operaia il pro­blema fondamentale, e si affaticava già a darne una spiegazione storica e dialettica. Incompiutamente padroneggiato a livello teorico, l'oggetto reale è dunque già largamente presente nella riflessione di Marx, sicché le sue successive scoperte non sono repentini passaggi dalle tenebre alla luce, superamenti di inesistenti «cesure epistemologiche» tra un Marx « prescientifico » ed un Marx «scientifico». Queste scoperte si inseriscono invece in un progresso scientifico, nel senso che la teoria diviene sempre più coerente con i suoi presupposti, più aderente al reale, e quindi riformula anche gli oggetti della propria riflessione rinnovandoli nella misura in cui li comprende e li definisce sempre più esattamente.

Lo squilibrio, di cui si diceva, si riflette anche a livello categoriale, giacché Marx non accetta passivamente l'astoricità (d'estrazione feuerbachiana) delle cate­gorie, bensì cerca, pur senza riuscirvi compiutamente, di determinarle storica­mente. Si veda ad esempio il suo sforzo di connettere in un unico processo dialet­tico vari punti: il rapporto che l'uomo per mezzo del lavoro istituisce con la

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natura; l'estraniazione del e dal lavoro; la conseguente estraniazione dell'uomo dal suo Wesen; l'estraniazione dell'uomo dall'uomo che ne è il risultato ul­timo.

Nel profilo di questa connessione, lo sforzo di caratterizzazione storica si con­figura come dialettizzazione, in chiaro contrasto con l'atemporalità e l'antidialet­ticità delle categorie antropologiche sull'essenza dell'uomo; questo contrasto è particolarmente evidente quando Marx cerca di agganciare i nessi dialettici alla realtà storica del capitalismo: «Abbiamo espresso il concetto di questo fatto: il lavoro estraniato, alienato. Abbiamo analizzato questo concetto e quindi abbiamo analizzato semplicemente unjatto dell'economia politica. Ora, proseguendo, ve­diamo come il concetto del lavoro estraniato, alienato, debba esprimersi e rap­presentarsi nella realtà », cioè nella realtà storica del modo di produzione capita­listico. Ecco lo squilibrio prima indicato: Marx cerca evidentemente la connes­sione dialettica e specifica di un oggetto specifico: la condizione operaia in regi­me capitalistico, cioè una condizione storicamente determinata; ma nel contempo Marx fa ancora dipendere il fatto storico (la miseria operaia in un sistema di pro­duzione capitalistico) da quello astorico, essenzialistico: dalla distorsione a livello del Wesen umano: « La proprietà privata è quindi il prodotto, il risultato, la conse­guenza necessaria del lavoro alienato, del rapporto di estraneità che si stabilisce tra l'operaio, da un lato, e la natura e lui stesso dall'altro.» Nel marxismo maturo, la connessione sarà invertita: sono i rapporti di produzione a determinare l'~stra­niazione, o meglio la mercificazione, del lavoro.

L'esigenza di generalizzazione di Marx si manifesta anche come unificazione metodologica: l'inversione soggetto/predicato, applicata da Feuerbach alla reli­gione e alla speculazione, viene estesa a metodo critico dell'organizzazione politica (sugli «Annali franco-tedeschi») e dell'economia politica. Le diverse critiche (dell'economia politica, della :religione, del costituzionalismo borghese, della spe­culazione hegeliana) divengono così campi particolari di un unico principio cri­tico, generale, scientifico: :riflettere teoricamente la connessione reale dei feno­meni, anziché tentare di dedurre speculativamente la connessione :reale da quella ideale. E Marx non solo generalizza metodologicamente, ma anche sistematizza, subordinando l'uno all'altro i livelli di inversione ed indicando in quello econo­mico il livello fondamentale. Già nel '43 a K:reuznach aveva dimostrato la :rela­zione t:ra l'inversione speculativa di Hegel e la distorsione reale della società civile nel :regime feudale p:russiano. O:ra, dimostrando che l'alienazione economica è quella fondamentale, e che tutte le altre (filosofica, giuridica, :religiosa ecc.) sono derivate da essa, compie una possente generalizzazione, che nel contempo esalta il carattere pratico della sua visione del mondo, tesa all'azione rivoluzionaria: le forme derivate di alienazione, afferma, possono essere soppresse solo soppri­mendo quella fondamentale: « La :religione, la famiglia, lo stato, il diritto, la mo­rale, la scienza, l'arte ecc., non sono che modi particolari della produzione e ca-

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dono sotto la sua legge universale. La soppressione positiva della proprietà privata, in quanto appropriazione della vita umana, è dunque la soppressione positiva di ogni estraniazione, e quindi il ritorno dell'uomo dalla religione, dalla famiglia, dallo stato ecc., alla sua esistenza umana, cioè sociale. L'estraniazione religiosa come tale ha luogo soltanto nella sfera della coscienza, dell'interiorità umana; invece l'estraniazione economica è l'estraniazione della vita reale, onde la sua soppressione abbraccia l'uno e l'altro lato.»

Criticare l'economia politica non significa affermare aprioristicamente che tutte le sue categorie siano interamente prive di riscontro nella realtà: « A vendo trovato, mediante l'analisi, il concetto della proprietà privata partendo dal concetto del lavoro estraniato, alienato, ora possiamo col sussidio di questi due fattori svi­luppare tutte le categorie dell'economia politica, e ritroveremo in ogni categoria, come ad esempio lo scambio, la concorrenza, il capitale, il danaro, solo un'espres­sione determinata e sviluppata di questi primi concetti fondamentali. »

Questo atteggiamento scientifico e non moralistico consente a Marx di valu­tare spassionatamente quel che di positivamente scientifico quelle categorie espri­mono. Egli dimostra così di avere una visione storica dell'economia politica, che non riduce ad informe congerie di errori, bensl ad una articolazione di dottrine più o meno scientifiche, più o meno sistematiche a seconda della maggiore o mi­nore aderenza al reale. Ricardo, ad esempio, rappresenta per Marx un « grande progresso » rispetto ad Adam Smith, per aver egli compreso che non la felicità della società, ma il profitto capitalistico è l'oggetto dell'economia politica, ed aver quindi colto una connessione tra opposti (salario e capitale) che a Smith era sfuggita. A sua volta, Marx sa di rappresentare un progresso rispetto a Ri­cardo, e non solo per la connessione dialettica generale della propria teoria cri­tica, ma anche per aver compreso la necessità del superamento di questa opposi­zione. Marx cioè non si limita a descrivere le contraddizioni della realtà sociale capitalistica, ma fonda scientificamente la necessità di una realtà sociale nuova (comunismo), che risulterà dalla negazione di queste contraddizioni.

In questa analisi dei concetti dialettici di necessità e negazione Marx compie una disamina comparata di Hegel e Feuerbach, differenziandosi esplicitamente da quest'ultimo. Solo Feuerbach, scrive, ha svolto della speculazione hegeliana una critica che ne investe i fondamenti teorici, mentre tutti gli altri epigoni (Bauer, Ruge, Stirner ecc.) hanno mosso critiche solo marginali. Feuerbach coglie nel se­gno quando osserva che Hegel prende le mosse « dall'infinito, dall'universale astratto», che successivamente nega quella prima affermazione, cioè « sopprime l'infinito, e pone l'effettivo, il sensibile, il reale, il finito, il particolare», ma solo per concludere speculativamente con la negazione della negazione, mediante cui «sopprime di nuovo il positivo, e pone di nuovo l'astrazione, l'infinito».

L'alternativa di Feuerbach alla speculazione hegeliana è questa: «Contrappor­re alla negazione della negazione, che pretende di essere l'assolutamente positivo,

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il pos1t1vo che riposa su se stesso ed è fondato positivamente su se stesso. » Feuerbach ha semplicemente ignorato il terzo momento (negazione della negazio­ne), ed invertito i primi due: non è il positivo, il finito, che deriva dall'infinito, ma l'infinito che deriva dal positivo; non il reale è predicato del pensiero, ma il pensiero è predicato del reale, della « positività che è fondata su se stessa ed è certa per via dei sensi». A Feuerbach è dunque completamente sfuggito che « H e gel, concependo la negazione della negazione ... come l'unico atto vero, come l'atto in cui ogni essere attua se stesso, non ha trovato altro che l'espressione astratta, logica, speculativa per il movimento della storia », anche se si tratta ancora di una storia astratta, mistificata, «non ancora della storia reale dell'uomo».

Della dialettica hegeliana Marx svolge quindi una critica originale, che se da un lato ne distrugge il carattere speculativo, dall'altro ne preserva il carattere storico. L'errore di fondo della dialettica hegeliana è che tutto si svolge all'interno del pensiero, cosi che l'uomo non è inteso come uomo reale, ma come mera autoco­scienza, e la sua riappropriazione - con la negazione della negazione- del mondo estraniato è una riappropriazione irreale: l'autocoscienza non si riappropria, ad esempio, del potere statale reale, ma dell'idea del potere statale.

La dialettica hegeliana è dunque critica e mistificante al tempo stesso. Critica perché descrive alienazione e riappropriazione nel movimento della storia; mi­stificante perché svolgendosi solo a livello ideale lascia inalterata la realtà. Se si criticano gli astratti enti ideali hegeliani, attingendo alla realtà storica effettiva; se si respinge la riduzione mistificante dell'uomo ad autocoscienza, e si tien fermo «l'uomo reale, corporeo, piantato sulla terra ferma e tonda», allora è possibile anche cogliere l'aspetto scientificamente valido della negazione della negazione, ed indicare la necessità di negare il capitalismo (che, come già sappiamo, è la ne­gazione dell'essenza umana); formulando una negazione della negazione che esprime la necessità del comunismo: « Il comunismo è, in quanto negazione della negazione, affermazione; perciò è il momento reale e necessario per il pros­simo svolgimento storico dell'emancipazione e della riconquista dell'uomo. »

Alla critica degli «epigoni» dell'hegelismo, cioè alla liquidazione della forma caricaturale di ultraidealismo di sinistra rappresentata da Bruno Bauer è dedicata la prima opera comune dei due fondatori del socialismo scientifico, Die heilige Familie oder Kritik der kritischen Kritik. Gegen Bruno Bauer und Consorten (La sacra famiglia, ovvero critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e soci, I 845). Sinte­tizzando limpidamente i risultati della critica al metodo speculativo hegeliano, e ribadendo il carattere reazionario della speculazione, Marx ed Engels distinguono però tra Hegel e Bauer, ravvisando nell'autore della Fenomenoloy,ia la presenza di un'istanza razionalistica e realistica che nella « critica critica» baueriana, in cui « la speculazione si riproduce in forma di caricatura », è del tutto scomparsa. Sap­piamo dai Manoscritti che cosa Marx intenda, distinguendo tra un portato ra­zionalistico-realistico della dialettica hegeliana ed il suo involucro speculativo,

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ed affermando che Hegel «dà molto spesso, entro l'esposizione speculativa, un'espo­sizione reale che coglie la cosa stessa ».

La filosofia non speculativa alla quale Marx ed Engels in larga misura ancora si richiamano è « l'umanismo positivo» di Feuerbach, che però su punti fondamen­tali (dialettica e storia) interpretano in modo sempre più antiessenzialistico. La caratterizzazione che Marx ci dà dell'uomo è sempre meno delineata sulla base del Wesen antropologico, sempre più determinata storicamente e concretamente: l'uomo è definito da un contesto di bisogni sociali, che trovano espressione storica e reale nella società civile. L'essenza dell'uomo è quindi ormai intesa quale sto­rica, come è storica la società civile che lo determina. È alla luce di questa con­cezione che Marx critica i giacobini i quali, per altro verso, erano astorici quanto Feuerbach: negli anni del Terrore, quando vollero fondare una società « libera », i giacobini non compresero la specificità dell'uomo moderno, del «borghese» che voleva perseguire « liberamente » ed egoisticamente il proprio profitto in un regime senza bardature feudali, inciampo alla libera concorrenza; non compresero che la libertà del borghese moderno, inserito nel contesto dell'industria capitali­stica, è irriducibile a quella del civis antico, greco o romano, basata sul lavoro schiavistico, ed invano cercarono di modellare la Francia su Atene, Roma e Sparta repubblicane. Alla mutata società civile corrisponde un mutamento degli uomini, sicché la« libertà» del 1789 è intrinsecamente diversa da quella romana dei comizi elettorali e da quella greca dell'agorà, e la speranza di emancipare l'uomo moderno prendendo a modello il civis antico è illusoria. « Tragica appare questa illusione quando Saint-Just, nel giorno della sua esecuzione capitale, indicò la grande tavola dei diritti dell'uomo appesa nella sala della Conciergerie 1 e cosl con orgogliosa fie­rezza disse: " C'est pourtant moi qui ai fait cela. '' Proprio questa tavola proclamava il diritto di un uomo che tanto poco può essere l'uomo dell'antica comunità, quanto poco le sue condizioni sul piano dell'economia e dell'industria sono quelle antiche.»

La storia è prodotto del modo in cui gli uomini vivono realmente nella so­cietà civile, cioè dei rapporti di produzioni e delle relazioni sociali ad essa con­nesse; l'uomo non è definito dall'atemporalità astratta del Wesen ma dalla produ­zione economica storicamente determinata: il punto di distacco da Feuerbach è chiarissimo. Con la crescente determinazione storica dell'« umanismo positivo» sta delineandosi il materialismo storico e dialettico; non si può fare la storia reale degli uomini, scrive Marx, senza fare la storia dei rapporti tra gli uomini e la na­tura, così come si sono concretamente espressi nella scienza e nell'indttstria, giacché «il luogo di nascita della storia» si trova «nella produzione rozzamente materiale».

Alla sempre più concreta valutazione che Marx dà della storia è strettamente legata la sua dialettica. Se il piano economico-sociale è quello fondamentale, è chiaro che per emancipare l'uomo occorre aggredire e rivoluzionare la società

I Carcere di Parigi.

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civile. La disumanizzazione dell'uomo avviene prima di tutto a livello economico; essa « si è conservata e sviluppata mediante la storia, nella storia e con la storia »; la sua radice va quindi indagata e definita « solo nella prassi commerciale e industria­le». E per emancipare veramente l'uomo, per superare veramente l'economia capitalistica e mettersi dal punto di vista del comunismo, occorre individuare nella società civile capitalistica le leggi dialettiche ad essa intrinseche che porteran­no necessariamente al suo affossamento. « Proletariato e :ricchezza sono termini an­titetici» in senso dialettico: l'uno (capitale) genera necessariamente l'altro (pro­letariato), che a sua volta :rappresenta la negazione del primo. Il capitale non può sussistere, cioè affermarsi, se non generando continuamente la propria negazione nel proletariato, che dunque :rappresenta sia il polo negativo della proprietà privata, sia l'esigenza ineluttabile della negazione della negazione: cioè della negazione del proprio stato di proletariato sfruttato per affermare una società comunista in cui non vi saranno più né capitalisti né proletari. I due termini (proprietà privata e proletariato) esprimono, considerati unitariamente (cioè come effettivamente sono nella società borghese) «tutta l'antitesi, che non è altro che il movimento di en­trambi i suoi termini». La dialettica ma:rxista del « movimento reale » di questa antitesi è scientifica proprio perché coglie a livello generale l'unitarietà e la ne­cessità di «questo movimento :reale che forma il tutto ».

La dialettica di Marx è peculiare, intrinsecamente diversa da quella di Hegel. Non si tratta di una dialettica me:ramente ideale, di pensiero, ma di una riflessione della :realtà nel pensiero; e non si tratta solo di teoria, ma al tempo stesso di prassi, cioè di una teoria storicamente determinata che è guida per un'azione rivoluzio­naria determinata: la rivoluzione comunista. La traduzione dell'analisi teorica in termini pratici non è un sovrappiù da aggiungersi o non aggiungersi a seconda del maggior o minor volontarismo, bensì discende necessariamente dalla scientificità dell'interpretazione teorica: «Non si tratta di sapere che cosa questo o quel pro­letario, o anche il proletariato tutto intero, si propone temporaneamente come meta. Si tratta di sapere che cosa esso è e che cosa sarà storicamente costretto a fare in conformità a questo suo essere. »

VI · L'ELABORAZIONE DEL MATERIALISMO STORICO

Delle proprie posizioni teoriche, sia Marx sia Engels facevano costante ve­rifica nella lotta attiva:« Non pensavamo affatto,» scriverà Engels, «di sussurrare in grossi volumi i nuovi :risultati scientifici esclusivamente al mondo dei "dotti''. »

Scomparsi gli « Annali franco-tedeschi », Marx iniziò a collaborare al « Vor­warts! » («Avanti! » ), 1 ed ancora una volta divenne in breve la figura di maggior

1 Anche l'« A vanti! » era nato come organo tutt'altro che rivoluzionario, ed aveva anzi vele­nosamente attaccato gli « Annali franco-tedeschi ». Il suo proprietario, Heinrich Bi:irnstein, subodorò

che solo a sinistra avrebbe trovato spazio e let­tori, sicché chiamò alla direzione un ex-collabora­tore degli « Annali franco-tedeschi », Lazarus Fer­dinand Celestin Bernays.

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spicco della redazione, come segnalavano continuamente le spie prussiane nei loro rapporti. Marx a~eva allora una profonda influenza su Heine, che pubblicò sull'« Avanti! » le liriche politicamente e socialmente più avanzate. Anche Ruge scriveva sull'« Avanti! », e tra gli altri vi pubblicò un lungo articolo, Der Konig von Preussen und die Sozialreform (Il re di Prussia e la riforma sociale, 1 844). Firmandosi

·con uno pseudonimo che poteva indurre a credere che quelle pagine fossero di Marx, egli sosteneva che la sollevazione del '44 dei tessitori della Slesia, soffo­cata nel sangue, era d 'importanza secondaria e solo locale, giacché i rivolto si non avevano saputo dare una forma « politica » alla loro lotta « sociale ».

Marx replicò- Kritische Randglossen (Glosse critiche) - riaffermando le proprie teorie sui rapporti tra rivoluzione politica e rivoluzione sociale, e dimostrando che la sollevazione dei tessitori non era stata un fenomeno secondario, ma di enorme importanza perché aveva dimostrato che il pauperismo non era inglese, tedesco o francese, ma universale, indissolubilmente legato alla proprietà pri­vata capitalistica. Il proletariato tedesco era l'interprete di una :rivoluzione uni­versale, «sociale», tale da emancipare non solo il citf!)len, ma l'homme; rispetto alla rivoluzione politica, quella sociale è « tanto più universale quanto l'uomo è più universale del cittadino ... L'insurrezione operaia, per quanto limitata, rac­chiude uno spirito universale; l'insurrezione politica, per quanto universale, cela sotto l'aspetto più grandioso uno spirito angusto».

Dopo che l'« A vanti! » ebbe preso un indirizzo radicale, il governo prussiano si adoprò per la terza volta in meno di due anni a soffocare la voce di un organo di stampa egemonizzato da Marx: fece forti pressioni su Luigi Filippo e sul premier Guizot, ottenendo dapprima che si intralciasse la stampa di « Vorwarts! », e poi l'espulsione di Ma:rX dalla Francia. Nel gennaio del' 45 Marx partiva per Bruxelles, ma vi era appena giunto che già l'ambasciatore prussiano chiedeva la sua espul­sione. Per sottrarsi completamente alla giurisdizione prussiana, Marx depose la cittadinanza, e restò apolide.

Anche Engels lavorava intensamente, sia in campo teorico sia in campo pra­tico. Dopo il breve soggiorno parigino accanto a Marx, nell'autunno del '44 era rientrato a Barmen, ove si trattenne tutto l'inverno. Compose allora uno dei suoi capolavori, Die Lage der arbeitenden Klasse in England (Le condizioni della classe operaia in Inghilterra). Riprese anche a collaborare con Hess, nonostante le divergenze ideo­logiche, ed insieme organizzarono i primi comizi socialisti mai tenuti in Germania, oltre a pubblicare una rivista, « Gesellschaftsspiegel » ( « Specchio della società»). Engels continuava anche la collaborazione agli organi di stampa inglesi. La fami­glia insisteva perché si dedicasse ad attività commerciali, ma egli s'impegnò sem­pre di più come comunista militante, sicché la polizia prussiana si apprestava ad arrestarlo. Nella primavera del '45 lasciò Barmen per Bruxelles.

Le condizio1li della classe operaia in Inghilterra è il primo grande documento del socialismo scientifico. Senza mai lasciarsi prender la mano dal sentimentalismo,

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Engels esprime una virile e violenta indignazione per lo sfruttamento descritto ed analizzato, una autentica partecipazione proletaria alle sofferenze degli sfrut­tati, ma soprattutto riesce a fondere questi elementi nel quadro generale del­l'interpretazione scientifica e dialettica della realtà sociale capitalistica. I fatti che analizza sono interpretati e divengono prove irrefutabili della validità universale delle teorie sue e di Marx, teorie sempre più calate nella realtà storicamente deter­minata del modo capitalistico di produzione. L'opera è un decisivo contributo al definitivo superamento dell'essenzialismo antropologico: basandosi sui fatti reali che descrive ed esamina e su di una analisi critica dell'economia politica classica che riprende e sviluppa lo Schizzo, Engels usa la dialettica per mostrare che in regime capitalistico le contraddizioni tra capitale e salario sono inconci­liabili e acriticamente codificate dall'economia politica classica, e che costituisco­no la base reale della necessaria e prossima rivoluzione comunista, opera del prole­tariato per l'emancipazione universale dell'uomo. «Anche prima di Engels, nu­merosi erano quelli che avevano descritto le sofferenze del proletariato e detto che era necessario venirgli in aiuto. Ma Engels affermò per primo che il proletariato è non soltanto una classe che soffre, ma che appunto la vergognosa situazione eco­nomica nella quale esso si trova lo spinge irresistibilmente in avanti e lo incita a lottare per la sua emancipazione finale. Ed il proletariato in lotta si aiuterà da se stesso» (Lenin).

Nel '45 Marx ed Engels si recarono in viaggio in Inghilterra, approfondendo ad un tempo sia i loro studi d'economia, sia i legami con organi di stampa ed organizzazioni democratiche. Entrambi avevano ormai maturato un rendiconto critico non solo con l'hegelismo e le sue appendici quali la «critica critica» e l'individualismo anarchico di Stirner,1 ma anche, come scriverà Marx nel '59, con tutta « la loro anteriore coscienza filosofica », compreso Feuerbach. Nasceva la delineazione organica del materialismo storico, in un brevissimo testo di pugno di Marx, Thesen iiber Feuerbach (Tesi su Feuerbach) 2 ed in un'opera composta insieme per esporre la concezione del mondo del socialismo scientifico: Die deutsche Ideologie (L'i~eologia tedesca).3 L'ideologia tedesca è una critica radicale di superfeta­zioni sovrastrutturali staccate dai loro presupposti reali, storico-materiali. Ideo­logia in tal senso si ha ogni qual volta si intendano le idee come indipendenti dalla realtà storica materiale; si tratta quindi di una critica generale dei modi erronei d'impostare i rapporti tra realtà e pensiero. «I presupposti da cui noi muoviamo

I Max Stirner, al secolo Johann Kaspar Schmidt (18o6-56) proveniva dalle file dei liberi, che aveva - se possibile - superato in astratti­smo. La sua opera più importante fu Der Einzige und sein Eigentum (L'unico e la sua proprietà, 1845), teorizzazione dell'individualismo anarchico. Alla critica di Stirner è dedicata una parte cospicua de L'ideologia tedesca.

2 Queste pagine vennero pubblicate postu­me da Engels, con l'avvertenza che «sono ap-

punti per un lavoro ulteriore, buttati giù in fretta, non destinati in alcun modo alla pubblicazione, ma d'un valore inestimabile come il primo docu­mento in cui è deposto il germe geniale della nuova concezione del mondo ».

3 Anche quest'opera restò inedita; ultimata a Bruxelles nell'estate del '46, per difficoltà di ca­rattere editoriale non poté vedere la luce; venne pubblicata solo nel 1932.

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non sono arbitrari, non sono dogmi; sono presupposti reali, dai quali si può astrarre solo nell'immaginazione. Essi sono gli individui reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione. Questi presupposti sono dunque costatabili per via puramente empirica. »

In un'analisi storica breve ma di amplissimo respiro Marx dimostra la realtà dei presupposti materiali di ogni discorso teorico: il primo presupposto è « che per poter "fare storia" gli uomini devono essere in grado di vivere», il che, molto concretamente, significa mangiare, bere, vestire ed abitare. E gli individui « umani » sono tali proprio perché hanno una storia che li distingue dagli animali (legati staticamente alla loro naturalità immediata), ed hanno storia perché produ­cono i propri mezzi di sussistenza, la « loro stessa vita materiale ». E poiché questa produzione è storica, degli uomini si dà solo scienza storicamente deter­minata: « Come gli individui esternano la loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono coincide dunque con la loro produzione, tanto con ciò che producono quanto col modo come producono. Ciò che gli individui sono dipende dunque dalle con­dizioni materiali della loro produzione. »

Ma conoscere in modo determinato, storico, non vuol dire conoscere solo il particolare, in modo atomistico, per cui ogni fenomeno starebbe per conto suo, irriducibile agli altri e con essi non relazionabile. Noi non conosciamo la produ­zione in astratto, ma forme di produzione storicamente determinate: tribale, schiavistica, feudale, capitalistica; ma evidentemente non le conosceremmo, cioè non ne avremmo scienza, se non potessimo istituire una relazione universale che le abbracci tutte. Occorre quindi definire categorie sì universali, ma non astratte; categorie storiche che seguano il movimento storico della produzione stessa; unitarie per tutto il mondo della produzione, ma via via determinate e determi­nanti, cioè esprimenti la peculiarità specifica dei singoli modi della produzione. Ne L'ideologia tedesca, la più importante di queste categorie universali determinate è la divisione sociale de/lavoro.

« Per poter " fare storia " gli uomini devono essere in grado di vivere », cioè di soddisfare i bisogni vitali; dunque « la prima azione storica è la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa ». La produzione della vita materiale avviene sempre e necessariamente in un con­testo sociale, la cui forma originaria, naturale, è la famiglia. Se della storia che da questa prima forma della produzione e della riproduzione prende le mosse vo­gliamo avere scienza, cioè «sapere reale», occorre che già nell'elementare sistema dei bisogni della famiglia originaria rintracciamo, in « latenza », le premesse ma­teriali (reali) della necessaria negazione di questa forma di produzione e del passag­gio a quella successiva. Un ulteriore presupposto del materialismo storico è dun­que che non si può soddisfare nessun bisogno materiale, per elementare che sia, senza con ciò stesso dar luogo a bisogni ulteriori, frutto storico del processo

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di produzione per il soddisfacimento del primo bisogno: « Il primo bisogno soddisfatto, l'azione del soddisfarlo e lo strumento già acquisito di questo sod­disfacimento portano a nuovi bisogni: e questa produzione di nuovi bisogni è la prima azione storica. »

Col che, abbiamo enucleato tre aspetti del « sapere reale » espresso dal mate­rialismo storico: 1) bisogni reali e loro soddisfacimento con la produzione dei mezzi per soddisfarli; z) contesto sociale, a partire dalla forma elementare (fa­miglia); 3) produzione di sempre nuovi bisogni. «Questi tre aspetti dell'attività sociale non vanno concepiti come tre gradi diversi, ma appunto solo come tre aspetti, o come tre " momenti ", i quali sono esistiti fin dall'inizio della storia e fin dai primi uomini e ancor oggi hanno il loro peso nella storia. »

I rapporti che gli uomini istituiscono tra loro come produttori dà luogo alla società civile, che a sua volta condiziona la società politica e tutte le altre forme sovrastrutturali, modellandole a propria immagine: « Questa società civile è il vero focolare, il teatro di ogni storia, e si vede quanto sia assurda la concezio­ne della storia finora corrente, che si limita alle azioni di capi e di stati e trascu­ra i rapporti reali. »

La categoria principale de L'ideologia è, come dicevamo, la divisione sociale del lavoro, la cui prima forma comporta subito una divisione della proprietà, cioè dei « rapporti fra gli individui in relazione al materiale, allo strumento e al prodotto del lavoro », sicché « divisione del lavoro e proprietà privata sono espres­sioni identiche; con la prima si esprime in riferimento all'attività esattamente ciò che con la seconda si esprime in riferimento al prodotto dell'attività». Le forme fondamentali di divisione del lavoro e di rapporti di proprietà sono le seguenti:

Proprietà tribale: la divisione del lavoro vi è pochissimo sviluppata, come prosecuzione naturale della divisione del lavoro nella famiglia primitiva sulla base delle diverse caratteristiche fisiche reali dei due sessi, dell'età, ecc. La divisione familiare del lavoro conteneva in latenza la divisione tribale del lavoro; analoga­mente, nella famiglia sono contenute in latenza l'autorità dei capi tribù e la schia­vitù.

Il complesso di relazioni tribali contiene a sua volta in latenza la forma « della comunità antÙ'a e dello stato, che ha origine dall'unione di più tribù in una città, mediante patto o conquista, e in cui continua ad esistere la schiavitù ». La divi­sione fondamentale del lavoro è quella tra cittadini e schiavi: lo sfruttamento del lavoro schiavistico è attuato dalla collettività dei cittadini « liberi », la cui pro­prietà è dunque, originariamente, collettiva. Da questa divisione del lavoro e con­seguenti rapporti di proprietà deriva l'organizzazione politica dello stato antico. Incessantemente si sviluppano le latenze della forma successiva; ad esempio i contrasti e le guerre tra gli stati in cui predomina politicamente la città e quelli in cui predomina la campagna; lo sviluppo, accanto alla proprietà collettiva, di

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proprietà private immobiliari e mobiliari; la concentrazione di queste proprietà nelle mani di pochi possidenti, ad esempio i patrizi romani, e la parallela paupe­rizzazione dei piccoli contadini plebei.

Dalla crisi del mondo antico nasce la terza forma} che è la proprietà fettdale o degli ordini, in cui la divisione del lavoro è ormai la seguente: nella campagna grandi proprietari ai quali sono asserviti piccoli contadini; nella città le corpora­zioni, organizzazioni feudali dell'artigianato, basate principalmente sul lavoro per­sonale dell'artigiano e lo sfruttamento dei garzoni apprendisti.

Nel modo di produzione feudale, Marx enuclea la latenza di quello capita­listico. Inizialmente, causa la ristrettezza del mercato, gli artigiani erano ad un tempo produttori e commercianti dei propri prodotti, ma « la successiva esten­sione della divisione del lavoro fu la separazione tra produzione e relazioni com­merciali, la formazione di una classe speciale di commercianti». L'estendersi dei mercati porta a relazioni tra le città, che si specializzano in determinati rami produttivi o commerciali. « La divisione del lavoro fra le diverse città ebbe come prima conseguenza il sorgere delle manifatture, rami di produzione scaturiti dal sistema corporativo. » Parallelamente, abbiamo la formazione del mercato interna­zionale e la concentrazione dei capitali. Il capitale manufatturiero, latente nelle corporazioni, affermandosi non poteva che portare alla distruzione delle corpora­zioni stesse, che limitavano la sua espansione e soprattutto gli impedivano di as­sumere mano d'opera salariata a basso prezzo, attingendo non ai garzoni, ma a quella massa di servi della gleba fuggitivi o scacciati dalla campagna che dalle corporazioni non era accolta: i « vagabondi » del declino feudale, primo esercito di riserva di mano d'opera capitalistica. Questo processo giunse al culmine, dap­prima in Inghilterra: « La concentrazione del commercio e della manifattura, che nel secolo diciassettesimo si sviluppò ininterrottamente in un solo paese, l'In­ghilterra, creò gradualmente per questo paese un corrispondente mercato mon­diale e quindi una domanda per i prodotti manufatti di questo paese che non po­teva essere più soddisfatta dalle forze produttive industriali allora esistenti. » Que­sta domanda crescente al di là delle forze produttive fu la forza motrice che, creando la « grande industria », diede luogo alla società capitalistica moderna, e si conquistò il diritto alla libera concorrenza, abbattendo con le rivoluzioni bor­ghesi lo stato politico che corrispondeva alla società civile feudale.

Così Marx ci mostra come ogni forma di organizzazione sociale della produ­zione porti necessariamente a una forma successiva, che nega quella anteriore nel momento stesso in cui ne afferma la latenza. Non si tratta quindi mai di una nega­zione astratta, nichilistica, ma sempre di una negazione determinata, che è nel con­tempo affermazione di una forma di produzione più articolata e sviluppata. Anche il sistema capitalistico contiene in latenza quello superiore: il sistema comunista.

La forza motrice fondamentale di tutto questo processo storico è la lotta di classe. « Con la divisione del lavoro si dà la possibilità, anzi la realtà, che l'attività

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spirituale e l'attività materiale, il godimento e il lavoro, la produzione e il con­sumo tocchino a individui diversi »; la divisione del lavoro dunque « implica in pari tempo anche la ripartizione, e precisamente la ripartizione ineguale, sia per quantità sia per qualità, del lavoro e dei suoi prodotti ». Da questa ineguaglianza scaturiscono i conflitti di classe, che si prolungano ed ingigantiscono attraverso i modi di produzione che abbiamo delineato: schiavi e cittadini, servi della gleba e feudatari, capitalisti e proletari sono protagonisti di una lotta di classe incessante. Insieme ai modi di produzione, anche le classi sono storicamente determinate, come chiarisce limpidamente Engels nei Grundsatze des Kommunismus (Principi del comunismo, I 847): il proletariato non è caratterizzato, in modo generico, dallo « sfruttamento », ma da uno sfruttamento ed una divisione del lavoro e della proprietà storicamente determinati: « Il proletariato è quella classe della società che trae il suo sostentamento soltanto ed unicamente dalla vendita del proprio lavoro ... è in una parola la classe lavoratrice del secolo decimonono ... Ci sono sem­pre state classi povere e lavoratrici; e le classi lavoratrici sono state per lo più po­vere. Ma non ci sono stati sempre poveri, lavoratori, che vivessero nelle condi­zioni ora indicate », così come non vi è sempre stato un mercato capitalistico mon­diale, né una proprietà capitalistica, né una divisione capitalistica del lavoro.

La società civile, « forma di relazioni determinata dalle forze produttive esi­stenti in tutti gli stadi storici », è quindi divisa in classi « determinate dalla divi­sione del lavoro » e caratterizzate da interessi materiali antagonistici. In ogni for­ma di produzione vi è sempre una classe dominante, nel senso preciso che « domina tutte le altre » socialmente e politicamente. La classe dominante è egemonica a livello della società civile, e lo stato politico altro non è che lo strumento con cui essa esercita il suo predominio assoluto, la sua dittatura (non importa se velata da forme apparentemente «democratiche», come le forme della democrazia rap­presentativa borghese, il suffragio universale o la divisione dei poteri) su tutte le altre classi.

Le grandi rivoluzioni segnano le date storiche del crollo dell'egemonia civile e politica di una classe e della presa del potere da parte di un'altra classe. Come il soddisfacimento di un sistema di bisogni comporta la creazione di nuovi bisogni, così anche il modo di produzione che soddisfa ad un sistema di bisogni entra in contrasto con il nuovo modo di produzione latente nei nuovi bisogni che sono nati. La stessa relazione sociale che in un determinato periodo storico appariva po­sitiva, ad esempio le corporazioni medioevali, diviene così, proprio perché la pro­duzione medioevale contiene in latenza quella capitalistica, un intralcio allo svi­luppo della produzione. Il susseguirsi di queste forme di produzione e di relazioni sociali ad esse proprie « formano in tutto lo sviluppo storico una serie coerente di forme di relazioni, la cui connessione consiste in questo, che al posto della for­ma di relazioni precedente, diventata un intralcio, ne viene sostituita una nuova, corrispondente alle forze produttive più sviluppate ». Tutto il processo storico

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passa dunque attraverso la negatività: opposizioni e contraddizioni (produttive, ideologiche, politiche ecc.) sono in latenza all'interno di ogni stadio, si svilup­pano necessariamente, e portano alla negazione di quello stadio, all'afferma­zione - mediante rivoluzione - dello stadio successivo. Il capitalismo rappre­senta il risultato, raggiunto mediante negazioni rivoluzionarie successive, de­gli stadi precedenti, ed è il culmine negativo per due versi: I) perché rappresenta il risultato di tutte le negazioni anteriori; z) perché in esso tutta l'inumanità di un processo produttivo non dominato dall'uomo ·- da cui al contrario l'uomo è dominato - giunge al culmine, e si presenta su scala mondiale con radicalizza­zioni di massa mai viste prima. Il comunismo latente nel capitalismo rappre­senta quindi la negazione della negazione più estrema, e con ciò la vera afferma­zione dell'uomo.

Il comunismo sopprimerà il carattere naturale della divisione del lavoro e della proprietà. Una valutazione globale dei modi di produzione sinora esistiti ci mo­stra che la divisione del lavoro non è dominata dagli individui, ma al contrario li domina, ergendosi contro di essi e dando luogo ad una serie di relazioni ma­teriali e sociali che opprimono gli uomini, sono loro estranee. Già nella tribù, ad esempio, l'adolescente e la donna non sceglievano liberamente di essere schiavi, ma lo erano in modo « naturale », immediato. Questa estraniazione insita nella divisione naturale del lavoro si ingigantisce nel corso della storia. « La divisione del lavoro offre anche il primo esempio del fatto che fin tanto che gli uomini si trovano nella società naturale, fin tanto che esiste, quindi, la scissione fra interesse particolare e interesse comune, fin tanto che l'attività, quindi, è divisa non volontariamente ma naturalmente, l'azione propria dell'uomo diviene una potenza a lui estranea, che lo sovrasta, che lo soggioga, invece di essere da lui dominata. Cioè appena il lavoro comincia ad essere diviso ognuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi di vivere. »

Fondamentale è la « divisione fra il lavoro manuale e il lavoro mentale ». Con questa divisione accade che vi siano individui sussunti sotto il lavoro men­tale, la cui attività esclusiva diviene la produzione della cultura intesa come asso­lutamente autonoma dalla prassi materiale: l'ideologia. Ovviamente questa auto­nomia è illusoria: « Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello del­l'uomo sono necessarie sublimazioni del processo materiale della vita, empirica­mente constatabile e legato a presupposti materiali. Di conseguenza la morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, ·e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non conservano oltre la parvenza dell'autonomia. Esse non hanno storia, non hanno sviluppo, ma gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è la

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coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza. » La stessa classe che detiene l'egemonia a livello della società civile e dello stato politico, la detiene anche a livello ideologico: « le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti », poiché « le idee dominanti non sono altro· che l'espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee », rapporti che però la stessa classe dominante pre­senta e difende come idee autonome.

La speculazione si innesta proprio sull'illusoria autonomia delle idee. Qui Marx esamina ancora una volta Hegel, che continua a considerare l'unico idea­lista da prendersi in seria considerazione: una volta che le idee dominanti siano illusoriamente separate dalla classe dominante e dalle relazioni materiali che la rendono tale,« è facilissimo astrarre da queste varie idee "l'Idea", ecc., come ciò che domina la storia, e concepire così tutte queste singole idee e concetti come " autodeterminazioni " del concetto che si sviluppa nella storia». Così Hegel « ar­riva a confessare, alla fine della sua filosofia della storia, " di aver considerato soltanto il processo del concetto " ».

Marx al contrario muove non dai concetti, ma dalle « cose così come real­mente sono e sono accadute »; con questa impostazione, « ogni profondo pro­blema filosofico si risolve con la massima semplicità in un fatto empirico ». Ma per «fatto empirico» è ben lungi dall'intendere il mero fatto particolare slegato dal complesso delle relazioni e delle categorie scientifiche (divisione del lavoro, classe sociale, società civile, produzione ecc.) che ne riflettono ed esprimono il movimento reale. La riduzione dei « profondi problemi filosofici » a « fatti empi­rici » non significa che la teoria non abbia valore alcuno, bensì che essa deve sì generalizzare, mettere in relazione, ma senza disconoscere l'esistenza e l'incidenza dei presupposti materiali, bensì inserendoli in una totalità organica che, basandosi su questi presupposti, vi faccia costante e preciso riferimento. « I suoi presupposti sono gli uomini, non in qualche modo isolati e fissati fantasticamente, ma nel loro processo di sviluppo, reale ed empiricamente costatabile, sotto condizioni deter­minate. Non appena viene rappresentato questo processo di vita attivo, la storia cessa di essere una raccolta di fatti morti come negli empiristi che sono anch'essi astratti, o un'azione immaginaria di soggetti immaginari, come negli idealisti.» Il «sapere reale» che Marx ci ha delineato in queste pagine è quindi, radicalmente antispeculativo, ma non certo affastellamento disordinato e incoerente di fatti « empirici » isolati. La filosofia continua ad essere, ma non più illusoriamente « autonoma », bensì « sintesi dei risultati più generali che è possibile astrarre dall'esame dello sviluppo storico degli uomini».

Questa critica della speculazione consente a Marx di ribadire la distinzione tra Hegel ed i suoi epigoni: seppure nel viluppo mistico, Hegel ha colto la realtà come oggetto storico, e la sua costruzione speculativa ha il merito di investire « tutta la storia », e questo « non è possibile senza vaste conoscenze positive,

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senza addentrarsi, almeno a tratti, nella storia empirica, senza grande energia e profondità »; gli epigoni invece applicano meccanicamente, in modo caricatu­rale, gli schemi speculativi hegeliani, senza avere più nessuna conoscenza empi­rica della storia.

Dalla profonda convinzione di Marx che i fatti empirici vadano inseriti in una visione dialettica e scientifica discende anche la critica a Feuerbach: questi è un « materialista » del tutto astratto, proprio perché non ha compreso che la realtà non è un datum statico, e tale difetto è comune a tutte le forme tradizionali di materialismo, ignare della storia e della dialettica. « Il difetto principale di tutto il materialismo passato- compreso quello di Feuerbach --è che l'oggetto, la realtà, il sensibile, è stato concepito solo sotto la forma di oggetto o di intttizione; ma non come attività umana sensibile, come attività pratica, non soggettivamente. » Non avendo colto la realtà come produzione e relazioni materiali ad essa connesse, Feuerbach resta impigliato in due accezioni opposte ma entrambe errate del­l'uomo: l'una intuitiva, crassamente empirica, ci presenta «l'uomo reale, indi­viduale, in carne ed ossa»; l'altra essenzialistica, atemporale, risale immediati­sticamente al Wesen umano. Così, « fin tanto che Feuerbach è materialista, pet lui la storia non appare, e fin tanto che prende in considerazione la storia, non è un materialista. Materialismo e storia sono per lui del tutto divergenti».

Causa questa incomprensione del processo storico reale, Feuerbach ignora la negatività, e nella sua critica alla speculazione ed alla religione tende alla restaura­zione pura e semplice della positività immediata, del dato sensibile. Non segue dunque la negatività nel suo movimento storico reale, non esamina le contrad­dizioni insite nella realtà della società civile, che sono la causa ultima delle alie­nazioni ideologiche, speculative o religiose. « Feuerbach procede dal fatto che la religione rende l'uomo estraneo a se stesso e sdoppia il mondo in un mondo religioso e in un mondo reale. E la sua opera consiste in ciò: risolvere il mondo religioso nella sua base mondana. Gli sfugge però che, compiuta quest'opera, gli resta ancora da fare la cosa principale. » L'estraniazione infatti altro non è che una delle forme dell'ergersi delle condizioni materiali della produzione e delle relazioni ad essa connesse contro gli uomini reali. Per « il materialista pratico, cioè per il comttnista », non basta quindi risolvere il mondo religioso nella sua base mondana, bensì, «si tratta di rivoluzionare il mondo esistente, di metter mano allo stato di cose incontrato, di trasformarlo ». Da qui la famosissima xi glossa: « I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutar/o. »

Si tratta, cioè, di instaurare il comunismo. La delineazione che Marx ed Engels ci danno di questo problema è fondamentale, sia perché qui si riassume tutta la loro concezione del mondo, sia perché ne illustrano i caratteri in modo scienti­fico, non velleitario né utopistico, basandosi su di una interpretazione net·essaria e reale della dialettica storica, delle contraddizioni opgettive che porteranno all'af-

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fermarsi del comunismo come latenza del sistema capitalistico di produzione: « Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà deve conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento reale risultano dal presupposto ora esistente. »

Lo stato presente, si è visto, è di dominio della divisione del lavoro sull'uomo e non viceversa; non solo: il capitalismo è la radicalizzazione estrema di questa negatività, al punto che l'umanità tutta è scissa in due classi fondamentali: un pugno di capitalisti proprietari ed una enorme massa di proletari sfruttati. Questa enorme massa è in contraddizione inconciliabile, antagonistica, con il capitale, sicché il sistema capitalistico di produzione (e il potere politico ad esso connesso), è divenuto per la stragrande maggioranza dell'umanità del tutto «"insostenibile", cioè un potere contro il quale si agisce per via rivoluzionaria ». Questa radi­calizzazione dei contrasti costituisce la prima condizione della possibilità di una ri­voluzione comunista.

La seconda condizione è che si sia ormai giunti alla storia universale, cioè al mercato mondiale, ad uno sviluppo reale delle forze produttive capace di pro­durre un'enorme massa di beni; questo «è un presupposto pratico assolutamente necessario, perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria». La creazione di questo mercato mondiale, universale, istituisce relazioni universali tra gli sfruttati, :rendendo i proletari di tutto il mondo oggettivamente solidali tra loro, facendone « individui empiricamente universali ».

Il comunismo sopprime il carattere naturale della divisione sociale del lavoro; naturalità in forza della quale la divisione sociale del lavoro e le relazioni mate­riali che ne scaturiscono si ergono contro gli uomini come potenze estranee. Il comunismo attua l'assoggettamento cosciente della produzione agli individui umani associati, ed è opera dei proletari rivoluzionari, dei membri di una classe che, avendo caratteristiçhe ed interessi universali, lotta per l'abolizione di tutte le classi. « Il comunifrri~ si distingue da tutti i movim~nti finora esistiti in quanto rovescia la base di tutti i rapporti di produzione e le forme di relazione finora esistite e per la prima volta tratta coscientemente tutti i presupposti naturali come creazione degli uomini finora esistiti, li spoglia del loro carattere naturale e li assoggetta al potere degli individui uniti. » Finora una simile emancipazione non aveva mai potuto aver luogo, perché non era ma} sorta, prima del proletariato, una classe con obiettivi veramente universali. Tutte le precedenti appropriazioni :rivoluzionarie furono limitate perché le condizioni materiali della produzione non erano ancora giunte alla universalità del mercato mondiale, e perché, sussunti in una classe con interessi particolari, i rivoluzionari del passato non avevano fatto altro che ridistribuire la proprietà a vantaggio della propria classe. Così ac­cadde con la rivoluzione borghese, che aveva abbattuto la proprietà feudale e contemporaneamente instaurato la proprietà capitalistica. La :rivoluzione prole-

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taria invece abbatterà ogni forma di proprietà privata sopprimendo il carattere naturale della divisione sociale del lavoro. Finora «ciascuno ha una sfera di at­tività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfug­gire », invece « nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di atti­vità esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi que­sta cosa, domani quell'altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia: senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico ».

VII · SCIENZA DELLA RIVOLUZIONE

Nella primavera del '46 Marx ed Engels organizzarono, con centro a Bru­xelles, una rete di «comitati di corrispondenza» ramificati in Francia, Germania ed Inghilterra, allo scopo di propagandare la teoria scientifica del socialismo, di analizzare e centralizzare le esperienze di lotta per dare coesione teorica ed orga­nizzativa al movimento. Già ne L'ideologia tedesca avevano polemizzato contro il cosiddetto « vero socialismo », ideologia sentimentalistica ed imbelle che si ri­chiamava all'antropologia di Feuerbach per predicare il superamento della mi­seria, speculativamente trasfigurata in «alienazione» dell'« essenza» dell'uomo, tramite l'amore universale. Questo socialismo sciropposo aveva un organo di stampa nel « Volkstribun » ( « Tribuna del popolo » ), redatto e pubblicato negli Stati Uniti da Hermann Kriege. Negando la lotta di classe e la necessità di una rivoluzione antiborghese violenta, il « vero socialismo » ostacolava la presa di coscienza rivoluzionaria della classe operaia. Marx ed Engels stilarono dunque una mozione di censura del «Tribuna del popolo», smantellandone l'ideologia piccolo borghese e denunciandone sia il tradimento pratico, sia l'inconsistenza scientifica (maggio '46). Hess mantenne una posizione intermedia, mentre W eitling, ormai sprofondato in un comunismo evangelico e reazionario, si schierò con Kriege, raggiungendolo in America. In Europa restava invece un altro por­tavoce del «vero socialismo», Karl Griin (r8r7-87), che allora risiedeva a Parigi ed aveva allacciato stretti rapporti con Proudhon. Fu per contrastare la loro in­fluenza che Engels si recò a Parigi, sostenendo durissimi scontri con i « veri so­cialisti» ed i seguaci dell'ugualitarismo piccolo-borghese propugnato da Proudhon nel 5_ystème des contradictions économiques, ou philosophie de la misère (Sistema delle con­traddizioni economiche, o filosofia della miseria, ottobre '46). E fu sempre in questo contesto di lotta politica che Marx criticò l'opera di Proudhon, pubblicando la }rfisère de la philosophie (Miseria della filosofia, I 847; originale in francese).

Non ci soffermiamo qui sul pensiero economico di Marx, per il quale rin­viamo alla trattazione del Capitale, e cerchiamo piuttosto di esporre i caratteri essenziali della sua impostazione scientifica, quali traspaiono dall'articolato giu-

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dizio sull'economia politica classica e dalla tagliente distinzione tra la scientificità di Ricardo ed il guazzabuglio di Proudhon. 1 Ricardo astrae a partire dai fenomeni reali della produzione capitalistica, e giunge a categorie che di tali fenomeni e del­le loro interrelazioni costituiscono una spiegazione ed una sistematizzazione, sic­ché si può affermare che « Ricardo ha esposto scientificamente la teoria della so­cietà attuale, della società borghese». L'astrazione proudhoniana è invece anti­scientifica, « ideologica »: prescinde dalla realtà del modo di produzione borghese, anziché dai suoi aspetti contingenti, empiricamente inessenziali: fa astrazione, ad esempio, non dall'individualità empirica dei singoli compratori, bensì dalla do­manda in generale, cioè dall'esistenza reale di compratori; non dai singoli vendi­tori, ma dall'offerta in generale. E poiché compratori e venditori, domanda ed offerta esistono nel mondo capitalistico di produzione che Proudhon ambirebbe criticare, alla fine questi è pur costretto a reintrodurli, ma non quali categorie astratte in guisa scientifica, bensì come astrazioni speculative, qualità puramente metafisiche, prive di riscontro reale, di due fantomatici « libero compratore » e «libero venditore».

L'astrazione scientifica ricardiana invece muove dalla realtà per giungere a categorie che la interpretano. Peculiarità di categorie frutto di astrazione scienti­fica è lo spiegare, a partire da uno stesso principio fondamentale, fenomeni che si presentano come opposti, quali profitto, salario, rendita. « Ricardo constata la verità della sua formula facendola derivare da tutti i rapporti economici e spie­gandosi in questo modo tutti i fenomeni, anche quelli che, a tutta prima, sembrano contraddirla, come la rendita, l'accumulazione dei capitali e il rapporto in cui si trovano salario e profitti; ciò che fa della sua dottrina un sistema scientifico. » All'opposto Proudhon: non parte dai fenomeni per darne la categoria universale, bensì da ipotesi del tutto arbitrarie per poi andare alla ricerca non dell'universo dei fatti, bensì di alcuni fatti economici isolati, che ritaglia dal loro contesto reale, deforma e falsifica, per presentarli come esempi, applicazioni delle sue ca­tegorie metafisiche.

Chiarita la distinzione tra la scienza ricardiana e la non-scienza proudhoniana, la specificità della scienza marxista rispetto all'economia politica classica risalta in primo 'luogo dall'indicazione dei limiti e delle lacune di Ricardo: scienziato dei rapporti di produzione capitalistici, egli - secondo il giudizio espresso da Marx nella Miseria della filosofia, e più tardi approfondito ---,-- espone scientificamente questi rapporti e solo questi. Ricardo e tutt! gli economisti classici « ci spiegano come avviene la produzione entro questi rapporti dati, ma ciò che essi non ci spiegano è .come questi rapporti si producano, vale a dire non ci spiegano il movimento

I Pierre J oseph Proudhon (I 809-65) era dive­nuto famoso con la pubblicazione di un pamphlet, Qrlest-ce que la propriété? (Che cosa è la proprietà?, I84o), che restò la sua opera migliore: non origi­nale quanto ai concetti, ma vigoroso ed efficace

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nella polemica contro il grande capitale. Man mano cadde poi sempre più nel dottrinarismo, convinto che una politica creditizia e mutualistica favore­vole ai ceti medi bastasse a risolvere tutto.

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storico che li ha generati ». Il non riuscire a cogliere il carattere storicamente de­terminato di questi rapporti di produzione li induce fatalmente ad assolutizzarne le categorie. Ricardo, se così si può dire, spiega scientificamente il momento storico capitalistico, ma non il movimento storico complessivo della produzione. Come tutti gli economisti classici, anch'egli ritiene semplicisticamente che tutti i modi di pro­duzione precapitalistici fossero anomali. «Gli economisti hanno un singolare modo di procedere. Non esistono per essi che due tipi di istituzioni, quelle del­l'arte e quelle della natura. Le istituzioni del feudalesimo sono istituzioni artifi­ciali, quelle della borghesia sono istituzioni naturali. » In tal modo sviluppano una ideologia conservatrice: « Dicendo che i rapporti attuali -- i rapporti della produzione borghese - sono naturali, gli economisti fanno intendere che si tratta di rapporti entro i quali si crea la ricchezza e si sviluppano le forze produttive conformemente alle leggi della natura. Per cui questi stessi rapporti sono leggi naturali indipendenti dall'influenza del tempo. Sono leggi eterne, sono quelle che debbono sempre reggere la società. Così c'è stata storia, ma ormai non ce n'è più. C'è stata storia perché sono esistite delle istituzioni feudali e perché in queste istituzioni feudali si trovano dei rapporti di produzione del tutto differenti da quelli della società borghese, che gli economisti vogliono spacciare per naturali e quindi eterni. »

«L'albero può preferire la calma, ma non per questo il vento cesserà» (Mao Tsetung): la storia, l'ingigantirsi incessante dei contrasti di classe smentiscono ogni illusoria limitazione del carattere sostanziale e rivoluzionario degli antago­nismi di classe, abbattono qualsiasi tentativo di assolutizzare e conservare indefi­nitamente i rapporti di produzione borghesi. Il vento della lotta di classe con­tinua a soffiare, « e più il carattere antagonistico viene in luce, più gli economisti, i rappresentanti scientifici della produzione borghese, si imbrogliano con le loro stesse teorie, e nascono diverse scuole». A chi resta impigliato nell'ambito delle categorie borghesi e non supera la pretesa assolutezza del modo di produzione capitalistico, non è più possibile essere « scienziato »: diviene apologeta. Così la scuola romantica, i cui esponenti «posano a fatalisti annoiati che, dall'alto della loro posizione, gettano un superbo sguardo di sdegno sugli uomini-mac­china che fabbricano le ricchezze », e giustificano ideologicamente la sferza del padrone perché rientrerebbe nell'ordine naturale ed insopprimibile delle cose. Così gli esponenti della scuola umanitaria, che non pongono in discussione il si­stema borghese, ma cercano dei palliativi ai contrasti reali, propinando sussiegose prediche ai padroni di essere meno rapaci e agli operai di essere frugali. Nella scuola umanitaria, il legame tra teoria e realtà è ormai scardinato: i principi teo­rici sono capitalistici (che il mondo di produzione borghese sia l'unico naturale), la realtà invocata è una chimera velleitaria e moralistica.'Ma almeno questa scuola ancora riconosce che il capitalismo genera la miseria, anche se poi piatisce per lenirla senza intaccare il sistema; la scuola filantropica va più in là: nega la neces-

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sità dell'antagonismo di classe, e vorrebbe che tutti fossero borghesi, membri non sfruttati di una società capitalistica, mentre questa società è proprio basata sullo sfruttamento della stragrande maggioranza. Cercando, a livello teorico, di conciliare l'inconciliabile, i filantropi canonizzano più ancora che non i fatalisti o gli umanitari quelle categorie borghesi che pretendono di combattere, perché cercano di smussare le contraddizioni del sistema, di velarne la insopprimibile natura di sfruttamento.

Quanto a Proudhon, non è né un economista classico né un comunista, sia pur utopista. Sbaglia, se così si può dire, al quadrato: in primo luogo «cade nell'errore degli economisti borghesi che considerano come eterne queste categorie economiche e non come leggi storiche, che sono leggi soltanto per un particolare sviluppo storico, per un definito sviluppo delle forze produttive ». In secondo luogo, sbaglia rispetto agli stessi economisti classici causa l'uso spe­culativo dell'astrazione: le sue categorie non sono l'universalizzazione dei fatti economici, seppur non in forma storicamente determinata, ma chimere meta­fisiche.

Questo uso fallace dell'astrazione, fa esclamare ironicamente a Marx: «Eccoci in piena Germania! » Si tratta infatti della stessa distorsione speculativa che aveva criticato ne L'ideologia tedesca, tanto più che Proudhon ammanta le sue corbellerie economiche con un frasario frettolosamente hegeliaiw, del quale fa un uso mal­destro per esasperare le lacune -la sordità alla storia- di Ricardo. L'economia classica assolutizza le categorie capitalistiche? Ebbene, Proudhon esaspera questa assolutizzazione, prescindendo in modo esplicito e dichiarato dalla storia e pronunciandosi per la speculazione: «Noi, » scrive, «non facciamo una storia secondo l'ordine dei tempi, ma secondo la successione delle idee. Le fasi o categorie econo­miche si manifestano talvolta contemporaneamente, talvolta no. Ciò nondimeno, le teorie economiche hanno la loro successione logica e una loro serie nell'intelletto: è questo ordine che noi ci vantiamo di aver scoperto. » Come negli ideologi te­deschi, ogni cosa reale è ridotta a categoria logica, e come ogni speculazione anche la proudhoniana sbocca, in ultima analisi, in empiria volgare: pretende di criticare il modo di produzione borghese, ed invece ne fa la metafisica applicata, accettandolo nella forma più acritica possibile, perché « invece di considerare le ca­tegorie economiche come espressioni teoriche dei rapporti di produzione storici, corrispon­denti a un determinato grado di sviluppo della produzione materiale, la sua immaginazione le trasforma in idee eterne, preesistenti ad ogni realtà, ed in tal modo per una via traversa si ritrova al suo punto di partenza: il punto di vista dell'economia bor­ghese».

Come aveva distinto tra il vigore dialettico di Hegel e lo scolasticismo degli epigoni, così ora Marx distingue non solo tra l'astrazione scientifica di Ricardo e quella fallace di Proudhon, ma anche tra la dialettica hegeliana e la squallida caricatura che questi ne aveva fatta nel Sistema delle contraddizioni economiche. Da

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dialettico vero, seppur speculativo, Hegel non si pone il problema dei « lati buo­ni » e « cattivi » delle idee, bensì del loro movimento complessivo, intendendo il positivo al tempo stesso anche come negativo, e viceversa. Proudhon distingue invece pedantemente e moralisticamente tra « lati buoni » e « cattivi » delle ca­tegorie, non avvedendosi che « ciò che costituisce il movimento dialettico è la coesistenza dei due lati contradditori, la loro lotta e la loro fusione in una nuova categoria. Basta in realtà porsi il problema di eliminare il lato cattivo, per liqui­dare di colpo il movimento dialettico». Proudhon non giunge nemmeno a deli­neare un ordine speculativamente dialettico tra le categorie: le giustappone mec­canicamente, facendo ad esempio della categoria «fisco» l'antidoto del «lato cat­tivo » della categoria «monopolio». In tal modo «la successione delle catego­rie è diventata una sorta d'impalcatura. La dialettica non è più il movimento della ragione assoluta. Non vi è più dialettica: tutt'al più c'è solo un poco di mo­rale allo stato puro ».

Erede critico delle scoperte scientifiche dell'economia politica classica, di cui rinnova e riformula le categorie sì da abbracciare l'intero movimento della storia, Marx è erede anche del portato non moralistico della dialettica hegeliana, radical­mente rinnovata nell'ambito dell'impostazione generale del materialismo storico. Come Hegel, anche Marx ha quale oggetto non dicotomie tra bene e male, tra malefizi e contravveleni, bensì la totalità del movimento storico; diversamente da Hegel, quella di Marx è totalità non speculativa, fantasticamente ideale, bensì reale, materiale, basata sulla costatazione scientifica che i rapporti di produzione di una società formano sempre un tutto. Nel quadro del materialismo storico e della critica all'insofferenza filistea di Proudhon per il « lato cattivo », Marx ri­prende, rinnovandola radicalmente, la proposizione hegeliana che sia la «immane forza del negativo » a spingere innanzi la storia, ed afferma: « È il lato cattivo a produrre il movimento che fa la storia, determinando la lotta. » Che cosa significa allora porre, come fa Proudhon, il «problema» di purgare il capitalismo dei suoi « lati cattivi »? In ultima analisi, significa tentare di canonizzare come eterno proprio il capitalismo, perché si vorrebbe convincere chi subisce le conseguenze del « lato negativo » (sfruttamento) della totalità capitalistica - cioè il proleta­riato - che la miseria possa essere eliminata senza spazzar via le strutture capi­talistiche; si vorrebbe soffocare la presa di coscienza teorica della necessità di abbattere la borghesia con la rivoluzione. Nel «lato cattivo», nell'antagonismo delle contraddizioni, il materialismo marxista vede non già un incomodo da esor­cizzare, bensì la latenza del modo di produzione comunista: « di giorno in giorno diventa sempre più chiaro che i rapporti di produzione entro i quali si muove la borghesia non hanno un carattere unico, semplice, bensì un carattere duplice; che negli stessi rapporti entro i quali si produce la ricchezza, si produce altresì la miseria; che entro gli stessi rapporti nei quali si ha sviluppo di forze produt­tive, si sviluppa anche una forza produttrice di repressione; che questi rapporti

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producono la ricchezza borghese, ossia la ricchezza della classe borghese, solo a patto di annientare continuamente la ricchezza dei membri di questa classe, e a patto di dar vita a un proletariato ognora crescente. »

Anzi: la capacità di cogliere nel « lato cattivo » un portato positivamente dialettico, rivoluzionario, di delineare la gestazione di un mondo nuovo muoven­do dalle contraddizioni del regime capitalistico, questa capacità è il tratto distin­tivo del comunismo scientifico. Finché gli antagonismi della società borghese non erano ancora compiutamente sviluppati, finché la devastazione della miseria e delle crisi economiche non erano manifeste in tutta la loro brutalità, i socialisti ed i comunisti, teorici della classe operaia come gli economisti lo sono della borghe­sia, restarono 1ttopisti. Ma mano a mano che la stessa espansione capitalistica mise in risalto gli aspetti strutturalmente negativi di questo modo di produzione, sor­sero anche le premesse materiali per la presa di coscienza scientifica della necessi­tà di abbattere il regime borghese. I comunisti, « finché cercano la scienza e co­struiscono solo dei sistemi, finché sono all'inizio della lotta, nella miseria non vedono che la miseria, senza scorgere il lato rivoluzionario, sovvertitore, che rovescerà la vecchia società. Ma quando questo lato viene scorto, la scienza pro­dotta dal movimento storico - e al quale si è associata con piena cognizione di causa - ha cessato di essere dottrinaria per divenire rivoluzionaria ».

A proposito della ricardiana teoria del valore, Marx stesso caratterizzerà con estrema precisione ( 1 8 59) l 'uso moralistico che sin dal secolo scorso ne fece il socialismo piccolo-borghese: poiché, come ha indicato Ricardo, il valore di scam­bio di un prodotto è uguale al tempo di lavoro che vi è immedesimato, è evidente che il «valore di scambio» di una « giornata di lavoro » è uguale al suo «prodotto». In altri termini: il salario dovrebbe essere uguale al prodotto del lavoro. Nella realtà le cose però non stanno così: il lavoratore è sfruttato, cioè il suo « salario » è sem­pre inferiore al «prodotto» del suo lavoro. Che cosa dicevano allora questi pseudo­socialisti? «Presupposta l'esattezza teorica della formula [ricardiana], accusarono la prassi di contraddire la teoria e invitarono la società borghese a trarre prati­camente la presunta conseguenza del suo principio teorico » cioè ad introdurre l'ugualitarismo, equiparando, fermo restando il sistema borghese di produzione, «valore prodotto» dall'operaio e suo« salario». In tal modo i socialisti piccolo­borghesi si avvalevano, per propugnare l'ugualitarismo, di categorie classiche (va­lore, lavoro, scambio, salario), accettate senza una preliminare critica scientifica, dimenticando che l'economia politica classica, quale teoria della produzione bor­ghese, è la teoria non dell'uguaglianza, ma dello sfruttamento dell'uomo sull'uo­mo. Marx invece, pur riconoscendo il contributo scientifico dell'economia politica classica, non ne accetta passivamente le categ~rie: constata la loro insufficienza a spiegare il reale (ad esempio, in questo caso, lo sfruttamento del lavoro salariato), le riformula radicalmente alla luce del movimento storico complessivo delle forme di produzione, caratterizzandole e determinandole di specificità storica. Fermarsi

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al rilevamento di una contraddizione tra il dire (teoria: che il lavoro sia la misura di tutti i valori) e il fare (prassi: che il lavoro salariato sia pagato meno di quanto valga), e fare appello al galantomismo dei borghesi invitandoli a razzolare come predicano, conduce ad «una semplice applicazione della morale all'economia. Secondo le leggi dell'economia borghese, la maggior parte del prodotto non ap­partiene ai lavoratori che lo hanno creato. Se ora diciamo: è ingiusto, ciò non deve essere, ebbene, questo non ha nulla a che vedere con l'economia. Noi allora ci limitiamo ad affermare che quel fatto economico è in contraddizione con il nostro senso morale. Per questo Marx non ha mai fondato su questi fatti le sue rivendicazioni comuniste, bensì sul necessario crollo, che si verifica progressiva­mente sotto i nostri occhi, delle forme di produzione capitalistiche» (Engels).

Ma nella Miseria della filosofia questa valutazione critica radicale, questa rifor­mulazione globale del rapporto istituito da Ricardo tra «valore» e «lavoro» non era ancora del tutto compiuta. Di Proudhon, infatti, Marx mette ampiamente in rilievo sia le contraddizioni di carattere generale (assolutezza, apriorismo specula­tivo, astrazione fallace, cattiva empiria ecc.), sia le contraddizioni di carattere interno, specifico: mostrandone analiticamente i qui pro quo continui, quale ad esem­pio il circolo vizioso della pretesa di dedurre la divisione del lavoro a partire dalla supposizione che « più di una mano concorra alla produzione », il che ovviamente significa aver già supposto tutta una produzione basata sulla divisione del lavoro. Degli economisti classici, invece, e in particolar modo di Ricardo, Marx nella Mi­seria della filosofia, mette prevalentemente in luce le lacune di carattere generale (l'as­solutizzazione antistorica delle categorie), addentrandosi assai meno nell'analisi delle contraddizioni inerenti alle categorie ricardiane, considerate esclusivamente come teoria della produzione borghese; categorie che per il marxismo maturo non sono gli universali corretti nemmeno del solo modo di produzione capitalistico. Questa incompiutezza della critica delle categorie classiche fa sì che Marx non le rinnovi ancora radicalmente, tanto è vero che egli stesso accetta ancora l'interrela­zione valore-lavoro come era stata impostata da Ricardo, e« parla ancora del lavoro come di una merce, di acquisto e di vendita del lavoro anziché della forza-lavoro » (Engels). Parrebbe una pedanteria terminologica, ed è invece punto di grandissimo momento, come chiariscono le parole scritte da Engels nel I89I ad introduzione di uno scritto di Marx che risale a questo stesso periodo, Lohnarbeit und Kapital (Lavoro salariato e capitale), in cui ricorre la stessa lacuna: «Tra il I84o ed il I85o Marx non aveva ancora condotto a termine la sua critica dell'economia politica. Ciò avvenne solo verso la fine del decennio I 8 5 o-6o. I suoi scritti apparsi anteriormente al primo fascicolo, Per la critica dell'economia politica (I859), si allon­tanano quindi in tal uni punti da quelli che furono composti dopo il I 8 59, con­tengono espressioni e interi periodi che, confrontati con gli scritti successivi, appaiono infelici e persino inesatti. » Fondamentalmente, il problema è questo: nel '47 Marx non aveva ancora individuato la lacuna di Ricardo riguardo alla

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mancata distinzione tra «lavoro» e «forza-lavoro». Il marxismo maturo rileverà infatti in questa mancata distinzione della scuola di Ricardo (che riconduceva il valore delle merci a lavoro) una gravissima aporia resa evidente dall~ teoria del salario: «Non appena gli economisti applicarono alla merce" lavoro "questo mo­do di determinare il valore per mezzo del lavoro, caddero da una contraddizione in un'altra. Come viene determinato il valore del "lavoro "? » Per Ricardo, anche il « valore del lavoro » è determinato dalla « quantità di lavoro » che contiene: « Se il lavoro è la misura di tutti i valori, possiamo esprimere il " valore del lavoro " soltanto in lavoro. Ma non sappiamo assolutamente niente del valore di un'ora di lavoro, quando sappiamo soltanto che esso è uguale a un'ora di lavoro. In questo modo non ci siamo avvicinati di un capello al nostro scopo; ci aggiriamo in un circolo vizioso» (Engels). Dunque non solo Proudhon, ma anche Ricardo, secondo il marxismo maturo di Per la critica e del Capitale, 1

cade in circoli viziosi che denunciano la inadeguatezza scientifica dell'economia politica classica anche a spiegare tutti i fenomeni della produzione capitalistica. Per il marxismo maturo, dunque, la scuola di Ricardo non è scientificamente esau­riente nemmeno per il modo capitalistico di produzione, il che del resto è coe­rente con i presupposti fondamentali del materialismo storico: teoria compiuta­mente scientifica anche di un solo modo di produzione si ha solo ove sia acquisito a livello categoriale il carattere storicamente determinato di quel modo di pro­duzione stesso, sicché esso sia sistematizzato e compreso scientificamente come una tappa, un caso particolare dei modi di produzione esistiti, esistenti o latenti. Come le contraddizioni inerenti al quinto postulato di Euclide non sono risolu­bili nell'ambito della geometria euclidea, bensì solo di una geometria più gene­rale che consideri quella di Euclide come proprio caso particolare, così le con­traddizioni della teoria ricardiana non sono risolubili nell'ambito delle categorie borghesi classiche, ma solo in quello di una teoria più generale che sappia co­glierne il carattere specifico, storicamente determinato, riducendo la produzione capitalistica ad un modo particolare di produzione. A queste esigenze, che sono ignorate dalla categoria assoluta di «lavoro» formulata da .Ricardo, sod­disfa la categoria specifica, storicamente determinata, di «forza-lavoro». Po­sto in termini assoluti, l'interrelazione tra «valore» e «lavoro», e dunque tra «lavoro» e «salario», è irresolubile; mentre invece questa interrelazione è ri­solta da Marx con la categoria «forza-lavoro», merce specifica del capitalismo, propria solo di esso e dei suoi rapporti di produzione: in cambio del salario l'ope­raio non vende come merce il proprio « lavoro », o - espressione che ricorre ancora nella Miseria della filosofia - « lavoro-merce », « ma pone a disposizione del capitalista per un certo tempo (salario giornaliero) o per una determinata prestazione (salario a cottimo) la sua forza-lavoro, contro una determinata paga; egli cede, cioè vende, la sua forza-lavoro» (Engels). L'interrelazione categoriale I Sulle due opere testé citate si ritornerà ampiamente nel capitolo XIV.

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formulata da Ricardo tra valore e lavoro viene dunque completamente rinnovata da Marx: «Non è il lavoro ad avere un valore. In quanto attività creatrice di va­lore, esso non può avere un valore particolare così come la gravità non può avere un determinato peso, il calore una determinata temperatura, l'elettricità una de­terminata intensità di corrente. Non è il lavoro ad essere comperato e venduto come merce, ma la forza-lavoro. Non appena essa diviene merce, il suo valore si adegua al lavoro, in quanto prodotto sociale ad essa incorporato, ed è pari al lavoro socialmente necessario per la sua produzione e riproduzione. La compra­vendita di questa forza-lavoro sulla base di questo suo valore non contraddice dunque in alcun modo alla legge economica del valore» (Engels).

Non è un paradosso affermare che gli stessi punti «persino inesatti» del pensiero marxista anteriore a Per la critica ed al Capitale ci testimoniano l'assoluto rigore dei fondatori del socialismo scientifico: le correzioni apportate con lo sviluppo della teoria e con la costante verifica pratica delle categorie interpreta­tive mostrano la concezione scientifica del materialismo storico di Marx e di Engels, che non furono mai «economisti di tendenza», che coartassero i fatti per preconcetto amor di teoria e d'ideale: non le categorie ut sic interessano ai marxisti, bensì la comprensione del movimento reale della storia, sicché sprezzano la paura di misurarsi con la realtà, la paura di operare progressive integrazioni per giungere ad una comprensione sempre più esaustiva di essa. Dal che appare quanto poco marxiste siano interpretazioni che vorrebbero ridurre il marxismo stesso o ad una sorta di mitica illuminazione metodologica galileiana, avvenuta al momento della prima Auseinandersetzung con la speculazione hegeliana (I 843), o a repentine cd inesplicabili « cesure epistemologiche » - che tortuosamente rimandano ad un comtismo riveduto con schemi strutturalistici ed altri prodotti culturali alla moda - tra un Marx avviluppato nelle tenebre « prescientifiche » ed un Marx solarmente «scientifico ». A parte la discutibilità cronologica di queste «cesure », esse cancellano il carattere unitario di una visione del mondo che, proprio perché in continuo progresso, appare costantemente ispirata ad una impostazione sto­rica e dialettica, profondamente realistica e razionalistica.

Anche a Bruxelles Marx egemonizzò, a partire dall'estate del '47, un organo di stampa, la « Deutsche Brusseler Zeitung »(«Gazzetta tedesca di Bruxelles »),1

su cui commentava gli avvenimenti politici, seguendo con particolare attenzione il rapido evolversi della situazione prussiana, ove nel I847 Federico Guglielmo IV

era stato costretto da gravissime difficoltà finanziarie a convocare l'assemblea plenaria delle diete, atto che per moltissimi versi ricordava la convocazione degli stati generali fatta da Luigi XVI nel I 789. Marx ed Engels erano inoltre in con­tatto con la Lega dei giusti e con gli esponenti pil1 avanzati del cartismo inglese

r Anche questo periodico, che aveva ini­ziato le pubblicazioni nel gennaio del '47 aveva

esordito con una linea moderata, ma l'influenza di Marx lo aveva ben presto spostato a sinistra.

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e del socialismo francese, e proseguivano instancabilmente l'opera di chiarifica­zione ideologica in articoli di giornale, saggi e circolari.

Lo sforzo di guadagnare al marxismo i migliori membri della Lega ebbe pieno successo: un delegato dell'organizzazione si recò da Marx, a Bruxelles, e da Engels, a Parigi, chiedendo loro di entrare nella Lega per rinnovarla completa­mente sulla base del comunismo scientifico. Nella primavera del '47 Marx ed Engels entrarono nella Lega; in giugno ebbe luogo, a Londra, il congresso, al quale Engels partecipò come delegato della comunità di Parigi, mentre un altro convinto marxista, Wilhelm Wolff (1 8o9-64)- Marx gli dedicherà ad memoriam, il Capitale -fu deputato a rappresentare la comunità di Bruxelles. Il congresso de­liberò di mutare il nome in « Lega dei comunisti », approvò statuti democratici che impedivano l'affermarsi, di metodi cospirativi carbonari, adottò la concezione marxista e, su proposta presentata da Engels a nome di Marx, decise di sostituire il motto «tutti gli uomini sono fratelli », con uno nuovo, che esprimesse non una generica ed astratta fratellanza, ma l'unità combattente della classe operaia: «Pro­letari di tutti i paesi, unitevi! » Al secondo congresso, convocato per l'inverno stesso, venne demandata l'approvazione del manifesto programmatico del partito.

Marx ed Engels svolgevano intanto una prodigiosa mole di lavoro teorico e pratico. Marx fondò a Bruxelles un'organizzazione di massa, il «Circolo di studi dei lavoratori tedeschi di Bruxelles», cinghia di trasmissione della Lega per re­clutare nuovi membri, influenzare gli operai tedeschi immigrati in Belgio e, in collaborazione con associazioni consorelle belghe, gli operai belgi. Per il circolo, Marx teneva regolarmente conferenze teoriche, tra cui il saggio divulgativo su Lavoro salariato e capitale. Incessanti gli sforzi suoi e di Engels per esaltare il carat­tere internazionalista del movimento democratico: nel settembre del '4 7 venne fondata a Bruxelles l' «Associazione democratica per l'unificazione di tutti i paesi », della quale prima Engels e poi Marx assunsero la vice presidenza; fu ad una manifestazione pubblica di questa associazione che Marx pronunciò il Di­scours sur la question du fibre échange (Discorso sulla questione del libero scambio, gen­naio '48), analisi classista del problema di politica economica allora maggior­mente dibattuto in Europa. Altrettanto intensa l'attività di Engels a Parigi: reg­geva le fila delle organizzazioni democratiche, teneva contatti con le organizza­zioni consorelle degli altri paesi e contribuiva possentemente, accanto a Marx, alla definizione teorica del socialismo scientifico.

Tra gli abbozzi per un manifesto, preparati su mandato del congresso, ve ne fu uno di Hess; vi persistevano elementi utopistici ed antropologici, sicché la comunità di Parigi, ormai saldamente marxista, lo respinse, incaricando En­gels di prepararne un altro. Nacque così lo scritto divulgativo e programmatico Principi del comunismo, che lo stesso Engels suggerì di non utilizzare come dichia­razione congressuale perché la forma dell'esposizione- i Principi, seguendo l'uso della pubblicistica comunista del tempo, erano redatti a domanda e risposta -

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era troppo angusta per un documento che, Marx ed Engels ben lo sapevano, avrebbe avuto un'importanza storica universale, e dunque doveva esprimere, in sintesi, l'amplissimo respiro di una caratterizzazione classista della storia e la fondazione scientifica della necessità ed ineluttabilità della rivoluzione comunista. Nel novembre del '47 i due amici s'incontrarono ad Ostenda per recarsi insieme al congresso di Londra. L'intensissimo dibattito congressuale durò circa dieci giorni: « Ogni opposizione e ogni dubbio furono infine eliminati, i nuovi prin­cipi furono approvati all'unanimità e Marx ed io fummo incaricati di elaborare il Manifesto. Lo facemmo immediatamente dopo »: a gennaio, Marx spediva a Londra il manoscritto, ed il Manifest der kommunistischen Partei odorava letteral­mente ancora d'inchiostro che l'Europa restaurata era scossa dalla rivoluzione di febbraio, alla quale i comunisti parteciparono in prima fila: tutti i poteri della Lega furono affidati a Marx - immediatamente rientrato a Parigi - che la guidò nell'azione rivoluzionaria. Immediatamente vennero proclamate le For­derungen der kommunistischen Partei in Deutschland (Rivendicazioni del partito comunista in Germania), con cui la Lega si gettava nel movimento rivoluzionario senza set­tarismi ma conservando la massima chiarezza strategica proletaria. Mentre av­venturisti e fuorusciti politici d'ogni genere organizzavano «legioni rivoluzio­narie», con cui s'illudevano di tornare in Germania, Polonia ecc. a «liberare» paternalisticamente, manu militari, i « loro » popoli, Marx ed Engels organizza­rono invece una rete di membri della Lega che rientrassero nei paesi d'origine e si legassero alle masse, ponendosi alla testa della rivoluzione. Essi stessi rientra­rono in Renania e fondarono (giugno '48) la «Neue Rheinische Zeitung» («Nuo­va gazzetta renana »), di cui Marx assunse la direzione.

Nel Manifesto Marx ed Engels espongono i cardini della concezione comunista del mondo, sia legandosi alla concreta situazione storica dell'imminente rivolu­zione del '48, sia assurgendo ad una visione sintetica della storia universale, della quale individuano il filo rosso nella lotta di classe: « La storia di ogni società esi­stita fino a questo momento è storia di lotta di classi », ora latente ed ora aperta, che ha coinvolto patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, su su fino all'odierna lotta tra proletariato e borghesia. Chiarito il carattere universale della lotta di classe, Marx ed Engels la determinano in modo storico, specifico, per quanto con­cerne l'epoca capitalistica: con l'ascesa al potere della borghesia sorgono nuove condizioni di oppressione e sfruttamento (stato costituzionale moderno e sfrut­tamento salariale), e si verifica una estrema radicalizzazione degli antagonismi di classe: «L'intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l'una all'altra: borghesia e proleta­riato. » In questo incessante movimento storico, la borghesia ha assolto ad un com­pito rivoluzionario che Marx ed Engels lumeggiano con spirito scientifico e non moralistico. Già nell'Ideologia tedesca avevano indicato nella dialettica dei bisogni materiali un presupposto del materialismo storico: che, dato un bisogno,« l'azione

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del soddisfarlo e lo strumento già acquisito di questo soddisfacimento portano a nuovi bisogni ». La borghesia si è fatta interprete di questa dialettica come nes­suna classe dominante prima di lei: sorta quando il sistema dei bisogni si era tanto ingigantito, da non essere più contenibile nel modo feudale di produzione, essa gli diede spazio, spezzando le pastoie del regime feudale e conquistandosi il dominio politico: « Il potere statale moderno non è che un comitato che ammi­nistra gli affari comuni di tutta la classe borghese. »

La borghesia ha svolto una funzione sommamente rivoluzionaria: sia negando radicalmente il regime feudale, sia, con ciò stesso, affermando positivamente un do­minio dell'uomo sulla natura quale mai si era avuto prima, sia radicalizzando gli antagonismi di classe, esasperando gli elementi negativi e dissolventi della di­visione in classi e dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Questa acutizzazione della lotta di classe è inseparabile dal suo dominio, potendolo essa esercitare solo generando ed alimentando vieppiù le premesse materiali per il proprio affossa­mento: tutte le antiche classi dominanti avevano come condizione d'esistenza l'immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione; invece «la bor­ghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di pro­duzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali». Sull'immenso arengo del mercato mondiale essa svolge dunque non solo una funzione rivolu­zionaria« esogena», negando i residui della vecchia società ed affermando il do­minio dell'uomo sulla natura, ma soprattutto una funzione rivoluzionaria « en­dogena »: rivoluzionando continuamente gli strumenti ed i rapporti di produ­zione, genera e rafforza incessantemente le condizioni materiali per la propria negazione rivoluzionaria, « rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate ». Sintomi dell'incombente negazione rivo­luzionaria comunista sono gli sconvolgimenti sociali sempre più profondi, le crisi economiche ricorrenti sempre più acute, alle quali la borghesia cerca di sopperire con l'allargamento dei mercati, e quindi mediante la preparazione di crisi più generali e più violente.

« Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le porteranno la morte; ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle armi: gli operai moderni, i proletari» sicché, in ultima analisi la borghesia « produce anzitutto i suoi seppellitori »: la lotta di classe del proletariato, volta contro lo sfrutta­mento, inizia con la sua esistenza ed attraversa varie fasi storiche; dapprima, di­retta contro il singolo borghese, è indiscriminata, ed investe non solo i rapporti, ma anche gli strumenti di produzione, quando lavoratori in rivolta fracassano le macchine della rivoluzione industriale che li getta sul lastrico. In tutta questa fase, la borghesia conserva l'egemonia strategica, riuscendo a far convergere i colpi del proletariato contro l'aristocrazia feudale. Ma è proprio la travolgente espansione borghese sul mercato mondiale a spingere il proletariato ad estendere e generalizzare la lotta, a darsi obiettivi di carattere generale che interessano tutto

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il proletariato e le masse sfruttate: dalla semplice difesa del salario si giunge ad una lotta di classe dichiaratamente politica; « ogni lotta di classe è lotta poli­tica », scrivono Marx ed Engels, ove per « politica >> non intendono certo una lotta costituzionalistica, o comunque condotta solo a livello della società poli­tica, sganciata dalla realtà materiale della società civile; intendono invece riaf­fermare il principio che un'autentica emancipazione politica si ha solo quale co­ronamento di una emancipazione reale, a livello sociale. L'egemonia strategica passa così nelle mani del proletariato, che dalla realtà della sua esistenza sociale materiale è costituito come unica classe coerentemente rivoluzionaria, porta­trice della latenza del modo di produzione comunista.

Né il proletariato subirà la parabola fatale di tutte le classi che, prima di lui, conquistato il potere, divennero controrivoluzionarie. Sinora infatti ogni appro­priazione rivoluzionaria del potere non faceva che sanzionare a livello politico un privilegio sociale già esistente: così la borghesia, durante il declino dell'età feudale aveva già concentrato nelle proprie mani la ricchezza e le leve del po­tere economico, e conquistando quello politico istituì uno stato che ne garantisse il consolidamento e l'espansione. Il proletariato invece conquistando il potere non difende nulla che sia già suo, bensì inizia un'appropriazione collettiva, so­ciale, universale, che può raggiungersi solo abbattendo ogni appropriazione par­ticolaristica, classista, individualistica. Il potere politico « in senso proprio è il potere organizzato di una classe per opprimere un'altra», cioè dittatura; il po­tere politico proletario è quindi dittatura del proletariato, esercitata per raggiun­gere l'abolizione dello stato politico stesso. Già nel Man!festo Marx ed Engels affermano, in modo estremamente sintetico, che solo con la dittatura il proleta­riato potrà espropriare la borghesia, impedire che continui a sfruttare il popolo, socializzare gli strumenti di produzione, sviluppare la produzione, creare, in­somma, la base materiale perché alla vecchia società subentri un'associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno sia condizione del libero sviluppo di tutti. Sulla base dell'esperienza rivoluzionaria - soprattutto della Comune di Pa­rigi - Marx ed Engels approfondiranno e completeranno la teoria della ditta­tura del proletariato, affermando che « la classe operaia non può semplicemente prender la macchina statale bella e pronta e metterla in moto per i propri fini »; deve spezzare la macchina statale borghese, sostituendola con una completamente nuova, espressione della propria dittatura.

Nel Manifesto Marx ed Engels conducono una lotta teorica attiva contro le correnti deviazionistiche, che sintetizzano in tre filoni principali: socialismo rea­zionario, socialismo conservatore e socialismo e comunismo utopistici. L'estremo rigore teorico, politico e organizzativo con cui Marx ed Engels, e dopo di loro i grandi maestri del marxismo-leninismo, sempre combattono le deviazioni, ri­posa sul fatto che esse ostacolano la lotta del proletariato, portando acqua al mulino della reazione. La critica della non scientificità e del carattere non prole-

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tario delle deviazioni è quindi un aspetto tra i più importanti del Mm1ijesto e di tutta l'azione storica dei comunisti; basti ricordare le lotte di Lenin contro Kautsky, di Stalin contro Trotzki, di Mao Tsetung contro Liu Sciao-ci.

Tipiche manifestazioni reazionarie criticate nel Manifesto sono il socialismo feudalistico e quello clericale. Il primo è un piagnisteo dell'aristocrazia contro la rivoluzione industriale; suo alleato e germano è il socialismo clericale, che « dà una tinta socialistica all'ascetismo cristiano». Ma la borghesia non ha solo ab­battuto l'aristocrazia feudale; ha anche proletarizzato, e vieppiù proletarizza, i piccoli contadini e la piccola borghesia commerciale e artigianale, cioè tutta quella parte della società che sta sospesa fra il proletariato e la borghesia. Ecco perché anche i teorici della piccola borghesia hanno giustapposto un socialismo reazionario alla moderna società industriale. Il limite ideologico di questa devia­zione è chiarissimo: perspicace nella pars destruens, nella critica e nella denuncia delle contraddizioni insite nei rapporti di produzione imposti dalla grande bor­ghesia, « quanto al suo contenuto positivo questo socialismo vuole restaurare gli antichi mezzi di produzione e di traffico, e con essi i vecchi rapporti di proprietà e la vecchia società, o vuole rinchiudere di nuovo, con la f<?rza, entro i limiti degli antichi rapporti di proprietà i mezzi moderni di produzione e di traffico, che li hanno fatti saltare per aria». Delle deviazioni reazionarie Marx ed Engels ram­mentano infine il «vero socialismo », caricatura antropologico-speculativa del so­cialismo francese, i cui esponenti si pavoneggiano da « superatori di ogni parti­colarismo » per aver sostituito un chiacchiericcio speculativo-sentimentale, su l'« alienazione dell'essere umano» e gli« interessi dell'essere umano, dell'uomo in genere», all'analisi delle condizioni reali e concrete dello sfruttamento del prole­tariato. Con poche e densissime frasi contro il « vero socialismo » Marx ed Engels concludono la critica dell'essenzialismo antropologico e del suo carattere anti­storico, mostrandoci come parlando «dell'uomo che non appartiene a nessuna classe, anzi neppure alla realtà, e appartiene solo al cielo nebuloso della fantasia filosofica», non si elabora solo in « pedantesca innocenza» un'ideologia specu­lativa, ma si aiuta la reazione feudale, che pesca in quell'armamentario di retorica antiborghese per imbellettare di pseudosocialismo il rifiuto reazionario a conce­dere costituzioni e regimi rappresentativi borghesi.

La caratteristica generale del socialismo conservatore o borghese è invece l'ac­cettazione della realtà di sfruttamento del regime capitalistico accompagnata dal velleitarismo di eliminarne gli aspetti « cattivi » : Proudhon e soci « vogliono la borghesia senza il proletariato », cioè non intendono né la necessità delle con­traddizioni, della negatività, né il loro portato positivo; « se è vero che lo svi­luppo si compie attraverso il manifestarsi delle contraddizioni interne, attraverso il conflitto delle forze opposte sulla base di queste contraddizioni, conflitto de­stinato a superarle, è chiaro che la lotta di classe del proletariato è un fenomeno assolutamente naturale ed inevitabile. Vuol dire che non bisogna dissimulare le

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contraddizioni del regime capitalista, ma denunciarle e metterle in evidenza, che non bisogna soffocare la lotta di classe, ma condurla fino in fondo » (Stalin).

Ben diversa è la caratteristica di classe dei sistemi socialisti e comunisti uto­pistici, propri del primo periodo, non sviluppato, della lotta fra proletariato e bor­ghesia. Gli utopisti hanno il merito di aver compreso «l'antagonismo delle classi e anche l'efficacia degli elementi dissolventi nel seno della stessa società domi­nante», e di aver posto al centro dell'attenzione il problema reale: l'emancipa­zione del proletariato. Ma poiché mancavano le condizioni materiali per l'eman­cipazione del proletariato, erano forzatamente inclini a misconoscerne la forza rivoluzionaria. Mancando insomma le premesse materiali per la scienza rivoluzio­naria, gli utopisti si rifugiarono in una « descrizione fantastica della società fu­tura», cercando la soluzione del problema dell'emancipazione in artificiosi si­stemi, predicando ognuno il suo nuovo vangelo sociale ed intraprendendo « pic­coli esperimenti», sempre fallimentari, volti a convincere l'intera società-- sfrut­tatori compresi - della bontà dei propri progetti escatologici a favore del pro­letariato, paternalisticamente inteso solo come la «classe che più soffre». No­nostante tutti questi limiti, avendo saputo porsi dal punto di vista del proleta­riato gli utopisti contribuirono alla formazione della sua coscienza rivoluzionaria, propagandando problemi fondamentali quali l'abolizione dello stato politico, dello sfruttamento e della divisione in classi. Come tutti i fenomeni storici, anche del socialismo utopistico Marx e Engels danno una valutazione scientifica, non settaria, storicamente determinata: « L'importanza del socialismo utopistico sta in rapporto inverso allo sviluppo storico. Nella stessa misura in cui si sviluppa e prende forma la lotta fra le classi, perde ogni valore pratico ed ogni giustificazio­ne teorica quell'immaginario sollevarsi al di sopra di essa, quella lotta immagina­ria contro di essa. Quindi anche se gli autori di quei sistemi erano dei rivoluzio­nari per molti aspetti, i loro scolari costituiscono ogni volta sette reazionarie », che si sforzano di coartare la lotta del proletariato nella camicia di Nesso dei loro sistemi.

In seno al proletariato di tutti i paesi, i comunisti costituiscono l'avanguardia cosciente e organizzata, che guida la lotta per la conquista del potere politico da parte del proletariato, fondendo in un 'unica linea politica obiettivi tattici, immedia­ti, e l'obiettivo strategico: «I comunisti lottano per raggiungere i fini e gli interessi immediati della classe operaia, ma nel movimento presente rappresentano in pari tempo l'avvenire del movimento.» Essi non hanno nulla a che spartire con i ri­formatori velleitari, i sognatori, gli utopisti: sono scienziati della rivoluzione, i cui principi « sono semplicemente espressioni generali dei rapporti di fatto di una esistente lotta di classe, cioè di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi ». È alla luce di questi principi che, organizzati nel partito, assolvono alla funzione di avanguardia: « Senza teoria rivoluzionaria, senza conoscenza della storia, senza una profonda comprensione del movimento nella sua realtà, nessun

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partito politico può guidare un grande movimento rivoluzionario alla vittoria » (Mao Tsetung). Come questo movimento è storicamente determinato, così lo è l'obiettivo fondamentale dei comunisti: ciò «che contraddistingue il comunismo non è l'abolizione della proprietà in generale, bensì l'abolizione della proprietà borghese»; esso può essere sintetizzato nella formula« abolizione della proprietà privata» perché «la proprietà privata borghese moderna è l'ultima e più per­fetta espressione della produzione e dell'appropriazione dei prodotti che poggia su antagonismi di classe, sullo sfruttamento degli uni da parte degli altri». Abo­lendo la proprietà privata borghese, si aboliscono anche le concezioni borghesi della cultura, della libertà, del diritto ecc., poiché queste idee stesse sono pro­dotti dei rapporti borghesi di produzione e di proprietà.

Padrone della concezione materialistica e dialettica della storia, « il partito comunista non cessa nemmeno un istante di preparare e sviluppare fra gli operai una coscienza quanto più chiara è possibile dell'antagonismo ostile fra borghesia e proletariato ». Interpreti reali delle esigenze immediate degli interessi generali e dello slancio rivoluzionario delle grandi masse, i comunisti agiscono tra esse e con esse, non da carbonari che rinuncino al lavoro tra le masse per arzigogolare cospirazioni individualistiche o di piccole sette: « I comunisti sdegnano di na­scondere le loro opinioni e le loro intenzioni. Dichiarano apertamente che i loro fini possono esser raggiunti soltanto con il rovesciamento violento di tutto l'or­dinamento sociale finora esistente. Le classi dominanti tremino al pensiero d'una rivoluzione comunista. I proletari non hanno nulla da perdervi che le loro catene. Hanno un mondo da guadagnare. PROLETARI DI TUTTI I PA.ESI, UNITEVI!»

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CAPITOLO QUINTO

La lotta per il materialismo zn Germania

DI FELICE MONDELLA

I · INTRODUZIONE

Negli anni che seguirono in Germania la sconfitta della rivoluzione demo­cratico-liberale del I 848 sorse quel movimento di pensiero designato come mate­rialismo che fu per alcuni anni al centro dell'interesse non solo di filosofi e scien­ziati ma anche di un vastissimo pubblico ed ebbe tale risonanza da condizionare la cultura filosofica e non filosofica dei successivi decenni.

Il peso di questo movimento si accrebbe enormemente con la comparsa del­l'opera di Darwin ed in parte per la sua confluenza con il positivismo posteriore.

Nella storia del pensiero difficilmente è accaduto che in un così breve volgere di tempo un gruppo sparuto di medici e di naturalisti, che tutt'al più venivano considerati dilettanti di filosofia, riuscisse così a lungo a condizionare la filosofia ufficiale, pur mancando fra essi ogni intesa o legame diretto e pur dovendo subire varie forme di repressione anche legale ed amministrativa.

Ciò indica chiaramente come il materialismo avesse delle profonde implica­zioni di tipo sociale e politico, sia nel suo sorgere che nella sua rapidissima dif­fusione.

Il passaggio relativamente rapido della Germania da un'economia agricolo­artigianale ad un'economia commerciale-industriale, dopo la costituzione del­l 'unione doganale del I 8 34 e la costruzione della rete ferroviaria, un'efficiente or­ganizzazione dell'insegnamento scientifico e tecnico che rompeva un antico equi­librio culturale nelle università, infine un'esigenza di rapida trasformazione po­litica delle antiche strutture autoritarie e feudali, furono tutti fattori che spinsero a ricercare nei risultati della nuova ricerca scientifica un punto di riferimento per la comprensione del mondo e per l'individuazione di nuovi valori.

Analogo riferimento alle scienze naturali aveva portato nel periodo romantico uno sbocco, in parte mistico e speculativo, attraverso cui una ristretta élite cul­turale aveva cercato di creare un'autonoma cultura germanica da contrapporre all'egemonia della Francia. Si tratta della Naturphilosophie che, pur rifiutata dalle nuove generazioni di scienziati, i quali ostentavano spesso un accentuato empiri­smo, aveva tuttavia lasciato profonde tracce di sé nella cultura tedesca. Ormai

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abbandonata dopo gli anni trenta in quasi tutte le facoltà scientifiche la Natur­philosophie aveva i suoi riflessi più vistosi forse nell'ambito della cultura religio­sa ove infierivano le forme deteriori di naturalismo mistico, di cui uno dei rap­presentanti più tipici era a Monaco il cattolico Johann Joseph Gorres (1776-1 848) del quale si è già parlato nel capitolo m. ·

Negli anni precedenti il '48, nel profondo sommovimento politico e culturale la cui punta più avanzata era costituita dalla sinistra hegeliana, la maggior parte della filosofia ufficiale si trovava in Germania in una posizione di stanca difesa dell'ortodossia religiosa o di un vacuo spiritualismo; fra i vari filosofi solo il Lotze era forse in quel momento in grado di elaborare su un piano teorico-critico gli importanti risultati della nuova scienza della natura, ma la sua battaglia a favo­re del meccanicismo biologico lo portò involontariamente a favorire il sorgente materialismo.

I sostenitori del nuovo materialismo non erano gli appartenenti ad una élite raffinata e colta come quella che nella Parigi del Settecento gravitava attorno al gruppo dell'Encyclopédie. Non vi era in essi l'esplicito riferimento a tradizioni filo­sofiche come quella dell'epicureismo, né vi era prevalente l'interesse per una pro­blematica di tipo cosmologico o morale.

Provenienti dalle rinnovate facoltà mediche tedesche la loro attenzione era rivolta prevalentemente ai risultati inattesi e sorprendenti della chimica e della fisiologia, che sembravano decretare il trionfo improvviso e definitivo del mecca­nicismo biologico e quindi il crollo di una vecchia concezione teleologica e spiri­tualistica della natura.

A nessuno di questi autori si devono contributi di grande rilievo in campo strettamente scientifico e spesso il loro maggiore impegno fu rivolto ad un lavoro di divulgazione. Per questo forse Friedrich Albert Liebig lanciava contro di essi l'accusa di dilettantismo, accusa che giustamente Lange riconduce all'ingiustificata arroganza del grande specialista verso uomini che si erano sobbarcati il compito di percorrere i vari campi della ricerca scientifica per attenerne una veduta d 'insie­me. « Se i risultati della scienza, » osserva a questo proposito Lange, « potessero essere interpretati soltanto dagli inventori... si metterebbe in pericolo il conca­tenamento sistematico delle scienze e la cultura superiore dello spirito in generale. Per certi riguardi il calzolaio è colui che può meglio apprezzare una calzatura; per altri riguardi è colui che la porta; per altri ancora è l'anatomico, il pittore e lo scultore... Colui che percorre attentamente tutto il dominio delle scienze della natura per farsi un'idea dell'insieme apprezzerà spesso l'importanza di un fatto isolato meglio di colui che l 'ha scoperto. »

In Liebig l'arroganza del grande specialista nei riguardi di una valutazione globale dei risultati della scienza si avvicina molto alla facile sicurezza di chi ha scelto una completa dicotomia fra scienza e visione del mondo, di chi accanto al lavoro più rigoroso e preciso nel proprio settore sempre più specializzato di

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ricerca, accetta acriticamente e senza dubbi le visioni più tradizionali in campo politico e religioso.

Questa partita doppia per cui si separano nettamente i conti nell'ammini­strare le idee scientifiche e quelle filosofico-religiose fu uno dei bersagli a cui giu­stamente rivolsero i loro colpi anche i materialisti.

Contro di questi tuttavia più frequente dell'accusa di dilettantismo scientifico fu quella di dilettantismo filosofico. Con particolare frequenza il loro atteggia­mento di pensiero fu gratificato di « volgare » e di « dogmatico » da pute di critici e di storici anche recenti ed in parte questa accusa può avere giustificazioni dal punto di vista di un'analisi critico-concettuale dei loro testi. Ma se meglio si guarda l'azione di questi autori nel preciso contesto storico in cui operavano, ben più «volgari» e «dogmatiche» delle loro dovevano essere giudicate le posizioni di molti degli avversari contro cui essi dirigevano i loro scritti.

In modo più sottile viene formulata questa accusa ai materialisti da parte di Lange il quale pur comprendendo la loro « intenzione di sostituire alla filosofia un'esposizione ed una discussione popolari» osserva che «anche proponendosi questo fine, si può soddisfare ad esigenze più elevate e l'esposizione popolare può rivestire realmente un valore filosofico, senza perciò esaurire il programma della filosofia. Ma allora si deve almeno fondare l'esposizione sopra una concezione netta, logica e chiara, ciò che generalmente non fanno i nostri materialisti ».

Se si considera tuttavia il senso preminente della loro opera divulgativa e cioè la continuazione sul piano culturale della lotta politica fallita sul terreno di una ri­voluzione sociale, difficilmente si può negare che la loro concezione fosse suffi­cientemente« netta, logica e chiara». E la conferma decisiva di ciò è la sostanziale vittoria di questa battaglia ideologica iniziata dai nostri materialisti e continuata nei decenni successivi dai sostenitori del darwinismo. Vittoria non tanto nell'am­bito della cultura accademica ufficiale, che pure fu costretta spesso a configurarsi come una reazione al materialismo, ma vittoria presso quei milioni di borghesi e di operai a cui il loro messaggio era diretto e per cui la visione scientifica della natura e dell'uomo divenne patrimonio del senso comune.

Oltre a Lange anche Friedrich Engels rimprovera ai nostri materialisti (pre­cisamente a Vogt, Moleschott e Biichner) di avere svalutato la filosofia, pur es­sendosi dedicati alla « non spregevole anche se ristretta occupazione di predicare l'ateismo ... ai filistei tedeschi».

Occorre osservare tuttavia come questo intento dei materialisti fosse stretta­mente legato ad un altro intento indubbiamente non meno pregevole, sia per le sue implicazioni politico-ideologiche che per quelle critico-filosofiche. L'intento cioè di laicizzare la scienza, di slegare la conoscenza della realtà naturale da ogni riferimento vitalistico o metafisico-religioso, ribadendo l'ormai inoppugnabile verità dell'autonomia della natura.

Nel perseguire in particolare questo fine non si può dire che nei nostri autori

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vi sia un'identica svalutazione della filosofia. Come apparirà nella presentazione che faremo del pensiero di ciascuno, tale svalutazione risulta più evidente in Vogt, mentre in Moleschott e Biichner si ha un uso sia pure approssimato ma esplicito di argomentazioni empiristiche o metafisica-romantiche. Se per questi ultimi au­tori ciò può comportare l'accusa di dogmatismo, tale accusa non può indubbia­mente colpire l'opera sicuramente più elaborata e complessa di Heinrich Czolbe.

Il giudizio di Engels appare invece più accettabile quando egli rileva in essi « la presunzione di applicare la teoria sulla natura alla società e al socialismo ri­formistico ». Vi è in effetti nei loro scritti la tendenza a ricondurre l'uomo al determinismo di una realtà naturale sostanzialmente priva di storia e a vedere nella società il semplice strumento di una felicità universale.

Per quanto chiaramente inadeguata, questa riduzione naturalistica della so­cietà e dell'uomo poteva tuttavia rappresentare un attacco alle ideologie con cui le classi dominanti solevano giustificare la loro più o meno sacra investitura di potere. Nella lotta dei materialisti contro chi ancora dominava, dopo la fallita ri­voluzione del '48, potevano così ritrovare un punto d'incontro le classi popolari e la nuova borghesia che sorgeva con la rivoluzione industriale. ·

II · J AKOB MOLESCHOTT

L'opera con cui si può segnare l'inizio del materialismo tedesco dell'Otto­cento apparve nel I 8 52 con il titolo Kreislauf des Lebens. Pf?ysiologische Antworten auf Liebigs chemische Briefe (Circolazione della vita. Risposte fisiologiche alle lettere sulla chimica di Liebig). Questo libro sollevò un grande scalpore. Ne fu proibita la dif­fusione in Baviera ed Austria e l'autore, il giovane docente olandese Jakob Moleschott (I822-93), fu costretto a lasciare l'università di Heidelberg ove in­segnava fisiologia. Continuò tuttavia la sua attività nell'università di Zurigo e, costituitosi il nuovo regno d'Italia, venne chiamato a insegnare fisiologia, dap­prima a Torino e poi a Roma. In Italia egli portava i metodi della nuova scienza tedesca, ma soprattutto doveva battersi per quella cultura laica ed anticlericale che rispondeva alle esigenze della nuova classe politica salita al potere.

Nella formazione del giovane fisiologo olandese aveva avuto un'importanza decisiva il pensiero di Feuerbach e della sinistra hegeliana ma aveva contato anche l'opera di Alexander von Humboldt, in cui costantemente venivano esaltati l'ar­monia e l'equilibrio di tutti i fenomeni naturali e l'esigenza di presentare al popolo un nuovo quadro della natura, fondato sulla scienza. In Moleschott fu sempre viva anche l'ammirazione per Georg Forster (I754-94) il naturalista e giacobino che ispirò nei suoi anni giovanili lo stesso Humboldt.

Nel I 8 5o il giovane fisiologo aveva pubblicato uno scritto divulgativo, Di e Nahrungslehre fur den Volk (La dottrina dell'alimentazione per il popolo), che faceva seguito ad un'opera specialistica sulla fisiologia dell'alimentazione e considerava

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il miglioramento del cibo come condizione essenziale per l'emancipazione di contadini ed operai. Feuerbach fece del libro una recension,e lusinghiera dal titolo Naturwissenschaft und Revolution (Scienza della natura e rivoluzione) che si concludeva con la famosa frase «Der Mann ist was er isst » («L'uomo è ciò che mangia»).

Moleschott giunse così ad ammirare sempre più in Feuerbach il suo maestro. Si convinceva sempre più che il sentimento di dipendenza dell'uomo, indicato da Feuerbach come origine dell'atteggiamento religioso, doveva rivolgersi alla na­tura e alla materia con cui l'uomo si nutre: « Attraverso il vincolo della materia ... il nostro corpo rivive nell'ornamento dei campi ed il fiore dei campi nell'organo del nostro pensiero. » Chi bene intenderà questa legge non avrà più oltre a sof­frirne; egli non troverà in quel legame con la materia, altre volte così umiliante per lui, se non «il sacro sentimento di una condizione necessaria, che a ciascuna forma di adorazione divina ed umana dà il suo significato ».

La scienza della natura non solo scopre la dipendenza dell'uomo dalla materia anche nelle sue manifestazioni più elevate («Non c'è pensiero senza fosforo>» ripete Moleschott), ma stabilisce che la natura nel suo operare non dipende da alcun intervento divino.

Su questo punto egli si trovava in netto contrasto con non pochi scienziati a lui contemporanei ed in particolare con Liebig. Questi nelle sue celebri Chemische Briefe (Lettere sulla chimica, I 844, prima edizione) aveva affermato che «la scienza della natura deriva ... l'alto suo valore dal servire di appoggio al cristianesimo», e inoltre che la ragione stabilisce per induzione l'esistenza di un principio supe­riore che presiede ai fenomeni della natura.

L'opera di Moleschott del 1852, Circolazione della vita, voleva essere una risposta ferma ed una sfida, sia pure cauta e rispettosa, alle idee filosofiche e reli­giose del grande maestro della nuova chimica tedesca. Lo scritto è costituito da lunghe esposizioni di argomenti chimici e fisiologici, ad esempio dalla discussione sul significato del fosforo nella nutrizione, ma la posizione filosofica di Moleschott emerge chiaramente in molte pagine. Egli ritiene innanzitutto che anche nella scienza come nella politica occorre fare una scelta fra destra e sinistra, chiarire cioè il significato che il metodo ed i risultati della scienza hanno per l'uomo.

Occorre chiarire che l'oggettività della scienza si risolve nel rapporto fra struttura degli organi e proprietà degli oggetti, in una relazione cioè fra osservato­re ed oggetto. Questa limitazione non impedisce di giungere a conoscenze certe per tutti gli uomini, di spiegare la natura senza ricorrere ad alcun principio supe­riore ad essa.

Fra i risultati della scienza infatti il principio di conservazione della massa indica l'indistruttibilità e quindi l'eternità della materia. Ma anche le trasforma­zioni della materia presentano una stabilità e perennità, che si rivelano nel carattere ciclico dei fenomeni chimici, in particolare di quelli che regolano gli scambi fra mondo inorganico ed esseri viventi.

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Dalla fine del Settecento si erano studiati sempre più tali fenomeni di scam­bio, ma soprattutto con il diffondersi della rivoluzione industriale e della produ­zione di concimi chimici ci si era posto il problema economico del bilancio, del­l'attivo e del passivo, fra produzione agricola e concimazione del terreno. Ne era risultato che le sostanze provenienti dalla decomposizione degli organismi ritor­nano attraverso il terreno a costituire sempre di nuovo altri organismi in un ciclo continuo.

Proprio per tale incessante circolazione delle sostanze chimiche la vita appa­riva a Moleschott come un processo di perenne trasformazione, come un prodotto autonomo e necessario della natura, comprensibile in se stesso senza ricorrere ad alcuna spiegazione vitalistica o teleologica.

La circolazione della vita, strettamente legata a quella della materia, diviene così ai suoi occhi un principio fondamentale per comprendere la natura ed egli paragona tale circolazione all'anima del mondo, riecheggiando così un motivo romantico. Schelling aveva infatti considerato come condizione necessaria del­l'autonomia della natura la circolarità del movimento, la realizzazione a livello cosmico di quel perpetuum mobile che alcuni naturalisti del Settecento ritenevano realizzato soltanto nei singoli organismi. Egli aveva inoltre simbolizzato come anima del mondo la sostanza eterea ed energetica che riteneva trasmettere tale perenne movimento.

Herder d'altro lato aveva visto nel processo di nutrizione degli organismi a spese degli esseri a loro inferiori la via di quell'ascesa dinamica che attraverso la scala degli esseri conduce all'uomo. Tale ascesa era per Herder il risultato di una forza profonda agente nella natura e identificabile con dio stesso. Per Moleschott invece la trasformazione ascendente della materia dallo stato inorganico al pen­siero dell'uomo non richiede alcun principio metafisica, ma è soltanto il corri­spettivo di un processo di discesa, di degradazione della stessa materia dalle strut­ture chimiche più complesse a quelle più semplici; è come il piatto di una bilan­cia che sale perché l'altro discende.

La vita non è più la struttura di macchine costruite da un sommo artefice, né la proprietà di organismi che resistono alla morte, ma è un processo continuo a livello cosmico, che attraverso la morte, cioè la dissoluzione, trova il terreno per il suo continuo rigenerarsi. « La distruzione serve di base alla costruzione; dunque il movimento non sarà interrotto; è la garanzia della vita. »

La morte appare in tal modo sacra perché è alla sorgente della vita e Mole­schott non esita, sollevando il più vivo scandalo, ad auspicare che nei cimiteri ove il terreno è più fertile sorgano campi di grano per nutrire gli uomini. È la sua una proposta di dissacrazione, quasi in senso feuerbachiano, dei valori più tradizio­nali della religione, ma è anche una proposta per sacralizzare la materia stessa, secondo l'autentico sentimento di dipendenza dell'uomo dalla natura.

L'esaltazione dell'unità dei fenomeni naturali svelata dalla nuova chimica as-

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sume in alcune pagine di Moleschott un'intonazione :romantica, ma ciò non gli impedisce di riprendere, come conclusione della sua opera, alcuni motivi fonda­mentali del materialismo settecentesco. Nella lettera diciassettesima dedicata a « La forza e la materia », polemizzando con il vitalismo ed il teleologismo di Liebig, afferma infatti che tutte le forme di movimento della natura derivano da proprietà inerenti alla materia stessa e sostiene che tali proprietà divengono cono­scibili soltanto quando gli elementi stessi della materia le manifestano nella loro azione :reciproca.

È quindi convinto che le proprietà e le interazioni di tali elementi non solo sono sufficienti a produrre la varietà delle forme che ammiriamo sulla terra ma sono anche principio di una fecondità che si accresce indefinitamente. Malgrado ciò la sua visione della natura :rimane fondamentalmente statica, cioè legata all'idea di una perenne ciclicità che non sembra indicare un reale movimento di progresso della natura e dell'uomo. « Nutrimento, nascita, educazione, :relazioni, tutto at­torno a noi :ruota in un movimento che ricomincia costantemente; dunque il bene non può perire, la civiltà non può cadere in :rovina. La vita circola con la materia attraverso tutte le parti del mondo e con le idee la volontà necessaria del bene. >>

Il pensiero dell'uomo e l'organizzazione della società appaiono dunque a Moleschott sotto la luce della necessità che domina le trasformazioni cicliche della materia. La :realizzazione dei valori umani, l'avvento di un socialismo capace di soddisfare i bisogni di ciascuno, non nascono per lui dalla necessità di lottare per il dominio della natura, ma sono piuttosto il coronamento dell'armonica e perenne unità dei suoi processi.

III · CARL VOGT ED IL CONGRESSO DI GOTTINGEN

Il tono pacato della polemica di Moleschott e l'ottimismo non privo di in­genuità della sua visione quasi panteistica della natura contrastano in modo netto con l'atteggiamento combattivo e alieno da ogni speculazione di Cari Vogt (I 8 I 7-9 5 ). Studente di medicina, egli fu costretto nel I 8 34 ad abbandonare per motivi politici la sua città natale di Giessen ove frequentava il laboratotio di Liebig e a terminare i suoi studi in Svizzera. Dopo alcuni anni trascorsi in Francia ritorna come docente nella università di Giessen, ma l'impegno spregiu­dicato nella lotta rivoluzionaria del '48, che lo vide membro del parlamento di Francoforte, lo costrinse ad abbandonare definitivamente la Germania e a risiedere a Ginevra ove insegnò zoologia sino agli ultimi anni della sua vita.

Lontano da ogni specifico interesse filosofico e poco proclive ad ampie sistemazioni teoriche nel campo stesso della ricerca scientifica, Vogt si batté appassionatamente per una laicizzazione delle scienze naturali, per :respingere da esse la pesante ipoteca del creazionismo e soprattutto della tradizione biblica. Fu la stessa lotta che in modo più o meno aperto molti naturalisti dovranno

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compiere durante l'Ottocento rifacendosi specialmente alla cultura francese, in cui la restaurazione non aveva potuto cancellare i benefici effetti del naturalismo illuministico.

Esiliato dalla patria per le sue idee liberali Vogt non perde occasioni per attaccare, con la veemenza di chi si sentiva sconfitto ma non vinto nella lotta politica, il filisteismo di molti professori universitari ligi al conformismo religioso su cui poggiava ancora il potere dei vari stati tedeschi.

Se la sua battaglia sul piano culturale ha un significato indubbiamente pro­gressista, non altrettanto può dirsi per l'aspetto politico della sua attività; Vogt milita infatti sul fronte della borghesia, particolarmente legato a quella france­se, e di conseguenza si schiera fra gli. avversari più accaniti del socialismo. Giunge anzi a scrivere contro Marx un libello contenente accuse del tutto false che questi ritorcerà, con ben maggiore fondatezza, proprio contro lo stesso Vogt. Ma su tale argomento si ritornerà nel capitolo xxv.

I suoi studi di geologia lo avevano portato a trattare proprio uno degli ar­gomenti scientifici in cui più pesava il pregiudizio ed il dogmatismo della traòi­zione biblica. Nel 1846, pubblicando un trattato di geologia, vi premette un'espo­sizione della teoria cosmologica di Laplace sull'origine del sistema solare, esclu­dendo come antiscientifico ogni riferimento al racconto biblico della creazione. Egli incontra tuttavia non poche difficoltà nell'interpretare l'origine delle specie sorte in epoche successive, ed accettando la teoria delle catastrofi geologiche sostenuta, come sappiamo, da Cuvier suppone che queste :rivoluzioni violen­te siano la causa principale dell'organizzazione e del progresso delle forme vi­venti.

Le difficoltà che egli incontra anche nella spiegazione dell'origine della vita o nel problema sempre discusso della generazione spontanea, non gli impediscono di essere costantemente fiducioso nei progressi futuri della :ricerca e di rimanere fermo nella convinzione che « le scienze naturali sono scienze puramente mate­rialistiche; il loro scopo è l'indagine della materia in tutte le direzioni. Esse vo­gliono conoscere le leggi secondo cui si raggruppa e si tramuta, accada ciò nel mondo organico o in quello inorganico ».

Coerente con questo suo assunto nelle Pf?ysiologische Briefe (Lettere fisiolo­giche) pubblicate a partire dal I 84 5, egli era giunto, riecheggiando un famoso passo di Cabanis, a respingere drasticamente dallo studio scientifico dell'uomo l'idea di un'anima immateriale. «Tutte quelle capacità che noi comprendiamo sotto il no­me di attività psichiche sono solo funzioni del cervello; o per esprimersi in modo alquanto grossolano ... i pensieri si trovano nello stesso rapporto rispetto al cer­vello della bile rispetto al fegato o dell'urina :rispetto ai reni. »

Nell'opera del 185z Bilder aus dem Thierleben (Immagini dalla vita animale) egli rivolge direttamente il suo attacco a più o meno illustri professori delle università tedesche. Fra costoro non mancava infatti chi disquisiva sugli aspetti fisiologici

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del peccato originale oppure trattava della discendenza di ogni specie animale e delle razze umane da una coppia di esemplari salvati sull'arca di Noè. Un altro fra questi professori, l'illustre fisiologo Rudolf Wagner (1805-64), aveva sostenuto la teoria, alquanto sconcertante, che nel momento della procreazione una parte dell'anima immortale di ciascun genitore si divide per costituire l'anima del figlio e ciò troverebbe una conferma nella somiglianza psichica fra genitori e figli.

Wagner, che aveva avanzato questa sua teoria pubblicando sull' « Augsburger Allgemeine Zeitung » ( « Gazzetta generale di Augusta ») una serie di fumose Let­tere fisiologiche, replicò subito in modo molto violento all'attacco di Vogt ripor­tando fra l'altro un passo da un'opera di Lotze. Questi infatti, in una pagina della Psicologia medica uscita lo stesso anno (1852), prendendo molto alla lettera il para­gone di Vogt fra funzione del cervello e secrezione del rene, ne aveva fatto una critica alquanto pedante, concludendo che in ogni caso un processo fisico non può mai trasformarne un altro in fenomeno psichico.

Vogt, replicando prontamente sullo stesso giornale, aveva ribadito che la teoria della divisibilità dell'anima, per quanto possa farsi risalire all'antichità cioè al traducianismo, non era perciò meno assurda. Osservava inoltre che non era il caso di scomodare contro di lui il «filosofo di corte dell'Istituto di fisiologia di Gottingen signor Lotze » per dimostrare che il cervello né si contrae come un muscolo, né secerne come un rene, ma occorreva semmai dimostrare che l'anima non è solo funzione del cervello ed è effettivamente immortale.

Lo scambio di battute fra i due accaniti avversari non raggiungeva grandi sottigliezze filosofiche e indugiava spesso in poco eleganti denigrazioni personali. La polemica era però destinata: a interessare ben presto tutta la Germania.

Wagner non era infatti uscito molto brillantemente dallo scontro e quando nel I 8 54 si riunì proprio a Gottingen il Congresso dei medici e naturalisti tedeschi si preparò ad un nuovo attacco contro l'esule Vogt impossibilitato a partecipare alla riunione. In una comunicazione, Ueber Menschenschopfung und Seelensubstanz (Sulla creazione dell'uomo e la sostanza dell'anima), Wagner in primo luogo difese la teoria secondo cui tutte le razze umane possono essere derivate da un'unica coppia originaria. A proposito dell'immortalità dell'anima, negata da Vogt, os­servava infine come l'unica morale che si poteva trarre da una simile negazione era quella del «mangiamo e beviamo poiché domani siamo morti», e che spet­tava quindi ad ogni scienziato assumere una chiara posizione su questo punto, per allontanare dalle « scienze naturali il sospetto di distruggere completamente le basi morali dell'ordine sociale».

Con grande interesse i congressisti attendevano la discussione su questo problema; ma il giorno fissato per il dibattito Wagner si assentò per motivi di sa­lute lasciando l'impressione di voler evitare il confronto. Nessuno comunque dei numerosi convenuti si levò a difendere le sue posizioni e dopo breve tempo egli si sentì in dovere di precisare il suo pensiero in un altro scritto, Ueber Wissen und

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Glaube, mit besonderer Beziehung zur z;kunft der Seelen (Su scienza e fede con particolare riferimento al futuro delle anime).

In esso Wagner ribadisce che l'esistenza di un'anima immortale non è da lui sostenuta sulla base di considerazioni fisiologiche, ma in base all'intima esigenza di un ordine morale del mondo. Scienza e fede d'altronde sono per lui del tutto indipendenti ed in fatto di religione egli non esita a scegliere la fede umile e schietta del carbonaio. Nessuna considerazione fisiologica, egli aggiunge inoltre, può far escludere l'esistenza di un'anima immateriale. Questa può essere pensata come «un prodotto della combinazione dello spirito divino e della materia in un essere individuale ed autonomo », capace di utilizzare il cervello quale stru­mento, agente sul corpo come l'etere luminoso sulle masse ponderabili e capace di dividersi nella procreazione per formare nuove anime. A ciò aggiunge la pos­sibilità che le anime stesse dopo la morte si spostino rapidamente dalla terra in altri luoghi dello spazio e possano farvi ritorno per rivestire le loro spoglie mor­tali.

L'opuscolo di Wagner sollevò un certo scalpore, ma ancor più vasta fu l'eco di uno scritto che nello stesso anno I 8 54 Vogt pubblicò come risposta, con il titolo Kohlerglaube und Naturwissenschaft (Fede di carbonaio e scienza della natura). L'autore rifà dapprima la storia della pluriennale polemica. con Wagner e si di­lunga poi a difendere le teorie secondo cui le razze umane non possono essere deri­vate da un 'unica coppia., ma costituiscono anzi specie distinte; si sofferma infine sul problema dell'anima.

Pensate, egli dice, alla noia delle povere anime immaginate da Wagner, prive dopo la morte del loro corpo, capaci soltanto di pensare e nella lunga attesa di ritornare sulla terra. Pensate, egli continua ancora, a quelle semi-anime immortali che a miliardi vengono profuse negli spermatozoi, destinate quasi tutte ad una breve vita terrena, limitata al muovere di qua e di là la coda in cerca dell'uovo da fecondare, e condannate poi all'inerzia e forse a lamentare per tutta l'eternità la cattiva stella che le condusse fuori strada.

La satira non poteva però bastare ad affrontare il problema dell'anima. Vogt avverte che accanto alle futilità di Wagner, bersaglio sin troppo facile, vi erano ben più solide posizioni avversarie. Vi erano alcuni importanti scritti di Lotze: oltre all'opera sopra citata la voce stessa Seele und Seelenleben (Anima e vita della anima) pubblicata nel I 846 sul Dizionario di fisiologia curato dallo stesso Wagner.

Vogt non affronta direttamente la polemica con Lotze, dotato certo di armi filosofiche ben più affinate delle sue: cerca tuttavia un alleato in Virchow che in un suo scritto si era opposto alle tesi di Lotze. Il grande patologo tedesco aveva rilevato le incongruenze che risultavano dal discorso di Lotze sull'anima, consi­derata « una sostanza che non è sostanza, che non preesiste, ma si sviluppa con il corpo materiale, che muore con esso e non si scompone nei suoi elementi, ma per di più scompare del tutto, che può anche in particolari circostanze, in

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grazia dell'idea, continuare ad esistere eterna; una sostanza che è legata spazial­mente ad un determinato organo del corpo, che può essere attiva solo attraverso quest'organo per una sua continua partecipazione materiale, una sostanza che ha le sue proprie leggi e che si determina di per sé, che però nel corso di questa autodeterminazione è costantemente interrotta da azioni esterne ... ».

Virchow respingeva l'idea di un'anima immateriale movendo da una posi­zione empiristica, ma riteneva per lo stesso motivo che il fatto indiscutibile della coscienza non fosse spiegabile scientificamente. Vogt si dichiara più fiducioso nel futuro della ricerca e ribadisce che, per quanto manchi attualmente una spiegazione fisiologica dei fenomeni psichici, in ogni caso «l'assunzione di una particolare sostanza psichica attiva», secondo le parole stesse di Virchow, «non assicura ... nessuna possibilità di ottenere un'interpretazione più semplice dei fenomeni psi­chici, ma al contrario complica ancor più la situazione ». « Ci sembra un modo strano di argomentare,» come afferma ancora Virchow, «il credere di aver dimostrato la sostanzialità dell'anima in base all'impossibilità di spiegare il fatto e l'unità della coscienza mediante le disposizioni del cervello e poi attribuire a quest'anima ciò che si trova nella coscienza», un'anima della cui azione sappiamo così poco e « di cui anche il signor Lotze non sa dir altro se non che la coscienza è una sua proprietà ».

Iri conclusione Vogt nt1ene con Virchow che l'assunzione di un'anima è una pura ipotesi che nulla spiega o rende più chiaro; osserva inoltre che tale ipotesi non è resa necessaria da alcun particolare dato di osservazione e che essa per di più viene formulata dai suoi sostenitori nei modi più divergenti ed a volte anche privi di senso.

Gli scritti di Vogt e Wagner ora esaminati ed altri ancora di numerosi autori, teologi o filosofi, che si unirono in una violenta lotta contro il materialismo, ri­mangono nel complesso legati ad una polemica contingente, in cui non si compiro­no passi decisivi nella discussione filosofica e scientifica dei problemi trattati. La risonanza che ebbero tali scritti nel giro di pochi anni presso un vastissimo pub­blico, indicava tuttavia che una svolta profonda si stava compiendo, che il pensiero scientifico andava assumendo un ruolo decisivo nella concezione del mondo e nella scala dei valori di una società che in Germania, come in altri paesi, stava compiendo passi decisivi verso un nuovo assetto economico ed industriale.

IV · LUDWIG BUCHNER

L'esigenza di uscire da una polemica in cui pesavano eccessivamente l'immediata passione politico-ideologica e le ostilità personali doveva es­sere soddisfatta da un'opera destinata ad un grandissimo successo uscita nel 185 5, Kraft und Stoff (Forza e materia) di Ludwig Biichner (1824-99). L'au­tore era un giovane medico, libero docente a Tiibingen. In lui l'ardore ri-

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voluzionario del fratello Georg, poeta e naturalista morto giovanissimo nel r 8 3 7, sembra trasfondersi nella determinazione pacata di una lotta politico-culturale a favore del materialismo, a cui egli si dedicò con numerosi scritti durante tutta la vita.

Stesa in uno stile chiaro e brillante, comprensibile per la semplicità e la precisione da ogni persona di media cul~ura, la sua opera Forza e materia non si riallaccia direttamente alla polemica fra Vogt e Wagner ma si ispira piuttosto a Moleschott. Biichner sostiene esplicitamente che il materialismo è ormai l'inevita­bile conclusione di «uno studio imparziale della natura basato sull'empirismo e la filosofia ». Il compito che egli si propone è quindi quello di fornire, senza pre­tese di originalità, una nuova formulazione di questa antica concezione del mondo sulla base dei risultati più recenti della scienza.

La sua esposizione vuole essere semplice ma sistematica e parte dai principi più generali. Primo fra questi è l 'inscindibile connessione di forza e materia. La forza è una proprietà della materia e si deve quindi respingere l 'idea di una forza capace di creare il mondo e precedente ad esso. L'insistenza in Biichner, come nello stesso Moleschott, sulla stretta connessione di materia e forza nasceva anche da un 'implicita polemica contro la teoria dinamista, sviluppata già dal Sette­cento e tendente a ricondurre la materia stessa all'effetto di forze agenti su punti geometrici. Tale dinamismo nella misura in cui, opponendosi all'atomismo, ri­solveva la materia in un semplice «agire» poteva facilmente essere assorbito in una concezione spiritualistica o teistica della natura in cui, come era accaduto per Herder, tutte le forze venivano ricondotte alla forza creatrice della divinità.

L'idea che il mondo non fosse creato ma eterno era perciò garantita dall'im­mortalità, cioè dalla indistruttibilità della materia considerata come un principio a sé stante. Se la legge di conservazione della massa era la base scientifica da cui trarre questa conclusione di eternità della materia, la legge da poco scoperta di conservazione dell'energia permette a Biichner, in un'edizione successiva del suo libro, di introdurre come principio di pari importanza quello della indistruttibilità ed immortalità della forza.

I due principi reciprocamente connessi di forza e materia permettono dunque di stabilire che il mondo, il quale su di essi si fonda, è eterno e che perciò dal punto di vista di una filosofia fondata sulla scienza deve essere escluso ogni principio creatore.

L'immortalità e l'universalità delle leggi di natura, cioè il determinismo che lega in modo necessario tutti i fenomeni, costituiscono un altro principio su cui si fonda la concezione materialistica del mondo e nello stesso tempo una prova ulteriore della completa autonomia della natura.

Materia, forza e leggi di natura presentano per Biichner tale necessità ed assolutezza da poter individuare in esse un'effettiva razionalità. Egli giunge infatti ad affermare che « lo spirito e la natura, le leggi naturali e le razionali sono sempre

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identiche ». È questa una posizione di realismo filosofico che trova nel progresso stesso della ricerca scientifica una sua convalida. Egli fa infatti proprio quanto a questo proposito afferma Oersted e cioè che la prova migliore « che le leggi natu­rali sono identiche alle razionali è che noi col pensiero possiamo, dalle leggi natu­rali conosciute, dedurre altre leggi ignote che poi l'esperienza conferma».

La completa autonomia del mondo naturale costituisce inoltre la premessa per escludere ogni intervento divino anche nella spiegazione dei fenomeni della vita. Il sorgere ed il differenziarsi degli organismi è perciò dovuto a cause pura­mente naturali ed in questo libro, quattro anni prima della pubblicazione del­l'opera di Darwin sull'origine delle specie, Biichner sviluppa ampiamente l'idea di una lenta trasformazione dei viventi in lunghissimi periodi di tempo, ammet­tendo che la loro organizzazione conforme ad uno scopo può essere il risultato di una serie innumerevole di tentativi.

La presentazione di una visione evoluzionistica dei viventi costituisce forse il contributo scientifico più importante di quest'opera, ma Biichner sembra veder­ne soprattutto le conseguenze filosofiche riguardanti l'uomo. Questi risulta in­fatti in tale prospettiva soltanto un organismo più perfezionato, in cui l'attività del pensiero non può far supporre l'esistenza di un'anima immortale.

A proposito delle funzioni.psichiche egli considera però inadeguata l'analogia di Vogt fra attività del cervello e funzione di altri organi. Ritiene infatti che «il pensiero, lo spirito, l'anima ... non hanno nulla di materiale; non è in sé una sostanza, ma il concatenamento di diverse forze formanti una unità, l'effetto del concorso di molte sostanze dotate e di qualità e di forze ». Preferisce perciò pa­ragonare l'attività del cervello a quella di una macchina a vapore. Questa produce un'azione combinata di cui facciamo uso senza però poterla vedere, sentire e toccare.

Biichner tenta in questo modo, non senza oscurità ed incertezze, di conside­rare il pensiero come qualcosa di immateriale allo stesso modo almeno in cui ogni forza può essere considerata qualcosa di immateriale in quanto, pur essendo in­scindibile dalla materia, in un certo senso le si oppone e la nega.

Per quanto Biichner nei suoi scritti successivi non si dimostri privo di cul­tura filosofica, invano si cercherebbe nelle sue pagine un approfondimento cri­tico dei concetti fondamentali su cui egli fonda il materialismo. Ciò più che un'in­capacità indica probabilmente una scelta precisa, la volontà cioè di contrapporre alla cultura filosofico-accademica, troppo spesso legata a concezioni spiritualistiche o religiose, una nuova visione del mondo capace di conquistare vasti strati popo­lari, esprime cioè quella che Lange ha chiamato una democrazia del tnaterialismo, cioè l'esigenza di diffondere questa concezione facendola diventare senso comune delle masse popolari e quindi strumento della loro emancipazione.

Il carattere dogmatico delle formulazioni del nostro autore appare, così, lega­to al compito di contrapporre la concezione materialistica a quella religiosa presso

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un pubblico ignaro di filosofia. I termini di immortalità e di eternità, con cui egli caratterizza così insistentemente i principi della natura, rivelano chiaramente il significato antiteologico del suo materialismo, l'esigenza di sostituire nuove cer­tezze assolute, derivate dalla scienza, a quelle altrettanto assolute della religione tradizionale.

V · HEINRICH CZOLBE

Nello stesso anno r 8 55, in cui usciva la famosa opera di Biichner, un altro medico, che sarà per alcuni anni al servizio dell'esercito prussiano a Konigsberg, pubblicava un'opera di filosofia destinata ad interessare una cerchia ben più ri­stretta di lettori Neue Darstellung der Sensualismus (Nuova esposizione del sensualismo). Monarchico e conservatore illuminato, lontano da ogni radicalismo politico, alie­no dalla polemica antireligiosa, Heinrich Czolbe (I 8 I 9-7 3) raccoglie dalla sinistra hegeliana ed in particolare da Strauss l'insegnamento estetico e morale che si può riassumere nell'imperativo: contentati del mondo che ti è dato.

Nell'antichità classica, esaltata nell'opera romantica di Hoelderlin, egli vede realizzata l'esigenza estetica di un'armonica unità di spirito e natura e anche quella virilità di sentimento e di carattere, quella morale stoica che permette serena­mente di rinunciare a ciò che la scienza dimostra impossibile o inesistente.

Il materialismo, se vuole riscattarsi dall'atteggiamento vago e speculativo che egli rimprovera a Feuerbach, Vogt e Moleschott, deve infatti fondarsi su un preciso criterio metodologico, cioè sul principio di esclusione del soprasensibile, esclusio­ne di tutto ciò che non è intuibile nell'esperienza sensibile.

Czolbe pensa che questa via sia stata aperta dallo stesso Lotze con l'elimi­nazione della forza vitale. Se è stata eliminata questa forza perché non è possibile eliminare tutte le forze e gli esseri trascendenti?

Una visione della realtà fondata sull'intuizione sensibile, che deve condurre per Czolbe ad una «meccanica dell'ordine del mondo», non può però rinunciare ad ipotesi e a spiegazioni, ma deve solo garantirsi, attraverso un accurato processo analitico, che le ipotesi stesse risultino dal materiale empirico conosciuto. Czolbe si propone così ambiziosamente di fornire un nuovo ordinamento dei fenomeni fondamentali dell'esperienza, da lui distinti in psichici, fisici e politici.

Inizia la sua ricerca con la psicologia poiché ritiene che attraverso di essa sia possibile stabilire ciò che nei fenomeni vi è di oggettivo e soggettivo e fonda tutta la sua costruzione su un assunto fondamentale, cioè sulla negazione della teoria psicofisiologica dell'energia specifica dei nervi, che in quel periodo trovava ormai sempre più generali consensi.

Secondo questa teoria la qualità della sensazione sperimentata dal soggetto, ad esempio la visione di un colore, non deriva in generale dalla quantità e dalla natura dello stimolo fisico ma soltanto dal tipo di nervo stimolato. Czolbe, ne-

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gando in sostanza la tradizionale distinzione fra qualità primarie e secondarie, ri­tiene invece che la diversa intensità di movimento degli agenti fisici conferisca loro aspetti qualitativi diversi, i quali vengono passivamente registrati dai nervi e trasmessi al cervello.

Il ritorno di Czolbe all'idea che le qualità secondarie, colori, suoni, calore, ecc. appartengano direttamente ai corpi gli permette in un certo senso di sempli­ficare il problema dell'origine della coscienza. Questa è infatti una qualità nuova che gli agenti fisici assumono propagandosi nel cervello, in quanto il loro movi­mento assume in esso una direzione circolare, in quanto essi compiono un ritorno su se stessi. « Il cervello, » egli afferma infatti, « è un apparato in grado di dare ai movimenti che si propagano in esso una direzione che ritorna su se stessa, possa ciò accadere mediante un decorso circolare delle fibre, una riflessione, rota­zione o una qualche altra modalità fisica. »

Tutta la complessa attività dei processi psichici può così venir trattata molto estesamente sulla base di analogie meccaniche, cioè di propagazione, arresti, ri­petizioni, intensificazioni ecc. operanti sui contenuti fisico-mentali.

Non meno densa di congetture e di ipotesi appare la seconda parte della sua opera dedicata alla « filosofia della natura », ove egli si cimenta innanzi­tutto nella definizione e nella deduzione dei principi fondamentali della mecca­nica. Estensione limitata e impenetrabilità sono i caratteri sensibili che permettono di definire la materia e gli atomi. L'impenetrabilità non è dovuta ad una forza re­pulsiva, come sostengono molti autori a lui contemporanei, e neppure l'attrazione reciproca dei corpi è dovuta ad una forza attrattiva. L'ammissione di tali forze significherebbe assumere dei principi ultrasensibili, significherebbe scivo­lare sul terreno del dinamismo che postula principi non intuibili.

Ciò che per Czolbe può spiegare la reciproca attrazione dei corpi è invece il contrasto intuibile che esiste fra lo spazio, caratterizzato dalla coesione e dalla penetrabilità, e la materia stessa. Tale contrasto produrrebbe come propria risul­tante l'attrazione reciproca fra i corpi nello spazio allo stesso modo in cui, in un parallelogramma delle forze, dalle forze componenti si deriva quella risultante.

Stabiliti su base intuitiva i principi della meccanica, Czolbe si cimenta .Poi nella non facile impresa di ricondurre ad essi gli altri fenomeni della fisica, negan­do ad esempio l'esistenza dei vari fluidi imponderabili e dello stesso etere, in quan­to entità non riconducibili ai dati della sensibilità.

L'accentuata inclinazione speculativa del nostro autore ed il distacco rispetto alle tendenze che andavano maturando nella cultura scientifica a lui contempora­nea appaiono ancora più chiari nella considerazione che egli svolge a proposito della geologia e della biologia. In questo caso egli non si limita a postulare l'eternità della materia e dello spazio ma anche l'eternità di tutte le strutture complesse della materia, dalle sostanze chimiche ai corpi celesti, agli stessi orga­nismi viventi.

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Egli rifiuta quindi ogni concezione cosmogonica e ritiene di trovare una deci­siva conferma all'idea dell'eternità della terra nell'opera del geologo inglese Charles Lyell (1797-1875). Questi aveva respinto sia l'idea di passate cata­strofi della terra, sia quella di un suo graduale raffreddamento, sostenendo che nel passato avevano agito le stesse cause attualmente osservabili e che non si era verificata alcuna graduale comparsa di nuovi organismi viventi.

La tesi di un ordine eterno del mondo, inconciliabile per Czolbe con ogni forma di storicità della natura, sarebbe invece in accordo con la concreta esperienza e risponderebbe in particolare ad una profonda esigenza estetica: quella che porta a riconoscere un ordinamento teleologico in tutto il cosmo, un ordinamento in cui tutte le azioni concorrono verso uno scopo finale cioè la felicità degli esseri viventi.

« Il fatto che in natura i mezzi più semplici vengano utilizzati per il rag­giungimento dello scopo, » afferma Czolbe, « appare come un fatto che si com­prende per se stesso e che non richiede ulteriore. spiegazione. Esso sarebbe in­spiegabile soltanto se non fosse così. Con la convinzione dell'eternità dell'ordine del mondo cade il bisogno di cercare un fondamento per la sua finalità. I concetti di " eternità " e di " finalità " appaiono omogenei. Dal concetto di ciò che è privo di finalità dovrebbe apparire che esso deve sempre gradualmente distrug­gersi; la finalità percepibile dell'ordine del mondo nel suo complesso appare quindi anche come prova della sua durata eterna. »

L'affermazione di una finalità cosmica non indica dunque per Czolbe l'azione di una mente creatrice che opera sul mondo, ma stabilisce soltanto una condizione necessaria di stabilità o autoconservazione e nello stesso tempo pone la garanzia di un ordine morale intrinseco alla natura. Appare così in modo chiaro come la sua filosofia non sia tanto legata al materialismo naturalistico del Settecento ed alla sua polemica antireligiosa, ma affondi piuttosto le sue radici in un platonismo presen­te ad alcune correnti della scienza romantica della natura.

In una breve opera dell'anno successivo Die Entstehung der Selbstbewusstsein (L'origine dell'autocoscienza, 18 56) si hanno infatti alcuni espliciti richiami a Platone. L'esigenza del grande filosofo antico di trovare con le idee uri punto fermo nel molteplice divenire dei fenomeni, secondo Czolbe, viene soddisfatta dall'eternità dell'ordine del mondo. «L'assunzione di questo punto fermo unitario nella colo­rita e assordante molteplicità dei fenomeni costituisce, poiché in esso è posto il concetto di armonia, un'assunzione veramente estetica. La convinzione dell'eter­nità del mondo o che esso è eternamente antico e quindi eternamente giovane, unisce l'idealismo platonico con il realismo. »

Una svolta importante compiutasi entro il pensiero del nostro autore durante gli anni successivi risulta nell'opera del 1865 Die Grenzen und der Ursprung der mens­chlischen Erkenntnis (l limiti e la sorgente della conoscenza umana). Egli abbandona il materialismo psicologico degli scritti precedenti ritenendo che il pensiero non

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può essere considerato una forma di movimento della materia, poiché sensazioni e movimento costituiscono entità irriducibili. Le sensazioni sono le componenti di un'originaria anima del mondo e accanto alla materia e alle forme eterne rappresen­tano la triade degli elementi costitutivi del cosmo. Si tratta di tre elementi per sé chiari che non richiedono ulteriori spiegazioni e che rappresentano i limiti e nello stesso tempo la sorgente del conoscere. L'unità del mondo non può essere quindi ricondotta ad un 'unica sostanza originaria ma soltanto ad uno scopo ultimo cioè la felicità degli esseri viventi.

Questa svolta nel pensiero del nostro autore non deve considerarsi una nega­zione delle sue premesse fondamentali. Già nello scritto del 1 8 56 dichiarava in­fatti che il termine sensualismo era per lui preferibile a quello di materialismo, poiché accanto alla materia, come principio esplicativo della realtà, occorreva ammettere lo spazio e soprattutto una molteplicità di forme eterne.

Tale svolta costituisce piuttosto un adeguamento ai risultati della psicofi­siologia a lui contemporanea e soprattutto l'accettazione del principio dell'ener­gia specifica dei nervi. Questi non potevano ormai essere più considerati come dei trasmettitori puramente passivi di azioni fisiche in sé qualitativamente differen­ziate. Le qualità dovevano considerarsi inerenti alle sensazioni, concomitanti ma irriducibili all'azione meccanica dei nervi.

L'adeguamento di Czolbe alla teoria del parallelismo psicofisico non bastò tuttavia a colmare un profondo distacco del suo pensiero dalla cultura scientifica del suo tempo. Il sorgere del darwinismo segnò infatti una grave sconfitta per la sua idea di un ordine eterno del mondo.

Egli non cessò tuttavia di approfondire con un notevole impegno filosofico il motivo dal quale era partita tutta la sua ricerca, cioè l'esigenza di una conoscenza chiara ed intuitiva dell'ordine del mondo. Negli ultimi anni della sua vita, so­prattutto attraverso l'amicizia con il grande storico della filosofia Friedrich Ueberweg (x8z6-71), giunse, convincendosi del carattere spaziale delle sensa­zioni, a considerare la possibilità di una rappresentazione unitaria di tipo ma­tematico-geometrico della realtà e ad ammettere che lo spazio-tempo è in senso spinoziano la sostanza unitaria di tutte le cose.

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CAPITOLO SESTO

Schopenhauer e Kierkegaard

I · CONSIDERAZIONI PRELIMINARI

Si è detto, nel capitolo precedente, che l'indirizzo materialistico sorto in Germania subito dopo la sconfitta della rivoluzione democratico-liberale del I 848 fu per alcuni anni al centro dell'interesse di filosofi e scienziati, condizio­nando la cultura di un vastissimo pubblico. Ora dobbiamo aggiungere però che - quasi per contrappeso all'anzidetto indirizzo - si diffuse, presso un pubblico forse meno vasto ma in certo senso più aristocratico, un movimento a carattere filosofico-religioso che avanzava istanze antitetiche a quelle dei materia­listi: non rivolto cioè a divulgare e esaltare la razionalità scientifica ma a contrap­porre alla ragione qualcosa di diverso e« più profondo». Questo movimento si impernia sui due nomi di Schopenhauer e di Kierkegaard (le opere del primo, pur essendo state pubblicate fra il I 8 I 4 e il '5 I, cominciarono a venire largamente apprezzate solo verso la metà del secolo; quelle del secondo, pur essendo state scritte originariamente in danese, non tardarono a penetrare anche in Germania dato che si radicavano in gran parte proprio nella tradizione filosofica tedesca).

È certo - come mostrçremo nei prossimi paragrafi - che fra i due pensa­tori esistono delle differenze notevolissime; basti pensare alla permanenza in Schopenhauer di un forte interesse per la natura (sia pure esaminata da un puntò di vista più filosofico che scientifico, interesse che risulta invece del tutto assente in Kierkegaard.

Ciò non ha impedito tuttavia ad alcuni studiosi di abbozzare, non senza efficacia, un vero e proprio parallelismo tra essi. Una cosa invero li unisce: la reazione all'hegelismo, considerato da entrambi come l'esempio più tipico e più pericoloso di filosofia razionalistica.

La singolare circostanza che - nel momento stesso in cui da tante parti si denunciava l'assoluta incompatibilità fra il sistema di Hegel e l'autentica scienza moderna - proprio lui potesse venir additato (e criticato) come il più strenuo campione del razionalismo, è un fatto che non può non apparire estremamente si­gnificativo. Esso ci rivela l'esistenza, oltre all'antitesi fra razionalismo di tipo hegeliano e razionalismo di tipo scientifico, di un'altra antitesi che in certo senso

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Schopenhauer e Kierkegaard

la precede: quella fra misticismo e razionalismo. Né si dica che questa riguarda soltanto il razionalismo hegeliano. A dimostrare il contrario basterà menzionare che il tardo romanticismo ispirantesi a Schopenhauer e, in tempi più recenti, l'esistenzialismo ispirantesi a Kierkegaard faranno proprio ricorso alle istanze mistiche av~zate da questi due autori contro Hegel come armi particolarmente efficaci per sostenere la rivolta « filosofica» contro le «pretese» della scienza. Anche gli argomenti ideati da Schopenhauer e da Kierkegaard contro l'ottimismo hegeliano verranno largamente utilizzati a sostegno di tale rivolta, cosicché il loro profondo pessimismo finirà di venire contrapposto, non più a Hegel ma al « superficiale » ottimismo degli « scienziati positivisti ».

Siamo convinti che un'attenta riflessione su quanto ora accennato possa get­tare nuova luce sulle cause effettive della frattura che nell'epoca in esame si venne gradualmente creando, anche in Germania, tra filosofia e scienza, malgrado i successi inizialmente ottenuti dai materialisti per legarle l'una all'altra. Parecchi studiosi hanno ritenuto che tale frattura debba venir fatta prevalentemente risalire al peso della tradizione hegeliana, data l'inconciliabilità fra la dialettica posta da Hegel alla base della propria filosofia e l'autentica logica, praticata dalla ricerca scientifica. Senza negare che anche l 'hegelismo abbia potuto costituire una causa di tale frattura, resta però il fatto che una ben più grave inconciliabilità esisteva fra l'istanza mistica avanzata dagli antihegeliani come Schopenhauer e Kierke­gaard e l'istanza razionalistica su cui si regge tutta la scienza moderna; è un'in­conciliabilità che rende impossibile, non solo un 'intesa, ma una qualsiasi forma di dialogo, fra chi ritiene che l'autentica realtà possa venir cercata con metodi razionali e chi ritiene invece che essa possa venire scoperta solo facendo ricorso a intuizioni sovrarazionali.

Una cosa, infatti, è criticare un certo tipo di razionalità per sostituirgliene altri, che si ritengono più idonei a penetrare il vero corso degli eventi naturali ed umani; un'altra cosa, completamente diversa, è proclamare il fallimento definitivo della ragione, per cercare al di là di essa l'unica fonte attendibile della nostra conoscenza.

Avremo parecchie occasioni di ritornare sulle conseguenze che tale proclama­zione ebbe nell'ambito della filosofia; qui però vogliamo subito sottolineare che, nel corso di alcuni decenni, la tendenza all'irrazionalismo fece sentire il suo note­volissimo peso non solo nell'impostazione delle ricerche specificamente filosofiche ma in un campo assai più ampio della cultura. Tale aumento di peso fu soprattutto dovuto al fatto che parecchi e assai valenti scrittori aderirono con slancio all'in­dirizzo in esame, convinti che la polemica contro la suprema.Zia della ragione po­tesse indirettamente servire a porre in primo piano altri aspetti della vita umana, solitamente riconosciuti come oggetto speCifico della creazione poetica. Trattasi in realtà, a nostro parere, di una convinzione che non resiste ad un serio e obiettivo esame critico (in quanto presuppone dogmaticamente l'esistenza di un conflitto

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insanabile fra attività razionale e attività poetica); è comunque incontestabile che essa diede un contributo decisivo al fascino e perciò alla diffusione delle cor­renti mistico-irrazionalistiche e di conseguenza alla sconfessione della grande eredità dell'illuminismo.

Aggiungasi che il corso stesso degli eventi economico-politici parve costituire una manifesta smentita all'ottimismo, inscindibilmente legato ad ogni seria con­cezione razionalistica del mondo. Questa smentita avrebbe dovuto, a rigore, ser­vire di stimolo ad un approfondimento critico del razionalismo, onde porre in chiaro il vero significato della fiducia nella ragione che caratterizza il mondo moderno. Si è invece preferito, da parte di molti dei sovraddetti scrittori, partire da essa per rifugiarsi nel più disperato pessimismo, quasi che questo potesse costituire una soluzione ai problemi sempre più complessi dell'umanità. In realtà non ci si accorse che tale posizione poteva sì avere un aspetto molto raffinato (soprattutto in confronto alla rozzezza dell'ottimismo largamente condiviso dai materialisti della seconda metà dell'Ottocento), ma non era altro, in ultima istanza, che una posizione conservatrice, un modo di evadere dalle gravi responsabilità del momento.

II · VITA E OPERE DI SCHOPENHAUER

Arthur Schopenhauer nacque nel 1 78 8 da una famiglia della ricca borghesia commerciale di Danzica. Quando però questa, che era stata fin allora una « città libera», venne incorporata nel regno di Prussia, suo padre si trasferì con la fami­glia e l'azienda ad Amburgo. Volendo avviare il figlio alla carriera degli affari, gli fece anzitutto trascorrere alcuni anni in Francia e in Inghilterra; in un secondo tempo si fece accompagnare da lui in lunghi viaggi per diversi paesi europei. Suicidatosi il padre in un accesso di pazzia, la madre, che era una discreta scrit­trice, si trasferì a Weimar, e riuscì a entrare nel circolo di Goethe; anche il figlio frequentò il grande poeta-filosofo, subendone una profonda influenza.

Ottenuta, dopo molte resistenze, l'autorizzazione a proseguire gli studi, si iscrisse dapprima all'università di Gottinga, ove ebbe come professore di filo­sofia Gottlob Ernst Schulze (di cui abbiamo parlato nell'ultimo capitolo del vol. terzo), poi a quella di Berlino per seguire le lezioni di Fichte, infine a Jena, ove si addottorò nel 181; con una tesi dal titolo Ueber die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde (Sulla quadruplice radice del principio di ragion suffi­ciente). Sebbene scritta quando il nostro autore aveva appena venticinque anni, essa può senza dubbio venir considerata una delle sue pubblicazioni più impor­tanti.

Dal 1814 al '18 Schopenhauer visse a Dresda, ove attese ad approfondire le proprie conoscenze filosofiche e scientifiche. Nel 1816 pubblicò un volumetto dal titolo Ueber das Sehen und die Farben (Sulla visione e i colori) per difendere, contro i

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newtoniani, la teoria dei colori di Goethe, apportandovi però qualche perfezio­namento (esso consiste soprattutto nel tentativo di spiegare i colori sulla base di considerazioni fisiologiche).

Nel I8I9 diede alle stampe la sua opera principale Die Welt als Wille und Vorstellung (Il mondo come volontà e rappresentazione); nel I 844 ne uscirà una nuova edizione, notevolmente ampliata.

Dopo un viaggio a Roma e a Napoli conseguì, nel I 8zo, la libera docenza presso l'università di Berlino, e già in questa occasione ebbe una prima, breve, disputa con Hegel. Il suo contrasto ideologico con il famoso professore chiamato nella capitale della Prussia dalle massime autorità governative e padrone pressoché assoluto di quella università, si accrebbe e acuì col trascorrere degli anni. Per di­spetto contro di lui Schopenhauer giunse a fissare le proprie lezioni esattamente nelle medesime ore di quelle di Hegel, il che però si ritorse contro il nostro stesso autore, che vide i propri corsi pressoché deserti e dovette sospenderli. Il fatto gli procurò una profonda amarezza, tanto più che ad esso corrispondeva un quasi to­tale disinteresse del pubblico colto e degli editori per gli scritti che veniva via via componendo. Nel I 8 3 I si trasferì a Francoforte sul Meno, vivendo di rendita.

Nel I836 pubblicò un'opera dedicata alle scienze naturali, nell'intento di ri­cavare dai loro risultati sempre nuove conferme alla propria concezione metafisica dell'universo: Der Wille in der Natur (La volontà nella natura). Cinque anni più tardi ne pubblicò un'altra dedicata invece a problemi di filosofia morale: Die beiden Grundprobleme der Ethik (l due problemi fondamentali dell'etica, I84I).

L'ultima sua opera, dal titolo Parerga et paralipomena (Saggi accessori e tralasciati) uscì nel I 8 5 I ; era scritta in uno stile limpido e facile e ciò le permise di ottenere il pieno successo che le altre erano state ben lungi dal conseguire.

Quando, nel I 8 I I, si era recato a Berlino per frequentare le lezioni di Fichte, Schopenhauer nutriva una grande ammirazione per lui. Ben presto però abbando­nò completamente questa «ammirazione a priori», essendosi convinto dell'in­fondatezza delle critiche fichtiane a Kant; finì anzi per considerare quest'ultimo come il proprio unico e vero maestro. Proponendosi di proseguire l'opera kan­tiana, condusse una costante e aspra polemica non solo contro Fichte ma contro tutti i maggiori idealisti tedeschi (in particolare, come già si è detto, contro Hegel). Ciò che più gli ripugnava era il loro razionalismo aprioristico e l'imposta­zione ottimistica della loro filosofia.

Oltre al pensiero di Kant studiò a lungo quello di Platone, leggendone le opere direttamente in greco. Studiò pure con passione la tragedia greca e il pen­siero dei presocratici; tra i filosofi moderni predilesse Spinoza. Anche queste ri­cerche lo confermarono nella sua accanita opposizione all'hegelismo, per il fatto che gli storici della filosofia seguaci di questo indirizzo pretendevano,· sull'esem­pio del loro maestro, di vedere uno sviluppo logico nella successione dei vari sistemi, cosa recisamente negata da Schopenhauer.

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Schopenhauer e Kierkegaard

Un posto di particolare rilievo occuparono, nella formazione del nostro autore, gli studi (iniziati fin dal I 8 I 4) del pensiero filosofico-religioso indiano, dapprima di quello contenuto nelle Upanishad, poi nei testi buddisti. Egli stesso ha più volte sottolineato il pieno accordo tra le proprie concezioni e quelle espresse dalle « antichissime sentenze indiane », aggiungendo subito però che questo accordo non eliminava affatto i profondi stimoli ricevuti da « tutto lo sviluppo della filosofia dell'Occidente».

Come già si è accennato nel paragrafo precedente, la fama di Schopenhauer cominciò a diffondersi, sia in Germania sia all'estero, solo verso il I 8 5o, e in particolare dopo la pubblicazione dei Parerga et paralipomena; da allora però crebbe rapidamente in ispecie fra i giovani: « La nuova generazione, » scrisse ironicamente Francesco De Sanctis nel I 8 58, « ha gittato via Hegel come un cencio e si fa intorno ad Arturo. » E così il pensiero schopenhaueriano finì per diventare- almeno in certi ambienti filosofico-letterari - la « filosofia di moda ». Accanto ad essa divenne pure « di moda » la convinzione (smentita qualche tempo dopo da studi filologicamente più accurati) che il pensiero indiano avesse costi­tuito il culmine dello sviluppo spirituale dell'umanità.

Circondato dall'ammirazione generale, il nostro autore si spense nel I 8 61.

III · L'ILL\fSORIETÀ DEL MONDO FENOMENICO

La filosofia deve prendere le mosse, secondo Schopenhauer, non da principi astratti come volevano Fichte e Hegel, ma dall'esperienza: intesa questa però nel più vasto senso possibile, cioè non soltanto come esperienza esterna ma anche come esperienza interio!e. Partendo da essa, dovrà poi cercare un principio unico, cui ricondurre tu~to il mondo esperienziale; la ricerca di questo principio esplicativo generale è soddisfatta in forma mitica dalle religioni, in forma piena­mente consapevole dal filosofo con un atto geniale di intuizione.

Il titolo dell'opera più importante del nostro autore, Il mondo come volontà e rappresentazione, sintetizza in poche parole la tesi cui egli ritiene di poter pervenire lungo la via testé indicata: per un lato il mondo è rappresentazione, in quanto si articola in una inesauribile molteplicità di fenomeni; per l'altro è volontà, in quanto la volontà costituisce il principio unico di tutto il reale.

Cominciando dal mondo fenomenico, osserveremo anzitutto che, per Scho­penhauer, esso consiste di rappresentazioni intuitive concrete. Queste rappresen­tazioni non possono però venire confuse con le sensazioni, che sono eventi ef­fettuantisi nel nostro organismo corporeo, da studiarsi attraverso la fisiologia (si ricordi quanto abbiamo detto nel paragrafo precedente circa lo sforzo compiuto da Schopenhauer per spiegare i colori sulla base appunto di considerazioni fisio­logiche). Le rappresentazioni invece sono la sintesi del materiale grezzo fornito dai sensi e di forme unificatrici a priori.

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Schopenhauer e Kierkegaard

Come è evidente, questa concezione si ispira in modo diretto al criticismo kantiano. Schopenhauer vi introduce però due notevoli semplificazioni. In primo luogo sostiene che le forme a priori sono soltanto tre: spazio, tempo e causalità. « Applicando le forme a priori del tempo e dello spazio al materiale greggio delle sensazioni, » spiega Annibale Pastore, « si oppone alla molteplicità instabile del flusso temporale la molteplicità stabile della persistenza spaziale... applicando ai vuoti quadri della molteplicità temporale e spaziale la forma piena a priori della causalità si riconciliano le forme del flusso instabile del tempo con le forme della persistenza dello spazio. » In secondo luogo sostiene che tutte e tre le forme an­zidette provengono dall'intelletto (negando con ciò la distinzione kantiana tra forme a priori dell'intuizione e forme a priori dell'intelletto), e inoltre che il « processo intellettuale » è una funzione del cervello, onde ha esso pure, come già le sensazioni, una ben determinata base fisiologica. Sviluppando questa teoria fino alle estreme conseguenze, egli giungerà ad affermare che tale processo è comune agli uomini e agli animali, pur conseguendo nei primi una perfezione maggiore che nei secondi.

Da quanto abbiamo ora accennato, emergono chiaramente alcune analogie fra la posizione di Schopenhauer e quella di Reinhold (brevemente esposta nel penultimo capitolo del vol. terzo); anche questi infatti sosteneva che l'intelletto rientra nell'attività rappresentativa. Egli aggiungeva però- e qui il nostro autore si distacca nettamente da lui- che la medesima cosa varrebbe anche per la ra­gione. Schopenhauer afferma invece che la funzione caratteristica della ragione è del tutto diversa: non, cioè, quella di applicare forme a priori al materiale greggio delle sensazioni dando così luogo a effettive conoscenze, ma soltanto di elaborare concetti a partire dalle rappresentazioni già ben costituite: « Concetti che essa poi fissa nelle parole e che le forniscono la materia per le sue infinite combinazioni per mezzo dei giudizi e dei raziocini, i quali costituiscono il tessuto del mondo del pensiero. » I concetti sono rappresentazioni secondarie, ricavate per astra­zione dalle vere e proprie rappresentazioni, e non posseggono alcun valore se non rinviano a tali intuizioni: « La sostanza intima di ogni reale conoscenza è una intui­zione: ogni verità è il frutto di un'intuizione ... Al contrario, i puri pensieri astratti, che non hanno alcun nucleo intuitivo, rassomigliano a nuvole senza realtà. »

Tali rappresentazioni secondarie « hanno la loro grande utilità in questo, che per mezzo di esse la materia originaria della conoscenza è più facile da maneggiare, esaminare ed ordinare: ma per quante operazioni logiche e dialettiche siano possi­bili con i concetti, pure non scaturirà mai da queste una conoscenza interamente nuova, ossia tale che la materia non sia già nell'intuizione o sia tratta dall'auto­coscienza ». In altri termini~ i concetti e i nessi logici che li collegano sono, da un punto di vista conoscitivo, irrimediabilmente sterili.

Merita a questo proposito ricordare che la distinzione fra nesso logico (ra­gione-conoscenza) intercedente fra concetti, e nesso causale (causa-effetto) inter-

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Schopenhauer e Kierkegaard

cedente fra sensazioni era già affiorata nella tesi di dottorato del I 8 I 3. In essa in­fatti, analizzando il principio di ragion sufficiente, Schopenhauer aveva posto chia­ramente in luce che il principio in esame assume quattro forme radicalmente di­verse a seconda degli oggetti trattati; queste S\)no: principio di ragion sufficiente dell'essere, del divenire, dell'operare e del conoscere. Ecco la spiegazione che ne dà Annibale Pastore: «Il principio dell'essere (essendi) vale per i rapporti di spa­zio e tempo e in accordo con la necessità matematica; il principio del divenire (fìendi) vale per i rapporti fra causa ed effetto e in accordo con la necessità fisica; il principio dell'operare (agendi) vale per i rapporti tra motivo ed azione e in accor­do con la necessità morale; il principio del conoscere (cognoscendz) vale per i rap­porti tra ragione e conseguenza e in accordo con la necessità logica. »

Senza fermarci a discutere quanto vi fosse di kantiano e quanto ancora di fichtiano nel lavoro testé citato (cioè nella tesi de l I 8 I 3 ), sarà opportuno riprendere in esame il pensiero del nostro autore come emerge dalle opere successive, in particolare da Il mondo come volontà e rappresentazione. Una volta escluso che la ra­gione possa condurci a qualcosa di nuovo rispetto al mondo della rappresentazione, Schopenhauer conclude che tutto ciò che noi siamo in grado di conoscere resta irrimediabilmente sul piano fenomenico. È una conclusione che coincide, in sostanza, con la tesi centrale della Critica della ragion pura di Kant.

A questo punto però il filosofo di Danzica introduce nella teoria kantiana una profonda innovazione, interpretando il termine « fenomenico » come sinoni­mo di « illusorio », cioè ingannatore. A prima vista può sembrare che si tratti di una semplice sfumatura, aggiunta al testo kantiano; non v'ha dubbio invece che il risultato cui essa ci conduce è completamente estraneo allo spirito dell'autentico kantismo. Schopenhauer non se ne accorge e afferma, al contrario, che la scoperta dell'illusorietà del mondo fenomenico sarebbe proprio uno dei maggiori meriti del fondatore della filosofia critica: « Base e ·anima di tutta la teoria kantiana, » egli scrive, «è l'aver dimostrato il carattere illusorio del mondo nella sua tota­lità. ))

Un secondo grande merito di K.ant sarebbe, sempre secondo Schopenhauer, l'aver scoperto che il mondo fenomenico ci rinvia ad un'altra più vera realtà. Kant però non avrebbe saputo indicarci la via per raggiungerla. Proprio qui il nostro autore è convinto di poter integrare la teoria kantiana, colmando la grave lacuna riscontrata da tutti i prosecutori e critici del kantismo: la lacuna costituita dalla mancanza di ogni conoscenza intorno alla « cosa in sé ».

IV · IL MONDO COME VOLONTÀ

Se il mondo dei fenomeni è soltanto illusorio, non ha ovviamente alcun senso, secondo Schopenhauer, affermare che la vera realtà sia la materia. Questa occupa senza dubbio un posto di primo piano nel campo fenomenico, ed è quindi ben

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Schopenhauer e Kierkegaard

giusto studiare le condizioni materiali (fisiologiche) del prodursi delle sensazioni e delle rappresentazioni. Ma un conto è studiare con la massima esattezza queste condizioni, un altro conto - assolutamente diverso - è pretendere che esse ci forniscano la realtà sottostante ai dati sensoriali e agli oggetti dell'esperienza. Il materialismo si regge proprio sulla confusione tra ricerca delle condizioni materiali di un fenomeno (condizioni appartenenti, esse pure, al mondo fenomeni­co) e ricerca della « cosa in sé », onde il nostro autore ritiene che sia filosofi­camente errato, anzi del tutto insostenibile.

Quale sarà dunque la via per giungere alla « cosa in sé »? Per rispondere a questo interrogativo, Schopenhauer fa appello agli « ultimi profondi segreti » che l'uomo porta nel suo interno. Riflettendo su l}Uesti segreti, ossia su ciò che ci « è accessibile nel modo più immediato », ciascuno di noi scopre (non può far a meno di scoprire) un doppio aspetto dell'essere: da un lato intuisce il proprio organismo, che è l'essere intuito anche dagli altri nel mondo della rappresentazio­ne; da un secondo lato, intuisce la volontà, come insieme di bisogni, di sentimenti oscuri, di impulsi tendenti a conservare la vita, tutte intuizioni che sfuggono com­pletamente agli altri. Senza dubbio anche la volontà ci è data sotto la forma del tempo, e cioè come successione di atti volitivi; il tempo però non l'altera sensibil­mente: essa rimane, cioè, qualcosa di relativamente costante che sfugge, nella sua più intima essenza, alle tre forme a priori della rappresentazione (spazio, tempo, causalità). Questa scoperta della volontà come aspetto più profondo, più reale, del nostro essere non costituisce una verità scientifica fondata sulla conoscenza intellettiva, ma è- secondo Schopenhauer- « la verità filosofica» per eccellenza.

Il nostro autore ne conclude che la volontà è «la cosa in sé» di Kant; «cosa in sé» che, pur sottraendosi alla rappresentazione intellettiva, può tuttavia venir colta da ogni uomo nella propria interiorità. In essa va cercata la realtà profonda, non solo dell'essere umano ma di qualsiasi essere. Né basta: in quanto si sottrae alle forme dello spazio, del tempo e della causalità, la volontà non risulta sotto­posta .al principio di individuazione, che si basa, per l'appunto, su tali forme; non si moltiplica quindi secondo i vari esseri, ma risulta una sola in tutti. E inoltre, per il fatto di non trovarsi sottoposta alla legge di causalità, essa è assolutamente libera, cioè agisce senza alcuna motivazione.

La filosofia della natura di Schopenhauer si radica interamente nella concezio­ne metafisica testé accennata. Analogamente a Schelling egli vede nel mondo natu­rale una profonda unità: unità articolantesi in gradi diversi, a partire da uno infimo verso altri via via più elevati (sì da assumere l'aspetto di unità teleologica). Ciò che lo distingue da Schelling è l'affermazione che la realtà aggettivantesi nei gradi anzidetti sarebbe la volontà; proprio questa identificazione di realtà e vo­lontà lo porta a dare particolare rilievo alla forza inesauribile che si manifesterebbe in ogni fenomeno, quasi un cieco impulso primordiale alla vita.

Il grado infimo sarebbe costituito dalla natura inorganica, allorché la volontà

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Schopenhauer e Kierkegaard

vi si manifesta come pura causalità meccanica. Ma già la comparsa in tale natura di forze particolari non più meccaniche- come il calore, l'elettricità, il magneti­smo - ci pone di fronte a qualcosa di nuovo, di più complesso, se non altro per l'eterogeneità ivi riscontrabile tra causa e effetto. Si passa a un grado più elevato di aggettivazione della volontà, quando questa si manifesta nella natura organica: qui il rapporto causale muta profondamente, assumendo l'aspetto di eccitazione (in cui l'effetto sarebbe incontestabilmente, secondo Schopenhauer, qualcosa di più della causa). A sua volta la natura organica si articola in gradi diversi, sempre più differenziati: essi vanno dalla vita vegetale a quella animale. Allorché finalmente la volontà dà luogo al formarsi del cervello, allora - e solo allora - appare l'in­telletto (presente, come già abbiamo ricordato, non solo nell'uomo ma pure negli animali), e la volontà diventa volontà di conoscenza. « Dal momento in cui appare questo strumento (il cervello),» scrive Schopenhauer, «sorge d'un colpo il mondo come rappresentazione, con tutte le sue forme. Il mondo mostra allora la sua seconda faccia: prima era soltanto volontà, adesso è anche rappresentazio­ne.» Nell'uomo, che costituisce il grado più elevato dell'aggettivazione della volontà, questa, che in se stessa è incosciente, diventa cosciente di sè: « A quel modo che la luce diventa visibile solo per virtù dei corpi che la riflettono, e senza di ciò si perderebbe senza effetto nelle tenebre. »

È inutile sottolineare l'importanza di questa similitudine, sulla quale il no­stro autore ritorna più volte (per esempio quando afferma che la volontà si accende «come luce» per conservare la vita). Essa dimostra il permanere, nella conce­zione schopenaueriana, di un tema già presente in parecchi « filosofi della natura » del primo romanticismo (si pensi a quanto venne detto a proposito di Schelling nel capitolo x del volume quarto).

Ciò che caratterizza la filosofia della natura di Schopenhauer è l'affermazione che gli esseri fenomenici, nei quali si manifesta la volontà, si trovano in perpetua lotta fra loro: lotta irriducibile, senza pietà, in tutti i gradi dell'esistenza. Il fatto è che la volontà costituente il principio dell'universo, proprio in quanto si disperde in infinite volontà particolari, non può non sentirsi lacerata, perché continuamente arrestata nel suo sforzo: questo arresto si esprime come bisogno, mancanza, do­lore. Il dolore viene così ad assumere l'aspetto di stato positivo, universale della realtà; il piacere invece non costituirà che uno stato negativo (il momentaneo appagamento del bisogno, la momentanea cessazione del dolore). Se ne conclude che la vita è insieme tremenda e incantevole, è un continuo oscillare fra il dolore e l'aspirazione a una liberazione da esso.

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V · LA LIBERAZIONE DAL DOLORE

La volontà cosi come si è incarnata nel mondo - anche nel mondo umano -non possiede nulla di divino. Considerare il mondo come una teofania costituisce, per Schopenhauer, il massimo errore dell'idealismo. Esso sta alla base dell'otti­mismo di Hegel, e il nostro autore gli oppone che il dolore è un fatto universale, il quale diventa via via più acuto con l'acuirsi della coscienza: «Il mondo è l'in­ferno, e gli uomini sono a vicenda anime dannate e demoni. » Il vero progresso non può dunque venire cercato entro il mondo: esso consisterà unicamente nel trascendere l'esperienza, liberandosi dalle illusioni dei fenomeni.

Per Schopenhauer, le vie di questa liberazione sono tre: la moralità, l'arte e l'ascetismo.

La moralità consiste in un sapere più elevato che quello dell'intelletto e della ragione. Il principio fondamentale di questo sapere è la pietà, cioè il riconosci­mento intuitivo dell'unità di tutti gli esseri. Tale pietà ha il potere di eliminare dall'animo umano la malvagità, intesa come l'illusione che separa tra loro gli uomini rendendoli stranieri e nemici gli uni agli altri. L'azione negativa della pietà è la giustizia; quella positiva è la carità.

L'arte è la contemplazione delle cose nel loro carattere ideale, ossia: è la con­templazione delle idee. Con questo termine, palesemente attinto dalla· filosofia platonica, Schopenhauer indica gli oggetti puri ed eterni sui quali si modellereb­bero, a suo credere, gli esseri individuali del mondo fenomenico. Mentre la scien­za (rinchiusa nelle forme dello spazio, del tempo e della causalità,) lega l'uo­mo agli oggetti individuali dell'esperienza, considerati nel complesso dei loro rapporti reciproci, l'arte invece lo conduce a qualcosa di completamente diverso: a qualcosa che, per non essere individuale, non partecipa più delle lotte e del do­lore propri del mondo fenomenico. Le idee non sono ricavate per astrazione dalle rappresentazioni individuali, come i concetti; esse sono l'aggettivazione imme­diata della volontà. Chi si eleva alla contemplazione delle idee « dimentica se stesso, sa soltanto che contempla, non sa più chi è », si libera insomma, sia pure solo temporaneamente, del suo essere individuale e quindi della sua volontà di vivere. La più elevata delle arti è la musica che, secondo Schopenhauer, « ci rivela l'essenza intima del mondo, si fa l'interprete della saggezza più profonda in una lingua che essa stessa non comprende ». La musica è, in altri termini, una filosofia inconscia, scritta in termini misteriosi.

L'ascetismo viene interpretato dal nostro autore come l'estrema riduzione possibile della volontà di vivere; esso consiste nella negazione di ogni elemento fenomenico, di ogni conoscenza intellettiva, e riesce pertanto ad attuare la libe­razione definitiva (non più soltanto temporanea) dalle illusioni del mondo empiri­co. Merita di venire, incidentalmente, ricordato che Schopenhauer non riconosce questa negatività al suicidio: esso infatti costituisce, secondo lui, almeno nei casi

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Schopenhauer e Kierkegaard

generali, un atto violento di affermazione, non di negazione; un atto che non estin­gue la volontà di vivere, ma proclama la volontà di condurre la vita in condizioni diverse da quelle che il suicida trova innanzi a sé. La negazione ascetica della vita è, invece, soppressione della particolarità del volere, di quella particolarità che si esprime nell'esistenza individuale. L'ascetismo è la vittoria sulla dispersione che frantuma la volontà in innumerevoli individui in lotta fra loro; è una modi­ficazione radicale della volontà che la trasforma nel suo opposto, in noluntas.

Schopenhauer riconosce alle religioni più elevate - per esempio al cristia­nesimo delle origini, ma soprattutto al buddismo - la capacità di condurre l'uomo alla negazione ascetica: esse non farebbero, secondo lui, che travestire miticamente la verità sublime della negazione della volontà, rendendola accessibile a tutti. Diversamente dalle religioni, la filosofia si sforza di rendere queste verità nella loro perfetta purezza; proprio per questo suo sforzo, però, essa risulta di estrema difficoltà. Ed è per ovviare a tale difficoltà che sorgono, necessariamente, le reli­gioni come « metafisiche popolari ». In esse però rimane sempre presente un gra­vissimo pericolo: quello di perdere il loro valore metafisica, trasformandosi in idolatrie assolutistiche, esclusivistiche, intolleranti. Di fatto, secondo il nostro autore, gli abusi delle religioni hanno condotto alle conseguenze più immorali e più nefaste.

La soppressione della cieca volontà di vivere, sottraendo l'uomo alla catena causale del mondo fenomenico, costituisce - nella filosofia di Schopenhauer -l'unico atto possibile di reale libertà. Al di là della negazione non rimane altro che il nulla: si tratta però di un nulla relativo, di un nulla che sembra tale solo se si considera il mondo illusorio della rappresentazione come vero mondo. Questo nulla può venire simbolicamente raffigurato come un oceano di pace, come un riposo infinitamente profondo dell'anima.

Dopo aver preso le mosse da una riflessione che pretendeva di essere critica, e perciò razionale, sul mondo fenomenico, la filosofia di Schopenhauer giunge così -- attraverso la fantasiosa metafisica della volontà - a una conclusione pret­tamente mistica, e perciò sostanzialmente irrazionalistica. Era il punto di arrivo obbligato per chi aveva voluto considerare tutta l'esperienza come illusoria, la scienza come ingannatrice, il nostro mondo come un inferno.

VI · VITA E OPERE DI KIERKEGAARD

Soren Aabye Kierkegaard nacque a Copenaghen nel I 8 I 3 da una famiglia di modeste condizioni finanziarie e venne educato in un ambiente di austera reli­giosità. Trascorse una giovinezza tormentata e inquieta, durante la quale, reagendo all'educazione ricevuta, tentò in alcuni momenti di realizzare quello che egli stesso chiamerà « la vita estetica », cioè un tipo di esistenza non impegnata in alcun serio dovere, ma disposta a cogliere sapientemente tutto ciò che di volta in

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volta il mondo poteva offrirgli di piacevole. Morto nel I 8 3 8 il padre, che era assai più anziano di lui, Soren si decise a dare maggior ordine alla propria esistenza, onde portare a termine gli studi intrapresi e potersi così avviare ad una carriera del tutto normale (entrando cioè in quella che egli chiamerà« la vita etica»). Nel I 840 conseguì la laurea in teologia presso l'università di Copenaghen e si fidanzò con Regina Olsen. Nel I 84I-42 si recò a Berlino per seguirvi le lezioni di Schelling ma, dopo un primo momento di entusiasmo per la filosofia da questi insegnata, se ne sentì profondamente deluso e ritornò in patria ove trascorse tutto il resto dei suoi anni.

La laurea in teologia abilitava alla carriera di pastore, ma Kierkegaard rinun­ciò ad essa, essendosi ormai convinto dei gravi difetti della chiesa ufficiale, soprat­tutto del carattere estrinseco del cristianesimo da essa professato. Ruppe pure il fidanzamento e scelse di isolarsi dal mondo, denunciando con asprezza i limiti sia della vita « estetica» sia di quella « etica». La piccola eredità !asciatagli dal padre gli permise di dedicarsi interamente agli studi e all'attività di scrittore. Negli ultimi anni della vita, per poter condurre a fondo la polemica contro l'am­biente teologico danese (troppo accomodante, superficiale e permeato di cultura hegeliana) fondò una rivista, «Il momento », 1 di cui uscirono dieci numeri, l 'ul­timo postumo. Negli articoli ivi pubblicati si riflette, insieme con la passione e la sensibilità dell'animo di Kierkegaard, anche la morbosità del suo carattere ama­reggiato. Morì nel I 8 5 5.

Fra i suoi numerosi scritti, ci limiteremo a ricordare i seguenti: Sul concetto dell'ironia con particolare riguardo a S ocra te (I 84 I) che è la tesi di dottorato discussa, come sappiamo, all'università di Copenaghen nel I84o; Aut-aut (I843) ove è ana­lizzata l'alternativa inconciliabile tra vita estetica e vita etica; Timore e tremore (I843), che è una delle opere più significative di Kierkegaard nella quale è prospet­tata l'alternativa, ancora più drammatica, fra i due tipi di vita testé accennati e la vita religiosa; Briciole filosofiche e il Concetto di angoscia, entrambe del I 844, ove si delinea il totale distacco del nostro autore da Hegel; Stadi nel cammino della vita (I845); Postilla conclusiva non scientifica (I846); La malattia mortale (I849) e Scuola di cristianesimo (I 8 5o), nelle quali la concezione religiosa kierkegaardiana assume un carattere sempre più marcatamente mistico. Di grandissimo interesse è pure il Diario, in cui si può seguire l'evoluzione del nostro autore fino agli ultimi anni della sua vita.

VII · L'ANTIHEGELISMO

Già sappiamo che una delle tesi fondamentali di Kierkegaard è la polemica contro il razionalismo. Questo termine include, ovviamente, il razionalismo illu­ministico e quello dei grandi sistemi preilluministici; ma il nostro autore lo ado-

I Il titolo danese della celebre rivista è riteniamo sufficiente riferire il titolo unicamente « Oejeblikket ».Delle varie opere di Kierkegaard nella traduzione italiana.

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pera soprattutto per indicare il sistema di Hegel, dando per scontato, con ciò, che esso rappresenti il punto conclusivo del secolare sviluppo della filosofia ra­zionalistica.

Il fulcro della critica kierkegaardiana a ogni razionalismo si impernia sul­l'affermazione che il pensiero logico non riesce ad afferrare la realtà, né quella naturale, né quella spirituale (ma Kierkegaard si preoccupa quasi esclusivamente di quest'ultima): esso infatti mirerebbe a rinserrarla in un ordine sistematico, chiuso, astratto, mentre l'esistenza concreta sfugge a ogni sistema, essendo un processo sempre aperto. Nel quadro testé delineato si inseriscono, in particolare, le obiezioni ripetutamente sollevate contro il sistema hegeliano.

Come spiegammo in precedenza, la realtà non sarebbe altro, secondo Hegel, che un dispiegarsi dello spirito assoluto, e proprio in ciò andrebbe cercata la radice obiettiva della razionalità del mondo (naturale ed umano). Nel suo di­spiegarsi l'assoluto darebbe sì luogo a successive contraddizioni, ma ognuna di esse verrebbe di volta in volta superata da una sintesi capace di conciliare tesi e antitesi. Si genererebbe così un processo unico e grandioso, la cui coerenza e ne­cessità sfugge a chi lo consideri soltanto da un punto di vista limitato, ma non può far a meno di rivelarsi al filosofo che ne sappia penetrare la dialettica 'interna.

Le obiezioni sollevate da Kierkegaard si possono così riassumere: r) Nello sviluppo dell'assoluto hegeliano gli opposti possono conciliarsi solo

perché la loro opposizione è una mera apparenza; nella realtà invece le opposi­zioni sono inconciliabili, costituendo alternative che si escludono a vicenda.

2) Hegel ritiene, in particolare, che le contraddizioni fra gli individui vengano superate dal costituirsi di istituti sovraindividuali (il « genere » nella terminologia kierkegaardiana); orbene se è vero che negli animali il genere costituisce qualcosa di « più alto » degli individui, non così accade per gli uomini, onde non ha senso cercare nello « spirito oggettivo » il superamento delle loro contraddizioni.

3) Il sistema hegeliano si presenta come una concezione dell'essere infinito, ma proprio perciò non perviene mai al singolo uomo, che esiste per l'appunto come essere finito: questo sacrificio del singolo a beneficio della totalità non può portare che a una filosofia incapace di cogliere l'effettivo processo del reale.

Capovolgendo il metodo stesso dell'hegelismo, Kierkegaard parte invece da una riflessione diretta sull'individuo, quale può venire colto nella sua profonda interiorità, non quale si manifesta esteriormente nel divenire della storia: cioè da una riflessione realistica sul singolo, non sull'uomo in generale. Così impostata la ricerca, egli afferma anzitutto che l'esistere significa, per il singolo, ex-sistere, cioè uscir fuori dall'infinità, prendere coscienza del proprio nulla, trovarsi al confine tra l'essere e il non essere. La categoria fondamentale del singolo non potrà dunque risultare quella che Hegel applica all'infinità (cioè la categoria della necessità razionale), ma un'altra, completamente diversa: la categoria della possi­bilità. Caratteristica del singolo è di trovarsi innanzi a illimitate possibilità, e di

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dover scegliere fra esse; di qui la sua instabilità, l'indecisione fra le alternative possibili, la paralisi da cui è colto di fronte a quel forse che è la caratteristica del possibile. Egli è libero di decidere, ma la sua libertà si traduce in un profondo e invincibile sentimento di angoscia.

Anche Kierkegaard come Hegel vede nell:;t realtà - come già rilevammo -un processo, un perenne divenire; ma la legge di questo divenire non è, per lui, la dialettica hegeliana, éhe pretenderebbe di scorgere un intimo nesso logico fra i vari momenti del processo, bensì una dialettica « qualitativa » che prende atto del completo distacco fra un momento e l'altro.

L'esempio più significativo di questo nuovo tipo di dialettica ci viene offerto, secondo Kierkegaard, dalla riflessione sull'esperienza religiosa, e in particolare sulla forma che essa ha assunto nella tradizione ebraico-cristiana.

In un primo momento l'uomo è vissuto in uno stato di completa innocenza (Adamo nel paradiso terrestre), cioè in uno stato di ignoranza di se stesso. Come ha potuto passare da questo stato alla coscienza di sé? Non sviluppando una qua­lità che in germe (cioè in forma latente) fosse già contenuta nello stato precedente, ma soltanto con un taglio netto, con una rottura, con un atto di ribellione: il peccato originale.

È precisamente questa ribellione che segna il distacco qualitativo fra i due stati. Non rendersi conto della funzione essenziale che essa ha compiuto, significa lasciarsi sfuggire l'autentica dialettica che ha portato alla formazione della co­scienza; significa restare schiavi di uno schema razionalistico astratto, inadeguato a cogliere la situazione umana nella sua profonda tragicità. È l'angoscia stessa del peccato - e soltanto essa - che ha fatto scoprire ad Adamo la propria effettiva esistenza di individuo, che l'ha condotto ad acquisire una piena coscienza di sé dinnan:z;i a dio, di sé quale essere finito di fronte all'infinito. Come spiega assai bene Franco Lombardi, «il concetto del peccato è perciò la categoria che pone il singolo come singolo, è anzi la categoria della singolarità». Non prendere atto di questa categoria significa non comprendere ciò che vi è di più profondo nell'e­sperienza religiosa, e, in ultima istanza, non comprendere la vera natura dell'uomo.

VIII · I TRE STADI: ESTETICO, ETICO, RELIGIOSO

Studiando, con il metodo testé accennato, la vita umana nella sua reale con­cretezza, il nostro autore vi scorge tre stadi alternativi, nettamente distinti fra loro: lo stadio estetico, lo stadio etico e quello religioso. Accenneremo breve­mente a ciascuno di essi, sottolineando il salto che li separa.

Lo stadio estetico è quello della persona che considera il mondo come un grande spettacolo da cui trarre gioia, che si abbandona ad esso, « si lascia vivere » attimo per attimo in un'ebbrezza poetica, costituita di immaginazione e di fantasia. L'esteta non ha da compiere alcuna scelta perché gode tutto e proprio perciò

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Schopenhauer e Kierkegaard

non sente mai la necessità di impegnarsi in nulla; Kierkegaard ritiene di poterlo tipizzare nella figura del « seduttore », intrinsecamente privo di serietà. Senonché, disperdendo la propria personalità, il seduttore finisce nella noia, nell'indifferenza a tutto, nella disperazione (consapevole o inconsapevole), nell'ansia di una vita diversa.

Il momento di rottura, che segna l'inizio dello stadio etico, è l'ironia: essa solleva l'individuo al di sopra del mondo di cose in cui l'esteta si trova immerso e gli impedisce di restarne imprigionato. Kierkegaard lo descrive come un partico­lare rapporto tra finito e infinito in cui (e proprio qui sta la particolarità del rap­porto) quest'ultimo sfugge a ogni tentativo di afferrarlo. Il termine « ironia » sta appunto a indicare il fatto che l'infinito sembra voler deridere il finito, in quanto lo attira irresistibilmente a sé e tuttavia non si lascia mai raggiungere da esso. È, in altre parole, una relazione che si nega nel mome.nto stesso in cui si afferma.

Per realizzare il distacco dal modo di vivere tipizzato nella figura del sedut­tore, l'uomo deve abbandonare la situazione di indifferenza a tutto, che caratteriz­zava lo stadio estetico, e compiere una scelta: rientra in sé, si pente dell'attività spesa (o meglio dispersa) in un mondo che non era se stesso, assume il compito assegnatogli dalla vita, affronta serenamente i sacrifici necessari per restargli fedele. È il modo di vivere tipico dell'uomo coniugato, onestamente dedicato .alla tàmi­glia: il lavoro, il complesso dei rapporti sociali, l'amicizia sono elementi essenziali del suo modo di vivere.

L~etica costituisce lo stadio della rinuncia al finito per raggiungere l'infinito, sacrificio dell'individuale per subordinarlo al generale. Ma proprio perciò tende ad assumere l'aspetto di pura legalità, di affermazione della ragione astratta: diventa convenzionale, comprime la persona, spegne la sua più intima e profon­da spontaneità. La fedeltà a una norma esterna non riesce però a eliminare l'ango­scia di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente; si limita a mascherarla, cioè a nascondere sotto il manto della serenità quel senso di profonda instabilità che caratterizza l'esistenza del singolo.

La vita religiosa, in cui si esprime la vera essenza dell'uomo, ha inizio da una nuova rottura, da uno scacco della vita etica. Il principio religioso si afferma cioè -e qui sta l'elemento di rottura testé accennato- con un carattere di assoluta paradossalità che lo rende inconciliabile con il principio morale (si ricordi la figura di Abramo che riceve da dio l'ordine di sacrificare il proprio figlio !sacco). Per l'appunto questa paradossalità ci pone di fronte a qualcosa di più profondo: a una «interiorità nascosta», cioè a un dramma che il singolo vive nel segreto del pro­prio animo, e di cui gli altri nemmeno si accorgono.

Secondo Kierkegaard, Hegel non ha afferrato l'esistenza di tale interiorità nascosta («la filosofia hegeliana non ammette nessuna legittima interiorità na­scosta»), ed è questo il motivo per cui ha ritenuto che «il generale» potesse co­stituire un momento superiore della vita dello spirito. L'esperienza religiosa ci

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mostra invece, in modo incontestabile, che tale interiorità esiste e che essa non può venire mediata nella morale. « Se non esistesse una interiorità nascosta, » scrive Kierkegaard, « la condotta di Abramo sarebbe insostenibile. Ma se una si­mile interiorità nascosta esiste, noi saremo in presenza del paradosso, irriducibile alla mediazione. »

È questa presenza del paradosso che pone a nudo l'incertezza connaturata al nostro animo: è essa che trascina l'individuo nella disperazione più completa e gli fa nel contempo percepire di non essere l'autore di se stesso. Egli scopre in tal modo la propria finitudine, sente la propria dipendenza da un essere incommensu­rabile con lui, entra in rapporto diretto e personale con dio. Il nostro autore può concluderne che la rivelazione di dio non si attua- come pretenderebbe Hegel-­nella continuità della storia, ma avviene nel tempo, ed è la rivelazione di dio come persona all'uomo come persona.

L'organo di tale rivelazione è la fede, non la ragione; fede che non assume mai il carattere dell'evidenza ma comporta sempre un fattore irriducibile di ri­schio (si ricordi un analogo pensiero, già asserito da Pascal). Sviluppandosi nel­l'interiorità più profonda dell'individuo, esso lo conduce ad abbandonarsi alla grazia di dio, ma non perciò lo libera dall'angoscia della propria finitudine.

Kierkegaard non si nasconde la situazione contraddittoria del credente, il quale prega dio che gli conceda la fede e nel contempo sa che questa sua preghiera è già essa stessa un dono di dio. Ma è proprio il carattere scandaloso di questa contraddittorietà ciò che rivela la presenza di dio, di un dio « che vuole essere amato » e che « discende con l'aiuto dell'inquietudine in caccia dell'uomo. »

La religione che Kierkegaard tiene presente in tutte le sue riflessioni è il cristianesimo. Egli ammette esplicitamente che si tratta di una religione parados­sale, anzi afferma che essa è « la religione del paradosso »; ma ciò che risulta pa­radosso per la ragione è invece criterio di verità per la religione, onde la parados­salità del cristianesimo diventa proprio la garanzia della sua verità. Accettare sinceramente il cristianesimo significa, per il nostro autore, respingere la vecchia via - speculativa, teoretica - della ricerca della verità, riconoscendo senza mezzi termini che essa è irta di equivoci e difficoltà insuperabili; significa contrapporle la via del sentimento, della passione, dell'azione. Significa prendere atto- come scrive Franco Lombardi - che « non soltanto il tempo dei pensatori, ma anche quello del pensiero» è ormai definitivamente passato.

IX · IL «SINGOLO» E LA «FOLLA»

Abbiamo detto poco sopra che, secondo Kierkegaard, non ha senso cercare nella storia la rivelazione di dio; egli si rivela, invece, nell'interiorità nascosta del singolo uomo e si rivela proprio come persona a persona. Di qui la verità pro­fonda della religione cristiana, la quale ammette che dio si sia fatto uomo in

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Cristo, con tutte le assurdità che la ragione ha sempre denunciato in questa figura. Ma- sempre secondo il nostro autore- il vero cristiano non si limita ad accettare con coraggio queste contraddizioni rinunciando alla ragione; egli deve fare qual­cosa di più: non solo ammirare Cristo, ma imitarlo.

Non ci fermeremo qui sulle sferzanti polemiche di Kierkegaard contro i falsi cristiani, e in particolare contro quei pastori protestanti che fanno bellissimi ser­moni sul vangelo alla domenica, vivendo poi, nei restanti giorni della settimana, come tutti gli altri uomini, cioè sentendosi perfettamente in pace con la loro co­scienza per il semplice fatto di attenersi con scrupolo ai precetti convenzionali della morale mondana. « La negazione del cristianesimo è proprio questa: quando colui che lo predica poi non l'attua, non mostra in sé quella cosa che nel sermone dice di essere il cristianesimo. Cristo non ha istituito dei docenti, ma dei seguaci e imitatori. »

Ciò che ci interessa porre in luce, a conclusione del nostro rapido esame del pensiero kierkegaardiano è un altro problema, di ordine molto più generale. Se la rivelazione del Cristo avviene nell'interiorità nascosta del singolo, l'effetto che ne deriva dovrà esso pure esaurirsi in tale interiorità, o dovrà estrinsecarsi nei rap­porti del vero cristiano con la moltitudine che lo circonda? Le risposte date dal no­stro autore a questo problema non sono sempre univoche; anzi taluno afferma che egli passò attraverso due posizioni (la seconda rappresentata soprattutto dagli ultimi scritti), e giunge a parlare di un primo e di un secondo Kierkegaard.

Il primo Kierkegaard, insistendo sul carattere nascosto dell'interiorità, presenta la fede soprattutto come un rapporto diretto fra l'animo dell'individuo e dio, rap­porto segreto, che fa sentire drammaticamente al credente di essere peccatore e attra­verso questo disperato sentimento gli fornisce la coscienza della propria singolarità.

Tipica è, da questo punto di vista, la posizione che il nostro autore assume nell'opera Timore e tremore, ove sottolinea ripetutamente che il cristianesimo non è un regno di questo mondo, onde risulterà impossibile giudicare se una persona sia o no un vero cristiano in base al comportamento che tiene nel mondo. La fede del cristiano incide esclusivamente sulla sua coscienza interiore: egli è credente, non in virtù di ciò che opera, ma in quanto « non fa nulla se non in virtù del­l'assurdo». Nemmeno si può dire che egli sia in grado di insegnare la verità che vive in sé: non è un maestro ma soltanto un testimone; e « poiché quel testi­mone non ha vinto facilmente quello che ha vinto, tanto meno lo rivenderà a buon mercato; né ha la bassezza di accettare l'ammirazione degli uomini per dare loro in cambio il suo segreto disprezzo; egli sa che la vera grandezza è ugualmente accessibile a tutti ».

Questo tema, che la fede non sia tale se non trasforma - attraverso il dolore -ciò che vi è di più profondo nell'animo del singolo, conserva ovviamente la sua centralità anche nel secondo Kierkegaard. Qui si aggiunge però qualcosa di nuovo : la massima che il cristianesimo non è un regno di questo mondo, muta il

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proprio tradizionale significato. Non ci dice più che il cristianesimo rimane estra­neo alle vicende del mondo, ma che entra in conflitto con esso, vi porta la discor­dia, rende gli uomini infelici (umanamente parlando), li fa « diventare un nulla in questo mondo » perché tale è la condizione indispensabile per « diventare qual­cosa nell'altro. »

Di qui il dovere del vero cristiano di non rinchiudersi in se stesso, ma di entrare in conflitto con la massa di uomini che sono paghi di vivere in questo mondo e di questo mondo. È un conflitto che scaturisce dall'amore, perché amare gli uomini non può significare altro che aiutarli a salvarsi, cioè aiutarli « a essere attenti a Dio, a intendere con quanta leggerezza essi si precludano una vita più alta, la vita di unione con Dio». Ciò non implica- sia ben inteso- che l'amore del prossimo diventi un sentimento più alto dell'amore di dio: il cristiano ama anzituttò dio, e poi ama anche il prossimo perché è dio a prescrivergli di amarlo: «È l'amore di Dio che decide di tutto: esso è la fonte dell'amore del prossimo. »

Nel quadro testé delineato diventa facile comprendere perché l'amore del prossimo non impedisca a Kierkegaard di provare un profondo disgusto per la massa degli uomini comuni ( ove con il termine « massa » o « folla » egli non inten­de riferirsi alla gente del popolo minuto, ma a tutti coloro - poveri o ricchi, plebei o aristocratici - che seguono la morale del «genere», accettano passivamente le opinioni comuni, senza assumersi mai alcuna responsabilità personale). Opporsi alla folla significa, per il vero cristiano, ripudiare la « mondanità tiranna, che vuole tutti gli uomini uguali», e quindi ripudiare gli stessi istituti etico-sociali (famiglia, stato, ecc.) attraverso cui si è realizzato nella storia lo stadio della moralità generale.

È un ripudio che, secondo il nostro autore, porta di necessità allo scontro col mondo (non ovviamente, allo scontro del rivoluzionario che lotta per modi­ficarlo, ma del mistico che gli nega ogni valore). Il cristiano autentico è ben co­sciente dell'ineluttabilità di questo scontro, e deve essere disposto ad accettarlo, affrontandone con coraggio tutte le conseguenze, anche la persecuzione e il mar­tirio. Imitare veramente - e non solo a parole - Cristo, significa imitarlo nello stesso sacrificio della vita: vita che la folla considera quale bene supremo, mentre il cristiano sa che l'unico vero bene è il contatto diretto del finito con l'infinito, del singolo con dio.

Mediante l'esaltazione del sacrificio - o, più esattamente, di questo tipo di sacrificio, consistente nel « diventare vittima per ciò che in verità costituisce la verità»- Kierkegaard è convinto di riuscire in certo senso a conciliare l'amore del prossimo con la strenua difesa della singolarità. È però una conciliazione solo apparente, perché il martire - nel senso in cui lo intende il nostro autore - non affronta, in realtà, il sacrificio per amore del prossimo, bensì per la suprema affermazione di qualcosa che si attua soltanto nel profondo del suo animo: per « diventare spirito », per « essere salvato dal genere ».

Nessuno può negare che si tratti di un atteggiamento autenticamente e sin-

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ceramente mistico; ciò che si nega, è che esso riesca a stabilire una vera mediazione fra il singolo (l'unico reale protagonista, secondo Kierkegaard, della vita religiosa) e il prossimo. In altre parole: anche nel secondo Kierkegaard continua ad essere vero, come nel primo, che« l'unità è la cosa più alta», che« mille sono meno di uno».

Né peraltro tutto ciò deve comunque stupirei; la contestazione radicale della ragione non poteva infatti portare a un diverso risultato, poiché la ragione è lo strumento per eccellenza con cui gli uomini possono giungere a un'intesa reci­proca, mentre il tipo di fede che Kierkegaard le oppone (scaturente dall'assurdo) è uno « stato di grazia » in cui il mistico può trovarsi non per iniziativa propria, né tanto meno perché altri uomini ve l'abbiano portato, ma solo per un intervento diretto di dio; cioè perché dio ha voluto far sentire la sua sconcertante presenza per l'appunto a lui, come « singolo» non come «genere».

La parabola dell 'irrazionalismo è giunta, così, alla sua fatale conclusione. Ha condotto Kierkegaard a fare dell'individuo un essere disumano: irrimedia­bilmente passivo di fronte a dio e totalmente isolato dagli altri uomini, con i quali non può- né gli interessa- stabilire alcuna autentica collaborazione né sul piano della ricerca conoscitiva né su quello della vita pratica.

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CAPITOLO SETTIMO

Il pensiero ftlosoftco inglese. fohn Stuart Mi/l

I · CONSIDERAZIONI PRELIMINARI

La tradizione empiristica aveva radici così profonde nel pensiero inglese, che nemmeno le grandi scosse determinatesi nella cultura europea dopo la caduta di Napoleone riuscirono a porla effettivamente in crisi. Si ebbero, sì, anche in In­ghilterra alcuni accesi seguaci del romanticismo (come ad esempio il filosofo­poeta Thomas Carlyle, ricordato nel capitolo rrr del volume precedente), ma il loro misticismo irrazionalistico non raggiunse un peso tale da incidere profon­damente sull'indirizzo generale della filosofia.

Nella storia dell'Inghilterra assistiamo pertanto ad un trapasso quasi senza discontinuità dall'empirismo illuministico del Settecento al positivismo propria­mente detto, che proprio per questa origine assunse in tale paese un'accentua­zione empiristica assai più marcata di quella che esso aveva avuto nelle opere di Comte. La figura più caratteristica di questa prima fase del positivismo inglese (una seconda fase sarà rappresentata dall'evoluzionismo spenceriano) fu quella di John Stuart Mill, i cui legami con l'indirizzo utilitarista- in particolare con il padre ] ames Mill - confermano in modo palese la stretta connessione tra la nuova filosofia ottocentesca e la tradizione empiristico-illuminista.

Un episodio assai singolare, e in certo senso uno dei più tormentati, del tra­passo anzidetto fu la crisi attraversata dal nostro autore allorché, poco più che ventenne, percepì il vuoto lasciato nel proprio animo dall'educazione puramente intellettualistica che gli era stata impartita. Ma fu una crisi di carattere essenzial­mente personale, che non lo indusse ad abbandonare l'indirizzo empiristico, bensì a compiere ogni sforzo per dargli una nuova apertura, per renderlo in qualche modo sensibile ai problemi avanzati proprio in quegli anni da alcune filo­sofie di carattere antiempiristico (in particolare dal criticismo di Hamilton).

Riservandoci di discutere nei prossimi paragrafi la consistenza delle innova­zioni che J ohn Stuart Mill ritenne di dover apportare alle tesi fondamentali del­l'empirismo, vogliamo qui !imitarci a far presente che, considerate da un punto di vista non personale, tali innovazioni rappresentano essenzialmente un adatta­mento della vecchia problematica settecentesca alla mutata atmosfera culturale.

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Il pensiero filosofico inglese. J ohn Stuart Mill

Sulle radici profonde di questo mutamento di atmosfera culturale si ritornerà in un successivo capitolo, parlando del costituirsi della sociologia. Qui basti no­tare che esso si manifestò, fra l'altro, in una maggiore attenzione di tutto il paese per i risultati teorici e le applicazioni pratiche delle scienze. In altri termini: queste accrebbero in modo tale il proprio peso, da costringere ogni studioso serio a tenere conto dei loro progressi sia nell'impostazione dei problemi filosofici ge­nerali sia in quella degli stessi problemi politici e religiosi.

Mill fu appunto uno di tali studiosi seri, che sentì il costante bisogno di porre a confronto le proprie concezioni con i nuovi insegnamenti della scienza; questa preoccupazione è ciò che permette - più di ogni altro carattere- di qualificare la sua filosofia come positivistica anziché come puramente empiristica, nel signifi­cato settecentesco del termine. Va detto fin d'ora però che il legame scienza­filosofia acquisterà un rilievo ancora maggiore nella fase successiva del positivismo giungendo a far scorgere nella filosofia una semplice generalizzazione delle teo­rie scientifiche.

A conferma del peso via via crescente assunto- nell'epoca in esame- dalla cultura scientifica, può essere opportuno menzionare, a conclusione del paragrafo, alcune significative trasformazioni prodottesi nell'insegnamento superiore inglese durante tale periodo.

Fino a tutto il xvm secolo l 'Inghilterra aveva avuto due sole università: quella di Oxford e quella di Cambridge, severe custodi della cultura tradizionale, a carattere prevalentemente teologico-umanistico. La modernizzazione degli isti­tuti universitari fu cosa estremamente difficile, che richiese un impegno di tutta la classe dirigente, non solo degli studiosi direttamente interessati alla scuola.

Essa ebbe inizio nel I 8 3 z allorché vennero fondati due collegi universitari a Londra, che si unificheranno (I 8 3 6) nella cosiddetta « università federale » di tale città. Poco più tardi fu creata una nuova università a Durham. Erano inizia­tive senza dubbio coraggiose, ma ancora ben lungi dal poter dare inizio a un capovolgimento generale della situazione. Come scrive assai bene lo storico Geor­ge Macaulay Trevelyan, Oxford e Cambridge« mantenevano il loro vecchio mo­nopolio nella considerazione degli inglesi », e le loro antiche strutture « non rende­vano facile per esse accogliere le richieste dei tempi nuovi, specialmente riguardo agli insegnamenti non classici, scientifici e pratici», cosicché l'intera organizzazio­ne universitaria inglese continuava ad essere nettamente arretrata rispetto a quella dei maggiori paesi del continente. Per rovesciare la situazione era indispensabile riformare proprio le università di Oxford e di Cambridge, aprendole verso studi moderni. Questa riforma ebbe inizio nel I85o e richiese circa trent'anni; ma il ri­sultato fu veramente ottimo: si rinnovarono professori e studenti, « si aprirono i posti accademici a tutte le varietà di confessione religiosa » (Trevelyan), si organiz­zarono seri istituti scientifici. Una volta sconfitto il conservatorismo a Oxford e a Cambridge, lo spirito innovatore dilagò rapidamente in tutto il paese: si fondarono

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nuove università nelle maggiori città industriali, si ammisero alla laurea anche le donne (la prima a compiere questa ardita riforma fu l'università di Londra nel I 878), si modernizzarono i programmi di insegnamento. Furono mutamenti ra­dicali che incisero profondamente non solo sulla struttura degli studi ma sul­l'intera società: finì in breve tempo per risultare chiaro che, se il paese voleva mantenersi all'avanguardia del progresso, doveva riformare tutta la propria cul­tura adeguandola ai più recenti sviluppi delle scienze. È un processo di amplissima portata, che occorre tenere costantemente presente, se si vuol comprendere il vero significato del positivismo e si vogliono spiegare gli autentici motivi della sua rapida diffusione.

II · WILLIAM HAMILTON

Prima di iniziare l'esposizione del pensiero di Mill, occorrerà aggiungere qualche parola a quanto già detto nel vn capitolo del volume precedente su William Hamilton (I788-1856), all'esame della cui filosofia Mill dedicò una delle proprie opere fondamentali.

Nato come sappiamo a Edimburgo, Hamilton pubblicò gran parte dei propri lavori sulla rivista« Edinburgh Review »; uno dei più importanti fra essi fu Philoso­phy of the unconditioned (Filosofia dell'incondizionato, I 8 29 ), cui faranno seguito vari al­tri saggi- fra i quali ci limiteremo a ricordare Philosophy of perception (Filosofia del­la percezione, I 8 30) -raccolti poi in un volume dal titolo Discussions on philosophy (Discussioni di filosofia, I852). A partire dal 1836, nominato professore all'uni­versità di Edimburgo, vi tenne una serie di corsi di psicologia, di logica e di meta­fisica che riscossero un grande successo; dopo la sua morte, i discepoli li pubbli­carono in quattro volumi dal titolo Lectures on metaphysics (Lezioni di metafisica, 2 volumi, I86o) e Lectures on logic (Lezioni di logica, 2 volumi, I866). Nel I856 Hamilton aveva curato l'edizione con note e commenti delle opere di Thomas Reid, il fondatore della cosiddetta scuola scozzese di cui abbiamo fatto parola nel capitolo v del volume terzo.

Buon conoscitore della storia della filosofia, il nostro autore ebbe l'incon­testabile merito di fornire ai propri allievi le prime serie informazioni intorno al grande movimento filosofico tedesco fiorito all'inizio dell'Ottocento e intorno alla rinascita di interessi metafisici che esso aveva suscitato in Francia ad opera di Cousin. Dal punto di vista teoretico il pensiero di Hamilton fu invece - a nostro parere - assai debole, come dimostra il fatto stesso che egli ebbe una notevo­lissima ammirazione per Reid e che si illuse di poter conciliare la « filosofia del senso comune » di questo autore con la grande filosofia di Kant; ai meriti e ai limiti della logica hamiltoniana già si è fatto cenno nel citato capitolo del volu­me quarto.

Il kantismo di Hamilton si impernia sulla tesi che ogni conoscenza è relativa: « pensare è porre delle relazioni »; in altri termini: non si può pensare qualcosa

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senza parla in rapporto con qualcos'altro che la condiziona. Di qui la polemica con le filosofie idealistiche (in particolare con Schelling e Cousin), che affermavano la possibilità di conoscere l'incondizionato. Qualunque tentativo di raggiungere un tale tipo di conoscenza è destinato per principio, secondo il nostro autore, a non sortire alcun effetto: l'assoluto infatti« non è concepibile che come una nega­zione della concepibilità ».

La relatività sostenuta da Hamilton trova però essa stessa dei forti limiti (e proprio perciò verrà criticata da Mill) in quanto riguarda soltanto gli oggetti co­nosciuti e non, a rigore, la mente che li conosce (mente che costituisce- come si sottolineò parlando della logica hamiltoniana - il vero oggetto della filosofia). Ed infatti mentre il nostro autore afferma che è impossibile immaginare un feno­meno il quale non sia in connessione con altri (e perciò non risulti da essi condi­zionato), egli sostiene per altro verso che la mente umana possiederebbe una per­cezione immediata degli oggetti esterni, entrando in contatto diretto con essi senza bisogno della funzione mediatrice della rappresentazione. Sulla base di questa testimonianza diretta della coscienza, risulterebbe impossibile negare che la co­scienza stessa e il suo oggetto costituiscono un'effettiva, incontestabile, dualità: « La teoria della percezione immediata, » egli scrive, « non implica che noi per­cepiamo la realtà assolutamente e in se stessa, cioè al di fuori della relazione_ con i nostri organi e le nostre facoltà... L'oggetto, tuttavia, per quanto relativo a noi, non è una pura modificazione: esso è il non-io. » Hamilton ritiene in questo modo di ricollegarsi alla teoria della «cosa in sé» di Kant; in realtà egli dimostra tutta­via di avere compreso ben poco del kantismo, proprio perché ne interpreta le tesi fondamentali in chiave puramente psicologistica. Era il prezzo che doveva pagare, per giungere alla pretesa conciliazione fra Kant e Reid.

Un altro punto, assai significativo, in cui il filosofo di Edimburgo crede di ri­collegarsi a Kant, concerne il recupero dell'incondizionato nella sfera dell'attività pratica. Una volta affermato che questo è rigorosamente inconcepibile, e che per­ciò non se ne può in alcun modo parlare nel campo della conoscenza, Hamilton sostiene che noi riusciremmo a raggiungerlo per altra via: come la voce della natu­ra e di dio, che ci parla « con più autorità » della voce della nostra ragione. Ciò che secondo lui ci conduce a credere nell'incondizionato (ma non a conoscerlo, e questo è il motivo per cui Hamilton parla di docta ignorantia) sarebbe un motivo di ordine morale: ossia la necessità di fare riferimento a un essere assoluto come unico sostegno possibile delle nostre energie spirituali, come unica garanzia della conservazione della nostra mente e del mondo (Mill denuncerà questo appello al sovrarazionale come espressione di «indolenza» e di «conservatorismo»). Con l'affermazione, nel senso testé accennato, dell'assoluto ha termine la filosofia e inizia la vera e propria teologia.

Non è necessaria una lunga analisi per mettere in luce i numerosi equivoci filosofici contenuti nella concezione ora esposta: basti citare, per esempio, la con-

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fusione tra quella che è la« fede nel senso comune» propugnata da Reid e l'accet­tazione kantiana dei postulati della ragion pratica. Così pure non è necessario soffermarci a segnalare il carattere sostanzialmente romantico dell'appello - su cui si fonda tutto il sistema di Hamilton - a una fede immediata, capace di pro­curare all'anima umana una rivelazione sovra-razionale dell'infinito. L'impor­tanza di Hamilton non va tanto cercata nella soluzione, più o meno oscura, che egli prospettò per le grosse questioni trattate, quanto nell'influenza che esercitò entro l'ambito degli studi di logica e più ancora nel fatto che introdusse nella filo­sofia inglese alcuni temi, di carattere prettamente metafisica, del tutto estranei all'orientamento tradizionale di tale filosofia. Vedremo che essi verranno in se­guito ripresi da parecchi pensatori e che eserciteranno una pesante influenza sulla stessa seconda fase del positivismo, in particolare su Spencer.

III ·VITA E OPERE DI JOHN STUART MILL

Figlio di James Mill, uno dei maggiori rappresentanti dell'utilitarismo inglese (del quale abbiamo fatto parola nel volume precedente), John Stuart nacque a Londra nel I 8o6. Di intelligenza molto precoce venne avviato allo studio fin dai primi anni della fanciullezza sotto l'attenta guida del padre: aveva appena tre anni quando questi cominciò a insegnargli il greco, e poco dopo l'aritmetica, la gram­matica inglese, la storia universale, ecc.; a otto anni iniziò lo studio del latino, poi quello della letteratura greca e romana, della logica, dell'economia politica. Questa istruzione, orientata in un senso marcatamente intellettualistico, lo mise in grado di sopravvanzare di molto i suoi coetanei, ma ebbe pure conseguenze assai nocive sullo sviluppo del suo carattere; pur senza muovere alcun esplicito rimprovero al padre, John Stuart rimpiangerà spesso di non essere mai stato veramente fanciullo.

Non ancora quindicenne venne inviato presso una famiglia di amici nella Francia meridionale, ave rimase un anno; qui studiò con grande impegno la let­teratura e la politica francese, provando per esse la più viva e sincera ammira­zione.

Ritornato in patria, si legò al gruppo di giovani studiosi che si era venuto formando intorno a Bentham e al proprio padre e che cercava di difendere e pro­pagandare l'etica e l'economia utilitaristiche. I primi suoi lavori verranno appunto pubblicati sulla « Westminster Review » che - come sappiamo - era l'orga­no del gruppo.

Entrò a soli diciassette anni nella compagnia delle Indie, di cui già il padre era autorevole funzionario. Vi rimase fino alla sua soppressione (I 8 58) raggiungendovi le più alte cariche.

Intanto aveva subìto, verso i vent'anni, una grave crisi del sistema nervoso (quella appunto cui abbiamo accennato nel paragrafo I), durante la quale si convin-

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se della necessità di una cultura più immediata e spontanea che non quella fin allora posseduta, di una cultura cioè basata non solo sull'intelletto ma pure sulla fantasia e sul sentimento. Si dedicò quindi con passione alla lettura degli scritti del romantico Carlyle, nonché delle opere dei saint-simoniani e di Comte, suben­done una profonda influenza. Riuscirà a superare la crisi nel giro di qualche anno, ma il travaglio subìto gli farà acquistare una piena indipendenza di pensiero nei confronti delle posizioni antecedentemente difese. Pur aderendo ancora a molte idee filosofiche e politiche degli utilitaristi, darà alle proprie ricerche una nuova ricchezza di contenuto e un'impronta nettamente personale.

Nel I 843 pubblicò una grande opera filosofica dal titolo: A system of logic ratiocinative and inductive (Sistema di logica raziocinativa e induttiva). Si è già parlato a lungo di essa nel volume precedente (vn capitolo) per quanto riguarda il suo apporto allo sviluppo della logica, ma si dovrà riprenderla qui in attenta consi­derazione sotto l'aspetto più propriamente gnoseologico. Cinque anni più tardi diede alle stampe un importante volume di argomento politico-sociologico: Principles of politica/ economy (Principi di economia politica, I 848); come egli stesso spiegherà «l'economia vi è trattata non quale scienza a sé stante, ma quale parte di un sapere più ampio, quale ramo della filosofia sociale ».

Nel I 8 5 I il nostro autore sposa Harriet Hardy Taylor, alla quale era già profon­damente legato da circa vent'anni (non aveva potuto sposarla prima perché era coniugata). Questa affettuosa amicizia esercitò per lungo tempo un'influenza de­terminante sul filosofo, favorendo lo sviluppo in lui dell' «elemento umano» accanto e al disotto dell' «elemento astratto». Come scrive assai bene Fidia Arata, «la sensibilità umana di Harriet Taylor rappresentò e significò nella mente di Millla presenza viva e palpitante di un'esperienza intima che la cruda educa­zione paterna aveva conculcato e compresso con la sua ferocia razionalistica ». Essa morì nel I 8 59·

Dopo la soppressione della compagnia delle Indie, il nostro autore si ritira in Francia per dedicarsi interamente agli studi. Il suo interesse per le vicende po­litiche dell'Inghilterra rimane tuttavia vivissimo e non limitato a un piano pu­ramente teorico; tant'è vero che nel I865 accetta l'elezione a membro della Ca­mera dei Comuni, ritorna a Londra e partecipa attivamente alla vita parlamentare. Nel I868 però, non essendo stato rieletto, si ritira nuovamente ad Avignone ove morirà nel I873·

Fra i numerosi scritti di Mill posteriori al I 8 5 I ci limiteremo a ricordare: Essay on liberry (Saggio sulla libertà, I 8 59); Considerations on representative government (Considerazioni su/governo rappresentativo, I86I); Utilitarianism (Utilitarismo, I863); Examination of sir William Hamilton' s philosophy (Esame della ftlosofta di sir William Hamilton, I865), che, dopo la Logica, è la più importante opera filosofica del nostro autore; Auguste Comte and positivism (Auguste Comte e il positivismo, I865); Subjection of women (La sottomissione delle donne, I869). Molto interessanti sono in-

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fine la sua Autobiography (Autobiografia, I873) e tre saggi di argomento religioso pubblicati postumi nel I 874 con il titolo: Three essays on re!igion: nature, the utility of religion and theism (Tre saggi sulla religione: la natura, l'utilità della religione e il teismo). I due primi erano stati scritti fra il I85o e il I858, il terzo fra il I868 e il I 870; queste date dimostrano che l'interesse per il problema religioso non fu, per il nostro autore, qualcosa di episodico, ma un assillo che lo accompagnò costantemente durante gli ultimi decenni della sua vita.

Tutte le opere testé elencate qualificano il pensiero di Mill come seriamente impegnato nello sforzo di evitare ogni dogmatismo e perciò stesso ogni posizione estremistica, sempre passibile - secondo lui - di sviluppi dogmatici. È un im­pegno che si estrinseca in tutti i settori della sua attività: in politica come in filosofia, e perfino nei riguardi della religione. In politica lo conduce a schierarsi tra i fautori di un regime liberale borghese, moderato ma sinceramente demo­cratico (difensore dei diritti delle minoranze, della piena parità fra i sessi, ecc.), regime del quale Mill divenne uno fra i più autorevoli teorici non solo inglesi ma europei. In filosofia lo conduce a provare una simpatia altrettanto sincera per il razionalismo degli illuministi quanto per le nuove esigenze romantiche affiorate nel pensiero postilluminista. In religione gli fa assumere una posizione che si ricollega, sì, al deismo settecentesco, ma senza il vigore polemico che era proprio di tale indirizzo.

È fuori dubbio che l'accennata preoccupazione di evitare ogni forma di dogmatismo suscita talvolta, nel lettore delle opere milliane, l'impressione di trovarsi di fronte a un filosofo oscillante, malsicuro, molto onesto ma scarsamente incisivo. È però doveroso osservare, come scrive molto bene Harald Hoffding, che la vera grandezza di Mill non risiede tanto « nei risultati del suo pensiero » quanto «nel suo metodo di indagine, nel modo in cui applicò l'esperienza e il pensiero critico ad una intera serie di problemi teoretici e pratici », nello « spi­rito filosofico » che seppe far vivere in tutti i propri scritti.

IV · IL PROBLEMA DELLA CONOSCENZA

Alla logica di Mill è stato dedicato, come già ricordammo, uno spazio relati­vamente ampio nel volume precedente; vi sono stati fra l'altro discussi i rapporti di Mill con John Herschel e vi si è spiegato come il principio dell'uniformità della natura, fondamento ultimo dell'induzione milliana, sia a sua volta il frutto di un processo induttivo, onde il vero significato di tale induzione consiste nel riconoscimento che occorre «fare dell'esperienza il criterio dell'esperienza stessa».

Il nostro primo compito dovrà essere ora quello di riprendere in esame la nozione di esperienza, che occupa una posizione centrale non solv nella logica ma nell'intera filosofia di Mill. Tale esame varrà a porre immediatamente in

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luce uno dei punti che più differenziano il positivismo di Mill da quello di Comte. Come sappiamo, anche il filosofo francese ritiene che ogni nostra conoscen­

za - per lo meno nello stadio scientifico - sia interamente fondata sull'espe­rienza; ciò significa per lui che, se una teoria non ammette in ultima istanza una verifica empirica, essa risulta essenzialmente metafisica e va perciò espunta dal­l'ambito delle scienze. Egli non ne ricava però che l'esperienza possa o debba venire studiata in se medesima, cioè facendo astrazione completa dagli altri fat­tori che intervengono - insieme con essa - nella costituzione dei processi co­noscitivi. Ogni tentativo di isolarla per coglierla nella sua presunta purezza sa­rebbe, secondo Com te, meramente illusorio; la vecchia psicologia settecentesca che perseguiva un tale programma era infatti, a suo parere, una forma mascherata di metafisica.

Ben diversamente stanno le cose per Mill; egli accetta, sì, la teoria com tiana secondo cui tutte le conoscenze scientifiche devono - per risultare autentica­mente tali- ammettere una verifica empirica, ma la inserisce nella grande tra­dizione del fenomenismo inglese, a lui trasmessa dalla scuola di Bentham e del proprio padre. Si propone pertanto di analizzare l'esperienza stessa, comune­mente intesa come qualcosa di globale, nei suoi dati costitutivi elementari e di determinare il modo in cui questi si combinano fra loro per dare luogo alle varie forme di conoscenza, comune e scientifica.

Agli elementi costitutivi anzidetti attribuisce il nome di « sentimenti» o « stati di coscienza »: essi risulterebbero legati gli uni agli altri da due tipi fon­damentali di relazioni, quella di « somiglianza e dissimiglianza » e quella di « simultaneità e successione ». A partire dagli stati di coscienza e sulla base di queste relazioni sarebbe possibile ricostruire tutti gli stati più complessi mediante una « chimica psicologica » (espressione già usata da J ames Mill); questa si di­staccherebbe dall'associazionismo settecentesco perché farebbe ricorso non più a pure composizioni meccaniche degli elementi ultimi dell'esperienza, bensì a « combinazioni » di essi che, analogamente alle combinazioni chimiche, potreb­bero dar luogo a qualcosa di relativamente nuovo rispetto ai componenti.

Può essere utile, per illustrare le differenze tra .il fenomenismo di Mill e quello settecentesco, fermarsi brevemente ad esaminare l'analisi che egli deli­nea del nesso causale. Il nostro autore ritiene, d'accordo con Hume, che questo nesso si riduca in ultima istanza ad una « invariabilità di successioni» tra fatti della natura: « L 'antecedente invariabile viene denominato causa, il conse­guente invariabile effetto.» Sempre d'accordo con Hume, ritiene pure che tale

invariabilità non possa venire fondata mediante argomentazioni metafisiche; a sottolinearne il carattere prettamente empirico dichiara di occuparsi solo delle «cause fisiche>> non di quelle «efficienti»: «Non sono tenuto a dare un'opinione sulle cause efficienti dei fenomeni, o se tali cause esistano davvero. » Diversa­mente dal grande filosofo del Settecento, Mill pensa tuttavia che sia inutile cer-

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care di giustificare il principio di causalità sulla base della psicologia associazio­nistica; importante è invece, secondo lui, precisare le condizioni che ci permettono di affermare l'esistenza di un nesso causale fra due o più fenomeni, analizzare le forme in cui tale nesso si presenta nelle varie scienze, ecc. Vale la pena ricor­dare, a quest'ultimo proposito, che Mill, pur riconoscendo la serietà dei motivi che indussero Comte a respingere perentoriamente il termine causa (per il cat­tivo uso fattone dai metafisici), sostiene invece l'opportunità di continuare a servirsene - sia pure nel senso ristretto di « causa fisica » - data l'importanza delle funzioni che esso compie nella ricerca scientifica. {< Rifiutando questa forma di espressione, Comte rimane senza alcun termine per contrassegnare una di­stinzione [la distinzione fra causa e effetto] che, per quanto scorrettamente espressa, non solo è reale, ma è una delle distinzioni fondamentali della scienza. » In breve: l'unica vera giustificazione del principio di causalità è il largo uso che ne viene compiuto dalla scienza; è cioè il fatto che «l'investigazione delle cause fisiche» costituisce una importante parte del patrimonio concettuale della co­noscenza scientifica (nel significato stesso che Comte attribuisce a questa no­zione).

Come venne ricordato nel citato capitolo vn del volume precedente, non solo il principio di causalità ma lo stesso principio di non contraddizione è per il nostro autore «una delle prime e più familiari generalizzazioni dell'osserva­zione». Ciò non significa, sia bene inteso, che l'esperienza non ci presenti spesso delle situazioni contraddittorie; ma ce le presenta come problemi che la scienza ha il compito di risolvere. Così intese, esse hanno un valore di stimolo, e fini­scono per costituire un fattore assai importante nella dinamica dei processi conoscitivi. Ancora una volta Mill non sostiene che l'esperienza debba risultare esente da contraddizioni, ma constata che lo sviluppo della nostra conoscenza ci ha sempre condotti alla graduale eliminazione di esse così come ci ha condotti e ci conduce alla scoperta di nuove concatenazioni causali.

Il nostro autore è convinto di collocarsi al di fuori del soggettivismo, perché gli elementi ultimi di cui a suo parere sarebbe costituita l'esperienza, sebbene da lui stesso denominati « stati di coscienza » o « sentimenti », non avrebbero in realtà alcun carattere soggettivo. Essi offrirebbero infatti il punto di parten­za per giungere sia alla nozione di corpo sia a quella di mente, e non potrebbero quindi venire catalogati né come corporei né come mentali. Se è vero che corpo e mente sogliano venire concepiti come qualcosa di più reale degli stati di coscien­za (il primo come « causa ignota che eccita le sensazioni », la seconda come «ignoto ricevente delle sensazioni stesse»), vero è però che un tal modo di concepirli risulta manifestamente illusorio, poiché « nulla sappiamo della na­tura del corpo o della mente, oltre ai sentimenti che il primo eccita e la secon­da riceve».

La tesi della priorità degli « stati di coscienza » rispetto alle nozioni di corpo

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e di mente è notoriamente uno dei capisaldi della filosofia fenomenistica, onde si direbbe che Mill, nell'accettare questa tesi, si sia schierato appieno entro tale indirizzo di pensiero. Questa conclusione sarebbe tuttavia affrettata, perché in realtà il nostro autore è tutt'altro che insensibile alle numerose obiezioni sol­levate contro il puro fenomenismo dalla scuola kantiana e in particolare da Hamilton. Tali obiezioni si incentrano essenzialmente sulla denuncia del carat­tere astratto insito nella tesi secondo cui tutto il mondo fisico e tutto il mondo psichico non sarebbero altro che pure « serie di stati di coscienza ». Mill :rico­nosce onestamente la fondatezza di tale denuncia, :riconosce cioé che la pretesa riducibilità di tutto il mondo fisico e di tutto il mondo psichico a pure « serie di stati di coscienza » costituisce un effettivo travisamento di ciò che constatia­mo nella vita quotidiana: è una tesi metafisica assai più che una generalizzazione dell'esperienza. Si tratterà dunque di :rielaborare un nuovo fenomenismo, ca­pace di sottrarsi alla critica testé menzionata.

La via seguita da Mill per questa rielaboraziope si impernia sulla famosa teoria delle «sensazioni possibili». È una teoria che a prima vista sembra ef­fettivamente risolvere ogni difficoltà, ma che, a un esame alquanto più approfon­dito, pone a nudo i presupposti soggettivistici di tutta la filosofia milliana.

« In verità, » scrive Mill, « noi diciamo che una cosa esiste anche quando è assente, e quando, per conseguenza, essa non è e non può essere percepita. Ma anche allora la parola esistenza esprime unicamente la convinzione in cui noi siamo, che noi percepiremmo questa cosa in certe condizioni, ossia, se noi ci trovassimo nelle condizioni :richieste di tempo e di luogo, e se i nostri organi fossero abbastanza perfetti. » Altrove egli parla di « sensazioni che non sono nella nostra coscienza presente, e che può darsi non vi siano mai state indivi­dualmente, ma che, in virtù delle leggi alle quali noi per esperienza abbiamo appreso che le nostre sensazioni obbediscono, sappiamo che noi avremmo pro­vate in date circostanze, e che noi potremmo provare in queste medesime cir­costanze». Il mondo fisico sarebbe dunque davvero, secondo il nostro autore, null'altro che un insieme di «stati di coscienza» (o «sensazioni»), ma non soltanto di stati di coscienza effettivanente provati (il che risulta incompatibile con gli insegnamenti del senso comune e della scienza), bensì anche di stati di coscienza « possibili » nel senso testé spiegato di questo termine. Analoghe considerazioni si potrebbero ripetere - sempre secondo Mill - per il mondo psichico, ove però sorge il nuovo problema di come possa formarsi, entro tale mondo, quello che noi chiamiamo il singolo « io ». Per :risolverlo, Mill fa ricorso (nell'Esame della filosofia di sir William Hamilton) all'esistenza di stati di coscienza aventi il carattere di :ricordi e di previsioni; deve però riconoscere che la questione presenta parecchi lati oscuri. In sintesi, egli finisce per am­mettere l'esistenza di un «legame» di carattere empirico cui spetterebbe il compito di garantirci che gli stati di coscienza da esso collegati « sono sensa-

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zioni di una persona la quale ha continuato ad essere la medesima per­sona».

È inutile far notare, tanto la cosa è manifesta, che sia il concetto di « sensa­zione possibile » sia quello di « legame personale » fuo:riescano dagli schemi del puro fenomenismo. Mill crede, ricorrendo ad essi, di aver salvato l'indirizzo fenomenistico dalle obiezioni poco sopra ricordate; in :realtà egli lo ha abban­donato, pe:r abbracciare una filosofia di marca prettamentc soggettivistica. A riprova di ciò basti :riflettere sulla nozione di « sensazione possibile », che riu­nisce due termini ovviamente contraddittori: quello di « sensazione », in cui è implicita la datità (pa:rla:re di sensazione significa infatti parlare di « dato senso­dale») e quello di «possibile» ( cioé di « non dato»). Questa contraddizione può venire evitata solo se la possibilità in parola viene :riferita non alla sensa­zione presa in sé, ma alla coscienza di un soggetto il quale attribuisca carattere oggettivo a ciò che immagina di poter p:rova:re ogniqualvolta si trovi in deter­minate condizioni. In questo caso però il :riferimento a un soggetto attivo, for­nito di esistenza p:rolungantesi nel tempo, diventa qualcosa di essenziale.

In conclusione, se è stato un atto di onestà filosofica :riconoscere - come ha francamente :riconosciuto Mill - la gravità delle obiezioni cui va incontro il puro fenomenismo, è stato però un atto di non lieve incoerenza c:rede:re di restar fedele al fenomenismo mentre lo si e:ra di fatto abbandonato. Purtroppo il carattere equivoco di questa posizione è ciò che ha permesso al nostro autore di sentirsi pago di essa, senza approfondirne le implicazioni metafisiche.

Va comunque sottolineato che, malgrado le gravi debolezze testé poste in luce, il pensiero di Mill esercitò una profonda influenza su larghi ambienti della cultura filosofico-scientifica europea: questa influenza non fu dovuta in modo particolare alla teoria delle sensazioni possibili, bensì al sincero appello all'espe­rienza contenuto in tutti gli scritti del nostro autore. La sua tesi che l'intero sapere (perfino la logica e la matematica) tragga le proprie radici dall'esperienza, fu elevata a bandiera contro i pericoli della metafisica, contro la sopravvivenza di vecchie concezioni dogmatiche (sia in filosofia sia nella stessa scienza), contro la tentazione di trasformare le nostre conoscenze in verità assolute e intoccabili. Lo stesso « moderatismo teoretico » di Mill (la sua tendenza a riconoscere, fin dove possibile, le :ragioni dei p:rop:ri avversari) ebbe un'efficacia tutt'altro che trascurabile: valse infatti a dimostrare che l'appello all'esperienza non era dovuto a intransigenza polemica, ma era semplicemente il frutto della civiltà moderna. Positivismo fenomenistico e spirito moderno finirono così col presentarsi come i naturali alleati: alleati non pe:r una guerra contro nemici da demolire, ma per una sicura conquista di nuove, più aperte, posizioni.

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V · LE CONCEZIONI ETICO-POLITICHE

Mode:ratismo, acume nelle osservazioni pa:rticola:ri, sincera disposizione a :rendersi conto delle :ragioni alt:rui, sono ca:ratte:ri manifestamente :riscontrabili anche nelle numerose ope:re di Mill dedicate ad argomenti etico-politici. Essi le :rendono così interessanti che qualcuno è giunto a conside:ra:rle più signifi­cative delle stesse ope:re di logica e di gnoseologia. Degna di nota è pu:re la concretezza delle discussioni ivi svolte, nonché la finezza delle analisi con cui queste sono condotte, basate spesso sull'accurata distinzione dei va:ri signifi­cati solitamente annessi a termini che tutti crediamo di intendere mentre in :realtà sono :radicalmente equivoci (come il termine necessità « in tema di ca:ratte:re umano», il termine giustizia, ecc.). È una metodologia che semb:ra quasi p:re­co:r:re:re quella di taluni indirizzi filosofici inglesi, oggi assurti a g:rande notorietà.

Se la crisi attraversata da Mill allorché aveva ci:rca vent'anni :rappresentò soprattutto - come sappiamo - una :rivolta cont:ro l'intellettualismo degli utilita:risti, il supe:ramento di questa c:risi significò sostanzialmente un :ritorno alle· tesi di:rett:rici dell 'utilita:rismo, inte:rp:retato pe:rò in fo:rma più a:rtitolata e più ape:rta di quella che esso aveva assunto nalle ope:re di Bentham. Ce ne pos­siamo :rendere conto da una semplice lettura delle pagine dedicate dal nostro auto:re all'esposizione della dottrina utilita:ristica e alla confutazione delle più volgari accuse sollevate contro di essa.

Premesso che la tesi centrale dell'utilita:rismo è «che tutte le cose che si desiderano sono fonti di piacere o tendono a p:romuove:re il piacere e a p:reve­ni:re il dolo:re », Mill esamina le :ragioni dell'accanita avversione che questa tesi suol suscitare in una la:rga schiera di critici. « Giacché la vita non ha uno scopo più alto del piacere né un fine migliore e più nobile della :ricerca di questo piacere, tale dottrina (essi sostengono) è materialistica ed abietta: degna solo dei maiali, ai quali i discepoli di Epicuro furono vergognosamente simili. I moderni soste­nitori della teo:ria utilita:ristica sono oggetto di un eguale cortese paragone da pa:rte dei lo:ro nemici. Assaliti così, gli epicurei hanno semp:re :risposto che· non essi, ma i lo:ro accusatori, presentano la natu:ra umana sotto una luce degradante; l'accusa suppone infatti che gli esseri umani siano preoccupati unicamente dei piaceri del senso... Po:r:re sullo stesso piano la concezione epicurea della vita e il cieco istinto degli animali è evidentemente una degradazione, precisamente pe:r il fatto che i piaceri degli animali non soddisfano le condizioni di felicità di un esse:re umano. Le aspirazioni degli esseri umani sono più elevate degli appetiti animali, e la felicità consiste nell'appagamento di queste aspirazioni ... Non c'è una sola teo:ria epicurea della vita che non assegni maggiore impor­tanza alle gioie dell'intelletto, dei sentimenti, dell'immaginazione e della mo:rale che non ai meri piaceri del senso. Si deve dunque :riconoscere che gli sc:ritto:ri utilita:ristici hanno in generale collocato i piaceri dello spirito su di un piano

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superiore a quello della materia, soprattutto considerando la maggiore stabi­lità, sicurezza e gratuità dei primi, cioè tenendo conto dei loro particolari van­taggi più che della loro intrinseca natura. »

Affiora qui una profonda innovazione del vecchio utilitarismo: mentre per Bentham il confronto fra due piaceri era basato soltanto sulla categoria della quantità, Mill ritiene invece che un piacere p0ssa risultare superiore all'altro an­che da un punto di vista esclusivamente qualitativo: « Se mi si chiedesse, » egli scrive, « che cosa io intenda per differenza qualitativa nei piaceri, o che cosa renda un piacere, in quanto tale, più apprezzato di un altro, esclusa ogni valutazione quantitativa, non v'è che una risposta possibile. Di due piaceri, quello verso cui, indipendentemente da ogni sentimento di obbligazione mo­rale, tendono spontaneamente coloro che li hanno esperimentati entrambi, è il piacere preferito. Se l'uno dei due è considerato, dai competenti in materia, decisamente migliore, tale cioé che nessuno lo posporrebbe ad altri piaceri quan­tunque non sempre interamente appagante, -noi possiamo ritenerlo senz'altro pregiato dal punto di vista qualitativo, quanto di scarso valore quantitativo. »

Non è il caso di fermarci a sottolineare l'arbitrarietà dell'ipotesi postulata da Mill (e cioè che esistano piaceri che « nessun competente in materia posporreb­be ad altri»); l'importante è prendere atto che, con essa, egli presume di poter assorbire nell'utilitarismo alcuni temi di provenienza del tutto estranea, cioè di poter mediare due concezioni dell'etica profondamente diverse. È il suo stesso moderatismo, è la sua costante apertura verso le critiche degli avversari che lo induce a una posizione siffatta; ma il rendersi conto della serietà dei motivi su cui si fondano due indirizzi, è cosa ben diversa dal riuscire effettivamente a conciliarli. La difficoltà insita nell'argomentazione di Mill viene clamo­rosamente alla luce nel suo appello alla « spontaneità » con cui tutti coloro che hanno sperimentato due piaceri tenderebbero a uno di essi a preferenza dell'altro; che cosa è infatti l'appello a questa spontaneità se non l'affermazione che esisto­no «preferenze» innate in ogni uomo? e come risulta conciliabile un'afferma­zione siffatta con la tesi, più e più volte espressa da Mill, secondo cui non esi­sterebbero « sentimenti morali innati »?

Mill è un convinto difensore dei diritti dell'individuo, diritti però che egli non concepisce come antitetici a quelli della società, ma come integrantisi con essi. In altre parole: egli tende a raggiungere un equilibrio fra individuo e società che, garantendo al primo la libertà di lavorare per la propria felicità, favorisca nel contempo lo sviluppo della seconda. « La libertà, che sola merita questo nome, è la libertà di cercare il nostro bene personale come meglio crediamo, finché non priviamo gli altri del loro, o non ne ostacoliamo gli sforzi per procurarselo. Ognuno è il custode naturale delle proprie facoltà, sia fisiche che intellettuali e spirituali. Il genere umano s'avvantaggia di più se si lasciano vivere gli uomini come meglio loro piace, che se li si obbliga a vivere come meglio piace agli altri. »

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La visione ottimistica che sotto sta a queste parole dimostra in modo fin troppo evidente che Mill riflette nel proprio modo di pensare le convinzioni della classe borghese, ormai giunta al potere e sicura di poter risolvere- con l'ordinato svi­luppo dei mezzi di produzione- tutti i conflitti sociali. Non che egli sia insensibile alle richieste del popolo, non che si nasconda la gravità delle ingiustizie cui sono ancora sottoposti, anche presso i popoli più civili, molti ceti sociali (in particolare i lavoratori e le donne), ma è sicuro di poterle eliminare con riforme concrete, senza che dò richieda un sovvertimento generale del sistema. Basterà all'uopo che la società rispetti nel modo più scrupoloso e coerente i principi acquisiti dall'illu­minismo nel campo dei problemi politici e religiosi: r) rispetto della libertà di pensiero e di parola, 2) rispetto della libertà di associazione, 3) distinzione com­pleta tra potere temporale e potere spirituale.

Non è il caso di fermarci ad analizzare i limiti di questa concezione, né di de­nunciare l'astrattezza che si nasconde sotto le argomentazioni apparentemente molto circostanziate del nostro autore; come pure non è il caso di ricordare - tanto la cosa è nota - che le idee di Mill vennero considerate, per parecchi de­cenni, come la più elevata espressione delliberalismo democratico e progressista non solo in Inghilterra ma in tutta l'Europa. Vale invece la pena puntualizzare alcune tesi milliane che pongono bene in luce le analogie e le differenze tra il suo pensiero etico-politico e quello dei filosofi antecedenti cui afferma di ispirarsi.

Pur difendendo strenuamente il regime liberale moderno, il nostro autore si sforza di non trasformarlo in qualcosa di metafisica, in un bene assoluto da con­trapporre a tutti gli altri regimi considerati come male. Riconosce per esempio (da buon colonialista inglese) che anche «il dispotismo è una forma legittima di governo quando si ha a che fare con un popolo barbaro, purché si abbia di mira il miglioramento di quest'ultimo, e i mezzi siano giustificati dall'effettivo raggiungi­mento dello scopo »; aggiunge subito però, che « non appena una collettività è in grado di incamminarsi sulla via del progresso usufruendo delle sole sue forze, ... i mezzi coattivi, sia diretti che sotto forma di penalità per le trasgressJoni, non sono più ammissibili come strumenti per far del bene, e sono giustificabili solo in quanto siano coefficienti della sicurezza dei terzi». Ma chi deciderà se una collet­tività è o non è in grado di incamminarsi sulla via del progresso usufruendo delle sole sue forze? Mill non si preoccupa nemmeno di sollevare questo interrogativo, perché lo giudica troppo astratto e troppo metafisica; in realtà il suo empirismo gli fa accettare tranquillamente, sull'argomento, il parere della borghesia inglese dell'epoca, senza comprendere che proprio questo parere andrebbe posto in seria discussione.

Un analogo atteggiamento, di apertura più apparente che reale, viene da lui adottato nei confronti del nascente socialismo. Mill si dimostra - come già ri­cordammo - estremamente sensibile alle istanze avanzate dalla classe operaia, tanto da non volersi pronunciare a priori circa la preferibilità del sistema liberale

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individualistico rispetto a quello socialista: la scelta fra essi, egli afferma, dovrà dipendere «da un'unica considerazione, cioè da quale dei due sistemi si concilii con la massima somma possibile di libertà e di spontaneità umana ». Se però inda­ghiamo un po' a fondo che cosa si cela dietro questa imparzialità, troviamo subito che è un pensiero già predeterminato a favore del primo dei due sistemi, poiché il criterio invocato per il loro confronto è proprio la libertà nel senso in cui viene concretamente intesa dal liberalismo borghese.

Ma vi è di più: il nostro autore manifesta spesso una tale avversione per il modo di comportarsi delle masse, per la loro mediocrità, il loro conformismo, il loro dogmatismo, da indurci a pensare che egli sia favorevole, in realtà, non a un regime liberale democratico bensì a un regime liberale aristocratico. Se l'avver­sione anzidetta assume talvolta il carattere di ribellione (quasi romantica) contro il piatto conformismo borghese imperante nell'era vittoriana, è chiaro che in ultima istanza essa si traduce in una esaltazione del singolo, vero portatore di civiltà, vero protagonista della storia, in quanto ricco « di ingegno, di vigore intellettuale, di toraggio morale ».

Voler fare di J ohn Stuart Mill un liberale-socialista, come tal uni pretende­rebbero, sembra quindi inesatto. Il suo merito, per quanto riguarda i problemi politico-sociali, va cercato in altro: nella sua tenace polemica contro « la presun­zione all'infallibilità», nella sua lotta per impedire che la borghesia - giunta al potere - si trasformi in una classe puramente conservatrice, nemica di ogni inno­vazione, e perciò stesso priva di fiducia in se medesima, incapace di guidare il progresso dell'umanità. «La costante abitudine di correggere e di c0mpletare le proprie opinioni ponendole a confronto con quelle degli altri, lungi dal dar origine a dubbi o esitazioni, è il solo fondamento stabile di una fiducia razionale nelle opinioni stesse. Ed infatti l'uomo che ha previsto, almeno presumibilmente, tutto quello che può dirsi contro di lui e che ha assicurato la sua posizione contro ogni avversario ... ha veramente il diritto di pensare che il suo giudizio abbia mag­gior valore di quello di qualunque altra persona o moltitudine che non ha seguito un eguale procedimento. »

VI · IL PROBLEMA RELIGIOSO

Abbiamo sottolineato nel paragrafo m che il problema religioso interessò a lungo ·il nostro autore, sicché non sarebbe possibile comprenderne appieno il pensiero senza esaminare, sia pure molto in breve, anche i suoi scritti su tale argo­mento.

Va anzitutto osservato che una delle preoccupazioni principali di Mill è quella di dimostrare che le proprie concezioni etico-politiche sono compatibili con una fede religiosa intelligentemente intesa, e in particolare con quella cristiana. Egli è fermamente convinto di avere fornito ,tale dimostrazione, anche se - come

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vedremo- il concetto di dio delineato nei tre Saggi sulla religione risulta, a rigore, assai diverso da quello della tradizione cristiana. Ancora una volta lo sforzo, senza dubbio sincero, di conciliare tesi pressoché antitetiche lo porta, senza che egli ne sia chiaramente consapevole, a posizioni che rasentano l'equivoco.

A conferma della preoccupazione testé accennata si potrebbero citare le pa­gine del Saggio sulla libertà dedicato a dimostrare che il principio ivi sostenuto, della più ampia tolleranza verso ogni opinione non contrasta con il vero insegna­mento di Cristo ( « Io credo che le parole di Cristo siano perfettamente conciliabili con le esigenze di una morale completa ... Se i cristiani desiderano che gli infedeli si mostrino giusti verso il cristianesimo, essi dovrebbero per primi agire con giu­stizia verso i miscredenti »); ma ancora più significative sono quelle dello scritto sull'Uti!itarismo, rivolte a provare che questo indirizzo concorda pienamente con la fede in dio, purché si attribuiscano all'essere supremo i requisiti fondamentali della moralità. «Non raramente vediamo la dottrina dell'utilità diffidata come una dottrina atea. Se è lecito dire qualche cosa contro una valutazione tanto superfi­ciale, noi possiamo dire che la questione si fonda sull'idea che noi ci siamo fatta del carattere morale della divinità. Se è giusto credere che Dio desidera al disopra di ogni cosa la felicità delle sue creature, e che questo è il significato della creazione, l'utilità non è soltanto una dottrina religiosa, ma è più profondamente religiosa di qualsiasi altra. Se si vuol dire che l'utilitarismo non riconosce la volontà rivelata di Dio come legge suprema della moralità, io rispondo che un utilitarista, il quale creda nella perfetta bontà e sapienza di Dio, crede necessariamente che qualunque cosa Dio abbia ritenuto opportuno rivelare in sede morale, appaga sommamente le esigenze dell'utilità. »

Il tema della bontà di dio e della conseguente necessità che egli si preoccupi costantemente della felicità degli uomini ritorna, come motivo centrale, anche nei tre Saggi espressamente dedicati al problema religioso: La natura, l'utilità della religione e il teismo. Qui però il quadro della trattazione si fa più ampio, estendendosi a tutti gli argomenti solitamente inclusi nelle opere di apologetica.

Il primo di questi argomenti riguarda, come è ovvio, l'esistenza di dio. A proposito di esso la posizione di Mill si presenta molto articolata, cosicché sarà opportuno -per chiarezza di esposizione - suddividerla in tre punti:

a) Esistenza di dio e scoperte della scienza moderna. Il nostro autore ritiene che l'ammissione di tale esistenza non sia incompatibile con queste scoperte purché si rinunci a concepire dio come un essere che « governa il mondo con atti di volontà variabili»: «La scienza non contiene nulla che ripugni all'ipotesi che ogni evento che ha effettivamente luogo risulti da una specifica volizione del potere che pre­siede al mondo, purché questo potere aderisca, nelle sue volizioni particolari, alle leggi generali da lui stesso emanate. »

b) Critica delle presunte dimostrazioni, solitamente addotte a favore dell'esistenza di dio. Mill respinge anzitutto con energia l'argomento della causa prima, ove il

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termine « causa » viene manifestamente usato in un senso del tutto diverso da quello che riferimmo nel IV paragrafo, e solo perciò può fornirci l'illusoria im­pressione di farci scoprire un inizio assoluto del mondo ( « i fenomeni o i muta­menti dell'universo hanno, ciascuno, un inizio e una causa, ma la loro causa è sempre un mutamento anteriore » mentre « tanto la materia quanto la forza non hanno avuto - a quanto ci insegna la nostra esperienza ·- alcun inizio»); passa poi ad analizzare l'argomento del cosiddetto consensus gentium, affermando che esso pure non ha alcun valore dimostrativo sia perché « dalla prevalenza generale della fede in una divinità » non si può affatto inferire che tale fede sia « congenita alla natura umana», sia perché la nozione di tale divinità risulta profondamente di­versa da un popolo all'altro («la fede religiosa dei selvaggi non è fede nel dio della teologia naturale, ma ... feticismo della più bell'acqua»); respinge infine gli ar­gomenti di tipo prettamente metafisica, come la famosa prova antologica, perché sono in netto e completo contrasto con i principi stessi della filosofia empiristica.

c) Tracce di un ordine finalistico nella natura. Malgrado l'inconcludenza delle pro­ve tradizionali testé menzionate, esiste tuttavia, secondo Mill, qualcosa che ci sug­gerisce con la forza dei ragionamenti induttivi di ammettere l'esistenza di dio: si tratta dell'ordine della natura, strettamente analogo - sia pure in proporzioni diverse -all'ordine dei dispositivi creati a fini specifici dall'intelligenza degli scien­ziati e dei tecnici: « Le somiglianze tra alcune combinazioni della natura ed alcune combinazioni prodotte dagli uomini sono considerevoli, e persino, se intese come pure somiglianze, esse offrono una presunzione di similarità di causa; ma è difficile dire quanto sia grande questa presunzione. Tutto quel che può dirsi con certezza è che queste somiglianze rendono la creazione del mondo da parte di un'intelligenza molto più probabile di quanto non sarebbe se le somiglianze fossero state minori o se non vi fosse stata alcuna somiglianza. »

Una volta dimostrata «probabile», seppure non assolutamente certa, l'esi­stenza di un'intelligenza che presiede all'ordine della natura, si apre però quello che Mill ritiene il vero e più importante problema religioso: come concepiremo l'essere divino? come interpreteremo i suoi rapporti con il mondo umano?

È per l'appunto in riferimento a questi interrogativi che emerge l'originalità della trattazione compiuta da Mill. È qui che prende il sopravvento la limpida chiarezza del suo spirito razionalistico e l'onestà del suo animo: non è possibile che dio sia infinitamente buono e infinitamente potente; i mali del mondo sono troppo gravi perché un essere buono e onnipotente possa tollerarli. Trattandosi di scegliere fra i due attributi, il nostro autore non prova alcuna titubanza: dio deve essere infinitamente buono, ma non può essere onnipotente. Ne segue, proprio perché la sua potenza è limitata, che egli ha bisogno della più stretta e più sincera collaborazione umana. Balza così al centro dello stesso dramma cosmico l'opera decisiva dell'uomo. Il dio di Mill non è un« principio del mondo», ma un essere completamente inserito nel mondo, come vi sono inseriti tutti gli altri esseri, e in

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particolare quei preziosissimi collaboratori di dio che sono gli uomini. Ad un esame più approfondito si vede, anzi, che sono questi ultimi - e non dio - a costituire i veri protagonisti del dramma cosmico: il fine di questo dramma è in­fatti interamente ed esclusivamente umano.

Né l'uomo, per la sua alleanza con dio, perde alcunché della propria indipen­denza; in realtà tale alleanza serve soltanto ad infondergli una rinnovata fiducia nelle proprie forze e nella propria missione. L'esistenza di dio è invocata soltanto come garanzia della solidarietà di tutti i buoni; ma la lotta conserva inequivoca­bilmente i caratteri di lotta umana, nella quale ciascuno di noi mantiene intatti i propri compiti, le proprie responsabilità, il proprio fondamentale interesse.

Dell'antica religione, con i suoi ben noti problemi metafisici circa la trascen­denza e l'assolutezza di dio, si può dire che- nella concezione testé delineata­non sia rimasto proprio nulla. Ma anche del deismo illuministico è rimasto, in realtà, assai poco: ve ne sono, sì, alcune tracce nelle argomentazioni intorno al­l' esistenza di dio (quale ordina t ore dell'universo che ne rispetta scrupolosamente tutte le leggi), ma si tratta delle parti meno originali dell'opera milliana. Ciò che vi è di più nuovo e di più affascinante riguarda - come già abbiamo detto - i rapporti tra dio e gli uomini; è la parte che potremmo dire più caratteristicamente « positivistica » della concezione di Mill: « positivistica » in quanto manifestamen­te elaborata sotto la diretta influenza di Comte.

A ben guardare le cose, risulta infatti evidente che la religione di Mill non differisce dalla« religione dell'umanità» di Comte fuorché in un punto essenziale: nell'aver sostituito, al dogma comtiano del « grande essere», quello dell'esistenza di un dio intelligente e infinitamente buono, nostro fedelissimo alleato nella grande lotta che tutti ci impegna per il progresso della giustizia e della libertà. Era una sostituzione senza dubbio molto gradita all'Inghilterra dell'epoca milliana, perché poteva suscitare l'illusione di costituire un recupero, entro la cultura scienti­fica, dei dogmi tradizionali; in realtà, però, costituiva un semplice equivoco: l'equivoco del moderatismo di Mill, presente qui come nelle sue concezioni gno­seologiche ed etico-politiche. Se esso ha incontestabilmente favorito la diffusione dell'indirizzo positivistico, ha anche avuto l'effetto di legarlo, più di quanto fosse legato in Comte, alle sorti della borghesia ottocentesca: borghesia aperta sì verso il mondo moderno, ma timorosa di uno scontro frontale contro i residui del passato.

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CAPI'I'OLO O'I''I'AVO

Linee generali dello sviluppo delle scienze matematiche e ftsico-chimiche nella seconda metà dell'Ottocento

I · CONSIDERAZIONI IN'I'RODU'I''I'IVE

Come abbiamo già accennato nel capitolo I, lo sviluppo delle scienze pure ed applicate assunse nella seconda metà dell'Ottocento un ritmo rapidissimo, che le portò al centro dell'interesse generale, almeno nei paesi più progrediti d'Euro­pa: in Francia, Inghilterra, Germania, Austria, Russia e perfino in Italia. Si mol­tiplicarono le pubblicazioni scientifiche; si potenziarono i periodici di matematica, di fisica, di chimica, di fisiologia, ecc. già fondati nei decenni precedenti e se ne crearono dei nuovi; si organizzarono congressi internazionali con la partecipa­zione dei maggiori scienziati dell'epoca; crebbe il peso delle facoltà scientifiche all'interno delle università; in qualche caso si giunse ad affidare a uomini di scienza il ministero dell'istruzione solitamente riservato a giuristi ed umanisti (per esempio in Francia esso venne conferito al chimico Marcelin Berthelot e in Italia al mate­matico Luigi Cremona).

La messe dei risultati raggiunti fu veramente enorme in pressoché ogni campo, sicché diventa in proporzione sempre più difficile fornire un resoconto che abbia qualche pretesa di completezza. Di fronte a questa difficoltà, abbiamo ritenuto op­portuno !imitarci a fermare la nostra attenzione su alcuni di tali risultati, e preci­samente su quelli che ci sembrano più ricchi di significato non solo scientifico ma anche filosofico; riteniamo del resto che la puntualizzazione del loro significato generale per la storia della cultura sarebbe stata, non agevolata, ma resa più diffi­cile se li avessimo inseriti in un'esposizione troppo diffusa e dispersa.

Stando coslle cose, si è deciso di dedicare i prossimi capitoli ai seguenti ar­gomenti: il capitolo IX alla nascita della logica moderna, il x alla teoria dei campi (cioè alla contrapposizione operata da Maxwell di una fisica del continuo a quella del discontinuo), l'xi alla termodinamica (cioè alla scoperta degli importantis­simi concetti di energia e di entropia nonché alla determinazione delle loro leg­gi fondamentali), il XII alla serrata critica condotta da Mach contro la dinamica newtoniana. Un capitolo sarà poi dedicato ai problemi biologici e in partico­lare alla teoria dell'evoluzione, nel volume sesto.

Prima però di affrontare le trattazioni ora accennate, era indispensabile fornire

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Linee generali dello sviluppo delle scienze matematiche e fisico-chimiche nella seconda metà dell'Ottocento

allettare un panorama globale, sia pure molto schematico, dell'insieme- davvero imponente - delle ricerche che impegnarono i matematici, i fisici e i chimici du­rante il periodo in esame: panorama che possa servire da punto di riferimento per quanto verrà detto nei capitoli immediatamente successivi e che faciliti quindi l'orientamento di chi per avventura non avesse alcuna notizia su tale fase della storia della scienza. A questo compito introduttivo è dedicato appunto il pre­sente capitolo, che si sforzerà di dare qualche sommaria informazione, nei precisi limiti testé accennati, sullo sviluppo della matematica, della fisica, della chimica e delle loro applicazioni nella seconda metà del XIX secolo.

Chi voglia maggiori notizie sugli argomenti che verranno qui appena abboz­zati, può agevolmente rinvenirle nei trattati di storia della scienza indicati in bi­bliografia. Ciò che noi sosteniamo è, però, che anche chi non si interessa in modo specifico dello sviluppo della matematica, della fisica, ecc. deve tenere in qualche modo presente ciò che accadde negli anni in questione entro l'ambito di tali disci­pline. Sono fatti che la persona colta non può oggi ignorare, per lo meno nel loro complesso; essi hanno inciso profondamente sulla trasformazione della nostra ci­viltà, cosicché occorre prenderli comunque in considerazione se non ci si vuol fare di essa un'idea completamente monca e distorta.

Gli storici del pensiero filosofico sono da qualche anno pressoché concordi nell'attribuire una certa importanza, per la storia generale della cultura, alla na­scita della logica moderna come pure alla teoria darwiniana dell'evoluzione; sem­brano al contrario meno propensi a riconoscere un effettivo peso filosofico alle numerose novità prodottesi, durante l'epoca in esame, nell'ambito delle conce­zioni fisiche. Il nostro parere è invece che tale peso sia stato assai grande, e proprio perciò riteniamo indispensabile dare un ampio rilievo alle laboriose trasformazioni verificatesi anche in questo ambito.

L'importanza delle trasformazioni testé accennate dipende dal fatto che esse coinvolsero proprio l'ultima fase del meccanicismo fisico, cioè di quella concezio­ne in cui si è soliti riconoscere- anche da parte di molti filosofi -l'espressione più tipica del pensiero scientifico moderno. Trattasi, come vedremo, di una fase assai complessa che, da un lato, parve consacrare il trionfo di tale concezione (in quanto i fisici dell'epoca riuscirono a spiegare in termini meccanici gli stessi fe­nomeni termici), e da un altro lato invece ne segnò la fine (in quanto, all'incirca nei medesimi anni, cominciarono a venire sollevate contro il meccanicismo le pri­me obiezioni, che a poco a poco scuoteranno le stesse fondamenta del glorioso edificio). Se siamo disposti a riconoscere che la nascita della visione meccanicistica, nel Seicento, ebbe un incontestabile significato per tutta intera la cultura, non si ve­de il motivo per cui dovremmo negare un pari significato al suo tramonto verso la fine dell'Ottocento.

Va infine sottolineato che le vicende della « fisica classica » ( ottocentesca) sono molto importanti anche perché costituirono la premessa diretta dei ben più

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:radicali rivolgimenti ve:rificatisi nella disciplina in esame durante gli ultimi anni del secolo scorso e i primi del nostro: :rivolgimenti che fecero capo a due teorie il cui significato, non solo per la scienza ma in generale per la filosofia, non viene più contestato oggi da nessuno. Intendiamo :riferirei alla teoria della :relatività e alla fisica quantistica.

Pur rinviando in seguito il difficile compito di discutere, in tutta la loro ampiezza, il significato scientifico e le implicanze culturali di tali teorie, ci pro­poniamo di cominciare fin d'ora ad esporle (nelle loro grandi linee) proprio per po:rne in luce i profondi nessi con gli ultimi sviluppi della fisica classica. Ad esse dedicheremo i capitoli xm e XIV della sezione ottava.

Il · LA MATEMATICA

Come si è accennato nel paragrafo precedente, qui ci limiteremo a fornire qualche rapidissima notizia sugli sviluppi più tecnici della matematica, lasciando ad altri capitoli il compito di esporre con maggiore ampiezza i progressi conse­guiti nel settore dei fondamenti e della cosiddetta « logica matematica ». È chiaro che furono proprio questi ultimi progressi ad avere le maggiori :ripercussioni nel campo della cultura filosofica, ed è ben comprensibile quindi che essi occupino un posto di speciale importanza nella nostra trattazione. Occorre tuttavia che il lettore tenga presente, almeno nelle sue linee generalissime, il panorama complessivo degli studi matematici, se non vuole farsi un'idea inadeguata di questo campo tanto importante del pensiero scientifico moderno.

Non v'è dubbio che la gran maggioranza dei matematici della seconda metà dell'Ottocento ebbero in :realtà un interesse piuttosto scarso (o addirittura nullo) per i problemi logici e per i dibattiti concernenti la fondazione della loro scienza; essi usavano sì, nelle proprie argomentazioni, un :rigore dimostrativo nuovo, to­talmente sconosciuto ai grandi maestri del Settecento, ma non sentivano ancora -come si sente oggi- la necessità di precisare la natura di tale rigore. Non per questo la loro opera può venire da noi sottovalutata o, peggio, passata sotto si­lenzio; ciò costituirebbe un'arbitraria amputazione del concetto di cultura, e un nuovo motivo di incomprensione tra il filosofo - impegnato in un esame generale delle categorie del conoscere - e il vero e proprio scienziato.

Tra i grandi rami della matematica fu soprattutto l'analisi a conseguire, nel­l'epoca che stiamo esaminando, alcuni fondamentali progressi tecnici; questi eb­bero un'importanza enorme e :riuscirono a fare della disciplina in esame un edificio grandioso ed armonico, giudicato dai contemporanei pressoché perfetto. Quando si parla di « analisi classica » ci si suol :riferire proprio ad esso, e si intende sotto­lineare- con l'aggettivo «classica»- che tale edificio :rappresenta una fase ben più matura e scientificamente valida di quella in certo senso fantasiosa e turbolenta del Settecento.

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Il successivo trapasso dall'analisi classica alla cosiddetta analisi moderna fu contrassegnato da due notevolissimi eventi che nel presente paragrafo non pren­deremo in considerazione: la creazione della teoria degli insiemi e il graduale rico­noscimento - da parte dei matematici puri - della funzione essenziale spettante, nella loro scienza, alla vera e propria logica. Poiché si è deciso di rinviare ad un al­tro capitolo la trattazione di questi due argomenti, sarà opportuno rimandare ad esso anche l'esposizione delle ricerche sul concetto di numero che ne costituiscono la premessa diretta. Trattasi di temi che esigono un tecnicismo minore di quello richiesto dai capitoli specifici dell'analisi, e sarà quindi possibile esaminarli più in dettaglio.

Qui ci limiteremo a indicare poco più che i titoli delle grandi branche del­l'analisi classica (nel senso stretto del termine). Le pochissime parole che diremo intorno ad esse varranno comunque, per un lato, a fornire al lettore una qualche idea sulla vastità del mirabile edificio, per un altro lato, a fargli intravvedere le linee dì fondo, lungo le quali le stesse ricerche dell'analisi classica porteranno a quelle, assai più astratte, dell'analisi moderna.

Come abbiamo or ora accennato, tutto il grande sviluppo dell'analisi nella se­conda metà dell'Ottocento prese l'avvio dalla svolta in senso rigoristico operatasi qualche decennio prima in questa disciplina (ricordammo nel quarto volume che il merito di tale svolta risale a Gauss e ad Abel, ma soprattutto a Cauchy). In se­guito ad essa, l'analisi non si accontentò più di ricavare il significato dei propri concetti da intuizioni più o meno vaghe della geometria o della meccanica (per esempio dall'intuizione di curva continua, di velocità, di accelerazione, ecc.), ma cercò di determinarlo con la massima cura mediante precise definizioni esenti da ogni possibile equivoco. Fu proprio questo nuovo impianto ciò che permise di compiere una trattazione davvero soddisfacente dei principali capitoli in cui il vasto argomento si era venuto articolando.

Consideriamo, a titolo d'esempio, la teoria delle funzioni. Già sappiamo dal volume quarto che Cauchy aveva dato un importante contributo all'ampliamento di questo tema - centrale per tutta l'analisi - con la creazione della cosiddetta teoria delle funzioni di variabile complessa. Orbene, nella seconda metà dell'Otto­cento non si assiste solo a un mirabile sviluppo del nuovo capitolo, ma anche ad una ripresa - su basi completamente rinnovate - della vecchia teoria settecen­tesca delle funzioni di variabile reale che, trattata in forma rigoristica, rivela ben presto una fecondità per l'innanzi imprevedibile.

Allo studio delle due teorie contribuiscono tutti i maggiori analisti dell'epoca, e in particolare il tedesco Karl Weierstrass che occupa- nella storia dell'analisi durante la seconda metà del secolo - una posizione dominante, analoga a quella che aveva occupato Cauchy nella prima metà di esso. 1 Accanto a lui vanno ricor-

1 Per la biografia di Weierstrass rinviamo al capitolo xn del prossimo volume.

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dati Bernard Riemann, 1 di cui già si fece parola nel capitolo VII del volume quarto per i suoi fondamentali contributi allo sviluppo delle geometrie non euclidee, i francesi Joseph Liouville (I8o9-82) e Charles Hermite (I822-I9oi), i tedeschi Ernst Eduard Kummer (I810-93), Leopold Kronecker (I823-9I) e Hermann Amandus Schwartz (I843-I92I), lo svedese Gosta Mittag-Leffier (I846-I927), gli italiani Felice Casorati (I835-9o), Enrico Betti (I823-92), Ulisse Dini (I845-I9I8).

Né meno importante sarà l'apporto dei matematici della generazione imme­diatamente successiva; basti ricordare, fra essi, i franéesi Émile P i card (I 8 56- I 94 I) ed Edouard Goursat (I 8 58- I 9 3 6), autori di due celebri trattati di analisi, giusta­mente considerati come le migliori esposizioni sistematiche di questa disciplina nella sua fase «classica»; l'italiano Giuseppe Peano (I 85 8-I932) del quale si parlerà a lungo nel capitolo dedicato alla logica, e soprattutto le due maggiori figure della scienza matematico-fisica negli anni a cavallo tra il XIX e il xx secolo: il francese Henri Poincaré (I854-I9I2) e il tedesco David Hilbert (I862-I943) sui quali si ritornerà varie volte nel seguito della nostra trattazione.

Non è questa la sede per spiegare i principi della teoria delle funzioni di va­riabile complessa; basti ricordare che essa venne sviluppata da Riemann e da Weierstrass con due metodi notevolmente diversi, il primo più prossimo alla trat­tazione fattane da Cauchy, il secondo ispirantesi invece alle ricerche di Lagrange sulle serie di potenze. Solo nel Novecento si riusciranno a chiarire a fondo i rapporti tra le due vie.

Diversamente dalle funzioni studiate dalla teoria anzidetta (che risultano sem­pre continue e derivabili), quelle che costituiscono l'oggetto specifico della teoria delle funzioni di variabile reale possono invece avere un andamento assai meno regolare. È una scoperta sconcertante, che segna l'inizio di un nuovo corso del­l'analisi. Essa fu dovuta soprattutto a Weierstrass, il quale riuscì per esempio a dimostrare, avvalendosi delle serie trigonometriche di Fourier, l'esistenza di una funzione che risulta continua in ogni suo punto pur essendo in ogni punto priva di derivata; 2 il fatto che essa risulti continua ci potrebbe far supporre che sia rap-

I Bernard Riemann (I82.6-66) fu uno de­gli scienziati più geniali dell'Ottocento; malgrado la salute estremamente cagionevole e la morte pre­matura, riuscì a dare contributi di fondamentale importanza in geometria, analisi e fisica-matemati­ca. Ebbe pure vivi interessi per la filosofia, ove -come sappiamo dal quarto volume- subì l'in­fluenza del sistema di Herbart. Fu proprio questa influenza a fargli comprendere l'alto valore cono­scitivo delle teorie astratte e generali che, liberan­doci dalla visione tradizionale dei problemi, ci pongono in grado di cogliere la realtà assai meglio che le concezioni troppo legate all'esperienza im­mediata. Compì vari viaggi in Italia, attratto dal clima del nostro paese. Strinse amicizia con Betti e altri matematici italiani, fornendo loro preziosi

stimoli alla ricerca scientifica. Si spense proprio in Italia, a Selasca sul lago Maggiore.

2. La dimostrazione di Weierstrass si basa in modo essenziale sul concetto di « convergenza uniforme » di una serie di funzioni, introdotto nel I82.6 da Abel, che aveva scorto con chiarezza la differenza fra convergenza semplice e conver­genza uniforme. Come è noto, una serie di fun­zioni (I) fr(x) + /2(x) + fa(x) + .... si dice semplicemente convergente in un intervallo (a, b) allorché, fissato un qualunque punto xo di tale intervallo, la serie dei valori assunti da tali funzioni in corrispondenza a questo punto, e cioè la serie (2.) fr(xo) + /2(xo) +fa (xo) + ...

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presentabile con una curva, ma ciò è impossibile perché non siamo in grado di immaginare una curva priva in ogni punto di retta tangente (si ricordino i rapporti fra tangente ad una curva e derivata della funzione corrispondente). La frattura fra analisi infinitesimale e intuizione geometrica non poteva essere più evidente!

L'approfondimento della teoria delle funzioni di variabile :reale si avvarrà notevolmente dei risultati nel contempo raggiunti dalla teoria degli insiemi (di cui si parlerà nel prossimo capitolo), tanto che questa verrà non di rado considerata come una parte integrante di quella. Nel giro di pochi decenni lo studio dei nuovi tipi di funzione costringerà poi i matematici a rivedere e ampliare alcune nozioni fondamentali dell'analisi, .come quelle di integrale; di misura, ecc.

Sono argomenti che già rientrano, senza discussione, in quella che abbiamo chiamato « analisi moderna », e questo ci esime dal fermarci qui ulteriormente su di essi. Ci limiteremo a far notare che la moderna teoria dell'integrazione (secondo Lebesgue, secondo Bo:rel, ecc.) ci offre uno degli esempi più manifesti di trapasso senza discontinuità dall'analisi ottocentesca all'analisi del xx secolo.

Direttamente connessa alla teoria delle funzioni di variabile complessa è in­vece la definizione, elaborata nella prima metà dell'Ottocento da Abel e da Jacobi, delle cosiddette « funzioni ellittiche » :rivelatesi subito di notevolissimo interesse sia per le loro intrinseche proprietà (sono funzioni doppiamente periodiche), sia per le numerose applicazioni che trovano in geometria. Anche questo argomento venne ripreso e approfondito dagli analisti della seconda metà del secolo (in par­ticolare da Weie:rstrass, da K:ronecker e da Hermite), che ne fecero uno dei capitoli più perfetti dell'analisi classica. Tali matematici riuscirono poi a generalizzare il concetto di funzione ellittica mediante quello di « funzione abeliana » (così deno­minata in onore di Abel, cui risalgono i principali strumenti teorici usati nella sua definizione). Poinca:ré ne fornirà un'ulteriore generalizzazione, introducendo il concetto di «funzione automorfa»; la teoria di queste nuove funzioni costi­tuirà uno dei capolavori del suo genio matematico.

Le equazioni differenziali, che già avevano occupato una posizione centrale entro l'analisi settecentesca, continuarono ad essere uno degli argomenti su cui maggiormente si impegnarono gli analisti dell'Ottocento. Esse vennero am­piamente studiate sia nel campo complesso sia in quello reale, e i numerosi teo­remi dimostrati rispetto all'uno come rispetto all'altro permisero di raggiungere chiarimenti sostanziali circa la loro risolubilità, soprattutto per quanto :riguarda le

risulta convergente; in altre parole: allorché, preso un qualsiasi numero e: positivo, si può trovare un indice no tale che, detta Rn (xo) la somma dei ter­mini della (2) successivi al termine di indice n, si abbia l Rn (xo) l < e: per ogni n >no. Si dice invece che la (1) è uniformemente convergente allorché, preso un qualsiasi numero positivo e:, si può tro­vare un indice no tale che si abbia l Rn (x) l <e: per ogni n >no, qualunque sia il valore di x nell'intervallo (a, b). È chiaro che ogni serie di funzioni unifor-

memente convergente è anche semplicemente con­vergente; si possono invece dare vari esempi di serie di funzioni che sono semplicemente con­vergenti senza essere uniformemente convergenti. Per le serie uniformemente convergenti valgono parecchi teoremi di grande interesse matematico; per esempio il seguente: una serie convergente di funzioni si può derivare termine a termine se la nuova serie così ottenuta è uniformemente con­vergente.

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condizioni di esistenza e di unicità dell'integrale delle equazioni stesse, le condi­zioni che si possono impo:r:re alle funzioni che soddisfano a una data equazione, ecc. Di particolare importanza fu la classificazione delle equazioni differenziali secondo illo:ro ordine (cioè secondo l'ordine della derivata sotto cui compare la funzione incognita), secondo che si tratti di derivate totali o parziali, e così via.

Nel XIX secolo cominciarono pu:re ad essere studiate le « equazioni integrali », così chiamate perché la funzione incognita vi compare non già sotto un segno di derivata ma sotto un segno di integrale. Il primo matematico che si trovò di fronte a un'equazione del genere fu Abel nel 1826; un altro esempio venne incontrato undici anni più tardi da Liouville che :riuscì a ideare un metodo assai ingegnoso pe:r :risolve:rla. Ma le :ricerche sull'argomento non :raggiunsero un ca:ratte:re organico che assai più tardi, ad opera dell'italiano Vito Volterra (I86o-I939) che scrisse in proposito un importante lavoro nel I885, e dello svedese E:rik Iva:r F:reedholm (I866-I927) che se ne occupò nei primissimi anni del Novecento. F:ra il 1904 e il I 9 I o usciranno a Gottinga varie memorie di Hilbert, dedicate a fo:rni:re una :rigo­rosa fondazione della teoria generale delle equazioni integrali lineari. I :risultati ivi esposti si :rivelarono subito della massima importanza e valsero a int:rodu:r:re il difficile argomento nella p:roblematica più avanzata del xx secolo.

Strettamente connesso alla teoria delle equazioni integrali è il cosiddetto «calcolo funzionale», nato come branca autonoma dell'analisi nel I887, ancora una volta ad opera di Volte:r:ra. L'idea che sta alla base di esso è quella di conside­rare una variabile x i cui singoli valori dipendono dalla totalità dei valori assunti, entro un determinato intervallo, da una funzione fa sua volta variabile; se, pe:r :rendere il concetto più evidente, pensiamo di poter :rappresentare una generica funzione con una linea (il suo diagramma), la funzione f anzidetta da:rà luogo - p:rop:rio perché è variabile - ad un insieme di linee: ebbene, ogni singolo va­lore di x dovrà dipendere dalla totalità dei punti della linea che gli corrisponde. Pe:r questo motivo V olte:r:ra diede alle variabili x del tipo testé accennato il nome di « funzioni di linea »; poco più tardi il francese Hadama:rd le chiamerà « funzio­nali ». Come è ovvio, esse :risultano funzioni di infinite variabili.

Il calcolo funzionale suscitò immediatamente l'interesse dei maggiori analisti dell'epoca, i quali dimostrarono che esso include in sé l'antico calcolo delle va­riazioni, dandogli una generalità prima sconosciuta. Oggi è diventato uno degli argomenti di maggiore attualità, :rivelandosi idoneo a impostazioni :rigorosamente astratte in conformità alle nuove esigenze del nostro secolo.

Passando o:ra agli altri :rami della matematica, potremo essere molto più brevi, in quanto ci basterà aggiungere poche notizie a quanto detto in altri capitoli. Degli sviluppi dell'algebra e della geometria si è infatti parlato ampiamente nel capitolo VII del volume quarto, accennando anche a parecchi lo:ro sviluppi nella seconda metà dell'Ottocento; dell'aritmetica, e in particolare dell'importante processo di a:ritmetizzazione dell'analisi, si t:ratte:rà nel prossimo capitolo, dedicato - come

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si è detto- alla nascita della logica moderna e al problema dei fondamenti della matematica.

Quanto alla geometria, conviene ancora una volta :ricordare che, in seguito al famoso programma di Erlangen enunciato da Klein nel I 872, essa viene essenzial­mente a consistere nello studio delle proprietà inva:rianti :rispetto a un gruppo di trasformazioni dello spazio su se stesso, assunto come gruppo fondamentale. A se­conda del gruppo scelto con questa funzione, si avrà l'una o l'altra geometria (metrica, p:roiettiva, ecc.).

Non è il caso di insistere sull'importanza di questa visione: essa permise, da un lato di studiare in forma unitaria teorie per l'innanzi considerate come total­mente diverse tra loro, per l'altro lato, di porre in luce gli strettissimi legami fra gli studi geometrici e quelli concernenti la teoria dei gruppi. Agli sviluppi che le idee di Klein trovarono nei lavori di Sophus Lie si è già fatto cenno nel citato capitolo, e non sembra necessario ritornare su di essi.

La scoperta degli stretti legami fra algebra e geometria favorì la nascita di una nuova disciplina, solitamente denominata « geometria algebrica >>. Il merito di averle dato inizio spetta all'italiano Luigi Cremona (I830-I9o3), il quale comprese l 'importanza delle trasformazioni birazionali (oggi dette appunto « trasformazioni c:remoniane ») e avviò con grande successo le :ricerche intorno alle proprietà geo­metriche che :restano inva:rianti :rispetto a tali trasformazioni. Gli studiosi di que­sto argomento sono unanimi nel :riconoscere che le :ricerche di Cremona chiusero l'epoca della geometria p:roiettiva e aprirono quella della geometria algebrica.

Anche l'analisi esercitò una profonda influenza sullo sviluppo della geometria durante tutto il periodo che stiamo considerando. La branca della geometria in cui tale influenza risulta più diretta è la cosiddetta « geometria differenziale», alla quale diedero importanti contributi il grande Riemann e l'italiano Eugenio Bel­trami già :ricordato nel volume quarto, la cui opera venne proseguita da Luigi Bianchi (I856-1928). Un passo fondamentale sarà poi compiuto nel I899 da Gre­gorio Ricci-Cu:rbastro (I853-1925) e Tullio Levi-Civita (I873-I941) con la crea­zione del « calcolo differenziale assoluto » che è un particolare algoritmo, capace di tradurre in precise formule le più complesse questioni geometriche riguardanti le varietà :riemanniane a un numero qualunque di dimensioni (esso verrà larga­mente utilizzato da Einstein nello sviluppo della teoria della :relatività).

Un altro importante :ramo della geometria, affermatosi come disciplina auto­noma verso la fine dell'Ottocento è la« topologia »;ma di esso converrà parlare più tardi, quando si saranno esposte le linee generali della teoria degli insiemi.

Quanto all'algebra e all'aritmetica, ci limiteremo a ricordare che nel I 8 p Liouville diede la prima dimostrazione dell'esistenza di numeri trascendenti (cioè di numeri che non sono algebrici ossia non sono :radici di alcuna equazione alge­brica a coefficienti interi). Nel I873 He:rmite :riuscì a dimostrare che il numero e, base dei logaritmi naturali, è per l'appunto un numero siffatto. Nel 1882 il tede-

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sco Ferdinand Lindemann (1852-1939) ricaverà dalla trascendenza di e quella di 1t.

L'importanza di questo risultato è evidente, se si pensa che esso implica l'impos­sibilità di risolvere con riga e compasso l'antico problema della quadratura del cerchio. Quale conferma dell'interesse suscitato dalle ricerche sui numeri trascen­denti, ricorderemo che Weierstrass, appena avuta notizia del risultato di Lin­demann, lo studiò con tale impegno da riuscire a fornirne in breve tempo una nuo­va dimostrazione completamente originale.

III · LA FISICA

Anche per la fisica, come per le altre scienze, il compito che qui ci proponiamo è molto circoscritto: quello cioè di fornire al lettore una visione globale dello status raggiunto da tale disciplina fra il 186o e il 189o circa, limitatamente agli ar­gomenti che non rientrano fra i temi trattati in modo specifico nei prossimi capi­toli. È chiaro che, a nostro parere, sono proprio questi ultimi temi a presentare il massimo interesse per la storia del pensiero filosofico-scientifico, ed è perciò che li abbiamo fatti oggetto di una trattazione particolare; è anche chiaro però che non risulta possibile comprendere appieno il loro significato, i riferimenti in essi con­tenuti, ecc., se non si tiene presente, per lo meno nello sfondo, il quadro completo delle ricerche fisiche dell'epoca.

Prima di addentrarci nell'elencazione dei principali filoni di tali ricerche sarà comunque opportuno ribadire che la piattaforma comune su cui si muovono è fornita dalla concezione meccanicistica della natura. Trattasi di un« meccanicismo fisico » che si ispira, nei suoi presupposti generali, alla grande eredità del pensiero di Newton e di Laplace, secondo cui la realtà sarebbe costituita di minuscolissime particelle materiali legate l'una all'altra da forze attrattive o repulsive, aventi come direzione la retta che unisce le particelle considerate (o, più esattamente, i loro cen­tri). Sulla base di questo presupposto, la « vera » spiegazione scientifica di un qualsiasi fenomeno viene concepita come articolantesi in due momenti: determina­zione della reciproca posizione in cui si trovano le particelle costituenti il substrato reale del fenomeno stesso, nonché delle loro masse e delle forze che agiscono su di esse, e deduzione - a partire da tale determinazione - delle leggi che debbono regolare l'andamento del fenomeno.

Il compito dello scienziato, che si propone di raggiungere una spiegazione siffatta, sarà dunque esso pure duplice: consisterà cioè nel costruire un modello ideale, che raffiguri la distribuzione delle particelle e delle forze anzidette, e nel determinarne le trasformazioni lungo il tempo sulla base delle equazioni fondamen­tali della dinamica. Se il modello raffigura esattamente la realtà e se le equazioni del­la dinamica sono applicate con la dovuta precisione, la risoluzione matematica di queste equazioni dovrà fornirci- così si pensa - la giustificazione razionale del­le leggi del fenomeno, ossia dovrà condurci alla conoscenza scientifica di esso.

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Per confermare la larga diffusione del modo ora accennato di concepire la realtà e di intendere il lavoro dello scienziato, possiamo riferire le esplicite dichia­razioni in proposito fatte da due fra i più illustri fisici del tempo: il tedesco Helm­holtz di cui già si parlò a lungo nel volume precedente e l'inglese William Thom­son (I 8 24- I 907 ), che venne insignito del titolo di l or d Kelvin in riconoscimento dei suoi grandi meriti scientifico-tecnici.1 Ecco le parole di Helmholtz: « Finalmen­te scopriamo che il problema della scienza della materia fisica è di ricondurre ife­nomeni naturali a immutabili forze attrattive e repulsive la cui intensità dipende interamente dalla distanza. La possibilità di una soluzione di questo problema è la condizione della comprensibilità della natura. » Ed ecco quelle di Kelvin: « Io non sono soddisfatto finché non ho potuto costruire un modello meccanico dell'oggetto che studio. Se posso costruire un tale modello meccanico, compren­do; sino a che non posso costruirlo, non comprendo affatto. » È inutile aggiun­gere, dati gli stretti rapporti tra i problemi studiati dai fisici e quelli studiati dai chimici, che anche questi ultimi condividono in generale il meccanicismo dei loro colleghi; ecco per esempio un'esplicita dichiarazione del già menzionato chimico russo Mendeleev (sul quale ritorneremo nel prossimo paragrafo) : « La realtà della reazione chimica risiede nelle proprietà fisiche e meccaniche delle sue componen­ti. » Si può dire che l'atmosfera culturale dominante fra gli studiosi delle due di­scipline è improntata alle idee testé accennate: alcuni di essi le inquadrano in una visione generale del mondo a carattere apertamente materialistico; altri invece non hanno il coraggio di giungere a questa conclusione. La cosa che qui ci interessa sot­tolineare è che trattasi, comunque, di un materialismo di pretta marca meccani­cistica.

Le ricerche di fisiologia degli organi di senso (in particolare della vista e dell'udito), cui si è fatto cenno nel capitolo xvn del volume precedente parlando di Helmholtz, rientrano manifestamente nel programma di spiegazione meccanicisti­ca, or ora delineato. Stando a cavallo tra fisiologia e fisica, esse parevano indicare una via ormai sicura per gil}ngere ad una graduale unificazione delle due disci­pline. È interessante notare fin d'ora che Ernst Mach rifiuterà con energia questa « pretesa » di spiegare i processi fisiologici sulla base di leggi fisiche, e prenderà lo spunto da tale rifiuto per respingere tutto intero il meccanicismo accusandolo di

I Fu a partire dal I856 che Thomson co­minciò a dedicare una notevole porzione della pro­pria attività a problemi di ingegneria. In tale anno egli aveva presentato alla Royal Society un'impor­tante memoria sulla teoria del telegrafo elettrico. Alcuni mesi dopo la società, da poco costituita, per la costruzione e la posa in opera del primo cavo transatlantico fra I 'Inghilterra e gli Stati Uniti d'America lo invitò a partecipare, come esperto, alla direzione dei lavori. I problemi tecnici incon­trati nell'esecuzione dell'ardito progetto furono numerosissimi e per quell'epoca di enorme diffi-

coltà. Parecchi furono i tentativi falliti, e Thomson dovette fra I 'altro studiare i motivi tecnici del loro fallimento. La colossale impresa venne infine con­dotta a termine nel I 866 con pieno successo, è il nostro autore acquistò d 'un tratto una grandissima celebrità tanto da venire qualificato il maggiore ingegnere del secolo. Nell'occasione si fece pure una cospicua fortuna finanziaria, sia per gli emo­lumenti ricevuti dall'anzidetta società, sia per gli strumenti elaborati nel corso dei lavori e da lui puntualmente brevettati.

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essere una teoria metafisica e di costituire, proprio perciò, un grave ostacolo al libero sviluppo dell'indagine scientifica.

Nel quadro generale della concezione newtoniana dell'universo, rientrano pure, come è evidente, le ricerche meccaniche dirette a provare sperimentalmente i moti di :rotazione e di rivoluzione della terra. Esse culminarono nella famosa esperienza eseguita da Foucault (del quale già parlammo nel volume precedente) al Pantheon di Parigi nel I 8 5 I con un pendolo costituito da una palla del peso di ventotto chilogrammi appesa ad un filo lungo sessantasette metti. Il risultato spet­tacolare di questa esperienza suggerì al celebre fisico francese l'invenzione del giroscopio, che troverà poi innumerevoli applicazioni nella tecnica. V a notato però che l'esperimento di Foucault, per quanto importante, non esauriva il problema di dimostrare la :realtà fisica dei moti attribuiti alla terra dalla teoria copernicana; esso infatti si :riferiva soltanto al moto di :rotazione della medesima intorno al pro­prio asse, non al moto di :rivoluzione lungo un'orbita attorno al sole. È quindi ben comprensibile che i fisici delle generazioni successive abbiano proseguito le :ricer­che sull'argomento, soprattutto nell'intento di dare un significato fisico esatto allo spazio assoluto, condizione indispensabile per poter parlare di moto assoluto; l'esito negativo di tali :ricerche aprirà la via alla teoria della relatività.

Oltre alle indagini testé menzionate di Helmholtz e di Foucault - e, beninte­so, a quelle di particolare rilievo filosofico sulle quali ci soffe:rme:remo in altri capi­toli - le più significative :ricerche di fisica eseguite nel periodo di cui ci stiamo oc­cupando possono venire :raggruppate intorno a quattro temi fondamentali. T:rat­tasi, come è ovvio, di una suddivisione esclusivamente di comodo, ma che ci sem­bra assai utile per orientare il lettore in un campo senza dubbio molto complesso e variamente articolato.

Un primo gruppo di :ricerche riguarda la scomposizione subita dai :raggi lu­minosi nell'attraversare i prismi ottici. Esse costituiscono il naturale prosegui­mento delle ricerche (di grande :rilievo sia per la fisica, sia per l'astronomia e la cosmologia) eseguite nel I8II da Joseph von Fraunhofer (I787-I 8z6) sullo spettro solare, ma finiscono per assumere un'ampiezza e un'importanza via via maggiore. Le principali tappe percorse nell'Ottocento da questa nuova branca della scienza - oggi denominata « spett:roscopia » - furono: la scoperta, che risale ancora alla prima metà del secolo, dell'esistenza di righe di assorbimento oltre a quelle di emissione; lo studio sistematico, sperimentale e teorico, delle :relazioni inter­cedenti fra spettri di emissione e spettri di assorbimento, studio che si concluse con una celebre memoria pubblicata nel I 86o dal tedesco Gusta v Robert Ki:rchhoff (I8z4-87), in cui veniva dimostrato il famoso «principio di inversione »;1 la

1 Queste ricerche furono notevolmente fa­cilitate dalla costruzione (1857), dovuta al fisico­chimico tedesco Robert Bunsen (rSII-99), di un bruciatore - il cosiddetto « becco di Bunsen » - il quale consente di portare ad alta temperatura

le sostanze che si vogliono esaminare, ottenendone lo spettro puro: uno spettro, cioè, non mescolato a quello di altri raggi, in quanto la fiamma prodotta da tale bruciatore, pur essendo molto calda, non è luminosa.

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definizione teorica, dovuta essa pu:re a Ki:rchhoff, e la :realizzazione tecnica del cosiddetto « corpo ne:ro », cioè di un corpo capace di assorbire tutte le :radiazioni che giungono su di esso, e che pertanto, in base al principio di inversione è pu:re in grado di emetterle tutte; la scoperta di alcune fondamentali leggi che :regolano l'emissione del corpo ne:ro: di particolare importanza la famosa formula proposta nel I879 dall'austriaco Joseph Stefan (I835-93), che stabilisce la p:ropo:rzionalità f:ra la :radiazione integrale emessa da tale corpo a una certa temperatura assoluta e la quarta potenza di tale temperatura. Pe:r :renderei conto della straordinaria fecon­dità degli studi sul corpo nero, possiamo fin d'ora :ricordare che, p:rop:rio dall'ap­profondimento di essi, Planck sa:rà condotto nel I9oo ad avanzare l'ipotesi della discontinuità dell'energia; ma su di ciò ritorneremo ampiamente nel capitolo XXIII.

Un secondo gruppo di :ricerche si :riferisce alla determinazione del cosiddetto numero N di Avogadro. Esse divennero di particolare attualità subito dopo il I 86o, e cioè quando Cannizza:ro :riuscì a fa:r accogliere dalla maggioranza dei chi­mici la teoria molecolare (come diremo nel prossimo paragrafo). Un primo valore, sia pu:re alquanto grossolano, di tale numero fu calcolato nel I866 dall'austriaco J oseph Loschmidt (I 8 21-9 5 ), mediante lo studio della diffusione dei gas e del cammino libero medio delle molecole; esso venne poi corretto nel I 8 7 3 dal fisico olandese Johannes Van der Waals (I837-I923), che si servì a tal fine della sua ce­lebre formula concernente la differenza fra gas reali e gas ideali. Altri valori an­cora più esatti di N saranno ricavati all'inizio del xx secolo, a partire da considera­zioni quantistiche.

Le :ricerche del terzo gruppo riguardano le leggi di Fa:raday sull'elettrolisi e mirano a darne una soddisfacente spiegazione teorica. Questa venne trovata sulla base della famosa ipotesi della dissociazione elettrolitica, la quale afferma che una certa percentuale delle molecole dell'elettrolito disciolto risulta dissociata in parti cariche di elettricità di segno contrario (ioni): la conducibilità degli elettroliti sarebbe proprio dovuta alla presenza, in essi, di tali ioni. L'ipotesi in esame venne avanzata pe:r la prima volta nel I 8 57 dal grande fisico tedesco Rudolph Clausius (I822-88) di cui si pa:rle:rà a lungo nel capitolo dedicato alla te:rmodinamica; venne poi :ripresa, perfezionata e corredata di più solide argomentazioni nel I887 dallo svedese Svante Arrhenius (I859-I927), tanto che oggi è solitamente indicata come «ipotesi di Arrhenius ». Per comprenderne l'importanza, basti pensare che fu proprio lo studio degli ioni- di cui essa afferma l'esistenza- a suggerire la prima idea della discontinuità della carica elettrica. Né va dimenticato che gli studi sull'ipotesi di Ar:rhe_nius diedero un notevolissimo contributo a rendere sem­pre più stretti ; legami tra fisica e chimica; oggi le due discipline che nella classifi­cazione di Comte figuravano ancora come scienze fondamentali ben distinte l'una dall'altra, risultano pressoché inscindibili, onde non si può più svolgere un'inda­gine teorica sulla seconda senza fare riferimento ai risultati ottenuti nella teoriz­zazione della prima.

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Ma il gruppo più importante è senza dubbio quello delle ricerche sulle sca­riche elettriche nei gas rarefatti. Esse vennero iniziate poco dopo il I 8 5o dal tecnico tedesco Heinrich Geissler (I815-79), costruttore dei tubi a vuoto molto spinto, solitamente noti come «tubi di Geissler ». Vennero poi proseguite dal matematico e fisico Julius Pliicker (I8oi-68) nonché dal fisico Wilhelm Hittorf (I8z4-I9I4), entrambi tedeschi, i quali studiarono con particolare attenzione la fluorescenza che si produce sul vetro dei tubi anzidetti, nella zona posta di fronte al catodo. Nel I87I il fisico inglese Cromwell Varley (I8z8-83) ipotizzò che questa fosse dovuta all'urto, contro le pareti del tubo, di particelle materiali che partivano dal catodo; nel I876 il fisico tedesco Eugen Goldstein (I85o-I93o) so­stenne invece che il catodo emetteva veri e propri raggi (da lui chiamati «catodi­ci ») di natura analoga a quella dei raggi luminosi. La discussione fu vivacissima e rimase per tre anni di esito incerto. Finalmente nel I 879 venne compiuto un primo passo quasi decisivo verso la sua soluzione, ad opera dell'inglese \Villiam Crookes (I83Z-I9I9)·

Questi era il maggior specialista dell'epoca in ricerche sui tubi ad alto vuoto; nutriva una convinzione così profonda circa la loro importanza, da giungere a scrivere su di essi le seguenti infiammate parole: « Tali tubi rivelano alla scienza un mondo nuovo, in cui la materia esiste in un quarto stato ... ; mondo nel quale non possiamo mai entrare e nei confronti del quale dobbiamo accontentarci di osser­vare e di sperimentare restando dall'esterno.» Furono proprio le accuratissime sperimentazioni da lui condotte sui tubi anzidetti (in cui riuscì a produrre un vuoto notevolmente più alto di quello fin allora realizzato dagli altri fisici), che lo condussero a scoprire le prime prove ineccepibili a conferma della natura corpuscolare dei raggi catodici. La tesi di Goldstein ne usciva manifestamente sconfitta. Tuttavia la difficoltà di ammettere l'esistenza di raggi di natura corpu­scolare appariva tanto grande, che neppure le prove di Crookes riuscirono a persuadere tutti i suoi contemporanei, e così i dibattiti si protrassero ancora per oltre un decennio, con la partecipazione di pressoché tutti i maggiori fisici dell'e­poca.

Il problema venne risolto in modo definitivo solo nel I 89 5, quando il giovane fisico francese Jean Perrin (I87o-I94z) riuscì a dimostrare in modo incontestabile, non solo che i raggi catodici erano costituiti di particelle materiali, ma che queste risultavano cariche di elettricità negativa. Tale scoperta, che segnò l'ingresso nella fisica moderna della nozione di « elettrone », ebbe ben presto le più profonde ripercussioni. Le ricerche sulle nuove particelle si moltiplicarono in modo rapi­dissimo e portarono a risultati via via più sorprendenti. Ormai ~utti si rendevano conto che si era alle soglie di una nuova fase della scienza.

Riservandoci di riprendere l'importante argomento nel prossimo volume, basti qui ricordare il fondamentale significato che ebbe il riconoscimento dell'esi­stenza di altre due sorgenti di elettroni: l'effetto termoionico e quello fotoelettrico.

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Il primo era stato scoperto nel 1879 dall'americano Thomas Alva Edison (1847-193 1), che aveva osservato come un filamento di carbone incandescente emetta un flusso di elettricità negativa; il secondo era stato scoperto fra il 1887 e il 1890 ad opera di vari fisici, che avevano osservato come, sotto talune condizioni, la dispersione delle cariche negative dei conduttori venisse fortemente agevolata se essi erano colpiti da raggi luminosi (e ancor più da raggi ultravioletti). Entrambi i fenomeni avevano sollevato l'interesse di parecchi studiosi, che però avevano incontrato notevoli difficoltà nell'esaminarne il funzionamento. Ebbene, le cose mutarono radicalmente quando - negli ultimissimi anni del secolo - si rico­nobbe che sia l'effetto fotoelettrico sia quello termoioo.ico consistevano proprio nella emissione di elettroni. Era un risultato che per un verso apriva la via a una comprensione esatta dei due fenomeni, per l'altro faceva immediatamente intuire l'importanza che essi avrebbero assunto nell'approfondimento del nuovo capi­tolo della fisica.

Non passerà molto tempo che i travolgenti sviluppi di questo nuovo capi­tolo costringeranno gli studiosi a rivedere a fondo, non solo le loro idee sul­l'elettricità, ma gli stessi principi generali - fino a quel momento accolti -della concezione scientifica della natura. Ciò segnerà la definitiva dissoluzione del vecchio e glorioso impianto meccanicistico della fisica classica.

IV · LA CHIMICA

Dopo la scoperta delle leggi quantitative, avvenuta nella prima metà dell'Ot­tocento, la chimica entrò in una fase di sviluppo rapidissimo, favorito tra l'altro dalla grande quantità di applicazioni cui essa dava luogo, e quindi dal crescente interesse che l'industria dimostrava per questa scienza. Non potendo fornire un panorama dettagliato di tutte le numerose scoperte realizzate durante il periodo di cui ci stiamo occupando, ci limiteremo a tratteggiare alcune tappe dell'anzidetto sviluppo che posseggono a nostro parere un particolare rilievo per la storia del pensiero scientifico nella sua globalità.

Va notato anzitutto che la concenzione « filosofica » più largamente diffusa tra i chimici della seconda metà dell'Ottocento è un generico materialismo mec­canicistico, testimoniato per esempio dalle parole di Mendeleev che abbiamo ri­ferito nel paragrafo precedente. Essa deriva, per un verso, dall'analogo (ma più consapevole) atteggiamento di gran parte dei fisici a loro contemporanei, per un altro verso dal tipo stesso di indagini, prevalentemente sperimentali, perseguite dalle grandi scuole chimiche dell'epoca. Sono proprio i metodi applicati in queste indagini a convincere la maggioranza dei chimici che il principale compito del­lo scienziato moderno ha da essere quello di studiare i processi materiali e le sostanze in essi coinvolte, preoccupandosi soprattutto di non farvi surrettizia­mente intervenire presunte entità sovra-materiali, non controllabili sui fatti.

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Linee generali dello sviluppo delle scienze matematiche e fisico-chimiche nella seconda metà dell'Ottocento

Le conclusioni di ordine pratico, ricavate dalla concezione testé accennata, sono per lo più caratterizzate da una sincera e commovente fiducia nelle possibi­lità che la scienza già offre o ben presto offrirà agli uomini; trattasi però. di una fiducia sostanzialmente ingenua, dettata più dall'entusiasmo che da un serio esame critico della struttura della conoscenza scientifica. Un esempio tipico di questo atteggiamento ci viene fornito dal grande chimico francese Ma:rcelin Be:rthelot (I827-I9o7), il quale, facendosi forte dei notevoli successi conseguiti in alcune nuove sintesi, giunge a sostenere con una ce:rta leggerezza che la chimica ci porrà in g:rado di creare per via sintetica qualunque sostanza tanto del mondo inorganico quanto del mondo organico.

Si è voluto spesso considerare Be:rthelot come un caratteristico :rappresen­tante del tardo positivismo ottocentesco, anche a causa dell'amicizia che lo le­gava a Renan; e, prendendo lo spunto dalla sua manifesta ingenuità, si è affermato che tutto l'indirizzo positivistico era viziato da analogo difetto. È doveroso però osservare che l'illimitata fede del nostro autore nella scienza, anche se esposta in opere di specifico argomento filosofico, proveniva assai più dall'esperienza da lui vissuta di scienziato militante, che non da una meditata :riflessione sui principi generali della filosofia positivistica. In :realtà egli non :recò alcun serio contributo all'approfondimento di questa filosofia, ma finì anzi col gettare involontaria­mente su di essa un immeritato discredito.

Anche se le indagini dei chimici ebbero, assai più di quelle dei fisici, un carat­tere p:rettamente sperimentale, ciò non significa che esse escludessero ogni ela­borazione teorica. Le teorie così costruite non assursero mai, comunque, ad un grado di astrattezza pa:ragonabile a quello delle teorie contemporaneamente ela­borate nell'ambito della meccanica, dell'ottica, dell'elettromagnetismo, ecc.: il compito che si prefiggevano e:ra manifestamente quello di procurare un certo ordine ai nume:rosissimi fatti osservati, senza la pretesa di ticava:re questo ordine da pochi principi generalissimi. Non avevano quindi bisogno di applicare in modo sistematico i capitoli più elevati della matematica, limitandosi a fare :ricorso a questa scienza per calcoli assai semplici, come quello delle proporzioni fra i pesi delle sostanze inte:ragenti fra loro nelle varie :reazioni. Proprio questa diversa struttura delle teorie costituì a lungo il principale elemento discriminatorio fra la chimica e la fisica; solo verso la fine del secolo- come già abbiamo detto­tale discriminazione andrà via via attenuandosi, fino a scomparire del tutto quando si scoprirà che i principi della fisica sono in grado di spiegare anche le leggi em­piriche della chimica.

Per dare un 'idea del tipo di elaborazione testé accennata, cominceremo a prendere in rapida considerazione la nozione di valenza. Questa fece il suo in­gresso ufficiale nella chimica verso il I 8 5 z, · soprattutto ad opera dell'inglese Edwa:rd F:rankland (I825-99), che era stato discepolo di Liebig in Germania ed era poi diventato professore a Mancheste:r (donde si trasferì nel I 86 3 a Londra).

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La rappresentazione ·originale della formula di Kekulé dal Lehrbuch der organischen Chemie di August Kekulé

(Erlangen 1866).

La valenza era da lui concepita come la capacità dell'atomo di un elemento chi­mico di legarsi ad uno o più atomi di un altro elemento preso come campione (in genere l'idrogeno); capacità non giustificata, allora, da alcuna considerazione generale sulla struttura atomica, ma accolta quale semplice dato di fatto suggerito dall'osservazione empirica (come è risaputo, il concetto di valenza viene invece fondato oggi sulle nozioni che la fisica ci fornisce intorno alla costituzione interna degli atomi). Gli argomenti addotti da Frankland a sostegno della nuova nozione si riducevano, in ultima istanza, alla dimostrazione della sua utilità per descrivere le reazioni chimiche, in particolare quelle assai complesse della chimica organica, delle quali era pressoché impossibile l'inquadramento nelle precedenti concezioni. La teoria venne poi precisata e arricchita ad opera di vari chimici, in particolare del tedesco August Kekulé (I 8 29-96) che le dedicò due celebri memorie nel I 8 57 e '58, ove travasi esposta fra l 'altro la legge della tetra valenza del carbonio.

Una delle maggiori difficoltà cui la teoria andava incontro, era costituita dal fatto che il medesimo elemento dimostra talvolta di possedere valenze diverse in composti diversi. Per risolverla occorreva manifestamente rinunciare alla fissità della valenza, cosa tutt'altro che facile però, proprio perché al concetto di va­lenza - non radicato in teorie più generali - pareva potersi attribuire un si­gnificato scientifico solo a patto che esso denotasse qualcosa di esente da ogni variazione; è sintomatico per esempio che lo stesso Kekulé, il quale pur si era tanto impegnato nel diffondere la nuova teoria e darle una forma sistematica, non volle mai rinunciare alla fissità anzidetta, preferendo ricorrere ai più complicati artifici per conciliarla con i fenomeni in palese contraddizione con essa. La varia­bilità delia valenza fu invece sostenuta dal chimico francese Adolphe Wurtz (I 8 I 7-84), che riuscì infine - ma solo dopo lunghi dibattiti - a farla accettare dalla scienza dell'epoca.

Un'altra teoria assai importante - essa pure molto indicativa del modo di procedere dei chimici dell'epoca - è quella molecolare, consistente nella pre-

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eisa distinzione fra atomo e molecola. Come sappiamo dal volume precedente, l'idea di considerare le ultime particelle delle varie sostanze chimiche come composte da più atomi elementari della medesima specie o di specie diverse, era già stata avanzata da Avogadro e da Ampère nella prima metà del secolo, ma senza ottenere alcun successo. Fu merito dell'italiano Stanislao Cannizzaro (I8z6-I9Io)- professore di chimica prima a Genova, poi a Palermo e infine, dal I87I, a Roma- averla riproposta con chiarezza in una memoria del I858.

Poiché anche questa, però, minacciava di passare pressoché inosservata come le memorie di Avogadro e di Ampère, egli si decise a riesporne le linee fon­damentali nel famoso congresso internazionale di chimica che fu tenuto a Karlsruhe nel I 86o. Alla sua comunicazione erano presenti tutti i maggiori spe­cialisti del tempo, e l'italiano riuscì a convincere una notevole parte di essi in quanto dimostrò loro la grande utilità di distinguere gli atomi dalle molecole. Va aggiunto però che questa volta essi non potevano più disinteressarsi della proposta anche per un altro motivo: perché i fisici avevano cominciato nel frat­tempo a fare largo uso del concetto di molecola nella teoria cinetica dei gas. Furono proprio i successi di questa teoria, rivelatasi fondamentale nell'elabora­zione matematico-meccanica della termodinamica, a vincere le ultime resi­stenze.

Intanto si affacciava con sempre maggiore urgenza il problema di scoprire un filo conduttore per ordinare in un quadro sistematico i numerosi elementi ormai noti alla chimica. Le ricerche in proposito, molto agevolate dall'accetta­zione della teoria di Cannizzaro, furono condotte a termine nel decennio I86o­I87o da due grandi chimici che, lavorando indipendentemente l'uno dall'altro, pervennero alla pressoché simultanea formulazione del famoso sistema perio­dico oggi solitamente noto come « sistema di Mendeleev ». Uno di essi era appunto il chimico russo Dmitrij Ivanovic Mendeleev (I834-I9o7) che pubblicò la tabella completa nel I869; l'altro era il chimico tedesco Lothard Meyer (I 830-95) che, dopo aver delineato un primo abbozzo della teoria in un lavoro del I 864, ne diede una più ampia esposizione nel I 87o.

Mendeleev non riuscì soltanto a ordinare gli elementi allora noti (una set­tantina circa) ma pure a rilevare, nel sistema periodico, alcune lacune che face­vano presumere l'esistenza di elementi ancora sconosciuti. Poiché la periodi­cità era basata sul peso atomico diventava abbastanza facile la ricerca di questi elementi, sapendosi quale peso atomico essi avrebbero dovuto possedere. Lo stesso Mendeleev insisteva però sulla necessità di controllare sperimentalmente le proprie anticipazioni.

Sia il chimico russo che quello tedesco erano giunti alla grande scoperta per via prettamente empirica, e cioè in base ad un'attenta osservazione dei pesi atomici e delle altre proprietà degli elementi da ordinare; tant'è vero che il sistema da essi proposto dovette subire negli anni successivi talune modifiche

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CH,-CH,

""-.N~ ~H,-,H,

CH,-0 ossido di etilene etilenimm1na ossido d1 trimetilene

o furano cumarone d1benzofurano

o CD 0:0 pirrolo indole carbazolo

o Oo 0:0 tiofene tionaftene dibenzotiofene

O CJ 0o 0:J pirazolo immidazolo benzopirazolo benzoimmidazolo

(J CJ 0J 0J iscossazolo ossazolo indossazene benzoossazolo

O CJ 0o U.J isotiazolo tiazolo benzoisotiazolo benzotiazolo

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triazoli

n N N '0'

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~~~ N N 'NH'

tetrazolo

OOOOCD ·t pirano 'J. pirano tiopirano piridina c romene

CQ(l)CD) chinolina isochinolina acridina

CJ C:J o pirimidina pirazina piridazina pteridina

triazine> tetrazine

di un certo rilievo quando altri chimici eseguirono misurazioni più precise dei pesi atomici. Allorché poi si cominciò a scoprire l'effettiva esistenza di alcuni nuovi elementi, che riempivano le lacune presentate dalla tabella, questa rivelò la propria sorprendente utilità non solo come strumento di sistemazione ma pure come strumento di ricerca. Ciò non ne modificava però la natura, di teoria a carattere più empirico che razionale, ossia di teoria chimica, non fisica, rica­vata direttamente dai fatti osservati, senza intervento - come direbbero gli epistemologi odierni - di alcuna ipotesi di livello superiore. La cosa davvero straordinaria sarà che, circa mezzo secolo più tardi, il sistema periodico di Mende­leev troverà una perfetta giustificazione nel modello atomico ideato dal fisico Rutherford nel 1911. È difficile negare che questa deduzione abbia dato alla scoperta di Mendeleev un carattere di maggior scientificità di quella da essa inizialmente posseduta.

Una volta ammessa la composizione pluriatomica delle molecole, sorgeva spontaneamente il problema di determinare in che modo gli atomi risultino collegati fra loro entro la molecola. È l'argomento specifico della cosidetta strutturistica chimica che si occupa appunto della determinazione della struttura dei composti chimici, valendosi all'uopo di mezzi chimico-fisici. Questo studio assunse una particolare attualità quando si scoperse - per via sperimentale -l'esistenza di sostanze che hanno proprietà completamente diverse sebbene le molecole dell'una e quelle dell'altra siano costituite da un medesimo numero

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di atomi delle medesime specie (isomeria geometrica). Era una prova incon­testabile che le proprietà della molecola non dipendono soltanto dal numero e dalla natura degli atomi che intervengono nella sua composizione, ma anche dal modo in cui sono disposti entro la molecola stessa.

Ancora una volta i chimici del periodo in esame non si spinsero, anche perché non ne avevano gli strumenti, a cercare la spiegazione teorica di questo fatto, ma si limitarono a ideare un linguaggio idoneo a tradurre in termini precisi i nuovi risultati dell'osservazione. Si constatò che, con oppottune modifiche, tale linguaggio poteva continuare ad essere quello già in uso da tempo nella chimica, purché le sue formule venissero manipolate in modo da non indicare soltanto gli elementi che fanno parte dei composti, ma da rap­presentare schematicamente anche i loro reciproci legami. Nacquero così le famose «formule di struttura», di cui già Gay-Lussac aveva intuito l'esigenza fin dal 18 24, che visualizzano con notevole chiarezza la costituzione delle moleco­le. Abbiamo detto « visualizzano », per sottolineare che tali formule non inten­dono offrirei un modello (meccanico o di altra natura) della realtà oggettiva, ma vogliono soltanto costituire un arricchimento del vecchio linguaggio chimico per renderlo adeguato ai nuovi dati sperimentali. È chiaro per esempio che i trat­tini delle formule qui riprodotte non posseggono altro valore che quello di sim­boli, ove il simbolo e il simboleggiato non hanno alcuna somiglianza fra loro.

Affermeremo perciò che la strutturistica chimica, limitandosi a una descri­zione per così dire « esterna » delle molecole mancava di autentica profondità? Le faremo una colpa perché considerava come semplici e indivisibili gli atomi elementari che noi sappiamo essere, invece, composti e divisibili? Se così faces­simo, commetteremmo un gravissimo errore storico e metodologico. Dobbiamo al contrario riconoscere che, nell'ambito della chimica «classica» essa rappre­sentò un notevolissimo progresso, in quanto permise di realizzare molto bene gli scopi essenzialmente descrittivi che tale scienza si proponeva. La sua giusti­ficazione è proprio fornita dalla capacità - dimostrata dalle formule di strut­tura - di guidarci con successo nella trattazione di problemi incontestabilmente chimici (nel senso classico del termine) ove le vecchie formule venivano meno. È una giustificazione di ordine prettamente empirico, ma nessuna teoria della chimica ottocentesca mirò in realtà ad avere altre giustificazioni.

Senza dubbio la chimica di oggi si spinge a livelli molto più profondi della chimica del secolo scorso, in quanto cerca nella struttura interna degli atomi la ragione dei legami che permettono loro di unirsi - secondo certe ben deter­minate disposizioni - per formare le molecole. È chiaro però che essa riesce a perseguire questo scopo solo perché utilizza a tal punto le teorie della fisica da non potersi più considerare, a rigore, come effettivamente distinta da essa.

Non avrebbe senso comunque rimproverare ai chimici ottocenteschi di aver ancora impostato le loro ricerche in modo tanto diverso dai fisici, e in par-

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ticolare di essersi limitati ad una teorizzazione dei fenomeni tanto meno profon­da e meno ardita delle teorizzazioni tentate dai loro colleghi. Il fatto è che la chimica era sorta nel Seicento con intenti e con metodi nettamente differenti da quelli della fisica, onde risulta natuq.lissimo che si sia mantenuta a lungo su un binario suo proprio.

La cosa interessante ci sembra invece un'altra; e cioè che, pur proseguendo lungo tale binario, la chimica dell'Ottocento abbia cominciato a compiere al­cuni passi tutt'altro che irrilevanti verso la fisica. Furono all'inizio passi limi­tati ad alcuni capitoli ben circoscritti; ma poi divennero via via più rapidi e precisi, soprattutto per· le sollecitaziomi che giungevano dall'altra sponda, e in particolare dagli sviluppi della termodinamica. Finì così per costituirsi una vera e propria «disciplina di confine», oggi solitamente chiamata «chimico-fisica»,. che negli anni a cavallo tra i due secoli assumerà una posizione centrale entro l'intera chimica, fino a divenirne la punta più avanzata.

È un processo che va tenuto presente se si vuoi comprendere e valutare con esattezza la svolta subita dalla chimica in questi ultimi tempi; svolta che fu, sì, radicale, ma che non rappresenta affatto una vera e propria frattura entro lo sviluppo di questa scienza. Essa le ha dato senza dubbio una piena dignità ra­:donale, che prima non aveva, ma non può farci dimenticare le grandi conquiste raggiunte, sia pure ad un livello più basso, negli ultimi decenni dell'Ottocento.

V · LE SCIENZE APPLICATE

Nell'Ottocento la matematica non trova applicazioni dirette nel mondo del­l'attività tecnico-pratica; vi è sì largamente utilizzata, ma in modo indiretto, cioè come disciplina ausiliaria di alcune importantissime scienze applicate (elet­trologia, termodinamica, ecc.). Le cose muteranno radicalmente, solo verso la metà del nostro secolo.

Un'eccezione va tuttavia fatta per un ramo collaterale di essa, strettamen­te collegato al calcolo delle probabilità: vogliamo riferirei alla statistica. Il fon­datore di questa disciplina, intesa nel senso moderno del termine, fu il belga Adolphe Jacques Lambert Quételet (1796-1874) che, dopo essersi perfezionato in matematica a Parigi con Laplace, Poisson, Fourier, ritornò in patria per de­dicarsi interamente allo studio quantitativo dei fenomeni umani e sociali. Il suo primo scritto di statistica risale al 1 8z.6 e porta il titolo: Mémoires sur /es lois de la naissance et de la mortalité à Bruxelles (Memorie sulle leggi della' natalità e della mortalità a Bruxelles). Il lavoro più importante del nostro autore è di qualche anno più tardi: Sur l'homme et le développement de ses facultés, ou essai de physique sociale (Sull'uomo e lo sviluppo delle sue facoltà o saggio di fisica sociale, r 8 3 5 ). Esso si occupa di vari argomenti: dai fenomeni demografici ai caratteri fisici dell 'uo­mo, ai cosiddetti problemi di statistica morale (suicidi, delitti, prostituzione,

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ecc.) scoprendo ovunque parecchie regolarità esprimibili in formule matema­tiche; l'opera ha termine con la delineazione della famosa teoria dell'uomo medio secondo cui il tipo fisico, intellettuale e morale di una popolazione va cercato in un individuo astratto nel quale tali proprietà assumerebbero un valore che è la media dei valori da esse posseduti in tutti gli individui della popolazione considerata. Il libro incontrò una grande fortuna ed esercitò una larga influenza in tutta l'Europa; l'autore stesso ne curò varie edizioni, via via arricchite di nuove informazioni. Meritano pure menzione altri due scritti, Recherches sta­tistiques (Ricerche statistiche, 1 844) e Lettres à S.A. le due de Saxe-Coburg et Gotha sur la théorie des probabilités, appliquée aux sciences mora/es et politiques (Lettere a S'.A. il duca di Coburgo-Gotha sulla teoria delle probabilità, applicata alle scienze morali e politiche, 1845), nei quali è enunciata e sviluppata la famosa legge che Quételet chiama « legge binomiale dei caratteri umani »: essa afferma che il valore di un carattere umano è tanto meno frequente, quanto più si allontana dalla media dei valori che tale carattere possiede nella popolazione presa in esame.

Per la scoperta della legge testé accennata Quételet suoi anche venire con­siderato come fondatore della cosiddetta antropometria, al cui sviluppo daranno notevoli contributi gli inglesi Francis Galton (1822-19II) e Kad Pearson (1857-1936). Quest'ultimo fu pure autore di importanti studi di metodologia stati­stica. Fra i cultori di statistica particolarmente interessati ai problemi filoso­fici ad essa connessi, cioè ai problemi concernenti l'applicabilità del calcolo delle probabilità ai fenomeni di massa, va infine ricordato il francese Antoine Augu­stin Cournot (1802-77), singolare figura di filosofo e di matematico su cui ri­torneremo brevemente nel capitolo vn del prossimo volume.

Passando ora dalla matematica alla fisica, constatiamo subito che le appli­cazioni diventano molto più numerose. Non che tutti i nuovi ritrovati di questa scienza vengano direttamente utilizzati dalla tecnica (ciò accade in modo evi­dente solo per alcuni, come per le scoperte dell'elettrologia); tutti concorrono, comunque, a formare quell'atmosfera di seria cultura scientifica che costituisce l'humus da cui sorgono i migliori ingegneri dell'epoca (gli ingegneri, cioè, che più contribuiranno allo sviluppo della seconda rivoluzione industriale).

Pur avendo esplicitamente dichiarato di voler prendere qui in esame non lo sviluppo della tecnica in generale, ma solo quello della tecnica qualificabile come «scienza applicata», non possiamo tuttavia far a meno di premettere qualche schematica notizia sui progressi conseguiti nella costruzione delle macchine a va­pore, se non altro per l'importanza che esse ebbero sotto l'aspetto economico.

Come abbiamo sottolineato nel volume terzo, l'invenzione delle prime mac­chine del genere fu dovuta più all'abilità di geniali meccanici che ai suggerimenti ad essi impartiti dagli scienziati, il che si spiega molto bene per il fatto che la fisica del Settecento non aveva ancora scoperto le relazioni fra lavoro e calore. Nell'Ottocento la situazione è però radicalmente mutata; si costituisce, come

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verrà spiegato nel capitolo xr, una disciplina specificamente rivolta allo studio di tali rapporti (la termodinamica) ed essa attirerà rapidamente a sé l'attenzione dei maggiori scienziati del secolo, che riusciranno a determinare alcuni principi generali di enorme importanza teorica. Ebbene, occorre riconoscere che mal­grado tale straordinario fervore di studi, la scienza resta ancora per quasi tutto il secolo scarsamente capace di fornire indicazioni precise ai costruttori di macchine termiche, che nella maggioranza dei casi continuano a procedere per via empirica giungendo gradualmente alla risoluzione dei loro problemi, potremmo dire per approssimazioni successive. Essi applicano sì in modo pressoché intuitivo alcune leggi acquisite dalla termodinamica (quella, per esempio, che occorre aumentare al massimo la differenza tra la temperatura della sorgente di calore e la tempera­tura del refrigerante per accrescere il rendimento della macchina), ma non fanno ancora ricorso sistematico a questa scienza per la progettazione e l'esecuzione delle macchine che vengono loro commissionate. Ciò accadrà solo più tardi, verso la fine del xrx secolo e l'inizio del nostro, quando si richiederà a tali mac­chine una potenza via via maggiore, soprattutto per il loro uso nelle centrali termiche; allora il ricorso a una progettazione razionale diverrà indispensabile, se non altro per evitare spreco di materiali e di lavoro.

Vale la pena, comunque, di illustrare con qualche esempio la rapidità dei pro­gressi conseguiti in questo campo dalla pura tecnica, soffermandoci un istante sullo sviluppo delle locomotive a vapore. Mentre le prime fra esse raggiungevano a malapena i venti chilometri all'ora, già verso la metà del secolo se ne comincia­rono a costruire altre capaci di spingersi ai cento chilometri orari; ulteriori per­fezionamenti vennero portati qualche decennio più tardi, ma non tanto al motore quanto alla struttura della locomotiva. Così ad esempio l'ingegnere inglese Thomas Russel Crampton (r8r6-88) ne costruì un nuovo tipo più lungo e più pesarite dei precedenti (e fornito quindi di un maggior numero di ruote); esso rivelò subito tali vantaggi da venire in pochi anni adottato su larga scala non solo in Inghilterra ma pure in Francia. Le conseguenze che ne derivarono furono notevolissime per l'incremento dei commerci e la rapidità e regolarità delle co­municazioni.

Analoghe considerazioni si potrebbero ripetere per i piroscafi a vapore, ove il problema importante non fu solo di ottenere un aumento della potenza dei motori, ma anche di realizzare dimensioni via via maggiori delle navi senza com­prometterne la resistenza e la stabilità. Le difficoltà, che prima parevano insor­montabili, cominciarono ad essere risolte verso la fine del secolo; si giunse così a costruire, nei primi anni del Novecento, qualche piroscafo con una stazza di trentamila tonnellate e una velocità di ventidue miglia orarie. Solo a questo punto i piroscafi a vapore furono veramente in grado di battere la concorrenza delle navi a vela.

Un'autentica svolta fu rappresentata dalla costruzione dei motori a combu-

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stione interna, destinati ad entrare in concorrenza, e con molto successo, con le macchine a vapore. Ancora una volta la loro invenzione fu dovuta a costruttori di diverse nazionalità, che erano per lo più artigiani o industriali forniti di molto ingegno ma di non grande cultura scientifica. Ci limiteremo a ricordare qualche nome: l'italiano Luigi De Cristoforis (I798-I86z) che nel I858 ideò una macchina « igneo-pneumatica », « che avrebbe dovuto avere quei requisiti di universalità che mancavano alla potente e ingombrante macchina a vapore » (U. Forti); il francese Étienne Lenoir (I822-I9oo) che nel I86o progettò il primo motore a combustione interna funzionante mediante una miscela esplosiva a gas ed aria (nel I 863 introdusse l'uso della benzina); il francese Alphonse Beau de Rochas (I815-9I) che nel I86z introdusse nel motore a esplosione (o a scoppio) il ciclo a quattro tempi; il tedesco Nikolaus August Otto (I832-91) che nel I867 apportò alcuni importanti perfezionamenti al motore Rochas; il tedesco Gottlob Daimler (1834-I9oo) che nel I885 riuscì a progettare il primo carburatore effettiva­mente efficiente; ecc. Un posto particolare spetta all'ingegnere tedesco Rudolf Diesel(! 85 8-191 3) il quale brevettò nel I 892 un motore di tipo nuovo- oggi chia­mato appunto « motore Diesel » - che fa a meno del carburatore in quanto il car­burante è direttamente iniettato nei cilindri, in misura regolabile con la massima esattezza (onde si ottiene un notevole risparmio di carburante e un rendimento assai superiore a quello dei normali motori a scoppio); va notato che Diesel giunse alla sua invenzione non su mera base empirica ma ispirandosi a uno dei principi fondamentali della termodinamica (il principio di Carnot).

Non è il caso di ricordare, tanto la cosa è nota, che i motori a combustione interna offrirono la base indispensabile per la costruzione delle automobili. Il primo automezzo venne costruito a Mannheim nel I 8 8 5, con un motore Otto; prima della fine del secolo erano state impiantate importanti industrie automobi­listiche in pressoché ogni stato tecnologicamente evoluto. Nel I 896 furono adot­tati i pneumatici e anche questo costituì un notevole contributo al buon fun­zionamento degli automezzi.

Le caratteristiche del motore a combustione interna - in particolare il suo non grande peso - permisero infine che esso venisse utilizzato per la propulsione degli aeroplani. I primi voli con questi apparecchi furono eseguiti con successo nel I903. Si apriva così una nuova era per il grande problema dei trasporti.

Se i progressi della fisica nel campo dei fenomeni termici non esercitarono direttamente una grande influenza sullo sviluppo delle ricerche tecniche testé accennate, essi ebbero invece un peso determinante in altri settori dell'industria ottocentesca, come per esempio la refrigerazione. È ovvio che non si può nem­meno stabilire un confronto tta l'importanza delle macchine a vapore o quella dei motori a combustione interna e l'importanza della produzione del freddo; non va tuttavia dimenticato che anche quest'ultima ha compiuto e continua a compiere funzioni di notevolissimo rilievo nel mondo civile moderno; basti

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pensare alla conservazione degli alimenti. I primi brevetti per macchine produt­trici di ghiaccio furono rilasciati negli anni immediatamente successivi al I 8 3 o; quelli per macchine produttrici di aria fredda e di ghiaccio subito dopo il I 8 5o; il primo stabilimento per il congelamento della carne fu costruito nel I 8 6 I ; i trasporti - dall'America o dall'Australia in Europa - di carne congelata che doveva essere tenuta costantemente a bassa temperatura durante i lunghi viaggi, ebbero inizio nel I 877 circa. I principi, sulla cui base veniva ottenuto il freddo, dovevano di necessità venire attinti dalla scienza: erano le ben note leggi fisiche affermanti che l'espansione di aria compressa, o l'evaporazione di liquidi volatili, producono forti abbassamenti di temperatura.

I progressi della fisica fornirono preziosi suggerimenti ai tecnici anche in altri fondamentali settori della vita: l'edilizia, l'ingegneria idraulica, l'ingegneria tessile, ecc. Ma quello di gran lunga più importante in cui tali progressi eserci­tarono senza dubbio una funzione-guida, a partire dalla metà del secolo scorso circa, fu il settore dell'elettrotecnica.

Durante il periodo in esame questa funzione-guida si esplicò principalmente lungo tre direttrici: a) costruzione di generatori di corrente, continua ed alter­nata; h) costruzione di motori elettrici; c) trasporto dell'energia elettrica.

Nella prima metà dell'Ottocento i soli generatori di corrente elettrica che si conoscessero erano le pile; la quantità di energia da essi prodotta era però così piccola, che non si poteva certo pensare di utilizzada largamente a scopi indu­striali. Le cose mutarono in modo radicale quando si apprese a trasformare l'ener­gia meccanica in energia elettrica: questa trasformazione metteva infatti a dispo~ sizione dell'uomo moderno delle fonti pressoché inesauribili di elettricità. Essa venne resa possibile dalla scoperta dell'induzione elettromagnetica (produzione di una corrente, o più esattamente di un campo elettrico, mediante variazione di un campo magnetico); anzi non fu che una diretta applicazione di questa scoperta.

I primi tentativi di costruire apparecchi capaci di produrre corrente elettrica, utilizzando appunto l'induzione elettromagnetica, risalgono al I 8 32; si molti­plicarono poi enormemente di numero verso il I 8 5o-5 5, ma sempre con risul­tati assai scarsi. Il primo dispositivo che risolvesse il problema in modo davvero soddisfacente fu la dinamo costruita nel I 8 5 8 da Antonio Pacinotti (I 84 I- I 9 I 2);

egli la descrisse dettagliatamente in una comunicazione pubblicata sul «Nuovo Cimento » nel I 864. Era un dispositivo capace di produrre- mediante il famoso collettore da lui appositamente ideato - un flusso ininterrotto di corrente conti­nua (l 'unica che i fisici e i tecnici sapessero in quell'epoca utilizzare): esso poteva servire non solo da generatore di corrente, ma anche da motore elettrico; era cioè in grado di trasformare energia meccanica in energia elettrica e, viceversa, energia elettrica in meccanica.

Nel I87o il meccanico belga Zénobe Théophile Gramme (I826-I9oi) ri-

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presentò, modificato in alcuni particolari, il medesimo dispositivo di Pacinotti; non si sa se egli fosse o no a conoscenza dell'invenzione dell'italiano, e quindi non è facile decidere l'originalità della «nuova» macchina. Certo è comunque che da quel momento la macchina di Pacinotti-Gramme cominciò ad essere lar­gamente utilizzata dall'industria e, ulteriormente perfezionata, contribuì in mi­sura notevolissima al suo sviluppo.

La produzione di corrente alternata non costituiva alcuna difficoltà, in quanto questa poteva venire generata da qualunque dispositivo in cui una calamita (o elettrocalamita) si muovesse di un qualche moto periodico nelle immediate vici­nanze di un filo conduttore. Essa pareva non presentare però alcun interesse, perché non si sapeva come utilizzare tale tipo di corrente. Ciò che mutò improv­visamente la situazione, fu la costruzione del motore a campo magnetico rotante, dovuta all'italiano Galileo Ferraris (1847-97) professore al politecnico di To­rino. Egli giunse alla sua invenzione nel 1885 in base a considerazioni rigorosa­mente scientifiche suggeritegli dalle più recenti scoperte dell'elettromagnetismo. L'importante risultato rimase tuttavia pressoché sconosciuto fino al 1888, anche perché Ferraris ne diede notizia a stampa solo nel marzo di tale anno, mediante una celebre memoria presentata all'accademia delle scienze di Torino; nel frat­tempo però il fisico croato Nikolaus Tesla (1856-1943) aveva chiesto in America il brevetto per un'analoga invenzione. Di qui la vexata quaestio se la priorità spetti all'italiano o al croato. Dal nostro punto di vista la cosa essenziale è, comunque, prendere atto del radicale mutamento che il nuovo tipo di motore introdusse nell'elettrotecnica. In base ad esso risultava possibile ricavare energia meccanica anche dalle correnti alternate, e perciò queste assumevano d'un tratto un'enorme importanza nel campo delle applicazioni, anzi un'importanza maggiore che quella delle correnti continue.

Il motivo da cui derivano i vantaggi delle correnti alternate è facilmente spiegabile: lo scienziato francese Lucien Gaulard (183o-88) aveva presentato all'esposizione internazionale di Torino del 1884 il suo «generatore secondario» che permetteva di trasformare, senza ricorrere a elementi rotanti, la tensione delle correnti alternate, mentre nulla di analogo è possibile per quelle continue (il dispo­sitivo di Gaulard, lievemente perfezionato, porta oggi il nome di « trasformato­re»). In tal modo diventava agevole elevare o abbassare la tensione di una cor­rente alternata, e ciò facilitava enormemente il suo trasporto; è noto infatti, in base alla legge di Joule, che le correnti ad alta tensione possono venire trasportate a grandi distanze con una minima perdita di energia, ed è d'altra parte noto che, giunte a destinazione, la loro tensione deve venire fortemente abbassata perché esse possano essere utilizzate senza inconvenienti. Ma tutto ciò non sarebbe valso a nulla se poi l'energia elettrica, trasportata dalle correnti alternate, non avesse potuto venire trasformata in energia meccanica.

Illustrati così i principali passi attraverso cui l'elettrotecnica riuscì a risolvere,

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sotto la guida diretta della fisica, i tre problemi che avevamo poco sopra accen­nati, non ci resta ora che da menzionare alcune altre importanti invenzioni, atte a porre in luce l'enorme apporto di questa disciplina alla trasformazione del mondo moderno: costruzione del telegrafo, brevettato nel I84o dall'americano Samuel Morse (I79I-I87z); costruzione del primo telefono davvero funzionante, brevettato nel I 876 dall'americano Alexander Graham Bell (I 84 7- I 922) ; invenzione della prima lampadina elettrica a filamento di carbone (I88o) ad opera di Thomas Edison che già ricordammo nel paragrafo m.

Non abbiamo fatto cenno sinora alle ben note utilizzazioni pratiche del­l'elettrochimica, perché esse ci sembrano rientrare non tanto nell'ambito della fisica, quanto in quello della chimica. Ora è giunto il momento di parlare espres­samente anche di questa disciplina che fu senza dubbio, tra le varie scienze, quella che diede luogo, nel periodo in esame, al maggior numero di applicazioni, tanto da diventare uno dei fattori più importanti della seconda rivoluzione indu­striale.

Mentre la maggior parte delle ricerche tecniche finora esposte miravano in ultima istanza a farci padroneggiare alcU'ne fonti di energia per l'innanzi poco studiate (energia termica, energia elettrica) e ad insegnarci sempre nuovi metodi per il loro massimo sfruttamento (macchine a vapore, motori a combustione in­terna, motori elettrici) basati sulla trasformazione di un'energia in un'altra, le ricerche di chimica applicata sembrano avere uno scopo essenzialmente di­verso: lo scopo cioè di trasformare le sostanze, che possiamo rinvenire in na­tura, al fine di procurarci in larga quantità i materiali dei quali abbiamo mag­gior bisogno, materiali cioè forniti di proprietà particolarmente idonee a certi tipi di lavorazione.

A questo fine tendono, per esempio, le più interessanti applicazioni dei pro­cessi elettrolitici, che ci insegnano a portare alcuni metalli ad uno stato di pu­rezza, nel quale ben difficilmente li troveremmo in natura ( « rame elettrolitico », «argento elettrolitico» ecc.), stato di purezza indispensabile per non poche raf­finate lavorazioni.

Nel tipo di trasformazione poco sopra accennato rientrano pure i più famosi processi siderurgici inventati nella seconda metà del secolo scorso: per esempio quello realizzato nel I856 dall'i~glese Henry Bessemer (I813-98) che, svilup­pando alcune idee già contenute in un progetto da lui brevettato qualche anno prima, riusciva a « convertire » a un costo relativamente basso la ghisa in acciaio, 1

e il processo brevettato nel I877 dall'inglese Sidney Thomas (I85o-85) per la defosforazione della ghisa.

I Scrive in proposito Umberto Forti: «Il processo Bessemer costituì una delle svolte fonda­mentali nell'intera storia della siderurgia: il prezzo dell'acciaio subì un vero crollo, fu resa possibile

la creazione di acciai speciali - aggiu~gendo varie sostanze al metallo fuso, allorché questo esce dal convertitore- e il numero e l'estensione delle ap­plicazioni crebbero a dismisura. »

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Fra le molte invenzioni realizzate dalla chimica nel periodo che stiamo esa­minando ci limiteremo a ricordarne ancora tre, che ebbero uno specialissimo ri­lievo anche in campo economico. La prima riguarda un nuovo metodo per produrre una sostanza già ben nota da tempo (la soda o carbonato sodico); la seconda e la terza riguardano la produzione di nuove sostanze.

Non è il caso di fermarci ad illustrare, tanto sono noti, i molteplici usi della soda (nell'industria tessile, nella produzione del vetro, nell'agricoltura, ecc.). Verso la fine del Settecento il francese Nicolas Leblanc (I742-I8o6) aveva ideato un metodo abbastanza semplice per produr la su scala industriale; esso non ot­tenne subito la fortuna che meritava, ma dopo il I 82o fu largamente adottato in Inghilterra e finì per imporsi in tutta l'Europa. Presentava però gravi inconve­nienti (soprattutto perché dava luogo alla formazione di acido cloridrico gassoso, assai nocivo alla salute), che vennero sì attenuati ma non mai annullati da varie modifiche apportate col tempo al progetto primitivo. Orbene, nel I863, il chi­mico belga Ernest Solvay (I838-I922) ideò un nuovo metodo per tale produzione, nettamente più vantaggioso di quello di Leblanc: esso rappresentò una con­quista fra le più importanti, da tutti i punti di vista. Basti pensare che nel giro di poco più che vent'anni la produzione di soda venne quasi triplicata.

Il fatto valse a persuadere anche i più riottosi che le nuove vie aperte dalla chimica costituivano un fattore di grande progresso non solo per la scienza ma per l'intera società.

Le altre due invenzioni cui vogliamo far cenno sono: quella dei coloranti sintetici e quella della dinamite. Sia l'una che l'altra possono venire considerate, in realtà, come filoni di ricerca che diedero luogo a più invenzioni.

La fabbricazione dei coloranti sintetici conseguì il suo primo grande suc­cesso nel I 8 56, allorché il giovane chimico inglese William Henry Perkin (I 8 3 8-I907) riuscì a ideare un metodo per produrre la «porpora di anilina>> (malveina), che si rivelò subito meno costosa e migliore della porpora naturale. Nel I 873 fu ottenuto il primo colorante allo zolfo (di tinta verde), nel I897 l'indaco sintetico, ecc. In breve tempo i coloranti sintetici soppiantarono quelli naturali, e i paesi che producevano questi ultimi dovettero affrettarsi a mutare le loro coltivazioni.

Le prime tappe della produzione degli esplosivi moderni ·erano state la pre­parazione del fulmicotone (I846) ad opera di Christian Friedrich Schonbein (I799-I868) e quella della nitroglicerina ad opera di Ascanio Sobrero (I8u-88). Nel I867 Alfred No bel (I833-96) trovò il modo di far assorbire la nitroglicerina dalla farina fossile, ottenendo una miscela, essa pure assai potente, che però si prestava a venire manovrata con minore pericolo della nitroglicerina, risultando molto meno sensibile agli urti; le diede il nome di dinamite. Nel I875 lo stesso Nobel inventerà la gelatina esplosiva e nel I887 la balistite (uno dei migliori esplosivi propellenti). L'uso della dinamite rinnovò rapidamente l'arte mineraria, fornen­dole delle possibilità molto superiori a quelle fin allora possedute. Lo sviluppo

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degli esplosivi propellenti potenziò l'industria bellica, permettendo la costru­zione di armi sempre più micidiali.

Giunti a questo punto possiamo ritenere che il nostro rapidissimo elenco sia sufficiente - pur nella sua schematicità e malgrado le numerose lacune - a dimostrare i profondi mutamenti che i progressi della scienza applicata produs­sero, nel corso di pochi decenni, in pressoché ogni ramo dell'attività umana. Qualunque sia il giudizio che vogliamo pronunciare sul tipo di vita che oggi si conduce presso le società più sviluppate, dobbiamo in ogni caso riconoscere che questo venne reso possibile proprio da tali mutamenti, senza i quali le nostre stesse abitudini quotidiane risulterebbero ben diverse da quelle che sono.

Qualcuno ci osserverà forse che tutto ciò può anche essere interessante, ma che non ha nulla a che vedere con l'autentica storia del pensiero. Noi ci permet­tiamo di esprimere un parere diverso, perché riteniamo che tale storia non sia separabile da quella concreta della civiltà, e siamo ben convinti che la storia della civiltà (in particolare di quella moderna) non possa venire compresa se non si tiene conto dello sviluppo della tecnica, cioè dei mezzi di produzione, di trasporto, di comunicazione e perfino di distruzione. Né va infine sottaciuto che la serietà con cui i tecnici affrontano i problemi della vita quotidiana costituisce di per sé un notevole esempio per ogni studioso che non voglia limitarsi a parlare - in forma più o meno :retorica - di trasformazione del mondo (o di elevazione del prossimo), ma voglia :realmente impegnare in essa le proprie energie.

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CAPITOLO NONO

La svolta della logica nell'Ottocento DI CORRADO MANGIONE

I · INTRODUZIONE

Nel capitolo vn del volume precedente abbiamo avuto più volte occasione di accennare al fatto che la svolta decisiva che doveva impostare la logica su basi moderne, dalla quale cioè avrebbe avuto inizio un progresso continuo di questa scienza che l'avrebbe portata a essere, ancora ai nostri giorni, una delle più fe­conde e per temi e per risultati, avviene nel periodo a cavallo fra la prima e la seconda metà del XIX secolo: inizialmente e ufficialmente ad opera dell'inglese George Boole(1815-64), di cui appare, nel 1847, la fondamentale The mathematical analysis of logic, being an essay towards a calculus of deductive reasoning (L'analisi matema­tica della logica: saggio di un calcolo del ragionamento deduttivo). In effetti, dopo la pubblicazione di quest'opera, che già sappiamo essere strettamente collegata al processo di evoluzione subito nel primo scorcio del secolo dall'algebra in Inghil­terra, venne sviluppandosi tutto un filone di ricerche sull'algebra della logica, che culminò verso la fine del XIX secolo e gli inizi del xx in una presentazione siste­matica della materia, più avanzata e comprensiva rispetto al sistema originaria­mente esposto da Boole tanto nel lavoro testé ricordato quanto nel volume, del 1854, An investigation of the laws of thought on which are founded the mathematical theories !Jj logic and prababilities (Una ricerca sulle leggi del pensiero sulle quali sono fondate le teorie matematiche della logica e delle probabilità), da lui considerato come il proprio capolavoro. A questa sistemazione rigorosa e organica si dedicò il tedesco Ernst Schroder (1841-19oz) con i tre volumi delle Vorlesungen iiber die Algebra der Logik (exakte Logik) (Lezioni sull'algebra della logica- Logica esatta) pubblicati tra il 189o e il 1905, dopo che risultati significativi ed estensioni essenziali erano stati frutto delle fatiche di tutta una serie di ricercatori europei e dell'americano Charles Sanders Peirce (1839-1914) e della sua scuola.

Riservandoci di precisarli e inquadrarli in un discorso articolato nella con­clusione di questo capitolo, in sede introduttiva possiamo !imitarci semplicemente a enunciare tre elementi generali caratteristici della impostazione booleana della ricerca logica: 1) la dimensione linguistica, espressamente dichiarata da Boole, della ricerca stessa, alla cui identificazione ed esplicitazione concorre evidentemente la

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La svolta della logica nell'Ottocento

familiarità con la problematica della scuola degli algebristi di Cambridge: « Ciò che rende possibile la logica,» dice Boole, «è l'esistenza nella nostra mente di nozioni generali, la nostra capacità di concepire una classe e di designare per mezzo di un nome comune gli individui che ne sono membri. La teoria della logica si rivela cosi intimamente connessa con la teoria del linguaggio. » Fin da ora va tuttavia aggiunto che il linguaggio è per Boole « uno strumento della logica, ma non ... uno strumento indispensabile». z) La concezione. psicologistica della logica, che rappresenta il momento centrale, il punto di riferimento costante di tutta la speculazione logica di Boole. Da una parte infatti tale concezione «finalizza» il discorso logico di Boole, dall'altra si pone come garanzia epistemo­logica dello stesso, nel senso che è sempre un atto mentale la giustificazione ultima di un procedimento o di un'operazione logici. In certo senso ciò comporta che si possa intendere l'indagine logica di Boole come una ricerca sui limiti e le possibilità della stessa attività simbolizzatrice dell'uomo. 3) L'espressa convin­zione della natura matematica del processo logico inferenziale che, nel contesto di un'ampia discussione sul rapporto logica-matematica-filosofia in corso in In­ghilterra ai suoi tempi, solo con Boole trova lo sbocco teoretico e operativo di una « separazione » della logica dal tradizionale ambiente filosofico di ap­partenenza per un suo inserimento autonomo fra le scienze matematiche.

Questo terzo punto può essere inteso in almeno due modi di diverso mo­mento. Si può cioè concepirlo come l'asserzione di un qualche tipo di priorità della matematica rispetto alla logica, nel senso che la prima costituisce la fonda­zione della seconda, che è ad essa riducibile; oppure, in senso più circoscritto e operativo (si potrebbe dire: kantianamente) si può intendere con esso il fatto che la logica mutua dalla matematica tutti quegli elementi tecnici di rigore, di sim­bolizzazione e di procedure « risolutive » che le permettono di indagare in ma­niera più feconda e sistematica i propri specifici problemi, senza che ciò comporti in alcun modo la questione di una « riduzione >> della logica alla matematica. Indubbiamente da Boole tale riduzione è intesa in senso forte, vale a dire con­siderando appunto come matematica la « natura » stessa del processo logico: «Che la logica come scienza,» afferma Boole, «sia suscettibile di applica­zioni molto vaste è ammesso; ma è ugualmente certo che le sue forme e processi ultimi sono matematici. » È ovvio che assumere quello che venne detto il « ma­tematismo » di Boole intendendolo nel primo senso (forte) comporta quasi auto­maticamente l'accettazione anche del secondo aspetto; viceversa, intendendolo nel secondo senso non si è in alcun modo impegnati circa quella che può essere la natura del rapporto logica-matematica.

Con una sola eccezione significativa- costituita da Peirce- si può senz'altro affermare che gli autori della seconda metà dell'Ottocento che si muovono nel­l'ambito del filone booleano o «algebrico» della logica si applicano in generale alla elaborazione e allo sviluppo della parte puramente formale del calcolo di

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La svolta della logica nell'Ottocento

Boole, mentre trascurano di considerare il contesto più generale nel quale Boole inseriva le proprie riflessioni logiche. Così, per quanto riguarda il punto 1 ), se oltre a Peirce si esclude Hugh McColl che dimostra maggiore sensibilità al problema nella sua generalità, viene di fatto a cadere la questione del rapporto fra sfera logica e sfera linguistica; la ricerca addirittura febbrile di sempre nuove simbolizzazioni ha pregnanza essenzialmente pragmatica, di « buon uso » o maggiore perspicuità e comodità ed è in generale collegata più alla questione del matematismo di Boole che non alla problematica generale del rapporto di cui si diceva. Per quanto ri­guarda il punto z.), va considerato che lo sviluppo e la precisazione della sua con­cezione psicologistica sono per Boole la genuina motivazione del passaggio dal­l' opera del '4 7 a quella del '54; eppure questo contesto generale venne dai suoi continuatori o semplicemente trascurato, o etichettato come inutile e sovrabbon­dante; Schroder, che condivideva tale impostazione, la assunse in modo sostan­zialmente acritico, sotto l'ulteriore influenza di tutto un discorso di marca psico­logistica sulla logica che si svolgeva nella Germania della seconda metà dell'Ot­tocento. Non è casuale che fosse proprio Peirce, dato il suo acuto impegno filo­sofico, ad assumere una franca posizione sul problema, risolvendolo in modo dia­metralmente opposto; come dirà nella sua Minute logic (Logica minuta) «nessuno farà ingiustizia al presente trattato descrivendo la sua posizione come estrema­mente sfavorevole all'impiego della psicologia in logica».

Per quanto infine riguarda il « matematismo » di Boole, esso fu singolar­mente oggetto di reiterati «attacchi» da parte dei suoi continuatori, i quali tut­tavia in generale si diressero più contro la seconda accezione da noi sopra eluci­data, piuttosto che impostare il problema del rapporto in generale fra logica e matematica. Tipico a questo proposito è Stanley William Jevons (183 5-82.), un allievo di De Morgan, che sosteneva la propria opposizione in chiave quasi esclu­sivamente polemica, in nome di una sistemazione calcolistica della logica che fosse più aderente a un non meglio identificato (( pensiero comune », nella quale quindi non fosse ammessa la non interpretabilità puntuale di ogni passaggio « matema­tico » del processo logico. Anche in questo caso, chi affronta il problema nella sua generalità è Peirce, che vi contribuisce con la critica originalità che gli è propria e che fa si che egli possa considerarsi come l'anello di mediazione fra il filone algebrico della logica e quello « logicistico » cui subito accenneremo.

Nello stesso torno di tempo infatti sul continente europeo lo sviluppo del­l'indirizzo rigorista della matematica, la cui impostazione abbiamo visto risalire agli autori della prima metà del secolo come Cauchy, Abel, ecc., portava a risul­tati e nuovi temi di ricerca- quali l'aritmetizzazione dell'analisi, la stessa nascita della teoria degli insiemi, la sistemazione hilbertiana della geometria o più in generale del metodo assiomatico - che favorivano grandemente, si potrebbe dire rendevano quasi « naturale », un ulteriore sforzo di sistemazione teorico-filoso­fica dei fondamenti della matematica. Questo compito venne assunto come pro-

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La svolta della logica nell'Ottocento

grammatico dal tedesco Gottlob Frege (I848-I925) che ravvisò allo scopo l'esi­genza di una preliminare sistemazione della logica, cui Frege appunto si accinse a partire dal I 879 e che sviluppò secondo una direzione indubbiamente diversa da quella booleana; solo superficialmente però tale sistemazione può essere con­siderata come ponentesi in radicale contrasto con quella di Boole (come a Frege fu rimproverato da numerosi critici): va detto invece che per molti versi essa è più sottile e profonda di quella del logico inglese e che nel complesso ciò è sto­ricamente più che plausibile. Comunque sia - affronteremo la_ questione nel capitolo XII del volume sesto - in questa nuova impostazione fregeana ritro­viamo quell'ampiezza di orizzonti e di tematiche generali che descrivevamo come tipica di Boole rispetto alla quasi totalità dei suoi continuatori.

Si conviene appunto di chiamare « logicista » o « logicistico » questo filone di elaborazione logica, dal nome del programma fregeano di fondazione della mate­matica; passate inizialmente inosservate le opere di Frege, tale filone ebbe come « manifesto » completo e monumentale i tre volumi dei Principia mathematica (I 9 I o­I 3) di Bertrand Russell (I 872-I970) e di Alfred North Whitehead( I 86I-I947)· Come abbiamo accennato, nelle sue implicazioni generali esso era stato in qualche senso precorso da alcuni autori di scuola algebrica, quali ad esempio lo stesso J evons McColl e soprattutto Peirce: quest'ultimo in particolare, che abbiamo già indicato come vero e proprio elemento di passaggio fra i due filoni, mostra che la presunta contrapposizione fra di essi è frutto in generale di pregiudizi; e che l'unico modo per evitare di impastoiarsi in classificazioni del tutto accidentali ed estrinseche consiste nell'affrontare una data problematica con la mente libera da chiusure o « etichette » precostituite. Malgrado quindi il filone algebrico e quello logicista vengano di norma contrapposti l'un l'altro (e tali apparvero, in effetti, a molti dei protagonisti della nostra storia), indipendentemente dagli indirizzi o dalle convin­zioni personali dei vari autori è invece possibile riconoscere il sussistere fra di essi di un rapporto di reciproco completamento che è pienamente emerso nello svi­luppo della logica formale nel nostro secolo (come vedremo nel volume ottavo).

Per offrire al lettore un quadro il più chiaro possibile della nascita e della prima evoluzione della logica nel periodo qui considerato (che sostanzialmente va dal I847 al I9I3, con le consuete e più volte fatte osservazioni circa la non «rigidità» delle determinazioni cronologiche qui adottate) ci sembra di poter suddividere la materia come segue. In questo capitolo considereremo la « nascita » vera e propria con Boole, premettendo alla descrizione del suo sistema una breve esposizione delle vedute logiche di Augustus De Morgan (I8o6-7I) che delle idee booleane si pone in certo senso come «anticipatore», in cert'altro come « prosecutore »; seguiremo quindi le grandi linee dello sviluppo del filone alge­brico fino alla sintesi schroderiana, tentando di mettere in luce gli eventuali mo­menti di collegamento con idee più «specifiche>> del filone .logicista, che invece d riserviamo di trattare nel capitolo XII del prossimo volume.

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II · L'OPERA DI AUGUSTUS DE MORGAN

La posizione di Augustus De Morgan 1 nella storia della logica, e in partico­lare nei riguardi del suo più celebre contemporaneo Boole, non è immediata­mente qualificabile in modo univoco. Il comune giudizio storiografico in pro­posito vede in De Morgan esclusivamente un sistematore della logica classica più che un vero e proprio innovatore (quale è appunto Boole). A nostro parere, pur essendo nella sua essenza corretto, tale giudizio è alquanto sbrigativo e parzia:­le: nella vastissima produzione di De Morgan è infatti possibile individuare motivi che, oltre a confermarlo, da un lato mettono in evidenza la sua funzione di « pre­cursore» nei riguardi di Boole, dall'altro mostrano invece l'influenza su di lui eser­citata dal più illustre contemporaneo e infine, per certi versi, ne fanno paradossal­mente addirittura un « prosecutore » del-disegno generale espresso da Boole.

Da una parte infatti, e soprattutto per i suoi contributi all'algebra nel con­testo della scuola di Cambridge, nonché per alcuni concetti introdotti nelle suc­cessive sistemazioni che egli elaborò per la teoria sillogistica, Francesco Barone vede in De Morgan «l'ultimo anello di quella catena che congiunge il Woodhouse con Boole » e cioè coglie il momento di De Morgan « precursore », in particolare, ovviamente, nei suoi scritti precedenti il 1847. D'altra parte è pur vero che mal­grado il livello personale cui giunse la controversia con W. Hamilton 2 e pur con

I Nacque nel x8o6 a Madura, in India, come quinto figlio del colonnello John De Morgan, uf­ficiale al servizio della East India Company. Con­dotto in Inghilterra durante l'infanzia, perdette il padre a IO anni e fu educato a una vasta e profonda conoscenza dei classici, che tuttavia non valse certo a mettere in luce la naturale inclinazione e il non comune talento matematico del giovane. A I7 anni entrò nel Trinity College, dove abbandonò lo studio dei classici per letture matematiche e fi­losofiche; qui conobbe, tra gli altri, Airy, Peacock e Whewell. Una sua eventuale carriera accademica a Cambridge venne bloccata per motivi religiosi; ma nel I8z8 venne chiamato alla libera University of London (l'attuale University College) che ve­niva appunto fondata in quell'anno, come profes­sore di matematica; restò in questo posto per tutta la vita salvo alcuni periodi (ad esempio nel I83J per cinque anni e quindi nel I853) durante i quali egli rinunciò alla cattedra essenzialmente ancora per motivi religiosi. Ottimo insegnante, esperto consulente di compagnie di assicurazione, spirito indipendente e individualista, rifiutò l'as­sociazione alla Royal Society e alla British Asso­ciation. Fu scrittore estremamente fecondo: oltre a. numerosi volumi, scrisse oltre 700 articoli per varie riviste (noi ci limiteremo a citare nel testo, della sua produzione, quanto più direttamente in­teressa la nostra esposizione). Morì nel I871.

z Della disputa fra W. Hamilton e A. De Morgan si è già accennato nel capitolo vn del

volume precedente. A parte il giudizio del Barone secondo il quale questa polemica « servì a sgreto­lare una tradizione secolare di pensiero e a pre­parare e favorire il rinnovamento booleano », si era detto in quella sede che in effetti la discussione, che tra l'altro verteva su un argomento (la prio­rità della scoperta della quantificazione del pre­dicato) dimostratosi poi di importanza del tutto trascurabile per l'effettivo sviluppo della logica, era scaduta a livello di scontro puramente perso­nale fra i due contendenti e aveva di fatto perduto ogni contenuto significativo. Va tuttavia notato che essa agì anche come grosso stimolo alla pro­duzione logica di De Morgan: si può dire che dal I 846 in poi non vi sia sua opera nella quale in modo diretto o indiretto non si riscontri un preciso riferimento alla polemica in questione. Co­munque, per dare al lettore un'idea del «tono» della disputa, riportiamo il brano di una lettera che Hamilton indirizzava al suo avversario il I3-3-I847 con l'evidente «odiosa accusa di pla­gio» poilamentata da De Morgan: « ... Sembra che Lei rivendichi a se stesso la riscoperta indipen­dente della teoria fondamentale del sillogismo che io Le avevo comunicato privatamente... Non posso ammettere questa pretesa, anche se intesa a rivendicare una originalità di seconda mano. Per me è manifesto che per quanto riguarda il principio della teoria Lei sia completamente in­debitato con me; e non posso fare a meno di pen­sare che se Lei presenta questa teoria come frutto

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La svolta della logica nell'Ottocento

tutta la preoccupazione del nostro autore di distinguersi dal suo avversario, in questo campo De Morgan deve essere giustamente considerato, proprio al pari di Hamilton, un sistematore della vecchia logica piuttosto che un fondatore della nuova; anche in questo caso tuttavia egli introdusse concetti ripresi poi da Boole e ne subì peraltro l'influenza riscontrabile direttamente in alcuni dei suoi lavori.

Infine, in vista di una sua considerazione di una logica generale delle rela­zioni (o meglio della « possibilità » di tale logica implicita nel suo discorso) De Morgan, almeno a livello di spunti e anticipazioni, va considerato in posizione più avanzata di Boole, come suo « prosecutore », per dirla in una sola parola. Mentre quest'ultimo infatti, nel processo inferenziale inteso estensionalmente, si limiterà come vedremo a considerare il classico rapporto di inclusione fra classi, resterà cioè ancorato alla classica forma soggetto-predicato della proposizione, De Morgan propone invece di considerare le proprietà delle relazioni stesse, da una parte gettando coslle basi di una logica delle relazioni, dall'altra, per quanto in particolare riguarda il momento inferenziale, proponendosi di considerare il rapporto sillogistico quando al posto della copula « è » (o « sono ») venisse ap­punto sostituita una relazione qualunque soddisfacente certe proprietà generali. In quest'ultimo punto a nostro parere risalta in modo particolare l'originalità del pensiero di De Morgan e nel contempo il suo condizionamento di fondo, la sua cronica incapacità cioè a staccarsi in modo definitivo e fecondo dall'arche­tipo per eccellenza del processo inferenziale, il sillogismo aristotelico.

L'opera «algebrica» di De Morgan si esplica sostanzialmente con gli Ele­ments of algebra (Elementi d'algebra, 1837), con quattro memorie pubblicata fra il 1839 e il 1844: On thefoundations of algebra (Sui fondamenti dell'algebra) I, n, m e IV

(quest'ultima avente pure l'ulteriore titolo On triple algebra [Sull'algebra triplice]), con un trattato Dijferential and integrai calculus (Calcolo differenziale ·e integrale) del 1 84z, cui può infine aggiungersi il volume del I 849 dal titolo Trigonometry and pure algebra (Trigonometria e algebra pura).

In linea appunto con le concezioni della scuola filologica, in queste opere De Morgan riconosce l'equivocità del linguaggio, la necessità di separare l'aspetto logico-formale da quello semantico-contenutistico, o in termini già noti, l'algebra simbolica dalle sue applicazioni. Evidente è anche, nella quarta delle memorie su ricordate, l'influenza del matematico W.R. Hamilton e l'interesse di De Morgan

di una speculazione del Suo pensiero (anche se ri­conosce a me la priorità sulla questione), ebbene Lei si rende colpevole - mi perdoni la franchez­za - di un abuso di fiducia nei miei riguardi e di condotta sleale nei riguardi del pubblico. » De Morgan risponde immediatamente per rigettare « l'odiosa accusa » con una lettera nella quale fra l'altro si legge: «Mi pregio di informarla che attenderò fino al 10 del mese prossimo per una delle due cose: o una Sua ritrattazione o l'annun­cio preciso del tempo e del luogo in cui Ella

vorrà sostenere in pubblico la verità dell'accusa che - mi scusi l'espressione - Ella ha osato avanzare contro di me. Se per la data sopra spe­cificata non avrò ricevuto una presa di posizione da parte Sua in uno dei due sensi sopra citati, procederò immediatamente a stendere una dichia­razione della pubblicazione, della quale, non oc­corre dirlo, Ella sarà debitamente avvertito. » Cre­diamo possa bastare per esemplificare il livello su cui si manteneva tale controversia « scientifica >>.

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La svolta della logica nell'Ottocento

per la costituzione tecnica di nuovi sistemi algebrici. Il momento originale ri­spetto ai canoni della scuola di Cambridge, e per noi particolarmente interessante, è l'esigenza da lui esplicitamente dichiarata di un'analisi logica dell'algebra, a proposito della quale egli distingue fra I) algebra logica che è « la scienza che in­vestiga il modo di dare significato ai simboli primitivi e di interpretare tutti i conseguenti risultati simbolici» e z) algebra tecnica che sarebbe invece «l'arte di usare i simboli in base a regole che sono ... prescritte come le definizioni dei sim­boli »; sulla base di questa distinzione sembra possibile concludere che mentre De Morgan coglie chiaramente il carattere ipotetico-deduttivo all'interno del si­stema algebrico, ne affida il carattere « scientifico », giusta la 1 ), all'aspetto esterno, extrasistematico.

Senza impegnarci qui in una discussione circa un eventuale « antiformalismo » di De Morgan che sembrerebbe scaturire dalla distinzione precedente, ci limi­tiamo a osservare, col Barone, che in effetti l'algebra della logica del De Morgan viene a trovarsi posta « di fronte al problema più generale del simbolismo e dell'attività della mente umana da cui esso dipende», per cui sfocia in effetti in una sorta di « operativismo » che gli fa peraltro presagire con assoluta chiarezza la comparsa di« altre algebre o almeno ... l'estensione di quella attuale»: appunto la booleana algebra della logica.

La maggior parte della produzione logica di De Morgan è dedicata a suc­cessivi messe a punto e ampliamenti della sillogistica tradizionale. Ci limiteremo qui a ricordare sei fondamentali memorie dal titolo comune On the !Jllogism (Sul sillogismo) 1, II, III, IV, v, VI apparse tutte fra il I846 e il I868, ognuna con un suo proprio sommario che specificava l'aspetto o il tema particolare in essa trattato, il volume Formallogic (Logica formale) del I847, che De Morgan stesso dichiarò essere apparso nelle librerie nel medesimo giorno della Mathematical logic di Boole; l la voce Logic (Logica) del 186o, scritta per il quinto volume della English Cy~lopaedia. Dello stesso anno infine va ricordato il Syllabus of a proposed system of logic (Sommario di un sistema proposto di logica) che egli stesso presenta come « summa » di tutta una serie di lavori precedenti, e al quale ci siamo in generale riferiti nel seguito per il simbolismo adottato. La terza delle memorie sul sillo­gismo sopra ricordate e il saggio On the symbols of logic, the theory of !Jllogism and in particular of the copula, and the application of the theory of probabilities to some questions of evidence (Sui simboli della logica, la teoria del sillogismo e in particolare della copula, e l'applicazione della teoria delle probabilità ad alcune questioni di evidenza) del I 8 5 1,

sono due fra i lavori che più mostrano l'influenza su De Morgan di una proble­matica più specificamente booleana.

Nella sua sistemazione della sillogistica De Morgan introduce alcune idee

I Ciò avvenne il 2.-IZ-I867 allorché De Mor­gan comunicò alle Transactions di Cambridge l'opera postuma di Boole On propositions numeri-

ca/ly definite (Sulle proposizioni numericamente defi­nite) che venne poi pubblicata nel volume XI

(I 868).

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che indubbiamente agirono su Boole e furono da questi riprese, come ad esempio l'impiego dei termini positivi e negativi(« contrari» nella terminologia demorga­niana), il concetto di universo del discorso e l'esplicazione delle famose cosid­dette leggi di De Morgan. Si è già detto peraltro che De Morgan limita sostanzial­mente l'impiego di queste innovazioni a una sistemazione definitiva del sillo­gismo; e tuttavia si muove, si Pll;Ò dire, in senso moderno, con una logica ri­guardata come scienza formale che direttamente nulla ha a che fare con la meta­fisica e la psicologia, l e le cui forme sono forme di un pensiero possibile piuttosto che attuale.

Dicevamo che le novità importanti che staccano De Morgan dalla tradizione classica sono l'introduzione dei termini negativi, che vengono indicati con la stessa lettera del corrispondente termine positivo, ma minuscola (cosicché, ad esempio, se X indica« razionale», x indicherà« non-razionale») e l'introduzione dell'universo del discorso, concetto questo strettamente legato al punto prece­dente nel senso che un termine X e il suo contrario x esauriscono questo uni­verso, qualunque esso sia; De Morgan ammette inoltre che l'universo in questione non sia vuoto, abbia cioè almeno un oggetto (o, altrimenti detto, in senso legger­mente più debole: una almeno di due categorie contrarie non è vuota). La por­tata di queste innovazioni è per lo meno duplice: viene eliminato il classico pro­blema relativo alle « non entità », alle classi vuote, e superata la questione circa l'importo esistenziale delle proposizioni universali; scompare esteriormente la distinzione fra proposizioni affermative e negative (sicché De Morgan dovrà introdurre un'apposita regola per distinguerle). 2 L'introduzione dei termini ne­gativi permette immediatamente di scrivere otto proposizioni categoriche invece delle classiche quattro (A, E, I, O):

)

I. Tutti gli X sono Y

U . li z. Tutti gli x sono y ruversa T . 1. X 3· utt1 g 1 sono y

4· Tutti gli x sono Y

1 Ecco infatti come inizia il citato Syllabus: « 1. La logica analizza le forme, o le leggi di attività del pensiero. 2. La logica è formale, non materiale: essa considera la legge di attività indipendente­mente dalla materia su cui agisce. Essa non è psico­logica né metafisica: essa non considera né la mente in se stessa, né la natura delle cose in se stesse; ma la mente i~··relazione alle cose e le cose in relazione alla mente. Cionondimeno, essa è psicologica nella misura in cui si occupa dei risultati della costitu­zione della mente; ed è metafisica nella misura in cui si occupa del retto uso di nozioni circa la na­tura e la dipendenza delle cose che, siano esse vere o false, in quanto rappresentazioni dell'esistenza reale intervengono nei modi comuni di pensare di tutti gli uomini. »

)

5. Alcuni X sono Y

P . 1 . 6. Alcuni x sonoy art1co an .

7. Alcuru X sono y 8. Alcuni x sono Y

2 Come vedremo fra un momento, simbo­licamente una proposizione negativa viene indi­cata con un punto opportunamente disposto. Ecco come De Morgan, nel Syllabus, chiarisce la que­stione, definendo « affermativa una proposizione vera di X e X, falsa di X e non-X o x; negativa, una proposizione vera di X e x, falsa di X e X». Nota quindi che una volta introdotti i termini ne­gativi «è impossibile definire l'opposizione di qualità mediante l'affermazione della negazione: poiché ogni affermazione è una negazione e ogni negazione è un'affermazione. La negazione di "Nessun X è Y" è l'affermazione "Tutti gli X sono y". La necessaria distinzione fra affermativa e negativa è tuttavia data sopra nel testo ... » vale a dire consiste nella definizione sopra riportata.

1 99

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Per quanto ora riguarda il simbolismo impiegato da De Morgan, viste le successive modificazioni cui egli lo sottopose, noi ci riferiremo come già detto, alla versione del 5_yllabus che può sostanzialmente considerarsi come definitiva. Malgrado le numerose variazioni, comune a ogni versione del simbolismo de­morganiano è il fatto che viene indicata la distribuzione di ogni termine l e la qualità, affermativa o negativa, di ogni proposizione. Per indicare che un ter­mine X è distribuito egli scrive una parentesi (spicula) prima o dopo il termine stesso con la concavità rivolta verso di esso: X) oppure (X; per indicare invece un termine non distribuito, la parentesi volge la convessità verso il termine: X( oppure )X. Cosi ad esempio X))Y indica una proposizione il cui soggetto, X, è distribuito e il cui predicato, Y, non lo è, vale a dire « ogni X è Y »; mentre ad esempio X() Y indica una proposizione con soggetto e predicato non distribuiti, ossia « alcuni X sono Y ». Per indicare una proposizione negativa, fra le due pa­rentesi che figurano nella proposizione stessa viene posto un punto «.». Ad esem­pio, «alcuni X non sono Y » verrà simbolizzata con X(. (Y. (si badi bene che non si tratta della negazione della X((Y corrispondente). Due punti equivalgono a nessun punto e indicano una proposizione affermativa. Nel simbolismo descritto si ha, per le otto proposizioni sopra indicate

1. X))Y z. x)).y ;. X))y 4· x))Y

5· X()Y 6. x()y 7· X().y 8. x()Y

Si possono eseguire trasformazioni equivalenti su una proposizione secondo la seguente regola: cambiare la distribuzione di un termine - vale a dire rovesciare la parentesi ad esso relativa - cambiare un termine nel corrispondente negativo e cambiare la qualità della proposizione; ci si convince facilmente della validità di questa regola sulla base della legge della doppia negazione (duplex negatio ajjirmat) e di proprietà elementari della distribuzione: si ha allora subito che ognuna delle otto proposizioni precedenti ammette quattro forme equivalenti come mostrato dalla seguente tabella:

(a) (b) (c) (d) 1. X))Y = X).(y = x((y = x(.)Y z. x))y = x).(Y = X((Y = X(.)y

I De Morgan non parla di« distribuzione», bensì usa locuzioni quali «termine universal­mente predicato di... » o « particolarmente pre­dicato di...» (ove noi diremmo «distribuito» o «non distribuito » rispettivamente), oppure parla semplicemente di « quantità» di un termine. Sor-

voliamo qui su alcune precisazioni che a rigore andrebbero fatte circa il concetto di distribuzione; nel senso qui impiegato, intuitivamente un ter­mine è distribuito quando indica la classe cui tutti i suoi elementi appartengono.

2.00

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3· X))y =X).(Y = x((Y = x(.).y 4· x))Y = x).(y = X((y = X(.)Y 5· X()Y = X(.(y = x)(y = x).)Y 6. x()y = x(.(Y = X)(Y = X).)y 7· X()y = X(.(Y = x)(Y = x).)y 8. x()Y = x(.(y = X)(y = X).)Y

Si noti che ogni riga della tabella, costituita da proposizioni fra loro equivalenti, contiene una proposizione con entrambi i termini positivi. Assumendo tali pro­posizioni come rappresentanti delle altre della stessa riga, abbiamo le otto pro­posizioni fondamentali

r. X))Y 2. X((Y 3· X).(Y 4· X(.)Y 5.X()Y 6. X)(Y 7· X(.(Y 8. X).)Y

Tutti gli X sono Y Alcuni X sono tutti gli Y [oppure, Tutti gli Y sono X] Nessun X è Y Ogni cosa [dell'universo del discorso] è X o Y(o entrambi) Alcuni X sono Y Alcune cose [dell'universo del discorso] non sono né X né Y Alcuni X non sono Y Tutti gli X non sono alcuni Y [oppure, Alcuni X sono YJ

È superfluo soffermarci su alcune difficoltà che sorgono in questa sistemazione della sillogistica (il lettore, ad esempio, avrà senz'altro notato la « singolare » interpretazione della 4, che come si rileva dalla tabella delle equivalenze è una universale negativa, e della 6, che è invece una particolare affermativa, interpre­tazione dovuta alla necessità di conservare alcuni rapporti in{erenziali). Il « qua­drato » delle opposizioni diventa nel caso presente

I contraddice 7 2 contraddice 8 3 contraddice 5 4 contraddice 6

vale a dire sono contraddittorie due proposizioni aventi gli stessi termini se una è affermativa, l'altra negativa e la distribuzione dei termini nelle due proposizioni è opposta. A parte dicevamo alcune osservazioni particolari, quello che va messo in evidenza è che con questo simbolismo De Morgan ottiene una chiara e armo­nica sistemazione del sillogismo tanto con proposizioni singole (sillogismo uni­tario) quanto con insiemi di proposizioni (sillogismo cumulativo). Gli schemi fondamentali di deduzione sono i seguenti quattro:

2

)) )) ))

o )) o

3

4

201

(( o o

(( ((

o

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Prendendo i tre termini X, Y, Z e i loro negativi x,y, z nelle otto differenti com­binazioni XYZ, xYZ, xyZ, xyz, xYz, XYz, Yyz, XyZ, i quattro schemi prece­denti danno, dei 64 sillogismi possibili (che si otterebbero considerando anche gli schemi () ((, )) (), ecc.) i 32. validi, e questi vengono cosi distinti: 8 universali (premesse e conclusione universali), 8 minori-particolari (premessa minore [la prima] particolare e conclusione particolare), 8 maggiori-particolari (premessa maggiore [la seconda] particolare e conclusione particolare), 8 particolari rafforzati (premesse universali e conclusione particolare). La regola con la quale vengono esclusi i 32. sillogismi non validi è la seguente: entrambe le premesse debbono es­sere universali o, se lo è solo una, il termine medio deve essere distribuito una sola volta (vale a dire il termine medio deve avere differenti quantità nelle due premesse). La regola operativa è invece la seguente: cancellare il termine medio e le parentesi ad esso relative.

Si avrà cosi, ad esempio

X((Y Y()Z X()Z

o ancora

X).(Y Y(.)Z X) .. )Z ossia X))Z

I vantaggi di questo metodo rispetto ai sistemi tradizionali sono molteplici: essendo indicata la distribuzione diventa superflua la conversione per accidens e la distinzione fra figure; si ottiene inoltre l'eliminazione di alcune forme ridondanti. De Morgan riesce anche a eliminare alcune difficoltà riconosciute nell'elabora­zione hamiltoniana. Ma non conviene insistere su questo né è opportuno soffer­marci a evidenziare limitazioni e difetti di questo sistema, che peraltro, si badi bene, si muove in pieno « clima » aristotelico. De Morgan infatti va al di là della sillo­gistica tradizionale solo quando tratta tipi particolari di sillogismo, come ad esem­pio i sillogismi composti, o i sillogismi numericamente definiti o infine i sillogi­smi dell'asserzione indecisa e della quantità trasposta. 1

Ma il superamento essenziale ottenuto da De Morgan in questo senso dipende

I Coi sillogismi composti, De Morgan ri­duce a un tipo di calcolo sostanzialmente analogo al precedente relazioni composte fra proposizioni, nel senso che sono definite in base al sussistere fra di esse di due delle relazioni precedentemente considerate; così ad esempio introduce in parti­colare la relazione simbolizzata X[[ Y per indi­care X)) Y e Y ((X (ossia «tutti gli X sono Y e tutti gli Y sono X»); nei sillogismi della quan­tità trasposta secondo le sue stesse parole « l'inte-

ra quantità di un termine della conclusione, o del suo contrario, è applicata in una premessa all'altro termine della conclusione o al suo contrari o (alcuni X non sono Y; per ogni X .esiste un Y che è X; quindi alcuni Z non sono Y) ». Nei sillogismi nu­mericamente definiti o dell'asserzione numerica, una determinazione numerica o di probabilità si trasferisce dalle premesse (o da una delle premesse) alla conclusione.

2.02

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dall'aver egli riconosciuto che la copula del sillogismo tradizionale esplica la sua funzione non tanto per sue « più o meno misteriose » proprietà intrinseche, ma essenzialmente in virtù del fatto che, in quanto relazione, gode delle proprietà generali di simmetria e ttansitività. De Morgan ne conclude che ogni relazione che goda delle stesse proprietà potrebbe servire allo scopo; e la realizzazione di questo sillogismo « generalizzato » è lo spunto iniziale alla sua impostazione di una teoria generale delle relazioni. È proprio in questo caso - lo abbiamo già accennato - che si può cogliere con tutta chiarezza la funzione stimolante e nel contempo limitativa che il costante riferimento alla sillogistica aristotelica ha esercitato su De Morgan. A partire da essa infatti egli riesce a impostare in nuce una teoria delle relazioni che tuttavia, malgrado egli ne intravveda una autonoma possibilità di sviluppo, ritorna ancora ad essere bloccata in funzione dello scopo fondamentale e privilegiato di costituire una sillogi.rtica generalizzata.

Malgrado tuttavia questo orizzonte bloccante, determinato dall'aspirazione di ottenere una visione più astratta del ragionamento sillogistico al fine di stabi­lirne un modello generale da cui potessero essere ottenute le forme aristoteliche e molte altre, De Morgan riesce a stabilire una serie di leggi generali valide nel­l'ambito di un'autonoma teoria delle relazioni, al punto che Peirce, cui si deve, come vedremo, una prima sistemazione di questo tipo verso la fine del secolo, riconoscerà in lui il «padre della logica dei relativi». Anche il simbolismo esco­gitato da De Morgan per questa sua generalizzazione soffre di numerose ambi­guità, anche in dipendenza proprio dalla finalità cui tutta la sua ricerca è condi­zionata. La più grave di tali ambiguità resta comunque quella di impiegare una stessa lettera per indicare la relazione e gli elementi della relazione stessa. Nei li­miti del possibile tuttavia nella breve esposizione che segue noi ci atterremo al simbolismo demorganiano originale, da lui presentato nella quarta delle sei note sul sillogismo sopra ricordate, che appunto porta il titolo On the .ryllogism, IV and on the logic of relations (Sul sillogismo, IV e sulla logica delle relazioni), del 186o.

In questo contesto, X, Y, Z, rappresentano termini singolari o nomi di classi; L, M, N, relazioni. X .. LY significa che X è un L di Y o, più precisamente, che X è qualcuno degli oggetti del pensiero che stanno con Y nella relazione L, ossia che è uno degli L di Y (si pensi ad esempio che L significhi la relazione X è amante di Y dove X e Y vanno intese come classi). X.LY nega la relazione pre­cedente ossia afferma che X non sta nella relazione L con Y (X non è amante di Y). X . .LMY afferma che X è uno degli L di uno degli M di X, ossia che X sta nella relazione L con qualche Z che sta nella relazione M con Y; si vede chiaramente che questo non è altro che il prodotto relativo introdotto poi da Peirce. Al solito, X.LMY nega la relazione precedente. X . .IY asserisce la re­lazione contraria di L (dà cioè, in terminologia insiemistica moderna, il çomple­mento della relazione L, che viene in generale indicato da De Morgan con la lettera minuscola della corrispondente lettera maiuscola che indica la relazione).

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X .. L -I Y dà la relazione conversa di L; se L = L -I la relazione L è simmetrica. Per poter rendere il sillogismo generalizzato, vale a dire con ogni possibile op­portuna relazione al posto della copula, occorre poter esprimere la « quantifica­zione »: così LM' significa un L di ogni M, ossia qualcosa che sta nella relazione L con ogni elemento della classe M; mentre L' M sta nel senso di « alcuni » (che come caso particolare può anche comprendere tutti o nessuno) vale a dire qual­cosa sta nella relazione L con un elemento di M, ammesso che esistano L di questo tipo. Sulla base di queste convenzioni, De Morgan dimostra numerosi teoremi di quella che oggi diciamo teoria delle relazioni 1 ; ad esempio fa vedere che il complemento della conversa è la conversa del complemento; che contra­rie di converse sono contrarie; che la conversa di un prodotto relativo è il pro­dotto delle converse invertito; che se una relazione è contenuta (e De Morgan non intende ciò in senso insiemistico) in un'altra, allora la conversa della prima è contenuta nella conversa della seconda e altrettanto vale per le contrarie; nonché numerosi altri risultati su cui non è luogo qui insistere ..

A questo punto è in grado di fornire la tavola dei sillogismi generaliz­zati, che egli presenta in due casi diversi, a seconda che la copula L sia la stessa relazione transitiva in entrambe le premesse (i numeri romani stanno per le tradizionali figure)

2 4

X..LY X.LY X..LY Y .. LZ Y .. L-1Z Y.L-lZ X..LZ X.LZ X.L-1Z

II X.LY X..LY X..LY Z .. LY Z .. L-1 Y Z.LY X.LZ X .. LZ X.L-IIZ

III Y .. LX Y.LX Y .. LX Y.LZ Y .. LZ Y .. L-lZ X.LZ X.L- 1Z X .. L-lZ

IV Y .. LX Y.LX Y .. LX Z.L-1 Y Z .. L-lY Z .. LY X.LZ X.L- 1Z X .. L-IZ

oppure si considerino nelle due premesse relazioni L e M diverse qualsiasi (col solito significato dei numeri romani)

I Tra l'altro è proprio nel contesto della ge­neralizzazione della sillogistica teoria delle re­lazioni che De Morgan enuncia le leggi oggi note appunto col suo nome (e che peraltro sappia­mo essere già conosciute dagli Stoici, e comunque chiaramente espresse dai logici medievali) come

segue: « Il contrario [la negazione] di un aggre­gato [di una somma logica] è il composto [pro­dotto logico] dei contrari degli aggregati; il con­trario di un composto è l'aggregato dei contrari dei componenti. »

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La svolta della logica nell'Ottocento

2 4

X .. LY X.LY X..LY l X.LY Y .. MZ Y .. MZ Y.MZ Y.MZ

-- -- -- --X . .LMZ X..IMZ X..LmZ X..lmZ

X.IM'Z

l X.LM'Z X.lm'Z X.Lm'Z

X.L,mZ X.l,mZ X.L,MZ X./,MZ

LM'N NM-1'L L-1N'M /m'N l l --

X.LY X..LY X..LY X.LY Z..MY Z .. MY Z.MY Z.MY

-- -- -- --

II X..IM-1Z X..LM-1Z X..Lm-1Z X . .lm-1Z

X.LM-1'Z X.IM-1'Z X.!m-1'Z X.Lm-1'Z X.l,m-1Z X.L,m-1Z X.L,M-1Z X.!,M-1Z

N MI/L LM-111N L-1NI/M-1 /m-111N

Y . .LX Y.LX Y .. LX Y.LX Y.MZ Y .. MZ Y .. MZ Y.MZ

-- -- -- --X .. L-1mZ X..I-1MZ X..L-1MZ X . .f-1mZ

III X.l-1m'Z X.L-lM'Z X.f-1M'Z X.L-1m'Z X.L,-1MZ X.J,-lmZ X.L,-lmZ X.!,-1MZ

LNI/M NM-liiL-1 L-IMI/N /-l mi IN . ·-

Y.LX Y . .LX Y.LX Y .. LX Z.MY Z.MY Z .. MY Z .. MY

-- -- -- --X . .f-lm-lZ X .. L-lm-IZ X..f~lM-lZ X .. L-lM-lZ

IV X.L-lm-1'Z X.f-lm-l'Z X.L-lM-l'Z X.f-lM-l'Z X.J,-lM-lZ X.L,-lM-lZ X.J,-lm-IZ X.L,-1m-1Z

J-lm-111N LN//M-1 NMIIL-1 L-lM-IIIN l

Per concludere, malgrado alcuni risultati di De Morgan siano statl rtpresi come abbiamo già accennato e da Boole e da Peirce, l'ancoramento del logico inglese al modello aristotelico agì in definitiva più come momento bloccante che come stimolo per la sua visione della logica, sicché egli non seppe concretare opera­tivamente possibili prospettive di un calcolo più generale in senso moderno, pro­spettive che qua e là affiorano, a livello di anticipazione, nei suoi scritti; in particola­re per quanto riguarda la teoria delle relazioni non seppe comprendere che la teoria stessa, indipendentemente dal suo rapporto con la sillogistica, costituiva una dottri­na autonomamente importante e interessante ogni campo della matematica. lntrav­vide insomma varie generalizzazioni e aperture possibili, nell'ambito però di un con­testo che ormai aveva fatto il suo tempo ed era stato di fatto superato dalla prospet­tiva booleana.

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III · LA «RIVOLUZIONE BOOLEANA»

In che cosa dunque consiste la natura rivoluzionaria dell'apertura logica booleana, nella quale culmina quel processo di affrancamento della matematica e in generale del «formale» dall'interpretazione privilegiata o comunque precosti­tuita? Orbene, proprio in questo che al di là dello sfondo aritmetico sulla base del quale lavoravano gli algebristi inglesi, e al di là della « chiusura » di De Morgan costituita dal privilegiato modello aristotelico, Boole 1 afferma in modo netto e deciso la natura formale del calcolo in generale, nel senso che anche l'istituzione di un calcolo logico è una costruzione formale cui l'interpretazione si aggiunge per cosi dire dall'esterno e non costituisce più la base esclusiva e primaria da cui la struttura formale viene astratta.

Questo atteggiamento (lo si confronti col presunto criterio di « scientificità » di De Morgan: si può dire che è esattamente l'opposto) mentre ci sembra giusti­fichi appieno l'importanza da noi data nei capitoli precedenti alle varie fasi della evoluzione della scuola algebrica inglese, riconnette direttamente Boole a Leibniz per l'ampiezza dell'orizzonte prospettato; assai illuminanti ci sembrano in pro­posito le parole stesse di Boole, a partire dalla motivazione stessa dell' Ana!J•sis del 1847 quando afferma, nella prefazione all'opera:« Nella primavera di quest'an-

I George Boole nacque a Lincoln nel no­vembre del I 8 I 5, da famiglia di condizioni assai modeste. Avviato a studi commerciali, si applicò come autodidatta allo studio del latino, del greco, del francese, del tedesco e dell'italiano. Costretto all'insegnamento elementare da necessità fami­liari, sempre da autodidatta affrontò lo studio della matematica, nel qual campo accettò le idee della scuola di Cambridge anche in conseguenza della sua amicizia personale con un esponente di questa, Duncan Farquharson Gregory; conobbe anche De Morgan. Iniziò la sua attività scientifi­ca con un lavoro del I84I Researches on the theory of ana/ytical transformations (Ricerche sulla teoria delle trasformazioni analitiche) cui seguì, nel I844, Age­nera/ method in Analysis (Un metodo generale in Ana­lisi), direttamente collegato ai temi della scuola di Cambridge, in quanto imperniato sul principio della separazione dei simboli. Nel I847 pubblica The mathematical ana/ysis of logic; being an essay toward a cakulus of deductive reasoning (L'analisi ma­tematica della logica: saggio di un calcolo del ragiona­mento deduttivo) che è appunto considerata unani­memente come il « manifesto» originario della mo­derna logica formale. L'anno successivo riespose brevemente l'opera in questione nell'articolo The cakulus of logic (Il cakolo della logica). Nel I 849 viene chiamato come professore di matematica al Queen's College di Cork, ove insegna fino alla morte, avvenuta nel dicembre del I864. Fra la produzione scientifica di Boole emerge il volume

An investigation of the laws of thought, on which are founded the mathematical theories of logic and proba­bilities (Una ricerca sulle leggi del pensiero sulle quali sono fondate le teorie matematiche della logica e delle probabilità) del I854, ove Boole, che lo conside­rava il proprio capolavoro, dà la versione « ma­tura» delle sue idee sulla logica nell'ambito di un preciso contesto filosofico generale; paradossal­mente la storiografia logica ha tuttavia conside­rato quest'opera da molti punti di vista come una pura e semplice « complicazione filosofica » ri­spetto ali' opera del '4 7. Vanno ancora ricordati On the application ~( the theories of probability lo the question of the combination of testimonies or judgements (Sull'applicazione della teoria della probabilità alla questione della combinazione di testimoni o giudizi) del I857 e, del I86z, On the theory of probability (Sulla teoria della probabilità) che sono entrambi saggi di interpretazione logica del calcolo della probabi­lità. È del I859 un Treatise of differential equations (Trattato di equazioni differenziali) e del I 86o Cal­culus of finite differences (Cakolo delle differenze finite). Boole lasciò inoltre parecchio materiale inedito che la sua vedova, signora Mary Everest, donò alla Royal Society; sottoposti questi scritti al giu­dizio di De Morgan per una loro eventuale pub­blicazione, De Morgan decise che tale mate­riale nulla avrebbe aggiunto ai risultati già otte­nuti e resi pubblici dallo stesso Boole e bocciò quindi il progetto.

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La svolta della logica nell'Ottocento

no la mia attenzione fu attratta dalla disputa allora sorta fra Sir W. Hamilton e il Professar De Morgan; e fui indotto dall'interesse che la ispirava a riesumare tra­me, ormai quasi dimenticate, di indagini precedenti. Mi sembrava che, malgrado la logica possa essere riguardata con riferimento all'idea di quantità, essa fosse caratterizzata anche da un altro e più profondo sistema di relazioni. Se era legit­timo riguardarla dall'esterno come una scienza che attraverso la mediazione del Numero si connette con le intui#oni di spazio e tempo, era legittimo anche ti­guardarla dall'interno come basata su fatti di ordine diverso che hanno la loro sede nella costituzione della mente », per poi passare all'introduzione della stessa opera, ove più esplicitamente si riferisce all'evoluzione dell'ambiente algebrico a lui familiare ed enuncia il principio fondamentale delle proprie ricerche:

«Coloro che hanno familiarità con lo stato attuale della teoria dell'algebra simbolica, sono consapevoli che la validità dei procedimenti dell'analisi non di­pende dall'interpretazione dei simboli che vi sono impiegati, ma soltanto dalle leggi che regolano la loro combinazione. Ogni sistema di interpretazione che non modifichi la verità delle relazioni che si suppone esistano tra tali simboli è ugual­mente ammissibile, ed è così che il medesimo processo può, secondo uno schema di interpretazione, rappresentare la soluzione di una questione riguardante le proprietà dei numeri, secondo un altro schema quella di un problema di geome­tria e, secondo un altro ancora, quella di un problema di dinamica o di ottica. Questo principio possiede un'importanza fondamentale e si può affermare che i recenti progressi dell'analisi pura sono stati in larga misura promossi dall'influenza che esso ha esercitato nel dirigere l'indirizzo della ricerca.»

Sicché può decisamente affermare che « la caratteristica che definisce un calcolo autentico consiste in questo: che esso è un metodo fondato sull'impiego di simboli le cui leggi di combinazione sono note e generali, e i cui risultati am­mettono un 'interpretazione coerente. Il fatto che alle forme oggi esistenti di ana­lisi venga assegnata un'interpretazione quantitativa è il risultato delle circostanze che determinarono il sorgere di tali forme, e noi non dobbiamo farne una condi­zione universale dell'analisi. Sulla base di questo principio generale, io intendo appunto fondare il calcolo logico, e reclamare per esso un posto tra le forme di analisi matematica ormai generalmente riconosciute, senza tener conto del fatto che, dati il suo oggetto e gli strumenti di cui si avvale, esso deve, per il momento, rimanere isolato ». Si ricordino le parole di Boole che abbiamo riportato nel pa­ragrafo I - e che Boole scriveva nelle Laws del '54 - relative alle applicazioni della logica e alla natura matematica dei suoi processi ultimi, aggiungendovi la conclusione importantissima cui Boole perviene nelle stesse pagine, che « non fa parte dell'essenza della matematica di essere intimamente connessa con le idee di nu­mero e di quantità» (corsivo nostro) e si avrà un'idea precisa non solo del senso del « matematismo » booleano, ma anche della nuova originale e moderna con­cezione che egli ha della matematica cui riferisce il calcolo logico.

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La svolta della logica nell'Ottocento

Accanto all'evidente matematismo 1 tuttavia, dalle parole precedenti risulta anche in evidenza un secondo motivo di fondo della prospettiva booleana, cui di fatto sarà legato lo scopo fondamentale di tutta la sua opera e che sarà esplici­tamente e ripetutamente affrontato nelle Laws del '54: il motivo psicologistico, di cui si può con sicurezza affermare la derivazione hamiltoniana, e che inquadra tutto il disegno di Boole nella ricerca delle leggi del pensiero al fine di ricavarne informazioni e aperture verso la conoscenza della costituzione della mente. Le leggi del pensiero cioè rifletterebbero la struttura della mente e il metterle in evi­denza nei loro nessi « algebrici » può appunto farci compiere un importante passo avanti nella loro conoscenza. Che questo del resto fosse l'effettivo scopo «in grande» delle ricerche, e anzi si può dire globalmente dell'attività intellettuale di Boole, è espresso esplicitamente nelle Laws, quando egli si preoccupa inizialmente di stabilire che «la presente opera non è una ripubblicazione di un precedente trattato dell'Autore, intitolato "L'analisi matematica della logica". La sua prima parte è in effetti dedicata allo stesso oggetto, ed essa comincia con lo stabilire lo stesso sistema di leggi fondamentali, ma i suoi metodi sono più generali, e il suo campo di applicazione molto più vasto. Essa presenta i risultati maturati in alcuni anni di studio e di riflessione, di un principio di indagine connesso alle operazioni intellettuali, la cui prima esposizione venne scritta in poche settimane dopo che ne avevo concepito l'idea»; e passa quindi a rendere esplicito l'orizzonte più ampio nel quale situa l'intera sua opera, che ha lo scopo di «investigare le leggi fondamentali di quelle operazioni della mente mediante le quali si effettua il ra­gionamento; di dare ad esse espressione nel linguaggio simbolico di un calcolo e di stabilire, su questi fondamenti, la scienza della Logica e costruire i suoi me­todi; di rendere questo stesso metodo la base di un metodo generale per l'appli­cazione della teoria matematica delle probabilità; e, infine, di raccogliere dai vari elementi di verità portati alla luce nel corso di questa indagine alcune probabili indicazioni concernenti la natura e la costituzione della mente umana ».

È scontato che, pragmaticamente, una concezione psicologistica della logica è stata vanificata dallo stesso sviluppo della logica formale, che svolgendosi su un piano tecnico e in stretto rapporto con la matematica, ha escluso la possibilità di « inquinamenti » di questo tipo. Ma la cosa importante da notare è qui, al di là della particolare concezione sostenuta da Boole (e della fortuna della concezione stessa), il suo atteggiamento di apertura per quanto riguarda l'inquadramento del discorso logico e la sua ampia visione del problema generale della conoscenza.

I Assumiamo qui il « matematismo » di Boole nel suo momento più limitato e « positivo » come sbloccante cioè di una situazione di tradi­zionale competenza esclusivamente filosofica della trattazione della logica. Vedremo che Jevons e con lui molti autori successivi a Boole Io conside­reranno viceversa come uno dei difetti più rimar-

chevoli di tutta la costruzione booleana. Va del resto riconosciuto che, considerato in particolare come modellamento ai canoni matematici del cal­colo logico di Boole, esso dia talora luogo a pro­blematiche difficoltà che si manifestano soprat­tutto per quanto riguarda l'interpretazione di vari passaggi intermedi del calcolo stesso.

2.08

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Quando Boole dichiara, sempre nelle Laws, che « ... il solo oggetto della logica non è quello di renderei capaci di dedurre inferenze corrette da date premesse; né il solo scopo del calcolo delle probabilità quello di permetterei di stabilire su basi sicure le questioni di assicurazioni sulla vita ... Entrambi questi studi hanno anche un interesse di altro tipo, che loro deriva dalla luce che essi gettano sulle capacità intellettuali. Essi ci istruiscono relativamente al modo col quale il lin­guaggio e il numero servono come aiuto strumentale al processo di ragionamento; essi ci rivelano in certo grado la connessione fra differenti capacità dell'intelletto comune; essi ci mostrano quali siano, nei due domini della conoscenza probabile e dimostrativa, gli elementi essenziali della verità e della correttezza - elementi non derivati da alcunché, ma profondamente fondati nella costituzione delle facoltà umane », ci sembra che egli riesca a superare la particolare concezione di cui è sostenitore, o meglio, a rendersi indipendente da essa per lanciare un programma che bandisca la chiusura della ricerca scientifica fine a se stessa; programma o raccomandazione quanto mai attuale anche ai nostri giorni, ove imperativo è ormai divenuto l'impegno di superare la specializzazione particolare del campo di ricerca proprio di ogni singolo studioso, per aprire la mente a una visione globale d'inquadramento umano, politico e culturale.

È così giustificata appieno l'affermazione booleana circa l'originalità e la maggior maturità delle Laws rispetto all'Anarysis: le prime hanno portato a espo­sizione ampia e approfondita il contesto generale in cui si muove il lavoro e la scoperta tecnica, individuando tale contesto in un rapporto logica-psicologia che finisce col problematizzare la stessa attività simbolizzatrice dell'uomo. Abbiamo già accennato al fatto che in generale la valutazione che la critica ha dato delle Laws ha quasi unanimamente trascurato questo momento di maturità, limitandosi a considerarle come un miglioramento tecnico per quanto riguarda l'esposizione del calcolo, senza nemmeno tentare, in generale, un'analisi delle motivazioni più profonde che abbiamo tentato di mettere in luce come moventi effettivi dell'opera di Boole, quando addirittura non è giunta a qualificarle, e di solito su basi puramente pragmatiche, come un inutile orpello alla stringatezza e alla nitidezza del sistema simbolico.

Ancora una volta, una particolare sensibilità ha dimostrato a questo proposito Francesco Barone nella sua opera già tanto citata nel corso di questi capitoli. A quest'opera rimandiamo il lettore desideroso di approfondire la questione, mentre ci accingiamo a dare un sommario resoconto del sistema logico-algebrico boo­leano e delle sue interpretazioni in termini di classi, di proposizioni e probabilisti­che. Non ci atterremo a una determinata esposizione (particolarmente pregevole in senso «moderno», ossia in nuce assiomatica, quella delle Laws) che Boole dà del suo sistema e ci riferiremo indifferentemente, talora senza farlo esplicitamente rimarcare, alla presentazione delle Laws o a quella dell'Ana!Jisis.

Supponiamo di partire con un « universo del discorso » ossia con un insieme

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di « cose » concrete o no, che Boole indica con I, per ragioni che saranno subito chiare, e che costituisce per così dire il vero « oggetto » del nostro sistema.1

Nell'ambito di questo universo potremo compiere degli «atti di elezione», po­tremo cioè scegliere quegli oggetti x che godano di una proprietà X. Boole chiama i simboli minuscoli x,y, z, u, v, w, ... « simboli elettivi» ed essi stanno tanto per l'atto mentale di «elezione» quanto per il risultato di questo atto, ossia per la classe degli individui che nell'universo godono delle rispettive proprietà X, Y, Z, U, V, W, ... Assunta quindi un'infinità di simboli elettivi, è chiaro che può eseguirsi nell'universo quell'operazione che consiste nel fare due successivi atti di scelta, ossia nello scegliere ad esempio dall'universo prima la classe x degli individui che godono della proprietà X e quindi nello scegliere fra questi ultimi la classe y degli individui che godono della proprietà Y. Indicheremo con x X y o semplicemente con xy, l'atto o il risultato di tali atti successivi di elezione. È chiaro che si giungerà allo stesso risultato sia scegliendo prima x e poi y, sia invece scegliendo primay dall'universo I, e quindi x. Vale a dire si può assumere a livello linguistico che per l'operazione di< prodotto logico> sopra illustrata valga la legge

xy=yx

dove il segno « = » sta a indicare uguaglianza in estensione, indica cioè che le due classi scritte a destra e a sinistra del simbolo stesso contengono esattamente gli stessi elementi. La relazione di «uguaglianza in estensione» è l'unica relazione fra classi che considereremo e di conseguenza«=» sarà l'unico segno relazionale del sistema. È chiaro inoltre che si ha IX = x qualunque sia la classe x e che se si suppone di avere la « classe vuota », il « niente », si ha analogamente ox = o qualunque sia la classe x; in altri termini, lo o, il niente, è quella classe (unica) che rimane inalterata per qualsiasi atto di elezione in essa.

Analogamente, possiamo pensare all'atto di «elezione» dall'universo della classe degli elementi che sono caratterizzati dal godere della proprietà X o della proprietà Y ma non di entrambe, vale a dire dall'appartenere alla classe x o alla classe y, ma non ad entrambe. Nel caso allora che le classi x e y siano disgiunte, non abbiano cioè elementi in comune, si può pensare definita fra esse un'operazione che verrà indicata con « + » e che applicata alle classi x e y darà appunto la

I Si noti che nel!' Anabsis Boole sembra concepire l'universo del discorso come onnicom­prensivo, intendendo che « ... esso comprende ogni classe concepibile di oggetti, sia che questi esi­stano, sia che non esistano ... ». Nel!e Laws in­vece, dove il simbolo I viene introdotto sulla base di analogie algebriche che vedremo più avanti nel testo, sembra invece intenderlo come vero e pro­prio « universo del discorso di una teoria » ossia come insieme (classe) degli oggetti di cui «si parla ». Analoghe considerazioni possono farsi dualmente per il ~imbolo o che nell'Anabsis viene

impiegato senza che se ne dia una definizione espli­cita, mentre nelle Laws, sulla base delle analogie algebriche cui sopra si accennava, viene introdotto come una classe particolare, la cui interpretazione logica è il «Nulla» (classe vuota). È opportuno qui aggiungere che il concetto booleano di uni­verso del discorso viene recepito dagli studiosi posteriori nella sua prima accezione onnicom­prensiva. Schroder in particolare criticherà questa determinazione mostrando come essa possa por­tare a contraddizioni.

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classe x + y degli elementi dell'universo che appartengono ad una almeno delle due classi x e y e a una sola di esse.

Il fatto di aver definito l'operazione « + » di «aggregazione di parti in un tutto» o, come diremo, di somma logica, per classi disgiunte, è un'assunzione caratteristica del sistema booleano, cui probabilmente Boole si decide per potersi assicurare l'introduzione della differenza x~ y fr-a classi (facilmente interpretabile da parte del lettore sulla scorta delle considerazioni precedenti) in modo tale che le due operazioni « + » e «- » risultino nel sistema l'una inversa dell'altra. D'altra parte questa determinazione non permette un comportamento simmetrico dell'operazione di somma logica rispetto a quella di prodotto logico e comporta altre difficoltà che appariranno in seguito, sicché è stata in generale riguardata dai continuatori di Boole come uno dei più immediati difetti nel suo sistema.

Assunte quindi come fondamentali nel suo sistema le operazioni « x », « + », « - » e come relazione la « = », Boole definisce il « complemento » I - x di un termine x come quella classe di elementi dell'universo che non apparten­gono a x; e stabilisce quella che è la legge caratteristica del sistema, la cosiddetta «legge degli indici», che si esprime nella forma x 2 =x (o, ma solo nell'Ana[ysis, nella forma più generale xn = x; nelle Laws non assume invece questa forma ge­nerale per evitare talune difficoltà sulle quali è superfluo qui insistere). Sulla base delle operazioni e relazioni precedenti, alcune delle quali abbiamo sopra illustrato, si può dire che Boole assume, fra implicite ed esplicite, le seguenti « leggi del pensiero » per i simboli « logici » o « elettivi » del suo sistema

I. xy =yx z.x +y=y +x 3· z(x + y) = zx + ~ 4·z(x-y) = zx-~ 5· Se x= y, allora:

zx= ~ ì z+x=z+Y' x-z =y-z'

Commutatività del prodotto Commutatività della somma Distributività del prodotto rispetto alla somma Distributività del prodotto rispetto alla differenza

Sostitutività di « = » rispetto alle operazioni « x », « + » e « - »

6. x 2 =x o equivalentemente x(x- I)= o

Si noti che le leggi (gli «assiomi» potremmo dire) I)-5) sono tutte applicabili anche nell'ordinaria algebra numerica, nel senso cioè che si trasformano in pro­posizioni vere ove ai segni di operazione e relazione si dia il significato ordinario e si interpretino i segni, x,y, z, come numeri; la legge distintiva del sistema boo­leano è la 6). Qui il sistema sembra scostarsi irrimediabilmente dai modelli nume­rici e d'altronde la 6) si dimostrerà" di fondamentale importanza per ridurre le formule del calcolo in forma conveniente all'interpretazione logica. Si noti tut­tavia che la legge in questione è soddisfatta dai numeri I e o, ed è proprio a questo punto che Boole traduce operativamente il motivo conduttore della sua ricerca,

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affermando che «invece di determinare la misura dell'accordo formale dei sim­boli della logica con quelli dei Numeri in generale, è più immediatamente sugge­rito di confrontarli con i simboli di quantità che ammettono solo i valori o e I ». Supposto quindi di considerare un'algebra i cui simboli ammettano come valori solo o e I, allora «le leggi, gli assiomi e i processi di tale algebra saranno identici nella loro estensione completa alle leggi, gli assiomi e i processi di un'algebra della logica. Esse sarebbero divise solo da differenze di interpretazione. E il metodo di quest'opera è fondato su questo principio».

Si noti che questo non significa affatto che il sistema di Boole sia un'algebra a due valori; per poter affermare ciò dovrebbe trovarsi fra le leggi sopra elencate una proposizione quale « x = o o x = I » (o della forma equivalente « Se x =1=- o allora x = I ») che invece non vi figura. Quello che Bo o le afferma è semplice­mente che il suo sistema è interpretabile in termini delle quantità numeriche o e I,

ossia che questi due numeri costituiscono per così dire un insieme di « cose » che rende vere tutte e sei le leggi poste a fondamento del proprio sistema (con ade­guata interpretazione, è ovvio, dei segni di operazione e relazione). Del resto, nelle nostre argomentazioni precedenti a scopo esemplificativo abbiamo implici­tamente assunto che il sistema di Boole fosse interpreta bile in termini di classi: e il lettore può convincersi facilmente che questa interpretazione non soddisfa la condizione di « binarietà » che abbiamo sopra espresso, dal momento che ovvia­mente non tutte le classi di un dato sistema di classi soddisfano in generale la condizione di essere uguali all'universo (classe totale) o al niente (classe vuota).

Stabilito il « sommario » delle leggi fondamentali del pensiero che debbono reggere il processo inferenziale, Boole individua come segue le condizioni che debbono essere soddisfatte per condurre un ragionamento corretto con l'aiuto dei simboli; allo scopo è necessario che « I) ai simboli venga assegnata un'inter­pretazione fissata nell'espressione dei dati; e che le leggi di combinazione di questi simboli siano correttamente determinate da quell'interpretazione; 2) che i proces­si formali di soluzione o dimostrazione siano condotti sempre in obbedienza a tut­te le leggi sopra determinate, senza riferimento alla questione dell'interpretazione dei particolari risultati ottenuti; 3) che il risultato finale sia interpreta bile iri forma e che esso sia effettivamente interpretabile in accordo con quel sistema di interpre­tazione che era stato impiegato nell'espressione dei dati».

Questo passo delle Laws è estremamente significativo in quanto si può dire riassuma la concezione globale di Boole relativamente allo status del calcolo lo­gico. È chiaro infatti che Boole propone, nell'ambito di una determinazione con­tenutistica del discorso inferenziale, una conduzione puramente formale, in questo senso per lui matematica, del discorso stesso. In termini moderni potremmo espri­mere la cosa dicendo che Boole individua e distingue i due momenti semantico e sintattico e pur non riguardandoli in assoluto come separati o autonomi l'uno rispetto all'altro, privilegia il momento sintattico per quanto riguarda la condu-

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zione dell'argomentazione; l'interpretazione semantica interviene nel momento iniziale in cui per così dire si fissano i principi formali del calcolo, e nel momento finale di questo, quando cioè si interpretano i risultati. È proprio questo momento centrale di totale riferimento «algebrico» il momento matematizzante «negati­vo » nel pensiero booleano, a parere di alcuni suoi critici posteriori, segnatamente dello J evons; ed è innegabile che questa completa analogia algebrica di fondo ha consentito a Boole passaggi e risultati intermedi non immediatamente interpreta­bili in senso logico, e la cui giustificazione finale non è, a rigore, fra le pagine più lucide della sua costruzione. Va notato tuttavia che con questa sua aderenza anche se talora apparentemente eccessiva ad analogie algebriche (e si deve sempre tener presente la particolare accezione di« matematica» per Boole) Boole riesce concre­tamente, e per la prima volta nella storia della logica, ad andare al di là, a superare decisamente il modello sillogistico aristotelico: proprio per l'effettiva generalità intrinseca del calcolo proposto da Boole, il sillogismo risulterà un caso partico­larissimo di un più generale e comprensivo schema inferenziale, di più generali metodi di « ragionamento >> la cui controparte algebrica verrà appunto stabilita mediante il calculus ratiocinator booleano.1 Prima di passare a esporre brevemente

I Queste considerazioni ci permettono di trattare in nota la questione relativa alla traduzione e alla « resa » nel linguaggio booleano di quello che è il sistema classico della sillogistica. Comin­ciamo col notare che non simbolizzando Boole la relazione di inclusione fra classi, ne viene subito che le proposizioni (in particolare le categoriche) saranno rappresentate da equazioni nelle quali «qualcosa» è posto uguale a o o a I (essendo come abbiamo visto l'identità l'unica relazione per cui nel linguaggio si disponga di un apposito simbolo) oppure ricorrendo alla quantificazione del predicato. Boole in effetti impiega entrambi i metodi per la traduzione delle categoriche e ciò costituisce un ulteriore « neo » della sua sistema­zione. È chiaro infatti che le categoriche potreb­bero tradursi come segue. Per le gene:ali

A x (I-y) = o Ogni x èy, ossia è vuo-. ta la parte comune a x

e al complemento di y. E xy = o Nessun x è y, ossia è

vuota la parte comune axey.

Per quanto riguarda le particolari, le cose non sono così semplici. Sarebbe immediato renderle me­diante disuguaglianze, ad esempio come segue

Qualche x è.Y ossia non I xy # o è vuota la parte comu­

ne a x ey. O x(I-y)# o Qualchexnonèy,os-

sia ... Ma come detto sopra Boole ricorre in questo caso alla quantificazione del predicato, introducendo un particolare simbolo elettivo v che in qualche modo

è destinato a rappresentare « alcuni» o « qualche » e traduce le due proposizioni in questione come segue I xy =v

O x(I -y) =v con la caratterizzazione puramente negativa, per quanto riguarda la classe rappresentata da v, che essa deve essere considerata « indefinita sotto ogni rispetto salvo il fatto di contenere almeno un ele­mento» (vale a dire può essere una qualunque classe non vuota). Questo espediente non è certo fra i più felici e potrebbe portare a risultati palese­mente contraddittori (si pensi semplicemente che dalle equazioni x = v, y = v si potrebbe dedurre x= y per due classi x, y qualunque non vuote; o analogamente da xy = v e zt = v si giungerebbe a xy = zt, e così via), risultati che Boole riesce sì ad evitare sempre ma, si può dire, per sua perso­nale abilità piuttosto che in forza della struttura del calcolo. Con l'introduzione comunque di un secondo termine w analogo a v si ha la seguente rappresentazione delle categoriche

A x=vy x(I-y)=o E x = v (I - y) xy = o I vx=w(r-y) v=xy O vx=w(r-y) v=x(r-y)

Comunque, con questa simbolizzazione Boole può rendere tutto il sillogismo classico, riportando la teoria delle inferenze immediate (conversioni, oh­versioni, contrapposizioni, ecc.) o a elementari proprietà dei simboli elettivi o a semplici trasfor­mazioni di tipo algebrico sulle equazioni che tradu­cono le proposizioni; è analogamente chiaro che la « conclusione » di un sillogismo da due premesse è così riportata, in termini per ora intuitivi, al-

2.13

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i momenti fondamentali di tale calcolo, vogliamo infine osservare che questo collegamento qui implicitamente fatto a Leibniz sarà uno dei punti più pregnanti nelle obiezioni che, come vedremo, Frege solleverà alla sistemazione booleana, proprio per difendersi dall'accusa di alcuni suoi contemporanei che gli imputavano di non essersi adeguato al modello in questione.

Il processo fondamentale che regge tutto il calcolo booleano è quello dello sviluppo di una funzione. Si cominci con l'osservare che una qualunque espressione del calcolo contenente il simbolo elettivo x, può essere riguardata come una fun­zione di x, e può essere rappresentata in forma generica e generale abbreviata col simbolo f(x); analogamente si potrà parlare di funzioni f(x, y), f(x, _y, z), ... di due, tre, ... argomenti. Ora per quelle funzioni in cui x, y, z, ... sono simboli logici, o simboli di quantità suscettibili di assumere i soli valori o e I, in breve simboli che soddisfano la legge 6) degli indici (o di \( dualità » come verrà anche chiamata nelle Laws) è possibile dare uno sviluppo standard nella forma

f(x) = ax + b(I-x)

dove a e b sono determinati in modo tale da rendere il risultato equivalente (dal punto di vista dell'interpretazione logica, o in senso numerico per i soli valori o e I) alla funzione data.1

Premesso che con f( I), rispettivamente f( o) si indica il valore della funzione f(x) nella quale a x si sia sostituito I o o rispettivamente, il richiesto sviluppo per una funzione di una variabile sarà

j(x) = j(I) + j(o)(I-x).

Ad esempio, se f(x) = I +x

----, avendosi j( I) = 2. f 3 e f( o) = I, si otterrà I +zx

2 -x +(I-x)

3

e, nel senso precedentemente chiarito, questa identità vale per ogni possibile va­lore di x. Analogamente si procede per funzioni di due, tre, ... variabili, per le quali si ha, rispettivamente

l'eliminazione dalle premesse stesse del simbolo elettivo che rappresenta il termine medio, vale a dire a stabilire con metodi algebrici dalle date equa­zioni delle premesse, una terza opportuna equa­zione che non contenga il termine medio.

r Si noti che mentre nel!' Ana/ysis Boole giunge a dare l'espressione per lo sviluppo di una funzione in modo spregiudicato e largamente non

giustificato a partire dall'analogo sviluppo di Taylor di una funzione in serie di potenze, nelle Laws invece riduce a una nota questa analogia, ri­correndo però anche in questo caso a motivazioni analogiche di tipo algebrico, che, a rigore, non ri­sultano comprensibili e giustificabili appieno se non si tiene conto delle argomentazioni del­l' Ana/ysis.

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La svolta della logica nell'Ottocento

j(x,_y) = j(I,I)xy +f(I,o)x(I-y) + f(o,I)(I-x)y + j(o,o)(I-x)(I-y);

j(x,y,ZJ = j(I,I,I)xyz + j(I,I,o)xy(I-z) + j(I,o,I)x(I-y)z + + f(o,I,I)(I-x).yz + j(I,o,o)x(I-y)(I-z) +f(o,I,o)(I-x)y(I-z) + +.f(o,o,I)(I-x)(I--;-J')Z + j(o,o,o,)(I-x)(I-X)(I-y)(I-z);

e così via per un numero superiore di variabili; da questi esempi dovrebbe risultar facile al lettore ricavare il semplice metodo che permette di generalizzare il pro­cedimento a funzioni con un numero (finito) qualunque di variabili.

In una forma sviluppata gli elementi f( I ),f( o) ;f( I, 1 ),f( I ,o), ... ; f( I, 1, I), ... ; si dicono coefficienti (o moduli); gli elementi x, (I-x); xy, (I-x).y, x(I-y), ... ; xyz, (I-x)yz, ... ; si dicono invece costituenti; gli elementi di quelli fra i costituenti che non contengono complementi (ossia termini della forma (I -x) ecc.), vengono det­tifattori: così, x,y, z, sono ad esempio i fattori del costituente xyz. Sono fonda­mentali le tre seguenti proprietà dei costituenti di qualsiasi sviluppo:

I) ogni costituente t soddisfa la legge di dualità, ossia t( t- I) = o; z) la somma di tutti i costituenti di ogni sviluppo è I; 3) il prodotto di due qualunque costituenti di un dato sviluppo è o.

Boole, rimarcato che tali proprietà valgono sempre e « sono comprensibili » per simboli quantitativi che assumano i valori o e I soltanto, osserva che esse possono ritenersi soddisfatte anche « per simboli logici, sempre se interpretabili » e che mal­grado non necessariamente una jtmzione risulti interpretabile (si intenda sempre: logicamente interpreta bile) dopo lo sviluppo, tuttavia le equazioni godono di detta proprietà, sono sempre riducibili mediante questo processo a forme interpreta­bili. In altri termini, il problema è ora quello di dare un significato logico e ai costi­tuenti di uno sviluppo e ai rispettivi coefficienti, e in particolare si tratta di vedere come questi ultimi influiscano sul significato, sulla « pregnanza » dei primi.

Per quanto riguarda i costituenti si vede subito che essi sono sempre inter­pretabili, dal momento che rappresentano «le diverse divisioni esclusive dell'uni­verso del discorso, formate dalla predicazione e negazione in ogni possibile modo delle qualità denotate dai simboli x,y, z, ... ecc.»; si può allora passare all'inter­pretazione di una data equazione mediante la regola seguente: si sviluppi la fun­zione corrispondente e si uguagli a o ogni costituente il cui coefficiente non è nullo; 1 l'interpretazione complessiva dei ri.:;ultati così ottenuti darà l'interpreta­zione. della data equazione. Per chiarire la cosa prendiamo un esempio dallo stesso Boole; si consideri la definizione di « animale puro » della legge ebraica:

x I costituenti i cui coefficienti sono nulli vengono ovviamente eliminati dall'espressione dello sviluppo di una funzione, nel senso che essi indicano una sorta di indipendenza logica della

funzione sviluppata dalle particolari « combina­zioni » dei termini che seguono i coefficienti in questione.

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La svolta della logica nell'Ottocento

« sono animali puri quelli che sono contemporaneamente ruminanti e hanno il piede caprino », e poniamo che sia:

x= animali puri y = animali dal piede caprino z = animali ruminanti.

La data proposizione può allora essere espressa dall'equazione x= yz, che siri­duce immediatamente alla forma x - yz = o. Sviluppandola col metodo sopra esposto si ottiene:

O~YZ + xy(I-z) + X(I-y)z + X(I-;-J)(I-z) + (I-X)yz + o(t-X).y(t-z) + + o(I-X)(I-y)z +o( t-X) (t-y)(t-z).

Trascurando per quanto detto i costituenti i cui coefficienti sono uguali a o, e uguagliando a o i costituenti rimasti, si ha

xy(I-z) = O, xz(I-y) = O, x(t-y)(t-z) = o, (t-x)yz = O

e ognuna di queste condizioni ci dà per così dire una parziale informazione logica relativa all'intero contenuto dell'equazione da cui siamo partiti. Dalla prima ad esempio ricaviamo che non « esistono » (nel senso appunto della definizione pre­cedente, ossia non sono puri) animali puri, dal piede caprino, ma non ruminanti; la seconda ci informa che non esiste la classe degli animali puri, ruminanti, ma non aventi il piede caprino (ossia che questa classe è vuota); la terza che non esiste la classe degli animali puri non ruminanti e senza piede caprino, la quarta infine che non esiste la classe dei ruminanti col piede caprino che non siano puri. Come si vede la somma di queste informazioni parziali esaurisce il significato dell'infor­mazione contenuta nell'equazione di partenza; in questo senso affermavamo prima l'equivalenza del risultato dello sviluppo con l'equazione data. 1

Il vero problema interpretativo che si presenta a Boole per quanto riguarda il procedimento di sviluppo di una funzione si ha quando si pensi di avere a che fare con funzioni affatto generali, che non necessariamente siano poste nella forma V= o o V= I, ma abbiano invece la forma generale V= w, dove V è una funzione dei simboli logici x, y, z, ecc. e w è un qualunque simbolo logico (è

1 È interessante riportare la conclusione cui giunge Boole alla fine di quest'esempio. Egli in­fatti ne deduce che ogni proposizione primaria (si veda avanti nel testo) può essere «risolta in una serie di negazioni di esistenza di certe definite classi di cose e, da questo sistema di negazioni, può essere a sua volta ricostruita ». Al problema, che sorge immediatamente, di come si possa pas-

sare da una serie di negazioni ad una affermazione positiva, egli risponde che « .. .la mente assume l'esistenza dell'universo non a priori come fatto indipendente dall'esperienza, ma a posteriori come deduzione dall'esperienza, o ipoteticamente come fondazione della possibilità del ragionamento as­sertorio».

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chiaro che i precedenti sono casi particolari di questo). In generale infatti potranno presentarsi delle forme i cui coefficienti sono non interpretabili. Limitiamoci a chiarire la cosa con un esempio dello stesso Boole, che ci permetterà nel contempo di renderei conto di un secondo processo del calcolo booleano, quello di soluzione di un'equazione: essò consiste nel determinare un elemento di una proposizione elettiva, per quanto complessa, come funzione logica degli altri elementi dell'equa­zione stessa.

Supponiamo di avere l'equazione (che esprime, per una certa interpretazione dei simboli, una proposizione)

X=~·

Risolvere quest'equazione, ad esempio rispetto az, significa, con totale analogia algebrica, ricavare il valore di z in funzione degli altri termini della proposizione; si ha cioè

x z=y-

Il risultato così ottenuto non è però interpreta bile, in quanto non è stata introdotta nel sistema di Boole l'operazione di divisione. Qui si coglie la fondamentalità del processo di sviluppo: invece infatti di eseguire quell'operazione, limitiamoci, come abbiamo fatto, ad esprimerla; quindi ·sviluppiamo l'espressione così ottenuta. Nel nostro caso si ha

I O z = xy +-x(I-y) +o(I-x)y +-(I-x)(r-y) o o

e si pone però il problema di dare un'interpretazione a coefficienti quali I fo o ofo, o, più in generale, a coefficienti numerici qualsiasi. Ecco allora come Boole de­termina questa interpretazione, sulla base di analogie algebriche che non è qui il caso di descrivere ma che comunque non risultano certo sempre convincenti. Potrà essere utile al lettore immaginare la questione in termini di espressione di un certo contenuto logico relazionale fra i termini di una data equazione che, una volta eseguito lo sviluppo, si traduce in «gradi di presenza» o in «assenza» di certi costituenti in quello che potremmo chiamare lo « spazio logico » della proposizione data. Ciò premesso « I) Il simbolo I come coefficiente di un termine dello sviluppo indica che va presa la totalità della classe che quel costituente rap­presenta. z) Il coefficiente o indica che quella classe non va considerata. 3) Il coef­ficiente ofo indica una porzione del tutto indefinita della classe, ossia che vanno presi alcuni, tutti o nessuno dei suoi membri. 4) Ogni altro simbolo (quindi in parti-

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colare I fo e ogni altro valore numerico diverso da o e da I come coefficiente, indica che il costituente cui esso è prefisso va uguagliato a zero ». 1

Altro processo fondamentale del calcolo booleano è quello dell'eliminazione di un termine x da una data equazione. La cosa si basa sul fatto che se f(x) = o è un'equazione logica, che comprende il simbolo elettivo x, allora l'equazione

f(o)j(I) = o

è vera indipendentemente dall'interpretazione di x: questa equazione rappresenta appunto il risultato dell'eliminazione di x dalla data equazione j(x)= o. 2 Per eliminare un simbolo da una data equazione si applicherà quindi la seguente rego­la: si portano tutti i termini al primo membro (cambiando ovviamente di segno) si dà al simbolo da eliminare il valore I e quindi il valore o; si moltiplicano i risul­tati delle due sostituzioni effettuate e si uguaglia il prodotto a zero. Si voglia ad esempio eliminare il simbolo v, e interpretare il risultato ottenuto, dall'equazione

y= vx

che, intendendo per y « uomo » e per x « mortale », è come sappiamo una possi­bile traduzione simbolica della proposizione universale « tutti gli uomini sono mortali ». Si avrà successivamente

per v= I per v= o

.J-VX =o y-x=o

y=o.

Moltiplicando i risultati e uguagliando a zero:y(I-x) =o ossia, ovviamente: « non esistono uomini non mortali ». Si noti che pur essendo il risultato ottenuto già interpretabile direttamente, si può proseguire per maggiori « informazioni »

sviluppando la funzione

I-X=

1 In scritti inediti posteriori alle Laws, Boole identifica i quattro coefficienti 1 ,o,ofo, 1/o con quat­tro categorie di pensiero e precisamente con la categoria dell'universale, del non esistente, del­l'indefinito e dell'impossibile, che costituiscono forme necessarie del ragionamento e che Boole confronta con le categorie kantiane trovandole su­periori e più adeguate di queste ultime perché quelle da lui proposte « hanno una relazione reale e scientifica e non puramente immaginata con le possibilità del pensiero logico. Non c'è alcuna parte, » prosegue Boole, « delle speculazioni di

o

y

Kant che a prima vista sia più stringente della sua tavola sistematica delle categorie; essa è tuttavia l'apparenza dell'ordine scientifico senza la realtà». Vedremo che Jevons riuscirà a dare a tali coeffi­cienti un'interpretazione puramente logica.

2 La dipendenza di questo processo da quel­lo di sviluppo di una funzione (a conferma ap­punto del ruolo assolutamente fondamentale di quest'ultimo) appare evidente nella dimostrazione che Boole dà - e che noi per semplicità non ri­portiamo - di questo asserto e della regola che su di esso si basa.

2.I8

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e ottenendo quindi

La svolta della logica nell'Ottocento

o I -x= -(I-y),

o

cioè, ricordando quanto sopra detto sulle interpretazione dei coefficienti: « coloro che non sono mortali non sono uomini» vale a dire la contrapposizione dell'equa­zione data. Consideriamo un altro esempio. La proposizione «nessun uomo (y) è perfetto (x) » viene resa, come sappiamo, da

y = v(I-x).

Eliminiamo v. Scritto_y-v(I-x) =o e posto v= I si ha:y-(I-x) =o; posto ora v= o si ottieney = o, sicché il risultato dell'eliminazione sarày-y(I-x) = o, ossia yx = o, che sappiamo già interpretare ( « non esistono uomini perfetti »). Sviluppando ora la funzione si ottiene, risolvendo rispetto ad x

o o x=-= -(I-y)

y o

vàle a dire «nessun essere perfetto è uomo». Analogamente, sviluppando I-x si avrebbe

o y o I-X= I-- = -· = y + -(I-y)

y y o

ossia: « gli esseri imperfetti sono tutti gli uomini più una porzione indeterminata (tutti, alcuni, nessuno) di altri esseri che non sono uomini».

Ultei:iore processo introdotto da Boole è quello di riduzione, che consiste nel ricavare da una data serie di (due o più) equazioni una sola equazione la quale conservi ovviamente tutte le « informazioni » relative ai rapporti logici fra i ter­mini contenuti nella serie di equazioni iniziali; in altre parole, che risulti equi­valente al sistema di equazioni dato. Anche per questo processo la regola è molto semplice e viene come al solito dimostrata sulla base di proprietà dello sviluppo delle singole funzioni del sistema: da un numero qualunque di equazioni della forma V= o con V che soddisfa la legge di dualità V(V-I) =o (brevemente, equazione elettive o logiche) si può attenerne una sola combinando le equazioni date per semplice somma e tenendo conto del fatto che ogni altra equazione della forma V= o può essere ridotta, elevandola al quadrato, a un'equazione cui sia applicabile la regola in questione.

A questo punto è chiaro che mentre la soluzione delle equazioni elettive rap-

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presenta una generalizzazione del classico processo di inferenza immediata (e ne abbiamo mostrato alcuni esempi) sempre sulla base dello sviluppo si ha una gene­ralizzazione effettiva anche del processo di inferenza mediata, in particolare del sillogismo, che risulta in questo contesto essere un caso del tutto speciale di appli­cazione dei processi di riduzione ed eliminazione: precisamente quello in cui si tratta di ridurre due equazioni a una sola e di eliminare un solo termine, il termine medio. Ne viene immediatamente che l'estensione del metodo booleano- com­prendendo l'esplicitazione dei rapporti logici (le « inferenze ») fra un numero (finito) qualsiasi di proposizioni in un numero (finito) qualsiasi di termini -prospetta effettivamente un calcolo del tutto generale, che si è decisamente stac­cato dalle « strettoie » del modello aristotelico.

Qualche altra parola va detta circa le interpretazioni del calcolo booleano. Nelle pagine precedenti abbiamo parlato - anche se in modo non sistematico -di almeno due interpretazioni possibili, alle quali abbiamo fatto costantemente ricorso nelle esemplificazioni: quella in termini di classi e quella in termini dei valori numerici o e I ; abbiamo anche notato che queste due interpretazioni, fra l'altro, differiscono in particolare per quanto riguarda l'eventuale presunta «bi­narietà » del sistema di Boole: mentre infatti la prima non soddisfa la disgiunzione esclusiva « x = o o x = I », è immediatamente ovvio che tale proposizione è soddisfatta dalla seconda interpretazione. Esporremo ora brevemente le interpre­tazioni proposizionale e probabilistica.

Per quanto riguarda la prima, occorre innanzitutto fare una precisazione. Tutte le proposizioni logiche possono considerarsi, secondo Boole, come appar­tenenti a una di due classi esaustive e disgiunte: quella delle proposizioni primarie o concrete e quella delle proposizioni secondarie o astratte. Le proposizioni della prima classe esprimono asserzioni su fatti o eventi, sulla loro mutua dipendenza, parlano in altri termini di cose; le proposizioni della seconda classe parlano invece delle possibili relazioni che questi eventi hanno fra loro, rispetto alla loro even­tuale verità o falsità: in altri termini, parlano di proposizioni. Questa distinzione, afferma Boole, è in pratica molto vicina, anche se non coestensiva, alla « comune distinzione logica fra proposizioni categoriche e proposizioni ipotetiche». Assu­mendo questa distinzione, il discorso precedente, in termini di classe (o sillogismi) si riferiva a proposizioni categoriche o primarie; l'interpretazione di cui ora vo­gliamo parlare è in termini di proposizioni secondarie o ipotetiche, che sono costituite da due o più categoriche unite da una copula o congiunzione, e che traggono i loro vari nomi (condizionali, disgiuntive, ecc.) appunto dal tipo di congiunzione usata. L'interpretazione in termini di proposizioni secondarie (di­remo semplicemente: proposizioni, ove ciò non dia luogo a confusioni) riguarda allora proposizioni non analizzate di cui si studiano quei rapporti inferenziali che non dipendono dalla struttura delle proposizioni stesse, ma dal loro essere vere o false in dipendenza delle «congiunzioni» che le originano.

zzo

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La svolta della logica nell'Ottocento

Ora, per Boole calcolo delle classi e calcolo delle proposizioni hanno una stessa struttura formale e vengono differenziati solo a livello delle interpretazioni. Nel caso proposizionale il simbolo I va interpretato come l'universo ipotetico e « comprenderà tutti i casi e le congiunture di circostanze concepibili ». I simboli elettivi x,y, z, ... rappresentano corrispondentemente la scelta di tutti i casi in cui le proposizioni X, Y, Z, . . . sono vere. Per una data proposizione Y si hanno le due sole possibilità che essa sia vera o falsa e poiché « questi casi presi assieme esauriscono l'universo» delle proposizioni e il primo caso è definito dal simbolo elettivoy, il secondo sarà definito dal simbolo I-y. Nel caso invece si considerino più proposizioni, esse daranno luogo a una data combinazione di casi « il cui nu­mero dipenderà dal numero delle considerazioni estranee che abbiamo intro­dotto».

Per due proposizioni X e Y si avrà ad esempio la situazione seguente, che traiamo dall' Analysis.

Casi I) X vera, Y vera 2) X vera, Y falsa 3) X falsa, Y vera 4) X falsa, Y falsa

Espressioni elettive xy

x(I-y) (I-x)y

(I-x)(I---;-J).

Si osservi che in questo caso la somma delle espressioni elettive che tengono conto di tutti i casi possibili è I ; orbene, la cosa si può generalizzare considerando che «l'estensione dell'universo ipotetico non dipende affatto dal numero delle circostanze prese in considerazione ... e che per quanto grande possa essere il nu­mero di quelle circostanze, la somma delle espressioni elettive rappresentanti ogni caso concepibile sarà sempre l'unità».

Nei passi dell' Analysis sopra riportati appare chiara un'interpretazione in termini proposizionali con le « congiunzioni » (i connettivi, diremmo noi oggi) fra proposizioni intese estensionalmente come funzioni di verità. Nelle Laws tuttavia questa prospettiva muta bruscamente, perché Boole introduce ora un elemento temporale nella interpretazione, cosicché il simbolo I rappresenterà «l'universo o la totalità del tempo a cui si suppone il discorso si riferisca in qualche modo » e una proposizione del tipo ad esempio: « Se X è vera allora anche Y è vera » dovrà essere intesa come « il tempo in cui la proposizione X è vera è il tempo in cui la proposizione Y è vera ». A parte questa « deviazione » booleana delle Lmvs,1 il sistema formale si presta in entrambi i casi, a parere di Boole, a una pressoché completa elaborazione di quella forma di inferenza oggi

r V a detto peraltro che questa da noi detta « deviazione » viene riguardata col dovuto inte­resse dagli odierni cultori della cosiddetta « logica

del tempo» (tense /ogic). Si veda ad esempio l'ap­pendice A del volume Time and modality (Tempo e modalità) di Arthur N. Prior (Oxford 1957, 19682).

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La svolta della logica nell'Ottocento

appunto ~atalogata come «logica delle proposizioni» (o degli enunciati). Ma in effetti le cose non stanno così, nel senso che il sistema booleano non corrisponde compiutamente a tale tipo di inferenza. Indipendentemente infatti dalle diverse interpretazioni dell' Ana!Jsis e delle Laws, considerato il significato attribuito ini­zialmente all' 1 o allo o, affermare ad esempio x = o non significa affermare sem­plicemente la falsità di X, bensì la sua contraddittorietà (ossia « X è sempre falsa»); e analogamente, il significato di x= 1 non sarà: « X è vera », bensì « X è sempre vera » o, in termini moderni, « X è una tautologia ». Si può allora concludere con Barone che « il calcolo booleano delle proposizioni secondarie non è quindi un calcolo proposizionale; in contrasto con i suoi intenti è un mero strumento di trasformazione di equivalenze puramente formali».

Una delle ragioni fondamentali di questa situazione sta certamente nel fatto che per Boole il calcolo delle classi (delle proposizioni categoriche) costituisce il fondamento del calcolo delle proposizioni (secondarie). Oggi sappiamo che tale rapporto è esattamente invertito, riconosciamo cioè priorità logica al calco­lo delle proposizioni (secondarie in terminologia booleana) rispetto a quello delle classi. In questo senso, afferma Barone, « è stato incisivamente detto che i successori di Boole i quali ... delinearono come primum il calcolo proposi­zionale, fecero nei suoi confronti "ciò che Marx pensò di fare nei confronti di Hegel" ... ».

Veniamo infine a quella che può considerarsi una « interpretazione probabi­listica »del sistema di Boole. Accennata a questa possibilità alla fine dell' Ana!Jsis, Boole dedica vari capitoli delle Laws al problema, che noi riferiremo tuttavia molto brevemente. Boole afferma esplicitamente che « la teoria generale e il metodo della logica ... costituiscono anche la base di una teoria e del corrispon­dente metodo delle probabilità». Ecco perché è stato prima necessario provve­dere a una sistemazione della logica e « la ragione di questa necessità di un metodo precedente per la logica come base della teoria delle probabilità può essere espressa in poche parole. Prima di poter determinare il modo in cui la frequenza attesa dell'occorrenza di un particolare evento dipende dalle frequenze note dell'occorrenza di altri eventi qualsiasi, dobbiamo essere a conoscenza delle mutue dipendenze di questi eventi. Parlando tecnicamente, dobbiamo essere in grado di esprimere l'evento di cui si richiede la probabilità in funzione degli eventi di cui le probabilità sono date. Ora questa determinazione esplicita appartiene in tutti i suoi esempi al dipartimento della logica».

Noi ci limiteremo qui ad osservare che in certo senso quanto fa Boole nelle Laws equivale sostanzialmente a dare una interpretazione del calcolo in termini di teoria della probabilità (intesa in senso classico, ossia come rapporto fra i casi favorevoli e i casi possibili) in cui i simboli elettivi vengano cioè sostituiti da lettere che stanno per probabilità di un dato evento, secondo la tavola

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I) 2)

3) 4)

La svolta della logica nell'Ottocento

Eventi xy x(I-y) (I-x)y (I-X) (I-y)

co occorrenza di x e y occorrenza di x senza y occorrenza di y senza x assenza congiunta di x e y

Probabilità p q p( I-q) (I-p)q (I-p) (I-q)

Si può notare, per finire, che tanto l'interpretazione in termini di proposizioni secondarie quanto quella in termini probabilistici non soddisfano la condizione che abbiamo chiamato di « binarietà » del calcolo di Boole.

IV · L'ALGEBRA DELLA LOGICA NELL'OTTOCENTO DOPO BOOLE

La profonda originalità e l'angolazione del tutto caratteristica e innovatrice con cui Boole aveva impostato la teoria dell'inferenza logica, erano destinate a trovare immediata risonanza negli ambienti scientifici mondiali. L'introduzione booleana dei simJ:>oli elettivi e la trattazione generale del processo di sviluppo sono indubbiamente elementi che caratterizzano il suo sistema in quanto «al-gebrico »; ma abbiamo visto che Boole (pur con le cautele e le precisazioni ne­cessarie presentate nelle pagine precedenti, e trascurando l'interpretazione « tem­porale» delle Laws) nell'interpretazione del suo calcolo in termini di proposizioni (secondarie) era giunto assai vicino- come potremmo dire in termini moderni - alla nozione di « valore di verità » di una proposizione e a una considerazione dei connettivi quali « funzioni di verità ». In altri termini, aveva embrionalmente scritto le prime «tavole di verità». In certo senso un tipo d'approccio di questo genere sarà caratteristico e si può dire costituirà un punto di partenza per la de­finitiva sistemazione della logica in forma «non algebrica» o, come l'abbiamo chiamata « logicista », quale verrà intrapresa da Frege a partire dal I 879· Noi prenderemo in esame il sorgere e lo svilupparsi di questo secondo filone nel capitolo xrr del prossimo volume.

Quando Frege presenterà la propria sistemazione, i suggerimenti booleani saranno già stati potentemente sviluppati sicché la proposta fregeana verrà in generale riguardata come « contrapposta » a quella booleana, ovviamente ritenuta superiore; vedremo che in effetti nello sviluppo del filone algebrico si giungerà, in particolare con Peirce, a tutta una serie di risultati « propri » della sistemazione logicista e che inoltre alcuni risultati fondamentali per l'odierna ricerca logica (tout court) saranno scoperti nel secondo decennio del nostro secolo nell'ambito e nella scia della sistemazione schroderiana del filone algebrico. Che cioè di contrapposizione non si debba parlare risulterà quindi, in particolare, dallo stesso sviluppo della logica formale.

Accanto alla messe di suggestioni originali e feconde riscontrabili nell'ela­borazione booleana, ne abbiamo posti in luce anche taluni « nei » che sommaria-

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La svolta della logica nell'Ottocento

mente riguardavano, come si ricorderà: la limitazione relativa all'operazione « + )), che poteva aver luogo solo fra classi disgiunte; le connesse questioni delle opera­zioni inverse (di cui in particolare la « divisione )) risultava logicamente non inter­pretabile) e dell'ammissione di coefficienti numerici diversi da o e I (anch'essi di interpretazione « problematica))); l 'introduzione del simbolo v e analoghi; l 'inver­sione dell'ordine di dipendenza fra calcolo delle classi e calcolo delle proposizioni.

Nel torno di circa mezzo secolo dall'apparizione delle opere di Boole tutta una serie di ricercatori si adoperò a eliminare questi « nei )) e a stabilire quella che oggi viene comunemente chiamata «algebra di Boole >>. Questa sorta di gi­gantesca « revisione )) ebbe inizio essendo Boole ancora in vita, con la Pure logic (Logica pura, I 864) di Jevons e per gli immediati successori di Boole si esplicò lungo tre direttrici principali: I) critica alla concezione esclusiva della somma lo­gica, con conseguente introduzione nel sistema di una somma non esclusiva (Jevons, Peirce, Grassmann, McColl, Schroder; unica voce fedele, almeno in un primo momento, alla concezione booleana della somma, quella di J. Venn); z.) introduzione della possibilità di esprimere nel sistema l'esistenza, perché, come afferma Peirce, « la notazione di Boole è solo capace di esprimere che qualche de­scrizione di cose non esiste, e non è in grado di dire che qualcosa esiste )) (McColl, Peirce) e analisi della relazione di identità « = )) (De Morgan, Peirce, Schroder); 3) introduzione di nuove notazioni per estendere l'algebra di Boole a un'alge­bra di relazioni (Ellis, De Morgan, Peirce, Murphy, Macfarlane, Schroder).

In particolare J evons, Peirce e Schroder diedero contributi fondamentali alla sistemazione definitiva del calcolo booleano; nel I898, nel contesto di una generale evoluzione del pensiero scientifico, Whitehead ne diede la prima as­siomatizzazione, cui segue tutta una serie di assiomatizzazioni diverse ad opera di Huntington a partire dal I9o3; la scuola polacca, e in particolare Tarski, ne estese variamente la portata nel periodo compreso fra le due guerre mondiali: l'algebra di Boole è cosi diventata un argomento e uno strumento fondamentale nel discorso logico e in quello matematico (senza contare le numerosissime e im­portantissime applicazioni). Noi comunque prenderemo in esame quest'ultimo momento di sistemazione in seguito; qui ci limitiamo ad osservare che ben pochi lavori di logica « scientifica )) della seconda metà dell'Ottocento non si situano in un contesto booleano: escluso, come già accennato, Frege, si può ancora ricordare in questo senso Robert Grassmann (Die Begriffslehre oder Logi/e [La teoria del concetto o logica, I87z]; Die Logik und die andern logischen Wis­senschaften [La logica e le altre scienze logiche, I 89o]); Joseph Rémy Léopold Del­boeuf, 1 e qualche altro autore; per il resto la gran parte degli scritti di logica for~

1 Ecco come Jevons dà notizia dell'opera la prima volta nella "Revue Philosophique" del di Delboeuf nell'introduzione alla seconda edi- 1876 ... sono molto interessanti, ma furono scritti zione (postuma, 1884) dei suoi Studies in deductiiJtl nella totale ignoranza da parte dell'Autore di quan­/ogir (Studi di logica ekduttiiJO): «Gli scritti di M. to era stato fatto in proposito in questo paese da Delboeuf sulla logica algoritmica pubblicati per parte di Boole e di altri. »

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La svolta della logica nell'Ottocento

male dell'ultimo periodo dell'Ottocento si riallaccia per un verso o per l'altro a una problematica booleana. Abbiamo già accennato al fatto che anche De Morgan presenta qualche lavoro in quest'ambito di idee.

Fra gli altri logici inglesi si possono ricordare, oltre al già citato Jevons: Charles Graves (Mathematical expressions for hypothetical and diljunctive propositions [Espressioni matematiche per le proposizioni ipotetiche e disgiuntive, I85o]); Robert L. Ellis 1 (Notes on Boole' s laws oj thought [Note sulle leggi del pensiero di Boole, I 86 3]); Robert Harley ( Remarks on Boole' s mathematical ana!Jsis of logic [Osservazioni sul­l' analisi matematica della logica di Boole, I 867]); e ancora, come già detto, H ugh McColl, John Venn, Alexander Macfarlane 2 e molti altri. Fuori dall'Inghilterra ricordiamo in America, ovviamente Peirce e la sua scuola alla J ohns Hopkins University (in particolare: George Bruce Halsted, Christine Ladd Franklin e Oscar Howard Mitchell); in Germania, ovviamente Schroder e ancora Jacoh Liiroth, Eugen Miiller, Alwin Korselt; in Russia, P la ton Sergejevic Poretsky ~ in Italia si riallaccia a Boole, anche se in modo del tutto particolare, Peano (e parte della sua scuola); è infine opportuno ricordare il francese Louis Liard con il volume Les logiciens anglais contemporains (I logici inglesi contemporanei) del I 878.

Dopo questo rapidissimo cenno panoramico che dovrebbe tuttavia dare al lettore la misura della fecondità delle nuove idee booleane, vediamo ora di pren­dere in esame i più rappresentativi degli autori su nominati, riservandoci fin da ora di dedicare il prossimo paragrafo ai due più significativi, ossia a Peirce e Schroder.

Cominciamo senz'altro da Stanley Jevons 3 che si inserisce nella scia booleana

I Per quanto riguarda Ellis, Jevons dà no­tizia di una contenuta polemica sorta fra loro circa la rispettiva «originalità». Nell'opera citata alla nota precedente, Jevons riconosce un argomento per il quale è debitore a Ellis; per il resto si li­mita a osservare che gli scritti di cui Ellis riven­dica l'indipendenza furono pubblicati dopo i suoi lavori che trattano o gli stessi argomenti, o argo­menti molto affini. Peirce viceversa annovera Ellis fra gli studiosi che più hanno contribuito all'im­postazione della logica delle relazioni.

2 Sempre da Jevons, op. ci t.: «Il dottor Macfarlane di Edimburgo ha pubblicato (I879) una nuova versione del sistema di Boole sotto il titolo Algebra of logic (Algebra della logica) nella quale tuttavia io non sono riuscito a scoprire un qualsiasi miglioramento rispetto a Boole. »

3 William Stanley Jevons (I835-82), allievo del De Morgan, fu logico ed economista, profes­sore di filosofia morale ed economia politica al­l'Owen College di Manchester fra il I866 e il I876; passò quindi fino al I88o all'University Col­lege di Londra quale professore di economia poli­tica. Fra le sue opere logiche ricordiamo: Pure fogic, or the /ogic of quali()! apart from quantiry: with

remarks on Boo/e' s system and on the re/ation of logic and mathematics (Logica pura, ovvero la logica della qualità indipendentemente dalla quantità, con osserva­zioni sul sistema di Boo/e e sul rapporto fra logica e matematica) del I864; The substitution of similars, the true principle of reasoning, derived from a modiftca­tion of Aristot/e' s dictum (La sostituzione degli iden­tici, il vero principio del ragionamento, derivato da una modificazione del dictum di Aristotele) del I 869; Ele­mentary lessons on logic deductive and inductive (Lezioni elementari di logica deduttiva e induttiva) del I87o. Nel I869 Jevons aveva costruito una macchina logica, che presentò alla Royal Society nel I 870 (O n the mechanica/ performance of logica/ inference [Sul/a esecuzione meccanica dell'inferenza logica, I87o]) di cui esiste una descrizione e un disegno in quella che rappresenta la grande opera metodologica del nostro autore: The principles of science. A treatise on /ogic and scientiftc method (I principi della scienza. Trat­tato di logica e metodo scientifico) pubblicata in due vo­lumi nel I874 e ristampata tre anni dopo in un unico volume. Della sua produzione quale econo­mista ricordiamo infine The theory of politica/ eco­nomy (La teoria dell'economia politica, I87I) e The state in relation lo labour (Stato e lavoro, I88I).

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La svolta della logica nell'Ottocento

come irriducibile avversario di quello che può dirsi l'aspetto negativo del «ma­tematismo » di Boole. Jevons si propone di eliminare le «troppo ardite analogie con la matematica, e di fare dell'algebra della logica una <logica pura>» che corrisponda effettivamente alla « logica del pensiero comune » e che quindi è la logica, l'unica possibile; egli si oppone inoltre allo psicologismo di Boole aderen­do alla tesi dello Spencer circa la natura obiettiva della logica.

Jevons comunque già nel suo scambio epistolare con Boole (1863-64) discute l'interpretazione esclusiva che questi aveva dato della somma, e che nel sistema di Boole impedisce per esempio di assumere una legge quale la x+x=x che invece viene considerata da Jevons come una legge « autoevidente del pensiero» e qualificata come «legge dell'unità». Per Jevons le« leggi che esprimono la ve­ra natura e le condizioni dei poteri discriminanti della mente sono la legge di identità, la legge di dualità o del terzo escluso e la legge di contraddizione ». Si noti che - coerentemente al suo assunto di costituire una logica « naturale » -egli afferma di considerare le leggi sulle quali fonderà il proprio sistema in com­prensione piuttosto che in estensione; ma nonostante le argomentazioni da lui portate in appoggio a questa decisione, in effetti tutto il suo calcolo è esprimibile e interpretabile estensionalmente in termini di classi. In generale l'atteggiamento « antibooleano » di Jevons può qualificarsi adeguatamente come una sorta di po­lemica personale, che tuttavia non offre una vera e propria concezione alterna­tiva a quella di Boole.

Ovviamente, punto di partenza di J evons, come per Boole, è il seguente: « date un numero qualunque di premesse o condizioni logiche », si tratta di de­scrivere « ogni classe di oggetti o ogni termine in quanto dipendenti da tali con­dizioni». Secondo Jevons il suo sistema è superiore a quello di Boole per tre motivi fondamentali:

« 1) Ogni processo è di natura e forza autoevidente ed è governato da leggi altrettanto semplici e primarie degli assiomi di Euclide; z) il processo è infallibile e non fornisce risultati anomali o non interpretabili; 3) le inferenze possono essere condotte con molto meno lavoro di quello richiesto nel si­stema del prof. Boole, che in generale richiedono un calcolo e uno sviluppo particolare per ogni inferenza. » Questa pretesa superiorità lascia alquanto per­plessi, specialmente nel suo terzo punto, vista l'estrema complicazione di alcuni casi di inferenza nel sistema di Jevons.

Trascurando tuttavia questo elemento di forzato confronto, che se da una parte è naturale dato il periodo, dall'altro è indubbiamente frutto di vari malintesi da parte di J evons, primo fra tutti il fraintendimento di ciò che Bo o le intendesse con« matematica», a Jevons va tuttavia riconosciuto il merito di aver introdotto alcune modifiche nel sistema booleano che rappresentano decisamente dei miglio­ramenti e che come tali saranno accettate da (quasi) tutti gli studiosi allora im­pegnati in quest'opera .di «revisione». È quindi conveniente, prima di fare

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qualche osservazione conclusiva su J evons, dare i tratti essenziali del sistema da questi costituito; lo descriveremo in termini intensionali (ossia originali) e, per confronto, estensionali (classi). I simboli impiegati sono:

A, B, C, ...

a, b, c, ...

A·I·B 1

AB

o

I Jevons assume il simbolo •l· per indica­re l'alternativa non esclusiva, per differenziarsi il più possibile, anche a livello simbolico, dalla no­tazione matematica. Nel seguito, per comodità ti-

Qualità o gruppi di qualità che co­stituiscono la parte comune, o si­gnificato intensivo, di termini. Esten­sionalmente, classi.

Corrispondenti termini negativi (che con De Morgan, da cui prende la no­tazione, Jevons chiama anche «con­trari»).

Il segno = significa « identità di si­gnificato dei termini fra i quali è po­sto; così A=B indica che le qualità significate da A sono identiche alle qualità significate da B ». Estensional­mente: A e B sono classi identiche.

Il segno + significa « " alternazione non esclusiva" ... Così A·I·B indica le qualità di A o quelle di B » senza escludere che coincidano. Estensio­nalmente: ciò che è A o B o entrambe.

La giustapposizione di termini dà un termine il cui significato è « la somma delle qualità significate dalle due let­tere ». Estensionalmente: ciò che è A e B.

Ciò che è contraddittorio (o, con parole di Jevons, «ciò che è escluso dal pensiero»). Estensionalmente, come in Boole, la classe vuota o il «Niente».

pografica, noi useremo tuttavia il solito simbolo « + », che ovviamente non va confuso con l'identico simbolo impiegato nella descrizione del sistema booleano.

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Le leggi di combinazione sono le seguenti (ci limiteremo a commentare o quelle meno evidenti o quelle più significative, riportando in generale la denominazione jevonsiana)

I) Se A=B e B=Callora A=C z) AB=BA

3) A(B+C)=AB+BC 4) AA=A s) A+A=A 6) A+B=B+A

8) A+AB=A

Transitività di « = ». Legge di commutazione della giu­stapposizione. Legge di distribuzione. Legge di semplicità. Legge di unità.: Legge dell'ordine indifferente (com­mutatività di « + »). (In effetti J evons impiega questa legge senza enunciarla esplicitamente) Legge di assorbimento. Questa legge permette una diretta semplificazione non possibile nel sistema di Boole. Si può estendere a un numero qua­lunque (finito) di termini.

J evons chiama le tre leggi successive « il fondamento di ogni ragionamento » e le esprime come segue

9) A=A IO) A=AB+Ab II) Aa=o

Legge di identità Legge di dualità o del terzo escluso Legge di contraddizione.

Come si vede Jevons non usa un simbolo per l'universo del discorso (l'I di Boole) ma in vece sua afferma che «la successiva applicazione della legge di dua­lità a due, tre, quattro, cinque o più termini origina lo sviluppo di tutte le possibili combinazioni logiche, detto l'alfabeto logico ... ». Per un qualsiasi numero (finito) n di termini A, B, C, ... tale alfabeto consiste, come si verifica facilmente, di zn termini che, in linguaggio booleano, altro non sono che i costituenti dello svi­luppo di I. Così, se si hanno due termini A e B, l'alfabeto logico consisterà dei 4 (z2) termini AB, Ab, aB, ab; per n= 3, analogamente, si avrà ABC, ABc, Abc, aBC, abC, aBc, Abc, abc, e così via; ciò è in effetti equivalente ad assumere l'universo I.

L 'unica :regola di inferenza assunta da J evons è la seguente « regola di so­stituzione degli identici: per ogni termine sostituire ciò che in qualche premessa

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è detto essere identico in significato a quel termine », vale a dire, si può dovunque sostituire b con a se si ha come premessa b=a (questa regola ammette un'ovvia e immediata interpretazione estensionale che anzi è la più « naturale », potendo la su espressa regola di J evons, col suo riferimento all'identità di significato, condurre in errore). Come De Morgan Jevons assume che ogni termine debba avere il suo contrario(« legge dell'infinito») e enuncia quindi il suo «criterio di consistenza»: « Due o più proposizioni qualunque sono contraddittorie se e solo se, dopo aver effettuato tutte le possibili sostituzioni, esse originano la scomparsa totale di un qualunque termine, positivo o negativo, dall'alfabeto logico.»

Seguiamo su un esempio l'applicazione del metodo di Jevons all'inferenza, il che ci permetterà di fare i dovuti confronti e rapporti col metodo di sviluppo booleano. Premettiamo che, essendo l'unica relazione del sistema l'identità (« = »), l'espressione delle categoriche classiche nel sistema di Jevons è, sostan­zialmente come per Boole, la seguente:

A E I o

Ogni A è B Nessun A è B Qualche A è B Qualche A non è B

A=AB A=Ab CA=CAB CÀ=CAb

dove il simbolo C svolge qui la stessa funzione del v booleano, ossia sta a indicare «qualche ».1 Consideriamo ora un esempio dello stesso Jevons, rapportabile al caso della «soluzione» booleana di un'equazione. Invece di usare come Boole procedure «algebriche» (il matematismo!) Jevons sviluppa l'alfabeto logico relativo alla data equazione e quindi effettua tutte le prove (sostituzioni) possibili. Si applichi ad esempio il procedimento all'equazione A=BC, e si voglia trovare un'espressione per il termine b in dipendenza della data equazione (la nostra «premessa»). L'equazione contiene tre termini e il suo alfabeto logico sarà pertanto:

ABC, ABc, AbC, aBC, Abc, aBc, abC, abc,

in quanto si tratta di fare ogni possibile combinazione dei tre termini e dei loro negativi. Se ora combiniamo ognuna di queste espressioni con entrambi i membri della premessa, otteniamo, tenendo conto delle leggi del sistema:

I Ci esimiamo qui dal riprendere le discus­sioni circa la difficoltà di questa assunzione e da riferire sulle ampie argomentazioni dedicate da Je-

vons alla precisazione della problematica ad essa relativa nonché al significato della stessa.

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Primo membro (A) della premessa Secondo membro (BC) della premessa

I) ABC ABC z) AB c AB Cc

3) Ab C ABbC

4) Abc AbBCc

5) AaBC aB C 6) AaBc aB cC

7) AabC abBC 8) Aabc aBbCc

Ora Jevons afferma che, se una qualsiasi delle combinazioni dell'alfabeto logico costituisce una contraddizione (ossia dà luogo a almeno un termine della forma Aa) con un solo membro della premessa, tale elemento viene detto combinazione contraddittoria o soggetto contraddittorio; se una combinazione dell'alfabeto lo­gico è contraddittoria con entrambi i membri della premessa la si dirà (combina­zione o) soggetto escluso; se infine una di tali combinazioni non contraddice nessuno dei due membri della premessa verrà detto soggetto incluso. Un soggetto incluso o escluso è un soggetto possibile; un soggetto contraddittorio è un soggetto impos­sibile. Nel nostro esempio si vede immediatamente che sono contraddittorie in questo senso le combinazioni z), 3), 4), 5) dell'alfabeto logico, mentre le rimanenti sono combinazioni possibili, e precisamente la I) rappresenta un soggetto incluso, le 6), 7), 8) soggetti esclusi.

La richiesta espressione per il termine b si otterrà ora come segue: cancellate le combinazioni contraddittorie, si cerchino fra le rimanenti (soggetti possibili) quelle che contengono il termine b; esse sono la 7) abC, e la 8) abc. La richiesta espressione per b sarà allora b = abc +abC.

Si comprende come J evons tendesse a meccanizzare un metodo del tipo sopra esposto e giungesse appunto alla costruzione di una « macchina logica ». Il metodo sopra presentato è estremamente simile a quello dei diagrammi di V enn cui ac­cenneremo in seguito e d'altra parte è perfettamente leggibile in termini booleani: l'alfabeto logico consiste infatti di quei termini la cui somma è I, ossia costituisce come dicevamo l'universo in senso booleano; alle varie combinazioni I) soggetto contraddittorio, z) soggetto incluso, 3) soggetto escluso, corrispondono termini che nello sviluppo booleano hanno coefficienti rispettivamente o o I fo, I, ofo o v. Ricordando inoltre che nell'analogo caso booleano i termini con coefficiente di cui a I) vengono uguagliati a zero, si comprende come sostanzialmente i due procedimenti siano identificabili. Come osserva il Lewis, « nel suo complesso i metodi di J evons corrono facilmente il rischio di essere noiosi e non posseggono certo nitore matematico. Supponiamo ad esempio di avere tre equazioni conte­nenti in tutto sei termini. L'" alfabeto logico" consisterebbe di 64 combinazioni,

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ognuna delle quali andrebbe separatamente provata per ogni equazione, dando così luogo a I92 operazioni separate. Jevons ha enfatizzato la sua differenza da Boole al punto di rifiutare molto di quanto avrebbe fatto meglio a mante­nere».

Ciò malgrado, a parte cioè la sua visione dogmatica della logica « naturale » e le pretese semplificazioni al metodo booleano, che abbiamo visto essere più apparenti che reali, a Jevons va riconosciuto il merito di aver posto in atto precisi miglioramenti del sistema di Boole che si sono rivelati molto fecondi per gli sviluppi successivi.

Si tratta in particolare, riassumendo, a) dell'eliminazione delle operazioni inverse di sottrazione e divisione dal

sistema di Boole; b) della interpretazione della somma A + B in senso non esclusivo. Ciò

comporta in particolare l'eliminazione di coefficienti numerici diversi da o e I,

sicché oltre a permettere una «naturale» simmetria nell'espressione delle leggi, costituisce una delle modifiche più significative;

c) della introduzione della legge di assorbimento fra i principi dell'algebra booleana.

Pienamente conscio del potere generalizzante del formalismo e quindi non in opposizione all'atteggiamento booleano, ma in implicita polemica con le rigide concezioni di Jevons, si pone illogico inglese John Venn (I834-I923) lettore di logica e scienze morali all'università di Cambridge. Venn presenta le sue idee nelle due edizioni di Symbolic logic (Logica simbolica, prima edizione I88I, seconda I 894)1 che Barone definisce come « il primo documento di uno schietto inte­resse storico per le vicende della logica formale: testimonianza importante del fatto che la riflessione filosofica sugli effettivi nuovi sviluppi scientifici della di­sciplina non erano affatto necessariamente determinati in un'unica direzione». Venn propqne come proprio programma di ricerca« l'esame della logica simboli­ca, ossia le sue relazioni con la logica comune e il pensiero e il linguaggio comuni: la determinazione e spiegazione di ogni regola ed espressione simbolica genera­le sulla base di principi puramente logici, piuttosto che semplicemente sulle loro giustificazioni formali; l'invenzione e l'impiego di un nuovo schema di

I In quest'opera Venn- al quale risale l'in­troduzione del termine «logica simbolica » - rac­coglie e sistematizza sue precedenti pubblicazioni sull'argomento, fra le quali vanno almeno ricor­date: Conristenry andrea/ inference (Conristenza e infe­renza reale); Boole' r logica/ .ryrtem (Il ristema logico di Boole) entrambe del I876; On the diagrammatic and mechanical reprerentationr of proporitionr and rearo­ning (Sulle rapprerentazioni diagrammatiche e meccaniche delle proporizioni e del ragionamento) del I 88o; On the form of logica/ proporitionr (Sulla forma delle propori­zioni logiche) dello stesso anno e, ancora, i due

saggi On the variour notationr adopted for exprerring the common proporitionr of logic (Sulle varie notazioni adottate per erprimere le comuni proporizioni della lo­gica) e On the employment of geometrica/ diagramr for the renrible reprerentation of logica/ proporitionr (Sul­l'impiego di diagrammi geometrici per la rapprerenta­zione concreta delle proporizioni logiche), pubblicati su « Mind »fra il I88o e il I883. Nella prima edizione della Symbolic logic Venn non accetta di modificare la definizione di somma logica data da Boole; si adeguerà all'uso ormai invalso nella seconda edi­zione dell'opera.

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notazione diagrammatica che· risulterà in perfetta armonia con le nostre genera­lizzazioni » dichiarando inoltre esplicitamente che il suo lavoro non vuoi essere « in alcun modo un commento o una critica a Boole ».

D'altra parte, Venn considera «la logica simbolica e la matematica come branche di un linguaggio di simboli che posseggono alcune, anche se assai poche, leggi di combinazione in comune. Questa comunità di legislazione o uso, nella misura in cui esiste, è la nostra principale giustificazione per l'adozione di un sistema uniforme di simboli per entrambe». Non si tratta quindi di una rigida contrapposizione fra logica e matematica (col predominio implicito dell'una sul­l'altra) né d'altra parte di una sostituzione della logica «comune» con la logica formale; sicché quest'ultima non è una schematizzazione « necessaria » del modo di ragionare comune, bensì solo uno « dei diversi modi con cui si può ragionare ». Dopo aver messo in evidenza questa sorta di anticipazione- da parte del Venn­di un « principio di tolleranza » in logica, passiamo brevemente a considerare le sue proposte originali più propriamente « tecniche », ricordando innan­zitutto la sua determinazione, che si differenzia nettamente dall'uso tradizionale comune, di simbolizzare le proposizioni universali tenendo conto del fatto fonda­mentale che ogni proposizione universale può essere posta in forma negativa: è chiaro infatti che ad esempio invece di « ogni uomo è mortale », è equivalente dire « nessun uomo è non mortale ». Con questo punto di partenza, simboleg­giate opportunamente le universali (nell'esempio precedente, con x= uomo e

.Y = mortale, si ha per le categoriche A: ~j = o; e analogamente per le E: xy = o) e considerati i rapporti logici delle universali con le particolari, si giunge per queste ultime alla simbolizzazione seguente: per le I: xy > o; per le O: xj > o. Avendo così posto l'accento sulla portata (carattere) esistenziale delle particolari, non è più lecita la conversione per accidens e la subalternazione, sicché si riduce il numero dei sillogismi validi. Questo punto di vista verrà assunto anche da Schroder nella sua sistemazione dell'algebra di Boole.

L'altro apporto originale di Venn consiste, come già accennato, nell'introdu­zione di una rappresentazione diagrammatica per la conduzione dell'inferenza. Come Venn stesso chiarisce, il suo metodo si differenzia da quello euleriano (i « cerchi » di Eulero) perché fornisce una specifica « quantità di informazione » circa la portata delle premesse di un ragionamento, permettendone la specifica e completa conclusione. Si tratta di servirsi di regioni del piano fra loro sovrappo­nentesi per rappresentare relazioni fra classi o condizioni di verità fra proposi­zioni.

Caratteristico del metodo di V enn è che ogni possibile combinazione viene rappresentata con un'area diversa (e qui sta la stretta analogia con «l'alfabeto logico» di Jevons o con lo «sviluppo» di Boole) e quindi in ogni regione viene segnata, sulla base delle premesse, l'informazione relativa all'appartenenza o meno di elementi alla regione stessa (vale a dire se la classe è vuota o no nel caso

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delle classi, se la proposizione è vera o no nel caso delle proposizioni). Facciamo un semplice esempio col sillogismo

Ogni uomo è animale Ogni animale è mortale

Ogni uomo è mortale

cui corrisponde il seguente « diagramma di V enn »

uomo animale

nel quale: il rettangolo rappresenta l'universo del discorso (è chiaro che non è necessario tracciarlo effettivamente); le aree tratteggiate indicano che le corri­spondenti classi sono vuote (e ciò si ricava dalle premesse, con la traduzione « negativa » cui sopra si accennava: non esistono uomini non animali, né animali non mortali); l'asterisco in un'area indica invece che la corrispondente classe non è vuota e dà la conclusione del sillogismo del nostro esempio. Se si voles­se condurre con questo metodo il problema di « soluzione » prima visto col metodo di Jevons, a partire dall'equazione A = BC, si avrebbe il seguente diagramma

AB c a be

r-~:---~-ABC

Ab C aB C

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da cui risulta evidente la scomposizione dell'« alfabeto logico» e dal quale il lettore, tenuto conto della data equazione, può facilmente trovare un'espressione per b (che si troverà ovviamente coincidente con quella di Jevons).

Il metodo di Venn è teoricamente estendibile a un numero (finito) qualsiasi di termini; inoltre, almeno in linea di principio, ci si potrebbe servire di qualunque tipo di linea chiusa nel piano per isolare le regioni. Tenuto però conto che ogni « combinazione » o « costituente » deve essere rappresentato da una sua partico­lare regione, si vede subito che si possono usare cerchi fino a che si tratti con due o tre termini; essi non sono più idonei quando si dovesse trattare con quattro termini (I 6 combinazioni possibili): in questo caso Venn propone di servirsi di ellissi come mostrato in figura

y z

e, nel caso di cinque termini, propone la seguente figura composita che evita il ricorso a curve di base più complicate

y ;z w

Un metodo diagrammatico analogo a quello proposto da Venn fu impiegato da Charles Lutwidge Dodgson (Lewis Carroll) per la trattazione del sillogismo nella sua Symbolic logic (Logica simbolica) del I 896.

Autore estremamente interessante di questo periodo, momento di mediazione fra le ricerche «algebriche» e quelle « logiciste », è l'inglese Hugh McColl (I837-I909) il quale, con motivazioni specialistiche di tipo probabilistico, affronta la questione delle difficoltà delle interpretazioni proposizionali del calcolo boo­leano. Avevamo visto, in proposito, che la difficoltà era in certa misura intrinseca al sistema, nel senso che il punto di partenza era per così dire rovesciato rispetto

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a quello che noi oggi consideriamo come usuale e normale: nella costruzione assiomatica del calcolo delle classi viene in qualche modo già presupposta la «disponibilità» di un'argomentazione di tipo proposizionale (si pensi semplice­mente alla stessa enunciazione di alcune leggi del calcolo booleano nella forma « Se ... allora ... »). È stato anche :ripetutamente detto che l'ordine oggi accettato di «dipendenza», secondo il quale, per così dire, l'elemento minimale del ra­gionamento formale è la logica delle proposizioni (o degli enunciati, come anche diremo) è stato stabilito in modo sistematico da Frege nel I879· Si può ben dire però che già nel I872 il problema veniva affrontato nella sua specificità e, almeno in senso parziale e senza raggiungere la sistematicità e organicità della versione fregeana, veniva risolto appunto da McColl: questi parte come dicevamo da una p:roblematica connessa al calcolo delle probabilità e approda alla conclusione che il momento logico fondamentale debba essere quello enunciativo, dal momento che le proposizioni risultavano il mezzo linguistico più idoneo a :rappresentare gli « eventi ».

Dalle prime intuizioni del I872, McColl viene precisando il suo disegno, e viene esponendo i propri risultati in tutta una serie di lavori che vanno dai sette articoli The calculus of equivalents statements and integration limits (Il calcolo di enunciati equivalenti e limiti d'integrazione), pubblicati fra il I877 e il I 897, agli otto articoli dal titolo comune Symbolical reasoning (Ragionamento simbolico), pubblicati su« Mind »a partire dal I88o e fino al I9o6; degno di menzione è anche il suo volume Symbolical logic and its applications (Logica simbolica e sue applicazioni) del I9o6.

Da una concezione psicologistica espressa ad esempio dalla definizione di logica (del I88o) come« scienza generale del :ragionamento considerato nel senso più astratto ... scienza del ragionamento considerata in riflesso a quelle leggi e a quei principi generali del pensare che valgono quale che sia la natura del pensiero », McColl passa a una concezione nella quale la preminenza viene decisamente asse­gnata al momento segnico-calcolatorio, quando, nel I 8 97, afferma: « La logica simbolica (inclusa la matematica) può essere definita come la" scienza del ragionare mediante simboli rappresentativi "; questi simboli sono impiegati come sostituti per espressioni più lunghe frequentemente :richieste », e afferma esplicitamente di voler mantenere logica e psicologia il più possibile separate (senza che ciò abbia a significare una totale indipendenza fra di esse) assumendosi in particolare lo scopo di riportare l'inferenza logica a una esecuzione meccanica.

Nel contesto di questa sua concezione « linguistica» McColl anticipa indub­biamente Frege nel ritenere che la logica possa e debba superare le« accidentalità» del linguaggio comune (ad esempio la distinzione soggetto-predicato) e global­mente sviluppa un sistema di logica enunciativa molto simile a quello che può oggi trovarsi in un corrente testo introduttivo di logica. Intravvede la possibilità di una generalizzazione al momento predicativo (e non può evidentemente avan­zare su questa strada non possedendo il concetto di funzione enunciativa, in quel

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periodo intuito da Peirce ed esplicitamente sistemato appunto da Frege) come pure sono chiari nei suoi scritti, e forse proprio in dipendenza della sua estrazione « probabilistica », accenni che possono far pensare alla intesa possibilità di logiche polivalenti e modali. 1 Per quanto riguarda una breve esposizione del sistema di McColl, ci limiteremo a quanto segue. Egli. enuncia il suo calcolo in termini «algebrici» (booleani) assumendo simboli quali A, B, C, ... ; a, b, c, ... ; oc:, ~' y, ... ; x, y, z, ... come «variabili» per enunciati e quindi simboli « costanti»: « I » e «o» per indicare la verità, rispettivamente la falsità degli enunciati; «X» o la semplice giustapposizione per il prodotto fra enunciati (congiunzione); 2 « + » per la« somma non esclusiva» (disgiunzione alternativa); «'»per la negazione; « :»per l'implicazione; «=»per l'equivalenza. Dà quindi 17 regole (fra cui ad esempio: distributività di « x » rispetto a « + », leggi di De Morgan, legge di contrapposizione, ecc.) mediante le quali operare col sistema simbolico così isti­tuito. È ovvio, da quanto sopra detto, che McColl ottiene nel suo « calcolo » numerose « tesi » della logica proposizionale, la quale viene qui a essere per la prima volta « emancipata » dal calcolo delle classi.

V · I CONTRIBUTI DI PEIRCE E DI SCHRODER

I motivi per cui abbiamo dedicato un paragrafo a parte all'esposizione dei contributi dell'americano Peirce e del tedesco Schroder sono almeno duplici: da un lato, a giustificare perché li abbiamo « separati », occorre considerare che i loro apporti sono di gran lunga i più incisivi e significanti per lo sviluppo del­l'algebra della logica, vuoi per l'originalità, l'acutezza e la varietà (Peirce) vuoi per la sistematica organicità (Schroder); in certo senso essi costituiscono un punto d'arrivo, una summa completa di quello che è lo stato della logica algebrica ottocentesca. D'altro lato, a giustificare perché li abbiamo «uniti», ci sembra in­teressante far risaltare due tipi di approccio assolutamente diversi a una stessa

I Ci sembra interessante e « istruttivo » ri­portare a questo punto la « valutazione » che, nella citata opera del I884, Jevons dà del sistema di McColl. Afferma dunque Jevons: «Molto di recente Mr. Hugh McColl, B.A., ha pubblicato ... numerosi lavori su un calcolo degli enunciati equi­valenti... Il suo calcolo differisce in molti punti tanto da quello di Boole quanto da quello de­scritto in questo volume come logica equazionale. Mr. McColl respinge le equazioni a favore delle implicazioni; così la mia A = AB diventa per lui A : B o A implica B. Anche i suoi termini lette­rali differiscono in significato dai miei, poiché le sue lettere denotano proposizioni, non cose. Così A ; B asserisce che l'enunciato A implica l'enun­ciato B, o che ogniqualvolta A è vero anche B è vero. È difficile credere che vi sia alcun vantaggio in queste innovazioni ... Mi sembra che i suoi pro-

positi tendano verso un ricacciare indietro la lo­gica formale nello stato di confusione in cui si trovava prima di Boole (into its ante-boolian con­fusion). »

2 Riportiamo a mo' d'esempio una defini­zione e una regola dal Calcolo di enunciati equi­valenti ... del I877. «Definizione 2. Il simbolo A x B x C o ABC denota un enunciato com­posto del quale gli enunciati A, B, C sono detti i fattori. L'equazione ABC = I asserisce che tutti e tre gli enunciati sono veri; l'equazione ABC = o asserisce che almeno uno dei tre è falso ... » « Re­gola II. Se A:B allora B':A'. Così le implicazioni A :B e B' :A' sono equivalenti, ognuna di esse se­guendo come necessaria conseguenza dall'altra. Questo è il principio logico di "contrapposi­zione''.»

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problematica. Peirce e Schroder infatti, pur lavorando indipendentemente, hanno stretti rapporti scientifici fra loro: Peirce legge e recensisce le opere di Schroder, quest'ultimo traduce operativamente i vari e notevoli spunti che le :riflessioni di Peirce facevano emergere. Ma tanto è sistematico, pignolo, « tedesco » Sch:roder, quanto è disordinato, geniale e frammentario Pei:rce. Questi può considerarsi il vero e proprio trait-d'union fra la logica algebrica e quella logicista, e ciò indub­biamente in conseguenza di una impostazione aperta e autocritica di tutta la sua speculazione; quello invece è convinto della verità e unicità della logica booleana, che riesce sì a esporre con un alto grado di sistematicità ~ « completezza », ma entro i limiti appunto di una quasi dogmatica convinzione di aver a che fare con il metodo di ragionamento assoluto e definitivo. Cominciamo quindi con l'esporre i contributi di Pei:rce 1, per poi illustrare brevemente la sistemazione schrode­riana.

Charles Sanders Peirce si dichiara p:rofeticamente convinto che la logica farà progressi enormi :rispetto allo stato in cui egli la lascia; ed è altresì convinto di contribuire in modo sostanziale a tale processo di sviluppo. In effetti i contributi di Peirce alla logica formale sono numerosi e assai profondi; essi possono essere riassunti in tre punti, inquadrati in una visione unitaria di tutta la p:roblematica logica, caratteristica del Peirce, che prelude a una generale sistemazione assioma­tica dei vari calcoli: 1) approfondimento e sistemazione pressoché moderna del calcolo booleano, nel più ampio contesto di una chiarificazione del rapporto

I Figlio del valente matematico Benjamin (I 809-80) il filosofo e logico americano Charles Sanders Peir~ nacque a Cambridge (Mass.) nel· I839 e morì a Milford (Penn.) nel I9I4. Ad Harvard, dove insegnava il padre, divenne master of arts nel I862. e bachelor of science nel I863. Per circa trent'anni fu impegnato in ricerche stati­stiche per conto della U.S. Coast and Geodetic Survey, a partire dal I86I, dirigendo nel contempo il Dipartimento americano dei pesi e delle misure. Non si dedicò formalmente all'insegnamento, ma fu lecturer di logica a Harvard nel I864-65 e nel I869-7o; quindi alla Johns Hopkins University di Boston fra il I879 e il I884 e dal I89I in poi .. Scrittore prolifico e asistematico, ebbe interessi di­versi, dalla storia della scienza alla metafisica, dalla logica alla matematica e all'astronomia, alla chi­mica. Molti suoi saggi e articoli comparvero nelle più diffuse riviste filosofiche e scientifiche del­l'epoca, ma la maggior parte dei suoi scritti resta­rono inediti e furono raccolti postumi: una prima ristretta scelta nel volumetto Chance, love and logic (Caso, amore e logica) del I92.3, quindi nei Collected papers of Charler Sanders Peirce (Tutti gli scritti di C.S. Peirce) in otto volumi: dal primo al sesto a cura di Charles Hartshorne e Pau! Weiss fra il I93I e il I~}35; il settimo e l'ottavo a cura di Arthur W. Burks nel I958. I volumi sono così intitolati: I Principi es of philosophy (Principi di filo-

sofia); II Elements of logic (Elementi di logica); m Exact logic (Logica esatta); rv The simplest mathema­tics (La matematica più semplice); v Pragmatism and pragmaticism (Pragmatismo e pragmaticismo); VI Scien­tific metaphysics (Metafisica scientifica); VII Science and philosophy (Scienza e filosofia); vm Reviews. Corre­spondance (Recensioni. Corrispondenza). L'asistema­ticità tipica del Peirce e i criteri di distribuzione dei volumi rendono la lettura della sua opera al­quanto difficoltosa. Nel I893 Peirce aveva portato a termine, pur !asciandola inedita, una grande opera The grand logic (La grande logica) o How to reason: a critic of arguments (Come ragionare: una cri­tica dell'argomentazione) e verso il I 902. aveva steso tre capitoli e l'inizio di un quarto di una seconda opera organica la Minute logic (Logica minuta) che rimase però incompiuta e inedita. Questa inca­pacità di portare a termine i numerosi progetti in­trapresi, accanto ali' originalità e genialità univer­salmente riconosciutegli, è uno dei motivi per cui spesso Peirce viene avvicinato a Leibniz. E stato peraltro detto che se « Peirce avesse avuto il pia­cevole e discorsivo stile di De Morgan o il me­todo dettagliato e accurato di Schriider, la sua opera sulla logica simbolica avrebbe occupato nu­merosi volumi ». Peirce è universalmente conside­rato il fondatore del pragrnatismo americano; ma per questo aspetto della sua attività rinviamo a quanto verrà detto nel capitolo v del volume sesto.

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fra logica e ma~ematica; 2) interpretazione proposizionale dello stesso, con note­voli « anticipazioni » di risultati ottenuti da Frege indipendentemente da lui e da Sheffer e Wittgenstein; 3) impostazione e sviluppo decisivo della logica delle relazioni, anche qui con notevoli anticipazioni dell'opera di Russell e Frege e quindi, in generale, della sistemazione logicistica della logica.

Prenderemo separatamente in esame questi tre campi nell'ordine sopra espo­sto; per comodità del lettore, invece di riferirei semplicemente ai Collected papers, indichiamo qui gli scritti di Peirce di cui ci serviremo nella nostra esposizione, e che elencheremo in ordine cronologico: On a improvement in Boole' s calculus of logic (Su un perfezionamento del calcolo della logica di Boole, 1867, che citeremo nel seguito con P18671); Upon the logic of mathematics (Sulla logica della matematica, 1867, citato con P1 8672); Description of a notation for the logic of relatives, resulting from an ampliftcation of the conceptions of Boole's calculus of logic (Descrizione di una notazione per la logica dei relativi, risultante da un ampliamento delle concezioni del calcolo logico di Boole, 187o, P187o); un articolo pubblicato postumo nel 1933, ma risalente circa al 188o (e che indicheremo con P188o1), A boolian algebra with one constant (Un'algebra booleana con una costante); On the algebra of logic (Sull'algebra della logica, 188o, P188o2);

The logic ofrelatives (La logica dei relativi, 1883, P1883); On the algebra of logic: a contribution to the philosopf?y of notation (Sull'algebra della logica: un contributo alla filosofia della notazione, 1885, P1885); The regenerated logic (La logica rigenerata, 1896, P1896); The logic of relatives (La logica dei relativi, 1897, P1897); un altro inedito The simplest mathematics (La matematica più semplice, 1902, P1902).

1) Ricordiamo che nel suo sistema Boole « esprimeva » quattro operazioni logiche: la somma esclusiva « + », il prodotto « x » (in generale indicato per semplice giustapposizione) e le loro inverse «- » e « f », tali cioè che se x + b = a allora x= a-b e se xb =a allora x= afb. Queste operazioni si comportano per così dire in modo diverso rispetto alle analoghe operazioni aritmetiche; cosi ad esempio, se conveniamo di indicare con [n] x il numero degli elementi della classe x, si ha

[n] a +[n] b = [n] (a +b)

e ciò in dipendenza delle condizioni di «esclusività» poste da Boole per l'opera­zione di somma logica. Si controlla facilmente che la stessa relazione vale per l'inversa «- », sicché si può concludere che queste operazioni differiscono dalle omonime aritmetiche per il solo fatto che ammettono argomenti che invece di essere soltanto numeri sono in generale classi o comunque non necessariamente «quantità». Comportamento del tutto diverso hanno invece l'operazione di pro­dotto logico e la sua inversa. In questo caso infatti, per esempio, la relazione

[n] a X [n] b =[n] (a X b)

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vale solo se a e b assumono i valori o efo I e lo stesso vale per l'analoga relazione scritta per « f »; sicché queste operazioni, per cosi dire, non hanno « controparte » aritmetica.

Ora Peirce, consapevole tra l'altro della critica di Jevons contro l'esclusività della somma logica booleana, pensa di ovviare a quello che anch'egli ritiene un difetto del sistema di Boole, con un'impostazione del tutto originale, « comple­tando» nel sistema stesso la «parte» logica e quella aritmetica. Si noti che la motivazione non è qui, come nel caso di J evons, quella di completare la logica con l'introduzione di una « legge autoevidente » del pensiero, bensì la ricerca di un chiarimento del rapporto fra il dominio delle ope.razioni logiche e matematiche, in definitiva l'esigenza di indagare, in generale, il rapporto logica-matematica: «Queste considerazioni,» dirà infatti Peirce in PI86i, « ... porranno, spero, le relazioni fra logica e matematica in una luce in qualche modo più chiara che nel passato. » Peirce introduce allo scopo quattro operazioni logiche o non aritmetiche, e precisamente:

a) la somma, che egli indica con« +,»in modo tale che« a +, b denoti tutti gli individui contenuti sotto a e b assieme. L'operazione qui eseguita differirà in due rispetti dall'addizione aritmetica: I) essa si riferisce a identità, non a uguaglian­ze; z) ciò che è comune ad a e ab non viene considerato due volte come succede­rebbe in aritmetica»;

b) il prodotto, che egli indica con a x, b o semplicemente con a, b e che coincide col prodotto booleano;

c-d) le operazioni logiche inverse delle precedenti che noi comunque non considereremo per motivi che appariranno subito chiari; e quattro operazioni « aritmetiche » e precisamente:

a') la somma « + » che coincide con la somma booleana ossia è esclusiva, e la sua conversa « - » ;

b') il prodotto a x be il suo inverso a + b. Questo modo di affrontare il problema del disancoramento dell'algebra di

Boole da un'eccessiva aderenza alle analogie matematiche viene elaborato in PI8671 ; tuttavia già in PI8672 egli conserva solo le operazioni dirette di somma e prodotto: « Poiché le operazioni inverse non hanno alcun interesse logico peculia­re esse vengono qui trascurate.» In effetti in PI87o egli mantiene ancora le varie operazioni ad eccezione di + ma in articoli posteriori tutto il calcolo viene impo­stato sulle sole operazioni di somma e prodotto (logici, naturalmente). È chiaro che in questo modo Peirce può assumere le due leggi « critiche » a +, a = a e a, a = a ottenendo così in particolare la semplificazione e la simmetria che, come sappiamo, J evons aveva richieste per primo.

Un ulteriore passo verso quella che con Barone possiamo chiamare la« di­saritmetizzazione » del calcolo di Boole, viene compiuto da Peirce nel citato PI87o con l'introduzione della relazione di inclusione, che egli indica col simbolo

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-< e definisce come segue: « inclusione o essere tanto piccolo quanto è una relazione transitiva. Vale la conseguenza che se x -<y ey -< z allora x-< z ». Osservando che l'unica relazione booleana, la« = »,può essere espressa in termini dell'inclu­sione (ponendo ovviamente per definizione che x= y equivalga a x -<y e y -< x); si può concludere che già nel 1870 disponiamo di una sistemazione che possiamo ritenere definitiva (rispetto ovviamente alle sistemazioni oggi in uso) del calcolo delle classi. A ragione quindi Lewis afferma che « a parte il trattamento dei termini relativi e l'uso di operazioni <aritmetiche>, questa monografia [la P187o] dà le leggi della logica delle classi sostanzialmente in modo identico all'attuale algebra della logica ».

Un ulteriore progresso in questo senso compie del resto Peirce in PI 88o2,

quando la relazione di inclusione viene sistematicamente posta come fondamento del calcolo, una volta che le due operazioni di somma e prodotto logico vengono definite in termini di inclusione, osservando che « se a -< x e b -< x allora a +, b -< x e inversamente, se a +, b -< x, allora a-< x e b -< x; se x-< a e x -< b allora x -< a, b e inversamente se x-< a, b, allora x -< a e x-< b ».

z) Per quanto ora riguarda il calcolo proposizionale, si può comprendere come l'introduzione della relazione -< costituisse un passo decisivo rispetto alla siste­mazione booleana. Peirce prende certamente lo spunto per la sua ricerca dalle difficoltà cui andava incontro l'interpretazione del calcolo booleano in termini di proposizioni «secondarie» e in Pi88o2 comincia appunto con l'osservare che la relazione A -< B - che ora va intesa come « A implica B » o « Se A è vero allora B è vero » - possa sussistere tanto fra proposizioni primarie ( « categori- · che») quanto fra proposizioni secondarie («ipotetiche»). La codificazione della « logica non relativa » o « logica dei termini assoluti » come calcolo proposiziona­le avviene in P I 8 8 5, o ve Peirce assume come fondamentale per la sua sistemazione la relazione-< intesa come implicazione materiale (o filoniana); Peirce argomenta a lungo, adducendo con disinvolta sicurezza anche motivazioni di tipo storico, per mostrare come questo tipo di implicazione sia più adeguata ai suoi scopi di quella diodorea (o implicazione stretta) e nel contempo mette in luce con critica consape­volezza i limiti intrinseci dell'implicazione materiale per quanto riguarda la tradu­zione formale delle varie possibili accezioni dell'ordinario termine« implica».

In P I 8 8 5 il calcolo viene impostato servendosi del modus ponens e del principio di sostituzione quali regole di inferenza, ossia dando una sistemazione sostanzial­mente analoga a quella che Frege aveva già dato, come vedremo, nel 1879. Il fatto di essere stato « preceduto » da Frege non toglie certo nulla al valore delle intuizioni e delle elaborazioni di Peirce, il quale da una parte era all'oscuro del­l'opera del logico tedesco, e dall'altra era giunto alla sua sistemazione a partire da una problematica algebrica, sostanzialmente diversa cioè da quella di Frege.

D'altronde altri esempi significativi di come Peirce fosse giunto a conclusioni e risultati che sembrerebbero (e che da molti sono ancor oggi ritenuti) caratteri-

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stici di una impostazione logicista, non mancano certamente. Basti pensare ad esempio al breve saggio (cinque pagine) PI88o1 motivato come segue: « L'appa­rato del calcolo booleano consiste dei segni =, > (non usato da Boole, ma neces­sario per esprimere proposizioni particolari), +, x, -, I, o. Al posto di questi sette segni io propongo di impiegarne uno solo », che è una chiara anticipazione della scoperta, che Sheffer farà nel I 9 I 3, del fatto che un solo connettivo binario, detto appunto stroke di Sheffer, basta a esprimere ogni funzione di verità. O ancora, sarebbe sufficiente leggere, in PI9oz, la determinazione che Peirce fa del concetto di tavola di verità (anticipazione questa del Wittgenstein del Tractatus) che viene anzi addirittura impiegato, già in P I 8 8 5, come procedura di decisione della « tautologicità » di una formula proposizionale con un metorlo che noi oggi chia­meremmo del controesempio. Esso consiste, per dimostrare che una formula è tautologica, nel supporre che essa possa risultare falsa per un'assegnazione di valori di verità, e nel mostrare quindi che tale ipotesi porta a contraddizione. Mette conto di riportare il breve passo di Peirce: « Una proposizione della forma

x -<y è vera se x = f o y = v. Una proposizione della forma (x -<y) è vera se x = v e y = f. Di conseguenza, per trovare se una formula è necessariamente vera [è una tautologia] si sostituiscano v e falle lettere e si veda se può essere supposta falsa mediante ognuno di tali assegnamenti di valore. Prendiamo ad esempio la formula (x -<y) -< )(y -< z) -<(x-< z)!· Per renderla falsa dobbiamo prendere (x -<y) = v; )(y -< z) -< (x-< z)j = f. L'ultima dà (y -< z) = v e (x-< z) = f, x= v, z =f. Sostituendo questi valori in (x -<y) =v e (y -< z) =v, abbiamo (v -<y) =v e (y -<f)= v che non possono essere contemporaneamente soddi­sfatte. »

3) Per quanto ora riguarda la logica delle relazioni (o dei« relativi» in termi­nologia peirciana) Peirce prende certamente le mosse dal quarto degli articoli di De Morgan sul sillogismo-, pubblicato come si ricorderà nel I 86o, trovandolo insufficiente sotto molti riguardi e d'altra parte notando che sarebbe estremamente interessante tentare di estendere l'algebra di Boole- che «ha sì singolare bellez­za»- «all'intero campo della logica formale, invece di ]asciarla ristretta a quella parte elementare e meno utile della materia, la logica dei termini assoluti, che quando egli [Boole] scriveva era l'unica logica formale conosciuta». Così si legge in PI87o, progettato appunto per presentare operativamente tale estensione. Al­tri lavori di Peirce specificamente dedicati alla logica delle relazioni sono PI88o2,

PI883, PI885, PI896, PI897; noi ci riferiremo essenzialmeil.te a PI883 (e in parte a PI885) che si può ritenere contenga la versione definitiva, anche da un punto di vista simbolico, del sistema logico-relazionale peirciano.1 Il discorso è in gran

1 Questo volume è importante, oltre che per il lavoro di Peirce cui ci riferiremo nel seguito del testo, anche come testimonianza dell'attività della scuola logica che Peirce aveva radunato at­torno a sé alla Johns Hopkins University in quel

periodo. Appare col titolo Studies in logic. By members of the Johns Hopkins University (Studi logici, dei membri dell'università Johns Hopkins) e con­verrà dare una descrizione succinta del suo con­tenuto. Esso contiene sei saggi, l'ultimo dei quali,

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parte condotto esemplificandolo per relazioni binarie (o « duali » come dice Peirce) ma il simbolismo adottato definitivamente da Peirce (sostanzialmente più perspicuo e maneggevole di quello impiegato in lavori precedenti) porta in modo naturale a generalizzare a « relativi tripli » o con un numero finito qualunque di posti. Comunque nel seguito, se non espressamente indicato, con « relativo » (o, in termini moderni,« relazione») intenderemo« relativo binario».

Peirce definisce un « termine relativo duale » come « un nome significante una coppia d'oggetti» vale a dire identifica un «relativo individuale» con la coppia ordinata costituita dal « relato » e dal « correlato»; così ad esempio conside­rando la relazione « ... è benefattore di - - - » i puntini segnano il posto del relato e le lineette quello del correlato (nel seguito diremo semplicemente la «relazione di benefattore»). Supponiamo ora, con Peirce, che A, B, C, D, ... siano gli individui dell'universo del discorso. Consideriamo tutte le coppie ordinate (re­lativi individuali) di tali individui, disponendole per comodità in una matrice co­me la seguente

.A :A A:B A:C A:D B :A B :B B :C B :D c :A c :B C:C C:D D:A D:B D:C D:D

dello stesso Peirce, è corredato da due « note » o appendici. Il primo saggio è di Allan Marquand e porta il titolo The logic of epicureans (La logica degli epicurei); in esso l'autore sostiene l'esistenza presso gli epicurei di « una logica che superava in valore quella dei loro rivali stoici ». Si tratta di una lo­gica induttiva, che Marquand avvicina a quella di J.S. Mill, e della quale dà i «canoni». Il secondo articolo, dello stesso autore, porta il titolo A ma­chine for producing syllogistic variations (Una macchina per produrre variazioni sillogistiche) e, come lo stesso titolo fa intuire, in esso Marquand presenta un progetto per la costruzione di una semplice mac­china basata sul sistema binario di numerazione, che permette di ottenere gli « otto modi di sillo­gismo universale di De Morgan » mediante rota­zioni di alcuni cilindri, che equivalgono a com­piere trasformazioni dirette sulle proposizioni ca­tegoriche, come ad esempio la contrapposizione. In una brevissima «nota» l'autore annuncia quin­di di aver esteso il suo metodo a proposizioni con quattro e otto termini. Il quarto saggio è estrema­mente significativo: l'autrice, Christine Ladd, sot­to il titolo On the algebra of logic (Sull'algebra della logica), propone in realtà una trattazione esaustiva del sistema booleano che grazie all'impiego di una nuova notazione escogitata dall'autrice pre-

senta in effetti vari vantaggi di simmetria, sem­plicità e maneggevolezza, e che tuttavia non è stata accettata negli sviluppi successivi della lo­gica. Ancora alla logica deduttiva è dedicato il quinto saggio del volume, dal titolo On a new al­gebra of logic (Su una nuova algebra della logica). Ne è autore O.H. Mitchell cui Peirce darà esplicita­mente il merito di aver indicato come « si debba fare » per introdurre i quantificatori nel discorso logico. Qui ci limiteremo a dire, con lo stesso Peirce, che in questo saggio Mitchell « presenta nuovi sviluppi dell'algebra logica di Boole». Se­gue quindi l'articolo di B.I. Gilman Operations in relative numbers with applications to the theory of pro­babilities (Operazioni sui numeri relativi con applica­zioni alla teoria delle probabilità), nel-quale l'autore sviluppa quelle regole per la combinazione di nu­meri relativi (relativi nel senso che la loro defini­zione è strettamente collegata con la teoria delle relazioni) di cui i principi generali della teoria delle probabilità sono casi particolari. Il contributo di Peirce è infine triplice: al!' articolo A theory of pro­bah/e inference (Una teoria dell'inferenza probabile) seguono la nota A, On a limited universe of marks (Su un universo limitato di segni), e la nota B, The logic of relatives (La logica dei relativi), che abbiamo già citato nel testo come Pr883.

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Possiamo allora definire con Peirce un «relativo generale» come «l'aggregato logico di un numero qualsiasi di tali relativi individuali ». Se per esempio l è la relazione « . . . è amante di --- » (lover in inglese), si potrà scrivere

l= :Et :E, (l)tJ (l : ])

« dove (l)u è un coefficiente numerico il cui valore è I nel caso in cui I sia amante di], o nel caso contrario, e dove le somme vanno estese a tutti gli individui del dominio ». Si noti che questa definizione non comporta, come si potrebbe essere portati a credere, l'identificazione da parte di Peirce di una relazione con la classe delle coppie ordinate degli individui del dominio che stanno in quella relazione; un relativo generale, secondo la definizione peirciana, sta piuttosto per un relativo individuale (ossia per una coppia) non specificato, per un qt~alunqtte relativo indivi­duale della classe. È anche opportuno notare subito che neppure Peirce riesce a evitare l'ambiguità che già in De Morgan abbiamo riscontrato, e cioè quella di usare uno stesso simbolo per rappresentare tanto la relazione quanto gli individui che stanno nella relazione stessa. Si noti ancora che a meno di minori precisa­zioni, si può intendere un coefficiente come ltJ come una funzione proposizionale (altro concetto « logicista » chiaramente anticipato da Peirce) ove gli indici svol­gono la funzione di variabili; lt1 non è cioè una proposizione, ma afferma che l'in­dividuo genericamente indicato con i è amante dell'individuo genericamente indicato con j. Diventa una proposizione (vera o falsa) quando al posto di i e j si mettano i nomi di due individui (non necessariamente diversi) di un dato do­minio.

Peirce estende quindi ai termini relativi le ordinarie operazioni di somma e prodotto logici note dall'algebra dei termini assoluti. Le definizioni sono ovvia­mente, per la somma « + »

(l + b)tJ = (l)tJ + (b)ii

e per il prodotto « , »

(l, b)tJ = (l)tJ (b)tJ

dove nella prima, tenendo conto del significato dei simboli, il segno « + » a destra del segno di uguaglianza va interpretato come quella operazione così definita: O + O = o, O + I = I + O = I + I = I.

Parlando in termini moderni, interpretando al solito l come la relazione di amante e b come la relazione di benefattore, le operazioni precedenti sono le or­dinarie operazioni booleane: la prima sta a significare la relazione disgiunta delle due date, ossia la relazione « amante oppure benefattore » (con « oppure » inteso in senso inclusivo) mentre la seconda indica la relazione congiunta delle due date,

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ossia «amante e benefattore». Viene anche estesa ai termini relativi l'operazione detta di «negazione» in termini peirciani, e che noi diciamo (insiemisticamente) di complemento: essa viene indicata sop:rassegnando il segno della :relazione data e include ogni coppia esclusa pe:r così di:re dalla :relazione « positiva ». Così, se l è al solito la :relazione di amante, l è la :relazione di non-amante.

Vengono poi introdotte operazioni caratteristiche dei termini :relativi, non applicabili cioè a termini assoluti: l'operazione una:ria di conversione applicata a una relazione l ne dà il converso, ossia quella :relazione, indicata con l, che si ottiene in­vertendo l'ordine delle coppie nella :relazione data; se al solito l sta pe:r la :relazione di amante, il suo converso sa:rà la :relazione di amato. Quindi vengono definite, in termini di operazioni booleane, due operazioni :relative binarie: la prima detta di prodotto relativo (che abbiamo già incontrato in De Mo:rgan) viene indicata pe:r semplice giustapposizione e così definita

(/b)ti = I:x (/)ix (b)xi;

la seconda, detta somma relativa, viene indicata con t e definita con l'equazione

(/t b)ti = Ilx (/)ix + (b)xi

col significato di « + » sop:ra definito. La seconda di queste operazioni viene interpretata da Pei:rce come «l di tutti i non-b di ... » ed è di scarsa se non nulla utilità; probabilmente è stata introdotta da Pei:rce per mantenere la validità delle leggi di De Morgan anche pe:r queste operazioni relative; la prima invece è un'operazione estremamente interessante e di grande importanza, e va interpre­tata come « l di un b di ... » ossia, più chiaramente, sussiste f:ra due individui x e y se (e solo se) esiste un alt:ro individuo z tale che « lxz e bzy ». Si pensi ad esempio alla :relazione « x è zio paterno di y »: essa sussiste f:ra x e y se e solo se esiste uno z tale che x è fratello di z e z è padre di y, vale a di:re tale :relazione è prodotto :relativo delle :relazioni di fratello e di padre.

Le operazioni :relative binarie godono della proprietà associativa ma in gene­rale non di quella commutativa. Esse hanno inoltre un comportamento fra loro asimmetrico come messo in evidenza dalle seguenti leggi, che Pei:rce dimostra f:ra molte altre

ls + bs -< (l + b) s l, b t s -< (l t s ), (b t s) (l + b) s -< ls + bs (l t s), (b t s) -<l, b t s.

Vengono quindi date le leggi che :regolano il mutuo comportamento delle somme e dei prodotti :relativi e assoluti :rispetto alla negazione e alla conversione e si definiscono le :relazioni riflessive (seljrelatives) e non :riflessive (aliorela-

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tives). Peirce introduce quindi quattro relazioni particolari: la relazione univer­sale, simbolizzata con oo, resa in linguaggio ordinario con « coesistente con >>: oo accoppia ogni elemento del dominio con se stesso e con ogni altro; la negazione di tale relazione, indicata con o; la relazione «identico con», indicata con 1, che accoppia ogni termine con se stesso; la negazione di tale relazione indicata con n, che accoppia ogni termine con ogni altro termine da esso distinto. Anche per queste relazioni Peirce stabilisce diverse leggi, come ad esempio o -< x, x -< oo qualunque sia x, xo = o; x t oo = oo, e molte altre, che ci esimiamo dal riportare.

È chiaro . che la maggior quantità di operazioni intervenienti nel calcolo, congiunta con l'assenza di simmetria nel loro comportamento rendono il calcolo stesso assai complesso; Peirce afferma infatti che « la logica dei relativi è altamente multiforme; essa è caratterizzata da innumerevoli inferenze immediate e da varie conclusioni distinte dallo stesso insieme di premesse ... L'effetto di queste pecu­liarità è che quest'algebra non può essere soggetta a rigide e solide regole come quelle del calcolo booleano; e tutto ciò che si può fare in questa sede, è dare un'idea generale di come lavorare con essa ». In proposito il Lewis osserva che « ... come oggi sappiamo, il valore principale di ogni calcolo delle relazioni non consiste nelle eliminazioni o soluzioni di tipo algebrico, ma in deduzioni da farsi diretta­mente dalle sue formule. Gli artifici di Peirce per la soluzione sono quindi molto meno importanti della fondazione teoretica sulla quale è costruito il suo calcolo dei relativi. È questa che si è dimostrata utile in ricerche successive ed è divenuta la base di notevoli apporti allo sviluppo logicista ».

Un aspetto per noi estremamente interessante di questo è costituito dagli accenni già ampiamente contenuti in P1883, e poi sviluppati abbastanza organica­mente in P1885, di una vera e propria logica della quantificazione. In P1883 gli operatori ~ e n avevano significati, anche se non esclusivamente, almeno so­stanzialmente algebrici, che tuttavia permettevano a Peirce affermazioni come la seguente: « Quando le operazioni relative e quelle non relative [booleane] occor­rono assieme, le regole del calcolo diventano molto complicate. In questi casi, come pure nei casi in cui intervengano relazioni plurali (che sussistono fra tre o più oggetti) è spesso vantaggioso ricorrere ai coefficienti numerici ... Ogni propo­sizione è equivalente a dire che qualche complesso di somme e prodotti di tali coefficienti numerici è maggiore di zero [corsivo nostro]. Così

~,~,l,,> o

significa che qualcosa è amante di qualcosa; e

significa che ogni cosa è amante di qualche cosa. Possiamo, naturalmente, omet-

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tere nella notazione le disuguaglianze, il > o con le quali tutte esse terminano [corsivo nostro].» Risulta chiaro l'impiego di tali operatori come quantificatori «qualche» e « tutti » e già in questo saggio viene in nuce usata la distinzione fra parte «booleana» (noi diremmo oggi proposizionale o «matrice») e parte «relativa» (noi diremmo di quantificazione o «prefisso») di una espressione, e vengono dati alcuni esempi di trasformazione del « prefisso », e quindi di deduzioni, che possono automaticamente interpretarsi nell'ambito dei predicati del primo ordine. Si ricordi del resto che i coefficienti relativi introdotti da Peirce altro non sono, sostanzialmente, che le funzioni proposizionali di Frege e di Russell.

Nel saggio del I 88 5 comunque, una teoria della quantificazione viene impo­stata con tutta chiarezza: viene tra l'altro considerata esplicitamente la possibilità di porre una espressione in quella che noi oggi chiamiamo forma prenessa (nella quale cioè tutti i quantificatori precedono tutti i connettivi) e vengono anche ese­guite forme particolari di tale trasformazione. Afferma infatti Peirce in P I 8 8 5 : « Veniamo ora alla distinzione di qualche e tutti, distinzione che è precisamente accoppiata con quella fra verità e falsità. Tutti i tentativi per introdurre questa distinzione nell'algebra booleana sono stati più o meno un fallimento completo, finché il signor Mitchell [in un suo saggio contenuto nello stesso volume nel quale si trova PI 883; si veda la nota a pagg. 142.-143] non ha mostrato come va effettuata. Il suo metodo consiste in realtà nel rendere l'intera espressione della proposizione consistente di due parti, una pura espressione booleana che si riferisce a un indivi­duo e una parte quantificante che dice di che individuo si tratti. Così, se k significa "egli è un re " e h "egli è felice ", la booleana (k +h) significa che l'individuo di cui si parla o non è un re o è felice. Ora, applicando la quantificazione, possiamo scrivere Ogni (k +h) per significare che ciò è vero di ogni individuo dell'universo (limitato), oppure Qualche (k +h) per significare che esiste un individuo che o non è re o è felice. » Introdotti quindi i simboli ~ per « qualche » e n per « ogni », si ha che « ~,x, significa che x è vero di qualcuno degli individui denotati da i, ossia ~tXt = Xt + XJ + Xk +ecc. Allo stesso modo, n,x, = XtXJXk ecc .... Va notato che ~ e n sono soltanto simili a una somma e a un prodotto; non sono a rigore di quella natura perché gli individui dell'universo possono essere non numerabili ».

Per concludere il nostro discorso su Peirce vogliamo toccare ancora due punti, dopo di che esporremo alcune considerazioni generali sull'opera e sulle concezioni logiche di Schroder; questi peraltro rientrerà talora, in modo del tutto naturale, anche nel corso di queste righe. Un primo punto riguarda la polemica condotta da Peirce contro la tesi logicista di riduzione della matematica alla logica. Abbiamo detto che tale tesi risale in modo esplicito e articolato a Frege, ma Peirce ne ha co­noscenza attraverso l'opera Was sind und was sollen die Zahlen (Essenza e significato dei numeri, 1 888) di Dedekind. Ciò non deve stupire: si può senz'altro anticipare, inci­dentalmente, che i lavori e le idee di Frege rimasero sostanzialmente ignoti ai suoi

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contemporanei e, se noti, vennero assolutamente sottovalutati e del tutto trascura­ti. La cosa è imputabile a diversi fattori: da una parte la novità delle idee stesse, il tipo di presentazione fregeano, almeno in un primo momento alquanto ostico (con scarse se non nulle concessioni« alla platea») e al di fuori di una trattazione tradi­zionalmente matematica, lo spirito polemico di Frege, il suo carattere non certo accomodante e« socievole»; d'altra parte però non ultima delle ragioni di questo stato di cose è proprio la « chiusura » di Schroder, la sua .incapacità a cogliere la novità e la fecondità di quelle idee per il semplice e squallido motivo che la logica cui Frege intendeva appunto ridurre la matematica non era la logica ossia quel­la booleana. Come vedremo in seguito, nel I 89I Frege aveva già ampiamente esposto, e in varie presentazioni, le proprie idee (basterebbe limitarsi ai lavori del I 879 e del I 884) e si apprestava a presentare operativamente il suo programma nel primo volume della sua opera maggiore i Grundgesetze der Arithmetik (Principi dell'aritmetica), che pubblicherà nel I 893; orbene, ancora nel I89I, nel secondo vo­lume delle Vorlesungen, Schroder scriveva: «L'aritmetica è ora completamente li­berata dall'intuizione o dall'assunzione di grandezze confrontabili e misurabili ed è posta su fondamenti puramente logici; è soprattutto grazie ai lavori di H. Grassmann, G. Cantor, Weierstrass e Dedekind che essa è stata sviluppata come un ramo della logica »; la cosa si commenta da sola, tenendo anche conto del fatto che nei tre volumi della summa schroderiana Frege è sì e no nominato.

Ma a parte questa digressione, quali sono i motivi che portano Peirce a non accettare e anzi a opporsi decisamente alla tesi logicista? Ciò non avviene per una dogmatica affermazione peirciana dell'unicità e della validità del modello mate­matico, ma perché matematica e logica vengono fondamentalmente intese da Peirce, in generale, come « ricerca strutturale sul simbolismo »; è quindi pos­sibile e lecito effettuare una revisione critica delle teorie matematiche servendosi di tutto l'apparato simbolico e concettuale della logica, ma questa impresa non comporta assolutamente un momento fondante o comunque di riduzione della matematica alla logica, considerato appunto che nel senso preciso sopra esposto anche la logica è matematica. In altri termini, nel corso di questa revisione non si esce assolutamente dal campo stesso della matematica. In modo diverso si può dire che è impossibile una riduzione della matematica alla logica, dal momento che la matematica è la scienza che trae conclusioni necessarie (secondo una defini­zione del padre di Peirce e che egli accettava) e non la scienza del trarre tali conclu­sioni. Si tenga ancora presente che la stretta connessione che Peirce sostiene fra logica utens e logica docens non è assolutamente un'identificazione: la logica formale in quanto attività di ricerca operante è niente altro che la matematica che « ela­bora i suoi ragionamenti per mezzo di una logica utens che sviluppa di per sé »; la logica docens, viceversa è il momento teorico che riflette su questi ragionamenti e procede alla « classificazione » degli argomenti. Si noti infine, ci limitiamo a enunciare la cosa senza adeguatamente giustificarla, che secondo Peirce una con-

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cezione logicista corre in più sensi il pericolo di riportare alla tematica delle « leggi del pensiero» tipica del resto della tradizione europea dell'algebra della logica.

Quest'ultima considerazione ci porta direttamente al secondo punto che vogliamo trattare, e cioè il già accennato atteggiamento antipsicologistico di Peirce. In proposito Peirce osserva, tra l'altro, che« quest'opinione è sostenuta da uno dei logici odierni più acuti e alla moda, Cristoph Sigwart ... e Schroder, il leader della logica esatta in Germania, segue Sigwart nell'opinione ricordata, an­dando se possibile ancor oltre ... Si può osservare che nessuno si metterebbe a stu­diare logica se non avesse già stabilito che gli uomini sono tanto atti a errare nel loro senso di logicità quanto lo sono a ragionar male, e se non sostenesse che la distinzione tra ragionar bene e ragionar male è che il primo conduce alla co­noscenza della verità, mentre l'altro no, e che per verità si intende qualcosa che non dipende dal modo come noi pensiamo o sentiamo che essa sia ». È chiara la netta opposizione a tutta l'impostazione psicologistica dell'algebra della logica europea- che troveremo appunto ribadita e codificata da Schroder - e nel con­tempo è evidente un rimando, assai diffuso del resto nelle pagine di Pierce, alla tesi bolzaniana circa la natura « oggettiva » della logica che come sappiamo questi in­tende interessarsi alle «verità in sé», alle «proposizioni in sé», al pensabile piut­tosto che al processo di pensare, tesi che troveremo decisamente riaffermata an­che da Frege.

È tuttavia problematìca e non univocamente determinata la risposta di Peirce circa il senso da attribuire a questa « oggettività » della logica. Ad essa con­corrono tutta una serie di motivazioni che Peirce sviluppa in varie riprese e che sarebbe troppo lungo anche solo accennare in questa sede. Ci limitiamo a osservare come da un aspetto di queste motivazioni risulti inequivocabilmente la necessità, per Peirce, di un richiamo all'attività e all'espressione simbolica in generale: «L'ordito e la trama di ogni ricerca sono i simboli, e la vita del pensiero e della scienza è la vita inerente nei simboli; sicché è errato dire semplicemente che un buon linguaggio è importante per un buon pensiero; poiché esso ne è l'essenza.» Il che d'altronde è in armonia con la sua più generale concezione dell'uomo quale essenzialmente « elaboratore di segni » (sign-maker) e « lettore di segni » (sign­reader): «La parola o segno che l'uomo usa è l'uomo stesso», o, ancora: «Il mio linguaggio è la somma totale di me stesso. » Si comprende chiaramente come, in questo contesto generale, Peirce si opponga con decisione a una concezione secondo la quale la logica « ... riguardi in primo luogo il pensiero inespresso e solo secondariamente il linguaggio », essendo per lui la logica « la scienza delle leggi generali dei segni e specialmente dei simboli».

Francesco Barone si esprime come segue, a conclusione di un'analisi del pen­siero logico di Peirce: « Come nel caso della polemica contro illogicismo anche nella questione della validità formale l'opera di Peirce offre " anticipazioni '' sugli sviluppi futuri della ricerca. E di altre "anticipazioni" come s'è visto, essa è ricca

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anche sul piano più strettamente tecnico ... Ma una prospettiva storica che guar­dasse solo alle "anticipazioni" rischierebbe di essere semplicistica e di idolatrare come definitive le concezioni cronologicamente ultime. L'attualità autentica del Peirce ... è forse ancor più nella sua capacità di tener presenti tutti i temi proposti al pensiero moderno dal rinnovamento della logica formale. Il riconoscimento della natura scientifica di questa, la rinunzia al suo tradizionale inserimento nelle discipline filosofiche furono eventi decisivi per il pensiero contemporaneo: ma come per ogni svolta fondamentale della storia umana, le conseguenze non erano predeterminate; la rivoluzione poteva essere negata in nome della tradizione o spingersi nel vuoto negando alla tradizione ogni senso. Per l'equilibrio con cui seppe concordare il "vecchio " e il "nuovo " sul piano della ricerca "logica ", Peirce è un "esempio", e non solo del passato.»

Veniamo ora ad alcune considerazioni sull'opera di Schroder, che servirà sostanzialmente a sviluppare gli accenni che abbiamo avuto occasione di fare in più punti nell'ambito del discorso relativo a Peirce. La dialettica e critica apertura di orizzonti e la vasta problematicità che abbiamo riscontrato in Peirce verrebbero però cercate invano in Schroder, e alcune delle osservazioni precedenti dovreb­bero già aver fatto intuire l'impostazione più circoscritta e « limitata» di quest'ul­timo, che pur seppe dare, per parte sua, concreti e importanti contributi allo sviluppo e alla sistemazione dell'algebra della logica ottocentesca.

Ernst Friedrich Wilhelm Karl Schroder (I84I-I902) fu professore di matema­tica a Karlsruhe dal I876 a I9o2. A lui si debbono i maggiori risultati- dopo quelli del Peirce- nell'elaborazione dell'algebra della logica di questo periodo. Iniziò ~a sua attività in questo senso col volumetto del I 877 Der Operationskreis des Logikkalkuls (L'ambito operativo del calcolo della logica): in esso Schroder abbandona il significato booleano (esclusivo) della somma in favore di quello di J evons e pone l'accento sulla «legge di dualità» che connette teoremi espressi in termini dell'operazione « + » o di « + » e « I » con corrispondenti teoremi espressi in termini di prodotto logico« x »o di« x »e« o». Il sistema risultante è l'odierna algebra della logica, e viene perfezionato nelle già citate Vorlesungen, il cui primo volume è appunto dedicato all'algebra delle classi, il secondo all'algebra delle proposizioni e il terzo (che ha come sottotitolo Algebra und Logik der Relative [Algebra e logica dei relativi]) alla logica delle relazioni. Il secondo volume è in due tomi, il secondo dei quali venne pubblicato postumo da Eugen Miiller nel I905; sempre postumo e a cura di Miiller venne infine pubblicato nel I9o9-Io un Abriss der Algebra der Logik (Compendio di algebra della logica) in due parti, la prima dal titolo Elementarlehre (Teoria elementare), la seconda dal titolo Aussagentheorie, Funktionen, Gleichungen und Ungleichungen (Teoria degli enunciati, funzioni, equazioni e disequazioni).

Non ci impegneremo qui in una descrizione tecnica dell'opera fondamentale di Schroder perché, come è stato più volte detto, essa è sostanzialmente un'opera

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di sistemazione generale di una problematica che, oggi almeno, si ritiene ormai « pragmaticamente superata» e da questo punto di vista ha in effetti solo un valore « storico » per quanto riguarda la conduzione tecnica della sistemazione stessa. Faremo quindi su di essa alcune considerazioni generali, tentando soprattutto di mettere in luce quelle che sono le motivazioni e le concezioni di fondo che a pa­rere di Schroder giustificavano appunto l'intrapresa di un'opera così impegnativa e «completa», che sotto questo rispetto è tutt'oggi un documento unico per la comprensione di questa fase di sviluppo della logica.

Per Schroder la logica è un'indagine sulle« regole seguendo le quali si ricerca la conoscenza della verità»; d'altra parte la comprensione della verità è un atto di pensiero, sicché oggetto della logica in generale è « il pensiero in quanto ha come suo fine ultimo il conoscere ». Ritornano subito alla mente le parole di Peirce in proposito: ognuno vede che si tratta di due concezioni di fondo diametralmente opposte. Sappiamo già, dal citato passo di Peirce, che Schroder mutuava questa sua concezione da Sigwart; e tratta appunto da Sigwart la determinazione del «pensiero conseqttenziale o logico» come pensiero « ... connesso per l'intelletto indagante con la coscienza della immediata comprensione o evidenza, quando una "necessità mentale " ci costringe a compierlo con la convinzione dell'assoluta certezza», Schroder assume come ideale teoretico per la sua opera quello di «por­tare alla coscienza le leggi del pensiero consequenzialmente corretto, di dar loro un'espressione generale che sia la più semplice possibile, di ridurle al minor numero di principi e assiomi e, soprattutto di improntare tale pensiero con una consapevole abilità ».

Accanto a questo momento teoretico generale, è esplicitamente dichiarata da Schroder un'aspirazione verso la sistemazione migliore e definitiva della materia: « La teoria è a tal punto sviluppata e perfezionata che sembra già raggiungibili un'esposizione e un ordinamento definitivi per una prima e fondamentale parte dell'intero edificio. » Non che con ciò egli pensi l'algebra della logica come di­sciplina esaurita e « chiusa in sé »; al contrario, vede la possibilità di un « ulteriore illimitato sviluppo» della materia; ma lo vede nell'ambito di questo modello perfetto, definitivo, in funzione del quale si giustifica la sua aspirazione alla « completezza » delle Vorlesungen, completezza che va intesa come esame e discus­sione di tutti i lavori dedicati all'argomento e comunque di ogni contributo che possa aggiungere elementi alla fissazione della base teorica definitiva sulla quale si innesteranno i nuovi, previsti e auspicati « ulteriori sviluppi ». Questa aspirazione fa sì, da una parte, che le Vorlesungen risultino appunto un documento essenziale per la conoscenza esatta e comprensiva dello stato dell'algebra della logica alla fine dell'Ottocento; né d'altra parte impedisce alloro autore di apportare anche notevoli contributi tecnici al calcolo, come pure di avanzare osservazioni acute e distinzioni di effettivo valore. Abbastanza paradossalmente, tuttavia, essa gli preclude la possibilità di sviluppare una visione critica generale della logica del suo

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periodo; è proprio questa incapacità che si manifesta, ad esempio, nell'atteggia­mento già più volte ricordato nei riguardi del pensiero e dell'opera di Frege.

Per quanto riguarda il calcolo delle proposizioni, Schroder assume come fondamentale il calcolo delle classi e interpreta i suoi elementi come proposizioni; aggiunge quindi il postulato di « binarietà », ottenendo ciò che noi oggi chiamia­mo appunto un'alg~bra a due valori, essendo come si ricorderà il postulato in questione della forma « se x =1=- 1 allora x = o e se x =1=- o allora x = 1 ». In quest'ambito di idee va detto che risale a Schroder l'impiego pressoché sistematico di « tavole di verità » per la valutazione delle formule proposizionali.

Il momento logico fondamentale è per Schroder, come per Boole, il calcolo delle classi ( Gebietkalkul); egli lo chiama « calcolo identico » (sicché si parlerà di somma identica e non di somma logica, ecc.) perché lo riguarda come una« disci­plina ausiliaria che precede la logica ... ed è di natura puramente matematica ». Schroder, che accoglie anche la distinzione booleana fra proposizioni primarie e secondarie, coglie quelli che possiamo ormai chiamare i soliti difetti della sistema­zione booleana: non interpretabilità di ogni passo della deduzione, impiego di operazioni inverse, uso della somma esclusiva; egli evita ovviamente questi di­fetti nella propria sistemazione, la quale presenta altri pregi specifici che essen­zialmente consistono nell'introduzione esplicita della classe vuota, nell'assumere la sussunzione (inclusione) come relazione fondamentale, nell'impiego costante e sistematico della legge di dualità e infine, non ultimo, nell'esposizione dettagliata, minuziosa e precisa. In proposito tuttavia va detto che considerazioni formali e informali o intuitive sono spesso così intricabilmente legate da rendere la lettura per lo meno non sempre agevole. Interessante è la discussione che Schroder con­duce in questo contesto del concetto booleano di universo del discorso; egli rileva l'interpretazione onnicomprensiva da parte di Boole di questo concetto (si veda tuttavia la nostra nota a pag. zio e sulla base di questa discussione, oltre a mo­strare come una tale interpretazione conduca a contraddizioni, sviluppa tutta una serie di acute osservazioni nelle quali si può senz'altro cogliere una precisa anti­cipazione della teoria russelliana dei tipi, dal momento che - per evitare appunto tali contraddizioni - Schroder suggerisce una sorta di « gerarchizzazione » del­l'universo del discorso. Altra nozione interessante introdotta da Schroder è la distinzione fra molteplicità consistenti e inconsistenti, che vedremo verrà rilevata anche da Cantor; l'interesse nel caso di Schroder è dato dal fatto che l'introduzione di tale distinzione avviene indipendentemente dalla scoperta delle antinomie della teoria degli insiemi, ritenute come è noto le sole « responsabili » della necessità di tale distinzione in Cantor.

D'altra parte il momento dogmatico e unidirezionale della concezione schroderiana viene messo in chiara luce quando egli dà la sua versione della sillo­gistica classica. Dal momento che egli ha introdotto la classe vuota, è necessario fare una distinzione fra la portata esistenziale delle proposizioni particolari e di

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quelle universali (si ricordi quanto abbiamo detto a proposito di Venn); sappiamo già che questo comporta precise limitazioni alle inferenze immediate possibili ed è noto d'altra parte che con ciò viene a cadere la validità di alcuni modi « im­perfetti » del sillogismo classico. Ora per Schroder ciò significa semplicemente che tali modi sono scorretti (in assoluto), dal momento che la logica «esatta» è assolutamente corretta e « delle conversioni della logica tradizionale solo la conversio pura è ammessa nella logica esatta». Ne viene in particolare che i sillo­gismi che ora risultano non validi in effetti non sono per lui neppure più dei sil­logismi nel vero senso della parola, per il semplice motivo che essi hanno tre e non due premesse (o ve la terza premessa è appunto costituita dali' affermazione esisten­ziale); con questa conclusione Schroder ricalca come sappiamo un noto argomento di Kant, cui d'altronde egli si richiama esplicitamente; ciò equivale, si badi bene, a riproporre una sorta di identificazione fra logica esatta e« logica naturale».

Per quanto riguarda il calcolo delle relazioni non v'ha in effetti, nella pro­spettiva da noi qui assunta, molto da dire: la fondazione teoretica di questo cal­colo è dovuta a Peirce - cosa che del resto lo stesso Schroder riconosce a più riprese e molto «serenamente» (si ricordi il passo di Lewis in proposito che ab­biamo sopra riportato) -; ovviamente, come caratteristica generale, la materia vie­ne presentata con sistematicità e « completezza » certamente non riscontrabili in Peirce e l'elaborazione del terzo volume delle Vorlesungen, oggi decisamente su­perata.(anche se voci in sua difesa si sono sollevate almeno fino al 1940; ma di questo parleremo in seguito quando spingeremo il nostro esame fino ai no­stri giorni), ha fornito il contesto generale e la sistemazione simbolica per la ricerca logica almeno fino all'apparizione dei Principia. Né mancano d'altra parte numerosi apporti originali dello stesso Schroder; vogliamo qui ricordarne due.

Il primo riguarda il tentativo di applicare la teoria delle relazioni in ambito specificamente matematico: Schroder dedica la nona lezione del terzo volume alla trattazione, da questo punto di vista, della teoria delle catene (e del processo di inferenza per induzione ad essa strettamente collegato) che Dedekind aveva intro­dotto nel citato Essenza e significato dei numeri. L'idea era ovviamente quella di estendere il più possibile l'algoritmo relazionale alla matematica ma il risultato di questo esperimento non fu incoraggiante: ne risulta una trattazione estremamente complicata e poco perspicua che non offre alcun vantaggio rispetto alla presenta­zione « matematica » tradizionale di Dedekind. Peirce stesso espresse in proposito il dubbio che « il professor Schroder attribuisca un valore troppo alto a quest'al­gebra».

Il secondo è invece assai più interessante sia perché è inserito nella ricerca di condizioni di validità per una formula, vale a dire nel tentativo di costituzione di un metodo di decisione che permetta di stabilire appunto la validità « assoluta » (ossia indipendente dal dominio di interpretazione) di una formula del calcolo sia

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perché - malgrado la proposta di Schroder in questo senso si riveli poi in­sufficiente - essa ha costituito lo spunto per tutta una serie di ricerche. Nella sua sistemazione Schroder introduce alcune relazioni particolari, che egli chiama « moduli », per le quali stabilisce un « abaco » che permette appunto di deci­dere la validità di ogni espressione che sia espressa in termini di soli moduli. Definisce quindi il processo di « condensazione » di un'espressione, intendendo con ciò il trasformarla in un'altra espressione che .non contenga i simboli ~ e ll (noi oggi diremmo, in forza della « traducibilità » della teoria delle relazioni nel calcolo dei predicati del primo ordine: priva di quantificatori). Un'espres­sione che ammetta questa trasformazione viene detta « condensabile »; in forza dell'abaco dei moduli, risulta che un'espressione «condensata» è decidibile rispetto alla validità. Ora Schroder congettura (in effetti: afferma decisamente) che ogni espressione del calcolo delle relazioni sia condensabile sicché se ne otterrebbe automaticamente la decidibilità rispetto alla validità per ogni espres­sione di tale calcolo (per la ragione precedente, si avrebbe la decidibilità del calcolo dei predicati del primo ordine). Già Korselt nel 1907 dimostra che la congettura di Schroder è insostenibile presentando un'intera classe di formule che non la soddisfano; ma la cosa per noi interessante è che proprio a partire da questa problematica e da questi spunti schroderiani, alcuni anni più tardi Leopold Lowenheim ottiene uno dei risultati fondamentali per l'odierna ricerca logica, e sul quale ritorneremo nei prossimi capitoli.

Nel contesto di alcune considerazioni conclusive sulla posizione filosofica di Schroder, Barone, fra altre critiche, ritiene sia stato « ... grave per una valutazione generale dell'algebra della logica ... ; l'impressione suscitata dallo scompenso fra l'elaborazione della sua parte tecnica e la povertà della sua interpretazione filo­sofica. O l'attenzione veniva in tal modo attratta dalla trattazione scientifica, ab­bandonando come inutile l'inquadramento filosofico, o si era spinti ad accomu­nare nel disinteresse la scricchiolante fondazione dell'edificio su essa sorgente. Ciò che la nuova trattazione simbolica della logica richiedeva era una riflessione filosofica sul simbolismo che non raccogliesse dall'esterno frammenti di filosofia precostituita, bensì affrontasse originalmente anche i problemi tradizionali. Fu il lavoro che Peirce compì mirabiimente: e se alla fine del secolo scorso la fram­mentarietà della sua opera poteva farla passare in secondo piano rispetto alla "sistematicità" di Schroder, oggi è possibile apprezzarla in tutta la sua sugge­stività ». Aggiungeremo solo che come elemento di paragone « positivo » po­tremmo assumere Frege al posto di Peirce, perché il discorso si attaglia perfetta­mente all'originalità della sua analisi e delle su~ soluzioni a classici problemi di filosofia della matematica e della logica. ·

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VI · CONCLUSIONE

Per tentare una valutazione (che noi facciamo ovviamente a posteriori, con riferimento allo stato attuale della ricerca logica) del ruolo che l'algebra della logica ha avuto nello sviluppo della logica matematica, è necessario porsi la do­manda seguente: quali erano le deficienze che Boole, De Morgan, ecc. lamenta­vano nelle esposizioni tradizionali della logica? O, ancora, che significato ha lo spostamento della logica dalla filosofia alla matematica? Per rispondere adegua­tamente occorre tener presente il clima culturale generale nell'Inghilterra di quegli anni: uno dei fatti più rilevanti è senza dubbio la rinascita della matematica inglese e il sorgere dell'algebra astratta sotto il nome di analisi generale; sono i pro dro mi di quell'algebra universale di cui andavano comparendo allora sparsi frammenti: algebra non commutativa, teoria dei quaternioni, approccio analitico alla mecca­nica, algebra della logica, teoria degli invarianti, ecc.; ci sembra significati­vo che il nome «algebra universale» si ritrovi già in James Joseph Sylvester (1814-97). Questo mostra come il programma di sviluppare una scienza gene­rale « del ragionamento simbolico » (come si esprimerà Whitehead nel 1 898) fosse perfettamente consapevole, anche se il materiale da cui procedere poi per genera­lizzazione non era ancora «sufficiente» (come lo stesso \y'hitehead riconoscerà).

È anche importante notare che l'accento, più che sul concetto di struttura astratta, è posto sul carattere puramente simbolico del procedere algebrico. Il fatto è importante perché, se da una parte sottolinea la consapevolezza della «scarsità» della base empirica (teorie particolari), dall'altra pone anche in luce come il programma generale non avesse in effetti - malgrado i su ricordati pro­gressi in particolare dell'algebra - un contesto matematico appropriato in cui situarsi (si ricordino in questo senso le chiare parole di Boole che accompagnano la richiesta di autonomia per il suo calcolo).

Per il matematico moderno, l'intera matematica è studio di strutture astratte, quindi l'algebra universale non è che una teoria estremamente «rarefatta» che si occupa delle proprietà più generali («universali», appunto) di quegli oggetti matematici che sono le strutture ( ove per struttura si intenda un insieme non vuoto, e per altro qualunque, sul quale siano state definite operazioni efo relazioni). Ma che cosa significa qui «ragionamento simbolico »? Ora l'accento è posto sui

. procedimenti inferenziali, non sugli oggetti. Addirittura, la peculiarità del ragio­namento simbolico (quello che lo distingue dal procedere comune e filosofico e quello che distingue l'analisi pura dalle altre scienze) è la possibilità di svilupparsi senza riferimento agli oggetti: « Ogni sistema di interpretazione che non modifichi la verità delle relazioni che si suppone sussistano tra i simboli è ugualmente am­missibile,» dice Boole, e queste parole mostrano bene come la cosa più importante sia per lui la generalità del metodo, non la possibilità di definire, a partire dalle relazioni tra simboli, classi di interpretazioni, di strutture. Le interpretazioni vengono sup-

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poste come date, si ribadisce solo che il procedimento simbolico non ha bisogno di esse per giustificarsi. È quella che potremmo chiamare una posizione di difesa, non d'attacco: l'analisi può fare a meno delle interpretazioni, delle strutture concrete, ma non pretende certo di costituire addirittura le strutture stesse, di definirle. È in questo senso che il programma di un'algebra universale come « scienza generale del ragionamento simbolico » non riesce a situarsi opportuna­mente nel contesto matematico; ed è in questo senso tuttavia che il « passo » booleano si pone come il primo fondamentale momento verso questo sviluppo modernò.

L'effettiva credenziale dell'analisi generale (pura) è quindi proprio la sua universalità, non una sua caratteristica specificamente matematica; in definitiva, è una proprietà logica quella che viene messa in rilievo: sicché la scoperta delle similitudini tra diverse strutture non approda alla nozione astratta di struttura come determinata da un sistema d'assiomi, ma piuttosto al riconoscimento del fatto che l'impiego di un linguaggio simbolico permette di raggiungere un livello di generalità elevato, in cui i ragionamenti procedono senza che sia necessario fare riferimenti a fatti particolari, dipendenti da singole interpretazioni dei simboli. È quindi « naturale » il passo compiuto da Boole verso la costruzione di un calcolo logico: l'intermediario è il concetto di « universalità». Come la logica formula leggi universali sui giudizi, così il ragionamento simbolico è universale in quanto non vincolato a interpretazioni privilegiate. Certo non basta il carattere simbolico a fare di un calcolo un calcolo logico. È necessario che le operazioni le cui pro­prietà vengono fissate dalle relazioni tra i simboli corrispondenti ammettano una interpretazione « logica ». E a questo punto, in una prospettiva moderna, sarebbe naturale ricorrere proprio al linguaggio naturale, stabilendo un contatto fra va­riabili ed enunciati, fra operazioni e connettivi; ma nella prospettiva dei logici algebrici ottocenteschi non è così: il carattere logico del calcolo non viene stabilito collegandolo al linguaggio in cui le inferenze vengono ordinariamente eseguite, ma collegandolo ad operazioni mentali, a processi di pensiero (come in Boole e nella maggioranza dei logici algebrici- con la notevole eccezione di Peirce -, fino alla codificazione schroderiana) o ad operazioni su oggetti astratti, di origine concettuale. Linguaggio e calcolo vengono così ad essere situati in parallelo, non in derivazione: al di sopra di entrambi c'è la mente con le sue «operazioni» e i suoi processi.

Una delle posizioni fondamentali dei logici algebrici è dunque la convinzione che il linguaggio naturale non sia il mezzo migliore per formulare le leggi logiche, conclusione questa che del resto si è decisamente imposta in tutta la ricerca logica successiva, alla cui motivazione Frege, ad esempio, dedicherà pagine assai limpide; ma nel nostro caso la cosa non nasce dal « desiderio » di poter meglio manipolare le leggi logiche una volta postele in forma algebrica (evitando taciti richiami al­l'intuizione, ecc.) bensì dalla convinzione che la generalità delle leggi logiche vada

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perduta nella formulazione linguistica ordinaria. De Morgan, Boole, ecc. accettano i trattati tradizionali come repertori di leggi logiche, ma non ne accettano la classifìcazio11e; e non l'accettano proprio perché non è sufficientemente generale. È questa la non esattezza della logica tradizionale, che non consiste tanto in una scarsa « maneggiabilità » quanto nell'incapacità a dare classificazioni più aderenti « alla natura delle cose »1•

L'orizzonte generale in cui ci si pone è quindi quello della classificazione degli argomenti: questo è esplicito in Boole e in Peirce, anche se, come abbiamo visto, in contesti «filosofici» diversi. Non si tratta di voler migliorare l'applicabilità della sillogistica come canone di inferenza, di voler controllare se qualche argo­mento non valido sia inferibile sillogisticamente, quanto di controllare la comple­tezza e adeguatezza della classificazione tradizionale degli argomenti: fonte della inadeguatezza è sostanzialmente il linguaggio naturale e in questo senso Boole è esplicito, come ricordavamo nell'introduzione, quando nel poscritto dell' Ana!Jsis sottolinea che la logica è indipendente dal linguaggio, anche se tanto l'una quanto l'altro .hanno la stessa origine nella capacità dell'uomo a formare concetti universa­li. È proprio a questo punto che si inserisce l'algebra simbolica. Essa è l'arte di manipolare i simboli, o meglio lo studio dei calcoli simbolici e poiché anche il lingt;taggio è un sistema simbolico (solo inadeguato, almeno allo scopo qui discusso) è chiaro che l'unica formulazione esatta della logica sarà quella algebrica. 2

È caratteristico questo considerare il linguaggio come sistema simbolico ina­deguato a esprimere nella loro generalità le leggi logiche; leggi che sono fondate appunto non sul linguaggio ma su operazioni mentali. Il riferimento ad atti mentali viene allora ad assumere due funzioni parallele: 1) permette di ricercare dei fondamenti necessari alla classificazione degli argomenti mediante l'individua­zione di operazioni primitive che godono necessariamente di proprietà fisse; z) permette di sfuggire alla «schiavitù» del linguaggio e di controllarlo «dal­l'esterno». È appunto la ricerca di generalità superiore che porta ad esempio Boole a simbolizzare nel calcolo operazioni mentali; la ricerca è tesa verso l'in­dividuazione di elementi primitivi con comportamento regolare (fissabile in equazioni) ed iterabili: non si può trattare che di operazioni (mentali, nel caso della logica). Va notato che, paradossalmente, è proprio l'interesse per il linguaggio come sistema simbolico che porta a ripudiarlo come medium logico; una volta

1 Come afferma Boole nell'Anarysis: «Sa­rebbe prematuro parlare del valore che questo me­todo [il suo metodo algebrico che egli propone nel volume] può possedere come strumento di ri­cerca scientifica. Mi riferisco qui alla teoria del ra­gionamento e al principio di una vera classifica­zione delle forme e dei casi della logica conside­rata come scienza. Lo scopo di queste ricerche era stato confinato, in un primo tempo, all'espres­sione della logica istituzionale e alle forme del-

l 'assetto aristotelico; tuttavia divenne ben presto evidente che in questo modo si introducevano re­strizioni che erano puramente arbitrarie e non avevano nessun fondamento nella natura delle cose [corsivo nostro]. »

2. Dice infatti Boole nell' Anarysis: «Le for ... me canoniche del sillogismo aristotelico sono real­mente simboliche; soltanto che i simboli sono meno perfetti, nel loro genere, di quelli della ma­tematica.»

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concepitolo come sistema simbolico, si deve controllare se esso ammetta tutte e sole le interpretazioni logiche, cioè se ogni legge si lasci rappresentare: e questo non avviene perché le « operazioni » fra parole o frasi non rappresentano gli atti mentali. Occorre quindi un altro sistema di simboli: la lacuna cioè si riscontra in effetti a livello espressivo, non a quello deduttivo.

Ci si può domandare come Boole e in generale i logici algebrici siano giunti a riconoscere l'inadeguatezza del linguaggio naturale come mezzo logico. Ciò de­riva dall'impossibilità di distinguere in modo appropriato fra principi e schemi, cioè schemi inferenziali e principi su cui si fonda il ragionamento (confusione nata dalla non distinzione fra logica e metafisica).l Si verifica che: 1) i principi detti universali (tipo dictum de omni et de nullo) non sono applicabili direttamente; e allora in che senso sono universali? 2) se si adottano i soli schemi inferenziali si ha una pluralità di forme che «sarebbero» riducibili l'una all'altra ma che di fatto non lo sono, anche se si nota che le d_ifferenze sono solo linguistiche. È questo che spinge a cercare una base da cui partire per trovare principi veramente universali che si applichino alle inferenze direttamente.2 Per avere la garanzia che essi siano sufficientemente universali (cioè che le leggi siano generali) occorre rifarsi agli atti mentali che, come tali, non sono vincolati a fatti linguistici (si noti che di fatto in questo approccio concordano sostanzialmente Boole e Peirce; solo che que­st'ultimo approda poi esplicitamente all'attività simbolizzante, ponendosi su un piano« linguistico» più generale per quanto riguarda l'esprimibilità del pensiero). 3

Questo disinteresse per il linguaggio (abbiamo visto, in questo senso assai meno acuto in Peirce) porta a conseguenze importanti. La prima è l'incapacità a sviluppare il concetto di calcolo deduttivo (si ricordi che ci siamo posti fin dall'ini­zio in una prospettiva « storica » particolare e che quindi quella « incapacità» va in­tesa nel dovuto senso. In altri termini, non professiamo quella «idolatria» sopra la­mentata da Barone). Certo c'è il passaggio da un'equazione all'altra, ma questo non è

I Boole, op.cit., p. 8I, nota:« Gli autori di trattati di logica asseriscono che ogni ragiona­mento si fonda, in ultima analisi, sul dictum de omni et de nullo di Aristotele ... Ma essi convengono nell'affermare che tale dictum non è sempre im­mediatamente applicabile e che, nella maggio­ranza dei casi, è necessario un certo processo pre­liminare di riduzione. Quali sono gli elementi im­pliciti in questo processo di riduzione? Ovvia­mente essi fanno parte del ragionamento nella stessa misura in cui ne fa parte il dictum stesso. Un altro modo per considerare l'argomento risolve ogni ragionamento nell'applicazione dell'uno o dell'altro dei seguenti canoni: I) se due termini convengono a un terzo e medesimo termine essi convengono l'uno all'altro; 2) se un termine con­viene a un terzo termine, e un altro non convie­ne a questo stesso termine, i due termini non convengono l'uno all'altro.

« Ma l'applicazione di questi canoni dipende

da atti mentali equivalenti agli atti di quello che ab­biamo dianzi chiamato processo di riduzione. Pri­ma che noi possiamo servirei della loro guida dobbiamo scegliere individui da classi... Ogni rap­presentazione del processo di ragionamento che non rappresenti tanto le leggi delle operazioni che la mente compie in quel processo, quanto le verità primarie che la mente riconosce e ap­plica, è insufficiente. Si presume che le leggi in que­stione siano rappresentate adeguatamente dalle equazioni fondamentali del nostro calcolo ... ».

2 Che sono appunto le leggi enunciate da Boole, e da noi riportate nel paragrafo III a p. 2 I r.

3 In quanto la logica utens pone in certo senso l'esigenza di una «grammatica speculativa» che è la « scienza delle leggi necessarie del pepsiero o, ancor meglio (avendo sempre luogo il pensiero per mezzo di segni), è semiotica generale, trattante non solo della verità, ma anche delle condizioni generali dei segni in quanto segni ».

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deduzione; Boole insiste sulla convertibilità del processo e sulla possibilità di usare il calcolo come mezzo analitico, di ricerca di soluzioni. Il ruolo preponderante dato alle formule equazionali spinge paradossalmente al margine proprio l'idea di de­duzione. E diciamo paradossalmente non soltanto perché a livello intuitivo rite­niamo si pensi che proprio questa idea debba essere centrale per la logica, ma perché di fatto proprio nel porla effettivamente come centrale in tutta la sua siste­mazione sta la grossa novità di Frege. Il logico algebrista invece che indagare questo concetto lo identifica cioè tout court col processo di soluzione della matemati­ca, cogliendone così, evidentemente, al più degli aspetti particolari. Si può qui azzardare una considerazione che forse potrà essere meglio compresa una volta che avremo parlato di Frege: se, e in senso che dovrebbe risultare abbastanza chiaro, si fossero mantenuti i riferimenti alle strutture del linguaggio naturale, come appunto farà Frege, sarebbe venuto naturale porre come centrale l'idea di deduzione; il fatto è che l 'interesse degli algebristi è per la possibilità di rappresen­tare in forma simbolica le operazioni logiche corrispondenti ad atti logici o men­tali: e la considerazione di « funzioni » porta ad operazioni.

Va anche osservato che l'uso di regole (deduzione) sarebbe parso un ritorno alla vecchia situazione; considerare invece solo equazioni permette di usare prin­cipi di inferenza (regole, appunto, ma) riguardanti solo l'identità e quindi, in certo senso (nel senso di allora), non appartenenti alla logica. La purezza, la gene­ralità della trattazione algebrica sta proprio in questo: nel non far ricorso, nella conduzione del ragionare simbolico, a proprietà che non siano rigidamente date dalle equazioni di partenza che definiscono le operazioni; ed è allora significativo che le proprietà dell'identità (l'unica relazione in generale usata) non fossero con­siderate logiche. In questo senso si comprende anche in particolare il significato e l'importanza dell'introduzione, da parte di McColl e Peirce, della relazione di inclusione o implicazione.

D'altra parte questo porta a un modo particolare di concepire i rapporti fra logica e matematica. Il calcolo logico è una parte della matematica e quindi c'è un'analogia di fondo tra ragionamento matematico e logico. Nella concezione ge­nerale della matematica come studio di calcoli simbolici, la logica non ha più un ruolo particolare (fondante); è molto significativo che essa «decanti», per così dire, un calcolo, è questa certamente una nuova conquista, ma è chiaro che a li­vello di rapporti tra calcoli simbolici questo non comporta nulla di nuovo. L'idea di riprendere da capo, disponendo finalmente di un calcolo logico, tutta la questione della struttura logica dei sistemi deduttivi (geometria, ecc.) non si pone neppure. I rapporti fra matematica e logica sono puramente « analogici »: si ragiona allo stesso modo, ma nessuna delle due fonda l'altra: al di sopra di entrambe c'è l'attività simbolica come riflesso di attività mentale. Ora, questa in­capacità di sfruttare la matematizzazione della logica, questo non vedere il mo­mento « applicativo » della logica, questa incapacità a realizzare un'integrazione

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La svolta della logica nell'Ottocento

più profonda, ha cause abbastanza precisamente individua bili: la prima è che, tutto sommato, l'analisi pura di Boole non può essere tutta la matematica. Boole, come molti degli algebristi, tende a sorvolare sul fatto che esistono strutture matema­tiche concrete le cui proprietà, le cui basi, si possono indagare. L'idea di conside­rare la caratteristica logica come la piu rilevante della matematica porta a dar peso al tipo di procedimento simbolico in essa impiegato, porta allo svincolamento dalla quantità, ma non conduce alle proprietà generali delle strutture matematiche. La tendenza, più che alla fondazione, è all'allargamento del dominio della mate­matica (e questo atteggiamento è più diffuso di quanto non si possa a prima vista pensare: in particolare lo ritroveremo, almeno in un primo momento, anche in Cantar); e questo allargamento è permesso dalla separazione tra simbolo e inter­pretazione. L'idea di controllare le assunzioni di fondo delle teorie concrete, l'idea di sfruttare la logica per questa ricerca, non si pone (tranne eventualmente in Peirce, che ha l'atteggiamento più critico nei confronti dell'algebra della logica). Tutto sommato l'inglobamento della logica nella matematica, creando una frattura fra logica docens e logica utens, porta a lasciare del tutto nel vago il carattere logico delle stesse inferenze matematiche.

E del resto (e veniamo alla seconda causa) lo stesso svincolamento dal lin­guaggio naturale oltre a portare alla incapacità di definire in modo preciso il concetto di inferenza deduttiva, rende anche « impossibile » applicare la logica a singole teorie. I simboli del calcolo logico denotano relazioni, operazioni, classi, proposizioni. Ma come è possibile imporre a questi oggetti limitazioni proprie di teorie matematiche particolari? Come è possibile assiomatizzare entro il calcolo logico una teoria matematica? Non essendo più fissata l'interpretazione dei sim­boli logici, non esistendo una rigida separazione dei livelli logici, ogni applica­zione è ad hoc (tipico il caso schroderiano sopra illustrato brevemente). Qui, ancora, emerge il fatto che ciò che interessa è una classificazione pura degli ar­gomenti, non un'analisi deduttiva. L'accento è sempre posto sulla possibilità di formulare ogni inferenza (singola) entro il calcolo; ma a questo modo, non fis­sando una volta per tutte degli assiomi da cui partire pei: deduzione, è impossibile studiare una teoria nella sua completezza. A voler esser un po' enfatici, si potrebbe concisamente dire che l'esattezza dell'algebra della logica è anche il segno della sua sterilità.

La grande conquista è il concetto di forma, di sistema di simboli, di modo di esprimere formalmente. Ma lo svincolarsi eccessivo dal linguaggio alla ricerca di una classificazione naturale degli argomenti porta a dimenticare la concretezza delle inferenze matematiche e la struttura deduttiva delle teorie.

È servita dunque questa immane elaborazione di oltre cinquant'anni? Indub­biamente la risposta è positiva, ma lo è solo per chi, lungi dal cullarsi nella ap­parente armonica conclusività della sua sistemazione, abbia piuttosto riflettuto sui suoi limiti e sugli spunti in essa contenuti a superada.

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CAPITOLO DECIMO

La teoria dei campi: Maxwell

I · CONSIDERAZIONI PRELIMINARI

Già ricordammo nella sezione VI che spetta a Faraday il merito di avere ideato la nozione di « campo », come un continuum di forze espandentisi ovunque entro lo spazio (onde non avrebbe più senso il concetto di spazio vuoto) e tali da determinare completamente i fenomeni elettrici che ivi hanno luogo. Ma il grande fisico sperimentale non aveva una preparazione sufficiente per com­piere una rigorosa trattazione matematica di questa nozione, cosicché essa fu interpretata dai suoi contemporanei come poco più che un comodo artificio per descrivere fenomeni, la vera origine dei quali andava in ogni caso cercata nelle cariche elettriche che generano il campo. La costruzione del nuovo edificio in tutta la sua imponente architettura, cioè l'elaborazione della teoria dei campi nel senso moderno di questo termine, è invece opera di un fisico della seconda metà del secolo, James Clerk Maxwell.

Prima di accingerci ad esporre la vita e il pensiero di questo scienziato, sarà bene dire qualche parola sul significato generale della teoria, la cui scoperta e la cui traduzione in un preciso sistema di equazioni differenziali (le famose equazioni di Maxwell) costituì, secondo Einstein e Infeld, « l'avvenimento più importante verificatosi in fisica dal tempo di Newton in poi, e ciò non soltanto per la dovizia di contenuto di tali equazioni, ma anche perché esse hanno fornito il modello di un nuovo tipo di legge ». Questa importanza risiede nel fatto che la teoria maxweUiana si presenta quale una fisica del « continuo », contrapposta a quella del discontinuo che aveva dominato per circa due secoli la mente dei ricercatori « come la più qualificata aspirante al ruolo di scienza universale della natura » (Emst Nagel).

Già gli antichi filosofi avevano intuito la possibilità di due modi antitetici di concepire la natura: la teoria del pneuma ideata dagli stoici era, in nuce, una fisica del continuo, antitetica a quella atomistica di Democrito e degli epicurei che era palesemente una fisica del discontinuo; senonché, mentre quest'ultima aveva compiuto da Galileo in poi enormi progressi ed era stata fatta oggetto di una precisa e fecondissima elaborazione matematica, la fisica del continuo, pur so-

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La teoria dei campi: Maxwell

stenuta e difesa da larghi strati di filosofi, non era invece riuscita a trovare una soddisfacente traduzione in formule matematiche, cosicché veniva per lo più giudicata come priva, in ultima istanza, di una vera scientificità. Il grande merito di Maxwell è stato proprio - come poco sopra osservammo - quello di avere dimostrato che risulta possibile renderla anch'essa matematicamente rigorosa, purché si usino strumenti opportuni (diversi da quelli usati da Newton e dai suoi continuatori) e che, così elaborata, la fisica del continuo si rivela in grado di de­scrivere con esattezza i fenomeni elettrici e magnetici, assai più semplicemente e chiaramente della fisica newtoniana.

Stando così le cose, non è difficile comprendere la portata anche filosofica delle nuove idee introdotte da Maxwell, se teniamo presente che esse compor­tano in definitiva una modificazione che ci costringe, volenti o nolenti, a prendere atto che la strutturazione concettuale della scienza tramandataci dai grandi pen­satori delle generazioni precedenti può talvolta costituire per noi una pesante ipoteca e che in certi casi occorre liberarci coraggiosamente di essa se non vo­gliamo arrestare il progresso scientifico.

Come spiegheremo più diffusamente nel paragrafo vn, alcuni interpreti di Maxwell vedono in questa importantissima svolta un vero e proprio abbandono del meccanicismo; altri, pur senza negare che essa abbia inferto un grave colpo al quadro concettuale della vecchia fisica, ritengono invece che il punto più rilevante del distacco di Maxwell dal meccanicismo vada cercato altrove, e pre­cisamente nel nuovo uso che egli fece dei « modelli meccanici »; altri infine ritengono che, malgrado tutto, il nostro autore rimase pur sempre un meccani­cista. Siamo convinti che il problema meriti di venire approfondito, non solo per collocare al suo giusto posto l'importante figura di Maxwell, ma per chia­rire - attraverso questa analisi - il complesso travaglio che accompagnò, nella seconda metà dell'Ottocento, il graduale distacco dei fisici da un modo di pen­sare che aveva contribuito in maniera decisiva al sorgere della scienza moderna.

È con questo intento che ci accingiamo nei prossimi paragrafi a puntualiz­zare le varie fasi dell'opera di Maxwell, mettendo a nudo sia la sua formazione meccanicistica, sia il peso che questa esercitò su di lui nell'impostazione di gran parte delle sue geniali ricerche.

II · VITA E OPERE DI MAXWELL

James Clerk Maxwell nacque a Edimburgo nel 1831 da una famiglia di proprietari terrieri. Compì i primi studi in tale città dimostrando, fin da gio­vanissimo, una spiccata tendenza per la matematica. Dopo aver frequentato per tre anni l'università di Edimburgo, si trasferì nel 1 8 5o a Cambridge ove entrò dapprima al Peterhouse e poco più tardi al Trinity College. Qui riuscì a catti­varsi l 'unanime stima degli insegnanti e dei colleghi, cosicché venne ben presto

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La teoria dei campi: Maxwell

accolto nei più vivaci circoli culturali, in cui si discuteva accanitamente di filo­sofia e di religione oltreché di scienza. Si laureò nel I 8 54·

Rimarrà al Trinity College ancora per due anni, continuando a occuparsi di matematica e di fisica; nel I 8 5 5 pubblica un saggio sui colori, inteso a provare l'esistenza di tre « colori primari ». Aveva intanto iniziato a studiare le opere di Faraday sull'induzione elettrica, rendendosi subito conto delle profonde no­vità ivi contenute. Nel I856 pubblicò una prima geniale memoria sull'argomen­to, dal titolo On Faradày's lines of force (Sulle linee di forza di Faradqy).

In quell'anno venne poi nominato professore di «filosofia naturale» al Marishal College di Aberdeen, carica che manterrà fino al I 86o.

A questo periodo risalgono le prime ricerche di Maxwell sulla teoria cinetica dei gas; egli espose le proprie interessantissime vedute su tale argomento ad un congresso tenuto nel I 8 59 dall'associazione britannica di fisica in Aberdeen, con una relazione dal titolo Illustration of the dynamical theory of gases (Delucida­zione della teoria dinamica dei gas), che verrà pubblicata nel I 86o. Un altro note­vole saggio elaborato nel I 8 56 riguardava invece alcuni classici problemi di meccanica celeste (sull'anello di Saturno).

Nel I 86o passò alla cattedra di « filosofia naturale » del King's College di Londra, ove trascorse cinque anni fra i più fecondi per i suoi studi ed ebbe occa­sione di conoscere personalmente Faraday stringendo con lui una viva amicizia. Durante il quinquennio I86o-65 il nostro autore compose due lavori fonda­mentali sull'elettromagnetismo: On physical lines of forces (Sulle linee fisiche di forza, in quattro parti, I 86 I -62.) e A dynamical theory of electromagnetic fte!d (Una teo­ria dinamica del campo elettromagnetico, I 8 6 5 ), tra i quali sussiste, come vedremo, una notevole diversità di impostazione. Nel I 866 presentò alla Royal Society una rielaborazione della relazione tenuta sette anni prima ad Aberdeen; il suo nuovo titolo era On the dynamical theory of gases (Sulla teoria dinamica dei gas).

Intanto si era ritirato, a partire dal I865, nella casa di campagna che H padre gli aveva lasciato a Glenlair; desiderava infatti dedicare tutto il proprio tempo ad approfondire e perfezionare le teorie abbozzate nei lavori precedenti. Nel I 87I

pubblicò un breve ma importante trattato sul calore, The theory of beat (La teoria del calore), che conobbe in pochi anni varie edizioni; di particolare interesse la quinta (1877) ove sono esposte le vedute di Maxwell sulla termodinamica. Nel I873 uscì la celebre opera Treatise of electricity and magnetism (Trattato di elettricità e magnetismo) in due volumi, che costituisce la più perfetta sistemazione di tut­te le ricerche maxwelliane sull'argomento e viene unanimemente considerata il capolavoro scientifico del nostro autore. Va rilevato che vi è anche introdotto, per l'esposizione matematica della disciplina, un nuovo strumento (di tipo vetto­dale) basato sul metodo dei quaternioni di William Rowan Hamilton. Da allora in poi si comincerà a guardare alla notazione vettoriale come al linguaggio più idoneo alla trattazione dell'elettromagnetismo.

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La teoda dei campi : Maxwell

Dopo il 1870 fu chiamato a coprire la cattedra di fisica sperimentale, proprio allora istituita dall'università di Cambridge. Tale nomina può suscit"are un certo stupore se si tiene conto che Maxwell era soprattutto un fisico-matematico, non uno sperimentale; è tuttavia possibile spiegarla, riflettendo sul modo come egli concepiva i rapporti fra matematizzazione delle teorie e loro conferma empirica. Assai istruttivo sull'argomento è il discorso inaugurale che pronunciò all'inizio del co:rso, contenente una ve:ra e propria esaltazione del valo:re degli esperimenti. Ce:rto è, comunque, che egli si accinse subito con effettivo entusiasmo ad orga­nizzare il laboratorio annesso alla cattedra, intitolato ad Hen:ry Cavendish (il g:rande fisico-chimico inglese del Settecento da noi ricordato nella sezione v), :rivelando anche qui doti di primissimo piano.

È interessante nota:re che Maxwell seppe uni:re all'impegno testé accennato di spe:rimentato:re e di organizzatore un vivo interesse pe:r la storia della disci­plina, di cui gli era stato affidato l'insegnamento; sostenne f:ra l'altro la necessìtà di riprodurre fedelmente gli esperimenti eseguiti dai fisici delle generazioni che ci hanno preceduto, al fine di comprendere il ve:ro significato delle conclusioni che essi ritenevano di poter ricavare dai fatti osservati, e di valutarne con esat­tezza l'autentica portata. Questa impostazione critica sta alla base del saggio da lui pubblicato nel I 879 (insieme ad una preziosa raccolta di scritti di Cavendish) col titolo The electrical researches ~~ the honorable Henry Cavendish (Le ricerche elettri­che di Henry Cavendish). L'opera costituisce anco:r oggi un contributo prezioso alla storia dell'elettrologia.

Tre anni prima era uscito uno studio acuto e preciso del nostro autore sui concetti fondamentali della dinamica, Matter and motion (Materia e movimento, I 876), che tende a fornire una esatta delimitazione di questa disciplina. Al me­desimo periodo risalgono vari articoli (sull'atomo, l'etere, ecc.) da lui scritti per l'enciclopedia britannica; è una collaborazione assai significativa, che dimostra la profonda convinzione - che Maxwell condivideva con molti contempo­ranei- dell'importanza spettante a una seria divulgazione delle idee scientifiche.

Merita infine di venire ricordato che i molti impegni scientifico-accademici non diminuirono mai in lui, l'interesse provato fin dalla giovinezza pe:r i pro­blemi religiosi. Rimase infatti sempre convinto che scienza e religione potessero (e dovessero) venire conciliate l'una con l'altra. Anche questo è, a nostro parere, un fatto molto significativo, che vale ad illuminarci sull'orientamento culturale che in quegli anni era dominante in Gran Bretagna; esso ci aiuta a comprendere perché il problema dei :rapporti tra scienza e :religione occupa un posto centrale negli stessi scritti dei positivisti, come Mill e Spencer.

Maxwell morì nel I 879, all'età di soli qua:rantotto anni.

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III · LE RICERCHE SULLA TEORIA CINETICA DEI GAS

Come abbiamo accennato nel paragrafo precedente, Maxwell provò costan­temente un vivo interesse per il grande patrimonio accumulato, in secoli di scru­polosa e feconda ricerca, dalla scienza newtoniana. Lo testimoniano sia i lavori della prima giovinezza sulla teoria dei colori e sull'anello di Saturno, sia lo scritto Materia e movimento del I 876. Ma non occorre rivolgerei ad essi per valutare l'in­fluenza su di lui esercitata dall'impostazione classica della fisica; ancora più istruttivo ci sembra prendere in esame le varie tappe attraverso cui egli pervenne alle sue più originali scoperte, che riguardano la teoria cinetica dei gas e l'elettro­magnetismo.

Riservandoci di dedicare un più ampio spazio a quest'ultimo argomento, ri­teniamo utile fornire qualche notizia anche intorno al primo, sebbene fuoriesca dal tema specifico del presente capitolo; esso ci sembra infatti particolarmente idoneo ad illustrare la posizione - per così dire di transizione - propria del nostro autore. Saremo comunque molto schematici, perché la teoria cinetica dei gas risulta notoriamente connessa, in modo assai stretto, allo sviluppo della ter­modinamica, e questo è un argomento che abbiamo deciso di rinviare, per esi­genze di ordine e di chiarezza, al prossimo capitolo.

Come è noto, il primo abbozzo della teoria cinetica dei gas (che Maxwell chiamava ancora teoria dinamica) risale a uno scienziato del Settecento, Daniel Bernoulli; il punto centrale di essa consiste nell'ipotesi che le particelle ultime (atomi o molecole che dir si voglia) di una data massa gassosa siano in perenne movimento le qne rispetto alle altre, e che proprio in questo movimento vada cercata la radice profonda delle leggi che regolano il comportamento macrosco­pico della massa anzidetta. Poiché in questo comportamento intervengono tre fattori fondamentali - volume occupato dalla massa gassosa in esame (cioè dal recipiente in cui è rinchiusa), pressione da essa esercitata sulle pareti di tale reci­piente, e temperatura del gas ·- la teotjia in questione esige che anche questo terzo fattore venga spiegato a: partire dal moto delle molecole. Ciò comporta che il calore debba essere interpretato non come un fluido a sé (il calorico) ma come una manifestazione del moto delle molecole anzidette, e cioè come la somma delle loro energie di movimento.

L'impianto meccanicistico della teoria è evidente; esso risulta particolar­mente chiaro dalla riduzione, che vi si compie, delle proprietà termiche dei gas a proprietà dinamiche delle loro molecole. Il grande problema di fronte a cui si trovarono i fisici della seconda metà del XIX secolo, fu quello di spiegare, in base alla teoria in esame, non solo le leggi - già da tempo note - che pongono in relazione fra loro il volume, la pressione e la temperatura di una massa gassosa, ma anche i principi generali della termodinamica, scoperti nella prima metà del secolo e ben presto rivelatisi (verso il I 8 5o) di importanza centrale sia per la

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scienza pura sia per quella applicata. Orbene, rinviando - come già si è detto -al prossimo capitolo l'analisi di tale problema nella sua globalità, e l'esposizione delle linee generali lungo le quali esso venne risolto, ciò che qui intendiamo sot­tolineare è che il contributo recato da Maxwell a tale soluzione fu di importanza veramente notevole. È un contributo che segnò l'inizio di una nuova fase entro l'impianto fondamentalmente meccanicistico della teoria, e che proprio perciò finì per accelerare la crisi del meccanicismo fisico.

L'idea sostanzialmente nuova introdotta dal nostro autore nella teoria ci­netica dei gas può venire così riassunta: mentre, per semplificare l'analisi mate­matica del fenomeno, si era fino allora ritenuto lecito attribuire una medesima velocità a tutte le molecole costituenti la massa considerata di gas (nell'ipo­tesi - ovviamente - che essa si trovi in equilibrio termico), Maxwell intuì che tale attribuzione risultava scarsamente plausibile; ammise pertanto che le velocità anzidette possano essere fra loro diverse in direzione e in grandezza, concludendone che le proprietà macroscopiche della massa gassosa risulteranno collegate, in realtà, alla media della velocità in questione.

Di qui l'importanza di precisare la legge statistica secondo cui queste velo­cità si distribuiscono sull'insieme delle varie molecole: essa ci fornirà la chiave per raggiungere la spiegazione desiderata. Partendo da queste premesse, il nostro autore giunse - in base a un ragionamento non perfettamente rigoroso ma so­stanzialmente giusto - a dimostrare teoricamente quello che oggi porta il nome di « teorema di distribuzione di Maxwell »; esso determina, in funzione della velocità u, la probabilità che una molecola abbia una velocità compresa, in gran­dezza, fra u e u + du, quando sia data la temperatura del gas. Ormai la via era aperta per una trattazione matematica radicalmente nuova di tutto il problema; su questa via si porrà subito il fisico austriaco Ludwig Boltzmann pervenendo a risultati, divenuti in breve tempo classici, che faranno della teoria cinetica uno dei capisaldi della fisica ottocentesca. Nei primi decenni del xx secolo si riuscirà pure a verificare direttamente, con opportuni dispositivi sperimentali, la validità del « teorema » di Maxwell.

Ciò che più interessa, dal punto di vista metodologico, è che - con i lavori di Maxwell e di Boltzmann -il calcolo delle probabilità entrava a far parte, come uno dei suoi componenti essenziali, dell'apparato matematico in uso nella fisica. Il ricorso a questo tipo di calcolo non comportava di per sé - è bene notarlo in modo esplicito - una totale rinuncia al vecchio determinismo laplaciano, poten­dosi sempre pensare che il moto di ogni singola molecola risulti « in realtà » determinato secondo le leggi della meccanica classica, e che l'uso di metodi sta­tistici sia per noi necessario solo per l'impossibilità pratica in cui ci troviamo di seguire i singoli percorsi. Si avrebbe cioè un semplice caso di divario tra ciò che accade nel mondo « oggettivo » e ciò che siamo in grado di descrivere di esso. 1

1 Per sottolineare la profonda differenza tra la posizione testé accennata e quella dei « fisici

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Pur nei limiti testé accennati, trattavasi comunque di una svolta della massima importanza, destinata a ripercuotersi rapidamente in tutto il successivo sviluppo della fisica; basti tenere presente che i risultati ottenuti da Boltzmann lungo la via aperta da Maxwell porteranno a riformulare in senso probabilistico il secondo principio della termodinamica, modificandone profondamente il significato ori­ginario.

Possiamo dire che queste nuove idee rientravano ancora nel quadro del mec­canicismo? Anche se vogliamo dare a questa domanda una risposta positiva, dob­biamo però riconoscere che ne lasciavano intravvedere la prossima fine. È co­munque degno di nota, che Maxwell pervenne ad esse proprio partendo da un'im­postazione meccanicistica dell'indagine, e cercando di svolgerla nel pieno rispetto dei canoni «classici».

IV · LE PRIME OPERE

SULL'ELETTRICITÀ E SUL MAGNETISMO

Già sappiamo che Maxwell intuì molto bene, fin dal 1856, l'enorme impor­tanza della nuova interpretazione, abbozzata da Faraday, dei fenomeni elettrici e magnetici. Si rese cioè conto che essa costituiva una vera e propria svolta nel modo di concepire tali fenomeni, comportando il totale abbandono dell'interpre­tazione (di tipo newtoniano ), fino a quel momento accolta dalla maggioranza dei fisici, che voleva scorgervi un caso di « azione a distanza ». Senonché, pur rico­noscendo la piena validità degli esperimenti ideati da Faraday per dimostrare che nei fenomeni anzidetti è anche interessato il mezzo interposto fra le cariche (o fra i poli magnetici), Maxwell si rese pure conto che il concetto di campo intro­dotto per spiegare teoricamente gli ingegnosi esperimenti eseguiti era ingenuo e confuso.

Faraday aveva sì tentato di descrivere il campo (elettrico o magnetico) come un insieme di linee di forza che si estendono in varie direzioni a partire dalle ca­riche (o dai magneti), ma non si era poi preoccupato di fornire un'esatta defini­zione di queste linee. I suoi avversari avevano pertanto buon gioco di sostenere che esse non erano altro se non un'arbitraria idealizzazione di ciò che accade per la limatura di ferro, allorché viene sparsa sopra un foglio appoggiato ad una cala­mita. Per rispondere alle loro critiche, occorreva trovare il modo di dare a tali linee un vero e proprio status scientifico, svincolandole dall'esempio testé ac­cennato.

Il saggio del 1 8 56 si sforza di raggiungere questo scopo sulla base di una semplice ma chiara analogia fra l'insieme delle linee di forza di cui parlava Fa-

probabilisti » del xx secolo, possiamo dire che questi ultimi tenteranno di introdurre la pro­babilità come nuova categoria del mondo fisico,

mentre Maxwell, Boltzmann e i loro seguaci si limitarono a introdurla come categoria della scien­za fisica.

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raday e un insieme di sottilissimi tubicini di sezione variabile, pieni di fluido in­compressibile. Assimilando la trasmissione dell'energia .elettrica allo sposta­mento di questo fluido (spostamento analizzabile sulla base delle leggi di una teoria avente indiscussa dignità scientifica come l'idrodinamica), il nostro autore poté giungere ad una prima formulazione, abbastanza precisa e coerente, della teoria di Faraday. Non era ancora un risultato definitivo, ma era certo un passo di non trascurabile importanza. È interessante notare che, in tale elaborazione, Maxwell non introduceva alcuna ipotesi sulla natura dell'elettricità; e anche questo po­teva essere utile, per non suscitare sospetti presso i fisici-matematici della scuola classica.

Assai più impegnativo è il grande lavoro del I861-62., perché vi viene de­lineato, con molti particolari, un vero e proprio modello meccanico dell'indu­zione elettromagnetica, modello che risulta pure idoneo a spiegare l'attrazione e repulsione fra cariche elettriche (e fra poli magnetici). Il tentativo di giustificare la nuova teoria facendo ricorso a un modello meccanico non deve stupirei; l'educazione scientifica ricevuta in giovinezza aveva lasciato in Maxwell un'im­pronta così forte da indurlo a ritenere che questa era l 'unica via per rendere ac­cettabili le concezioni abbozzate da Faraday.

Il modello maxwelliano è costituito da un complesso meccanismo di cilindri ruotanti (o vortici), tra i quali sarebbero interposte lunghe file di sferette, ciascuna capace - essa pure - di un moto rotatorio. Gli assi di rotazione dei vortici risul­terebbero paralleli a quelle che Faraday aveva chiamato <(linee di forza» del campo magnetico; le varie velocità di rotazione di tali vortici produrrebbero in essi una tendenza a contrarsi o a dilatarsi. Le sferette sarebbero invece particelle di elettricità, e il loro moto costituirebbe una corrente elettrica.

Le leggi della meccanica classica applicate al moto dei vortici anzidetti e delle sferette interposte risulterebbero in grado di spiegare come una variazione del campo magnetico possa produrre una corrente elettrica e, viceversa, il moto delle particelle elettriche generi una deformazione del campo magnetico. Un seguito di ingegnose considerazioni mostrerebbe poi che il complesso meccanismo è anche in grado di spiegare i fenomeni dell'elettrostatica e della magnetostatica.

Senza insistere su maggiori particolari, ci limiteremo a ribadire che il ricorso a un modello siffatto rientrava perfettamente nel programma della scienza mec­canicistica. La cosa è particolarmente significativa perché ci offre l'occasione di porre in luce la notevole svolta subita dalla concezione maxwelliana fra il I 862. e il '64. Ed infatti nel saggio di quest'ultimo anno il nostro autore non fa più parola del modello descritto due anni prima, ma si preoccupa unicamente di sviluppàre una teoria matematica dei fenomeni elettromagnetici, di tradurli in equazioni e di ricavare da esse tutte le conseguenze che ne discendono logica­mente. Il risultato ottenuto è una prima formulazione delle famose equazioni del campo, che verranno poi esposte in termini più rigorosi nel Trattato del 1873.

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È ben comprensibile che, mentre il tipo di trattazione del 1861-62. aveva riscosso la piena approvazione dei più fedeli seguaci del meccanicismo, quello del '73 suscitò invece fra essi forti perplessità.

V · L'ETERE

Parlando nel paragrafo precedente del lavoro di Maxwell del 1861-62. non abbiamo, volutamente, fatto cenno ad una delle più importanti scoperte ivi abbozzate (quella delle onde elettromagnetiche); la ragione di ciò consiste nel fatto che tale argomento richiedeva un discorso specifico su di un problema più generale, quello dell'etere.

Il modello dei cilindri e delle sferette, da noi schematicamente riferito, in­duceva Maxwell ad attribuire al sistema portante del magnetismo e dell'elettricità una vera e propria elasticità, grazie alla quale non solo i mutamenti nella forza magnetica producono mutamenti in quella elettrica e viceversa, ma tali mutamenti si propagano dal punto in cui hanno avuto luogo in tutte le direzioni dello spazio circostante. È stato lo studio approfondito di questa propagazione a fare sorgere in lui l'idea delle onde elettromagnetiche, ed a fargli scoprire che esse debbono venire considerate come trasversali rispetto alla direzione lungo la quale si propagano.

Ma già i fisici della generazione precedente erano stati condotti ad ammettere qualcosa di molto simile per la luce: cioè ad ammettere che questa consista di vibrazioni dell'etere, trasversali rispetto alla direzione del raggio luminoso. Di qui l'ipotesi sorta quasi spontaneamente in Maxwell, che tra le onde elettroma­gnetiche e le onde luminose dovesse esistere una stretta affinità.

Il nostro autore non era però uomo che potesse accontentarsi di un'ipotesi generica, per quanto affascinante. Si trattava dunque di darle una formulazione rigorosa, che potesse garantirne la piena dignità scientifica.

Ancora una volta lo strumento cui egli fa ricorso è quello di costruire con dovizia di particolari un modello ideale dell'etere. Esso dovrà risultare capace, per un verso, di spiegare la funzione attribuitagli ormai unanimemente dagli studiosi di ottica (cioè la funzione di trasmettere le onde luminose concepite, come si è detto, quali onde trasversali rispetto alla direzione del raggio di luce), e capace, per un altro verso, di spiegare l'affinità poco sopra accennata fra le onde luminose e quelle elettromagnetiche.

Effettivamente, il modello ideato all'uopo da Maxwell (sul cui funziona­mento preferiamo non scendere in particolari) si rivelò discretamente idoneo ad adempiere i due compiti testé accennati. Esso gli permise fra l'altro di cogliere il grande significato di un risultato sperimentale, scoperto pochi anni prima (nel 1852.) dai due fisici tedeschi Wilhelm Weber e Rudolf Kohlrausch: la quasi identità tra il valore della velocità della luce e quello del rapporto tra unità elet-

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trostatica e unità elettrodinamica delle cariche (rapporto avente, esso pure, le di­mensioni di una velocità). Riflettendo su tale risultato il nostro autore giunse all'importantissima conclusione che le onde elettromagnetiche e le onde luminose si propagano con la medesima velocità. Non era ancora, a rigore, la formulazione esplicita della natura elettromagnetica della luce, ma era un passo decisivo verso di essa.

Non è il caso di ripetere, dopo quanto chiarimmo nel paragrafo precedente, che anche la costruzione di un modello dell'etere rientrava incontestabilmente nel programma della fisica meccanicistica. Certo è, comunque, che quello maxwel­liano si rivelò particolarmente felice, riuscendo ad eliminare parecchie difficoltà per l'innanzi riscontrate da quasi tutti i fisici in tale strano fluido, e quindi accre­scendo l'accettabilità della sua esistenza. Con esso il programma meccanicista dimostrava di essere ancora in grado di fornire agli scienziati utili suggerimenti.

Col trascorrere del tempo anche questo modello perse però, agli occhi dello stesso Maxwell, gran parte del proprio interesse. Esso gli era servito per intuire la profonda identità fra onde elettromagnetiche e onde luminose; una volta compiuta questa funzione, poteva ormai venire abbandonato come i modelli precedenti.

Già nell'opera del 1864 il nostro autore si limita a parlare dell'etere come di un mezzo elastico, estremamente sottile, che ha l'unico compito di fungere da veicolo delle onde elettromagnetiche e luminose.

Nel 1873 egli identificherà tale «fluido immaginario» con il mezzo portante delle onde anzidette, senza attribuirgli alcuna altra proprietà fisica se non quella, appunto, di trasportare onde elettromagnetiche. Non lo interessa più, ormai, di costruire un'immagine visualizzabile dell'etere; ma solo di formulare con esat­tezza le equazioni differenziali che regolano i fenomeni in esso verificantisi. La trattazione matematica ha finito per eclissare ogni spiegazione modellistica.

VI · LA TEORIA MAX\VELLIANA

DEL CAMPO ELETTROMAGNETICO

Abbiamo già detto più volte che il principale scopo propostosi da Maxwell nelle sue ricerche sull'elettromagnetismo fu quello di tradurre in forma mate­matica precisa le idee di Faraday, dimostrando con ciò ai fisici-matematici seguaci della grande tradizione newtoniana che anche la fisica del continuo poteva venire elevata al rango di autentica scienza, altrettanto bene quanto la fisica del discon­tinuo. Talvolta egli sembra anzi sostenere che il valore dell'una equivale a quello dell'altra, malgrado l'opposizione radicale dei loro metodi e dei loro punti di partenza: «Allorché io ebbi rivestito di forma matematica quelle che mi pare­vano le idee di Faraday, vidi che in generale le conclusioni ottenute coi due me­todi si accordavano, sicché dello stesso fenomeno si poteva dar ragione nei due

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modi arrivando a stabilire le stesse leggi, ma i metodi di Faraday somigliano a quelli, nei quali si procede all'analisi delle parti muovendo dal tutto, mentre i soliti metodi matematici muovono dalle parti e costruiscono il tutto per via di sintesi. »

In realtà, se in taluni casi i due metodi conducono effettivamente alle mede­sime leggi, vero è però che in molti altri il nuovo metodo porta a conclusioni che sfuggivano completamente al metodo precedente. Basti citare a titolo di esempio la « polarizzazione elettrica dei dielettrici » che resta inspiegabile dal punto di vista « classico », mentre assume invece un ruolo fondamentale nella concezione maxwelliana; essa permette al nostro autore di definire con esattezza le cosiddette «correnti di spostamento», facendo appello alle quali egli riesce ad eliminare il grave divario fin allora esistente nella trattazione dei circuiti « chiusi » e di quelli « aperti ».

Non è il caso di riportare qui le equazioni di Maxwell, che risultano incom­prensibili a chi non possegga un adeguato bagaglio di nozioni tecniche; il lettore che lo desideri può del resto andarle a leggere in un qualsiasi trattato moderno di fisica. In esse il metodo poco fa caratterizzato da Maxwell come trapasso dal tutto alle parti, trova riscontro nel fatto che egli suppone determinata - in un dato istante - la distribuzione -del vettore elettrico E e del vettore magnetico H in tutti i punti dello spazio (per esempio E dovrà essere definito anche nel die­lettrico e non solo nei conduttori): così l'intero spazio potrà venire considerato come « campo » elettrico e magnetico (o campo elettromagnetico), senza escludere ovviamente che esso risulti « più forte » in alcune zone e « più debole » in altre. Va detto, per inciso, che l'ipotesi testé accennata, secondo cui E e H sono deter­minati in tutti i punti dello spazio, non implica che noi ne conosciamo gli ef­fettivi valori in ogni punto; in genere accadrà invece che li conosciamo soltanto nei punti di una regione e in un dato istante. Si tratterà allora di determinarne i valori anche al di fuori di questa regione e in istanti successivi. Orbene, le equa­zioni di Maxwell ci forniscono proprio lo strumento ad hoc, in quanto determi­nano i nessi reciproci fra le variazioni del campo elettrico e quelle del campo magnetico. Esse pongono in luce l'esistenza di una sostanziale simmetria fra elet­tricità e magnetismo, e riassumono in sé tutte le leggi valide per questi due im­portantissimi settori dell'esperienza.

Le differenze di fondo tra l 'impostazione maxwelliana e quella « classica » della trattazione dei fenomeni in esame, sono state mirabilmente illustrate da Einstein e Infeld in alcune pagine del volume L'evoluzione della fisica, che meritano di venire qui riportate per la loro straordinaria chiarezza e la loro accessibilità anche ai non specialisti.

« Le equazioni di Maxwell definiscono la struttura del campo elettromagne­tico. Sono leggi valide nell'intero spazio e non soltanto nei punti in cui materia o cariche elettriche sono presenti, com'è il caso per le leggi meccaniche.

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La teoria dei campi: Maxwell

« Rammentiamo come stanno le cose in meccanica. Conoscendo posizione e velocità di una particella, in un dato istante, e conoscendo inoltre le forze agenti su di essa, è possibile prevedere l'intero percorso futuro della particella stessa. Nella teoria di Maxwell invece basta conoscere il campo in un dato istante per poter dedurre dalle equazioni omonime in qual modo l 'intero campo varierà nello spazio e nel tempo. Le equazioni di Maxwell permettono di seguire le vi­cende del campo, così come le equazioni della meccanica consentono di seguire le vicende di particelle materiali.

« Ma fra le leggi della meccanica e quelle di Maxwell sussiste un 'ulteriore dif­ferenza essenziale. Un confronto fra le leggi di gravitazione di Newton e le leggi del campo di Maxwell porrà in rilievo alcuni dei tratti caratteristici di queste ulti­me e delle rispettive equazioni.

« Mediante le leggi di Newton possiamo dedurre il moto della Terra, dalla forza agente fra Sole e Terra. Dette leggi collegano il moto della nostra Terra con il lontano Sole. Benché così distanti l'una dall'altro, Terra e Sole prendono ambedue parte allo spettacolo delle forze agenti, in qualità di attori.

«Nella teoria di Maxwell non vi sono attori materiali. Le equazioni mate­matiche di questa teoria esprimono le leggi governanti il campo elettromagne­tico. Non collegano, come nelle leggi di Newton, due eventi separati da una grandissima distanza; non collegano ciò che succede "qui'' con le condizioni imperanti "colà". Il campo "qui " ed "ora " dipende dal campo nell'immediata vicinanza, e nell'istante appena trascorso. Le equazioni del campo consentono di predire ciò che avverrà un poco più lungi nello spazio ed un poco più tardi nel tempo, se sappiamo ciò che avviene qui ed ora. Esse ci mettono in grado di esten­dere a piccolissimi passi la nostra conoscenza del campo. Sommando tutti questi piccoli passi, possiamo dedurre ciò che succede qui, da ciò che avviene a grande distanza. Nella teoria di Newton al contrario, non si hanno che lunghi passi fra eventi distanti. Gli esperimenti di Oersted e di Faraday possono dedursi dalla teoria del campo elettromagnetico, ma saltando sommando tanti piccoli passi, ognuno dei quali è governato dalle equazioni di Maxwell. »

Usando come oggi si è soliti la notazione vettoriale delle equazioni di Maxwell, il fatto importantissimo che esse eliminano ogni azione a distanza si traduce nella seguente affermazione: che il rotore di E e quello di H dipendono soltanto da proprietà locali del campo elettromagnetico.

VII · MAXWELL E IL MECCANICISMO

Accennammo fin dal paragrafo I alla complessità del problema concer­nente i rapporti tra Maxwell e il meccanicismo; ora è giunto il momento di aggiungere in proposito qualche notizia più precisa.

Parecchi studiosi ritengono che la fisica maxwelliana fuoriesca sostanzial-

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La teoria dei campi: Maxwell

mente dal quadro di tale indirizzo perché basata - come testé abbiamo visto -sul totale abbandono del principio newtoniano dell'azione a distanza. Di tale pa­rere sono ad esempio Einstein e Infeld, come dimostrano le seguenti parole ri­cavate dal volume testé citato:

«L'antico criterio meccanicistico tendeva a ridurre tutti gli eventi della natura a forze agenti fra particelle elementari... Per il fisico dei primi anni del XIX secolo il campo non esisteva. Egli considerava come reali soltanto la sostanza e le sue modificazioni. Egli tentava di descrivere l'azione di due cariche elettriche unicamente mediante concetti afferenti direttamente alle cariche stesse. Al prin­cipio il concetto di campo non fu altro che uno strumento volto ad agevolare la comprensione dei fenomeni dal punto di vista meccanico. Ma nel nuovo linguag­gio del campo l'essenziale per la comprensione dell'azione fra le due cariche, è la descrizione del campo interposto fra di esse, e non già le cariche stesse. L'ac­cettazione del nuovo concetto si affermò progressivamente, e finalmente il campo lasciò in ombra la sostanza. Ci si accorse allora che qualcosa di molto importante era avvenuto in fisica. Si era creata una nuova realtà, un nuovo concetto che non trovava posto nello schema meccanicistico. »

All'opinione, pur autorevolissima, di Einstein e Infeld si può tuttavia obiet­tare che essa commette l'errore di identificare tutto l'indirizzo meccanicistico con il particolare tipo di meccanicismo di marca newtoniana, diffuso tra i fisici del XIX secolo. Noi sappiamo però dalla sezione IV che in realtà il meccanicismo rap­presentò un indirizzo filosofico-scientifico assai più ampio, per nulla legato alle nozioni di particella elementare e di azione a distanza: basti ricordare che uno dei primi sostenitori di esso fu proprio Cartesio (notoriamente contrario ad ogni concezione atomistica della sostanza estesa), e che furono per l'appunto i suoi continuatori gli avversari più decisi dell'azione a distanza postulata da Newton, in cui, anzi, essi scorgevano l'intrusione di idee di origine animistica, tutt'altro che conformi ai canoni meccanicistici.

Tenuto conto di ciò, risulta ben comprensibile che si sia pensato di cercare qualche altro punto più atto a caratterizzare il distacco di Maxwell dal meccani­cismo. Lo si è trovato nel suo modo disinvolto di usare i modelli meccanici del campo elettrico e magnetico, servendosi di essi solo come punto di partenza per ideare una nuova concezione dei fenomeni studiati, e !asciandoli poi cadere non appena questa concezione fosse stata sufficientemente chiarita, sì da poter venire tradotta in precisi termini matematici. Tale fu ad esempio il parere di Federigo Enriques, il quale sostenne che i modelli venivano adoperati da Maxwell unica­mente come intermediari tra i fenomeni osservati e le equazioni esprimenti le loro leggi. 1

I Analoga tesi è stata recentemente soste­nuta da Evandro Agazzi il quale afferma che Maxwell si serviva di modelli solo « come ipotesi

euristica preliminare nello studio di nuovi fatti », col preciso intento di evitarne « una teoria prema­tura».

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La teoria dei campi: Maxwell

Un intransigente antimeccanicista come Pierre Duhem dedicò invece fin dal lontano 1902 un ampio lavoro alle teorie elettrichç di Maxwell, soprattutto per dimostrare che esse non costituivano affatto - come taluni parevano credere -una radicale innovazione della metodologia classica della fisica. Secondo Duhem, che si sofferma volentieri a sottolineare le numerose manchevolezze logiche delle argomentazioni maxwelliane, il nostro autore non avrebbe mai rinunciato in modo definitivo a rappresentarsi i fenomeni elettromagnetici mediante modelli; la ragione di ciò sarebbe che egli, come peraltro tutti i fisici inglesi dell'epoca, scorgeva nei modelli l'unico strumento veramente capace di visualizzare le teorie fisiche, cioè capace di farne qualcosa di concreto e di tangibile (in accordo con i canoni di un certo empirismo).

Per quanto riguarda la tesi che l'abbandono della teoria dell'azione a distanza abbia costituito per Maxwell solo un distacco dal meccanicismo newtoniano e non dal meccanicismo in generale, vorremmo osservare che, malgrado la sua in­contestabile esattezza, essa non può farci dimenticare che la cultura ottocentesca soleva proprio vedere nelle teorie di Newton l'esemplare più tipico del mec­canicismo. Tale era il parere non solo dei fisici, ma anche di quasi tutti i filosofi, in particolare di quelli legati alla tradizione romantica (si vedano i vari capitoli della sezione vr, dedicati appunto al romanticismo). Il gravissimo colpo infetto da Maxwell alla concezione sostanzialmente newtoniana dei fenomeni elettrici e magnetici, fin allora sostenuta dalla gran maggioranza dei fisici, ebbe pertanto, agli occhi dei suoi contemporanei, un chiaro e indiscutibile significato antimec­canicistico; e ciò, a nostro parere, è un motivo sufficiente per considerarlo uno dei più importanti fattori della profonda crisi verso cui si avviò il secolare in­dirizzo.

Quanto alle osservazioni di Duhem circa la scarsa consapevolezza metodo­logica di Maxwell nei riguardi dell'effettiva funzione dei modelli, possiamo senz'altro riconoscere che il grande fisico britannico non si preoccupò di giusti­ficare teoricamente il modo disinvolto con cui egli si serviva di essi nello sviluppo delle proprie teorie. Ciò non può tuttavia farci dimenticare che, di fatto, egli finì per rinunciare ai modelli in un primo tempo ideati, senza tentare di costruirne degli altri. Se è vero che rimase in certo senso titubante di fronte al valore ad essi attribuibile, ci sembra che le sue incertezze denotino soltanto quanto fosse difficile, anche per un fisico della sua statura, liberarsi completamente dal fascino di un metodo fin allora usato con tanto successo.

Il fatto è che l'abbandono del meccanicismo fu un processo lento e com­plesso, e non è demerito di Maxwell non averlo portato a compimento da solo. Esso non poteva essere che il risultato del lavoro di molti scienziati che, muoven­dosi in campi diversi, e spesso in piena indipendenza reciproca, riuscirono a scal­firne or l'uno or l'altro caposaldo, sì da aprire a poco a poco la via ad un succes­sivo, radicale, rinnovamento della fisica.

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VIII · MATEMATICA ED ESPERIENZA

Nella prefazione alla prima edizione del Trattato del I 87 3 Maxwell traccia le linee generali del proprio programma. Possiamo così riassumerle: I) mostrare che i più importanti fenomeni elettrici e magnetici possono venire sottoposti a misurazione; 2) cercare le relazioni matematiche che intercorrono tra le quali­tà così misurate; 3) ricavare le conseguenze più generali dai dati d'osserva­zione, valendosi per l'appunto di tutti gli strumenti che ci sono forniti dalla matematica; 4) applicare questi risultati a casi semplici, che permettano una fa­cile verifica dei risultati stessi; 5) porre in luce i rapporti esistenti tra le formule matematiche della teoria elettromagnetica e quelle della dinamica classica.

I primi quattro punti collocano in modo palese la metodologia di Maxwell entro la grande tradizione galileiano-newtoniana della scienza moderna; ci di­cono infatti che la ricerca scientifica deve fare simultaneamente appello all'espe­rienza e all'elaborazione matematica dei dati d'osservazione. Il quinto è forse il più interessante perché ribadisce, sia pure in forma implicita, quanto abbiamo cer­cato di chiarire nel paragrafo precedente circa la posizione del nostro autore di fronte ai fisici meccanicisti dell'Ottocento: mentre questi si dimostravano certi a priori che le formule matematiche usate con tanto successo dalla dinamica newtoniana sarebbero riuscite, se ben applicate, a farci comprendere in modo altrettanto perfetto anche i fenomeni elettrici e magnetici, Maxwell si limitava a dire che il Trattato dovrà analizzare con la massima cura i rapporti effettivamente esistenti fra il tipo di matematica usato nella teorizzazione di questi fenomeni e quello usato in altri settori della fisica da Newton e dai suoi illustri e valentis­simi continuatori. Ciò che egli propone è dunque nulla più che un esatto con­fronto fra i due; ma già sappiamo che da questo confronto scaturirà proprio la loro radicale differenza.

In effetti le equazioni di Maxwell, che sono equazioni differenziali alle de­rivate parziali, posseggono una struttura nettamente diversa da quella delle equazioni più caratteristiche della meccanica newtoniana; ed è per l'appunto la loro nuova struttura ciò che ci permette di applicarle con successo allo studio delle « vicende del campo » anziché allo studio delle « vicende di particelle ma­teriali».

Ora sorge però spontanea la domanda: quale è la teoria generale in cui il nostro autore pensava di inquadrare le proprie equazioni? È ovvio, infatti, che essa non poteva più essere quella esplicitamente o implicitamente accolta, ormai da secoli, da pressoché tutti i fisici moderni (si pensi per esempio a Laplace).

La risposta più interessante a questo quesito è stata fornita da Hertz, uno dei massimi conoscitori delle opere maxwelliane (su di lui ritorneremo brevemente

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La teoria dei campi : Maxwell

nel prossimo paragrafo) : « La teoria di Maxwell è il sistema delle equazioni di Maxwell. » È una risposta apparentemente banale, che si è prestata a molte di­scussioni: Duhem giunse a interpretarla come l'affermazione che le famose equazioni costituivano per Maxwell una specie di « modello » (il che conferme­rebbe l'effettiva incapacità dello scienziato britannico di fare della fisica senza modelli). A nostro parere la risposta di Hertz dice invece una cosa completa­mente diversa e molto indicativa. Essa ci dice che Maxwell non riteneva di dover completare la matematizzazione deifenomenicon l'aggiunta di una teoria: matematizzazione e teorizzazione erano per lui coincidenti.

Ci sembra opportuno sottolineare l'importanza di questa tesi. Quando per spiegare un fenomeno si pensava di doverlo inquadrare in una concezione filosofica della natura, o per lo meno di doverne· costruire un modello di imme­diata intuibilità è ben comprensibile che teorizzazione e matematizzazione do­vessero costituire due momenti diversi della ricerca scientifica: alla teorizza­zione spettava il compito più elevato di farci effettivamente capire i fenomeni fisici, alla matematizzazione era invece riservato un compito più modesto, di fornirci i mezzi per calcolare il loro decorso e di guidare in tal modo la «scienza applicata». Ma una volta messa veramente da parte l'esigenza di una conoscenza « metafisica » della natura e ridotti i modelli a semplici ausilii della ricerca (da abbandonarsi a ricerca compiuta), che senso potrebbe avere la pretesa di cercare qualcos'altro, oltre i dati osservativi e la loro traduzione in formule?

Non vogliamo qui sostenere che Maxwell fosse pienamente consapevole della tesi testé accennata; forse avevano avuto una consapevolezza maggiore della sua i due matematico-fisici Fourier e Hamilton dei quali spiegammo, nella sezione VI, il mirabile sforzo per matematizzare la termologia e l'ottica senza impegnarsi in alcun preciso modello del calore e della luce. Certo è però, che l'esempio da essi fornito era ben presente al nostro autore; come pure è certo che il suo sistema di equazioni operò, entro lo sviluppo della scienza ottocen­tesca, proprio nel senso da noi accennato, e cioè come potente stimolo a fare della fisica-matematica una disciplina autonoma.

Si potranno muovere a Maxwell parecchie obiezioni; gli si potranno rim­proverare una scarsa consapevolezza metodologica, uno scarso rigore nelle di­mostrazioni matematiche, un'insufficiente giustificazione delle equazioni poste a fondamento della sua trattazione. Gli si deve però in ogni caso riconoscere il merito di aver fatto compiere alla fisica-matematica un passo decisivo, sgancian­dola da ogni vecchio impegno « filosofico », e avviandola alla ricerca di formule generalissime capaci di sintetizzare in un unico sistema i più ampi settori feno­menici.

Fu proprio questa nuova impostazione della fisica-matematica a permetterle un più immediato contatto con la fisica sperimentale elevando la matematica al

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La teoria dei campi: Maxwell

rango di strumento unico, necessario e sufficiente, per l'elaborazione teorica dei dati osservativi.

A nostro parere è proprio in questa nuova concezione della fisica-matematica che va inoltre cercata la ragione profonda del fatto, altrimenti inspiegabile, che il nostro autore abbia accettato la cattedra offertagli dall'università di Cambridge. Se uno scienziato della sua fama e della sua serietà si assunse con tanto entusiasmo il difficile compito di organizzare e dirigere un grande laboratorio di fisica spe­rimentale, ciò dimostra che egli scorgeva un'autentica continuità fra il nuovo lavoro di sperimentatore e quello fin allora perseguito di fisico-matematico; cioè che li interpretava entrambi come lavori prettamente scientifici (non già come scientifico l'uno- quello sperimentale- e filosofico l'altro), da svolgersi senza compromissioni metafisiche e senza dispersioni nel regno delle mere ipotesi.

IX · IL GRANDE PESO DELLA TEORIA DEI CAMPI ENTRO L'ULTIMA

FASE DELLA FISICA OTTOCENTESCA

Vinte le prime resistenze delle quali parlammo nelle pagine precedenti, la teoria maxwelliana dei campi riuscì ben presto ad imporsi alla comunità dei fisici, dando luogo a sviluppi della massima importanza sia di ordine sperimentale sia di ordine teorico.

I primi si accentrarono intorno al problema delle onde elettromagnetiche, di cui Maxwell aveva affermato l'esistenza e indicato il modo di propagazione. Fu merito del tedesco Heinrich Hertz (I 8 5 7-94), già poco sopra menzionato, la verifica sperimentale della tesi maxwelliana.

Riprendendo alcuni esperimenti di Helmholtz, del quale era stato discepolo, Hertz riuscì a costruire nel 1887-88 il suo famoso «eccitatore» od «oscilla­tore» e l'altrettanto famoso « risuonatore a scintilla», che si trovano ancora oggi descritti in tutti i trattati di fisica: il primo serve a generare intense onde elettro­magnetiche, sinusoidali, di lunghezza d'onda sufficientemente corta; il secondo a rivelare che tali onde sono pervenute in un determinato punto dello spazio. Furono proprio essi a permettere a Hertz di giungere ai suoi celeberrimi risultati: «esistenza delle onde elettromagnetiche, loro costituzione contemporaneamente elettrica e magnetica, loro propagazione rettilinea, riflessione, rifrazione, polariz­zazione, formazione di onde stazionarie, sono sperimentalmente controllate; la velocità di propagazione, la lunghezza d'onda vengono sperimentalmente de­terminate» (Eligio Perucca).1

I Di Hertz va inoltre ricordata una celebre opera sulla meccanica, che diede un notevolissimo contributo sia alla sistemazione assiomatica di que­sta disciplina sia allo sviluppo della filosofia della scienza: Die Prinzipien der Mechanik in neuem Zrtsam­menhang dargestellt (I principi della meccanica esposti in

una nuova connessione, I894). Essa uscì postuma, con una prefazione di Helmholtz, in cui questi -- ri­cordando l'eccezionale ingegno del discepolo scomparso, non ancora trentasettenne, il I 0 gen­naio I894 - ne poneva in luce i grandi meriti non solo nell'ambito delle ricerche sull'elettroma-

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Il famoso « eccitatore » o « oscillatore » di Heinrich Hertz.

Le esperienze compiute da Hertz suscitarono, tra i suoi contemporanei, un vero entusiasmo, tanto che alle onde elettromagnetiche fu dato concordemente il nome di « onde hertziane ». Vennero subito compiuti molti studi intorno al­l'affascinante argomento, e crebbe la fiducia generale nell'ipotesi, avanzata- co­me sappiamo - da Maxwell, circa la natura elettromagnetica delle onde luminose. Una menzione particolare meritano, a questo proposito, le ricerche dell'italiano Augusto Righi (I850-192.o), che precisò e completò, fra il 1893 e il '96, i ritrovati di Hertz servendosi di un nuovo tipo di oscillatore (noto appunto come « oscil­latore di Righi»), capace di generare onde elettromagnetiche di lunghezza note­volmente minore di quella delle onde fin allora prodotte, e perciò più prossima alla lunghezza delle onde luminose. L'illustre fisico italiano raccolse poi i propri risultati in una celebre opera Ottica delle oscillazioni elettriche (I 897) «il cui solo titolo, » come scrive Mario Gliozzi, «sintetizza un'epoca della storia della

gnetismo ma anche per quanto riguarda la rifles­sione « sulle più generali prospettive della scien­za». L'opera fornisce una «sistemazione coerente della dinamica » ove « tutte le singole leggi parti­colari di questa scienza sono ricavate da un'unica legge fondamentale»; in tale sistemazione inter­vengono solo più i concetti di tempo, di spazio e di massa, restando escluso quello di forza che in­vece occupava un ruolo essenziale nella mecca­nica di Newton. Dal punto di vista della filosofia della scienza, il merito più rilevante dei Principi è di avere chiarito che il compito della fisica risiede

fondamentalmente in ciò: nel costruire « imma­gini o simboli degli oggetti esterni » in maniera tale che le conseguenze logiche di questi simboli risultino a loro volta immagini dei « conseguenti necessari in natura degli oggetti rappresentati ». Hertz ha tuttavia sottolineato che questo compito non determina in modo univoco i simboli anzi­detti, e inoltre che in una teoria compaiono inevi­tabilmente simboli cui non corrisponde alcun og­getto esterno (trattasi di quei simboli che gli epistemologi di oggi chiamano « termini teo­rici »).

2.77

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La teoria dei campi: Maxwell

fisica». È inutile aggiungere parola sull'importanza delle onde hertziane nel settore applicativo; essa risulta ampiamente dimostrata dal posto di eccezionale rilievo che le radiocomunicazioni (facenti uso, appunto, di tali onde) hanno da tempo assunto nella vita moderna.

Ma ancora più importanti sono, dal punto di vista della presente trattazione, gli sviluppi teorici della teoria maxwelliana. Senza soffermarci a menzionare le spiegazioni assai soddisfacenti che l'ipotesi della natura elettromagnetica della luce permise di fornire cii alcuni interessanti fenomeni (come ad esempio la rotazione, scoperta da Faraday, del piano di polarizzazione della luce per opera di un campo magnetico), preferiamo prendere in rapido esame due argomenti che si prestano molto bene ad alcune considerazioni generali di carattere storico-critico.

Abbiamo ricordato nel vn paragrafo, valendoci all'uopo delle parole di Ein­stein e Infeld, che la fisica dei campi venne inizialmente accolta soprattutto come linguaggio: come « strumento volto ad agevolare la comprensione dei fenomeni dal punto di vista meccanico». Non deve dunque stupirei se tale linguaggio fu ben presto largamente applicato anche alla teoria newtoniana della gravitazione, onde si cominciò a parlare di « campo gravitazionale » oltreché di campi elettrici e magnetici. Col trascorrere del tempo il termine «campo» divenne di uso comune nei trattati degli astronomi, dei fisici e degli stessi ingegneri, senza però che ci si rendesse chiaro conto - nella maggioranza dei casi - delle profonde innovazioni categoriali implicate da tale nozione (sostituzione di una fisica del continuo alla vecchia fisica del discontinuo).

Sarà merito di Einstein non fermarsi all'aspetto tecnico della nuova teoria, cioè non limitarsi a cercarne formulazioni matematiche via via più rigorose e più generali. In realtà egli seppe penetrarne ad un tempo sia la grande « portata filo­sofica», come dimostrano le stesse citazioni da noi riferite, sia la straordinaria fecondità per la descrizione fisica del mondo (basti ricordare, a conferma di ciò, la sua famosa dichiarazione che senza la nozione di campo « sarebbe impossibile formulare la teoria della relatività generale»).

Vale la pena fare fin d'ora presente che, approfondendo il concetto di campo gravitazionale in stretta analogia con quello di campo eletcromagnetico, Einstein giungerà a sostenere (nel 1918) che il campo di gravitazione si propaga in modo pressoché identico a quello delle onde elettromagnetiche (onde il termine di «onde gravitazionali») e quindi con una velocità finita. Va notato che questa tesi costituisce in certo senso il naturale sviluppo della polemica di Maxwell contro l'azione a distanza; in essa, infatti, il concetto di azione a distanza (azione che non può risultare se non istantanea) viene respinto a favore dell'azione per contiguità (la cui propagazione può invece aver luogo unicamente nel tempo) non solo - come aveva affermato Maxwell - nella trattazione dei fenomeni elet­tromagnetici ma perfino in quella dei fenomeni gravitazionali.

Il secondo punto, sul quale intendiamo brevemente soffermarci, concerne la

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La teoria dei campi: Maxwell

nozione maxwelliana di etere, che ci porterà essa pure alle soglie della teoria della relatività. Ci sembra opportuno segnalare l'importanza che tale nozione conservò ancora in una fase del pensiero scientifico assai vicina alla nostra, proprio perché possa emergere con limpida chiarezza il profondo significato del suo definitivo abbandono all'inizio del xx secolo.

Come abbiamo detto nei paragrafi precedenti, Maxwell non abbandonò mai completamente la nozione tradizionale di etere, ma dopo averne costruito un nuovo e complesso modello meccanico, finì per lasciar cadere anche questa in­gegnosa visualizzazione del singolare fluido (da lui stesso qualificato « immagina­rio»), per interessarsi esclusivamente della traduzione delle sue proprietà in ter­mini matematici. Pur così volatilizzato, l'etere continuò, in ogni modo, a venir concepito - da Maxwell e dai suoi immediati continuatori - come qualcosa di reale: come il supporto, non meglio definito, dei campi elettromagnetici, pensati appunto come «stati» dell'etere.

Proprio la trattazione matematica della teoria dei campi, mentre per un lato favoriva l'anzidetta « volatilizzazione » del concetto di etere, per un altro lato sembrava invece destinata a dargli nuova dignità scientifica. Si dimostra infatti che le equazioni di Maxwell, diversamente da quelle della meccanica classica, non restano invarianti se le riferiamo a due differenti sistemi inerziali, cioè a due si­stemi in moto rettilineo uniforme uno rispetto ali' altro; ciò vale, beninteso, quando si ammetta (con la meccanica prerelativistica) che le coordinate di un punto variino - quando le riferiamo all'uno anziché all'altro di tali sistemi -secondo le formule di trasformazione galileiana. Se ne ricava che la validità stessa delle equazioni di Maxwell sembra provarci l'esistenza di un sistema di ri­ferimento privilegiato o sistema inerziale assoluto: di qui l'idea che fosse appun­to l'etere a costituire tale sistema. In altre parole: le equazioni di Maxwell risul­terebbero valide se riferite proprio all'etere (concepito come immobile), mentre cesserebbero di esserlo se riferite a un sistema in movimento rispetto all'etere.

L'importanza di questa conclusione è evidente: essa suggeriva ai fisici della generazione immediatamente successiva a Maxwell di cercare nei fenomeni elet­tromagnetici, e in particolare in quelli luminosi, una nuova via per dare un signi­ficato concreto, scientificamente attendibile, ai vecchi termini newtoniani di « quiete assoluta » e di « moto assoluto ». Indicava cioè un programma di inda­gini, estremamente interessante, per risolvere alcuni dei fondamentali problemi concernenti la nostra concezione dell'universo; in primo luogo il problema di dimostrare sperimentalmente l'effettivo moto della terra intorno al sole.

Anche questa via però doveva fallire, come dimostreranno le famose espe­rienze eseguite negli ultimi anni del secolo da Michelson e Morley (delle quali si parlerà nel capitolo XIV della prossima sezione). E sarà proprio questo falli­mento a segnare il punto di rottura fra la meccanica classica e la meccanica rela­tivistica.

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La teoria dei campi: Maxwell

Non occorre ormai altro, per illustrare i profondi legami fra la teoria maxwel­liana dei campi e la teoria einsteiniana della relatività. Si può dire che quella costituì la premessa di questa; fornì cioè il punto di partenza da cui prese le mosse la grande rivoluzione attuatasi, nella fisica, fra il XIX e il xx secolo.

Eppure la teoria di Maxwell non può ancora venire considerata come una teoria veramente moderna. Se è vero, infatti, che costituì una delle basi essenziali per i successivi lavori di Einstein, vero è però che questi poté giungere alla sua concezione tanto innovatrice solo con la negazione di alcuni punti basilari della teoria maxwelliana (in primo luogo col rifiuto completo dei concetti di quiete assoluta e di moto assoluto). Né va dimenticato che anche sotto altri aspetti la teoria di Maxwell entrò presto in crisi: la fine del secolo vide infatti un rapido ritorno alla fisica del discontinuo, sotto la forma di fisica dei quanti (non mai accettata da Einstein). Riservandod di parlare di essa in altri capitoli, basti qui ricordare che la teoria dei campi dovette trasformarsi profondamente per ade­guarsi alla nuova importantissima concezione; ne nacque la cosiddetta teoria quantistica dei campi (di cui tutti riconoscono oggi la straordinaria fecondità per le più raffinate ricerche atomiche e subatomiche), radicalmente diversa dalla teoria « classica » di Maxwell.

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CAPITOLO UNDICESIMO

Principi c problemi della tcrmodinamica DI FELICE MONDELLA

I · CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE

Lo sviluppo della meccanica e dell'astronomia dall'inizio del Seicento aveva permesso la costruzione di un edificio scientifico che offriva la possibilità di una interpretazione unitaria della natura. A tale interpretazione sfuggivano tuttavia molti fenomeni quali il calore, la luce, l'elettricità, il magnetismo e i processi della vita. Tra la fine del Settecento ed i primi decenni dell'Ottocento divennero sempre più importanti le indagini sulle trasformazioni reciproche di questi feno­meni fra loro e con gli stessi processi meccanici.

Formulando i principi della nuova chimica verso la fine del Settecento Lavoisier aveva riconosciuto che una grandezza si conserva costante nelle reazioni chimiche, cioè la massa delle sostanze che reagiscono. Indagando le trasformazioni reciproche fra i fenomeni meccanici, termici, elettrici e magnetici si riconobbe attorno alla metà dell'Ottocento che vi era una nuova grandezza che si con­serva costante: l'energia, cioè la capacità di compiere lavoro.

Già nel Settecento si era riconosciuto che nei processi meccanici si conserva costante la forza viva, cioè la quantità di movimento che viene trasmessa nell'urto dei corpi. Era la stessa quantità di moto che secondo alcuni il creatore aveva immesso· nel grande orologio del mondo e che molti consideravano l'indistrutti­bile forza con cui si muovevano i pianeti, la terra e i corpi pesanti su di essa.

Era anche la stessa forza che muoveva il mulino a vento e quello ad acqua, ma non sembrava poter essere quella che muoveva la macchina a vapore. E per capire la macchina a vapore si formò la nuova scienza della termodinamica. Sadi Carnot stabilì che vi era un rendimento massimo della macchina termica. Una certa quantità di calore poteva produrre al massimo una certa quantità di lavoro: era la via per giungere all'equivalente meccanico del calore. Lo stesso equivalente venne precisato da J aule studiando anche i motori elettrici ed il calore fu riconosciuto come la forza viva delle particelle dei corpi. Era la rivolu­zione tecnica ed industriale a stabilire il grande ponte fra la macchina astrono­mica di Newton ed i fluidi imponderabili, che da ingredienti della speculazione magica erano venuti chiarificandosi in strumenti per il dominio fisico della natura.

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Principi e problemi della termodinamica

L'energia, da forza viva che moveva la macchina divina del mondo, diveniva la capacità di lavoro, una nuova entità astratta della fisica, richiesta dal concreto problema del rendimento delle macchine, dalla necessità di confrontare e mu­tare le fotze produttive secondo esigenze economiche.

Fu nell'Inghilterra industriale e capitalista della metà del secolo che il prin­cipio dell'energia venne immediatamente riconosciuto nella sua fecondità. Era un valore di scambio nella conversione delle forze utilizzate dall'uomo, ma di­veniva anche sempre più il criterio per precisare sul terreno strettamente scienti­fico l'interazione fra i vari fenomeni, per riconoscere un ordine nuovo di leggi.

Accanto alla materia l'energia diventava così la nuova categoria fondamentale a cui ricondurre tutti i fenomeni naturali. Per i materialisti degli anni cinquanta materia e forza erano il binomio della sostanza del mondo, la loro conservazione era la garanzia che la natura era eterna ed autonoma nel suo perenne divenire.

Ma lo studio della macchina a vapore, che aveva contribuito in modo decisivo a rivelare l'esistenza di una grandezza costante, di un'energia indistruttibile, doveva anche rivelare che tale energia viene costantemente dissipata, diviene a poco a poco inutilizzabile. Se infatti il passaggio di calore da una sorgente calda ad un corpo freddo è condizione perché una macchina termica produca lavoro, ogni spontaneo passaggio di calore che non si verifichi in questa macchina è una pura perdita di lavoro meccanico. All'occhio dell'inglese William Thomson,

fisico della prima società industriale, ogni corpo lasciato a raffreddarsi è un atto prodigo della natura, una dissipazione dell'energia utilizzabile dall'uomo.

Anche qui la valutazione economica, l'impegno dell'uomo nel dominio della natura doveva condurre a scoprire una legge profonda e generale di tutti i fenomeni. Questa legge indicava l'esistenza di una direzione, di un decorso irreversibile nei processi naturali. Anche qui si introdusse una nuova entità astratta capace di misurare tale irreversibilità, l'entropia. Nell'universo l'entropia tende ad un massimo. Con tale frase si generalizzava all'estremo la tendenza alla diminuzione continua dell'energia utilizzabile, alla sua conversione finale in calore, che avrebbe condotto «alla morte termica dell'universo», all'arresto di ogni trasformazione.

Ma contro la sentenza di morte dell'universo, contro l'irreversibilità asso­luta ci si doveva di nuovo appellare alla meccanica, all'antica teoria dell'atomismo. Il calore era movimento delle molecole, la temperatura e la pressione di un corpo erano l'effetto di tale movimento, la misteriosa entropia diveniva la misura del disordine nel moto delle molecole.

Con l'interpretazione meccanica della termodinamica la probabilità veniva introdotta come una nuova categoria della fisica. All'irreversibilità con cui si sentenziava a livello dell'universo la morte termica si opponeva ora una proba­bile reversibilità nel mondo invisibile, o ve regna il moto perpetuo delle particelle.

Ma il mutamento nel quadro della natura che la termodinamica compiva

2.82.

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Principi e problemi della termodinamica

dall'estremamente grande all'estremamente piccolo, si accompagnava, oltre che allo sviluppo fecondo di nuovi settori tecnici e scientifici, anche ad un ripensa­mento critico sul metodo della conoscenza fisica. A non pochi la termodinamica apparve, come energetica, quale base di una nuova scienza fisica puramente descrittiva e formale, che doveva escludere ogni espressione ipotetica sulla strut­tura profonda dei fenomeni naturali, assumendo un primato sulla meccanica. Gli stessi critici della scienza contestavano il ruolo privilegiato della meccanica, scoprendo le implicazioni metafisiche che avevano accompagnato la sua storia. Anche le interpretazioni probabilistiche e meccaniche della stessa entropia ap­parvero per non pochi anni un anacronistico ritorno all'atomismo democriteo, dietro cui si intravvedeva lo spettro del materialismo. Ma l'atomismo e la conce­zione probabilistica dei fenomeni fisici erano destinati a sviluppi nuovi ed inat­tesi nella fisica del Novecento.

II · LA CONOSCENZA FISICA DELLA NATURA

ED IL PROBLEMA DEL MOVIMENTO

Il riconoscimento, a partire dal I 8 5o del principio di conservazione dell'ener­gia, costituisce un momento culminante della scienza moderna. Come già si è detto, questa si era costituita durante il Seicento sulla base della meccanica, apren­do una nuova visione della realtà naturale. Secondo tale visione l'estensione, cioè l'occupare spazio, è la caratteristica fondamentale della materia costitutiva dei corpi; questi sono soggetti a movimento in uno spazio omogeneo secondo precise leggi matematiche, secondo una rigorosa necessità estesa tanto al mondo terrestre che a quello astronomico.

Le leggi della meccanica, che trovarono uno sviluppo fondamentale nell'opera di Newton, non erano però in grado di spiegare tutti i complessi fenomeni na­turali e suscitavano, a loro volta, gravi problemi. Uno di questi concerneva il modo di trasmissione del movimento.

Con Cartesio alcuni ritenevano che l'unica forma accettabile di trasmissione fosse costituita dall'urto o contatto fra i corpi. Con l'introduzione della forza di gravitazione da parte di Newton altri ammisero la possibilità che il movi­mento fosse prodotto nei corpi da un'azione a distanza, azione che molti, fra cui lo stesso Leibniz, tendevano però a rifiutare considerandola una sorta di qualità occulta.

Dopo la metà del Settecento, superate queste perplessità, si giunse ad am­mettere che non solo l'attrazione, ma anche la impenetrabilità stessa dei corpi era effetto di una particolare forza. Chi si faceva sostenitore di questa concezione, detta dinamismo, riteneva infatti che la resistenza offerta dai corpi fosse l'effetto di una forza repulsiva e che, se si volevano ammettere degli atomi, questi dove­vano essere considerati semplicemente dei punti geometrici inestesi, dei centri

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Principi e problemi della termodinamica

su cui agiscono delle forze. Nel Settecento il dinamismo ebbe fra i suoi sostenitori più importanti Boscovich e Kant, ma trovò anche nell'Ottocento convinti as­sertori fra alcuni grandi fisici.

Se per alcuni fisici la forza appariva la causa sia del movimento che dell'esten­sione corporea, non stupisce che per alcuni filosofi, ispirantisi in vario modo a Leibniz ed a Spinoza, essa divenisse la sostanza stessa del mondo. Per Herder, ad esempio, la sostanza divina del mondo sarebbe una forza profonda che muove tutta la natura e si dispiega nelle molteplici forze fisiche. Forze che verso la fine del Settecento venivano attribuite ai vari gruppi caratteristici di fenomeni, gra­vitazionali, elettrici, magnetici ed anche vitali.

Fra coloro che si erano mostrati meno disposti ad accettare l'idea di un'azione a distanza non pochi si erano convinti che l'attrazione reciproca fra i corpi fosse prodotta per mezzo di una sostanza invisibile, estremamente tenue ed ela­stica che riempiva tutto lo spazio, cioè l'etere. Man mano che gli studi sulla luce, sul calore, sul flogisto e sull'elettricità andavano estendendosi, alcuni ammisero che l'etere fosse un fluido universale capace di trasformarsi in tali fluidi impon­derabili ed eventualmente di condensarsi nella stessa materia ponderabile.

Si profilava così nella seconda metà del Settecento, accanto alla meccanica, una fisica speculativa del continuo, analoga a quella antica degli stoici e non priva di richiami alla tradizione magica ed alchimistica. Il ruolo attivatore dell'ossigeno nei processi chimici inorganici ed in quelli vitali, la luce ed il calore prodotti in tali processi, i primi legami fra fenomeni chimici, elettrici e vitali intravisti attorno alla fine del secolo, suggerivano sempre più l'esistenza di una continuità, di una reciproca convertibilità fra tali fenomeni e indicavano la possibilità di una loro trasformazione ciclica.

Da queste idee emergevano due problemi fra loro strettamente connessi: a) stabilire quale fosse la sostanza originaria e primitiva capace di trasformarsi in tutte le altre, b) individuare il fattore o le condizioni che garantivano l'incessante svolgimento di tutte le trasformazioni cicliche o non cicliche presenti nella natura.

Questi problemi vennero affrontati insieme nei primi scritti di filosofia della natura di Schelling. La conservazione del movimento nella natura non può risultare dal movimento rettilineo di inerzia, priviiegiato dalla meccanica, ma soltanto da un movimento circolare che rifluisca su se stesso; cioè da un moto perpetuo che la meccanica non può giustificare e che ad alcuni appariva invece caratteristico degli organismi. L'organismo vivente è quindi il modello che dobbiamo assumere per interpretare l'universo, a meno di ammettere che esso possa un giorno cessare il suo moto, finendo in uno stato di morte o di inerzia completa.

Il rifluire del movimento su se stesso, la perenne attività del mondo è resa possibile dall'esistenza di una forza inesauribile che si nasconde dietro i fenomeni

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Principi e problemi della termodinamica

e che si concreta come « materia energetica » nella luce, alla cui base si trova l'etere.

Schelling cercava di :risolvere nei termini di una nuova fisica speculativa un problema che era già stato posto nel Seicento dai primi sostenitori del mecca­nicismo. L'immagine del grande orologio del mondo poneva infatti il quesito se la carica .fornita al suo inizio dal grande orologiaio fosse destinata a perdurare intatta o ad esaurirsi. Per Newton essa doveva gradualmente attenuarsi e ciò rendeva necessario l'intervento provvidente di dio nel corso del mondo. Cartesio e Leibniz :ritenevano invece che la quantità di movimento posta all'inizio si conservasse costante ed escludevano quindi ogni intervento divino.

Cartesio e Leibniz avevano però espresso in termini meccanici diversi tale quantità ed i loro sostenitori si scontrarono a lungo nella famosa polemica sulla forza viva. I cartesiani ritenevano che si conservasse la quantità di moto (mv) cioè la forza agente durante uguali intervalli di tempo; i leibniziani invece che si conservasse la forza viva (mv2), cioè la stessa forza agente su uguali distanze. Risultò che le due posizioni erano del tutto conciliabili dal punto di vista mec­canico, ma la polemica non risultò del tutto infeconda.

La forza viva (mv 2) era quella che si conservava nella forma più tipica di trasmissione del movimento, cioè nell'azione di contatto o di urto. Alcuni, in particolare i newtoniani, ritenevano che essa andasse persa nell'urto non elastico, ad.esempio quando un corpo cade al suolo fermandosi. Altri invece :ritenevano che essa si conservasse anche in questo caso e a loro toccava il compito di spiegare l'apparente scomparsa del movimento. Già Leibniz aveva offerto una soluzione sostenendo che in questa perdita apparente si ha in realtà una trasformazione del movimento globale del corpo nel movimento delle sue parti. Si ha cioè un cambiamento analogo a quello di denaro in moneta spicciola.

Jean Be:rnoulli, del quale si è parlato nella sezione v, giunse così verso il 1740 a formulare il principio della conservazione della forza viva come un prin­cipio generale della meccanica. Tale principio era stato infatti dimostrato, oltre che per l'urto dei corpi, anche per la caduta libera e l'ascesa del pendolo. Tale principio non :riuscì tuttavia ad assumere un ampio significato per la conoscenza complessiva della natura. Molti fenomeni del mondo fisico apparivano infatti irriducibili alle leggi generali della meccanica.

III · MACCHINE A VAPORE E TEORIA DEL CALORICO

Per giungere alla definizione del principio di conservazione dell'energia, la trasmissione del movimento, definita nei termini rigorosi della meccanica, fu nel complesso meno importante di quella trasmissione che si cercava di im­piegare concretamente nella tecnica produttiva dei laboratori artigiani e nelle nuove industrie.

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Fu infatti nell'ambito della produzione che ci si pose il problema di definire il «lavoro», cioè di stabilire la capacità di una macchina di sollevare un peso ad una certa altezza. Fu nello stesso ambito che si introdusse un'unità di misura per questo lavoro, il « cavallo ». Questo termine ci ricorda come, con la rivolu­zione industriale, all'animale si sostituisse la macchina che offriva un maggior rendimento. Stabilire il rendimento significò inizialmente operare un confronto fra la quantità di lavoro prodotta da un certo peso di carbone rispetto a quella prodotta dalla forza motrice di un cavallo o di più uomini, impiegati per un certo tempo. Era questo un problema di grande importanza tecnica ed economica. Basti ricordare che la ditta inglese Boulton e Watt istallava macchine a vapore senza spese, salvo una royalty di un terzo sull'economia realizzata rispetto all'uso di cavalli o di macchine a vapore più antiquate.

- L'inizio della rivoluzione industriale ebbe il suo effetto anche nei trattati di meccanica. Accanto agli interessi astronomici si estesero sempre più i problemi derivati dall'ingegneria. La definizione del lavoro, come prodotto della forza per lo spostamento, aveva avuto nei trattati del Settecento un significato prevalen­temente algebrico, privo di rilevanza teorica. Tra la fine del secolo ed i primi decenni dell'Ottocento nelle opere degli autori francesi il concetto di lavoro assume un rilievo adeguato ai tempi e si perviene a stabilire definitivamente la sua eguaglianza con la forza viva (1jz mv2 =fs).

Con questa definizione si giungeva ad esprimere un processo fondamentale per le macchine tradizionali mosse dall'acqua o dal vento. Per le macchine a vapore occorreva invece inoltrarsi in un campo di ricerca nuovo che poteva svilupparsi soltanto con lo studio del calore. La termologia specialmente in Francia fu coltivata durante i primi decenni del secolo da numerosi autori, i quali accettavano quasi universalmente la teoria del calorico, secondo cui il calore non consiste nel movimento di particelle, come già si era sostenuto nel Seicento, ma in un fluido indistruttibile che viene trasmesso da corpo a corpo.

Tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento l'americano Benjamin Thompson (conte di Rumford, 1753-1814) movendo da precise esperienze in cui si aveva una grande produzione di calore mediante lavoro meccanico, cercò senza successo di opporre alla teoria del calore come sostanza quella del calore come movimento delle particelle. Quest'ultima teoria presentava tuttavia non poche difficoltà specialmente nello spiegare la trasmissione del calore nel vuoto, cioè il calore raggiante. A proposito della produzione di calore mediante lavoro la teoria del calorico poteva comunque fornire delle spiegazioni abbastanza soddi­sfacenti, anche per l'elevato grado di elaborazione matematica a cui questa teoria era giunta.

Tali spiegazioni si basavano fondamentalmente sull'idea che un calorico latente, cioè una porzione di questa sostanza, pur essendo presente nel corpo non fosse rilevabile come temperatura, ma potesse tuttavia essere liberata in seguito a la-

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voro meccanico. Il caso teoricamente più importante per lo studio di questo pro­blema si aveva nella compressione adiabatica. 1 Si tratta di una facile esperienza di laboratorio in cui comprimendo un gas dentro un cilindro ed impedendo che il calore prodOtto da questa compressione venga trasmesso all'ambiente, si può misurare con precisione questo calore.

Il chimico e fisico inglese J ohn Dal ton nei primi anni del secolo interpretò le trasformazioni adiabatiche ammettendo una particolare capacità termica del vuoto. Nel caso cioè di una compressione diminuirebbe il vuoto ed il calorico ad esso legato si libererebbe producendo un aumento di temperatura. Nel I 8o7 il fisico francese Joseph Louis Gay-Lussac mediante una brillante esperienza con­futò l'idea della capacità termica del vuoto. Si preferì allora ammettere che il ca­lorico latente (quello cioè che si libererebbe nella compressione) è attratto da ogni molecola del corpo, costituendo attorno ad essa un'atmosfera semipermanente che si trova in equilibrio con dell'altro calorico radiante, dalla cui densità di­pende la temperatura del corpo. Laplace fornì di questa teoria una brillante trattazione matematica derivando da essa alcune proprietà osservabili dei gas.

Se lo studio della compressione adiabatica e la teoria del calorico avevano permesso di interpretare in modo soddisfacente la produzione di calore me­diante lavoro, era sorta anche l'esigenza di studiare ed interpretare il processo inverso cioè la produzione di lavoro mediante calore. Processo tanto più importante se si pensa che esso era quotidianamente realizzato dalla macchina a vapore, la quale nei primi decenni del secolo andava trasformando profondamente dopo l'Inghilterra, anche alcuni paesi del continente europeo.

Quest'ultimo problema venne affrontato in modo decisivo nel I 8z4 nell'opera Réjlexions sur la puissance motrice du feu (Riflessioni sulla potenza motrice del fuoco) dal giovane ingegnere francese Sadi Carnot (I796-I83Z), figlio di Lazare Ca:rnot. Pur essendo uno scritto destinato a segnare una svolta decisiva nel pensiero scientifico dell'Ottocento esso rimase quasi ignoto per più di un ventennio. Di esso si tratterà più ampiamente in seguito. Qui basterà ricordare che Carnot vi affron­ta, da un punto di vista teorico, il problema del :rendimento massimo della mac­china a vapore, concludendo che tale rendimento non dipende dal tipo di vapore o di sostanza impiegata per spostare la stantuffo, ma soltanto dalla differenza di temperatura fra la caldaia ed il refrigeratore.

Il calorico produrrebbe infatti lavoro passando fra queste due parti della macchina senza consumarsi, così come l'acqua che cadendo muove la ruota di un mulino. Maggiore è il dislivello di temperatura, maggiore sarà il lavoro pro­dotto.

L'autore formula lo schema di una macchina termica ideale che non funziona soltanto in una direzione, cioè producendo lavoro quando si ha passaggio di

I Si ricordi che una trasformazione viene detta adiabatica quando in essa non possono av­venire scambi di calore con l'esterno.

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calore dalla temperatura più alta e quella più bassa, ma funziona anche nella direzione inversa. Può cioè assorbire lavoro trasportando del calore dal corpo più freddo a quello più caldo.

Questa reversibilità di funzionamento permette, come si vedrà più oltre, di dimostrare che il rendimento dipende solo dal dislivello di temperatura. In caso contrario si avrebbe un'inammissibile produzione di moto perpetuo.

Il problema del rendimento, affrontato in questo modo da Carnot, permetteva di ricercare l'equivalente termico del lavoro, di stabilire cioè in generale la quan­tità massima di lavoro ottenibile con una certa quantità di calore. È importante osservare che egli giunse ad affrontare correttamente questo problema non solo non respingendo, ma anzi utilizzando proficuamente la teoria del calorico.

IV · I FENOMENI DI CONVERSIONE

Dall'opera di Carnot risulta chiaramente che la possibilità di stabilire ed eventualmente di precisare nel suo valore numerico l'equivalenza fra calore e lavoro non era motivo sufficiente per rovesciare le tradizionali concezioni della fisica, giungendo ad individuare un nuovo principio, quello della conservazione della energia.

Per giungere a questo risultato neppure risulterà sufficiente il riconoscimento che il calore consiste in un movimento delle particelle dei corpi. Occorrerà invece una visione generale ed un approfondimento dei rapporti fra vari campi della fisica, un riconoscimento della importanza dei fenomeni di conversione.

Già la scienza romantica dell~ natura aveva posto in particolare rilievo l'unità fra le varie forze fisiche, la possibilità di una loro reciproca trasformazione, di una loro metamorfosi. A sostegno di questa concezione vi erano osservazioni note da molto tempo: la reciproca conversione di luce e calore, la possibilità di produrre elettricità mediante movimento (strofinando resina o vetto), e quella di produrre movimento avvicinando corpi elettrizzati e magnetizzati.

All'inizio dell'Ottocento con la pila di Volta si dischiuse una nuova catena di conversioni. La corrente elettrica veniva ottenuta a spese della forza di affinità chimica. Dalla corrente si poteva ottenere calore e luce. Nell'elettrolisi scoperta più tardi la corrente elettrica produceva fenomeni chimici, chiudendo così una catena di trasformazioni.

Le ricerche fisiche dei primi decenni del secolo rilevarono sempre più l'im­portanza e la molteplicità di questi fenomeni di conversione. Nel I Szo il fisico danese Oersted scoprì - come sappiamo dal volume quarto - che una corrente elettrica era in grado di produrre un effetto magnetico. Nel 1831 l'inglese Faraday scoprì l'induzione elettromagnetica, cioè la possibilità di produrre elettricità me­diante il movimento di un magnete. Lo stesso Faraday, che dedicò molte indagini sperimentali ai rapporti fra magnetismo, elettricità, calore e processi chimici,

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dichiarava nel I 8 34 che « se non si può affermare che ciascuno di questi fenomeni è causa dell'altro, bisogna riconoscere che tutti sono connessi e dovuti ad una causa comune». Nel I 843 un'altro fisico inglese William Grave (I 8 II-96) richiamava l'attenzione sui fenomeni di conversione in un corso intitolato On the correlations of physical forces (Sulla correlazione delle forze fisiche).

Anche in Germania l'idea dell'unità delle varie forze fisiche era presente alla mente di alcuni autori. In un articolo del I 8 3 7 che rimase a lungo dimenticato Karl Friedrich Mohr (I8o6-79) scriveva: «Oltre i 54 elementi chimici conosciuti vi è, nella natura delle cose, un unico altro agente che è chiamato forza; esso può manifestarsi in varie circostanze come movimento, affinità chimica, coesione, elet­tricità, luce, calore e magnetismo, e da uno qualunque di questi fenomeni possono essere ricavati tutti gli altri. »

Sotto l'influenza del dinamismo, anche in campo biologico alcuni autori ave­vano cercato di teorizzare i rapporti fra la supposta forza vitale e le restanti forze fisiche, chiedendosi in particolare come essa potesse diminuire od accrescersi nei vari processi dell'organismo. Il grande chimico Liebig attorno al I 840 si poneva esplicitamente il problema della reciproca trasformazione fra forza vitale, forza chimica, calore e movimento e giungeva ad affermare che, poiché il movimento da qualsiasi causa prodotto non può essere annullato, anche le varie forze che lo producono non possono annullarsi.

Per quanto incerta potesse essere l'idea dell'unità delle forze fisiche e l'inter­pretazione dei vari fenomeni di conversione, questi venivano assumendo sempre più rilievo durante il terzo ed il quarto decennio del secolo ed imponevano l'esi­genza di una nuova visione dei rapporti fra i vari campi dell'esperienza fisica. Come rileva Thomas S. Kuhn: «Proprio perché le nuove scoperte del XIX secolo formavano una rete di " connessioni " fra parti precedentemente distinte della scienza, esse potevano essere colte individualmente o come un tutto in un'ampia varietà di modi e condurre sempre allo stesso risultato finale. »

V · PRIME ENUNCIAZIONI DEL PRINCIPIO

DI CONSERVAZIONE DELL'ENERGIA

Il risultato a cui si giunse partendo dai vari nodi di quella rete costituita dai processi di conversione fu l'enunciazione del principio di conservazione dell'ener­gia. Un'accurata ricerca storica ha condotto il Kuhn a precisare come vari autori si siano avvicinati o siano giunti indipendentemente l'uno dall'altro alla formula-

_.:z:ione di tale principio durante gli anni quaranta del XIX secolo. Qui ci limiteremo a ricordare quegli autori che enunciarono tale principio in forma più esauriente ed ebbero più influenza nei successivi decenni.

Il primo fra questi autori fu il medico tedesco Julius Robert Mayer (I8J4-78). Le sue prime riflessioni trassero spunto da un problema fisiologico tradi-

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zionale, quello dell'origine del calore animale. Durante un viaggio si era convinto che nelle zone calde tropicali si aveva un minor consumo di ossigeno, poiché minore doveva essere il calore animale prodotto dall'organismo. Mayer, che aveva inizialmente soltanto superficiali conoscenze di fisica, conosceva tuttavia dalla chimica che il calore anche nell'animale proviene da un processo di combustione. Sapeva inoltre che le sostanze prodotte in una reazione risultano dalla trasforma­zione delle sostanze reagenti, ma oscura gli appariva l'origine del calore. La chimi­ca ammetteva un principio di conservazione delle sostanze per cui, se in una rea­zione ossigeno ed idrogeno scompaiono, essi ricompaiono trasformati in acqua. Perché non ammettere per la fisica un analogo principio, cioè che le forze siano quantitativamente immutevoli come le sostanze?

Mayer si convince della necessità di ammettere un tale principio e cerca eli formularlo in un suo primo scritto del 1841: Ueber die quantitative und qualitative Bestimmung der Krajte (Sulla determinazione quantitativa e qualitativa delle forze). Si tratta di un articolo steso in un astruso e speculativo linguaggio caratteristico del dinamismo fisico del periodo romantico, e ad esso venne rifiutata la pubblica­zione. L'autore cercava di dimostrare che se l'« energia di movimento» di un corpo è neutralizzata da un ostacolo, essa si manifesta come calore. Afferma inol­tre che il calore trapassa a sua volta in movimento mediante la dilatazione di un corpo. In termini più generali ciò che rimane immutato in una trasformazione fisica è la quantità del movimento, mentre ciò che muta è la sua qualità, cioè il modo in cui questo movimento si manifesta.

Dopo uno studio più accurato della fisica egli riesce l'anno successivo ad ottenere la pubblicazione di un nuovo articolo, Bemerkungen ueber die Krajte der unbelebten Natur (Note sulle forze della natura inorganica, 184z). Dal dinamismo speculativo dell'articolo precedente egli passa qui ad una impostazione filosofica generale, in base alla quale definisce tutte le forze come cause. Distingue così nella natura accanto a« cause» costituite dai corpi materiali ponderabili, ],l-n'altra categoria di cause costituite dalle « forze » le quali sono « oggetti indistruttibili, mutevoli e imponderabili ».

L'indistruttibilità delle fotze può essere ricondotta al principio dell'identità delle cause e degli effetti (causa aequat effectum), che Mayer non giustifica, ma che probabilmente gli derivava da una tradizione del dinamismo leibniziano. In una serie di cause ed effetti vi è cioè un'uguaglianza quantitativa fra i singoli elementi per cui nessuno di questi può annullarsi. La mutevolezza delle forze indica che ciò che rimane quantitativamente immutato può assumere diverse forme, cioè diver­si aspetti qualitativi.

Mayer come molti contemporanei usa il termine forza non nel senso newto­niano di forza acceleratrice (/ = ma) ma in quello leibniziano di forza viva (f = I f z mv2) dando però ad essa un significato più generale. Per lui infatti è forza anche la « forza di caduta », cioè quella proprietà di un corpo sollevato

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che produce il suo movimento di caduta, come una causa il suo effetto. « La causa, la distanza di un peso da terra, e l'effetto, il quanto di movimento prodotto, come insegna la meccanica, si trovano in un'uguaglianza costante. »

Quando osserviamo l'annullarsi di un movimento ed il prodursi di calore, ad esempio nell'attrito, dobbiamo ammettere perciò che la forza del movimento non si è annullata, ma si è tramutata in calore cioè in una nuova forma di forza. Sorge così il problema di determinare un'uguaglianza quantitativa fra movimento e ca­lore, che egli formula con la domanda: « A che altezza un determinato peso deve essere sollevato da terra, in modo che la sua forza di caduta sia equivalente al ri­scaldamento di un ugual peso di acqua da o a r C? »

Egli risponde a questa domanda utilizzando la differenza già nota da tempo fra i calori specifici dei gas. Si sapeva cioè che a pressione costante, allorché un gas espande il suo volume producendo lavoro esterno, occorre più calore (circa il 4o%) per riscaldado, di quando il gas è a volume costante. Mayer in modo indub­biamente originale considera questa quantità in più di calore come l'equivalente dell'effetto meccanico compiutosi coll'espansione del gas; giunge così a calcolare in 367 metri l'altezza da cui deve cadere il corpo.

In numerosi scritti successivi l'autore, pur precisando meglio il suo pensiero, rimane convinto che il principio di conservazione della forza deve limitarsi a stabilire l'uguaglianza, cioè una semplice relazione quantitativa fra le forze, senza precisare la loro natura più profonda. Egli respingerà così anche nei decenni successivi l'ipotesi che identificava il calore con il movimento delle particelle di un corpo.

Riducendo calore, magnetismo, elettricità ecc., a forze, egli respingeva quindi sia la fisica degli imponderabili, che vedeva in questi fenomeni dei fluidi, sia l'ato­mismo meccanicistico, per introdurre una nuova grandezza quantificabile capace di assumere tutte le varie forme fisiche che erano state distinte e contrapposte nei vari campi di indagine.

Con un'impostazione in parte filosofica e con una conoscenza poco più che elementare della fisica il medico Mayer, come afferma Chades C. Gillispie, « as­segnando alla forza uno stato antologico fondamentale, equivalente a quello che il meccanicismo attribuisce soltanto alla materia, penetrava al di là della fisica classica».

Gli scritti di Mayer, per quanto destinati ad una alta considerazione negli ultimi decenni del secolo, rimasero per diversi anni completamente ignorati dal mondo scientifico contemporaneo. La stessa sorte non toccò invece all'opera del­l'inglese James Prescott Joule (r8r8-89), anch'egli autodidatta ma dotato di buona cultura fisica ed in grado sin dagli anni giovanili di disporre di un labora­torio privato, che gli permise di condurre a lungo accurate ricerche sperimentali.

Joule aveva iniziato le sue indagini studiando la possibilità di ottenere da un motore elettrico un rendimento superiore a quello della macchina a vapore, ma

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le difficoltà incontrate lo spinsero nel I 840 ad affrontare problemi più strettamente fisici.

Egli prese in considerazione soprattutto i rapporti fra effetti termici, chimici e meccanici connessi alla corrente elettrica, cercando di ottenere delle precise misurazioni nei processi di conversione, realizzabili sperimentalmente fra questi fenomeni.

Egli considerò ad esempio il rapporto fra la quantità di calore prodotto in una pila a circuito chiuso e la quantità di calore prodotto dalla stessa pila quando la sua corrente viene utilizzata per produrre lavoro mediante un motore. Stabili in tal modo che quando la pila aziona il motore essa sviluppa chimicamente una minore quantità di calore e tale diminuzione si trova in un rapporto costante con il lavoro prodotto dal motore.

Questa ricerca poneva in luce l'esistenza di un rapporto costante fra il calore prodotto da una pila e il lavoro meccanico prodotto da un motore elettrico, e Joule si propose di stabilire se lo stesso rapporto costante fra calore e lavoro esi­stesse nel caso di trasformazioni di tipo diverso. Una prima fondamentale espe­rienza in questa direzione consistette nel porre una spirale metallica entro un tubo di vetro pieno d'acqua che funzionava da calorimetro. Questo tubo veniva fatto ruotare fra due poli magnetici mediante un asse posto in movimento dalla caduta di due pesi; rilevando la quantità di calore che si produceva nel tubo per effetto della corrente indotta dai poli magnetici, e calcolando il lavoro compiuto dalla discesa dei pesi. Il nostro autore giunse a stabilire che il rapporto calore-lavoro si mantiene costante anche in questo caso e ne diede una precisa valutazione numerica. Altre misurazioni egli ottenne in successive esperienze, ad esempio con una trasforma­zione diretta di lavoro in calore, ottenuta comprimendo dell'acqua in sottili tubi.

Queste, e numerose altre esperienze, lo convinsero che l'esistenza di un rap­porto costante fra calore e lavoro, cioè di un equivalente meccanico del calore precisabile numericamente, indicava una effettiva convertibilità del lavoro in ca­lore, e quindi la insostenibilità della teoria del calorico. Già nel I 843 pubblicava questa conclusione, ma solo nel I 84 7 la poneva in una prospettiva teorica più ge­nerale con una conferenza dal titolo On matter, livingforce and heat (Sulla materia, la forza viva ed il calore).

In tale conferenza J oule, seguendo un punto di vista tradizionale nella fisica, considera la forza viva come una delle più importanti qualità di cui è dotata la materia. Ritiene tuttavia assurda l'opinione, sostenuta da molti contemporanei, secondo cui tale forza possa essere completamente distrutta in certi processi. Contro tale opinione si possono addurre argomenti a priori, ma valgono soprat­tutto i risultati delle sue ricerche sperimentali, in base ai quali si può affermare che «ogni volta che la forza viva è apparentemente distrutta, un equivalente è pro­dotto che può in un prosieguo di tempo essere riconvertito in forza viva. Questo equivalente è il calore ».

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Disegno originale del famoso apparecchio con cui Joule stabilì la diretta trasformazione del lavoro meccanico in calore: dalla conferenza On the mechanical equivalent of beat,

di James Prescott Joule, pubblicata in « Philosophical Transaction », 1850.

..

Le considerazioni di J aule appaiono da un lato come un richiamo al meccani­cismo settecentesco, cioè una rivendicazione del principio di conservazione della forza viva contro la teoria del calore sostanza; dall'altro esse si riferiscono alla tematica più recente della mutua conversione fra fenomeni fisici in cui «nulla è mai perduto ». Da tali considerazioni non emerge ancora il concetto di energia e quello della sua conservazione né la consapevolezza teorica della svolta che stava per compiersi nella fisica.

Eppure l'esattezza ed il tipo delle ricerche sperimentali con cui Joule aveva stabilito l'equivalente meccanico del calore superavano la portata delle sue stesse conclusioni teoriche. La conversione di calore e lavoro da lui considerata non era propriamente quella diretta che si realizza nell'attrito o nella compressione di gas e che era stata interpretata in modo abbastanza soddisfacente in base alla teoria del calorico. Tale conversione è invece di tipo indiretto, avviene cioè attraverso gli anelli intermedi di processi elettrici e chimici per i quali la teoria del calorico non risultava adeguata. Ma proprio per tale tipo di conversione, che coinvolgeva una serie di fenomeni fisici molto diversi, era inadeguato anche lo stesso principio puramente meccanico della conservazione della forza viva. Occorreva dunque l'enunciazione di un principio più generale di conservazione, che ne ampliasse la portata ed il significato.

Il merito di aver formulato per la prima volta il principio di conservazione dell'energia in termini generali e coerenti alla trattazione meccanica dei fenomeni spetta ad uno dei maggiori fisici e fisiologi tedeschi: Hermann Helmholtz di cui si parlò a lungo nel volume quarto, con lo scritto (esso pure già menzionato) Ueber die Erhaltung der Kraft (Sulla conservazione della forza, I 847)·

Egli aveva iniziato la sua attività scientifica come fisiologo e aveva tratto lo spunto per le sue riflessioni dal problema del rapporto fra calore e lavoro nell'ani-

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male. Il suo scritto si svolge tuttavia nella trattazione di argomenti strettamente fisici. Nell'introduzione l'autore si sofferma su alcune riflessioni di carattere filo­sofico intorno al compito teorico della fisica. Questa scienza, movendo dall'as­sioma che « ogni trasformazione deve avere una causa sufficiente », tende a ricer­care dei fenomeni « le cause ultime, che agiscono secondo una legge immutevole, e che, dunque, producono in qualsiasi tempo, a parità di condizioni esterne, lo stesso effetto ». Poiché la materia mostra una capacità di produrre effetti, dobbiamo attribuire ad essa delle forze e considerare quindi tali cause ultime come delle forze immutevoli nel tempo.

Pur dovendosi ammettere differenze qualitative nei corpi, le uniche trasfor­mazioni che, secondo l'autore, possono essere prese in considerazione dalla fisica sono spaziali, consistono cioè in movimenti. Occorrerà ammettere quindi che le forze sono soltanto forze motrici, il cui effetto dipende soltanto dai rapporti spa­ziali. In tal modo Helmholtz assume una netta posizione meccanicistica. Ma egli non si limita a questo. Precisa anche che queste forze motrici devono essere sem­plici, devono cioè ridursi a forze attrattive e repulsive che agiscono sui punti­massa secondo un'intensità che dipende dalla loro distanza.

Movendo da queste premesse egli osserva che il principio di conservazione della forza viva, assunto dalla meccanica, soddisfa l'esigenza di ricondurre i feno­meni a forze immutevoli, ma non l'esigenza che queste forze siano forze semplici, agenti su punti. Egli dimostra quindi che il principio di conservazione delle forze vive è valido soltanto quando le forze possono essere decomposte in forze agenti su punti materiali.

Sino a questo momento la trattazione del nostro autore sembra limitarsi ad un affinamento e ad una nuova definizione di un principio tradizionale della mec­canica, e non si intravvede ancora in qual modo si possano ricondurre tutti gli effetti naturali a forze immutevoli e semplici. Ciò che permette all'autore di compiere questo passo è la considerazione del moto perpetuo.

L'impossibilità del moto perpetuo non era una novità. Già dal 1775 l'Acca­demia delle scienze di Parigi aveva respinto ogni progetto che si proponesse di realizzarlo ed ormai per i fisici tale impossibilità indicava quasi unicamente l'ine­vitabilità dell'attrito e quindi un progetto chimerico che era costato troppo tempo e troppe energie. Carnot nella sua opera del 1824 aveva però usato questa impos­sibilità come un principio fisico generale per stabilire il rendimento della mac­china a vapore e lo aveva considerato come un principio valido non soltanto nella meccanica ma per tutte le trasformazioni naturali.

È proprio da questa idea di Carnot che Helmholtz trae lo spunto. Egli assume cioè come principio generale, che regge tutti gli effetti fisici, il principio dell'im­possibilità del moto perpetuo ed in modo geniale esprime tale principio mediante la nuova definizione della conservazione della forza viva. In tal modo egli ottiene il risultato di assumere un principio fisico che si estende, per la sua validità empi-

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rica e per la sua formulazione, a tutti i rami della fisica, ma che nello stesso tempo può essere espresso nel linguaggio rigoroso della meccanica.

Assunto dunque come principio valido per tutti i fenomeni naturali che « sia impossibile produrre continuamente forza motrice dal nulla, attraverso qualsivoglia combinazione di corpi naturali », ispirandosi ·sempre a Carnot, ed in particolare all'idea di reversibilità di un processo fisico, Helmholtz dà di questo principio una formulazione generale e caratteristica che si dimostrerà estremamen­te feconda.

Se da un sistema di corpi che compie una trasformazione si ottiene un determi­nato lavoro è possibile, applicando ad esso forze a noi disponibili, ricondurre il sistema alle condizioni iniziali di partenza. Il principio in questione esige che il lavoro ottenuto nella prima trasformazione sia lo stesso di quello applicato o perduto nella seconda trasformazione, quando il sistema ritorna alle sue condi­zioni iniziali, a prescindere dal modo, dalla traiettoria o dalla velocità di questo ritorno. Se il lavoro non fosse lo stesso, la differenza costituirebbe creazione di moto perpetuo.

È da osservare che proprio la reversibilità di questo sistema permette di individuare, in un processo fisico qualsiasi e non solo meccanico, una grandezza che si conserva costante e cioè la capacità di compiere lavoro.

Ma questa nuova grandezza individuata implicitamente nella trasformazione reversibile richiede di essere definita. Un primo passo consiste nel misurare la quantità di lavoro mediante la forza viva secondo la formula nota da tempo mgh = 1 fz mv2, che esprime l'uguaglianza fra il lavoro speso da un corpo cadendo e la forza viva acquisita in tale caduta. Questa misurazione permette così di affer­mare che la costanza della quantità di lavoro in un sistema fisico, quale si rivela con il principio dell'impossibilità del moto perpetuo, può essere espressa dal principio della conservazione della forza viva.

Ma il modo con cui Helmholtz definisce tale principio permette di compiere un passo ulteriore. Il principio, come si è visto, vale soltanto per il caso di forze semplici agenti su punti-massa. Esso non esprime quindi soltanto il lavoro o l'effetto fisico che si realizza quando un corpo cade o viene sollevato da terra, ma indicherà, più in generale, l'effetto fisico esercitato da una forza fra due determi­nati punti, o meglio la tensione che corrisponde alla variazione relativa della di­stanza fra due centri di forza. Trattasi di una nuova entità fisica che viene chiamata da Helmholtz « forza di tensione » e che verrà successivamente denominata ener­gia potenziale. È questa nuova entità che permette di definire meglio quella capa­cità di lavoro presente nel sistema reversibile mediante cui si è definito il principio del moto perpetuo.

Mentre la forza viva indica la forza di un corpo in movimento, la forza di tensione indica la forza che cerca di muovere un punto fino a tanto che essa non abbia ancora provocato il movimento.

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Principi e problemi della termodinamica

Esiste un'uguaglianza fra forza viva e forza di tensione (denotata con segno negativo) e questa uguaglianza esprime nei termini più generali il principio di conservazione della forza.

«In tutti quei casi, nei quali punti materiali liberi si muovano sotto l'influenza delle forze attrattive o repulsive: forze, le cui intensità dipendono soltanto dalla distanza, la perdita della quantità di forza di tensione è sempre uguale all'acquisto di forza viva, e l'acquisto della prima è uguale alla perdita della seconda. La somma delle forze vive e di tensione, che sono presenti, è sempre costante. In questa for­ma affatto generale, possiamo definire la nostra legge come il principio della con­servazione della forza. »

Helmholtz, nei successivi capitoli della sua memoria, applica il nuovo princi­pio alle diverse parti della fisica. Dapprima tratta dei teoremi meccanici, per passare poi all'equivalente meccanico del calore. Respinge la teoria del calorico e ammette invece che il calore consista nella forza viva o nella forza di tensione degli atomi. Successivamente tratta dell'equivalente meccanico nell'elettricità, nel magnetismo e nell'elettromagnetismo per concludere con un breve accenno ai processi dell'organismo vivente.

Nel complesso lo scritto di Helmholtz mostra chiaramente come il nuovo principio della conservazione dell'energia non era il risultato di qualche specifica ricerca sperimentale ma sorgeva per una esigenza di sistemazione teorica e come condizione per una nuova e più ampia aggettivazione dei fenomeni naturali.

Con tale formulazione la meccanica mostrava ancora la sua fecondità e la potenza concettuale dei suoi principi generali.

VI · TEORIA DI SADI CARNOT

Lo scritto di Helmholtz, forse per il suo carattere estremamente teorico e per l'astrattezza delle sue formulazioni matematiche, non riuscì, malgrado la profon­dità dell'impostazione, a suscitare l'immediata attenzione del mondo scientifico.

Solo alcuni anni più tardi nel I 8 5o e nel I 8 p per merito del fisico tedesco Rudolf Clausius e soprattutto dell'inglese William Thomson le nuove idee che stanno alla base della termodinamica e che aprivano una nuova visione scientifica su tutti i fenomeni naturali, venivano presentate in modo chiaro ed immediatamen­te persuasivo.

Il punto di partenza da cui mossero i due citati autori non furono gli scritti di Mayer od Helmholtz ma piuttosto le ricerche di Joule e l'opera quasi scono­sciuta Réflexions sur la puissance motrice du feu di Sadi Carnot.

Carnot, che appare come la figura decisiva nello sviluppo della termodina­mica ottocentesca, si era formato all'École Polytechnique ed aveva affrontato il problema della macchina a vapore secondo quell'impostazione teorica e matema­tica che in Francia aveva dato importanti frutti nel campo della meccanica.

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Principi e problemi della termodinamica

Come si è già accennato, egli muove da una precisa analogia fra la macchina a vapore e quella idraulica. Come in questa il lavoro viene prodotto dalla caduta di una certa massa d'acqua da un livello più alto ad uno più basso, così nella mac­china termica il lavoro è prodott~ dal passaggio dalla caldaia al refrigeratore di una quantità indistruttibile di calorico che legandosi al vapore con la sua espansione muove lo stantuffo.

L'effetto meccanico prodotto dal calorico è dovuto soltanto alla dilatazione di un corpo il quale dovrà essere successivamente raffreddato, onde riprendere il volume iniziale se si vuole ottenere da esso nuovo lavoro. La ciclicità che si realiz­za in tal modo appare perciò come una condizione ideale necessaria in ogni mac­china termica.

Se però la produzione di lavoro è dovuta al ristabilirsi di un equilibrio del calorico, cioè ad un livellamento delle temperature di due corpi, occorre ammette­re che ogni ristabilimento di questo equilibrio che si compie senza produzione di lavoro costituisce una pura perdita. Occorre quindi, per ottenere il massimo ren­dimento della macchina, che « nei corpi impiegati per realizzare la potenza mo­trice del calore non si verifichi nessun cambiamento di temperatura che non sia dovuto ad un cambiamento di volume ».

Nella macchina termica reale si ha perdita di lavoro per la dispersione di ca­lore analogamente alla perdita di lavoro che si ha, per l'attrito, nelle macchine tradizionali. Occorre quindi che nella macchina ideale la necessaria trasmissione di calore fra le parti (cioè le due fasi di riscaldamento del cilindro per contatto con la caldaia ed il suo raffreddamento per contatto con il refrigeratore) avvenga con trasformazioni il più possibile isotermiche, in cui cioè la differenza di temperatura sia la più piccola possibile.

Per lo stesso motivo occorre che nelle altre due fasi della macchina (in cui si ha dilatazione di volume per produrre lavoro e riduzione di volume, con assor­bimento di lavoro, per ricondurre il corpo alle condizioni iniziali), il necessario cambiamento di temperatura non comporti trasmissione di calore, cioè le due fasi siano adiabatiche.

Nelle quattro fasi alterne (che costituiscono il ciclo completo della macchina termica ideale) non solo i cambiamenti di temperatura ma anche quelli di pres­sione avvengono mediante trasformazioni infinitesime. Ciò permette di far de­correre tutti i processi della macchina in senso inverso. Essa può cioè assorbire lavoro trasportando il calore dal corpo freddo al corpo caldo.

Questa possibilità di far funzionare la macchina in senso inverso rende pos­sibile a Carnot la dimostrazione che il rendimento di una macchina termica ideale dipende soltanto dalla differenza di temperatura e non dalla sostanza impiegata per ottenere il lavoro (vapore, aria, ecc.).

Si supponga infatti di avere due macchine termiche funzionanti ambedue fra le temperature A e B. Ad una di queste macchine forniamo una certa quantità

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Principi e problemi della termodinamica

di calore q che passi dal livello A più elevato a quello B più basso e otterremo una quantità di lavoro L.

Applichiamo ora questo lavoro all'altra macchina che procede in senso in­verso. Otterremo allora che una quantità di calore Q, uguale a quella q fornita alla prima macchina, passi dal livello di temperatura B a quello più alto A. Macchine accoppiate in questo modo potrebbero procedere alternativamente scambiandosi calore e lavoro.

Se una delle due macchine avesse un rendimento superiore all'altra, se cioè fosse possibile che il calore in una di esse producesse più lavoro che nell'altra, avremmo un eccesso di lavoro che in una serie di macchine simili potrebbe crescere indefinitamente. «Ciò, » afferma Carnot, « sarebbe non soltanto moto perpetuo ma una creazione illimitata di potenza motrice senza consumo di calore né di qual­siasi altra sostanza. Tale creazione è del tutto contraria alle idee ora accettate, alle leggi della meccanica e di una sana fisica. »

In tal modo l'impossibilità del moto perpetuo, provata empiricamente da una lunga serie di tentativi falliti, diviene nella dimostrazione di Carnot un po­stulato fisico che supera l'ambito tradizionale della meccanica. Helmholtz come si è visto riprenderà da Carnot lo stesso principio per definire la conservazione della forza. Ed in tale definizione un altro concetto introdotto da Carnot risulterà molto importante, quello di reversibilità.

Nella trattazione teorica della macchina termica ideale la reversibilità indica la possibilità di un decorso inverso della macchina. Si tratta di un processo puramen­te ideale che non si verifica mai nella esperienza, ma che può essere esteso come scl;lema di ragionamento fisico a qualsiasi sistema di corpi. Secondo Charles C. Gillispie « il processo reversibile può essere paragonato al concetto di movimento inerziale nel xvn secolo. Nessun moto reale può persistere per sempre in linea retta. Nessun processo reale è reversibile ».

VII · ENUNCIAZIONE DEI DUE PRINCIPI

DELLA TERMODINAMICA • CLAUSIUS E THOMSON

Un momento decisivo nello sviluppo della termodinamica ottocentesca è costituito dall'interessamento di William Thomson per l'opera ancora scono­sciuta di Carnot. Il fisico inglese ne era venuto a conoscenza attraverso l'esposi­zione fattane dall'ingegnere francese Émile Clapeyron (1799-1864) nel 1834 ed era riuscito a ritrovare a Parigi una copia del testo originale di Carnot. Come risultato della sua riflessione sull'opera del fisico francese, Thomson pubblicò nel 1 848 un articolo in cui si stabiliva la possibilità di una scala termometrica assoluta.

Risultava infatti dalla teoria di Carnot che in una macchina termica ideale il lavoro massimo risulta soltanto dalla quantità di calore trasportato e dalla diffe-

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renza di temperatura fra cui avviene questo trasporto. Diventa perciò possibile, secondo Thomson, definire esattamente un determinato intervallo di tempera­tura, conoscendo la quantità di lavoro che una caloria compie passando da un'e­stremo all'altro di questo intervallo. E tale intervallo, che costituisce la base o l'elemento della nuova scala termometrica assoluta, è del tutto indipendente dalle proprietà fisiche del mercurio o di qualsiasi altra sostanza la cui espansione viene normalmente misurata in un termometro.

In un successivo articolo del I 849, Thomson si occupa più direttamente della teoria di Carnot, prendendo le mosse dalla recenti ricerche di Joule sull'equiva­lente meccanico del calore. Thomson non ritiene ancora possibile respingere in base a tali ricerche la teoria del calorico, ma richiama l'attenzione su un con­trasto fra i risultati di J oule e la teoria di Carnot.

Se si ammette infatti con Joule che nella reciproca conversione di lavoro e calore nulla vada perduto o venga distrutto, bisognerebbe allora respingere una conseguenza fondamentale della teoria di Carnot e cioè che ogni volta che del calore passa naturalmente da un corpo caldo ad un corpo freddo viene perso un effetto meccanico, viene cioè distrutto quel lavoro che potrebbe essere ottenuto se questo passaggio avvenisse in una macchina termica.

Il dilemma fra la teoria di J oule, che nulla poteva essere distrutto nella con­versione di lavoro e calore, e quella di Carnot, per cui del lavoro è effettivamente perduto col passaggio spontaneo di calore da un corpo all'altro, racchiudeva em­brionalmente i due principi della termodinamica. Il merito di aver affrontato que­sto dilemma individuando tali principi fu del fisico tedesco Clausius.

Ciò avvenne nell'anno successivo 1850 allorché Rudolf Clausius (1822-88), libero docente a Berlino, pubblicò una fondamentale memoria Ueber die bewegende

Kraft der Wàrme (Sulla forza motrice del calore). La relazione quantitativa fra calore e lavoro analizzata da Carnot - secondo il fisico tedesco - non comporta neces­sariamente l'esistenza di un calorico indistruttibile. Tale relazione può essere in­terpretata ammettendo un effettivo consumo, cioè una distruzione di calore. Le ricerche di J oule spingono infatti ad ammettere che il calore non è una sostanza ma è il movimento delle stesse particelle di un corpo. Questo movimento può perciò trasformarsi in lavoro e la perdita di forza viva delle particelle è proporzio­nale al lavoro prodotto.

Quanto al contrasto messo in rilievo da Thomson non si può dire che la concezione di J oule sia in contraddizione con quella di Carnot, ma solo con una parte di essa, cioè con l'affermazione che il calore non venga consumato. Si può infatti ammettere che nella produzione di lavoro della macchina termica una parte di calore sia soltanto trasportata ed un'altra parte sia consumata cioè convertita in lavoro, ed inoltre che ambedue queste quantità di calore siano in una relazione definita con il lavoro compiuto.

Uno dei compiti più importanti che Clausius affronta in questa e in successive

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ricerche è appunto quello di chiarire la particolare relazione esistente in una mac­china termica ideale a funzionamento ciclico e reversibile fra calore trasportato, calore consumato e lavoro prodotto. È appunto dall'analisi di questa parti­colare relazione di carattere indubbiamente astratto che risulterà il concetto di entropia.

Una prima importante osservazione di Clausius a questo proposito riguarda il rapporto fra calore trasportato e lavoro prodotto. Se per produrre cioè una certa quantità di lavoro occorre trasportare una certa quantità di calore da un corpo caldo ad un corpo freddo, allora è possibile consumando la stessa quantità di la­voro riportare una stessa quantità di calore dal corpo freddo a quello caldo.

Da ciò risulta che il lavoro massimo prodotto nella macchina termica dipende, come aveva sostenuto Carnot, soltanto dal calore trasferito. La prova di questo principio generale della termodinamica non è più formulata in base alla impossibi­lità del moto perpetuo, ma viene cercata nell'ambito stesso della teoria del calore e precisamente nell'affermazione generale secondo cui è impossibile che del calore passi spontaneamente da un corpo freddo ad un corpo caldo.

Se infatti il lavoro non dipendesse soltanto dal calore trasportato, nel caso di due macchine termiche accoppiate che operano fra eguali dislivelli di temperatura, si potrebbe avere una macchina a rendimento maggiore che produce un eccesso di lavoro. Questo lavoro, ottenuto senza alcun dispendio, potrebbe essere impie­gato per ottenere un passaggio di calore da un corpo freddo ad un corpo caldo. Ma tale passaggio non può avvenire spontaneamente, non può cioè avvenire senza un effettivo dispendio.

Dell'ampia e approfondita memoria di Clausius prese conoscenza William Thomson nel successivo anno I 8 p, allorché egli stesso aveva già risolto nello stesso modo il problema di conciliare il contrasto fra le posizioni di Joule e di Carnot. Anch'egli affrontò perciò l'argomento pubblicando un famoso articolo On the t/.ynaHiical theory of beat (Sulla teoria dinamica del calore), con il quale ormai si proclamavano apertamente al mondo scientifico i due principi della termodina­mica.

Tali principi sono considerati come le due fondamentali proposizioni su cui è fondata tutta la teoria della potenza motrice del calore. Il primo attribuito a J oule viene così enunciato: « Quando determinate quantità di effetti meccanici vengono prodotti in qualsiasi modo da sorgenti puramente termiche o sono perse in effetti puramente termici, allora uguali quantità di calore sono distrutte o generate. »

Per la seconda proposizione egli riconosce la priorità della enunciazione fattane da Clausius, l'anno precedente, e trova la seguente formulazione: « Se in una macchina (termica) che procede in senso inverso tutte le azioni fisiche e mec­caniche sono invertite in ogni parte dei suoi movimenti, allora essa produce la stessa quantità di effetti meccanici che può essere prodotta da ogni macchina, con

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la stessa quantità di calore, fra le stesse temperature della sorgente e del refrigera­tore.»

Egli ritiene inoltre, in modo analogo a Clausius, che questa proposizione sia basata su un assioma che egli così esprime: « È impossibile per mezzo di azioni inanimate, derivare un effetto meccanico da qualsiasi porzione di materia raffred­dandola al di sotto della temperatura del più freddo dei corpi circostanti. »

Questo assioma è analogo al principio espresso da Clausius cioè che « il calore non può passare spontaneamente da un corpo freddo ad un corpo caldo ». L'assioma di Thomson ha però un carattere più specifico, in quanto non si ri­ferisce al comportamento del calore in generale, ma ad una condizione per ottenere del lavoro dal calore. Questa condizione indica appunto che per raggiungere tale effetto occorre un trasporto di calore da un corpo caldo ad uno freddo e non viceversa.

La particolare attenzione di Thomson per la produzione di lavoro risulta anche dalla sua enunciazione del secondo principio che si riferisce esplicitamente alla macchina termica. Anche da ciò appare l'influenza che gli aspetti tecnico-pro­duttivi potevano avere in questo autore che si presenta come il tipico scienziato della nuova società industriale. Furono forse il clima e gli interessi di questa so­cietà che fecero di lui il propugnatore della termodinamica.

La propensione di Thomson ad una valutazione economica dei problemi scientifico-naturali lo aveva spinto a dare particolare rilievo all'osservazione di Carnot secondo cui si ha perdita di potenza motrice quando del calore passa spon­taneamente da un corpo caldo ad uno freddo. Nel I 8 5 z egli richiama esplicitamen­te l'attenzione su questo argomento in un breve articolo On a uttiversal tendency in nature to the dissipation oJ energy (Su una tendenza universale nella natura alla dissi­pazione dell'energia). « Questa comunicazione, » egli scrive, « intende richiamare l'attenzione sulle rilevanti conseguenze dell'enunciato di Carnot, secondo cui si ha una "perdita "assoluta dell'energia meccanica a disposizione dell'uomo, quando al calore è dato di passare da un corpo ad un altro di temperatura più bassa, in modo da non soddisfare il criterio di una macchina termodinamica perfetta ... Poiché è massimamente sicurò che soltanto la Potenza Creatrice può creare o annientare l'energia meccanica, la perdita sopra riferita non può essere annienta­mento ma deve essere una qualche trasformazione di energia. »

Questa trasformazione consiste propriamente nella dissipazione di una riserva di energia che non può essere ristabilita. E ciò avviene quando è prodotto calore in modo irreversibile mediante attrito, quando si ha conduzione di calore, as­sorbimento di luce, ecc.

Thomson conclude affermando che la dissipazione di energia meccanica co­stituisce una tendenza universale del mondo materiale che non può essere comun­que compensata e che porta a fissare dei limiti nel tempo passato ed in quello futuro alle condizioni fisiche di abitabilità della terra da parte dell'uomo.

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Principi e problemi della termodinamica

In complesso risulta evidente, negli interessi che fecero di Thomson il pro­pugnatore dei nuovi principi della termodinamica, l'influenza degli aspetti tec­nico-produttivi della società industriale della quale egli rappresentava il tipico scienziato. Tale influenza d'altronde era legata in modo caratteristico ad un'at­tenzione per le prospettive cosmologiche che sorgeva da una tradizionale cultura biblico-religiosa.

Le conseguenze cosmologiche della teoria di Carnot costituiranno uno dei temi filosofico-scientifici più dibattuti nei successivi decenni. Più immediato si presentava però il compito di chiarire ed approfondire i nuovi principi che erano emersi attraverso le riflessioni di Clausius e Thomson.

Il primo principio non era stato ancora formulato da questi due autori come principio di conservazione dell'energia, ma semplicemente come principio della convertibilità di calore e lavoro, nell'ambito di una teoria dinamica del calore. Il secondo principio, che per Thomson esprimeva più specificamente la condizione di rendimento della macchina termica, per Clausius indicava in termini teorici più generali la necessità, per ottenere la conversione di calore in lavoro, di un traspor­to di calore da un corpo caldo ad uno freddo.

Questi due principi erano stati dunque formulati in stretta connessione l'uno con l'altro e con riferimento quasi esclusivo al problema della macchina termica e solo più tardi, anche attraverso gli scritti di Helmholtz e di Mayer, si giun­gerà a vedere tutta la loro portata nell'ambito della complessiva conoscenza della natura.

Un importante sviluppo teoriéo nella definizione del secondo principio fu dato da Clausius nel I 8 54 con un articolo Ueber eine veréinderte Form des zweiten Hauptsatzes der mechanischen Warmetheorie (Su una forma modificata del secondo prin­cipio della teoria meccanica del calore). Clausius, che è lontano dagli interessi tecnico­economici e cosmologici di Thomson, mostra invece una netta propensione per un'analisi più astratta di tipo fisico-matematico della teoria di Carnot. Ed il ri­sultato di questa analisi sarà l'introduzione di una nuova entità teorica, l'entropia.

Clausius è mosso dall'esigenza di trovare la più stretta connessione possibile fra il primo principio, inteso come equivalenza o conversione di calore e lavoro, ed il secondo principio per cui questa conversione comporta un trasferimento di calore da un corpo più caldo ad uno più freddo.

A questo scopo egli cerca di stabilire un particolare rapporto fra le due tra­sformazioni individuali nel ciclo di Carnot: a) conversione di calore in lavoro b) trasporto di calore da un corpo caldo ad uno freddo. Ritiene che ciascuna di queste due trasformazioni può considerarsi equivalente all'altra, cioè «ciascuna, presa in s.enso contrario, può sostituire l'altra, in modo che se una trasformazione di un tipo si verifica, essa può essere annientata e sostituita da una trasformazione dell'altra specie».

Ciò significa che utilizzando un trasporto di calore possiamo rovesciare un

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processo di conversione e viceversa mediante un processo di conversione possia­mo rovesciare un trasporto di calore.

Poiché esiste un'equivalenza fra queste due trasformazioni Clausius cerca di stabilire un valore per essa, qualcosa cioè di analogo all'equivalente meccanico del calore. Trattando matematicamente il problema ritiene di individuare questo « valore di equivalenza » in una funzione che si applica ad ambedue le trasforma­zioni e permette un loro raffronto in quanto indica lo scambio di calore che si ha in ambedue.

Tale funzione che è costituita dal rapporto QfT, ove Q significa la quantità di calore e T significa la temperatura assoluta, permette di calcolare sia lo scambio di calore che si ha nel trasporto di calore che quello che si ha nella conversione, stabilendo, nel raffronto, la loro equivalenza. A questo rapporto si dà il segno + quando si tratta di trasporto di calore, ed il segno - quando si tratta di conver­sione di calore in lavoro. Clausius stabilisce che se il ciclo è reversibile i due ti­pi di trasformazione si devono compensare mutualmente in modo che la somma algebrica dei rispettivi valori sia nulla. Si potrà allora scrivere dQfT = o.

Nei processi irreversibili in cui, ad esempio, la trasformazione positiva co­stituita dal trasporto di calore da un corpo caldo ad un corpo freddo non è compensata completamente da quella negativa della conversione, la somma al­gebrica delle due trasformazioni sarà positiva e si potrà scrivere d Q/T > o.

Tale valore di equivalenza d Q/T, a cui Clausius darà successivamente il nome di entropia, risulta positivo anche per altri processi irreversibili di genere più vario, dalla conduzione di calore, all'attrito, ecc.

Il secondo principio risulta dunque formulato da Clausius come « principio dell'equivalenza delle trasformazioni», in modo strettamente analogo al primo principio che è per lui quello dell'« equivalenza di calore e lavoro ».

VIII · SVILUPPI ED INT~RPRETAZIONI DEI PRINCIPI

DELLA TERMODINAMICA

Accanto alla feconda analisi fisico-matematica del ciclo di Carnot, condotta specialmente da Clausius, si compiva dur~nte gli anni cinquanta anche un appro­fondimento del significato teorico che i nuovi principi venivano ad assumere per il complesso della conoscenza fisica della natura.

Importante in questo senso fu una conferenza tenuta da Helmholtz nel r 8 54 Ueber die Wechselwirkung der Naturkrajte (Sull'azione reciproca delle forze naturali), in cui non si esita ad estendere a tutto il mondo fisico la portata dei nuovi principi ed a tracciare in base ad essi un quadro cosmologico, che riguarda in particolare l'origine e lo sviluppo del sistema solare.

Da un lato, come conseguenza del primo principio, egli afferma che « la natura possiede un deposito di forza attiva, che in nessun modo può essere aumentato o

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diminuito, e ... la quantità della forza attiva nella natura inorganica è immutabile così come la quantità della materia ».

D'altro lato egli ritiene, riprendendo le considerazioni di Thomson a pro­posito della dissipazione dell'energia meccanica, che si possa «dividere in due parti il contenuto complessivo di forza dell'universo: una parte è calore e tale deve rimanere, l'altra parte, alla quale appartengono il calore dei corpi infocati e l'intera provvista delle forze chimiche, meccaniche, elettriche e magnetiche, è passibile delle più diverse trasformazioni e contiene in sé tutta la ricchezza dei mutamenti reciproci che avvengono nella natura.

« Ma il calore dei corpi infocati tende continuamente a passare nei meno caldi mediante conduzione e irraggiamento, e a produrre un equilibrio termico. In ogni movimento di corpi terrestri una parte della forza meccanica diventa calore - di cui solo una frazione può subire nuovamente la trasformazione inversa -attraverso l'attrito e l'urto; lo stesso accade, di regola, in ogni processo chimico ed elettrico. Da ciò segue, dunque, che la prima parte del deposito di forza, quella consistente in calore non trasformabile, aumenta continuamente con ogni pro­cesso naturale; la seconda parte, ossia le forze meccaniche, elettriche e chimiche, diminuisce continuamente; e, se l'universo è lasciato in balia del decorso dei suoi processi fisici senza l'intervento di azioni esterne, alla fine tutto il contenuto di forza dovrà passare in calore, e tutto il calore distribuirsi in un equilibrio termi­co. Allora è esaurita ogni possibilità di un'ulteriore trasformazione; allora deb­bono completamente cessare tutti i processi naturali di qualsivoglia tipo. »

L'idea di questa «morte termica dell'universo» trovò ampia eco nelle di­scussioni filosofico-scientifiche dei successivi decenni. Da un lato i sostenitori di una concezione materialistica consideravano i principi di conservazione della materia e dell'energia come le leggi più generali della realtà fisica, che garantivano la stabilità e l'eternità dell'universo, la continuità del suo incessante svolgimento. D'altro lato molti vedevano nel secondo principio una ragione per negare questa concezione. Lo stesso Clausius in un discorso tenuto nel 1867 respingeva l'idea che vi fosse una circolarità od un eterno procedere uniforme nell'universo. Egli affermava infatti perentoriamente che l'entropia dell'universo tende ad un massi­mo, cioè all'arresto di tutte le trasformazioni.

Specialmente negli ultimi anni del secolo, nel clima di più vivace reazione al positivismo ed al materialismo, frequenti erano i richiami al secondo principio per negare l'immagine dell'autonomia e dell'eternità della natura e per scoprire in essa un aspetto catastrofico, un richiamo all'inizio ed alla fine del mondo, che potessero giustificare il ritorno alle concezioni tradizionali della religione.

Per alcuni tuttavia era possibile accettare senza drammatizzazioni il venir meno di un'immagine della natura svolgentesi attraverso un ripetersi indefinito di movimenti regolari. Lo stesso darwinismo aveva convalidato l'idea di una storicità del mondo naturale, rilevando gli stretti legami fra lo sviluppo della

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specie umana e l'ambiente circostante. Attraverso tali legami la sopravvivenza della specie umana poteva apparire minacciata da molte più circostanze che non dall'esaurirsi dell'energia meccanica dell'universo.

Per altri autori invece la prospettiva di uno sviluppo storico del mondo fisico, risolventesi in una sua morte termica, appariva per vari motivi inaccettabile o comunque non necessaria. Costoro formularono varie ipotesi, più o meno plau­sibili, per individuare eventuali processi capaci di compensare a livello astronomi­co la dissipazione o degradazione dell'energia. Già nel r8p, ad esempio, il fisico inglese William John Macquorn Rankine (r8zo-7z) replicava alle considera­zioni di Thomson supponendo che il calore raggiante, riflettendosi in un universo finito ai limiti del mezzo interstellare, potesse concentrarsi in fuochi, dove l'al­tissima temperatura potrebbe causare processi trasformativi.

Successivamente Spencer, in una visione cosmologica più elaborata, am­metteva che la inevitabile morte termica del nostro universo non sarebbe per­manente poiché da esso prenderebbe inizio una nuova fase di differenziazione e di organizzazione. Ciò sarebbe reso possibile dal fatto che il nostro universo sarebbe parte di un universo più ampio ed infinito, capace di intervenire su di esso rom­pendo le sue fasi di stabilità.

Un'altra conseguenza filosofica importante del secondo principio della ter­modinamica, alla quale verrà rivolto interesse soprattutto nei decenni successivi è la direzione introdotta nei processi naturali dal riconoscimento della loro irrever­sibilità. Tale direzione era identificata con lo stesso tempo, il quale non appariva più una semplice variabile matematica od una forma soggettiva dell'esperienza, ma una proprietà concreta della realtà fisica.

Le varie considerazioni cosmologiche o filosofiche basate sui principi della termodinamica furono in parte condizionate dal graduale sviluppo ed approfon­dimento dei concetti fondamentali introdotti con la nuova scienza.

Durante gli anni cinquanta uno degli sviluppi più importanti consistette nell'introduzione, ad opera di autori inglesi, di una terminologia più appropriata. Rankine e Thomson adottarono in luogo del termine ambiguo di forza (usato nel senso leibniziano di forza viva e preferito per molti anni dagli autori tedeschi) quello di energia. Il termine forza doveva così significare, in senso newtoniano, soltanto la forza acceleratrice. Un'importante distinzione venne inoltre introdotta fra forza cinetica, equivalente alla forza viva, e energia potenziale, equivalente alla « forza di tensione », introdotta da Helmholtz.

Il principio di conservazione dell'energia poteva così essere formulato, se­condo Thomson, affermando che l'energia cinetica e l'energia potenziale di un sistema hanno una somma costante.

Con il termine energia si poteva poi intendere in generale la « capacità di effettuare cambiamenti » o più specificamente quella di « compiere lavoro ».

Sviluppando l'analisi dei concetti fondamentali della termodinamica apparve

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Principi e problemi della termodinamica

sempre più chiara l'esistenza di un contrasto o di una sorta di contraddizione fra il primo ed il secondo principio. Se infatti si intende per energia la capacità di compiere lavoro, mentre il primo principio afferma che questa capacità si conserva costante, il secondo, in quanto implica la dissipazione dell'energia, afferma che questa capacità di compiere lavoro in qualche modo si annulla.

Analogo contrasto appariva fra la reversibilità, implicita nel primo principio e caratteristica di ogni processo meccanico, e la irreversibilità che appariva come una caratteristica dell'insieme dei fenomeni considerati dal punto di vista del se­condo principio.

IX · LA TEORIA CINETICA DEI GAS

E LA MECCANICA STATISTICA

Queste gravi difficoltà che sembravano contrapporre in modo irrimediabile la tradizionale concezione meccanica dei fenomeni alla nuova scienza della termo­dinamica, dovevano essere risolte attraverso un nuovo indirizzo di ricerca, la teoria cinetica dei gas.

Gli autori che avevano visto nel primo principio l'affermazione della natura meccanica del calore, avevano sostenuto che questo calore consisteva nel movi­mento delle particelle dei corpi. Con questa affermazione essi tuttavia non pote­vano riferirsi ad una precisa teoria sulla costituzione della materia, su cui i fisici potessero trovarsi concordi.

Benché una concezione atomistica fosse stata utilizzata nella chimica sin dai primi decenni dell'Ottocento, molti fisici, anche nella seconda metà del secolo ritenevano che la concezione atomistica della materia appartenesse ad una tra­dizione di tipo speculativo o comunque che la opposta teoria, che considerava la materia come un continuo, fosse altrettanto soddisfacente.

Nell'analizzare tuttavia la costituzione fisica dei gas, il cui studio era diventato sempre più importante anche per l'introduzione della macchina a vapore, difficil­mente si poteva respingere l'ipotesi di una loro struttura corpuscolare. Già nel 1738 Daniel Bernoulli aveva spiegato la pressione di un gas mediante gli innu­merevoli urti contro le pareti del recipiente delle molecole che lo costituiscono. A questa teoria « cinetica » fu però preferita nel periodo successivo una teoria « statica » che considerava gli atomi di un gas relativamente fissi nello spazio, co­me quelli di un solido altamente espanso. L'idea che le particelle di un gas si potessero muovere liberamente nello spazio venne ripresa senza successo, nei primi decenni dell'Ottocento, da alcuni autori inglesi. J oule si interessò di que­sta ipotesi e nel 1 848 sostenendo che la temperatura dipende dal movimento delle particelle calcolò la velocità di una di esse nel gas idrogeno.

Un vero interesse del mondo scientifico per questa ipotesi cinetica sulla co­stituzione dei gas fu suscitato da uno scritto di August Kronig (1822-79) del

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Principi e problemi della termodinamica

I 8 56 e da un articolo di Clausius del I 8 57. Per spiegare il comportamento os­serva bile dei gas questi formulò varie ipotesi, ammettendo fra l'altro: a) che lo spazio occupato dalle molecole sia infinitamente piccolo rispetto a quello occupato da tutto il gas; b) che la durata degli urti fra molecole sia infinita­mente piccola rispetto agli intervalli fra gli urti; c) che le forze molecolari in­fluenzino in modo minimo le traiettorie delle molecole stesse. Ammetteva inol­tre velocità diverse per le molecole e riteneva che la pressione fosse il risultato della loro velocità media.

Nel I 8 59 riprende la trattazione dell'argomento rispondendo fra l'altro ad una particolare obiezione. Se la velocità media delle molecole di un gas è dell'or­dine di alcune centinaia di metri al secondo come è possibile che in una stanza ove si fuma, gli strati di fumo possano muoversi molto lentamente? Clausius ri­sponde all'obiezione ammettendo che dato l'alto numero di molecole contenute in un gas la probabilità di un loro urto reciproco è molto elevata. In tal modo si deve ammettere che il «percorso medio» fra un urto e l'altro è molto breve e ciò può spiegare il tempo relativamente lungo impiegato dai gas per mescolarsi.

Nel successivo anno I 86o un contributo decisivo allo sviluppo di" questa in­dagine venne dato dal grande fisico inglese James Clerk Maxwell con il suo arti­colo !Jiustrations of the dynamical theory of gas, di cui si è già parlato nel capitolo VI.

Egli si propone in particolare di stabilire la lunghezza media del percorso com­piuto da una particella fra due successive collisioni. A questo scopo non solo ammette che le velocità delle molecole siano diverse ma introduce l'ipotesi molto importante che le velocità delle molecole varino distribuendosi secondo la stessa legge con cui si distribuiscono gli errori in una serie di osservazioni.

Tale distribuzione può cioè considerarsi casuale, le velocità presentano cioè gli stessi scarti rispetto alla media che presentano i colpi sparati contro un ber­saglio rispetto al centro del bersaglio stesso.

Le velocità varieranno da zero all'infinito, ma è possibile calcolare il numero medio delle molecole la cui velocità si colloca entro certi limiti.

Oltre al calcolo delle velocità e del percorso libero medio queste ipotesi per­mettevano a Maxwell di stabilire il numero di urti delle particelle e soprattutto di derivare, cioè di spiegare, importanti proprietà osservabili dei gas.

La teoria cinetica dei gas, sviluppata anche in successivi lavori di Clausius e Maxwell, apriva in tal modo attorno agli anni settanta del secolo una nuova prospettiva teorica nella conoscenza dei fenomeni naturali. Con essa assumeva un ruolo molto importante nella fisica il calcolo delle probabilità, si aveva una completa rivalutazione dell'atomismo tradizionale e soprattutto si poteva dare una nuova interpretazione della termodinamica che risolveva le difficoltà sorte dall'apparente contrasto fra primo e secondo principio.

Se si considera infatti l'energia, che si conserva secondo il primo principio, come la somma delle energie delle singole molecole di un corpo, allora il secondo

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principio non nega affatto, con la dissipazione dell'energia, che l'energia, cioè la capacità di compiere lavoro, delle singole molecole diminuisca. Tale principio afferma soltanto che essa non è più utilizzabile per l'uomo, ad esempio quando si ha un livellamento di temperatura fra i corpi, cioè si ha una distribuzione più uniforme della velocità delle molecole in essi.

Analoghe considerazioni si potevano fare a proposito del contrasto fra la re­versibilità, che caratterizzerebbe ogni processo meccanico in cui è possibile in­vertire il segno della variabile tempo riportando ogni sistema di corpi alle sue condizioni iniziali, e la irreversibilità dei fenomeni termodinamici per cui, ad esempio, il calore passa spontaneamente da un corpo caldo ad uno freddo ma non viceversa. Anche in questo caso la considerazione del fenomeno di condu­zione del calore, da un punto di vista molecolare, ci permette di affermare che la irreversibilità riguarda il fenomeno nel suo complesso, ma che, da un punto di vista molecolare sarebbe possibile, per quanto estremamente improbabile, una re­versibilità della conduzione di calore.

A questo proposito Maxwell introdusse nel suo libro The theory of heat del I 871 un esempio famo~o ed a lungo discusso, quello del demone selettore. « Uno dei fatti meglio stabiliti nella termodinamica, » egli scrive, « è che è impossibile in un sistema chiuso in un recipiente che non permette cambiamento di volume né passaggio di calore, ed in cui sia la temperatura che la pressione sono ovunque le stesse, produrre una differenza di temperatura o di pressione senza dispendio di lavoro. Questa è la seconda legge della termodinamica, che è indubbiamente vera sinché noi possiamo trattare il corpo soltanto nel suo complesso e non pos­siamo percepire o trattare separatamente le molecole di cui è costituito. Ma se noi concepiamo un essere le cui facoltà sono così raffinate che egli può seguire ogni molecola nel suo corso, un tale essere i cui attributi sono essenzialmente finiti come i nostri, sarebbe in grado di compiere ciò che ci è attualmente impos­sibile. Si è visto infatti che le molecole in un recipiente pieno d'aria a tempera­tura uniforme, non si muovono affatto con velocità uniforme, sebbene la velocità media di un gran numero di esse, scelte arbitrariamente, è quasi esattamente uni­forme. Si supponga ora che il recipiente in questione sia diviso in due parti, A e B, mediante un divisorio in cui vi sia un piccolo foro e che il nostro essere, che può vedere le singole molecole, apra e chiuda il foro, in modo da lasciar passare soltanto le molecole più veloci da A a B e soltanto le più lente da B ad A. Egli in tal modo, senza dispendio di lavoro aumenterà la temperatura di B ed abbasserà la temperatura di A, in contrasto con la seconda legge della termodi­namica. « Questo è soltanto uno degli esempi in cui certe conclusioni, tratte dalla nostra esperienza di corpi consistenti di un numero immenso di molecole, non sono applicabili a osservazioni ed esperienze più delicate, che si può sup­porre siano compiute da chi può percepire e trattare le singole molecole, che noi possiamo considerare soltanto in grandi quantità. >>

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Principi e problemi della termodinamica

Non ci soffermeremo qui sulle numerose discussioni suscitate da questo de­mone di Maxwell, in cui alcuni videro la possibilità di una eccezione al secondo principio, altri" videro più giustamente una illustrazione della sua natura proba­bilistica.

Uno sviluppo importante della teoria cinetica dei gas, in cui tale trattazione probabilistica assume un significato sempre più ampio e preciso, si ha, come già sappiamo dal capitolo x, con l'opera del fisico austriaco Ludwig Boltzmann (1844-1906). Egli prosegue per alcuni aspetti le ricerche di Maxwell, dimostran­do che qualsiasi possa essere la distribuzione iniziale delle velocità nelle varie molecole, tali velocità per effetto delle semplici collisioni tendono a distribuirsi secondo la legge probabilistica adottata da Maxwell. Nel corso di queste ricer­che egli introduce una certa funzione delle velocità che non può mai diminuire e che è perciò analoga all'entropia. Il concetto di entropia poteva in tal modo significare che grandi quantità di molecole tendono a passare da uno stato di minore ad uno stato di maggiore probabilità.

Un passo molto importante per precisare questo significato veniva com­piuto successivamente da Boltzmann con una nuova impostazione di tutto il problema, che risulta da un suo articolo del 1877 tJber die Beziehung zwischen dem zweiten Hauptsatze der mechanischen Warmetheorie und der Wahrscheinlichkeitsrechnung (Sul rapporto fra il secondo principio della teoria meccanica del calore e il calcolo delle probabilità).

L'attenzione si era precedentemente rivolta alla statistica delle particelle in­dividuali costituenti il singolo sistema di un corpo, ad esempio di una massa gassosa. Ora Boltzmann prende in considerazione numerosi sistemi (intesi come modelli matematici) che costituiscono un determinato insieme o complesso. Cia­scuno di questi sistemi differisce dagli altri dell'insieme o complesso considerato per una determinata posizione delle singole molecole e per una determinata di­stribuzione delle loro velocità (cioè per lo stato microscopico), mentre coincide con essi per alcune proprietà termodinamiche osservabili, come il volume, la pressione, la temperatura, ecc. (proprietà che costituiscono lo stato macroscopico ). Ad uno stesso stato macroscopico (complesso o insieme) corrispondono in tal modo numerosi stati microscopici (o sistemi).

Mediante questa impostazione originale invece di stabilire la frequenza degli atomi aventi una determinata velocità in un singolo sistema costituito da un corpo, si cerca ora di calcolare il numero di sistemi o stati microscopici che costituiscono un complesso, cioè che corrispondono allo stato macroscopico, che caratterizza il corpo considerato.

Si giunge così ad affermare che quanto più numerosi sono gli stati micro­scopici che corrispondono, in un determinato istante, ad un certo stato macro­scopico tanto più questo sarà probabile. L'evoluzione termodinamica di un corpo lo porterà a raggiungere lo stato macroscopico più probabile, cioè uno stato di

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equilibrio in cui l'entropia è massima. Si può in tal modo stabilire un legame preciso fra l'entropia di un corpo e la probabilità del suo stato macroscopico, che venne espressa da Boltzmann con la famosa formula S = k log W, dove S è l'entropia, k una costante e W la probabilità in questione.

L'aumento di entropia in un processo irreversibile, cioè l'aumento di una grandezza, definita come il rapporto Q/T, che sembrava sfuggire ad ogni com­prensione di tipo meccanico tradizionale, viene così ricondotto al variare delle proprietà meccaniche di un sistema di particelle in interazione.

La dissipazione dell'energia in tal modo non risulta più soltanto una valu­tazione tecnica ed economica, nel senso di Thomson, di processi macrofisici irreversibili, come la conduzione di calore, ma è il risultato di un comportamento meccanico nella struttura invisibile della materia.

Questo particolare rapporto fra ciò che è sensibilmente osservabile a livello macroscopico e ciò che è concettualmente teorizzato come sua spiegazione a livello microscopico, poteva esserè meglio chiarito da alcune considerazioni di Helmholtz del I 882.. Questi nell'intento di distinguere chiaramente l'energia ci­netica di un corpo dall'energia cinetica del movimento invisibile delle sue molecole, che costituisce il calore, proponeva « che la prima sia chiamata vis viva di un movimento ordinato. Io chiamo ordinato, » affermava, « ogni movimento nel quale le componenti della velocità sono funzioni differen­ziabili delle coordinate spaziali. Movimento disordinato significherebbe al­lora ogni movimento in cui il moto di ciascuna particella non ha somiglian­za con quello delle particelle vicine. Abbiamo tutte le ragioni di credere che il movimento termico sia di quest'ultimo tipo e si può in questo senso con­siderare l'entropia come la misura del disordine. Per i nostri mezzi, che confron­tati con la struttura molecolare sono grossolani, soltanto il movimento ordinato può essere liberamente convertito di nuovo in altre forme di lavoro meccanico ».

L'introduzione di queste nuove categorie di ordine e di disordine nella fisica era indubbiamente importante, perché alla luce della meccanica statistica si po­teva ammettere una reciproca convertibilità nel senso che ora chiariremo di uno stato ordinato, o meno probabile, in uno stato disordinato, o più probabile.

Lo stato iniziale di un gas in cui si abbia una distribuzione poco probabile, ad esempio nella posizione delle molecole, può infatti essere considerato uno stato di ordine, paragonabile a quello di un'urna in cui si abbiano in una metà tutte palline bianche e nell'altra metà tutte palline nere. L'evoluzione del siste­ma fisico del gas che porta, con un processo irreversibile, ad uno stato più pro­babile di distribuzione delle molecole può essere considerato il passaggio ad uno stato di disordine, paragonabile nell'esempio citato al mescolamento delle palline ottenibile muovendo l'urna.

In tal modo diveniva sempre più comprensibile il carattere non assoluto ma probabilistico del secondo principio della termodinamica, già evidenziato da

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Maxwell. Si poteva inoltre comprendere più chiaramente come il processo irre­versibile di « mescolamento », cioè di interazione casuale delle molecole, poteva essere :rovesciato, non solo mediante l'ipotesi puramente teorica di un'azione diretta sulle molecole da parte di un demone di Maxwell, ma mediante un pro­cesso fisico reale, la cui probabilità, in un periodo sufficientemente lungo di tempo, è per quanto minima, pur sempre maggiore di zero.

Tornando all'esempio della nostra urna risulta infatti non impossibile, ma soltanto improbabile che, continuando nel movimento, le palline si distribuiscano nelle condizioni iniziali di ordine.

La teoria cinetica dei gas e la meccanica statistica, sviluppatesi all'incirca dal I 86o al I 88o, non rappresentavano soltanto una possibilità di interpretazione mec­canica delle leggi della termodinamica da poco introdotte. Esse costituivano anche una profonda modificazione nella concezione tradizionale della conoscenza fisica della natura in quanto venivano a distinguere, ed in un certo senso ad opporre fra di loro, una visione macroscopica ed una concezione microscopica dei processi fisici.

Con l'applicazione del calcolo infinitesimale si era in genere supposto sin dalla fine del Seicento che gli elementi minimi costituenti le più piccole parti con­cepibili della materia fossero fondamentalmente omogenei e si ponessero in una sorta di continuità con i fenomeni direttamente pe:rcepibili nell'esperienza. L'in­tegrazione matematica o somma di queste entità infinitamente piccole :risultava perciò un procedimento del tutto simile alla misurazione di altri fenomeni osse:r­vabili direttamente.

Con lo sviluppo della nuova meccanica statistica questa concezione veniva implicitamente e parzialmente negata. Si riconosceva che il comportamento mec­canico delle molecole, che a miliardi si muovono nella più piccola porzione di materia sensibile, non poteva più essere trattato in modo sia pure implicitamente individuale, ma solo statisticamente.

Ciò significava ammettere che una particella costituente un corpo può avere proprietà meccaniche molto differenti dal corpo a cui essa appartiene. L 'unifor­mità apparente di un corpo perciò non è più la pura somma di uniformità infini­tesime delle sue particelle ma la compensazione o la media di difformità reali.

Tale discontinuità e differenza fra piano microscopico e piano macroscopico, per cui lo stato visibile di quiete di un corpo è il :risultato di un movimento invisibile, comportava una sorta di dicotomia fra conoscenza sensibile e conoscen­za concettuale, dicotomia che alcuni autori, in nome di una concezione stretta­mente empiristica o fenomenistica della conoscenza fisica, tendevano a respingere.

X · L 'ENERGETICA

Durante gli ultimi due decenni dell'Ottocento ed i primi anni del nostro se­colo i risultati raggiunti dalla teoria cinetica dei gas più che un riconoscimento

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ottennero un sostanziale rifiuto da parte degli ambienti scientifici più influenti, specialmente sul continente europeo. Fra i complessi motivi storici che portarono a questo atteggiamento ci limiteremo ad indicarne alcuni di carattere più stretta­mente scientifico-filosofico.

In primo luogo occorre ricordare la diffusa ostilità verso l'atomismo non solo perché esso appariva una dottrina speculativa, ma soprattutto perché veniva considerato la base della concezione materialistica della natura. Nell'atomismo si individuava inoltre un esempio tipico delle implicazioni metafisiche della mec­canica classica, teoria che appariva per se stessa già fortemente cimentata, se non messa in difficoltà insormontabili, da nuovi settori di indagine della fisica, in primo luogo dall'elettromagnetismo.

La lotta contro l'atomismo si legava quindi nell'opera di alcuni autori di questo periodo, soprattutto in Mach (cui sarà dedicato il prossimo capitolo), ad un'indagine critica radicale e in certo senso rivoluzionaria dei principi della meccanica, che si era presentata da alcuni secoli come l'ideale di scientificità nella conoscenza dei fenomeni naturali. Fra i primi autori che si volsero a quest'opera critica vi fu l'americano John Bernard Stallo (1823-19oo), autore nel 1882 di un'importante opera di filosofia della scienza The concepts and theories of modern prysics (Concetti e teorie della fisica moderna). Avendo di mira anche il materialismo o meglio il naturalismo scientifico di alcuni autori contemporanei, in particolare del fisico e filosofo inglese John Tyndall (1820-93), egli si prefigge in quest'ope­ra di denunciare le molteplici implicazioni metafisiche del meccanicismo, richia­mandosi ad un'impostazione empiristica della scienza.

Il ragionamento scientifico secondo Stallo, deve basarsi su due assunzioni: «La prima è che ogni ipotesi valida debba essere l'identificazione di due termini, il fatto da spiegare ed il fatto mediante il quale lo si spiega; e la seconda è che quest'ultimo fatto dev'essere conosciuto mediante l'esperienza. » L'ipotesi atomistica è così da respingere in quanto si basa su una serie di ragionamenti circolari che possono essere riassunti nella frase di William Thomson: «L'ipotesi degli atomi non può spiegare alcuna proprietà d'un corpo senza attribuirla pri­ma agli atomi stessi. »

Anche l'ipotesi, sostenuta nella teoria cinetica dei gas, della elasticità delle particelle comporta lo stesso ragionamento vizioso di attribuire alle particelle quella proprietà di elasticità dei gas che deve essere spiegata. La supposizione infine che le molecole di un gas si muovano, salvo che nei vicendevoli urti, di un moto ret­tilineo perpetuo, senza alcuna attrazione o repulsione reciproca, significa ammettere un tipo di processo che mai nessuno ha potuto osservare nell'esperienza.

Quest'esigenza manifestata da Stallo di ricondurre le ipotesi scientifiche, ed in particolare i principi generali della meccanica a termini empirico-descrittivi era già stata affermata dal fisico tedesco Gustav Robert Kirchhoff (1824-87) in un'opera dal titolo Vorlesungen iiber Mathematik, Prysik und Mechanik (Lezioni

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di matematica, fisica e n1eccanica, I 874-76). Lo scopo che questi si era prefisso trovò ampia eco nei successivi decenni, soprattutto nell'intento di derivare il termi­ne equivoco di forza dai termini più semplici e primitivi di massa, spazio e tempo.

L'esigenza empirico-descrittiva, se da un lato veniva assunta mirando ad una fondazione critica della meccanica, d'altro lato trovava ampio successo negli sviluppi continui della termodinamica specialmente in campo chimico. In que­sta direzione si era riusciti a definire e a trattare le condizioni di equilibrio delle reazioni chimiche sviluppando le funzioni di energia potenziale e di entropia, senza introdurre alcuna ipotesi corpuscolare, ma rimanendo allivello empirico-feno­menico delle variabili direttamente osserva bili di volume, calore, temperatura, ecc.

La termodinamica poteva così apparire ad alcuni, per l'estrema generalità dei suoi principi e per la fecondità delle sue applicazioni, il nuovo tipo di teoria capace di assumere il primato che la meccanica non sembrava più poter sostenere.

Questa nuova concezione venne denominata energetica e trovò i suoi soste­nitori più convinti in Germania, benché propugnatore di essa possa considerarsi il fisico inglese Rankine già precedentemente ricordato. Questi in uno scritto del I s·5 5 Outlines of the science of energetics (Lineamenti di una scienza dell'energetica) si era proposto un'analisi delle condizioni generali della conoscenza scientifica. Da un lato in tale conoscenza si considerano i fenomeni sensibili esprimendone astrat­tamente le relazioni generali mediamti leggi formali e si cerca di stabilire dei prin­cipi da cui dedurre queste leggi. D'altro lato, con la stessa conoscenza scienti­fica, in una teoria fisica si possono avanzare delle ipotesi sulla base di formulazioni congetturali non risultanti dall'esperienza sensibile (ad esempio atomi, fluidi, ecc.).

Il metodo più sicuro è tuttavia quello astrattivo che ci conduce a leggi for­mali e a principi generali e può ora assumere maggiore ampiezza sulla base dei nuovi concetti della termodinamica. L'energetica appare così a Rankine il siste­ma teorico più generale per comprendere i fenomeni fisici proprio perché fon­data sul concetto di energia definito nella sua massima generalità come capacità di effettuare cambiamenti.

La proposta di Rankine non suscitò molto interesse sino a quando il fisico tedesco Georg Helm (I85I-I923) nel I887 non riprese l'argomento ritenendolo ormai presente all'interesse di vari autori. Egli considera come uno dei principi fondamentali dell'energetica la distinzione in ogni forma di energia di due fat­tori l'uno attivo, cioè il potenziale o intensità, l'altro passivo, cioè la capacità o estensità. Nel caso dell'energia-lavoro l'intensità sarà la forza e l'estensità lo spostamento. Con questi due fattori si esprimono la quantità di energia e la di­rezione in cui si svolgono i cambiamenti, secondo il principio che l'energia in qualsiasi forma essa appaia, tende sempre a spostarsi da punti di più elevata a punti di minore intensità.

Helm, come altri energetisti, considera quale contributo decisivo alla ener­getica l'opera di Robert Mayer. Questi aveva sostenuto che tutte le forme di

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energia sono equivalenti fra di loro e che nessun ruolo privilegiato spetta al­l'energia meccanica. Mayer si era infatti rifiutato di esprimere una qualunque ipotesi sulla natura nascosta del calore, ritenendo unico compito della scienza quello di fissare relazioni quantitative fra i fenomeni.

L'idea che l'energia meccanica, cioè quella di una massa, non fosse la forma privilegiata di energia portava ad escludere che la materia fosse il veicolo indi­spensabile per il suo trasporto. Questa convinzione sembrava anche corroborata dagli sviluppi dell'elettromagnetismo, in cui si poteva rilevare un trasporto di energia a distanza, in uno spazio vuoto o comunque privo di massa.

È quindi inutile voler cercare per ogni forma di energia una struttura cor­puscolare nascosta come si era tentato di fare con la teoria cinetica dei gas, per spiegare i processi termodinamici. Questi tentativi non solo misconoscereb­bero il carattere originale e primitivo dell'energia ma tradirebbero il compito fondamentale della scienza che è quello di descrivere osservazioni cercando fra esse relazioni matematiche.

Non si potrebbe perciò dire con Boltzmann che gli atomi esistono. Ciò che esiste per la scienza della natura - ribadisce Helm - sono soltanto le osserva­zioni ed il termine atomo può essere soltanto un'abbreviazione per riassumere osservazioni di un campo circoscritto di fenomeni, il quale non può pretendere di essere un'osservazione, un modello sicuro della realtà. La tendenza a costruire modelli o rappresentazioni della realtà è d'altronde una pericolosa tendenza della meccanica, a cui validamente si sottrae l'energetica in quanto non pretende di cogliere nulla di assoluto, ma soltanto relazioni fra fenomeni.

Fra i più convinti assertori dell'energetismo vi fu anche il chimico-fisico tedesco Wilhelm Ostwald (1853-1932) che fece di questa teoria il punto di par­tenza di una nuova filosofia monistica da lui propagandata con grande impegno in numerosi scritti. Nel 1895 egli pronunciò a Lubecca, in un congresso di natu­ralisti tedeschi, un discorso Die Ueberwindung des wissenschaftlichen Materialismus (Il superamento del materialismo scientifico), destinato ad una certa risonanza. Rileva innanzitutto come nuovi settori dell'indagine fisica, quali l'elettromagnetismo, non possano essere interpretati in base alla meccanica. Ciò non significa soltanto il fallimento del meccanicismo sul piano scientifico ma anche il superamento della concezione materialistica del mondo che si fonda, secondo Ostwald, sul meccanicismo.

Non è infatti la materia ma l'energia il substrato di tutti i fenomeni. Noi non percepiamo direttamente coi sensi una sostanza materiale ma soltanto degli ef­fetti energetici. Anche l'impenetrabilità, che sembra costituire l'attributo fon­damentale della. materia, è una semplice qualità sensoriale che è percepita quando vi è una differenza di energia cinetica fra un oggetto ed il nostro organismo.

La materia non è quindi che un puro costrutto mentale e tutti i suoi aspetti possono essere risolti in energia: la massa non è che la « capacità» dell'energia

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Principi e problemi della termodinamica

cinetica, l'occupare spazio è «energia di volume», la gravità non è che una par­ticolare energia di posizione. In tal modo la materia non è altro che un « gruppo spazialmente ordinato di diverse energie».

In altri scritti Ostwald sostiene inoltre che il principio di conservazione dell'energia è la base del principio di causalità, poiché ogni successione di causa ed effetto non è che una trasformazione di una forma di energia in un altra. Il secondo principio esprime poi in modo assoluto la fatale irreversibilità dei feno­meni naturali e vani sono tutti i tentativi dei meccanicisti di ammettere una loro possibile reversibilità.

Anche i problemi etici e sociali vengono affrontati nella filosofia monistica di Ostwald. L'imperativo morale è quello di risparmiare e di distribuire equamen­te l'energia fra gli uomini. Benché abbia cercato durante i primi anni del secolo di svolgere anche una trattazione epistemologica della conoscenza scientifica, favorendo anche lo studio della storia delle scienze, l'impegno filosofico di Ost­wald fu rivolto specialmente alla diffusione di un ormai superato monismo di tipo positivistico-romantico; cioè di una dottrina che si era formata in Germania con Haeckel sulla base del darwinismo, e che, nella crisi che colpì la biologia alla fine del secolo, sembrava aver trovato nell'idea di energia una nuova base scientifica.

Durante il periodo sinora esaminato, fra i sostenitori dell'energetica soltanto Ostwald trovava in questa dottrina la base per una visione del mondo più o meno apertament~ metafisica.

Altri autori si limitavano a considerare tale dottrina come espressione di un metodo scientifico più rigorosamente empirista, come un nuovo indirizzo fenomenologico della scienza fisica destinato a soppiantare il meccanicismo or­mai in crisi.

L'energetica, svuotato di ogni assunto metafisica il termine energia, si tra­dusse così nel programma di una nuova fisica fenomenologica, che ebbe grande successo all'inizio del nostro secolo e che poteva vantare fra i suoi sostenitori alcuni fra i maggiori critici della scienza quali Mach (al quale è dediéato il pros­simo capitolo) e Duhem (di cui si parlerà nel capitolo vn della sezione vm).

XI · BOLTZMANN E LA POLEMICA

CONTRO LA FISICA FENOMENOLOGICA

Il programma di una fisica fenomenologica sostenuto più o meno esplicita­mente da Mach e da Duhem, ed il loro convinto rifiuto dell'atomismo, si basava, sia pur con diversa impostazione, su un'approfondita ricerca metodologica dei procedimenti scientifici e su un'analisi storica delle effettive implicazioni metafi­siche che nei secoli precedenti avevano condizionato lo sviluppo della meccanica e le varie concezioni atomistiche.

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Principi e problemi della termodinamica

Difendere l'atomismo, o meglio la teoria cinetica dei gas che ne costituiva la sua versione aggiornata, poteva quindi apparire negli ultimi anni dell'Otto­cento, specialmente nei paesi di lingua tedesca, una posizione di retroguardia im­plicata in vecchie posizioni metafisiche. Ciò era dovuto anche al fatto che la teoria cinetica dei gas, dopo i risultati notevoli ottenuti attorno agli anni ottanta, non appariva più un settore di ricerca così avanzato come quelli sempre più ricchi di risultati dell'elettricità e dell'elettromagnetismo.

Vi fu tuttavia da parte di uno dei fondatori della meccanica statistica, Boltzmann, una difesa coraggiosa di questa teoria che appariva screditata e re­spinta in molti ambienti scientifici. Rivolgendosi soprattutto alle considerazioni di Helm ed Ostwald egli critica decisamente la concezione fenomenologica della fisica che tendeva a respingere ogni modello meccanico e pretendeva che la co­noscenza scientifica dovesse limitarsi all'assunzione dei puri dati di esperienza entro le equazioni differenziali.

La scienza secondo Boltzmann non può limitarsi ad una semplice descrizione o trascrizione di questi dati. « Nessuna equazione può tradurre esattamente un evento quale esso sia; essa idealizza necessariamente e va al di là dell'esperienza. Il fatto che ciò sia inevitabile, quando vogliamo disporre di qualsiasi rappresen­tazione che ci permetta di formulare delle previsioni, deriva dal processo stesso del nostro pensiero, che consiste nell'aggiungere qualche cosa all'esperienza e a formulare un'immagine mentale; la quale non si identifica con l'esperienza e perciò stesso può rappresentare numerose esperienze. La fenomenologia non do­vrebbe dunque vantarsi di non superare l'esperienza ma al contrario incitarci a farlo quanto più possibile. »

Andare oltre l'esperienza immediata è la caratteristica fondamentale del pro­cedimento scientifico che culmina nella teoria. Convinto della validità della con­cezione realista della conoscenza Boltzmann ritiene che le teorie tendano a darci una rappresentazione del mondo esterno adattantesi sempre più ad esso. In questa tensione ad una rappresentazione del mondo la teoria non può limitarsi a regi­strare dei dati di fatto, ma deve spesso porre quelle audaci e a volte arbitrarie connessioni fra i fenomeni che costituiscono le ipotesi.

L'introduzione di ipotesi risulta così uno stimolo fecondo al progredire della scienza, il cui edificio teorico è soggetto a continui cambiamenti. Lo sviluppo della scienza non è necessariamente graduale, esso procede attraverso contrasti, crisi e ricostruzioni. Il nuovo edificio che sorge comprende a volte in sé una vecchia teoria come rappresentazione di un ambito più ristretto di fenomeni. Le vecchie teorie possono mostrarsi ancora utili, così come le nuove possono .presto essere respinte nel passato.

Boltzmann non si limita ad opporre alla concezione empiristico-formale della scienza, sostenuta dagli energetisti, una propria concezione realistica in cui la teo­ria si sviluppa attraverso la tensione dialettica delle ipotesi e dei modelli. Egli

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Principi e problemi della termodinamica

cerca anche di respingere la loro pretesa di ridurre i concetti fondamentali della meccanica a quelli della termodinamica.

Uno dei problemi più difficili che dovevano affrontare gli energetisti, per soddisfare a questo intento, era quello di considerare l'energia cinetica, non come una forma privilegiata di energia, ma come una forma del tutto equivalente alle altre. A questo scopo essi cercavano di considerare la massa come un'entità pura­mente derivata e non primitiva.

Ma tentativi di questo genere, secondo Boltzmann, sembrano destinati a fallire se non si ammette che i corpi siano costituiti da punti materiali, il che appare un'implicita concessione al meccanicismo, oppure non si ammette, volendo sfuggire ad ogni ipotesi atomistica, che la materia riempia tutto lo spazio. In quest'ultimo caso le difficoltà da affrontare per dedurre tutti i teoremi della mec­canica, appaiono estremamente elevate.

Di fronte a queste difficoltà nella riduzione del concetto di massa ai principi dell'energetica perché non :riconoscere la fecondità e l'utilità dei modelli meccani­ci? Boltzmann non insiste in una contrapposizione dogmatica fra il suo punto di vista e quello dell'energetica. Riconosce che l'ideale fenomenologico di una trattazione puramente formale dei fenomeni fisici mira con estrema generalità ad individuare le varie forme di comportamento dell'energia. Ma rileva che in questo modo non si riesce a comprendere come l'energia assuma le forme più varie e si corre quindi il :rischio di arrestarsi ed una rappresentazione frammen­taria dei fenomeni.

Il :rischio di perdere una visione unitaria della natura è per Boltzmann uno degli svantaggi maggiori della fenomenologia, in cui poteva ad esempio incor­rere Mach, quando questi affermava che l'elettricità è soltanto la somma delle esperienze fatte in un certo ambito di fenomeni.

L'esigenza di una rappresentazione unitaria dei fenomeni fisici sarà alla base della nuova rivoluzione scientifica che maturava all'inizio del nuovo secolo con l'opera di Einstein. Questi introduceva la formula di equivalenza fra massa ed energia che sembrava in parte soddisfare un'attesa degli energetisti. Ma lo svilup­po della nuova fisica non era comunque destinato a :realizzare il programma di una fisica fenomenologica. Il riconoscimento della massa dell'elettrone, l'intro­duzione di una discontinuità dell'energia, lo sviluppo di sempre più complessi modelli dell'atomo, dovevano confermare la validità di molte delle posizioni per cui Boltzmann si era battuto, quasi solitario, contro la scienza ufficiale del suo tempo.

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CAPITOLO DODICESIMO

La critica del meccanicismo: Macb

I · VITA E OPERE

Ernst Mach nacque a Turas in Moravia nel 1838. Studiò fisica e matematica all'università di Vienna, conseguendo la laurea in fisica nel 186o con un lavoro sull'induzione elettrica. Subito dopo, però, dovette ripiegare per motivi pratici su ricerche di fisiologia della sensazione; queste suscitarono ben presto in lui un grande interesse e finirono per dare luogo a una vera e propria svolta nella sua formazione di studioso.

Nel 1861-62. gli era stato affidato l'incarico di tenere a Vienna un corso di fisica e di fisiologia generale per giovani medici; lo assolse con grande impegno, svolgendo il proprio insegnamento secondo i canoni del più rigido indirizzo meccanicistico allora dominante fra gli scienziati. Queste lezioni vennero poi raccolte in un volume dal titolo Compendium der Physikfiir Mediziner (Compendio di fisica per medici, 1863). È un'opera assai interessante perché ci fornisce un'idea della profonda trasformazione che dovrà prodursi nel nostro autore allorché egli -partito dal meccanicismo- ne diverrà in breve tempo il critico più accanito. Ciò che lo spinse a questo totale rovesciamento di posizione fu proprio, per lo meno all'inizio, la constatazione delle enormi e artificiose difficoltà incontrate dagli studiosi, che pretendevano spiegare tutti i fenomeni fisiologici in termini fisici.

Le numerose memorie scientifiche pubblicate fra il I862. e il I872. riguardano essenzialmente problemi di acustica e di ottica, trattati sia dal punto di vista fisico sia da quello fisiologico. Merita di venir notato l'insorgere, in Mach, fin da giovane, di un appassionato interesse per la divulgazione scientifica; nel I 86 ~ pubblicò Zwei populare Vorlesungen iiber musikalische Akustik (Due lezioni popolari sull'acustica musicale) che verranno· più tardi raccolte con varie altre in un cele­bre volume del I 896.

Nel 1866 venne chiamato a Graz quale professore di fisica; l'anno successivo passò a insegnare fisica sperimentale all'università di Praga, ove rimarrà fino al I89~·

I:e ricerche di acustica portarono Mach a interessarsi del comportamento

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La critica del meccanicismo: Mach

dei proiettili che si muovono con una velocità eguale o superiore a quella del suono nell'aria. Qui rifulse tutta la sua abilità di sperimentatore, che gli permise di conseguire una serie di risultati nuovi e interessantissimi, via via pubblicati a partire dal I 873 sugli Atti dell'Accademia delle scienze di Vienna; di essi diede anche notizia in un'esposizione divulgativa del I897· A conferma dell'impor­tanza di questi risultati, ricorderemo che, in segno di riconoscimento dei meriti da lui conseguiti in tale campo di ricerche, è stato dato il nome di « numero di Mach » al rapporto tra la velocità di un mobile e quella del suono nell'aria (così, ad esempio, la velocità di un aereo supersonico risulterà caratterizzata da un «numero di Mach » superiore all'unità).

Nuove letture e nuovi studi avevano intanto contribuito a rafforzare e ap­profondire nel giovane scienziato il distacco dalle primitive concezioni meccani­cistiche. Fra le letture testé accennate merita una speciale menzione quella delle opere di Darwin, in cui il nostro autore ammira soprattutto la capacità di creare concetti biologici nuovi, non circoscrivibili nei vecchi schemi. Fra i nuovi campi studiati, viene in primo piano quello della termodinamica, che lo condurrà diret­tamente a considerazioni di epistemologia generale. Va rilevato che Mach com­prese subito l'utilità di affrontare tali argomenti non solo dal punto di vista scien­tifico ma anche da quello storico; basti citare lo scritto da lui pubblicato nel I 87z, dal titolo Die Geschichte und die Wurzel des Satzes von der Erhaltung der Arbeit (La storia e la radice del principio della conservazione del lavoro). Ciò che importa al nostro autore non è la storia per se stessa, ma la storia come strumento-guida per la comprensione dell'autentico significato delle leggi scientifiche.

L'impostazione storico-critica testé accennata sta anche alla base di uno dei più noti capolavori di Mach: Die Mechanik in ihrer Entwicklung historisch-kritisch dargestellt (La meccanica esposta nel suo sviluppo storico-critico, I883).1 Il nostro autore si era già occupato altre volte, prima del I883, dei concetti che stanno alla base della meccanica classica (per esempio del concetto di massa), ma nell'opera testé citata l'esame rigoroso e completo che egli compie delle varie sistemazioni da essa assunte nel corso dei secoli, gli consente di portare una luce veramente nuova sui fondamenti e sul valore scientifico del maestoso edificio, aprendo de­finitivamente la via a una nuova fase critica dell'intera fisica. 2

Mach scriverà altre due grandi opere con metodo analogo a quello seguito nella Meccanica. Esse sono: Die Prinzipien der Wiirmelehre, historisch-kritisch entwi­ckelt (I principi della termologia, sviluppati in modo storico-critico, I 896) e Die Prin­zipien der physikalischen Optik, historisch und erkenntnis-p.rychologisch entwickelt (I prin-

1 L'opera ebbe uno straordinario successo editoriale; ne vennero stampate sette edizioni a cura dello stesso autore (l'ultima nel 1912) e due dopo la sua morte (nel 1921 e nel 1933). Fu inoltre tradotta in inglese, francese, italiano e russo.

2 Einstein riconoscerà a Mach, e insieme con lui a Hume, il « merito imperituro di avere, più di tutti gli altri, introdotto questa mentalità critica». Va notato che viceversa Mach non com­prese l'importanza della teoria della relatività.

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La critica del meccanicismo: Mach

cipi dell'ottica fisica, sviluppati in modo storico e gnoseologic~-psicologico, usciti postumi nel I92I).

Nel frattempo aveva dato alle stampe, fin dal I 886, un compendio di tutti gli studi per l'innanzi compiuti sui problemi della percezione: Die Anafyse der Empfin­dungen und das Verhaltnis des Physischen zum Psychischen (L'analisi delle sensazioni e il rapporto del fisico con lo psichico); anche quest'opera ottenne un notevolissimo successo come dimostrano le sei edizioni pubblicate durante la vita di Mach (da lui via via arricchite con interessanti aggiunte), nonché le tre successive alla sua scomparsa.

Nel I895 venne chiamato all'università di Vienna, per coprirvi una cattedra di argomento filosofico, particolarmente dedicata alla teoria e alla storia delle scienze induttive. Terrà tale insegnamento fino al I901. Ormai la sua fama era solidamente affermata in tutta l'Europa, sia negli ambienti filosofici sia in quelli scientifici. Molti pensatori di vaglia si dichiaravano seguaci del suo indirizzo, dandone talvolta interpretazioni non del tutto fedeli, il che finì per provocare intorno alle teorie machiane numerosi equivoci. Uno dei maggiori fra questi equivoci consisterà nella confusione tra il pensiero filosofico di Mach e quello di Avenarius (sul quale ci soffermeremo brevemente nel capitolo vr del prossimo volume).

Non potendo qui richiamare i titoli delle molte memorie scientifiche (dedicate ad argomenti specifici di fisica teorica e applicata, di fisiologia, di psicologia, ecc.) che il nostro autore continuò a pubblicare fin quasi alla morte, ci limiteremo a ricordare un'opera particolarmente impegnativa: Erkenntnis und lrrtum (Cono­scenza ed errore, I9o5), e il famoso volume, che rappresenta un vero capolavoro di divulgazione scientifica, Popular-wissenschaftliche Vorlesungen (Lezioni popolari­scientifiche) pubblicato per la prima volta nel I896 e poi in varie altre edizioni contenenti un numero via via crescente di lezioni (dapprima quindici, in seguito diciannove, ventisei, ecc.).

Fra gli episodi più spiacevoli della vita di Mach, va segnalata un'aspra po­lemica che egli ebbe (I 908- I o) con il grande fisico berlinese Max Planck circa la possibilità di fondare sulle sensazioni l'intero sapere scientifico. Né va dimenti­cato che nel I909 Lenin diede alle stampe un celebre libro, dal titolo Materialismo ed empiriocriticismo, che costituiva un diretto e violento attacco contro le teorie del nostro autore e soprattutto dei machisti russi (su di esso ritorneremo nel volume settimo).

Comunque l'impronta lasciata da Mach fu enorme, soprattutto a Vienna. Nel I929 i primi neopositivisti intitoleranno a lui il circolo filosofico-scientifico da essi fondato in tale città (Mach Verein).

Il grande pensatore morì nel I9I6 nei pressi di Monaco, all'età di settan­totto anni.

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II · DAL MECCANICISMO ALL'ANTIMECCANICISMO

Come abbiamo accennato nel paragrafo precedente, le tesi sostenute da Mach nel Compendio del 186 3 erano improntate al più schietto meccanicismo: « l'intera fisica non è altro che meccanica applicata » anche se « la piena realizzazione di questa applicazione è affidata al futuro »; la fisiologia stessa è una parte della fisica; l'inerzia e l'impenetrabilità sono proprietà essenziali dei corpi, mentre il peso, l'estensione e la divisibilità sono proprietà in essenziali; il suono consta di vibrazioni di un supporto materiale (aria, acqua, e così via) che si trasmettono in esso con una ben determinata velocità (diversa da un supporto ali' altro); pure la luce è un fenomeno ondulatorio, ma il suo supporto è l'etere che pervade tutti i corpi e riempie lo spazio cosmico; il calore è dovuto al moto molecolare, ecc. L'autore si rende conto che l'affermazione, secondo cui la materia è costituita di atomi, risulta soltanto un'ipotesi, ma è convinto di doverla accettare tante sono le prove - sia pure indirette - che la convalidano; ammette però che esistano due specie ben distinte di atomi, quelli corporei costituenti i corpi, e quelli « ete­rei» costituenti l'etere: fra i primi agisce una forza attrattiva regolata dalla leg­ge newtoniana di gravitazione, fra i secondi invece una forza repulsiva e, poi­ché ogni atomo corporeo è circondato da vari atomi eterei, la forza repulsiva di questi ultimi sarà ciò che impedisce ai primi di congiungersi fra loro. Scopo della scienza è di stabilire il maggior numero possibile di leggi sperimentali, che il ricercatore dovrà poi ricondurre a pochi principi generali. Anche se in taluni casi questi principi sono soltanto ipotetici, risulterà in ultima istanza pos­sibile, date due ipotesi antitetiche avanzate per spiegare il medesimo feno­meno, scoprire qualche esperimento « cruciale » capace di escludere definitivamen­te l'una a favore dell'altra.

Abbiamo anche detto che furono proprio gli studi sulla fisiologia della sen­sazione, iniziati subito dopo la laurea in fisica, il primo stimolo che indusse il nostro autore a criticare e ben presto a respingere i postulati generali del mecca­nicismo. E poiché lo scienziato dell'epoca che aveva dato maggiori contributi alla spiegazione fisica di parecchi fenomeni sensitivi (in particolare del suono) era senza dubbio Helmholtz, fu per l'appunto contro di lui che si diressero i più velenosi strali di Mach. Il grande fisico-fisiologo viene accusato di non limitarsi ad avanzare ipotesi per la spiegazione dei fenomeni, ma di voler elevare le teorie scientifiche a criterio supremo per distinguere i fenomeni veri da quelli illusori, senza tenere conto che esse mutano da un periodo all'altro, onde il presunto cri­terio risulterebbe sempre qualcosa di provvisorio. In realtà il meccanicismo di Helmholtz ci impedisce - sempre secondo il nostro autore - di guardare al­l'esperienza in tutta la sua ricchezza, ci allontana dai fatti concreti, sostituisce ad essi dei presupposti speculativo-metafisici.

Quello di Mach è, se vogliamo, un atteggiamento che presenta qualche

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La critica del meccanicismo: Mach

analogia con lo stato d'animo diffusosi mezzo secolo prima tra i romantici nei confronti della scienza illuministica. Con una differenza radicale però: che Mach non intende collocarsi al di fuori del grande filone della scienza moderna, ma soltanto rimuovere gli ostacoli metafisici che ne impediscono inavvertitamente lo sviluppo. Non intende, in particolare, rinunciare all'uso della matematica, ma anzi avvalersi largamente e sistematicamente di essa per misurare i fenomeni -così come si presentano in concreto- e per determinare direttamente le rela­zioni che intercorrono fra di essi, senza presumere di poterle ricavare da una realtà, inafferrabile ai sensi, che costituirebbe la «vera base» dell'esperienza. Non fa perciò ricorso a nessun genere di intuizione sovrasensibile, che do­vrebbe porci immediatamente a contatto col « cuore » della realtà, come pensa­vano i romantici, ma si sforza di potenziare la nostra osservazione, liberandola dalle categorie predeterminate in cui siamo soliti rinchiuderla per una malintesa fedeltà alla tradizione scientifica.

Mach non ha certo difficoltà a riconoscere che, nel Seicento e Settecento, il meccanicismo fornì utilissimi strumenti per correlare i fatti; nega però che possa ancora oggi assolvere un'analoga funzione. L'utilità, che esso indubbia­mente rivelò in passato, dipende in realtà - come dimostra un'attenta analisi storica - dal fatto che le stesse nozioni generali cui il meccanicismo faceva ricorso erano inconsapevolmente ricavate dall'osservazione; la pretesa che le medesime nozioni risultino perennemente valide, equivale pertanto all'affermazione, del tutto ingiustificata, che l'esperienza non potrà in alcun modo subire arricchi­menti tali da suggerirei nuove categorie, diverse da quelle costituitesi in una fase antecedente della ricerca.

L'interesse di Mach per la storia della scienza trova proprio qui le sue radici : deriva cioè dalla capacità, insita in tale storia, di mettere a nudo l'effettiva ori­gine empirica delle nozioni che oggi siamo soliti accogliere come evidenti, asso­lute, immodificabili, e di farci quindi comprendere che abbiamo pieno diritto di modificarle, correggerle, e se del caso abbandonarle. Così interpretata, essa di­venta quindi una nuova potentissima arma contro il meccanicismo: ci dimostra che nessuna teoria scientifica, per quanto rispettabile, è autorizzata a farci chiu­dere gli occhi di fronte a ciò che concretamente osserviamo; che nessun dogma può venir invocato per nascondere o soffocare la ricchezza dei dati empirici.1

È evidente il legame tra la polemica tenacemente svolta da Mach contro il meccanicismo e la battaglia che nella prima metà del secolo il fondatore del po­sitivismo, Auguste Comte, aveva ingaggiato contro la metafisica. Tenendo conto di questo legame, si può senz'altro sostenere che il grande fisico-filosofo di Vienna fu egli pure un positivista. Non va però dimenticata una notevole differenza:

1 Ritroveremo un analogo atteggiamento anche in Engels (capitolo xv), ma ci sarà facile di­mostrare che il suo antimeccanicismo è permeato

di una consapevolezza filosofica assai superiore a quella di Mach.

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La critica del meccanicismo: Mach

mentre per Comte il puro e semplice avvento della scienza segnava, in qualsiasi campo, la fine della metafisica, per Mach invece il pericolo metafisica è sempre presente, nascondendosi nelle pieghe stesse delle più accreditate teorie scienti­fiche. La stessa meccanica classica, galileiano-newtoniana, è carica di presuppo­sti metafisici; e se all'inizio essi non erano in grado di recade alcun danno,. oggi invece sono pericolosissimi, potendo frenare e distorcere lo sviluppo di tutta la scienza. Di qui la necessità di snidadi, di combatterli, di eliminarli con il più coraggioso spirito critico. L'istanza antimetafisica comtiana si trasforma così in istanza metodologica interna alla scienza; è uno degli sbocchi più ac­cettabili e più fecondi dell'indirizzo positivistico.

III · CRITICA DELLA MECCANICA NEWTONIANA

Dopo un primo capitolo sulle origini della statica a partire da Archimede, la Meccanica nel suo sviluppo storico affronta immediatamente uno dei problemi più interessanti sia dal punto di vista storico sia da quello filosofico: lo svolgimento dei principi della dinamica in Galileo, Huygens e Newton. Vogliamo qui sof­fermarci in particolare sull'analisi machiana dei progressi compiuti da Newton rispetto a Galileo e a Huygens.

Secondo il nostro autore essi sono sostanzialmente quattro: r) generaliz­zazione del concetto di forza, 2) enunciazione del concetto di massa, 3) formula­zione precisa e generale del parallelogramma delle forze, 4) enunciazione del principio dell'uguaglianza di azione e reazione. I due punti sui quali si accentra in particolare la sua critica sono il concetto di massa e il principio di azione e reazione. Mach dimostra facilmente che la definizione newtoniana della massa di un corpo come « la sua quantità di materia misurata dal prodotto del suo volume per la densità » contiene un manifesto circolo vizioso, dato che la den­sità non è altro che il rapporto tra la massa e il volume. In realtà il concetto di massa proviene - secondo il nostro autore - da un fatto empiricamente accer­tabile: l'esistenza nei corpi di « una particolare caratteristica che determina acce­lerazione ». Ne segue che il confronto tra le masse di due corpi dovrà venire eseguito, confrontando l'accelerazione che il primo comunica al secondo con quella (inversa) che il secondo comunica al primo quando essi agiscono uno sull'altro; e ciò dimostra l'inscindibile legame che connette tale concetto con il principio di azione e reazione, sicché Mach può concludere che i due « dipendono l'uno dall'altro, cioè l'uno suppone l'altro». Il principio di azione e reazione, egli precisa, « è incomprensibile se non si possiede un concetto corretto della massa; ma una volta che questo concetto sia stato formulato in base a esperienze dinamiche, esso è inutile ».

Oggi tutti gli epistemologi riconoscono che l'analisi machiana testé schema­tizzata è impeccabile e che costituisce un punto fermo per qualsiasi ulteriore

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esame del famoso terzo principio della dinamica. In modo analogo il nostro autore dimostra che il primo e il secondo principio di questa disciplina (così come figurano nella sistemazione datale da Newton, solitamente riprodotta nei comuni trattati di meccanica) sono già contenuti «nella definizione della forza, secondo la quale senza forza non si verifica accelerazione, e quindi si verifica quiete o moto rettilineo uniforme». Va osservato che tutta questa sottilissima analisi potrebbe venir utilizzata a favore di una interpretazione essenzialmente convenzionalistica dei principi in questione, risultando chiaro - in seguito ad essa - il carattere decisamente illusorio della loro apparente evidenza e quindi della loro presunta assolutezza. Mach si rende conto di tale possibilità e non la respinge; ritiene tuttavia che non vi si celi alcun pericolo, quando si comprenda che per lo meno i creatori della dinamica avevano ben presenti alcuni fatti em­pirici capaci, secondo essi, di giustificare l'anzidetta convenzione.

Pericolosissima risulta invece, a suo parere, l'interpretazione dei principi della dinamica quali verità assolute, in primo luogo perché nasconde gli effettivi loro legami con i fatti, in secondo luogo perché li trasforma in dogmi intoccabili. « La ricerca storica sullo svolgimento avuto da una scienza, » egli scrive, « è indispensabile, se non si vuole che i principi che essa abbraccia degenerino a poco a poco in un sistema di prescrizioni capite solo a metà, o addirittura in un sistema di dogmi. L'indagine storica non soltanto fa comprendere meglio lo stato attuale della scienza, ma, mostrando come essa sia in parte " convenzionale " e " accidentale ", apre la strada al nuovo. »

Un altro tema fondamentale dell'analisi di Mach è costituito dalle idee di Newton su spazio, tempo e movimento. Il nostro autore non solo respinge come inutili e « metafisici » i concetti newtoniani di tempo assoluto, spazio assoluto e movimento assoluto, ma cerca di porre in luce l'incontestabile contenuto em­pirico, effettivamente implicato da ogni nostra nozione al riguardo.

« Dire che una cosa A muta con il tempo significa semplicemente dire, » scrive Mach, «che gli stati di A dipendono da quelli di un'altra cosa B. Le oscillazioni di un pendolo avvengono nel tempo, in quanto la sua escursione " dipende " dalla posizione della terra. Dato però che non è necessario prendere in considerazione questa dipendenza, e possiamo riferire il tempo a qualsiasi altra cosa i cui stati naturali dipendano dalla posizione della terra, si crea l'impressione errata che tutte queste cose siano inessenziali. » È indubbiamente vero che noi possiamo riferire le oscillazioni del pendolo ai nostri stati psichici anziché a corpi esterni, onde scopriremo « che a ciascuna posizione del pendolo corrispondono nostre sensazioni e pensieri diversi .... Ma non dobbiamo dimenticare che tutte le cose sono in dipendenza reciproca e che noi stessi, con i nostri pensieri, siamo solo una parte della natura ». In altre parole, la :rappresentazione del tempo proviene da qualcosa di empirico: dalla constatazione della reciproca dipendenza di tutte le cose (i vi inclusi le nostre sensazioni e i nostri pensieri); voler parlare

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La critica del meccanicismo: Mach

di un tempo in sé, che prescinda da tale dipendenza, è quindi semplicemente illu­sorio, è il frutto di un'arbitraria ipostatizzazione. Ne segue, in particolare, che un moto potrà dirsi uniforme « solo in rapporto ad un altro. Il problema se un moto sia uniforme in sé è privo di significato ».

Impostato così il problema, è chiaro che Mach dovrà affermare che anche la quiete è relativa, ed inoltre che è relativa la stessa nozione di forza (definita, attraverso i due primi principi della dinamica, come la causa delle variazioni di velocità): ogni volta che noi constatiamo l'esistenza di corpi che si muovono con velocità diverse, noi possiamo parlare di forze, rispettivamente collegabili alla massa di ciascuno di tali corpi. Ma non v'è motivo di non collegarle anche ai corpi in quiete, dato che è privo di significato parlare di quiete assoluta. Noi non potremmo più introdurre il concetto di forza, solo se « tutti» i corpi fossero in quiete, e cioè se l'esperienza non ci facesse constatare che di fatto esistono corpi i quali si muovono con velocità diverse.

Proprio nel quadro testé delineato si inserisce anche la confutazione, com­piuta da Mach, del famoso esperimento del vaso d'acqua rotante, con cui Newton pensava di dimostrare - attraverso la constatazione della forza centri­fuga agente sull'acqua del vaso -l'esistenza di un'accelerazione «in sé» e quindi di uno spazio assoluto (rispetto a cui poter parlare di tale accelerazione). Ecco le parole scritte in proposito dal nostro autore, ove emergono con particolare evi­denza le implicanze convenzionalistiche della sua critica: « "Tutte "le masse, "tut­te" le velocità, quindi "tutte" le forze sono relative. Non esiste differenza tra re­lativo e assoluto, che noi riusciamo a cogliere coi sensi. D'altra parte non c'è ragio­ne che ci costringa ad ammettere questa differenza, dato che l'ammissione non ci porta vantaggio né teorico né di altro ordine. Gli autori moderni che si lasciano convincere dall'argomento newtoniano del vaso d'acqua a distinguere fra moto assoluto e moto relativo, non si rendono conto che il sistema del mondo ci è dato " una sola volta ", e che la teoria tolemaica e quella copernicana sono sol­tanto "interpretazioni", ed entrambe egualmente valide. Si cerchi di tener fer­mo il vaso newtoniano, di far ruotare il cielo delle stelle, e di verificare l'assenza delle forze centrifughe. »

La sottigliezza e il rigore di queste argomentazioni sono indiscutibili. Anche se non tutti i contemporanei di Mach ne rimasero persuasi, è certo che tali argomentazioni dimostrarono a tutti la necessità di riflettere criticamente sulla dinamica newtoniana, non più accettabile ormai come qualcosa di acquisito una volta per sempre. E con ciò apersero la via - come già abbiamo accennato -alla rivoluzione einsteiniana.

Vale la pena soffermarci ancora un istante sulla critica compiuta da Mach del concetto di spazio assoluto, concetto che risulta ovviamente connesso al principio di inerzia (è chiaro infatti che non si può parlare di traiettoria «rettili­nea» se non si precisa il sistema di riferimento rispetto a cui essa risulta rettilinea).

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La critica del meccanicismo: Mach

Secondo la ricostruzione storica di Mach, già Galileo aveva fatto uso di tale principio, ma riferendolo ancora alla Terra « supposta in quiete»; Newton ne comprese il grande valore, ma volle liberarlo da questo riferimento secondo lui incontestabilmente erroneo, e parlò pertanto di spazio assoluto, nell'intento di stabilire « un sistema di riferimento universalmente valido ». In realtà, però, quando applicava il principio in questione allo studio dei moti celesti, egli col­legava l'anzidetto sistema alle stelle fisse e con ciò riusciva a dare un ben preciso significato «alla sua" generalizzazione ipotetica "della legge d'inerzia galileiana». Il nostro autore ne conclude: « Constatiamo ancora una volta che il riferimento a uno spazio assoluto non è per nulla necessario. Anche nel caso qui esaminato, come in ogni altro, il sistema di riferimento è relativo. Newton, malgrado una certa propensione verso l'assoluto metafisica, si lasciò sempre guidare dalla" pru­denza dello scienziato".»

In sostanza l'argomentazione di Mach si può riassumere in due punti fon­damentali: 1) anche se Newton parlava di spazio assoluto, di fatto egli si riferiva a un ben determinato spazio relativo; z) sono stati i successori di Newton a dimen­ticare questo riferimento empirico complicando le cose e lasciandosi così trasci­nare in interminabili discussioni vuote di senso. Per tagliare alle radici tali discus­sioni non vi è che un mezzo: rendere esplicito il riferimento al sistema delle stelle fisse e dare così « al principio di inerzia una formulazione diversa da quella abituale ».

Come è noto, la riformulazione di esso data da Mach (che non parla più del moto inerziale come moto rettilineo rispetto allo spazio assoluto ma rispetto alle stelle fisse) fu accolta favorevolmente da gran parte dei suoi contemporanei, e oggi la si ritrova persino nei trattati elementari. Da un punto di vista metodo­logico tale riformulazione ebbe il grande merito di chiarire che il principio di inerzia, pur costituendo uno dei principali fondamenti per la deduzione mate­matica di molte leggi particolari della meccanica, non può venire esso stesso con­siderato quale una « verità matematicamente stabilita », ma - come ogni altra legge fisica-- richiede di venire sorretto dall'esperienza. Anzi esso avrà bisogno di continue verifiche perché, proprio per la sua grandissima generalità, le espe­rienze che valgono a fondarlo « non possono mai essere del tutto completate ». La sostituzione di una formulazione scientifica, e perciò ipotetica, del principio di inerzia alla sua formulazione metafisica ( « metafisica » in quanto riferita al presunto spazio assoluto) varrà dunque a stimolarci a sempre nuove ricerche. Mach ne conclude, non senza un accento di ben giustificato orgoglio: « Il mio punto di vista è valido, perché favorisce il progresso della scienza. »

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IV · IL CARATTERE ECONOMICO DELLA SCIENZA

Tra le molte conclusioni che si possono trarre dalle critiche della meccanica newtoniana, due sono particolarmente significative per una caratterizzazione ge­nerale del pensiero di Mach.

La prima è che risulta sfatata una volta per sempre l'idea, largamente diffusa nel Settecento, che i principi della dinamica rappresentassero delle verità asso­lute e evidenti, non bisognose di conferma empirica, ma anzi capaci di garantire a priori la validità delle leggi scientifiche particolari, dimostrabili entro il quadro della meccanica.

La seconda, strettamente connessa alla precedente, è che la meccanica deve rinunciare alla posizione privilegiata di cui godeva rispetto alle altre scienze, cosicché non si potrà più fare ricorso ad essa, come molti speravano, per realiz­zare - sia pure solo in linea ideale - l 'unificazione del sapere scientifico. Tale posizione privilegiata era dovuta, secondo Mach, unicamente al fatto che h. meccanica venne studiata con metodo scientifico prima delle altre discipline, ma « la conoscenza più antica in ordine di tempo non deve necessariamente restare il fondamento dell'intelligibilità di ciò che si è scoperto più tardi».

Il no~tro autore sottolinea più e più volte che l'evidenza di una legge o di una nozione scientifica non proviene da una presunta capacità - insita in esse -di svelarci una realtà più profonda di quella spettante al mondo empirico; tale evidenza proviene solo dall'abitudine, cosicché può accadere che una nozione venga pacificamente accolta come evidente in un'epoca mentre in altre appariva quasi inaccettabile (così è accaduto ad esempio per la gravitazione newtoniana che all'inizio suscitò un gran numero di polemiche, dovute al fatto che molti ritenevano « metafisica » il concetto stesso di « azione a distanza », mentre più tardi - dopo i successi del newtonianesimo - venne riconosciuta come chia­rissima, tanto da costituire il modello di varie altre nozioni quali l'azione elet­trostatica, ecc.).

Il vero compito dello scienziato non potrà quindi essere quello di trascendere i fenomeni per scoprire al di sotto di essi qualcosa di più essenziale, ma sempli­cemente quello di astrarre dal variopinto mondo dell'esperienza alcune semplici relazioni che sogliano collegare un certo gruppo di fenomeni ad un altro.

Il punto di arrivo di questa argomentazione viene così riassunto da Mach: «Nella ricerca scientifica importa solo la conoscenza della connessione dei fe­nomeni.»

Stando così le cose, quale potrà essere il criterio in base a cui lo scienziato attribuirà maggiore importanza a certe connessioni rispetto a certe altre? Que­sto criterio non potrà consistere in altro, secondo Mach, che nella maggiore o minore semplicità di tali connessioni, nell'ampiezza della zona cui esse si rivelano applicabili, nel tipo di ordine più o meno rigoroso che ci fanno scoprire. La for-

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La critica del meccanicismo: Mach

mulazione delle connessioni in esame risulterà senza dubbio opera nostra, e: perciò avrà un carattere sostanzialmente convenzionale (dovrà, ove possibile, avvalersi del linguaggio matematico per la ben nota esattezza di questo linguag­gio); ma l'oggetto di cui trattiamo formulando una legge, sarà sempre una con­nessione empirica, cioè qualcosa che può venire confermata o smentita dall'osser­vazione dei fatti.

Il lavoro dello scienziato non può né limitarsi alla pura descrizione dell'espe­rienza (sempre «incompleta») né aver di mira l'illusoria ricerca di principi for­niti di una validità logica, indipendente dall'esperienza; consiste invece nella formulazione di nessi che l'esperienza è in grado di confermare o smentire parzialmente e che nel contempo si estendono al di là delle esperienze già ese­guite. « Le idee sono tanto più scientijit·he quanto più esteso è il dominio in cui hanno validità e più ricco è il modo con cui completano l'esperienza. Nella ricerca si procede secondo il principio di continuità, che solo può offrire una concezione utile ed economica dell'esperienza. »

Come abbiamo testé cercato di chiarire, Mach non ritiene fra loro incompa­tibili il carattere convenzionale delle leggi scientifiche e l'origine empirica della loro validità. Così non ritiene che il parlare di « economicità » delle nostre concezioni della natura significhi riconoscere implicitamente che esse sono qual­cosa di meramente soggettivo. È vero che siamo noi a qualificare una connessione fra fenomeni con i caratteri poco sopra accennati di semplicità, di rigore, di larga applicabilità; vero è tuttavia che spetta all'esperienza e ad essa sola di provarci se una data connessione gode o non gode effettivamente di tali caratteri.

Parlare di « economicità » di un sistema di leggi non significa - come taluni interpreteranno - relegare tale sistema al campo dell'utile, e quindi ne­gargli ogni valore conoscitivo; significa invece, secondo Mach, fare riferimento alla sua capacità (essenzialmente conoscitiva) di fornirci una visione unitaria del mondo fenomenico.

In quest'ordine di considerazioni si inquadrano due tesi fondamentali di Mach: 1) il suo antiatomismo, 2) la sua affermazione del carattere funzionale (non causale) delle leggi scientifiche.

La ragione per cui il nostro pensatore respinge la concezione atomistica dei fisici meccanicisti a lui contemporanei è che, secondo tali autori, l'atomo costituirebbe la« vera realtà» della natura: realtà non afferrabile dall'osservazione ma dotata ciò malgrado delle proprietà comunemente attribuite ai corpi effettiva­mente osservati, e capace ·- sulla base di queste proprietà - di darci la ragione ultima dei fenomeni (del loro comportamento, dell'ordine che in essi constatia­mo, ecc.). Così inteso, l'atomo è un ente di ragione, non di fatto; è un postulato metafisica, non un oggetto di ricerca fisica. La sua accettazione non potrà che di­sturbare le nostre libere indagini sull'esperienza; introdurrà nella fisica qualcosa di dogmatico, che non potrà non essere di impedimento al suo sviluppo.

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La critica del meccanicismo: Mach

Analogo è il motivo per cui Mach si oppose alla pretesa, che la scienza debba cercare le «cause» dei fenomeni. Nel concetto di causa è sempre implicito un carattere di necessità che dovrebbe determinare in un certo modo, ad esclusione di altri, la produzione dell'effetto. Orbene, l'esperienza non ci pone mai in grado di constatare questa necessità, onde, parlando di causa, noi siamo - consape­volmente o inconsapevolmente - spinti a trascendere il mondo dei fatti osservati. Se vogliamo realmente !imitarci a ciò che l'esperienza ci insegna, dovremo semplicemente parlare di « nessi funzionali », applicando alla fisica il concetto di funzione, rivelatosi da tempo fondamentale in tutta la matematica. Questo ci permetterà, fra l'altro, di enunciare in forma rigorosa anche dei tipi di connes­sione fra fenomeni che non rientrano nei soliti schemi causali (gli unici usati dalla fisica meccanicistica).

È fuori dubbio che la concezione testé delineata, basata sul più schietto fenomenismo e sul principio di economia, porta non di rado Mach ad afferma­zioni che sembrano improntate a un manifesto soggettivismo. Così per esempio quando egli afferma, a proposito dell'ottica geometrica, che «nella natura non esiste la legge di rifrazione, ma esistono solo molti casi di questo fenomeno. La legge di rifrazione è un metodo di ricostruzione concisa, riassuntiva, fatta a nostro uso, e inoltre unicamente relativa all'aspetto geometrico del fenomeno». Non dobbiamo però dimenticare che, scrivendo il brano ora citato, il nostro autore ha soprattutto di mira un intento polemico: egli vuole sfatare l'opinione che la legge in esame sia una relazione necessaria, la quale obbliga i raggi a com­portarsi in un certo modo anziché in un altro: se di fatto i casi concreti del fenomeno non rientrassero nella legge anzidetta, lo scienziato dovrebbe modifi­care la legge, non già negare i dati osservativi. Qualunque legge scientifica è modellata su ciò che noi abbiamo osservato in passato, e potrà sempre venire corretta in base a ciò che osserveremo in futuro: è solo la metafisica che pretende di sottrarsi al costante controllo dell'esperienza.

Ci resta ora da dare un ultimo cenno al problema dell'unità del sapere scientifico. Già sappiamo che lo scienziato meccanicista riteneva di poter tro­vare nella meccanica il fondamento dell'unità delle scienze (in quanto tutte le leggi scientifiche dovrebbero risultare, se indagate nelle loro ultime cause, com­pletamente riducibili a leggi meccaniche). Il nostro autore respinge per principio tale riduzione, ma non per questo condanna il programma di unificare le scienze; ritiene però che esso vada attuato attraverso la delineazione di una nuova fisi­ca rigorosamente aderente ai fenomeni e non avente più la pretesa di trascenderli (col fare appello agli atomi o ad altre entità inosservabili, sotto stanti all' espe­rienza). Secondo Mach, tale fisica avrebbe dovuto contenere come propria parte la meccanica, senza però ridursi ad essa. Egli ritenne di scorgere nella termodi­namica il nucleo della nuova scienza unitaria; i principi della termodinamica, seppur legati a quelli della meccanica, posseggono infatti una generalità molto

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La critica del meccanicismo : Mach

maggiore e rivelano una maggiore aderenza all'esperienza (in ispecie il secondo che introduce la nozione di irreversibilità, estranea alla meccanica). Per questo motivo Mach guardò con favore al cosiddetto indirizzo dell'energetica di cui si è fatto parola nel capitolo XI, senza affermare tuttavia che esso risultasse già in grado - così come era venuto configurandosi alla fine dell'Ottocento - di dare una sistemazione completa e definitiva di tutte le scienze.

V · LA TEORIA DEGLI ELEMENTI

Abbiamo ricordato nei primi paragrafi che furono soprattutto le ricerche di fisiologia - iniziate da Mach subito dopo la laurea - a convincerlo dell'inso­stenibilità del meccanicismo. La fisiologia che egli studia in quei primi anni è una « fisiologia-fisica » che si sforza di tradurre in termini di atomi e di moto i fatti della coscienza; ma proprio questa impostazione conduce il ricercatore a im­battersi in problemi astrusissimi, irti di difficoltà via via crescenti, quanto più diventano complessi i fatti indagati. Non sarà dovuto tutto ciò a un errore di impostazione della ricerca? Chi può escludere che l'insolubilità degli anzidetti pro­blemi tragga origine dal modo stesso in cui sono stati formulati? sia cioè dina­tura analoga all'insolubilità dei problemi «classici» della vecchia psicologia, insolubilità dovuta al carattere metafisica (non empirico) delle entità (come l'ani­ma, le facoltà, ecc.) su cui essi vertevano?

Ormai sappiamo quale fu la risposta di Mach a questi interrogativi: le no­zioni e i postulati meccanicistici accolti dalla « fisiologia-fisica » sono altrettanto ingiustificati quanto le nozioni e i postulati della vecchia psicologia metafisica. Lo scienziato moderno deve disfarsi coraggiosamente degli uni e degli altri per fare appello diretto all'unica realtà autenticamente controllabile, cioè alla realtà dell'esperienza. Essa e solo essa dissolverà i problemi mal posti e aprirà la via a ricerche serie e concludenti.

Un esempio può essere utile a illustrare questo mutamento. Si era tanto discusso in passato sulla natura e l'origine delle nostre percezioni spazi ali; Kant era giunto, per esempio, a sostenere che lo spazio costituisse una forma a priori dell'intuizione pura. Ne erano sorti molti problemi insolubili, come quello se la nostra intuizione spaziale sia euclidea o no. Mach li respinge tutti d'un blocco dichiarando con straordinaria energia che lo spazio geometrico e lo spazio effet­tivamente intuito sono due cose completamente diverse: il primo è un ente con­cettuale (in ultima istanza di carattere convenzionale), il secondo invece è un dato sensibile, i cui caratteri possono venire determinati solo dalle indagini di fisiologia (fisiologia dell'organo visivo, fisiologia delle nostre percezioni del movimento, ecc.). Una confusione tra i due non può che portare a problemi insolubili: basti tenere presente che lo spazio geometrico è isotropo mentre quello percettivo è senza dubbio anisotropo.

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La critica del meccanicismo: Mach

Abbiamo sottolineato l'importanza attribuita da Mach all'analisi fisiologica della percezione, perché a nostro parere ciò può riuscire molto utile a porre in luce il vero significato del suo fenomenismo. Per il nostro autore ogni conoscenza parte dall'esperienza (intesa come un fluire, mai concluso, di dati immediati) e cerca di organizzarla mediante concetti astratti; se questi sono scientifici (e non metafisici) dovranno permetterei di formulare connessioni chiare e precise effet­tivamente controllabili nell'ambito stesso dei dati empirici. Orbene, come il fisico studia l'esperienza sotto un determinato punto di vista, enucleando da essa talune nozioni che chiamiamo « fisiche », così lo psicologo potrà esaminarla sotto un altro aspetto cui potremo dare il nome di « psichico ». I tagli da essi compiuti nel complesso dei dati empirici saranno diversi, ma entrambi potranno venire ritenuti leciti se, come testé accennammo, ci portano alla scoperta di connes­sioni effettivamente confermabili da tali dati.

Il primo frutto dell'analisi che lo psicologo compie sul fluire dell'esperienza è, secondo Mach, l'individuazione degli «elementi» che la costituiscono. Il nostro autore non è sempre molto chiaro sul significato di questi elementi (tal­volta infatti sembra farli coincidere con le sensazioni elementari, mentre altre volte afferma che essi non sono né psichici né fisici); una cosa è comunque certa: che, quando parla di elementi, egli intende muoversi sul piano del discorso scien­tifico. In altre parole, non vuole interpretarli nel vecchio significato attribuito dagli empiristi settecenteschi ai dati sensoriali immediati; vuole invece conside­rarli come nozione scientifica da trattarsi con i metodi più rigorosi in uso presso le scienze (in primo luogo, dunque, con la misurazione). A differenza delle nozioni adoperate dai fisiologi meccanicisti, gli elementi non faranno riferimento a pre­sunte entità sottostanti l'esperienza, ma trarranno tutto il loro significato dal­l'esperienza stessa e daranno luogo a leggi rigorosamente controllabili nell'am­bito empirico.

È difficile affermare che Mach abbia saputo mantenere, come si proponeva, la teoria degli elementi sul rigoroso piano della scienza, senza cadere sul piano della filosofia (intesa nel senso tradizionale del termine). Non sembra, per esempio, molto scientifica la sua affermazione che l'anzidetta teoria permetterà allo stu­dioso moderno di raggiungere l'unità fra scienze fisiche e scienze biologiche, invano cercata dal meccanicista con la riduzione delle seconde alle prime. È tut­tavia innegabile che, partendo dalla teoria degli elementi, egli ha saputo impri­mere alle ricerche di fisiologia della percezione un indirizzo assai più aperto di quello che esse avevano presso i fisiologi meccanicisti;ha saputo conferire loro una nuova più stretta aderenza ai dati empirici, proprio riconoscendo di principio a tutti i dati una pari dignità, senza privilegiarne alcuni come « reali », e senza qualificare arbitrariamente gli altri come « illusori » ( « reali » quelli corrispondenti alle antiche « qualità primarie », « illusori » quelli corrispondenti alle « qualità secondarie»).

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La critica del meccanicismo : Mach

Concludendo, la teoria degli elementi è per Mach l'applicazione coerente, fino in fondo, dell'impostazione antimeccanicistica che abbiamo cercato di spie­gare nelle pagine precedenti. I suoi canoni fondamentali sono due: r) l'accetta­zione integrale di tutti i dati empirici, senza preclusione di sorta; 2) la ricerca di tutte le relazioni esistenti fra tali dati, senza la pretesa che alcune di esse siano « oggettive » perché formulabili nel linguaggio tradizionale della fisica, mentre altre non lo sarebbero (pur risultando empiricamente controllabili) solo perché non esprimibili con le vecchie categorie della meccanica.

Trattasi, se vogliamo, di un fenomenismo radicale, ma non di un fenome­nismo che presupponga in qualche modo la realtà dell'io, quale punto di riferi­mento di tutti i fenomeni (intesi come atti che si svolgono nella vita del soggetto), e ancor meno di un fenomenismo come quello di Berkeley che faccia ricorso a un ente sconosciuto (dio) come vera causa delle nostre sensazioni e dell'ordine cui esse sottostanno. « Debbo dire,» scrive il nostro autore, « che è ben lontano da una retta valutazione della mia concezione chi, malgrado le mie ripetute pro­teste ... , identifica tale concezione con quella berkeleyana. » Il fenomenismo di Mach non è, o almeno non vuole essere, un soggettivismo, perché, se respinge il vecchio concetto meccanicistico di materia, respinge pure con pari energia il concetto metafisica di «io». Esso ammette che si parli di «io», solo in quanto si riesca a determinare con rigore scientifico la formazione e il funzionamento della psiche, sulla base di uno studio rigoroso della fisiologia degli organi sen­soriali e del sistema nervoso.

VI · I PRESUPPOSTI FILOSOFICI DEL FENOMENISMO MACHIANO

Mach afferma esplicitamente- come abbiamo più volte cercato di spiegare­che egli non intende costruire un sistema filosofico, ma aprire nuove vie alla scienza, liberandola dai dogmi metafisici che ne impediscono lo sviluppo e l'al­lontanano dall'esperienza. È difficile però negare che questo suo programma sia ricco di implicazioni anche al di là della scienza.

V a innanzi tutto riconosciuto che il suo fenomenismo, pur non volendo essere un « fenomenismo soggettivistico », ha un preciso significato filosofico. Esso implica infatti: 1) la negazione di una qualsiasi realtà esistente al di là dell'espe­rienza; 2) l'interpretazione dell'esperienza stessa come un complesso di dati né fisici né psichici; 3) l'affermazione che le connessioni, effettivamente riscontrabili nel fluire dei dati immediati, non sono in alcun modo necessarie, onde non per­mettono di attribuire alla natura alcuna interna razionalità.

Negando questa presunta razionalità, Mach si preoccupava soprattutto di non porre alcuna barriera aprioristica alla ricerca scientifica col postulare che alcune leggi siano state provate una volta per sempre nella loro formulazione attuale (di qui la sua negazione che esistano davvero « esperimenti cruciali »

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La critica del meccanicismo: Mach

come li intendevano i vecchi fisici e come li aveva egli stesso intesi nel Compendio del 1863). Di fatto però, egli si collocava nel ben noto indirizzo filosofico del no­minalismo, e finiva per accettarne implicitamente i presupposti. Certamente si tratta di un nominalismo moderno, a intonazione essenzialmente scientifica, ma non perciò esente dalle difficoltà del vecchio nominalismo. Esse emergono per esempio dall'affermazione più volte ripetuta dal nostro autore che non esistono in natura leggi universali, e quindi fenomeni generali, ma solo casi particolari, espressi « in forma concisa » dalle leggi in questione (si ricordino le parole che abbiamo citato nel paragrafo IV a proposito della legge di rifrazione dei raggi lu­minosi); ma, se è così, con che diritto egli potrà sostenere che l'esperienza è un tutto unico, e che gli « elementi » in essa scoperti sono soltanto il frutto di un'in­dagine scientifica? Se i soli fenomeni singoli sono reali, perché non ammettere esplicitamente che l'unica autentica realtà è costituita dagli elementi di cui parla appunto la « teoria degli elementi »?

Mach si rende conto che un'affermazione d! questo tipo sarebbe un'affer­mazione filosofica generale e non una semplice tesi scientifica (da convalidarsi attraverso precise indagini fisiologiche). Egli comprende molto bene che un conto è affermare, in sede scientifica, che sia lo studio dell'io sia quello degli oggetti fisici va espletato a partire dall'attenta osservazione dei fatti empirici, e un altro conto - ben diverso - è sostenere, in sede filosofica, che il primum dell'espe­rienza è costituito da singole entità né psichiche né fisiche. Ma non basta, per sfuggire a certe conclusioni, evitare di parlarne esplicitamente.

Senza dubbio il nostro autore ha ragione, quando afferma che - nella storia del pensiero filosofico e scientifico moderno - l'esasperato tentativo dei mecca­nicisti di ridurre tutta la natura a materia portò alla tesi parallela secondo cui esisterebbe, accanto alla materia, un misterioso spirito, privo di proprietà mec­caniche. Questa complementarità fra materialismo meccanicistico e spiritualismo è stata più volte da noi stessi riscontrata nelle sezioni precedenti (si pensi per esempio alla filosofia di Cartesio). Ma riconoscere la giustezza di questa critica al meccanicismo, non significa ritenerci soddisfatti della soluzione « neutrale »

dell'empiriocriticismo di Mach (il nome stesso di «empiriocriticismo» universal­mente attribuito al suo indirizzo denuncia il carattere filosofico, non puramente scientifico, della concezione machiana della realtà).

Lo sforzo compiuto dal nostro autore per dimostrare il carattere illusorio di alcuni problemi tradizionali della metafisica (per dimostrare, ad es~mpio, che i classici problemi concernenti il rapporto tra spirito e materia dipendono pro­prio dal modo errato di intendere queste due entità) è incontestabilmente serio, come serio è il suo tentativo di sostenere che tali problemi non vanno « risolti » ma abbandonati per la loro inconsistenza. Resta però il fatto, che noi proviamo irresistibilmente l'esigenza di giungere a una concezione coerente della realtà (fisica e psichica) e che la via indicataci da Mach per soddisfare tale esigenza non

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La critica del meccanicismo: Mach

può accontentarci, perché non rivela una sufficiente consapevolezza critica delle difficoltà filosofiche cui essa va incontro.

Ma non avrebbe senso proseguire in questa elencazione di interrogativi che ci lasciano profondamente perplessi. Dovremo, del resto, ritornare varie volte su di essi quando esamineremo gli sviluppi del machismo. Qui basti ribadire ancora una volta l'enorme importanza dell'opera epistemologica del nostro autore, l'indiscussa efficacia della sua polemica contro il meccanicismo. Siamo ben disposti a riconoscere che fu una polemica giustificatissima contro la metafisica materialistica del meccanicismo; non di rado essa prestò tuttavia il fianco a veni­re interpretata come polemica generale contro tutto il materialismo, e ciò co­stituì senza dubbio il motivo principale delle diffidenze che suscitò presso mol­ti serissimi studiosi.

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CAPITOLO TREDICESIMO

La teoria delflevoluzione e Fopera di Cbarles Darwin

DI FELICE MOND ELLA

I · RICHIAMI STORICI

Il contributo più importante che la scienza abbia fornito nel XIX secolo ad una nuova concezione filosofica della natura e dell'uomo è la teoria dell'evoluzione di Darwin. Grazie a quest'autore, afferma Alvar Ellegard, « la rappresentazione epi­curea e lucreziana di un concorso fortuito di atomi che dà origine al mondo come noi lo vediamo, si trasformò da una speculazione manifestamente assurda in una ipotesi estremamente plausibile. Vi può infatti essere posto in questa teoria per un creatore o un architetto, ma non ve ne è più bisogno. »

Quando nel 1859 comparve L'origine delle specie di Darwin l'idea di evoluzione degli organismi non era certamente nuova. Da circa un secolo molti autori l'avevano sostenuta e discussa senza tuttavia ottenere per essa una sufficiente credibilità scientifica.

Riprenderemo in breve dai precedenti capitoli quanto è stato detto sul pensie­ro di questi autori cercando di indicare quegli argomenti che venivano portati a sostegno dell'idea di evoluzione biologica e quelli di maggiore peso che preval­sero infine contro di essa.

Ricorderemo come nella seconda metà del Settecento, specialmente in Fran­cia, alla iniziale concezione della scala naturale che vedeva in ogni forma vivente una realtà fissa e statica si era venuta contrapponendo una visione storica e dina­mica della natura. Già nel racconto mitologico scientifico di Telliamed si era ab­bozzata una cosmologia materialistica che comprendeva nelle sue trasformazioni anche le forme viventi. Buffon nella sua grande opera aveva sviluppato l 'idea di una stodcità della natura rifiutando la cosmogonia biblica che fissava in seimila anni il periodo di tempo trascorso dall'inizio del mondo. Maupertuis aveva abboz­zato un'ipotesi geniale sulla evoluzione degli organismi e Buffon analizzando in più punti della sua opera questa possibilità ritenne tuttavia che l'ipotesi della evo­luzione non fosse sufficientemente provata dai fatti. L'idea di una continua tra­sformazione dei viventi doveva però trovare un convinto assertore in Diderot che vedeva in essa una necessaria conseguenza della sua concezione materialisti­ca per cui tutta la realtà è coinvolta in un perenne flusso di mutamenti.

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La teoria dell'evoluzione e l'opera di Charles Darwin

Tale idea di trasformazione dei viventi era legata alla concezione che la ma­teria avesse una continua ed autonoma capacità creatrice, e la generazione spon­tanea, nuovamente asserita per gli organismi più semplici da vari autori di questo periodo, sembrava costituire una delle prove più convincenti di questa concezione.

Ma l'idea di un rinnovato prodursi di forme viventi nelle varie epoche della natura doveva essere elaborata con maggior successo da alcuni autori che tentaro­no di conciliarla con il creazionismo tradizionale rifiutando la concezione mate­rialistica. Robinet e Bonnet, come si è visto nel volume terzo, pur seguendo una diversa impostazione scientifica e filosofica ammisero ad esempio una successiva comparsa di nuove forme di organismi nelle epoche passate della terra. Tali or­ganismi non risultavano però dalla modificazione di organismi precedenti ma da semi creati tutti all'inizio del mondo e sviluppantisi soltanto al momento op­portuno.

Bonnet in particolare cercava di conciliare in questo modo l'idea di ascesa e di perfezionamento della natura con quella di un atto unico di creazione che non richiedesse un successivo intervento di dio nel mondo. Lamarck doveva invece sviluppare la sua ampia e approfondita teoria dell'evoluzione all'inizio dell'Ot­tocento senza alcuna preoccupazione di salvare il creazionismo. Seguendo il pen­siero di molti illuministi la natura è per lui un ordine autonomo della realtà che può realizzare il piano divino solo in base alle sue proprie leggi.

Tale piano comporta per Lamarck un graduale e progressivo perfezionamento degli organismi destinato a culminare nell'uomo, e si realizza mediante una ten­denza necessaria della materia vivente a differenziarsi in forme sempre più com­plesse che seguono un disegno uniforme ed ordinato. Le circostanze concrete e differenti in cui vengono però a trovarsi gli organismi crea in essi il bisogno di adattarsi e di modificarsi assumendo funzioni e forme che si allontanano in parte da quel disegno. Ai discendenti viene perciò trasmesso sia il frutto della necessaria e ordinata differenziazione della materia vivente sia il risultato di quegli adatta­menti prodotti nelle varie circostanze dall'uso o non uso di determinati organi.

I temi del naturalismo illuministico e l'idea di un progressivo perfezionarsi delle forme, che realizzano nel tempo la loro ascesa lungo la scala della natura, trovarono in Germania un'eco importante nell'opera di Herder a cui si ispirano molti autori appartenenti al periodo della scienza romantica tedesca. Goethe tende a vedere nella continuità delle forme viventi la metamorfosi ideale di una forma per­cepita direttamente nell'esperienza. Oken ammette invece la discendenza di­retta di tutti gli organismi da una sorta di cellula primitiva attraverso un tempo mitico in cui la cronologia si confonde con una derivazione puramente ideale. Meckel infine sviluppa una teoria dell'evoluzione analoga a quella di Lamarck considerando una molteplicità più vasta di cause.

Nel complesso le varie teorie dell'evoluzione che vengono formulate tra il Settecento ed i primi anni dell'Ottocento si rifacevano a dei procedimenti espli-

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La teoria dell'evoluzione e l'opera di Charles Darwin

cativi che apparvero ben presto di carattere speculativo o comunque ipotizzavano processi o forze vitali che la nuova fisiologia, che sorgeva allora in Francia su basi più strettamente empiriche, doveva fatalmente respingere. Questa debolezza nel­l'individuare le cause dell'evoluzione non toglie però a tali autori il merito di aver sviluppato alcuni argomenti importanti a favore dell'esistenza di un pro­cesso evolutivo.

Fra gli argomenti più o meno implicitamente addotti ve ne era uno di carattere filosofico generale, condiviso da molti sostenitori di una concezione di tipo materialistico o teistico. Per costoro l'universo poteva essere soggetto ad un flusso continuo di trasformazioni che doveva coinvolgere anche gli organismi o comun­que si doveva ritenere che con la creazione divina del mondo fossero state fissate soltanto le leggi in base alle quali doveva scaturire e svilupparsi necessariamente la vita in tutte le sue forme.

Accanto a queste considerazioni filosofiche assumevano ovviamente un gran­de peso alcuni argomenti di carattere più strettamente empirico e scientifico. Fra questi ricorderemo in primo luogo le molteplici somiglianze di forma e funzione che venivano valorizzate nel modo più tipico col tentativo, sviluppato special­mente da Lamarck, di porre gli organismi in una serie lineare continua. Le even­tuali lacune fra gli elementi di questa serie dovevano essere colmate da organismi ancora ignoti che l'ulteriore ricerca avrebbe scoperto ed analizzato.

Altro argomento molto importante era costituito dalla variabilità che risultava dalla riproduzione dei viventi. Da un lato si era colpiti dalle mostruosità che sembravano indicare una evidente plasticità nel processo della generazione, dal­l'altro, e questo era il caso più significativo, si poneva attenzione alle variazioni o meglio alla comparsa di nuovi caratteri sia nelle specie domestiche che in quelle selvatiche. Lo stesso Linneo, che nei suoi primi scritti aveva particolarmente insistito sulla fissità della specie, nelle ultime edizioni del suo Systema naturae aveva lasciato cadere l'affermazione che non possono sorgere nuove specie (nullae species novae) ed aveva sostenuto la possibilità che queste potessero pro­dursi coll'incrocio di altre specie più antiche.

Questa teoria che specie vere potessero sorgere attraverso l'ibridazione venne però confutata prima della fine del Settecento. Altri autori tuttavia, come il bo­tanico francese Michel Adanson (I 7 2 7- I 8o6), osservarono il sorgere di variazioni stabili nelle piante e giunsero a sostenere la possibilità di una trasformazione delle specie per effetto dell'ambiente.

Le complesse indagini sviluppate fra il Settecento e l'Ottocento sulle varia­zioni delle specie erano volte soprattutto a stabilire dei criteri precisi nell'opera di classificazione più che a gettare luce sul problema generale dell'origine dei viventi. Questo problema sembrava a molti del tutto irresolubile dal momento che non si era ancora trovata una concorde soluzione per lo stesso problema della genera­zione, che aveva suscitato la prolungata ed ancora irrisolta contrapposizione fra

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La teoria dell'evoluzione e l'opera di Charles Darwin

preformisti ed epigenetisti. Questi ultimi al contrario dei primi erano in genere i più disposti ad ammettere sia la generazione spontanea che un'evoluzione dei viventi, come risulta chiaramente nel caso di Lamarck e di Erasmus Darwin.

Un altro argomento su cui si basavano nel Settecento alcuni sostenitori della teoria evoluzionistica degli animali era l'esistenza di un piano fondamentale nella forma anatomica degli organismi che avrebbe indicato la loro discendenza da un essere primitivo. Questa comunanza di organizzazione poteva però essere anche interpretata in senso creazionistico, cioè come il modello secondo cui il sommo artefice aveva forgiato gli esseri viventi, oppure poteva essere considerata come una struttura ideale che attraverso un processo platonico di derivazione si dispiegava nelle forme, come sostennero alcuni autori tedeschi specialmente nel periodo romantico.

Nei primi decenni dell'Ottocento Geoffroy Saint-Hilaire anch'egli sosteni­tore di una teoria evoluzionistica cercò di dimostrare l'esistenza di un piano co­mune anche per forme molto diverse di animali. La decisa e convincente opposi­zione di Cuvier a questa tesi, doveva culminare nella famosa disputa all'Accademia delle scienze di Parigi nel 183o, ed inferire un duro colpo a questa presunta prova della teoria dell'evoluzione. Cuvier introducendo con la sua anatomia comparata una distinzione netta fra quattro piani fondamentali, secondo cui raggruppare le varie forme animali, non solo respingeva la tesi di Geoffroy Saint-Hilaire ma anche quella di Lamarck per cui gli animali potevano essere posti in una serie continua.

Cuvier, quale tipico rappresentante di una cultura di reazione al naturalismo illuministico, elabora e sviluppa nel modo più preciso tutti i motivi che potevano essere addotti dalla scienza del suo tempo contro la teoria della trasformazione della specie. Egli rileva non solo il carattere estremamente limitato delle variazioni e l'assenza di forme intermedie fra le singole specie, ma osserva che in base al principio di correlazione degli organi l'emergere di una modificazione rilevante in un dato organo non è compatibile con l'armonica connessione di tutte le parti del vivente.

Ma è soprattutto quale artefice di un nuovo indirizzo di ricerca, la paleonto­logia, che Cuvier accreditò nel modo più autorevole e convincente la concezione fissista e creazionista della specie. Il ritrovamento di resti fossili di· organismi, considerati a lungo dai teologi e dai naturalisti come la testimonianza del diluvio biblico, era stata considerata a poco a poco come la traccia di molteplici e profondi cambiamenti nel passato della terra che avevano dovuto coinvolgere anche le forme viventi. Si era così giunti nel Settecento, attraverso gli studi geologici, all'idea che tali cambiamenti si erano svolti in epoche successive, che alcuni con­sideravano coincidenti in modo simbolico coi sei giorni della creazione.

Malgrado la nuova conc~ione storica della natura sviluppata specialmente nell'opera di Buffon e l'eventdale ammissione di una successiva comparsa delle forme viventi, il clima culturalè prevalente nel Settecento era però ancora favore-

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vole al creazionismo e quindi all'idea che un breve periodo di tempo fosse trascorso dall'inizio del mondo; appariva perciò difficile ammettere che le passate vicende della natura si fossero svolte per effetto delle semplici forze naturali e soprattutto che i processi derivanti da tali forze fossero quelli tuttora osservabili. Si riteneva perciò che le azioni delle acque o eventualmente quelle del calore responsabili delle passate trasformazioni della terra (secondo i nettunisti o i vulcanisti) si fossero prodotte in modo violento cioè attraverso catastrofi.

Solo mediante tali catastrofi si poteva ad esempio ammettere che in un tempo relativamente breve le acque avessero raggiunto e poi abbandonato le attuali montagne !asciandovi resti fossili di animali marini. Solo in tal modo si riusciva a conciliare il racconto biblico con la storia della terra considerando il diluvio uni­versale l'ultima delle grandi catastrofi note a memoria d'uomo.

Cuvier nello sviluppare le sue ricerche paleontologiche ed in particolare nel Discorso sulle rivoluzioni della superficie del globo ( 18 u) si fece convinto assertore del catastrofismo giungendo anche attraverso di esso a negare la teoria dell'evolu­zione. La discontinuità da lui posta fra i quattro piani fondamentali, a cui si do­vevano ricondurre le varie forme animali, trovava un riscontro anche nello studio degli animali fossili. Nell'esplorazione del bacino di Parigi egli osservò bruschi passaggi da strati contenenti resti di animali marini a strati in cui si trovavano fossili di animali d'acqua dolce, a strati infine in cui non appariva alcuna residua traccia di vita. Ogni epoca geologica aveva dunque avuto una fauna e flora carat­teristica e quasi nessuna specie era sopravvissuta fra un'epoca e la successiva.

Cuvier non si pronuncia sul periodo di tempo né sulle cause precise delle successive catastrofi che avevano distrutto gli abitanti della terra. Sicuro era co­munque che tali cause avevano agito violentemente in un modo che non era più attualmente osservabile. Anche il ritrovamento di antichi animali quasi intatti sepolti nelle nevi delle regioni siberiane sembrava provare che la loro morte era dovuta ad improvvisi cataclismi.

Queste specie animali erano definitivamente scomparse dalla terra, come quelle dei grandi mastodonti le cui ossa erano state da pochi anni ritrovate in America e ciò deponeva per il carattere estremamente esteso delle grandi catastrofi. Cuvier non dichiara che dopo ciascuna di queste le nuove specie dell'epoca suc­cessiva siano state direttamente create da dio. Gli è sufficiente provare che le specie scomparse violentemente nella loro quasi totalità non possono aver pro­dotto per discendenza quelle dell'epoca successiva, come poteva sostenere La­marck. La nuova paleontologia sviluppata nell'ambito del catastrofismo risultava quindi una nuova confutazione della teoria evoluzionistica.

Resti fossili di uomini non erano stati ancora trovati nei primi decenni del­l'Ottocento e quindi appariva ovvio secondo Cuvier che la loro comparsa sulla terra doveva essere molto recente. Doveva cioè risalire al periodo precedente l'ultima grande catastrofe cioè il diluvio universale narrato dalla Bibbia.

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Cuvier non cerca tuttavia di conciliare direttamente la paleontologia con le Sacre Scritture. Con il suo stile distaccato ed oggettivo egli realizza un ideale di scientificità del tutto moderno ispirato alla cautela ed alieno da ogni speculazione. Ma proprio per questo risultò più efficace la sua confutazione dell'evoluzionismo ed il sostanziale appoggio alla tradizione religiosa che riacquistava sempre più la sua egemonia nel clima culturale e politico della restaurazione.

II · GEOLOGIA E TRADIZIONE RELIGIOSA IN INGHILTERRA

In Inghilterra più che sul continente europeo erano tradizionalmente pro­fondi i legami fra il pensiero religioso e la nuova scienza. Ovunque il quadro della natura svelato dalle nuove ricerche era volto ad esaltare la saggezza e la provvidenza del creatore. Nel clima di reazione alla rivoluzione francese questo atteggiamento venne ad accentuarsi e la teoria catastrofista di Cuvier venne utiliz­zata ampiamente per :restaurare quella cultura ossequente alla tradizione biblica che anche in questo paese era stata attaccata dai seguaci dell'illuminismo fra i quali si può annoverare anche E:rasmus Darwin nonno di Cha:rles.

Caratteristico di tale clima è l'atteggiamento del reverendo William Buckland (1784-1856) che godendo grande fama di naturalista presso i contemporanei si accinse a chiarire come la dottrina delle catastrofi non solo allontanava dalla geo­logia ogni sospetto di essere scienza pericolosa per la religione ma forniva anche motivi profondi per confermare la verità delle Scritture. Ciò risulta da una prolu­sione da lui tenuta ad Oxford nel I 8 2.0 dal titolo Vindiciae geologiae; or the connexion of geology with religion explained ( Rivendicazioni della geologia; ovvero la spiegazione del !ega111e della geologia con la religione).

La geologia presenta infatti secondo Buckland il grande vantaggio rispetto a tutte le scienze, di indicare chiaramente l'intervento soprannaturale di dio nelle vicende del mondo. Le altre scienze ed in particolare l'astronomia, pur fornendo le prove più ammirevoli del disegno e della provvidenza esercitate dal creatore hanno tuttavia il difetto di suggerire che «il sistema dell'universo è guidato dalla forza di leggi impresse originariamente alla materia senza la necessità di una nuova interferenza o di una continua supe:rvisione da parte del creatore. La geo­logia respinge invece questa erronea convinzione mostrando come la struttura della terra è il risultato di numerose e violente convulsioni susseguenti alla sua originaria formazione» e dovute all'intervento ripetuto di dio nel corso della na­tura. Per quanto ampi possano essere i periodi trascorsi tra ciascuna delle grandi catastrofi è scientificamente certo per Buckland che il diluvio universale è l'ultima di esse e che l'uomo non può avere che poche migliaia di anni.

Durante i primi decenni dell'Ottocento l'affermarsi della concezione cata­strofista era strettamente legata alla convinzione che nei successivi strati geologici non solo vi fossero i resti di forme viventi ormai scomparse ma si presentassero

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man mano esseri sempre più complessi nella loro organizzazione. Questa progres­siva comparsa di forme sempre più perfezionate di viventi era in un certo senso il corrispettivo, nel campo della paleontologia, della scala naturale cioè di quella serie ascendente che si tendeva nel Settecento a stabilire fra le forme attualmente viventi. Tale progressiva comparsa di viventi era interpretata come l'attuazione di un piano divino che aveva sviluppato in epoche successive la vita per giungere all'uomo come coronamento della creazione.

Nel Settecento anche Bonnet aveva sostenuto un'analoga concezione am­mettendo tuttavia, come si è accennato, che la comparsa di forme sempre più per­fezionate era dovuta allo sviluppo di germi tutti preformati al momento della creazione e destinati a dispiegarsi ordinatamente dopo ogni catastrofe per cause puramente naturali e quindi senza richiedere alcun diretto intervento divino. I sostenitori di questa concezione, detta progressionismo, fra i quali vi fu anche il grande geologo svizzero-americano J ean Louis Agassiz (I 8o7-7 3), ritengono in­vece che sia necessario un intervento diretto di dio per produrre dopo ogni ca­tastrofe forme sempre più perfezionate sino alla creazione in tempi più recenti dell'essere più eminente cioè l'uomo.

Il progressionismo vedeva così nei resti fossili non solo una testimonianza del diluvio universale, un ammonimento ed un ricordo del peccato dell'uomo e dell'ira divina, ma anche una sorta di «profezia geologica» su quel disegno della natura che doveva culminare con l 'uo~o.

Il catastrofismo ed il progressionismo, sviluppatisi specialmente nella tradi­zione scientifico-religiosa caratteristica della cultura inglese ravvivatasi con la reazione all'illuminismo ed alla rivoluzione francese, cominciarono a declinare a partire dagli anni trenta dell'Ottoce~to. Ciò fu dovuto in particolare all'opera di Charles Lyell (I 797- I 87 5 ), avvocato e giornalista che si dedicò con profonda competenza alla geologia e la cui opera The principles of geology (l principi della geologia, I83o-32) esercitò una forte influenza non solo in questo settore di studi ma anche sulla formazione del giovane Darwin. Lyell si contrappose in modo deciso al catastrofismo sostenendo che tutte le trasformazioni passate della terra devono essere interpretate in base alle cause che attualmente si esercitano sulla sua superficie, come l'erosione dei venti e delle acque, l'azione dei vulcani, ecc.

Questa concezione definita uniformismo non poteva considerarsi nuova nel pensiero scientifico inglese anche se nuovi erano molti degli argomenti addotti a suo favore da Lyell. L'uniformismo era stato infatti sostenuto con estremo impegno dallo scozzese James Hutton (I726-97) il quale nell'anno stesso della morte di Buffon pubblicò un'opera, Theory of the earth (Teoria della terra, I788) che tendeva a superare sia la controversia fra nettunisti e vulcanisti, sia lo stretto legame fra geologia e Sacre Scritture.

A differenza di Buffon, che risente l'influenza di una tradizione cartesiana, Hutton non si pone il problema cosmologico dell'origine della terra. Come

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Newton aveva stabilito nel mondo astronomico un sistema in grado di <::onservare l'equilibrio nel movimento dei pianeti così egli ritiene che anche per i movimenti che concernono la superficie del nostro globo sia possibile individuare un sistema di equilibrio fra le sue varie trasformazioni. Tali trasformazioni sono costituite da tre processi fondamentali: la formazione di strati regolari prodotta dalla gra­duale deposizione di sostanze sul fondo degli oceani, la loro solidificazione ed il loro sollevamento dovuto alla pressione ed al calore sotterranei ed infine l'ero­sione superficiale dovuta al vento, all'acqua e all'azione degli organismi.

La crosta terrestre viene così a costituire un sistema fisico analogo a quello astronomico. Nel sistema astronomico si ha un equilibrio fra forze centripete gravitazionali e forze centrifughe inerziali, in quello terrestre si ha una sorta di alterno equilibrio fra forze distruttive (erosione) e forze costruttive (deposizione e sollevamento per opera del calore sotterraneo). La terra attraverso il bilanciarsi di processi contrapposti si comporta quasi come « il corpo di un animale che è continuamente consumato e nello stesso tempo ricostituito ».

L'alternanza delle forze erosive e costruttive viene a realizzare le condizioni geologiche ideali perché la vita si possa conservare sulla terra. In questo senso Hutton accetta la concezione finalistica della grande macchina del mondo esten­dendola dalla astronomia alla geologia. La struttura della terra rivela nelle sue vicende cicliche la saggezza del creatore ed ingiustamente i contemporanei accu­sarono Hutton di importare in Scozia il deprecato ateismo del barone d'Holbach. La sua effettiva rottura con la tradizione religiosa consiste nell'aver semplicemente ignorato il diluvio universale e nell'aver introdotto una concezione non cristiana ma « pagana » del tempo. Nelle trasformazioni terrestri, egli dice infatti, « non troviamo traccia di un inizio, né prospettiva di una fine ».

L'introduzione da parte di Hutton di una dimensione illimitata del tempo nasceva in fondo dall'esigenza di estendere il processo ciclico e di equilibrio delle trasformazioni terrestri al di là di ogni limite temporale che potesse in qualche modo rendere precarie la validità delle leggi fisiche che governano i movimenti della crosta terrestre. Per la storia della terra o meglio per il suo trasformarsi ci­clico il ricordo degli storici non poteva avere alcun peso, ma occorreva introdurre un nuovo principio di misura del tempo che si fondasse sui fenomeni stessi della geologia.

Nel clima di conservatorismo scientifico filosofico della cultura inglese la concezione di Hutton ebbe scarsa eco. Solo con la citata opera di Lyell del 1830 si ebbe la ripresa ed un decisivo sviluppo dell'uniformismo.

Come Hutton anche Lyell ritiene che la scienza non deve occuparsi delle origini dell'universo, una « questione metafisica, degna di un teologo ». Lo studio della geologia deve limitarsi a trattare del passato in base all'analogia con le forze naturali che agiscono nel presente e che permettono di interpretare l'ormai ampio materiale osservativo raccolto dai geologi. D'altronde il numero delle catastrofi

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che veniva richiesto per spiegare tali dati appariva a molti troppo elevato e por­tava quindi ad ammettere un eccessivo numero di interventi del creatore nel corso della natura. Per alcuni poi lo stesso racconto biblico non sembrava confermare l'esistenza di un diluvio veramente universale, se si pensa che la colomba, la quale reca un ramoscello d'ulivo all'arca di Noè, doveva provenire da qualche zona rimasta scoperta dalle acque.

Per Lyell tuttavia questi argomenti di natura teologica hanno un peso mi­nimo. Egli rileva innanzitutto che l'apparente discontinuità fra le forme fossili degli strati successivi è spesso un fatto locale che non trova riscontro in altre zone geografiche. Oltre a ciò in strati molto antichi possono essere rinvenuti fossili solitamente considerati di periodo più recente. Non si può infine trascurare l'eventualità che molti fossili siano andati distrutti per le stesse forze erosive che agiscono sugli strati.

È solo per una limitata prospettiva, sia nell'assunzione degli intervalli di tempo, sia nel reperto di fenomeni che avvengono al di fuori della comune por­tata osservativa, che è stato necessario ricorrere alla speculazione catastrofista. Gli agenti di trasformazione attualmente conosciuti quali la sedimentazione, l'at­tività vulcanica, l'erosione, ecc. sono sufficienti a spiegare le passate vicende della terra, solo se si ha il coraggio di introdurre una scala del tempo infinitamente ampia paragonabile a quella che per lo spazio fu assunta nell'astronomia del XVII

secolo. «Sino a quando Descartes, » afferma Lyell, «non ammise l'estensione indefinita degli spazi celesti, rimovendo i supposti limiti dell'universo, fu impos­sibile cominciare ad avere una giusta opinione sulle distanze relative fra i corpi celesti; e sinché noi non ci abitueremo a considerare la possibilità che indefiniti periodi di tempo sono trascorsi tra ciascuno dei periodi più moderni della storia della terra, noi correremo il pericolo di formarci le concezioni più erronee e par­ziali in geologia ... »

L'esplicita confutazione del catastrofismo operata da Lyell veniva anche a coinvolgere il problema degli organismi viventi, i cui reperti fossili succedentisi in modo discontinuo e la cui scomparsa definitiva avevano costituito uno dei punti di appoggio della teoria catastrofista. L yell affronta perciò nel secondo volume dei suoi Principles of geolo.gy il problema degli organismi viventi nel ten­tativo di dimostrare che i fossili non sono organismi scomparsi per cataclismi improvvisi ma per diverse condizioni di lenta interazione con l 'ambiente. Il pensiero biologico di Lyell, pur trascurato dagli storici, assume in tale prospet­tiva un'importanza decisiva per l'opera successiva di Darwin.

Proponendosi anche di respingere il progressionismo, condiviso dalla grande maggioranza dei sostenitori della teoria catastrofista, egli doveva inoltre conte­stare l'idea che alle specie estinte se ne fossero sostituite altre più organizzate. Occorreva a questo proposito confutare la tesi che le specie estinte fossero gli antenati di quelle attuali, tesi questa che era stata sostenuta nel modo più ampio

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ed elaborato da Lamarck. All'opera di quest'autore egli dedica così nel secondo volume dei suoi Principi un 'analisi estremamente accurata, che fu forse la più ampia dedicata nell'Ottocento allo spesso vilipeso e trascurato evoluzionista francese.

Lyell usa contro Lamarck alcuni degli argomenti già sviluppati da Cuvier ed in particolare quello della scarsa variabilità che può essere riscontrabile nelle forme attualmente viventi. Inoltre la diversità dei piani strutturali riscontrabili nei vari gruppi animali, anche in quelli fossili, depone a favore di una stabilità delle forme attualmente viventi. Osserva poi che tale diversità dei piani strutturali riscontrabile, anche negli animali fossili, depone a favore di una stabilità delle forme viventi attraverso le varie epoche passate della terra. Quanto alla succes­siva comparsa di nuove specie nei diversi strati geologici egli ritiene che essa non possa considerarsi così drastica come sostengono i progressionisti, sia per l'inadeguatezza dei reperti fossili (che non garantirebbe l'effettiva scomparsa delle specie ritenute più antiche), sia per la possibilità, già sostenuta da Cuvier, che molte differenze fra un'epoca ed un'altra non siano il prodotto di nuove creazioni o generazioni, bensì il risultato di immigrazioni da altre aree.

Alla diffusione di forme animali da altre zone geografiche Lyell dedica una particolare attenzione. Queste diffusioni possono essere il risultato di cambiamenti ambientali e climatici in base ai quali è possibile comprendere sia la scomparsa di alcune specie che la migrazione ed il prevalere di altre.

Tali cambiamenti pongono in luce le particolari interazioni esistenti fra gli organismi e specialmente la «lotta per l'esistenza» che si svolge fra di essi. Già il botanico svizzero Alphonse de Candolle (r778-r84r) aveva posto in rilievo questa condizione generale di competitività e Lyell vede in essa un fattore capace di spiegare senza catastrofi la scomparsa di alcune specie in determinate aree.

Così per poter negare che la estinzione delle specie sia dovuta a cause violente ed improvvise, Lyell giunge in un certo senso ad individuare l'aspetto negativo cioè distruttivo della selezione naturale (che si esercita sulle specie meno adatte). Darwin saprà rilevare di tale processo anche l'aspetto positivo o creativo. Ma se la distruzione delle specie risultava dal processo regolare di interazione con l'am­biente non si poteva ammettere che per le stesse cause potessero sorgere nuove specie? Lyell si era posto questa domanda analizzando la soluzione evoluzioni­stica di Lamarck e aveva dato una risposta negativa sostenendo che l'origine delle specie è una questione di fronte alla quale non si può formulare alcuna plau­sibile congettura.

L'ammissione che ignota è la causa del primo sorgere degli organismi appare coerente con la sua posizione di uniformista secondo cui tutto il sistema della natura è un processo equilibrato di trasformazione realizzantesi solo mediante cause attualmente agenti ed esclude quindi ogni intervento soprannaturale. A tale intervento si rifacevano infatti i progressionisti contro i quali egli aveva svilup­pato la sua critica. « La scuola uniformista, » rileva infatti Loren Eiseley, «è es-

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senzialmente una rivolta contro la concezione cristiana del tempo come limitato e contenente una direzione storica e a cui è costantemente immanente l 'intervento soprannaturale. » Per la concezione uniformista, quale veniva sviluppata coeren­temente da Lyell, ammettere una progressiva trasformazione delle forme biolo­giche significava inoltre abbandonare quei principi con cui si estendeva alle tra­sformazioni della crosta terrestre l'idea newtoniana di una macchina che conserva in modo costante i propri movimenti.

Il progressionismo, spogliato dei suoi elementi soprannaturali, era tuttavia destinato a convergere nell 'uniformismo e a ritrovare in esso alcuni criteri decisivi per lo sviluppo della teoria scientifica dell'evoluzione biologica formulata in particolare da Darwin.

III · EVOLUZIONISTI INGLESI ANTECEDENTI A DARWIN

Lo speciale interesse di Lyell per l'opera di Lamarck può in parte spiegarsi considerando che l'autore francese aveva sviluppato la sua teoria tenendo pre­sente alcune delle istanze dell'uniformismo: una scala di tempo praticamente illi­mitata, l'individuazione per spiegare il passato della terra di processi geologici identici a quelli attualmente osservabili ed infine la ricerca del condizionamento dei fattori fisico-geologici sulla esistenza degli organismi. Pur respingendo la teoria di Lamarck, Lyell ottenne l'effetto di far conoscere ampiamente l'autore francese in Inghilterra e sembra che lo stesso Spencer si sia convinto dell'evolu­zionismo attraverso l'analisi fattane da Lyell.

È tuttavia importante ricordare che ancor prima di Lamarck Erasmus Darwin, cui si è fatto cenno nel volume quarto, era giunto in Inghilterra ad una simile concezione evoluzionistica non soltanto seguendo la via ancora incerta della geologia, o quella più suggestiva dell'anatomia comparata, ma soprattutto partendo dal problema della riproduzione e dello sviluppo embrionale. çome ogni organismo si sviluppa epigeneticamente da un singolo filamento così tutti gli organismi adulti possono « essere sorti da un singolo filamento vivente che la somma causa prima ha dotato di animalità, del potere di acquisire nuove parti accompagnate da nuove propensioni, dirette da irritazioni, sensazioni, volizioni ed associazioni; ed il quale in tal modo possiede la facoltà di continuare a miglio­rare per la sua stessa inerente attività e di trasmettere questi miglioramenti attra­verso la generazione ai propri discendenti... »

Oltre alla tendenza adattativa inerente alla materia vivente Erasmus am­mette anche un altro importante fattore evolutivo, cioè la interazione competitiva fra gli organismi che lottano per il cibo, l'accoppiamento e la sicurezza.

Erasmus Darwin fu una figura preminente nel suo tempo. Godette di grande fama come medico e la Zoonomia così come altre sue opere vennero tradotte in diverse lingue fra cui l'italiano. Fu anche fra i promotori della « Società lunare»

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che si fece propugnatrice in Inghilterra delle idee illuministiche. Ciò nonostante è difficile valutare quanto del suo pensiero sia stato ripreso nei successivi sviluppi della teoria dell'evoluzione. Qualcuno ha voluto pensare ad una sua influenza su Lamarck, molti invece vedono l'importanza della sua opera soprattutto nell'ef­fetto che essa avrebbe avuto sul nipote Charles. Altri come Darlington estendono la sua influenza anche ad alcuni fra quegli autori inglesi che con scarsa risonanza giunsero a formulare idee evoluzioniste.

Ricorderemo alcuni di questi che furono come Erasmus dei medici e, come afferma Darlington, «negarono l'ereditarietà dei caratteri acquisiti. Si rivolsero all'aspetto delle concezioni di Erasmus Darwin alternativo a quello elaborato da Lamarck, cioè all'aspetto della competizione o selezione». Essi respinsero inoltre l'idea di un disegno o di una finalità nelle trasformazioni degli organismi. Fra questi William Wells (1757-1817), occupandosi in particolare dell'origine delle razze umane, indicò l'esistenza di un rapporto fra selezione artificiale e selezione naturale. Anche James Cowles Prichard (1786-1848) trattò dello stesso problema antropologico rilevando però l'importanza della selezione sessuale. Fra questi autori più notorietà ebbe William Lawrence (178 3-1 867) per la sua Natura/ history of tnan (Storia naturale dell'uomo, I 8 I9), la quale suscitò l'immediata reazione della chiesa e degli ambienti universitari che in Inghilterra erano sotto stretto con­trollo ecclesiastico. Egli sosteneva fra l'altro che l'uomo può essere migliorato come gli animali domestici mediante una selezione operata nel suo allevamento e che l'accoppiamento indiscriminato entro gruppi ristretti quali l'aristocrazia può condurre a gravi danni. La sua opera, pur venendo proibita e praticamente disconosciuta dall'autore, ebbe diverse edizioni anche clandestine.

Nei primi decenni dell'Ottocento la formulazione più precisa della teoria del­l'evoluzione per selezione naturale si ebbe tuttavia in un breve scritto del I83I di un oscuro botanico scozzese Patrick Matthew (I79o-I865). Questi pur movendo dalla concezione del catastrofismo respinge tuttavia l'idea di un intervento sopran­naturale che instauri dopo ogni cataclisma nuove forme di vita. In seguito a cia­scuno degli eventi catastrofici le poche forme sopravvissute varierebbero casual­mente, mostrando una notevole plasticità di fronte alle nuove condizioni ambien­tali, ed in tal modo, senza alcun piano finalistico ma per le semplici condizioni di competizione nella lotta per l'esistenza, si avrebbe una irradiazione di nuove forme di vita. Darwin stesso riconobbe i meriti di Matthew la cui teoria nel complesso ci dimostra come il progressionismo, sostenuto dai catastrofisti, poteva effettiva­mente costituire una delle matrici storiche della teoria dell'evoluzione.

Il completo silenzio in cui cadde il breve scritto di Matthew contrasta con il grande successo ed il clamore suscitati dall'opera di Robert Chambers (I8oz-71) che uscì anonima nel I 844 con il titolo Vestiges of the natura/ history of creation (Le vestigia della storia naturale della creazione). L'autore era editore e giornalista, par­ticolarmente impegnato in opere divulgative rivolte ai ceti medi e popolari, e

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La teoria dell'evoluzione e l'opera di Charles Darwin

scelse prudentemente l 'anonimato temendo che il contenuto della sua opera potesse suscitare reazioni eccessivamente sfavorevoli alla propria attività pro­fessionale.

Chambers assume dalla concezione progressionista l'idea di un aumento graduale di complessità delle forme viventi, che si fondava sui reperti fossili dei successivi strati geologici, ma avvicinandosi alla posizione degli uniformisti nega l'esistenza di una netta discontinuità fra le forme viventi delle varie epoche della terra. Come Lamarck egli riconduce le cause dell'evoluzione a due principi fon­damentali: un principio interno agli organismi che produce un'organizzazione sempre più complessa realizzantesi conformemente ad un piano divino; un altro principio interno a ciascun organismo che lo conduce a variare in base alle sue particolari tendenze.

Chambers, per quanto dilettante ed autodidatta in campo scientifico, riuscì ad elaborare l'ampio materiale che poteva essere sino a quel momento disponibile a favore della teoria evoluzionistica in modo estremamente chiaro ed incisivo. Non mancavano certo nella sua opera ingenuità ed errori contro i quali si acca­nirono i rappresentanti della cultura ufficiale accademica ed ecclesiastica per stroncare tutta la sua opera, giudicata ateista e pericolosa per la morale. Lo stesso Thomas Huxley, che divenne più tardi il maggiore sostenitore di Darwin, non ri­sparmiò allibro di Chambers una recensione ferocissima.

L'opera incontrò tuttavia un grande successo di pubblico ed ebbe in sette mesi quattro edizioni. Essa fu persino attribuita da alcuni al principe Alberto, consorte della regina Vittoria, e gran parte dell'ambiente scientifico fu costretto a prenderne atto se non altro per rispondere all'interesse ed alla curiosità suscitata nel grande pubblico.

Come osservaLoren Eiseley, quando Darwin pubblicò nel 1859 L'origine delle specie « Robert Chambers aveva attirato molta della prima ira dei critici ed il pubblico intelligente era almeno ragionevolmente preparato a una più abile e scientifica presentazione dell'argomento».

IV · CHARLES DARWIN ED IL VIAGGIO SUL« BEAGLE »

Nello stesso anno I 844 in cui era uscita la famosa opera di Chambers, un «gentleman naturalist »,ormai noto al mondo scientifico per alcune sue opere di indubbio valore, stendeva per suo uso privato in poco più di duecento pagine le linee generali di una teoria dell'evoluzione delle specie destinata ad avere un'in­fluenza profonda su tutta la cultura occidentale.

Questo naturalista che viveva ritirato a Down poco lontano da Londra era Charles Darwin (r8o9-8z). Era nato a Shrewsbury da una famiglia di idee liberali il cui più illustre rappresentante Erasmus Darwin era stato a suo modo un seguace del naturalismo illuministico ed aveva formulato una teoria dell'evo-

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La teoria dell'evoluzione e l'opera di Charles Darwin

luzione, già da noi ricordata, la cui eco doveva imprimersi nella mente del giovane Charles. Il padre di questi anch'egli medico inviò il figlio ad Edimburgo per com­piervi gli studi di medicina, ma questi non suscitarono in lui alcun interesse e ben scarsa applicazione. Più propensione il giovane mostrava per le scienze natu­rali, coltivate spesso con l'osservazione diretta durante escursioni in campagna o partite di caccia. A Edimburgo egli trovò chi gli parlò con favore dell'opera di Lamarck ma i contatti più proficui per i suoi orientamenti scientifici li ebbe suc­cessivamente a Cambridge.

In questa città egli venne inviato dal padre nel 1827 con la speranza che anzi­ché alla medicina potesse dedicarsi alla carriera ecclesiastica. Ma anche in questo caso più che agli studi sacri il giovane Darwin preferiva dedicarsi alle scienze na­turali, scegliendo le conversazioni con il botanico J ohn Stevens Henslow (1796-1861) o seguendo le lezioni e le escursioni del reverendo Adam Sedgwick (1785-1873) uno dei più illustri geologi del suo tempo, sostenitore del catastro­fismo e dell'intervento soprannaturale nelle trasformazioni terrestri.

Lo stretto legame fra la ricerca empirico-scientifica e la tematica biblica, la convinzione che l'ordine stesso morale della società e dell'uomo si doveva basare su una conoscenza teologica della natura, era una caratteristica generale della cultura accademica inglese non solo nel campo della geologia ma anche in altri settori delle scienze naturali. Caratteristica di questa tendenza è la diffusione in Inghilterra durante i primi decenni del secolo, di un testo la cui lettura era pra­ticamente obbligatoria nelle università e che lo stesso Darwin lesse con molto interesse e profitto. Si tratta della Natura/ theology; or, evidences of the existence and attributes of the Deity collected from the appearances of nature (Teologia naturale; o prove dell'esistenza e degli attributi della divinità raccolte dalle manifestazioni della natura) di William Paley (1743-1805) la cui prima edizione risale al 1802.

La moralità si basa sulla ricompensa eterna e la sicurezza della società civile e dell'ordine costituito si fonda sulle basi provvidenziali di tale moralità. Ma il di­segno della provvidenza può essere mostrato in primo luogo studiando la finalità che è ovunque presente nella natura ed è ancora più evidente negli organismi. La lente nell'occhio dei pesci è più sferica di quella dei vertebrati terrestri, il che mostra che ogni occhio è adattato all'indice di rifrazione del mezzo, acqua o aria, in cui l'animale vive. Attingendo soprattutto all'anatomia Paley illustra in questo modo con precisione ed acutezza le varie disposizioni di adattamento degli orga­nismi all'ambiente. Questi adattamenti sono per lui perfetti ed indicano l'esistenza di un disegno. « Le tracce di questo disegno sono troppo forti per essere trascu­rate. Il disegno deve avere un disegnatore. Questo disegnatore deve essere una persona. Questa persona è Dio. »

Darwin lesse con molto interesse l'opera di Paley non tanto perché utile alla sua auspicata preparazione ecclesiastica ma per la ricchezza di riflessioni natura­listiche contenute. Lo studio della natura non gli si presentava ancora come

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il compimento di un'indagine accurata ed instancabile ma come la soddisfa­zione di una profonda curiosità, del desiderio di una grande esplorazione. È comprensibile quindi la forte impressione che fece su lui la lettura dell'opera di Alexander von Humboldt (ricordato nel volume quarto), che era non solo uno de­gli ultimi grandi esploratori ma rappresentava per molti contemporanei lo stesso «simbolo della scienza». Humboldt aveva insistito sul ripresentarsi degli stessi fe­nomeni geologici a grandi distanze e aveva affermato che «ovunque il concorso accidentale delle stesse cause deve aver prodotto gli stessi effetti; e nella varietà della natura un'analogia di struttura e forma è osservata nella disposizione della materia bruta così come nella organizzazione interna degli animali e delle piante».

La permanenza di Darwin a Cambridge, per quanto ricca di esperienze cul­turali, non si era conclusa con un regolare curriculum di studi che soddisfacesse le attese del padre, sempre più inquieto per la futura carriera del figlio. Nell'estate del I 8 3 I una proposta inaspettata doveva però decidere del destino di scientifico del giovane Charles; cioè l'imbarco come naturalista senza stipendio sulla nave Beagle, inviata a percorrere il giro del mondo per effettuare rilevamenti di inte­resse nautico specialmente lungo le coste dell'America latina.

Superate alcune difficoltà: Darwin salpò in settembre per un viaggio che sa­rebbe stato decisivo per la sua formazione scientifica e per la sua teoria sull'ori­gine delle specie. Ci si è chiesti se per giungere a tale teoria era necessario un così lungo viaggio di esplorazione attorno al mondo. Probabilmente non lo era. È certo comunque che anche EdgarWallace (I8z3-I9I3),che giunse contemporanea­mente a Darwin agli stessi risultati, come lui fu profondamente colpito da ciò che poté osservare direttamente sulla distribuzione geografica delle varie specie ed ebbe ugualmente agio di riflettere meno costretto dai condizionamenti di un ambiente culturale tradizionale.

È infatti molto probabile che in Darwin le letture ~ gli studi condotti senza il preciso vincolo dei corsi accademici e la ·stessa indipendenza economica costi­tuissero degli elementi importanti per sviluppare una ricerca così in contrasto con i dogmi culturali del suo tempo, e quindi difficilmente attuabili in una istitu­zione universitaria.

Fra i libri che Darwin portò con sé nel suo viaggio vi era il primo volume dei Principi di geologia di Lyell. Il secondo volume gli giunse per posta a Monte­video nel I832. La lettura di quest'opera lo spinse ad accettare la dottrina uni­formista e ad analizzare quindi con attenzione i fenomeni di continuità e di lenta trasformazione che gli si presentavano. Durante i suoi sbarchi di esplora­zione in Sudamerica egli poté osservare come animali strettamente affini si sosti­tuivano l'uno all'altro man mano che si procedeva verso il sud e come i resti fossili di grandi animali provvisti di una corazza cutanea assomigliavano ai più piccoli armadilli attualmente viventi nella stessa zona. Con il cambiamento del­l'ambiente poteva inoltre rilevare come la stessa struttura potesse assumere di-

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verse funzioni, ad esempio per gli uccelli l'ala poteva fungere da vela nel caso degli struzzi, oppure funzionare da pinna nei pinguini.

Questa successione di forme affini sia che ci si spostasse nello spazio o si risa­lisse nel tempo, non appariva facilmente spiegabile dal punto di vista di una creazione indipendente delle specie. Ma un altro fenomeno importante che colpì Darwin era la rassomiglianza fra gli organismi delle isole oceaniche e quelli dei continenti ad esse più prossimi. Tali isole pur avendo una struttura climatica e geologica simile possiedono cioè popolazioni affini a quelle del continente ame­ricano, se prossime a questo, oppure specie affini a quelle del continente africano se si trovano nelle vicinanze di quest'ultimo.

Molte di queste osservazioni indicavano, sia pure in modo approssimativo, una sorta di parallelismo fra il diversificarsi delle specie rappresentative di ogni territorio ed il variare della corrispondente situazione geografica. Nel settembre I 8 3 5 con l 'arrivo alle isole Galapagos, poste nel Pacifico a circa seicento miglia dalle coste dell'Ecuador, si offriva però a Darwin un nuovo materiale di osserva­zione che gli avrebbe aperto un problema del tutto inatteso. Le varie isole di questo arcipelago di origine vulcanica, poste a volte a poca distanza l'una dall'altra, godevano di condizioni ambientali, fisiche e geologiche quasi identiche eppure ciascuna isola presentava delle marcate differenze nella flora e nella fauna rispet­tive. Se i precedenti evoluzionisti, come Lamarck, avevano attribuito le variazioni delle stesse specie a diverse condizioni ambientali non si poteva ammettere che qualcosa di simile si fosse verificato in questo caso.

Le grandi tartarughe ma specialmente i fringuelli variavano in queste isole vicine in modo inatteso e sorprendente. Darwin si accorse dell'importanza di questo fenomeno di variazione, in organismi sottoposti praticamente alle stesse condizioni ambientali, solo quando poté svolgere un'analisi più accurata sul materiale raccolto. Giunto nel I 8 3 6 in Inghilterra, per quanto occupato in nu­merose pubblicazioni sul suo viaggio, non cessò di riflettere al problema della specie, suscitato da queste osservazioni. Cominciò a convincersi che le specie sono prodotte attraverso una comune discendenza e divenne per lui sempre più pressante il problema di capire come ciò potesse essere accaduto. Nel marzo I 8 3 7 iniziò a raccogliere nel suo taccuino le prime riflessioni e le numerose osservazioni sulla « trasmutazione della specie ». In un anno arrivò a formulare l'ipotesi sulla quale lavorerà quasi ininterrottamente nei decenni successivi.

Il primo fattore che assume rilievo nella sua ipotesi è quello della lotta per l'esistenza. Che vi fosse una «guerra nella natura» era ben noto a vari autori del Settecento che la interpretavano come uno strumento più o meno provviden­ziale per conservare l'equilibrio o l'armonia fra le varie specie esistenti. Lyell aveva però ripreso l'argomento della lotta per l'èsistenza in modo nuovo al,fine di spiegare sia la scomparsa in epoche passate di specie estinte, sia il propagarsi ed il diffondersi di alcune specie in sostituzione di altre.

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Darwin vide con originalità che questa lotta per l'esistenza non ha soltanto una funzione distruttiva ma anche una funzione creativa allorché compaiano negli organismi delle variazioni favorevoli, cioè dei nuovi caratteri capaci di renderli più adatti alle differenti condizioni locali.

L'impc:5rtanza della lotta per l'esistenza, quale fenomeno universale nell'am­bito della natura vivente, gli fu confermata dalla lettura verso la fine del I 8 3 8 dell'opera di Malthus Saggio sulla popolazione. Il primo saggio di Malthus sulla popolazione del I 798 risaliva allo stesso clima di reazione alla rivoluzione francese in cui era sorta anche l'opera già ricordata di Paley. Contro l'idea ottimistica di progresso, sostenuta in particolare da Condorcet, Malthus argomenta che ogni speranza di miglioramento della società è destinata a fallire per una inesorabile tendenza naturale comune all'uomo e agli animali. Cioè l'aumento della po­polazione supera necessariamente l'aumento del nutrimento disponibile, poiché la prima cresce in progressione geometrica mentre il secondo aumenta soltanto in progressione aritmetica.

Carestie, epidemie e guerre possono controllare nelle società umane l'aumento della popolazione, mentre i tentativi di migliorare il benessere generale portando ad un aumento della fertilità non possono condurre che ad una più aspra compe­tizione per il possesso delle risorse disponibili.

Il pessimismo che emerge dall'opera di Malthus sui tentativi di migliorare la società appariva in contrasto con il quadro ottimistico di un perfetto disegno della natura esaltato dall'opera di Paley. Questi tuttavia fu tra gli ammiratori di Malthus e cercò nella propria opera di giustificare il male e la violenza che si producono inevitabilmente nell'economia della natura, ammettendo che in moltissimi casi «dobbiamo presumere che vi possano essere conseguenze di questa economia che ci sono nascoste ». In alcuni casi tuttavia come in quello della morte ci risulta però chiaro, seguendo il principio di Malthus, che essa ha almeno il beneficio di limitare la sovrappopolazione. Nel complesso si può indi­viduare una sorta di contraddizione fra la lotta per l'esistenza vista pessimistica­mente da Malthus come una condizione generale del regno vivente ed il provvi­denzialismo esaltato da Paley come evidente in ogni più minuto adattamento degli organismi. In questa prospettiva l'opera di Darwin sull'evoluzione ci può appa­rire come un valido superamento di tale contraddizione, per cui da un lato si rinnegava ogni possibilità di progresso e dall'altro si esaltava l'ordine attuale della natura.

Che la lotta per l'esistenza potesse considerarsi un fenomeno universale nel mondo dei viventi non costituiva dunque una novità per Darwin, nuova invece dovette apparirgli l'idea che tale lotta oltre condurre all'eliminazione di alcune specie potesse portare anche alla comparsa di nuove, qualora sorgessero e si po­tessero. accumulare caratteri o variazioni favorevoli.

Gli si poneva dunque per sviluppare questa sua ipotesi la necessità di ana-

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lizzare il problema della variazione. Questo problema era stato considerato marginale o addirittura disturbante dalla maggioranza dei biologi specialmente dagli studiosi di classificazione. Per costoro la variazione non costituiva un pro­cesso da studiare in quanto tale ma semplicemente la comparsa di un carattere che doveva essere giudicato accidentale o essenziale per definire una data specie. Spesso le minime variazioni proprio perché considerate accidentali non erano neppure ritenute oggetto di considerazione scientifica.

Chi invece si era soffermato con il massimo inte1:esse sulle variazioni anche n:elle loro minime sfumature erano stati gli allevatori i quali, proprio con un'at­tenta ed oculata selezione dei nuovi caratteri, erano riusciti a creare pregiate razze di animali domestici. Ciò si otteneva incrociando fra loro ripetutamente solo quei discendenti di determinati genitori che erano provvisti del carattere desiderato, ad esempio un pelo più lungo od un colore più attraente.

Ad alcuni autori non era sfuggita l 'importanza biologica di queste tecniche e lo stesso Lyell nella sua opera aveva scritto: « Gli esempi più autentici dell'esten­sione in cui si può far variare le specie possono essere ricercati nella storia degli animali domestici e delle piante coltivate. » Darwin vide subito la stretta analogia fra l' ottenimento di nuove razze domestiche, mediante la « selezione artificiale », ed il sorgere di nuove specie nella lotta per l'esistenza, mediante quel processo che egli stesso chiamò per analogia « selezione naturale ». Convintosi quindi che nel sorgere delle razze domestiche stesse nascosto almeno in parte il segreto del­l'origine delle specie si dedicò negli anni successivi con grande intereSse a studiare l'attività degli allevatori informandosi accuratamente dei loro problemi e dei loro risultati.

Pur essendosi ormai persuaso nel I 8 3 8 della validità di quella che egli chia­mava la «mia teoria», per alcuni anni ritenne cautamente di non doverne far cenno ad alcuno e nel I839 si limitò a pubblicare la narrazione del suo viaggio che venne riedita più tardi con il titolo A naturalist' s vrryage round the world (Viaggio di un naturalista attorno al mondo, I86o). A questa fecero seguito l'opera Geologica/ observations on South America (Osservazioni geologiche sul Sudamerica) la cui pubbli­cazione terminò nel I 846 e gli procurò la generale stima nel mondo scientifico, anche perché in essa era esposta una geniale spiegazione sulla formazione degli atolli.

Nel frattempo, dopo il suo matrimonio nel I839 ed il soggiorno a Londra sino al I 842, si era trasferito a Down nel Kent ove risiedette per tutta la vita, trovan­dovi condizioni migliori per la sua malferma salute e soprattutto l'opportunità per svolgere con più raccoglimento la sua attività di studi e di ricerca.

Nello stesso anno in cui lasciava Londra stese in trentacinque pagine il primo riassunto della sua teoria che nel I 844 amplierà, come si è ricordato, in un mano­scritto di oltre duecento pagine. In quest'opera pubblicata postuma viene svilup­pata con molta chiarezza l'analogia fra la selezione artificiale degli allevatori e la

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Primo diagramma di Darwin di un albero evolutivo. (La specie originale più antica è indicata con il numero I; dei rami susseguenti, quelli che si sono estinti terminano con il tratto lineare, mentre quelli che hanno dato origine alle specie che sopravvivono, terminano con un segno trasversale. Questi ultimi rientrano in quattro gruppi: A, B, C, D, ciascuno dei quali costituisce un genere. L 'ampiezza dell'estinzione che si è compiuta corrisponde al più ampio intervallo fra A e B, mentre B si trova più vicino a C e

meno vicino a D: da T be fìrst notebook of transmutation of species, I 8 3 7.

selezione naturale. Egli chiede all'immaginario lettore di supporre l'esistenza di « un essere con una penetrazione sufficiente a percepire le differenze, del tutto sfuggenti all'uomo, nell'organizzazione esterna ed interna e con una preveggenza estendentesi sui secoli futuri, così da poter osservare con perfetta cura e selezio­nare in tutti i casi la discendenza di un organismo prodotta nelle circostanze pre­cedenti; io non vedo alcun ragionevole motivo perché esso non possa formare una nuova razza... adatta a nuovi fini. Dal momento che noi consideriamo la sua acutezza e la sua preveggenza e perseveranza nello scopo incomparabilmente maggiori di queste qualità nell'uomo, possiamo allora supporre che la bellezza e le complessità degli adattamenti delle nuove razze e la loro differenza dalla stirpe originaria siano maggiori che nelle razze domestiche prodotte dall'attività dell'uomo ... Con una sufficiente estensione di tempo un tale Essere può in modo razionale (senza che qualche legge sconosciuta gli si opponga) prefiggersi quasi ogni risultato ... »

Questo « grande allevatore » cui accenna Darwin nel I 844 è analogo nella sua quasi infinita capacità tecnica alla mente suprema di Laplace che domina sul piano della conoscenza tutti i processi naturali. Si tratta di una figurazione deistica dello sviluppo razionale della natura organica che indica chiaramente il suo di­stacco dalla concezione provvidenzialistica che postulava il continuo intervento di dio per spiegare l'origine delle forme viventi. Si tratta soprattutto della pro­fonda fiducia che tale origine sia il prodotto di leggi naturali, di cause « seconde», che se pur stabilite da un creatore è compito dell'uomo indagare e conoscere.

Questo grande allevatore indicava anche la concreta linea di indagine scien-

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tifica che Darwin doveva seguire e lungo la quale i problemi dell'allevamento si ampliavano e si collegavano a tutti i complessi rapporti di distribuzione e di in­terazione delle forme viventi nelle loro varie condizioni ambientali.

V · L'« ORIGINE DELLE SPECIE»

Prima di dedicarsi completamente ad un'opera generale sull'origine ,delle specie Darwin ritenne di dover studiare e classificare un gruppo particolare di animali, riuscendo così a valutare concretamente alcuni dei complessi problemi della variazione. Per otto lunghi anni a partire dal I 846 egli si occupò così di un ordine di crostacei poco noto, i cirripedi. I due volumi che pubblicò su di essi costituiscono un'opera ancora classica sull'argomento.

Già da alcuni anni egli aveva ormai confidato ad amici sicuri, fra cui Lyell ed il botanico J oseph Hooker (I 8 I 7- I 9 I I), le sue riflessioni sul problema della specie e questi in vario modo lo avevano consigliato di non rimandare troppo a lungo una pubblicazione sull'argomento. Nel I856 egli si decise quindi a scrivere una grande opera che doveva essere circa tre volte più ampia di quella che apparve nel I 8 59· La stesura proseguiva regolarmente quando nel I 8 58 un fatto inatteso venne a turbare gravemente il suo lavoro. Edgar Russel Wallace, uno dei suoi corrispondenti, studioso di botanica che conduceva ricerche nell'arcipelago ma­lese, gli inviò con preghiera di pubblicarlo un breve scritto in cui esponeva, quasi negli stessi termini, la teoria sull'origine della specie per selezione naturale a cui Darwin stava lavorando da circa un ventennio. La situazione di imbarazzo venne risolta con reciproca soddisfazione mediante la pubblicazione, negli atti della Società linneana, dello scritto di Wallace insieme ad un breve riassunto delle idee di Darwin stesso.

Questa sorprendente coincidenza lo spinse ad accelerare la pubblicazione della sua opera, riducendola tuttavia in limiti molto più ristretti rispetto al progetto iniziale e privandola di quei riferimenti alla ampia bibliografia consultata, che egli si riprometteva di riportare in una successiva edizione in più volumi. Questo estratto fu pronto in poco più di un anno ed apparve nel novembre I 8 59 come uno dei più importanti libri del secolo con il titolo On the origin of species f?y means of natura/ selection or the preservation of favored races in the struggle for /ife (Sull'origine delle specie per selezione naturale ovvero la conservazione delle razze favorite nella lotta per l'esistenza).

L'opera si presenta come la cauta e laboriosa riflessione di uno studioso dedito alla classificazione, alla geologia, ai problemi della distribuzione geografica delle specie e dei loro rapporti ecologici con l'ambiente. I grandi problemi della biologia ottocentesca concernenti l'anatomia comparata, la teoria cellulare, l'em­briologia e la fisiologia appaiono in secondo piano o vengono solo accennati. Non vi è alcun riferimento alla disputa teorico-filosofica fra meccanicismo e vita-

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lismo che aveva diviso molti studiosi sul continente europeo; tutta l'attenzione è invece rivolta a quel problema dell'origine che da tali autori veniva molto spesso considerato privo di interesse perché insolubile in termini scientifici o troppo di frequente oggetto di speculazioni incontrollabili.

Nell'Origine delle specie non vi è però traccia di atteggiamenti speculativi. Un'estesa e ricca discussione di fatti ed osservazioni particolari è ciò che colpisce in modo più immediato il lettore e l'idea centrale e rivoluzionaria appare quasi in secondo piano come una trama solida e convincente che regge il tutto. Dopo una cauta e misurata introduzione in cui egli espone le sue idee generali l'opera 1 si apre con il primo capitolo dedicato a un argomento solido e rassicurante che non poteva certamente allarmare il lettore, cioè « La variazione allo stato domestico ». Dall'esperienza di chi si è dedicato all'allevamento, ad esempio a quello dei colombi, risulta la formazione a partire da una specie originaria di varietà cosi marcatamente differenziate da poter apparire, a chi non ne conoscesse la genea­logia, come specie diverse. E a ciò si è giunti praticando per lungo tempo in una sola direzione una selezione accumulativa di differenze che in genere sfuggono del tutto ad occhi inesperti.

L 'importanza dei risultati ottenuti dagli allevatori induce a considerare con maggior interesse anche « La variazione allo stato di natura >> trattata nel secondo capitolo. Il disaccordo dei naturalisti su ciò che costituisce la specie può essere affrontato alla luce di alcuni fatti ai quali Darwin attribuisce particolare significato. Dalle varie descrizioni della flora e della fauna risulta che si hanno più specie nei generi più diffusi e comuni che in quelli che lo sono meno. Analogamente le specie appartenenti a questi generi presentano più varietà delle specie apparte­nenti a generi poco diffusi.

Se le specie sono oggetto di una particolare creazione questi fatti non tro­vano alcuna spiegazione, ma se ammettiamo che le specie siano esistite un tempo come varietà e che le attuali varietà siano delle specie incipienti i fatti sopraccen­nati appaiono comprensibili. Ed infatti, poiché le varietà «per diventare perma­nenti hanno dovuto necessariamente lottare contro gli altri abitanti dello stesso luogo, le specie che sono già dominanti devono avere maggiore probabilità di lasciare una discendenza la quale, sebbene modificata, erediti ancora quei vantaggi che hanno permesso alla specie madre di prendere il sopravvento sulle altre specie indigene ».

Questo tipo di spiegazione ci conduce nel cuore della concezione darwiniana che viene affrontato nei due successivi capitoli dedicati alla «Lotta per l'esisten­za » e alla « Selezione naturale ».

La lotta per l'esistenza è la condizione generale di competizione fra gli or­ganismi che determina l'intera economia della natura. Darwin usa questa espres-

I Seguiremo per completezza la sesta edi- zione del 1872, riportando le citazioni dall'edizio­ne italiana, Boringhieri 1967.

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sione « in un senso lato e metaforico, che implica la reciproca dipendenza degli esseri viventi, ed implica inoltre, cosa ancora più importante, non solo la vita del­l'individuo, ma il fatto che esso riesca a lasciare discendenza».

La capacità riproduttiva degli organismi che nascono da un genitore è invero enorme e tutte le specie non possono aumentare indefinitamente poiché il mondo non potrebbe contenerle. Vari ostacoli si oppongono di fatto all'aumento numerico dei viventi e per quanto molti di questi ci siano sconosciuti, quelli a noi noti ci permettono di capire i rapporti estremamente complessi che collegano fra loro gli organismi. Dalla difficoltà di procacciarsi il cibo, dall'essere preda o predatore, dal cercare riparo, ecc. una rete nascosta di legami si estende in tut­ta la natura, si riflette d'altronde nella struttura di ogni essere organizzato che « è in stretta correlazione, spesso assai difficile a scoprirsi, con quella di tutti gli altri esseri viventi con i quali viene a trovarsi in concorrenza o per il cibo o per la dimora, o con quella degli esseri da cui deve difendersi o di quelli che sono sua preda. Questa legge è evidente nella conformazione dei denti e degli artigli della tigre, e delle zampe e degli uncini del parassita che si attacca ai peli del suo corpo » ed in innumerevoli altre conformazioni anatomiche.

La selezione naturale è il risultato necessario delle infinite interazioni fra gli organismi, per cui la comparsa di differenze individuali può produrre negli orga­nismi stessi situazioni di svantaggio o di vantaggio che permettono loro di avere una minore od una maggiore discendenza. Se l 'uomo ha potuto sfruttare in breve tempo le variazioni di alcuni esseri viventi per modificarli a proprio vantaggio quanto non ha potuto fare la natura agendo in lunghi periodi di tempo, agendo su ogni minima differenza individuale sia interna che esterna agli organismi. « Si può dire metaforicamente, » afferma Darwin, « che la selezione naturale sotto­ponga a scrutinio, giorno per giorno e ora per ora, le più lievi variazioni in tutto il mondo, scartando ciò che è cattivo, conservando e sommando tutto ciò che è buono; silenziosa e impercettibile essa lavora quando e ovunque se ne offra l'opportunità per perfezionare ogni essere vivente in relazione alle sue condizioni organiche e inorganiche di vita. Questi lenti cambiamenti noi non li avvertiamo quando sono in atto, ma soltanto quando la mano del tempo ha segnato il lungo volgere delle età, ma così imperfette sono le nostre cognizioni delle remote ere geologiche che ci è soltanto dato di vedere che le forme viventi attuali sono diverse da come erano una volta. »

Condizione fondamentale per l'agire della selezione è ovviamente l'eredita­rietà dei caratteri su cui essa agisce, ereditarietà che Darwin assume come una grande forza della natura, ovunque operante nel regno della vita.

Altre condizioni favorevoli alla produzione di nuove forme mediante la selezione sono l 'isolamento che può impedire il dissolversi dei nuovi caratteri attraverso gli incroci, ma soprattutto l'ampiezza di una regione dove maggiore è la possibilità di diffusione e dove più dura può essere la lotta per l'esistenza.

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La teoria dell'evoluzione e l'opera di Charles Darwin

Un principio importante secondo cui agisce la selezione è quello della divergenza dei caratteri. Come l'allevatore sceglie i caratteri più accentuati accumulando progressivamente le differenze fra le razze, così in natura quanto più differen­ziati per abitudine e struttura divengono i discendenti di un animale tanti più posti essi potranno occupare aumentando le proprie possibilità di sopravvivenza.

Tale divergenza permette di aumentare la quantità di vita che può occupare uno stesso territorio e nel contempo rende possibile un aumento dell'adatta­mento di ogni gruppo alle varie condizioni ambientali.

Tale aumento dell'adattamento sembra comportare per Darwin anche un progresso dell'organizzazione nel più gran numero di viventi, ma non gli sfuggono le difficoltà di precisare il significato di questo progresso. Da un lato egli riferisce il livello di organizzazione alla differenziazione degli organi nel senso già indicato nell'embriologia da von Baer, dall'altro trova un criterio fisiologico importante per stabilire tale livello nel concetto di specializzazione o divisione del lavoro formulato dal belga Henri Milne-Edwards (18oo-85).

La selezione naturale non conduce tuttavia ad un necessario progresso nel­l'organizzazione dei viventi; in alcuni casi essa può comportare adattamenti a si­tuazioni in cui alcuni organi sono superflui, producendo così una regressione o semplificazione di struttura. Alla concezione darwiniana è quindi estranea l'idea di Lamarck di una tendenza necessaria al perfezionamento degli organismi, ten­denza che d'altronde appare inconciliabile con la stabilità di molte forme viventi specialmente di livello inferiore.

L'azione complessa della eredità e della selezione naturale, che comporta estinzione e divergenza dei caratteri, permette infine di dare una plausibile spie­gazione genealogica del grande quadro delle forme viventi, suddivise con i vari gradi della classificazione in specie, generi, ordini e classi. « Le affinità di tutti gli esseri della stessa classe, » afferma Darwin, « sono state spesso rappresentate con un grande albero. Credo che questa similitudine corrisponda bene alla realtà. I verdi e germoglianti rami possono rappresentare le specie esistenti; e quelli prodotti negli anni precedenti possono rappresentare la lunga successione di specie estinte. Ad ogni periodo di crescita, tutti i rametti in sviluppo tentano di ramificarsi in tutte le direzioni e di sorpassare e uccidere i ramoscelli e i rami cir­costanti, allo stesso modo in cui le specie ed i gruppi di specie hanno in tutti i tempi sopraffatto altre specie nella grande battaglia per la vita ... Dei molti rami che fiorirono quando l'albero era un arbusto, soltanto due o tre, ora sviluppatisi in grandi tronchi, oggi sopravvivono e sostengono gli altri rami; così delle specie che vissero in remoti periodi geologici, pochissime hanno lasciato discendenti viventi e modificati. Dal primo sviluppo dell'albero, molti tronchi e rami sono morti e caduti; e questi rami caduti di varie dimensioni possono rappresentare quegli interi ordini, famiglie e generi che attualmente non hanno rappresentanti viventi, e che conosciamo solamente allo stato fossile. »

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La teoria dell'evoluzione e l'opera di Charles Darwin

Se dunque la specie non può considerarsi un'entità fissa ma soltanto l'insieme dei caratteri di un gruppo di organismi soggetti a modificazione, diviene impor­tante cercare il significatò e la portata di tali modificazioni. Nel capitolo v « Le leggi della variazione » Darwin affronta questo problema che fu per tutta la sua vita uno dei più complessi e cruciali e di fronte al quale egli giungerà sia pure attraverso esitazioni a modificare il suo atteggiamento iniziale.

Darwin riconosce che l 'ignoranza sulle cause e le leggi delle variazioni è profonda. Attraverso lunghe ·riflessioni egli tenderà tuttavia a convincersi sempre più che malgrado il carattere fortuito delle variazioni, o meglio delle differenze individuali ereditarie su cui agisce la selezione, queste non sono del tutto spora­diche ed isolate ma compaiono in un certo numero entro un gruppo di organismi, per effetto di quelli che sono stati chiamati «fattori lamarckiani », cioè l'azione diretta dell'ambiente, l'abitudine, l'uso e non uso degli organi. Egli ritiene che gli animali domestici presentino un grado maggiore di variabilità rispetto a quelli allo stato naturale, perché soggetti alle più varie condizioni ambientali.

Come si vedrà oltre, la trasformazione del pensiero di Darwin a proposito di questo problema è il riflesso di alcune osservazioni critiche che gli vennero mosse dopo la comparsa di questa sua opera nel 1 8 59·

Convinto della serietà dei dissensi che avrebbe suscitato e di fatto suscitò la sua teoria, egli dedica i due capitoli seguenti ad analizzare le difficoltà e le o­biezioni più importanti, anticipando e a volte risolvendo acutamente non pochi dei rilievi critici che vennero mossi da vari autori, dopo la pubblicazione del­l'Origine. L'estrema franchezza con cui riconosce la gravità di alcune obiezioni, la serietà e la cautela con cui risponde ad esse, oltre a chiarire sempre meglio il suo pensiero finirono con lo stroncare molta della diffidenza con cui venne accolta inizialmente la sua opera.

Una prima difficoltà viene da lui così espressa: « Perché, se le specie derivano da altre specie attraverso impercettibili gradazioni, non vediamo ovunque innu­merevoli forme di transizione? » Egli risponde a questa obiezione mostrando come la selezione naturale agendo a favore delle forme più comuni e quindi più ricche di variabilità tende a sterminare le forme progenitrici od intermedie che si trovano rappresentate da un numero più esiguo di individui. L'esistenza di queste ultime forme deve essere comunque provata dalle indagini sui resti fossili.

Tali indagini nel loro complesso non paiono offrire un notevole appoggio alla teoria di Darwin, ma sembrano anzi pesare a suo svantaggio. Egli affronta però questa difficoltà con grande iq1pegno e maestria insistendo in alcuni capitoli successivi (x e xi) sulla inadeguatezza dei resti fossili sino ad allora raccolti e dimostrando in modo convincente quante possano essere state le condizioni sfa­vorevoli alla deposizione di tali fossili nelle passate epoche della terra.

Dal fatto che le sedimentazioni contenenti i resti organici siano avvenute in zone relativamente limitate ed in condizioni fisiche non frequenti, dal fatto

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La teoria dell'evoluzione e l'opera di Charles Darwin

che il processo di formazione di una nuova specie sia relativamente rapido ri­spetto al periodo in cui essa permane stabile, dalle immigrazioni che spiegano la comparsa apparentemente improvvisa di nuove forme, da tutto questo risulta la possibilità di superare le obiezioni che provenivano dalla geologia chiarendo in modo sempre più preciso i vari aspetti della sua teoria.

Fra questi vi è anche il problema dell'istinto e dell'ibridismo a cui egli dedica i capitoli VIII e IX ma soprattutto vi sono le complesse questioni della distribu­zione geografica a cui Darwin aveva prestato da tempo molta attenzione. I due capitoli su questo argomento (xn e xiii) costituiscono una brillante illustrazione della sua acutezza e dei suoi appassionati interessi di naturalista. Se tutti gli indi­vidui di uno stesso gruppo discendono da un comune progenitore essi devono essersi diffusi da un 'unica area geografica in quelle dove attualmente risiedo­no. Per spiegare questa diffusione Darwin non postula fantasiosi ponti di terra che abbiano un tempo congiunto i vari continenti. Cerca la spiegazione in fatti semplici e concreti individuando varie forme di trasporto casuale a cui ben pochi avevano prestato attenzione. Ad esempio un seme viene ingerito in un continente da un pesce di acqua dolce, che giunto alla costa è preda a sua volta di un uccello, il quale depone infine questo seme come escremento in un altro continente. Al­trettanto significativa è la possibilità di galleggiamento di altri semi che vengono trasportati dalle grandi correnti oceaniche sulle coste di territori molto lontani.

Le ricerche sulla documentazione geologica e la distribuzione geografica costituivano un settore scientifico relativamente nuovo, che alla luce della teoria dell'evoluzione poteva così trovare una prima sistemazione unitaria. Ma vi era un altro campo d'indagine che occupava ormai dal Settecento una posizione centrale nelle scienze naturali. Era lo studio della classificazione o più in generale delle « Affinità reciproche fra gli esseri viventi ». A tale ultimo argomento viene de­dicato il capitolo XIV ed in esso Darwin può effettivamente realizzare il sicuro co­ronamento della sua opera.

Dell'ordine che si cerca di stabilire fra le forme viventi con la classificazione nessuna spiegazione è stata ancora tentata e Darwin può facilmente mostrare come la comunanza di discendenza con modificazioni da lui proposta costituisce l'unica ipotesi scientifica in grado di spiegare le regole, le difficoltà ed i metodi precedenti di classificazione. La stessa unità di tipo che si pone alla base delle ricerche di morfologia risulta comprensibile in base all'ipotesi della discendenza di un gruppo di viventi da un comune antenato. « Nulla può esservi di più vano, » as­serisce il nostro autore, « del tentativo di spiegare questa somiglianza di tipo in membri della stessa classe con l 'utilità o con la teoria delle cause finali ... Secondo l'opinione corrente della creazione indipendente di ogni essere, possiamo dire soltanto che così stanno le cose; dire che piacque al Creatore costruire tutti gli animali e tutte le piante di ogni grande classe secondo un modello uniforme; ma questa non è una spiegazione scientifica. »

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La teoria dell'evoluzione e l'opera di Charles Darwin

Anche molti fatti dell'embriologia possono venire spiegati dalla nuova teoria, ma questa appare ancora più convincente come spiegazione degli organi rudimentali. Che cosa può esservi di più curioso della presenza di denti nei feti di balena, la quale, da adulta, non ha un solo dente in bocca? A proposito di in­numerevoli casi analoghi a questo « nelle opere di storia naturale si legge gene­ralmente che gli organi rudimentali sono stati creati "per amor di simmetria'' o " per completare lo schema della natura ". Ma questa non è una spiegazione, è una semplice conferma del fatto ... Che cosa si penserebbe di un astronomo il quale sostenesse che i satelliti descrivono intorno alloro pianeta orbite ellittiche, " per amore di simmetria ", giacché i pianeti ruotano in tal modo attorno al sole?»

Secondo la teoria della discendenza con modificazione gli organi rudimentali sono residui di parti il cui uso è venuto meno nelle mutate condizioni di vita degli organismi e la loro esistenza in base a tale teoria si sarebbe persino potuta pre­vedere.

Nel capitolo conclusivo egli riconosce e ripropone in tutta la loro forza le numerose obiezioni alla sua teoria riassumendo le risposte che egli ritiene di poter dare ad esse. « Ho avvertito per molti anni tutto il peso di queste difficoltà. Ma merita speciale attenzione il fatto che le più serie obiezioni si riferiscono a questioni sulle quali abbiamo confessato la nostra ignoranza; né sappiamo quanto essa sia profonda. » Ma ciò che si ignora non può far trascurare tutto ciò che depone a favore della teoria dell'evoluzione per selezione naturale e soprattutto quanti fenomeni essa riesce a spiegare e a rendere comprensibili. Egli riassume i più significativi di questi fenomeni ed osserva che « è difficile immaginare che una falsa teoria possa spiegare come fa la teoria della selezione naturale le varie ampie classi di fatti sopra specificati ».

Tale teoria assume un alto grado di probabilità anche nel confronto con l'opposta teoria creazionista. I sostenitori del creazionismo- chiede Darwin­« credono essi realmente che nei periodi innumerevoli della storia della terra, certi atomi elementari abbiano ricevuto l'ordine di trasformarsi repentinamente in tessuti viventi? Credono essi che ogni preteso atto creativo abbia prodotto uno o più individui? ... Diversi autori hanno sostenuto che è ugualmente facile credere alla creazione di cento milioni di esseri come a quella di uno solo; ma l'assioma filosofico di Maupertuis "della minima azione" induce ad ammettere il numero minore; e certamente non possiamo credere che innumerevoli esseri nell'ambito di ciascuna grande classe siano creati con evidenti, ma ingannevoli, segni di discendenza da un unico progenitore».

Il criterio di semplicità avrebbe dovuto ovviamente decidere a favore della teoria sostenu~a dal nostro autore. Ma perché tale criterio, che egli applicava con notevole penetrazione scientifica, potesse valere in modo decisivo occorreva vin­cere il secolare pregiudizio a favore del creazionismo. Occorreva svolgere un

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lavoro estremamente accurato di analisi su un enorme materiale di osservazione scientifica, occorreva una grande cautela e misura critica nel vagliare le conclu­sioni che potevano risultare da circa vent'anni di riflessioni, nel misurare quanto i fatti potessero chiarire e confermare un'idea nuova e rivoluzionaria.

VI · SIGNIFICATO FILOSOFICO DELL'« ORIGINE DELLE SPECIE»

Il significato rivoluzionario dell'Orzgine delle specie non consisteva soltanto nel modificare radicalmente gli schemi concettuali di tutte le scienze naturali che studiavano gli esseri viventi, nell'introdurre in esse una dimensione storica, nel « contemplare in ogni complessa struttura e istinto... la somma di numerosi congegni ciascuno utile al suo possessore, allo stesso modo in cui ogni grande invenzione meccanica è la somma del lavoro, dell'esperienza, della ragione e anche degli errori di numerosi lavoratori ».

L 'Origine delle specie modificava profondamente con le idee scientifiche anche una concezione filosofica che aveva accompagnato gran parte dello sviluppo della cultura occidentale, cioè la visione teleologica della natura, l'idea che un piano divino, un disegno prestabilito governi armonicamente tutta l'economia degli esseri viventi.

La forza di convinzione delle argomentazioni di Darwin, che conducevano a questo risultato, consisteva anche nell'aver preso le mosse e nell'aver rovesciato le considerazioni che nella Teologia naturale di Paley costituivano la prova decisiva di un piano divino, cioè la perfezione dell'adattamento degli esseri viventi alle loro condizioni di esistenza. Vi era nulla di più chiaro del fatto che le ali servis­sero per volare ed i denti per mordere? Eppure tali strutture potevano apparire come organi rudimentali del tutto privi di ogni uso e di contro appariva inaspet­tata la possibilità che modificazioni casuali divenissero il punto di partenza di meravigliosi adattamenti. La selezione naturale poteva lentamente operare questo effetto solo con il volgere del tempo senza che apparisse alcun intervento provvi­denziale di un creatore o senza seguire la necessaria traccia di un disegno presta­bilito nella natura. Come rileva Darwin stesso nell'autobiografia «non sembra esservi più disegno nella variabilità degli esseri organici e nella azione della se­lezione naturale che nella direzione in cui soffia il vento. Ogni cosa è in natura il risultato di leggi fisse ».

La forma degli organismi in altri termini era il prodotto del tempo e delle circostanze, cioè del caso. Ma per caso non si intende l'assenza di un determi­nismo causale o di leggi precise che regolino tutti i processi naturali ma l'atteni­mento di una struttura organizzata senza che vi abbia parte un piano generale della creazione. Darwin stesso non era disposto ad ammettere che la selezione naturale fosse conciliabile con un disegno teleologico come affermava un suo soste­nitore ed amico, il botanico americano Asa Gray (r810-88). Questi era convinto

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che un piano divino si manifestava nel controllare e dirigere le variazioni. Al che Darwin rispondeva che in tal caso il numero e le penne di un piccione dovevano variare soltanto per il gusto di qualche amatore. Inoltre come giustamente osserva J ohn C. Green: « Presumibilmente le leggi della natura implicavano un legisla­tore, ma qual genere di legislatore realizzerebbe l'adattamento di una struttura ad una funzione proliferando a caso milioni di variazioni, lasciando all'ambiente d'eliminare quelle che non risultano adatte? Qual genere di legislatore permet­terebbe l'enorme quantità di sofferenza evidente nella natura? La legge governava le operazioni della macchina del mondo ma i dettagli " buoni o cattivi " sembra­vano lasciati al caso. »

La visione della natura che poteva risultare dall'Origine delle specie era quella di un mondo in cui si ha un autonomo passaggio dal disordine all'ordine, era una visione materialistica della realtà naturale destinata a confermare e a con­fluire con il materialismo scientifico che negli anni cinquanta era sorto in Ger­mania fra alcuni studiosi di fisiologia e di medicina. A costoro era effettivamente mancata la possibilità di comprendere in un modo che non fosse vagamente speculativo ciò che risultava dall'opera di Darwin, cioè il sorgere dell'ordine dal disordine, la creatività del caso. Il prodursi di gradi più complessi di organizza­zione per effetto della selezione poteva infatti dirsi casuale, non perché effetto di una spontaneità non causata di processi naturali, ma semplicemente perché ef­fetto di interazioni complesse e non sempre conosciute di processi naturali.

Era proprio il significato delle interazioni fra fenomeni che veniva a costi­tuire uno dei principi e dei problemi filosofici e scientifici della cultura ottocente­sca. Da un lato come espressione di una produttività dialettica della natura, dal­l'altro come specificazione di questa produttività negli innumerevoli settori della ricerca scientifica sulla realtà.

L'Origine delle specie conferiva inoltre una definitiva conferma scientifica alla concezione storica della realtà naturale che già formulata dagli illuministi si era affermata specialmente nella cultura te~esca del periodo romantico. Ma l'idea di sviluppo storico della realtà naturale era legata all'idea di progresso che costituiva anche nell'Ottocento un'eco importante del razionalismo illu­ministico.

Per quanto Darwin e molti seguaci della sua teoria fossero intimamente convinti, come lo erano stati i progressionisti, che nella natura si realizzasse un graduale perfezionamento delle forme della vita, l'idea di progresso non trovava nella teoria della selezione naturale una definizione soddisfacente.

Da un lato lo stesso Darwin considerava quale perfezionamento operato dalla selezione l'accresciuta capacità di sopravvivenza rispetto all'ambiente di un gruppo di organismi. Ma in tal modo risultava difficile stabilire il grado di per­fezione cioè di superiorità competitiva per quelle forme che erano meno premute dalla lotta per l'esistenza. D'altro lato il termine più adatto, se usato per indicare

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il grado di perfezione, non presentava minori difficoltà poiché un essere ad orga­nizzazione manifestamente più complessa poteva risultare meno adatto a certe condizioni ambientali di un animale molto più semplice nella sua struttura.

VII · ACCOGLIENZA E REAZIONE ALL'« ORIGINE DELLE SPECIE»

La prima edizione dell'opera di Darwin fu esaurita in un giorno ed altre due edizioni seguirono nel giro di un anno. Lo zoologo Thomas Huxley (1825-96) il botanico Hooker ed il grande geologo Lyell amici di Darwin e non poche altre autorità in campo scientifico aderirono prontamente alla nuova teoria scientifica. L'opposizione fu tuttavia violenta da parte degli ambienti ecclesiastici e di quelli scientifici più conservatori, dei quali uno dei rappresentanti più influenti era l'anatomico Richard Owen (1804-92).

L'opposizione non poteva essere motivata dal fatto che Darwin avesse fatto professione di ateismo. Per quanto orientato verso una posizione di agnosticismo si dimostrò sempre cauto di fronte alla religione, accogliendo con soddisfazione ogni segno di consenso che venisse alla sua teoria da parte di scienziati di fede religiosa. Tale opposizione derivava soprattutto dal fatto che la sua opera infe­riva un colpo decisivo alla teologia naturale ed alla concezione provvidenziali­stica che su di essa si fondava. Non solo si riteneva che la scienza naturale for­nisse una prova empirica, e quindi decisiva nella mentalità anglosassone, dell'esi­stenza di dio. Si pensava anche che essa costituisse la testimonianza di un con­trollo e di un continuo intervento provvidenziale di dio nella natura e quindi nella società.

Nella prima metà del secolo in Inghilterra si erano diffuse tra le masse po­polari molte iniziative di divulgazione scientifica in cui non mancava l'intento di convincere la gente dell'immanenza e delle prescrizioni della divina provvi­denza in questo mondo. L'opposizione dapprima all'opera di Chambers e poi a quella di Darwin era quindi basata anche sulla convinzione che se veniva cancel­lato il ruolo di dio come assiduo governatore delle cose naturali esso poteva venir cancellato anche dal suo ruolo di governo nelle faccende degli uomini. In altri termini, come osserva Gillispie: « La stabilità della società non solo dipen­deva ma era giustificata dall'attenzione diretta ed immediata di una provvidenza le cui disposizioni potevano essere empiricamente dimostrate nell'universo fi­sico.» D'altronde come commenta lo stesso autore, «non è dopo tutto sorpren­dente, o necessariamente marxista, scoprire che in un ambiente pio e borghese le lezioni della scienza dovevano essere interpretare in un modo pio e borghese ».

Un tipico esempio di tale atteggiamento ci è dato dal già ricordato reverendo William E. Buckland, uno fra più illustri geologi inglesi in quel periodo, il quale in una lezione tenuta nel 1 848 rilevava che « il Dio della natura ha determinato che le ineguaglianze morali e fisiche devono essere non solo inseparabili dalla

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nostra umanità ma coestensive a tutta la sua creazione ». Le varie forme di viventi dal più piccolo al più grande nella loro perfezione costituiscono infatti una serie di ineguaglianze. In tal modo egli continua: «Uguaglianza di mente o di corpo o della situazione nel mondo è incompatibile sia con l'ordine della natura che con le leggi morali di Dio... Ci può essere uguaglianza nella povertà: uguaglianza fra ricchi è impossibile ... Un'eguaglianza di ricchezza e proprietà non è mai esistita e non può esistere, salvo che nell'immaginazione di irragionevoli teorici trascendentali, sino a che la natura umana continuerà ad essere quella cosa imper­fetta che Dio ha posto in questo mondo ... »

Nell'opera di Darwin si veniva in effetti a negare il provvidenzialismo ed il geologo Adam Sedgwick, che fu già suo insegnante a Cambridge, rilevava che so­stenendo in tal modo l'autosufficienza della natura si veniva a spezzare un legame essenziale tra« fisico e morale». Rompendosi tale legame, egli affermava, « l'uma­nità ... soffrirebbe un tal danno che la renderebbe bruta e sprofonderebbe la razza umana ad un livello di degradazione più basso di qualsiasi altro in cui essa sia caduta da quando documenti scritti ci parlano della sua storia ».

L'aspetto più pericoloso dell'opera di Darwin, oltre alla negazione di un fondamentale argomento per la dimostrazione dell'esistenza di dio, oltre alla ne­gazione del provvidenzialismo era tuttavia l'implicita estensione della sua teoria all'origine dell'uomo. Questo pericolo fu ben avvertito e diede luogo fra l'altro ad un famoso scontro fra il vescovo di Oxford Samuel Wilberforce (1805-73), sostenuto da Owen, e Thomas Huxley alla riunione della «Associazione britan­nica per l'avanzamento della scienza» che si tenne nel giugno 186o ad Oxford. Huxley ne uscì vittorioso e ciò indicava ormai il graduale successo delle idee di Darwin, ma non disarmò certo gli avversari che dovevano battersi contro di lui con armi indubbiamente più potenti di chi pronosticava la bancarotta morale e so­ciale dell'umanità, qualora le idee di Darwin si fossero diffuse nel vasto pubblico.

Fra le obiezioni più significative che vennero sollevate contro l'opera di Darwin ve ne erano alcune di carattere metodologico che coinvolgevano diretta­mente la concezione filosofica della scienza. Si affermava in particolare che l'Origine non era un'opera induttiva poiché si fondava più su delle ipotesi che su dei fatti. Darwin aveva cioè tradito lo spirito scientifico inglese inaugurato da Bacone e portato al suo vertice da Newton.

In questi rilievi vi era indubbiamente qualcosa di vero. Nella sua opera Darwin non forniva alcuna prova diretta della trasmutazione di una specie in un'altra. Come osserva Alvar Allegard: «Ciò che Darwin aveva fatto era mostrare che un gran numero di fatti ben conosciuti circa la somiglianza degli animali e la loro distribuzione nello spazio e nel tempo potevano essere spiegati in base al­l'assunzione che essi erano collegati l'un l'altro, in modo più o meno remoto, attra­verso un rapporto di discendenza. Egli mostrava inoltre che la loro divergenza poteva essere spiegata in base all'assunzione che i discendenti degli stessi genitori

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non sono esattamente uguali, ma variano ... che fra queste variazioni ve ne sono in generale alcune che danno ai loro possessori una migliore opportunità di soprav­vivenza nella lotta per la vita. »

Molti critici non si soffermavano a valutare la plausibilità specifica di queste assunzioni ma respingevano di principio la possibilità di fame uso, poiché ciò veniva da essi ritenuto incompatibile con corretto procedimento scientifico.

L'uso di ipotesi da parte di Darwin non contrastava tuttavia con la sua fon­damentale adesione ad un atteggiamento empiristico. Secondo l'indirizzo empi­ristico si riteneva in genere che la spiegazione di un fenomeno naturale po­teva realizzarsi in modo soddisfacente mostrando come esso costituisse il ca­so particolare di una legge più generale. A questa concezione empiristica, che era stata teorizzata da J ohn Stuart Mill, si contrapponeva in Inghilterra una con­cezione idealistica rappresentata da William Whewell (1794-1866) per cui un'ipo­tesi scientifica per condurre ad un'effettiva spiegazione deve concernere una causa e per causa questo autore intendeva qualcosa di non percepibile coi sensi bensì «una qualità astratta, potere o capacità (e.f!icacy) da cui viene prodotto il mutamento; una qualità non identica agli eventi, ma che si rivela attraverso di essi».

Questa concezione della causa, come principio non riconducibile all'espe­rienza sensibile, si prestava direttamente all'introduzione nell'ordine naturale di una causa prima o superiore e poteva facilmente accordarsi con il piatto senso comune di quegli scienziati i quali, dichiarando di volersi appellare esclusivamente ai fatti, finivano poi con l'affermare dogmaticamente l'esistenza di un ordine divino nei fenomeni naturali.

Contro una simile concezione idealistica e contro una concezione piattamente empiristica della conoscenza scientifica, che contrapponeva ipotesi ed induzione, si mosse con molto impegno Thomas Huxley, che al contrario di Darwin aveva un vivo interesse ed una preparazione nel campo della filosofia. Se si ammette, afferma Huxley, che un evento è prodotto da una causa soprannaturale: «Quanto più saggi noi siamo; che cosa spiega la spiegazione? Non è ciò niente di più che un modo magniloquente per dire che non conosciamo veramente nulla della cosa? Un fenomeno è spiegato quando esso è un caso di una qualche legge generale di natura; ma l'interposizione soprannaturale del Creatore non può, in un caso specifico, esemplificare alcuna legge. »

L'accusa di avere abbandonato il metodo induttivo a favore delle ipotesi ten­deva a screditare Darwin presso un pubblico in cui il detto newtoniano f?y­potheses non fingo aveva la più piatta interpretazione. Tale accusa era così po­polare da apparire in versi sulle stesse pagine del « Punch »: « 1-{ypotheses non fingo l ha sir Isaac Newton affermato l e ciò era vero, per Jingo! l come la prova ha confermato l Ma di Darwin la speculazione 1 è di un'altra sorta l una che alcuna dimostrazione l in alcun modo sopporta. » Ma anche in questo caso, il fedele

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La teoria dell'evoluzione e l'opera di Charles Darwin

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bulldog di Darwin, come venne chiamato Huxley, prese le difese dell'amico ci-tando la Logica dell'autorevole Stuart Mill. Questi nel capitolo « Sul metodo de­duttivo » aveva chiarito la necessità delle ipotesi nella ricerca scientifica mostrando come il ragionamento ipotetico più che alle leggi della induzione si rifà a quelle della deduzione.

Lo stesso Darwin che non si considerava una « testa metafisica » esprimeva così in una lettera il suo disappunto di fronte alle accuse di speculazione: « Sono veramente stanco di dire alla gente che io non pretendo di addurre l'evidenza di­retta che una specie si cambi in un'altra, ma che io credo che questa concezione sia sostanzialmente corretta, poiché parecchi fenomeni possono essere raggrup­pati e spiegati ... di solito tiro loro fuori la teoria, universalmente accettata, del­l'ondulazione della luce ... ammessa perché ... spiega così tanto.»

Più che le obiezioni di carattere etico-religioso e di quelle metodologiche ebbero peso sull'ulteriore sviluppo del pensiero di Darwin alcune importanti osservazioni critiche di carattere più strettamente scientifico. Una delle più rile­vanti fra tali obiezioni sosteneva che era impossibile ammettere per il passato della terra un'estensione di tempo come quella che Darwin riteneva più o meno esplicitamente necessaria per la sua teoria.

Il nostro autore infatti, rifacendosi all'uniformismo geologico che tendeva a non porre né un inizio né una fine ai regolari movimenti della crosta terrestre, era arrivato ad ammettere che dalla deposizione di fossili del periodo terziario fossero decorse alcune centinaia di milioni di anni. Una scala del tempo di questo ordine di grandezza sembrava infatti necessaria a Darwin perché si potesse realizzare il graduale e lento sommarsi delle piccole variazioni che venivano a costituire le nuove specie.

Già a partire dal I 86z, tuttavia, uno dei più autorevoli ed influenti fisici in­glesi, William Thomson (Lord Kelvin), ben consapevole di colpire direttamente la teoria di Darwin, sostenne in una serie di scritti che non era possibile ammettere una simile estensione di tempo per il passato della terra. Fra i primi teorici della termodinamica Thomson poteva affrontare il problema con indiscussa compe­tenza e lo fece riprendendo la teoria del graduale raffreddamento della terra già formulata da Buffone Fourier. Calcolando che il sole non poteva esistere da più di cinquecento milioni di anni concludeva che il periodo in cui la temperatura ter­restre poteva aver consentito lo sviluppo della vita poteva al massimo ammontare ad una ventina di milioni di anni.

L'autorità di Thomson nella cultura inglese, il prestigio dei rigorosi calcoli matematici su cui fondava le sue argomentazioni, costrinsero i geologi ad una im­barazzante ritirata, ad una revisione dei loro criteri di datazione che perdurò sino all'inizio del Novecento, quando si individuò come sorgente di calore la radioatti­vità e si poté così centuplicare la scala del tempo imposta dal grande fisico inglese.

Darwin fu colpito e turbato dali'« odioso spettro » di Thomson e per

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La teoria dell'evoluzione e l'opera di Charles Datwin

quanto esprimesse alcuni dubbi sulla sicurezza delle sue conclusioni finì col mo­dificare alcune formulazioni della sua teoria accentuando l'importanza di quei fat­tori che potessero « accelerare » la velocità delle trasformazioni biologiche. La tendenza a registrare tali trasformazioni sul nuovo orologio geologico coinvolse non solo Darwin ma la maggioranza degli evoluzionisti sino all'inizio del nostro secolo ed ebbe una parte non secondaria nello sviluppo del cosiddetto « neola­marckismo ».

Le modificazioni introdotte da Darwin consistettero principalmente nell'ac­centuare l'importanza di quei fattori « lamarckiani » che già si trovavano accen­nati nella prima edizione dell'Origine delle specie, cioè l'incidenza causale delle condizioni ambientali sulle variazioni, l'influenza dell'abitudine, dell'uso e non uso degli organi; fattori che nel loro complesso comportavano necessariamente la ereditarietà dei caratteri acquisiti.

Un altro ordine di difficoltà, già avvertite dallo stesso Darwin, costituì sin dalle prime recensioni dell'Origine delle specie motivo molto serio di obiezioni alla teoria e spinse il nostro autore, come già era accaduto per il problema dei tempi geologici, verso l'assunzione di fattori lamarckiani. Tali difficoltà riguarda­vano uno dei punti centrali della teoria cioè la conservazione delle variazioni favorevoli attraverso la trasmissione ereditaria. La concezione dell'ereditarietà allora ammessa da quasi tutti i biologi era quella della « eredità per mescola­mento» (Blending inheritance), secondo cui nei discendenti i caratteri presentano uno stato intermedio rispetto a quello dei genitori ed in tale stato intermedio o di mescolamento vengono trasmessi alla successiva generazione.

Un'obiezione decisiva che venne avanzata da molti in base a questa conce­zione, e che fu formulata anche in termini matematici da Fleeming Jenkin (1833-85) nel r867, era che un carattere favorevole che compariva in un individuo aveva una probabilità praticamente nulla di prevalere in un gruppo poiché, attra­verso l'incrocio con gli individui di questo gruppo privi di tale carattere, esso su­biva ad ogni generazione una diluizione progressiva. Jenkin come esempio indi­cava il caso ipotetico di un uomo bianco particolarmente ben dotato che giun­gesse naufrago in un'isola abitata da negri. Benché egli possa ottenere un grande potere presso di essi non per questo la tribù diventerebbe bianca.

Darwin che pur aveva già preso in considerazione questo effetto di diluizione attraverso l'eredità per mescolamento, fu indubbiamente colpito dalle numerose critiche in questo senso ed in particolare da quella di Jenkin. Egli cercò di affron­tare la difficoltà in vario modo, ma in particolare ammettendo che la comparsa di un nuovo carattere non doveva tanto riguardare un singolo individuo ma più individui di uno stesso gruppo, allorché determinati fattori ambientali dovessero agire in modo persistente su tale gruppo.

L'ammissione che numerosi animali o piante possano modificarsi simulta­neamente in una certa direzione significava indubbiamente ridurre l'importanza

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La teoria dell'evoluzione e l'opera di Charles Darwin

delle variazioni « fortuite » e quindi della selezione naturale e suggerire la possi­bilità che i fattori ambientali possano agire più o meno direttamente sul plasma germinale degli organismi.

Numerose altre obiezioni di notevole serietà vennero sollevate contro l'Origine delle specie e a non poche di esse Darwin aveva già risposto efficacemente nella prima edizione o cercò di farlo nelle successive edizioni della sua opera. Tali obiezioni dovevano costituire comunque il terreno su cui nei successivi decenni si svilupparono i vari indirizzi e le varie interpretazioni dellt~. teoria del­l'evoluzione e di esse accenneremo in un successivo capitolo.

Le obiezioni di carattere scientifico da noi accennate non tendevano a negare in assoluto la possibilità di una trasmutazione delle specie ma concernevano più o meno direttamente la causa di questo processo. L'idea di evoluzione biologica nel giro di un decennio si era infatti affermata sempre più negli ambienti scientifici ma questo consenso doveva riguardare sempre meno l'interpretazione del suo meccanismo causale. Doveva cioè attenuarsi sempre più negli anni successivi il consenso sulla preminenza da attribuirsi alla selezione agente su variazioni ca­suali rispetto all'azione di ipotetici fattori interni od esterni capaci di dirigere più o meno finalisticamente il processo evolutivo.

L'atteggiamento dello stesso Darwin di graduale rivalutazione dei già ri­cordati fattori lamarckiani, quali l'influenza diretta dell'ambiente, dell'abitudine, dell'uso e non uso degli organi, non poteva costituire certo un punto di riferi­mento per dirimere la divergenza fra i seguaci del darwinismo.

A ciò si deve aggiungere il tentativo di Darwin di formulare una teoria della ereditarietà dei caratteri acquisiti che apparve nel 1868 come appendice alla sua opera Variations of anima/sand plants under domestication (Le variazioni degli animali e delle piante allo stato domestico). Questa teoria detta pangenesi suppone che da ogni parte del corpo vengano convogliati agli organi riproduttori delle minuscole particelle, le gemmule, che vengono a costituire il plasma germinativo. In tal modo le parti del corpo che si modificano durante la vita dell'individuo possono tra­smettere alla discendenza i caratteri modificati.

VIII · L'ORIGINE DELL'UOMO

Dopo il 1 8 59 gli interessi di Darwin si rivolsero prevalentemente alla bota­nica. Con alcune opere estremamente accurate e precise sulla fecondazione, il dimorfismo ed il movimento delle piante illustrava i meccanismi e gli adattamenti di strutture che erano sempre apparsi una delle meravigliose prove della finalità della natura. Ciò non gli impedì di rivolgersi anche ad un argomento che già da tempo lo aveva attratto e divenne il soggetto di un'opera che poteva considerarsi il coronamento della sua teoria dell'evoluzione, cioè The descent of man, and se/ection in re/ation to sex (L'origine dell'uomo e la selezione sessuale, 1871).

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La teoria dell'evoluzione e l'opera di Charles Darwin

L'affinità dell'uomo con gli animali superiori aveva già costituito, special­mente negli ultimi decenni del Settecento un tema di grande interesse in tutta Europa. Con l'affermarsi delle idee evoluzionistiche esso venne dibattuto ancora più esattamente. Fra i vari autori che se ne occuparono vi fu anche Herbert Spencer che, come si è detto, si era convertito alla teoria dell'evoluzione leggendo l'esposizione che di Lamarck aveva fatto Lyell nei suoi Principi di geologia.

Darwin nella sua opera del I859 aveva cautamente evitato l'argomento, ma Huxley lo affrontò con molta spregiudicatezza nel I 86 3 con uno dei suoi scritti più famosi M an' s piace in nature (Il posto dell'uomo nella natura). Esso può consi­derarsi in un certo senso il frutto del famoso dibattito dell'autore con il vescovo Wilberforce e mira decisamente a dimostrare l'origine animale dell'uomo sulla base di precise considerazioni anatomiche ed embriologiche, mostrando ad esem­pio che dallo studio del cranio e dello scheletro l'uomo risulta più affine al gorilla di quanto il gorilla non sia simile al gibbone. Huxley concludendo per l'origine dell'uomo da animali simili alle scimmie antropoidi non cerca tuttavia di spiegare specificamente come si sia realizzato questo processo di discendenza.

Questa sfida di Huxley alla cultura ufficiale doveva naturalmente raccogliere il plauso di Darwin che provò tuttavia un non lieve disappunto per la comparsa nello stesso anno di un'altra opera dell'amico e maestro Lyell Geologica/ evidences of the antiquity of man (Prove geologiche dell'antichità dell'uomo, I863). Questo li­bro - come osserva William Irvine - si apre come un trattato di geologia e termina con un saggio di teologia «liberale». L'autore ritiene infatti che l'uomo possa essere derivato da una forma animale più antica ma sostiene che nella evo­luzione della vita organica la selezione naturale non può costituire un fattore di spiegazione adeguato. Vi è in tale evoluzione « una legge di sviluppo di ordine così elevato da porsi quasi nello stesso rapporto in cui si trova la divinità stessa rispetto all'intelletto finito dell'uomo, una legge capace di aggiungere nuove e potenti cause, quali le facoltà morali ed intellettuali della razza umana, ad un sistema di natura che si è realizzato per milioni di anni senza l'intervento di alcuna causa analoga ».

Lyell certamente non era il solo a rifiutare per l'uomo le conclusioni materia­listiche che potevano trarsi dalla teoria dell'evoluzione e a supporre nella natura l'intervento di un principio soprannaturale. Per la stessa via doveva porsi anche un altro amico di Darwin, Edgar Wallace. Questi in uno scritto del I 864 aveva affer­mato che la selezione naturale doveva aver condotto l'uomo alla posizione eretta rendendo così le mani disponibili per una correlazione più stretta con il cervello. Ma con un maggior intervento del cervello nelle attività dell'uomo interviene un nuovo fattore nell'evoluzione, che in un certo senso blocca la tendenza degli altri organi a specializzarsi e permette così una relativa stabilità di tutta la struttura corporea anche quando gli animali attorno all'uomo continuano nel loro processo evolutivo.

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La teoria dell'evoluzione e l'opera di Charles Darwin

Nel I 869 tuttavia Wallace giunge alla conclusione che il cervello nel suo attuale stato non può essere il prodotto della selezione naturale. Alcune delle popolazioni più primitive presentano un cervello di dimensioni e capacità supe­riori ai loro bisogni, mentre la selezione naturale avrebbe dovuto dotarli di un cervello di poco superiore a quello delle scimmie. Vi è perciò in esse una latenza ed una potenzialità intellettuale inaspettata, che Wallace riconosce esplicitamente sfidando il diffuso pregiudizio e l'interessata presunzione che considerava queste popolazioni come dei fossili viventi, cioè come degli stadi intermedi fra le scim­mie antropoidi e l'uomo civilizzato. Queste acute osservazioni diWallace avrebbero forse ottenuto maggiore considerazione anche da parte di Darwin, se l'autore non ne avesse concluso che « qualche intelligenza superiore può aver diretto il pro­cesso attraverso cui si è sviluppata la razza umana ».

Questa rinuncia all'uso di un criterio scientifico e l'implicita tendenza al mi­sticismo delusero ovviamente Darwin, che fu spinto a prendere posizione impe­gnandosi nella preparazione della sua opera sull'origine dell'uomo, che fu pub­blicata nel I 871.

Numerosi ed importanti opere di antropologia ispirate alla teoria dell'evolu­zione erano apparse nell'ultimo decennio ed alcuni termini del problema risul­tavano già nelle loro linee fondamentali. La somiglianza anatomica ed embriolo­gica dell'uomo con gli animali superiori era stata chiarita in modo tale che ormai l'unica plausibile spiegazione risultava quella di una comune discendenza. Darwin perciò non si sofferma a lungo su questo tema rimandando il lettore al libro già ricordato di Huxley. Ben più difficile appariva invece la questione del­l'origine delle facoltà morali ed intellettuali dell'uomo, che una inveterata tradi­zione della cultura occidentale attribuiva all'azione di un principio spirituale ed immortale.

Darwin prende una posizione molto netta affermando che per le qualità psichiche che si presentano nel mondo animale deve valere lo stesso principio di continuità e di gradazione che si riconosce per le qualità corporee. Si deve inoltre ammettere che « vi è una differenza molto più grande fra il potere mentale di un pesce inferiore, ad esempio la lampreda o l'anfiosso, e quello di una delle scimmie superiori, che tra una scimmia e l'uomo; e tra questi due estremi vi sono delle infinite gradazioni ».

Per dimostrare che non vi è una differenza fondamentale fra le facoltà mentali dell'uomo e quelle dei mammiferi superiori Darwin illustra la ricchezza e com­plessità di atteggiamenti che si ha nel comportamento di questi animali. Lo fa raccontando episodi che mostrano in essi i diversi stati di piacere, dolore, terrore, gelosia, ecc. Accanto a queste situazioni emotive, in cui si intravvede vividamente la somiglianza con l'uomo, vi sono anche atteggiamenti conoscitivi che si rilevano come curiosità, meraviglia, capacità di apprendere e di usare strumenti. Tutte queste qualità degli animali, osserva Darwin, acquistano il loro pieno significato

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La teoria dell'evoluzione e l'opera di CharÌes Darwin

se paragonate non alle più alte manifestazioni dell'uomo civilizzato ma a quelle dei selvaggi più primitivi.

Egli non misconosce certo le differenze fra gli animali e l'uomo. La più grande fra esse è il senso morale o coscienza; ma anche per questa è possibile trovare una spiegazione scientifica, individuando la sua origine nel] 'istinto di so­cievolezza e di solidarietà che manifestano gli animali. Il vantaggio di questo istinto nella lotta per l'esistenza, l'approvazione o disapprovazione che ne con­segue da parte del gruppo sono fattori decisivi nello sviluppo delle stesse società umane. Ogni progresso nella solidarietà e nella moralità di un gruppo lo pone in condizioni di vantaggio rispetto agli altri gruppi ed è in tal modo che si realizza il regresso di alcune popolazioni ed il progresso di altre.

Se la moralità risulta tuttavia come un prodotto della lotta per l'esistenza, appare il pericolo che la moralità stessa, cioè la solidarietà verso i meno dotati, i deboli e gli ammalati possa costituire una limitazione alla selezione naturale e quindi una limitazione del progresso evolutivo.

Questa fondamentale contraddizione, legata alla tendenza a fondare' la morale su basi biologiche, non venne chiaramente avvertita da Darwin. La· sua fede nel progresso dell'umanità era in effetti profonda, ma non riuscendo a trovare un rife­rimento nella recente storia civile dei popoli, si rifaceva soltanto ad una conce­zione etico-psicologica caratteristica dell 'utilitarismo o ad una morale della sim­patia prevalenti nella cultura inglese. « Man mano che l'uomo avanza nella civi­lizzazione, » egli afferma infatti, « e le piccole tribù si uniscono in più grandi comunità, la ragione più elementare dovrebbe dire ad ogni individuo che egli deve estendere i suoi istinti sociali e le sue simpatie a tutti i membri della stessa nazione, per quanto gli siano personalmente sconosciuti. Una volta giunti a questo punto vi è soltanto una barriera artificiale ad impedirgli di estendere le sue simpatie agli uomini di tutte le nazioni e le razze. »

Accanto al problema dell'origine dell'uomo, che viene fondamentalmente affrontato mediante la trattazione delle qualità psichiche degli animali, ampia parte di quest'opera di Darwin è dedicata alla selezione sessuale in base alla quale egli cerca fra l'altro di spiegare le differenze fra le attuali razze umane. Non era però quest'ultima parte quella che doveva suscitare il maggiore interesse del pubblico. La reazione fu nel complesso inferiore a quella prodotta dalla sua opera del '59, dalla quale risultava già chiaramente che l'evoluzione doveva coinvolgere anche l'uomo.

Oltre a ciò non mancavano in questo libro confusioni ed incertezze derivanti dalla difficoltà dei problemi, ma anche da una minore competenza dello stesso autore. Darwin ne fu certamente consapevole ma ritenne importante indicare il giusto atteggiamento scientifico che occorreva assumere di fronte a certe distor­sioni spiritualistiche che stava assumendo la teoria dell'evoluzione. Era questo ad esempio il caso di Lyell e di Wallace ma anche del cattolico George Mivart

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La teoria dell'evoluzione e l'opera di Charles Darwin

(1827-r9oo), che riconosceva la discendenza del corpo umano da una forma ani­male più antica, ma riteneva necessaria una sorta di intervento « catastrofistico » di dio per dotare questo corpo di un'anima immortale.

L'Origine dell'uomo doveva inoltre costituire uno stimolo fecondo per il sor­gere degli studi di psicologia animale, insieme ad un'altra opera che Darwin pub­blicò l'anno seguente The expression of the emotions in man and animals (L'espressione delle emozioni negli animali e nell'uomo, r 872). Nel decennio successivo, ormai circon­dato dall'interesse e dalla stima generali, egli continuò la sua attività di ricerca occupandosi soprattutto degli studi di botanica che sempre lo avevano appassio­nato. Morì nel I 882 nella sua casa di Down, dove aveva trascorso con la famiglia buona parte della sua vita, ed ebbe l'onore di una sepoltura nell'abbazia di Westminster, dove fra i grandi della nazione inglese giacciono anche le spoglie di Newton.

IX · CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Gli onori ed i riconoscimenti attribuiti a Darwin da molti contemporanei non furono senza contrasti. Sotto l'insegna di Darwin venne condotta prima e dopo la sua morte una delle più violente battaglie per trasformare in tutti i campi della cultura l'antica visione che poneva l'uomo al centro del creato, come l'essere che traeva la sua dignità ed il suo significato da un disegno divino che governa la natura. Le vittorie e le sconfitte in questa lunga battaglia hanno influenzato non pochi degli sviluppi del pensiero occidentale sino ai nostri giorni.

Le vicende di questa lotta hanno coinvolto naturalmente anche la prospettiva storica che si veniva man mano aprendo sulla figura e l'opera di Darwin. Su tale prospettiva ebbero un peso decisivo gli sviluppi della scienza biologica dei suc­cessivi decenni. Le divergenze molto accese fra i teorici della evoluzione, ma so­prattutto il ritorno al vitalismo che si verificò nel clima culturale idealistico e irra­zionalistico prevalente tra la fine dell'Ottocento ed i primi decenni del nostro secolo, condussero molti a giudicare se non la teoria della evoluzione almeno la spiegazione che di essa aveva formulato Darwin come una speculazione priva di ogni solida base scientifica. La riscoperta all'inizio del Novecento delle leggi che Mendel aveva formulato nel I 866 indicavano inoltre una stabilità nella trasmis­sione dei caratteri ereditari che sembrava contrastare completamente con la varia­bilità posta da Darwin alla base della sua teoria. Anche gli sviluppi successivi della genetica sembravano individuare nelle mutazioni degli eventi discontinui e pato­logici difficilmente utilizzabili per un processo evolutivo.

Nella sua Storia della biologia Erik Nordenskiold poteva così affermare nel 1923 che se noi confrontiamo «le discussioni di Darwin sull'eredità e l'ibridismo con gli esperimenti che Mendel condusse contemporaneamente allo stesso scopo, lo scienziato inglese si trova naturalmente ad essere superato senza speranza con le sue speculazioni molto incerte. dagli esperimenti esatti e chiaramente concepiti

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La teoria dell'evoluzione e l'opera di Charles Darwin

di Mendel. » Lo stesso autore nelle sue considerazioni conclusive sul grande bio­logo inglese poteva poi affermare: « I critici moderni si sono spesso chiesti come sia potuto succedere che un'ipotesi come quella di Darwin, basata su così deboli fondamenta, abbia potuto conquistare improvvisamente la maggior parte del­l'opinione scientifica contemporanea. Se i difensori della teoria vogliono spiegare la cosa riferendosi al valore scientifico della teoria, si può rispondere che la teoria è già stata da tempo respinta nei suoi punti più vitali dalla ricerca successiva ... I fattori che hanno determinato la vittoria del darwinismo rappresentano in tal modo un problema della più grande importanza, non solo nella storia della bio­logia, ma anche in quella della cultura in generale. »

Negli stessi anni in cui NordenskiOld esprimeva questo giudizio rispecchiante un diffuso atteggiamento di fronte alla teoria di Darwin, nel campo della genetica stava però maturando un progresso decisivo destinato a sconvolgere tale atteggia­mento. Dal 1926 al 1930 si iniziava con metodo statistico lo studio dei geni a in­tere popolazioni di organismi viventi allo stato naturale. Da questi studi matema­tici, in cui il contributo più importante fu dato dall'inglese Ronald Fisher, risul­tava che la teoria della selezione di Darwin non solo non era in contrasto con la genetica ma ne doveva costituire una parte integrante.

Gli sviluppi di questi studi di genetica delle popolazioni portarono con sé una ripresa di interesse e di indagini sulla teoria dell'evoluzione, alla cui luce è riapparsa l'importanza del contributo scientifico di Darwin ed in particolare della selezione naturale.

Risultò allora pienamente rivalutato il nucleo centrale del pensiero del bio­logo inglese che aveva visto nel decorso di processi fortuiti la possibilità di un perfezionamento delle forme naturali, che aveva cioè individuato la creatività del caso. Come afferma Ronald Fisher « il contributo principale di Darwin, non solo alla biologia ma a tutta la scienza naturale, è l'aver messo in luce un processo per cui dei casi fortuiti improbabili a priori, acquisiscono col passare del tempo una probabilità crescente, sino al punto che è il loro non verificarsi piuttosto che il loro verificarsi che diviene altamente improbabile».

Questo riconoscimento della validità per la scienza attuale della concezione evoluzionistica del nostro autore ha spinto, nella recente ripresa di studi su di lui, specialisti di diversi campi ad una rilettura storica delle sue varie opere. Ciò ha portato ad un quasi unanime riconoscimento della scrupolosità e dell'acutezza scientifica anche degli scritti minori di Darwin.

Tale complessivo riconoscimento, se permette di definire meglio il suo con­tributo alla storia della biologia ed anche della cultura contemporanea, lascia tut­tavia ancora aperto all'indagine storica il compito di comprendere meglio come egli sia giunto a conseguire un risultato così importante e attraverso quali vie la cultura del suo tempo abbia potuto realizzarsi ed esprimersi così felicemente nel suo pensiero.

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CAPI'I'OLO QUA'I''I'ORDICESIMO

La maturità di M arx

I · LO SVILUPPO DEL MA'I'ERIALISMO S'I'ORICO

Le infiammate e lucide parole del }lfanifesto del partito comunista odoravano letteralmente ancora d'inchiostro, che già si ergevano le barricate della rivoluzio­ne democratica del I 848. Subito Marx - che nel frattempo era stato espulso dal Belgio - raggiunse Parigi. Allo scoppio della rivoluzione, il comitato centrale della Lega gli aveva trasmesso pieni poteri, dei quali Marx si avvalse per insediare a Parigi, epicentro della lotta rivoluzionaria, un nuovo comitato centrale. Sotto la sua direzione, la Lega perseguì inflessibilmente una politica rivoluzionaria lungimi­rante e nemica di ogni soggettivismo: essa si oppose alla costituzione della « legio­ne» di emigrati, che «liberasse» manu militari la Germania e la Polonia, ed impartì invece la direttiva che i comunisti rientrassero nei paesi d'origine, ponendosi ovunque alla testa del movimento rivoluzionario e mobilitando tutte le forze progressiste per il conseguimento degli obiettivi indicati dalle Forderungen der komnJUnistischen Partei in Deutschland (Rivendicazioni del partito comunista in Germa­nia): repubblica una ed indivisi bile; popolo in armi; abrogazione di tutti i gra­vami feudali; confisca delle terre feudali, delle miniere, ecc. ; nazionalizzazione delle banche e dei mezzi di trasporto; livellamento dei salari dei funzionari statali; laicismo dello stato; restrizione del diritto ad ereditare; istituzione di una tassazione diretta fortemente progressiva ed abolizione delle imposte indi­rette sul consumo; finanziamento di fabbriche pubbliche; istruzione popolare generale e gratuita: come si vede, un piano organico di rivendicazioni sociali e politiche « nell'interesse del proletariato tedesco, del ceto piccolo-borghese e contadino ». I fatti diedero pienamente ragione alla linea di Marx: mentre nel corso della rivoluzione democratica i comunisti seppero svolgere un'azione capillare e profonda, propagandando concretamente la loro interpretazione scientifica dei rivolgimenti sociali, la « legione » degli emigrati - appoggiata e finanziata anche dal governo provvisorio di Parigi, il quale, temendo che la ri­voluzione assumesse un carattere decisamente proletario, vedeva nella « legione » un comodo mezzo per sbarazzarsi delle« teste calde» - fu messa in rotta dalle truppe di linea prussiane appena varcato il confine.

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La maturità di Marx

Marx stesso e i suoi più stretti collaboratori - in primo luogo Engels -rientrarono in Renania, ove a partire dal primo di giugno pubblicarono la « Neue rheinische Zeitung » («Nuova gazzetta renana »); il giornale cominciò subito ad esercitare energiche pressioni sull'assemblea nazionale, che siedeva a Francoforte, denunciandone i continui e vili cedimenti di fronte alle manovre controrivoluzio­narie dell'assolutismo. Quando nelle sanguinose giornate di giugno l'eroico pro­letariato parigino fu massacrato dalla borghesia che si era insediata al potere, la «Nuova gazzetta renana » fu l'unico giornale tedesco che solidarizzò con il «vinto vincitore », mentre la borghesia tedesca, imbelle di fronte all'assolutismo e pavida degli sviluppi democratici e popolari della rivoluzione, si lasciò vigliac­camente atterrare senza colpo ferire. Già il 2. 7 settembre il governo prussiano si sentiva abbastanza forte da costringere la « Nuova gazzetta renana » a sospendere una prima volta le pubblicazioni, e da colpire di mandato di cattura la maggior parte dei redattori (tra cui Engels, che fu costretto a lasciare temporaneamente il paese). Gli azionisti borghesi, terrorizzati, ritirarono in massa i loro capitali dal­l 'iniziativa (del resto questa defezione era cominciata sin dai primissimi numeri, ed era divenuta massiccia durante l'insurrezione operaia di giugno). Ma il go­verno aveva sottovalutato la tenacia di Marx, che gettò nell'impresa ogni pro­prio avere, contrasse debiti per far fronte alle esigenze del giornale, colmò con un titanico lavoro personale le falle apertesi nella redazione. La crescente tiratura sopperì in parte alle defezioni tra gli azionisti, e Marx riuscì a far riprendere le pubblicazioni, continuando senza cedimenti la lotta: la « Nuova gazzetta renana »

disconobbe ogni valore legale ai soprusi assolutistici, denunciò i piani controri­voluzionari, lanciò un appello alla resistenza armata per sconfiggere la reazione. Anche Marx venne imputato di alto tradimento: si presentò in tribunale e prese la parola per denunciare il piano repressivo dell'assolutismo e smascherare la pusillanimità dei borghesi. Per zittire la voce di Marx e del giornale il governo fu costretto a ricorrere ad una manovra infame: poiché Marx non aveva più la cittadinanza prussiana, poteva essere espulso come straniero con un semplice de­creto amministrativo. Il governo preparò il decreto, e quando si sentì abbastanza forte lo notificò a Marx, dando così il colpo di grazia anche al giornale. Prima di riprendere la via dell'esilio, Marx- impegnando al monte di pietà persino le po­saterie - pagò personalmente tutti i debiti di gestione del giornale. In un primo tempo egli ed Engels si recarono nel Baden e nel Palatinato, ove serpeggiavano gli ultimi guizzi della rivoluzione tedesca. Imprigionato e poi rilasciato, si recò a Parigi per coordinare l'azione dei rivoluzionari tedeschi superstiti con gli esponenti della Montagna, l'estrema sinistra dell'assemblea nazionale francese. L'insurrezio­ne montagnarda fallì, e Marx venne colpito da un'ordinanza di confino per una regione malarica: un vero assassinio bianco. Fu allora che varcò la Manica, stabilen­dosi a Londra, ove fu raggiunto da Engels. I due amici continuarono tenacemente la lotta: riannodarono le fila organizzati ve della Lega, inviando anche un incaricato

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La maturità di Marx

del comitato centrale in Germania per ristrutturare il lavoro clandestino, e pub­blicarono la « Neue rheinische Zeitung. Politisch-Oekonomische Revue » ( « Nuo­va gazzetta renana. Rivista economico-politica»). Nei sei fascicoli che videro la lu­ce, Marx ed Engels tracciarono il vasto bilancio storico e scientifico della rivoluzio­ne, pubblicando una serie di lucidi saggi poi raccolti con il titolo Die Klassenkampfe in Frankreich. z848 bis I8Jo (Le lotte di classe in Francia1 dal z848 al I8Jo). Da questa analisi scientifica trassero la conclusione che, dopo la sconfitta del I 848-49, la rivoluzione avrebbe dovuto raccogliere le forze, e che quindi occorreva un pia­no di lavoro a lunga scadenza, sconfessando ogni avventurismo soggettivistico ed ogni sterile bega settaria. « Quando, dopo la sconfitta della rivoluzione del I 848-49, arrivò un momento in cui diventava sempre più impossibile esercitare dall'esterno una influenza sulla Germania, il nostro partito abbandonò il campo delle beghe emigratorie, poiché questa era diventata la sola azione possibile, alla democrazia volgare. Mentre questa si ingolfava nelle baruffe, oggi si accapigliava per fraternizzare il giorno dopo, e dopo due giorni lavare di nuovo in pubblico tutti i suoi panni sporchi... il nostro partito fu contento di trovare nuovamente un po' di calma per studiare. Esso aveva il grande vantaggio di possedere la base teorica di una nuova concezione scientifica, la cui elaborazione gli dava ab­bastanza da fare» (Engels).

L'impazienza facilona ed avventurista penetrò anche nella Lega: il I 5 set­tembre I 8 5o ebbe luogo una scissione del comitato centrale, ad opera di una mi­noranza così caratterizzata da Marx in quella stessa seduta: « Al posto della consi­derazione critica la minoranza ne mette una dogmatica, al posto di una materia­listica ne mette una idealistica. Per essa invece delle condizioni effettive ruota mo­trice della rivoluzione diventa la nuda volontà.» Marx ed Engels, ed i loro più stretti compagni, affrontarono invece i tempi lunghi: la difficilissima situazione economica costrinse Engels a tornare a Manchester, come impiegato nella fab­brica di cui il padre era tra i maggiori azionisti, mentre Marx restava a Londra; egli frequentava assiduamente la biblioteca del British Museum e studiava con enor­me impegno per completare i propri studi di economia politica e per pubblicare scritti sia di analisi della situazione politica, sia di difesa e propaganda del comuni­smo, che servissero di guida nell'educazione delle masse e nell'accumulazione di forze per la prossima ondata rivoluzionaria. Vide allora la luce uno dei capolavori della storiografia marxista, Der Achtzehnte Brumaire des Louis Napoleon (Il z8 bru­maio di Luigi Bonaparte, I 8 52). In esso Marx usava il metodo del materialismo sto­rico per darci la spiegazione genetica di un avvenimento - il colpo di stato di Luigi Napoleone Bonaparte - che aveva colpito l 'Europa come un fulmine a ciel sereno, e del quale egli « fece una esposizione breve, epigrammatica, che dava un quadro di tutto il corso della storia di Francia a partire dalle giornate di febbraio e ne metteva in luce la logica interiore », riducendo così il colpo di stato a ciò che effettivamente fu: « risultato naturale, necessario, di quello sviluppo logico »

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La maturità di Marx

(Engels). Questo e molti altri scritti dell'esilio londinese furono composti in una situazione personale tremenda: nella più nera miseria, tra un succedersi di tragici lutti familiari per la perdita di figli minati nella salute dalla miseria, tra fre­quenti e gravi malattie dello stesso Marx e della moglie. Ma nulla poteva stroncare la tempra di questo combattente per l'emancipazione del proletariato e dell'uma­nità tutta: nel I 8 5 I la polizia prussiana arrestò alcuni membri della Lega che ope­ravano in Germania, e dopo più di un anno di durissimo carcere preventivo, nel­l'ottobre del '52 si aprì- a Colonia- il processo, basato su documenti falsi ela­borati da una spia della polizia prussiana in collaborazione con quella bonaparti­sta; Marx scrisse allora- trascurando ogni altro impegno ed ogni sollecitudine per sé e la propria famiglia - le Enthiillungen iiber den Kommunistenprozess zu Koln (Rivelazioni sul processo dei comunisti a Colonia, I 8 53), che smascherarono le falsità della polizia e portarono alla luce una serie di soprusi scandalosi, screditan­do completamente la pubblica accusa.

Le scarsissime entrate di Marx provenivano dalla collaborazione, iniziata nel I 8 5 I e protratta per circa un decennio, al « New York Tribune». Gli articoli ren­devano poco e costavano una enorme quantità di fatica, perché lo scrupolo di Marx era tale, che non scriveva di nulla senza basarsi su di una amplissima docu­mentazione. Nel I857, il« New York Tribune» dimezzò la richiesta di articoli a Marx: era uno dei segni della crisi, che si abbatté allora sul mondo capitalista a partire dagli Stati Uniti. Marx ed Engels studiarono il fenomeno come una con­ferma ed una prova concreta delle loro teorie scientifiche sull'economia, che pre­vedevano inevitabili crisi cicliche di sovrapptoduzione. Essi si prepararono anche ad una ripresa della lotta rivoluzionaria: «Lavoro come un pazzo le notti intere a coordinare i miei studi economici, per mettere in chiaro almeno i lineamenti fondamentali prima del diluvio,» scriveva Marx all'amico, alludendo ai Grundrisse der Kritik der politischen Oekonomie (Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica), cioè ad una enorme massa di materiale, prime stesure, rielaborazioni, approfondimenti, pubblicata solo recentemente e che costituisce la materia mag­matica da cui Marx plasmò i suoi capolavori economici; Zur Kritik der politischen Oekonomìe (Per la critica dell'economia politica, I 8 59) e soprattutto Das Kapital. Kritik der politischen Oekonomie (Il capitale. Critica dell'economia politica; I vol. I867; n e m vol. pubblicati postumi da Engels, I885 e I894).

II · LA SCIENZA ECONOMICA

Sia nel Capitale sia in Per la critica, Marx principia l'indagine scientifica con l'analisi della merce, forma elementare, cellula della ricchezza nelle società basate sui rapporti capitalistici di produzione. « La merce è in primo luogo un oggetto esterno, una cosa che medìante le sue qualità soddisfa bisogni umani di qualsiasi tipo»; essa è dunque utile, cioè valore d'uso che in quanto tale si realizza nel

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La maturità di Marx

consumo. Se è merce, tale valore d'uso è nel contempo anche valore di scambio, che si presenta in primo luogo come rapporto quantitativo, secondo cui valori d'uso di un tipo sono scambiati con valori d'uso di un altro tipo.

Se si scambiano secondo un rapporto quantitativo delle merci, significa che in esse vi è qualche cosa di comune, pur essendo qualitativamente differenti. Si pensi ad uno scambio qualsiasi, ad esempio un moggio di grano = un quintale di ferro: grano e ferro nulla hanno in comune se non di essere entrambi prodotti del la­voro umano. Certo lavoro agricolo e lavoro metallurgico sono differenti, ma scam­biando grano contro ferro, i produttori riconoscono e sanzionano un rapporto di equivalenza tra i due lavori, ridotti entrambi a lavoro astrattamente umano, articolazio­ni della divisione sociale del lavoro. Si ha dunque produzione di merci quando esiste «un sistema di rapporto sociale nel quale i singoli produttori creano prodotti di qualità diversa (divisione sociale del lavoro), e tutti questi prodotti sono resi uguali l'uno all'altro mediante lo scambio» (Lenin).

Dal punto di vista della determinazione del valore, il lavoro umano va con­siderato astrattamente perché scambiare, ad esempio, grano contro ferro, significa evidentemente prescindere dalle qualità specifiche sia del lavoro agricolo sia del lavoro metallurgico e considerare solo che in entrambi i casi ha luogo di­spendio di una certa quantità - misurabile in tempo - di lavoro generalmente umano. « Questa astrazione del lavoro generalmente umano esiste nel lavoro medio che ogni individuo medio può compiere in una data società, è un determinato dispen­dio produttivo di muscoli, nervi, cervello ecc., umani. È lavoro semplice al quale ogni individuo medio può essere addestrato e che esso deve compiere in una for­ma o nell'altra.» Merci nelle quali sono contenute eguale quantità di lavoro, ossia merci che possono venir prodotte nello stesso tempo di lavoro, hanno quindi la stessa grandezza di valore. Potrebbe sembrare allora che quanto più inabile o pigro sia un produttore, di tanto maggior valore sia la sua merce: supponiamo che un calzo­laio inesperto impieghi due giorni per confezionare un paio di scarpe che di norma richiede un giorno di lavoro, forse che per questo quel paio di scarpe è scambia­bile (cioè vale) con il prodotto di due giorni di lavoro agricolo, mentre il paio di scarpe del calzolaio esperto e solerte verrebbe scambiato con il prodotto di un giorno di lavoro agricolo? Evidentemente no; ogni forza-lavoro individuale produce valori, nella misura in cui rispetta la quantità di tempo socialmente neces­saria alla produzione di una determinata merce.

Constatiamo qui ancora una volta che l'analisi di Marx e le categorie scienti­fiche da lui scoperte ed elaborate sono imbevute di storicità, cioè sono sempre sto­ricamente determinate e con ciò stesso realmente universali. Certo la forza-lavoro che viene spesa è, ad esempio, quella del singolo tessitore, calzolaio, tornitore, ma nella determinazione scientifica della quantità reale di valore che il singolo pro­duttore crea, ci avverte Marx, ogni produttore conta non nella sua nuda e cruda empiricità atomisticamente intesa, bensì, in guisa concretamente universale, per

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come egli è effettivamente inserito nella realtà concreta di tutti i nessi storici e so­ciali. Così, non basta affermare che la singola forza-lavoro del tessitore crea valore; occorre precisare che crea valore in quanto opera come forza-lavoro sociale media, e dunque abbisogna, nella produzione di una merce, soltanto del tempo di lavoro ne­cessario in media, ossia socialmente necessario. Tempo di lavoro socialmente necessa­rio è il tempo di lavoro richiesto per produrre una merce nelle condizioni stori­camente esistenti, socialmente normali, di produzione e con grado sociale medio di abilità e intensità di lavoro. «Per esempio, dopo l'introduzione del telaio a va­pore in Inghilterra, è bastata forse la metà del tempo prima necessario per trasfor­mare in tessuto una data quantità di filato. Il tessitore inglese al telaio a mano aveva di fatto bisogno dello stesso tempo di lavoro, prima e dopo, per questa trasformazione: ma il prodotto della sua ora lavorativa individuale rappresentava ormai, dopo l'introduzione del telaio meccanico, soltanto una mezza ora lavora­tiva sociale, e quindi scese alla metà del suo valore precedente. >> Dal carattere storicamente determinato delle categorie « lavoro », « valore » ecc., come di tutte le altre categorie marxiste, discende che la grandezza di valore di una merce varia direttamente con il variare della quantità di lavoro che contiene ed inversa­mente con il variare della sua forza produttiva.

Il valore si manifesta dunque nello scambio, che ne costituisce la forma feno­menica. Marx analizza questo fenomeno sociale estremamente complesso a partire dalla sua forma più semplice, lo scambio accidentale di due merci qualsiasi (x merce A= y merce B; venti braccia di tela= un abito). Evidentemente tale forma è la più elementare sia dal punto di vista logico (cioè la più semplice), sia dal punto di vista storico (la più antica). Sviluppandola ed analizzandola dialetticamente, Marx mostra come questa forma elementare contenga in sé la potenzialità logica e storica della forma più generale e complessa del valore: il denaro. L'analisi di Marx esprime una mirabile fusione di indagine logica, scientifica, e di esposizio­ne storica: « È particolarmente importante notare che la forma di esposizione astratta e talvolta, in apparenza, puramente deduttiva, fornisce in realtà una docu­mentazione immensamente ricca per la storia dello sviluppo dello scambio e della produzione mercantile» (Lenin).

Quella marxista non è una identificazione metafisica, di tipo hegeliano, tra logica e storia, bensì una indagine scientifica condotta alla luce dei loro nessi reali. L'indagine sull'oggetto economico e la disamina critica dei presupposti teorici delle scuole di economia politica « poteva essere intrapresa in due modi: storica­mente o logicamente. Poiché nella storia, come nel suo riflesso letterario, l'evolu­zione va pure, in sostanza, dai rapporti più semplici ai rapporti più complessi, lo sviluppo storico-letterario dell'economia politica offriva un filo conduttore natu­rale a cui la critica poteva aggrapparsi, e in sostanza le categorie storiche sareb­bero apparse anche in questo caso nello stesso ordine che nello sviluppo logico » (Engels). Ma una applicazione rigida del metodo storico così inteso avrebbe impo-

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sto una trattazione farraginosa, non limpidamente lineare. Invece il metodo « lo­gico», inteso come indagine ed esposizione della sostanza dello sviluppo « storico », consentiva una disamina scientifica estremamente rigorosa ed una lucida esposizio­ne sistematica e genetica; questo metodo logico è dunque, in effetti, ancora quello storico, « unicamente spogliato della forma storica e degli elementi occasionali perturbatori. Nel modo come incomincia la storia, così deve pure cominciare il corso dei pensieri, e il suo corso ulteriore non sarà altro che il riflesso, in forma astratta e teoricamente conseguente, del corso della storia; un riflesso corretto, ma corretto secondo le leggi che il corso stesso della storia fornisce» (Engels).

Dopo aver sviluppato alla luce di questa concezione materialistica della logica le latenze contenute nella forma semplice di valore sino a giungere al de­naro, Marx conclude con una riflessione critica sulla difficoltà epistemo­logica di una trattazione dell'economia politica; difficoltà che si manifesta sin dall'inizio, nell'indagine sulla merce: «A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. » Questo carattere misterioso, per cui la merce è diversa da quel che appare ed appare diversamente da quel che è, costituisce il carattere di feticcio della merce, che non dipende evidentemente dal suo valore d'uso: l'utilità, il consumo di una merce (ad esempio che il grano serva all'alimentazione) non è una cosa misteriosa. Il carattere di feticcio non dipende nemmeno dal valore, perché non è cosa né difficile né misteriosa che questo sia espressione del lavoro umano. « Di dove sorge dunque il carattere enigmatico del prodotto di lavoro appena assume forma di merce? Evidentemente proprio da tale forma. » In quanto tavolo, ad esempio, un tavolo è valore d 'uso che soddisfa certi bisogni umani, ha qualità specifiche: quattro gambe ecc. ; in quanto valore, con­tiene una determinata quantità di lavoro. Ma né l 'utilità né il lavoro bastano a farne merce: pensiamo a Robinson che, solo sulla sua isola, lavora per fabbricarsi un tavolo che poi usa, dunque gli è utile: non per questo quel tavolo diviene merce. Se non ha luogo uno scambio, nessun prodotto del lavoro umano è merce; ma scambiare significa che un produttore entra in rapporto con un altro produttore, che produce una merce diversa dalla sua e che al primo produttore serve per il consumo, sicché un prodotto « è merce soltanto per il fatto che alla cosa, al prodot­to, si collega un rapporto tra due persone o comunità, il rapporto tra il produttore e il consumatore, che qui non sono più uniti in una sola e stessa persona. Abbiamo qui sin dall'inizio un esempio di un fatto particolare, che penetra tutta l'economia e ha creato nelle teste degli economisti borghesi una confusione terribile. L'econo­mia non tratta di cose, ma di rapporti tra persone e, in ultima istanza, tra classi; questi rapporti sono però sempre legati a delle cose e appaiono come delle cose » (Engels ). Il feticismo delle merci deriva proprio da questo quid pro quo: che, quando scambio grano contro ferro, compro una casa con trenta once d'oro (cioè con denaro), ecc., sembra un rapporto tra cose, mentre in realtà è un rapporto tra produttori, tra

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persone, e dunque un rapporto sociale, come tale sovrasensibile rispetto alle cose: «Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibil­mente sovrasensibili, cioè cose sociali. Proprio come l'impressione luminosa di una cosa sul nervo ottico non si presenta come stimolo soggettivo del nervo ottico stesso, ma quale forma oggettiva di una cosa al di fuori dell'occhio. Ma nel fenomeno della vista si ha realmente la proiezione di luce da una cosa, l'oggetto esterno, su un 'altra cosa, l'occhio: è un rapporto fisico tra cose fisiche. Invece la forma di merce e il rapporto di valore dei prodotti di lavoro nel quale esso si presenta non ha assolutamente nulla a che fare con la loro natura fisica e con le relazioni fra cosa e cosa che ne derivano. Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale deter­minato che esiste fra gli uomini stessi. Quindi, per trovare un'analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Qui vi, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto tra di loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che s'appiccica ai pro­dotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è insepa­rabile dalla produzione delle merci. »

In una società (cioè un sistema articolato di divisione sociale del lavoro) in cui produttori privati, individuali, si scambino i propri prodotti come merci, accadrà che, ad esempio, un tessitore scambi tela contro altri beni che gli servono per il consumo, cioè scambi per consumare. Il nostro tessitore vende, poniamo, venti braccia di tela a due sterline, e con queste stesse due sterline comprauna Bibbia onde edificarsi spiritualmente (per il proprio consumo, quindi). Così facendo, il tessitore trasforma la merce da lui prodotta (tela) in denaro, e poi ritrasforma il denaro in merce (Bibbia), cioè: vende per comprare. In tal modo si realizza una circolazione delle merci, che, schematizzata, risulta essere: merce-denaro-merce, cioè:

M-D-M

Tale « circolazione delle merci è il punto di partenza del capitale. La produzione delle merci e la circolazione sviluppata delle merci, cioè il commercio, costituisco­no i presupposti storici del suo nascere ». Ma accanto a questa forma, e intrecciata con essa, ne troviamo un'altra, specificamelilte differente, che si realizza quando si compra per vendere: si investe del denaro in merce con lo scopo non di consumarla, ma di rivenderla (riscambiarla); è la forma denaro-merce-denaro, la cui ultima fase è dunque ritrasformazione della merce in denaro:

D-M-D. « Il denaro che nel suo movimento descrive quest'ultimo ciclo, si trasforma in capitale, diventa capitale, ed è già capitale per sua destinazione. »

Esaminiamo brevemente le differenze sostanziali tra M-D-M e D-M-D.

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Quando il tessitore, per stare al nostro esempio, vende venti braccia di tela per comprare una Bibbia, lo scambio in ultima analisi è di mèrce contro merce (M-M), e si regge evidentemente sul presupposto generale che i due estremi (venti braccia di tela, una Bibbia) siano qualitativamente diversi (non ha senso scambiare tela contro tela) ma abbiano la stessa quantità di valore (valgono entrambi un tot che, nel nostro caso, espresso in denaro, è uguale a due sterline). La circolazione del capitale si riduce invece, in ultima analisi, a uno scambio di denaro contro denaro (D-D), cioè tra due estremi che hanno la stessa qualità, e che possono diffe­rire solo per quantità: più, meno o altrettanto denaro. È dunque evidente che una si­mile circolazione deve reggersi sul presupposto generale che i due estremi non sia­no di uguale quantità. Non ha senso infatti che un capitalista investa, ad esempio, cento sterline in duemila libbre di cotone con l'intento di rivendere quel cotone di nuovo a cento sterline: tanto varrebbe che tenesse le cento sterline nascoste nel materasso (tesaurizzazione), senza rischiare di fare un investimento sbagliato e di perdere parzialmente o interamente il capitale. Certo può accadere che sia costretto a rivendere le duemila libbre di cotone per cento sterline, o anche a sven­derle per novanta, ma al momento dell'investimento il suo intento è evidentemente basato sul presupposto generale di rivendere quel cotone per un prezzo superiore di quanto lo ha pagato, ad esempio per centodieci sterline. «<n fin dei conti, vien sot­tratto alla circolazione più denaro di quanto ve ne sia stato gettato al momento iniziale. Il cotone comprato a cento lire sterline, per esempio, viene venduto una seconda volta a lire sterline cento più dieci, ossia a centodieci lire sterline. La forma completa di questo processo è quindi:

D-M-D',

dove D' = D + ~D, cioè è uguale alla somma di denaro ongmariamente anticipata, più un incremento. Chiamo plusvalore questo incremento, ossia questa eccedenza sul valore originario. Quindi nella circolazione il valore originaria­mente anticipato non solo si conserva, ma in essa altera anche la propria grandezza di valore, aggiunge un plusvalore, ossia si valorizza. E questo movimento lo trasforma in capitale. »

Il problema diviene dunque questo: da dove deriva il plusvalore? Non può sorgere, diversamente da come sembrerebbe di primo acchito, dalla circolazione delle merci, perché in essa - come si è visto - gli scambi hanno sempre luogo tra valori equivalenti (nel nostro esempio: venti braccia di tela ed una Bibbia, che valgono entrambe due sterline), e quindi tra estremi che, in linea di principio, sono e restano di uguale valore. Il plusvalore non può derivare infatti né da un aumento unilaterale dei prezzi da parte dei venditori (per cui questi venderebbero le merci a più del loro valore), né da una loro diminuzione unilaterale da parte dei compratori (per cui questi comprerebbero le merci a meno del loro valore).

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Ogni capitalista è infatti alternativamente compratore e venditore, sicché ti­perderebbe da un lato quello che avrebbe guadagnato dall'altro. Per ottenere realmente plusvalore, valorizzazione del denaro investito come capitale, il capitalista deve comprare sul mercato una merce che, consumandosi, gli pro­duca valore: «Per estrarre valore dal consumo d'una merce, il nostro pos­sessore di denar? dovrebbe essere tanto fortunato da scoprire, all'interno della sfera della circolazione, cioè sul mercato, una merce il cui valore d'uso stesso pos­sedesse la peculiare qualità d'esser fonte di valore; tale dunque che il suo con­sumo reale fosse, esso stesso, aggettivazione di lavoro, e quindi creazione di valore. E il possessore di denaro trova sul mercato tale merce specifica: è la capacità di lavoro, ossia la forza-lavoro. »

Ecco dunque come vanno le cose: assumendo l'operaio, il capitalista compra la sua forza-lavoro come merce; subito immette l'operaio nella produzione, ad esempio comandandogli di azionare un fuso meccanico per filare del refe. Fa­cendo lavorare l'operaio, il capitalista consuma la sua forza-lavoro, cioè la merce che ha comperato sul mercato assumendolo. Ma, sappiamo, il lavoro genera valore, e quindi il nostro capitalist!l ha risolto il rebus: ha comperato sul mercato una merce che, consumata, gli rende valore.

Per spiegare la formazione del plusvalore capitalistico, derivante dallo sfrut­tamento della forza-lavoro, non è dunque necessario ipotizzare che il singolo capitalista defraudi l'operaio del suo «giusto» salario. La formazione del plusva­lore viene anzi studiata da Marx supponendo esplicitamente che abbiano luogo solo scambi tra equivalenti di valore, cioè che il capitalista corrisponda all'operaio il «giusto» prezzo per l'acquisto della forza-lavoro. Gol che resta anche scientifi­camente dimostrato che non si può certo abolire né lenire lo sfruttamento fa­cendo appello alla coscienza dei capitalisti, poiché lo sfruttamento non deriva dalla maggiore o minore «rettitudine» soggettiva del capitalista, ma dalla og­gettività dei rapporti capitalistici di produzione. Sappiamo infatti che il valore di ogni merce è determinato dalla quantità di lavoro socialmente necessaria a produrla: ciò vale evidentemente anche per la merce forza-lavoro, «ossia: il valore della forza-lavoro è il valore dei tnezzi di sussistenza necessari per la conservazione del possessore della forza-lavoro »: cibo, vestiario, alloggio, generi di prima necessità per il proletario (e per la sua famiglia~ altrimenti si estinguerebbero gli operai). Supponiamo che per una giornata lavorativa di dodici ore (cioè per l'uso, da parte del capitalista, della forza-lavoro di un operaio durante tfodici ore) questo valore sia pari a tre scellini; somma che dunque corrisponde al valore dei mezzi di sussistenza necessari per mantenere in vita il lavoratore per un giorno. Sup­poniamo inoltre che per produrre tali mezzi di sussistenza, siano necessarie sei ore di lavoro sociale medio, il che è come dire: sei ore di lavoro (una parte di quelle sei ore sarà lavoro agricolo, necessario per produrre grano da cui si ottiene il pane necessario al sostentamento dell'operaio; una parte lavoro edilizio per

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dargli un domicilio; una parte lavoro estrattivo perché possa disporre di carbone durante la stagione fredda, ecc.) producono i mezzi necessari - acquistabili con tre scellini- per mantenere l'operaio in vita per una giornata, oppure anche: in sei ore di lavoro sociale medio, si produce una massa di valore che, espressa in denaro, è pari a tre scellini.

Supponiamo dunque che il nostro capitalista voglia produrre refe. In primo luogo gli occorrerà la materia prima, cioè cotone: ne compra sul mercato dieci libbre alloro valore (non un soldo di più, non uno di meno): supponiamo che sia di uno scellino la libbra. Per la produzione occorre inoltre un fuso meccanico, e supponiamo che questo, nel filare dieci libbre di cotone, si logori per un valore pari a due scellini. Infine, occorre la mano d'opera: il nostro capitalista assume un operaio filatore, corrispondendogli il salario giornaliero pari (anche qui, non un soldo più, non un soldo meno) al valore di scambio di una giornata di forza­lavoro: tre scellini. « Per la vendita della forza-lavoro si era presupposto che il suo valore giornaliero fosse eguale a tre scellini, che in questi fossero incorporate sei ore lavorative, che dunque, per produrre la somma media dei mezzi di sussi­stenza giornalieri del lavoratore, fosse richiesta tale quantità di lavoro. Ora, se il nostro filatore durante un'ora lavorativa trasforma una libbra e due terzi di cotone in una libbra e due terzi di refe, in sei ore trasformerà dieci libbre di cotone in dieci libbre di refe. Quindi durante il processo. di filatura il cotone assorbe sei ore lavorative. Lo stesso tempo di lavoro è rappresentato da una quantità d'oro di tre scellini. Dunque mediante la filatura stessa viene aggiunto al cotone un valore di tre scellini. » E poiché il valore altro non è, sappiamo, che lavoro oggettivato in merce, possiamo esprimere il valore delle dieci libbre di refe anche in tempo lavoro: nelle dieci libbre di refe, sono oggettivate due giornate lavorative e mezza, così suddivise: i tre scellini del salario sono pari, come si è detto, al prodotto (valore oggettivato) di mezza giornata lavorativa; i dieci scellini del cotone più i due scellini della massa dei fusi logoratisi nella filatura, per un totale di dodici scellini, sono pari a quattro mezze giornate; totale, due giornate e mezza. Poiché sappiamo che una mezza giornata produce una massa di valore che, espressa in oro, è pari a tre scellini, ne consegue che due giornate e mezza sono pari a quindici scellini: tanto valgono dunque le dieci libbre di refe. E per ottenere quelle dieci libbre, il nostro capitalista ha anticipiato appunto quindici scellini: dieci in cotone, due in fusi e tre in salario. Fin qui, evidentemente, ha fatto un cattivo affare: «Il nostro capitalista si adombra; il valore del prodotto è uguale al valore del capitale anticipato. Il valore anticipato non si è valorizzato, non ha generato nessun plusvalore, e così il denaro non si è trasformato in capitale. » A queste condi-

. zioni, il capitalista non ha nessuna convenienza ad investire: se è per ritrovarsi alla fine con la stessa somma che aveva all'inizio, tanto vale tesaurizzarla senza correre tutti i rischi connessi agli investimenti: deterioramento del prodotto, difficoltà di smercio a causa della concorrenza, ecc.

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Esaminiamo più davvicino la voce « salario »: « Il valore giornaliero della forza­lavoro ammontava a tre scellini, perché in esso è oggettivata una mezza giornata lavorativa, cioè perché i mezzi di sussistenza necessari giornalmente alla produ­zione della forza-lavoro costano una mezza giornata lavorativa. » Ma il lavoro trapassato, oggettivato nella merce (qui: la merce forza-lavoro), ed il lavoro in atto, vivente, che viene erogato dalla forza-lavoro nel corso di una giornata, sono cose del tutto diverse: una cosa è che per mantenere un operaio accorrano mezzi di sussistenza producibili in mezza giornata di lavoro sociale medio, un'altra cosa, diversissima, è quanto può produrre un operaio lavorando durante tutta la giornata per la quale gli viene corrisposto il salario: «I costi giornalieri di mantenimento della forza-lavoro e il dispendio giornaliero di questa sono due grandezze del tutto distinte. La prima determina il suo valore di scambio, l'altra costituisce il suo valore d 'uso. Che sia necessaria una mezza giornata lavorativa per tenerlo in vita per ventiquattro ore, non impedisce affatto all'operaio di la­vorare per una giornata intera. Dunque il valore della forza-lavoro e la sua valoriz­zazione nel processo lavorativo sono due grandezze differenti. »

Che cosa fa infatti l'operaio quando «presta mano d'opera», cioè vende per una giornata l'unica merce di cui dispone, la forza-lavoro delle proprie brac­cia? «Di fatto, il venditore della forza-lavoro realizza il suo valore di scambio e aliena il suo valore d'uso, come il venditore di qualsiasi altra merce. Non può ottenere l'uno senza cedere l'altro. Il valore d'uso della forza-lavoro, il lavoro stesso, non appartiene affatto al venditore di essa, come al negoziante d'olio non appartiene il valore d'uso dell'olio da lui venduto.» Reciprocamente: l'acquirente paga il valore di scambio dell'olio, e con ciò acquisisce il diritto di usa:rlo a proprio profit~o; analogamente, « il possessore di denaro ha pagato il valore giornaliero della forza-lavoro; quindi a lui appartiene l'uso di essa durante la giornata, il lavoro di tutt'un giorno». E poiché, sappiamo, la merce forza-lavoro consumandosi, cioè lavorando, produce valore, è risolto l'enigma: il mantenimento della forza­lavoro costa una mezza giornata lavorativa (tre scellini), ma essa eroga lavoro (cioè valore) per una giornata lavorativa intera, cioè, nel nostro esempio, per dodici ore. Se dopo mezza giornata di consumo della forza lavorativa (nel nostro esempio, dopo sei ore di lavoro), l'operaio lavorando ha prodotto un valore pari a tre scellini, cioè ha reintegrato nelle tasche del capitalista la somma che questi aveva anticipato come salario (cioè il valore di scambio della forza-lavoro), ciò non priva affatto il capitalista stesso del diritto di consumare il valore d 'uso della forza-lavoro durante la mezza giornata lavorativa residua. «Il nostro capita­lista ha preveduto questo caso, che lo mette in allegria. Quindi il lavoratore trova nell'officina non solo i mezzi di produzione necessari per un processo lavorativo di sei ore, ma quelli per dodici ore. Se dieci libbre di cotone hanno assorbito sei ore lavorative e si sono trasformate in dieci libbre di refe, venti libbre di cotone assorbiranno dodici ore di lavoro e si trasformeranno in venti libbre di refe. »

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Nella massa del refe prodotto (venti libbre) sono ora oggettivate cinque giornate lavorative: quattro nella massa della materia prima (venti scellini di cotone) e dei fusi logoratisi (quattro scellini; in totale dunque ventiquattro scellini); una, assorbita dal cotone nel processo di filatura per essere trasformato in refe. Ma noi sappiamo che mezza giornata lavorativa produce una massa di valore pari a tre scellini, sicché il valore del prodotto di cinque giornate lavorative intere sarà di trenta scellini. Ma il totale del valore delle merci immesse nel processo ammontava a ventisette scellini: tre in salario; venti in cotone; quattro in logora­mento dei fusi per filare dieci libbre di refe: totale, ventisette scellini, che costi­tuiscono il capitale usato in anticipo nell'investimento. Il valore finale di venti lib­bre di refe ammonta a trenta scellini. « Il valore del prodotto è cresciuto di un nono oltre il valore anticipato per la sua produzione. Così ventisette scellini si sono tra­sformati in trenta scellini. Han deposto un plusvalore di tre scellini. Il colpo è riu­scito, finalmente. Il denaro è trasformato in capitale. Tutti i termini del problema sono risolti e le leggi dello scambio delle merci non sono state affatto violate. Si è scam­biato equivalente con equivalente; il capitalista, come compratore, ha pagato ogni merce al suo valore, cotone, massa dei fusi, forza-lavoro; poi ha fatto quel che fa ogni altro compratore di merci: ha consumato il loro valore d 'uso. Il processo di con­sumo della forza-lavoro, che insieme è processo di produzione della merce, ha reso un pro­dotto di venti libbre di refe del valore di trenta scellini. Il capitalista torna ora sul mercato e vende merce, dopo aver comperato merce. Vende la libbra di refe a uno scellino e sei pence, non un quattrino più o meno del suo valore. Eppure trae dalla circolazione tre scellini di più di quelli che vi ha immesso inizialmente. » Come si vede, il profitto capitalistico deriva direttamente dallo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Non si tratta però di uno sfruttamento individuale, opera di un singolo capitalista « cattivo »: si tratta invece di uno sfruttamento che sovrasta completamente le intenzioni più o meno benevole del singolo capitalista; di uno sfruttamento cioè del tutto oggettivo, insito nei rapporti stessi di produzione basati sull'acquisto della forza-lavoro come merce. Marx è dunque risolutamente contrario a critiche moralistiche o ad appelli dolciastri al «senso di giustizia» dei capitalisti. Lo sfruttamento capitalistico dell'uomo sul­l'uomo non può essere abolito fuorché abbattendo il regime capitalistico di pro­duzione.

Dall'esempio che abbiamo esaminato appare anche chiaramente quale sia la differenza tra il capitale costante ed il capitale variabile: una parte dei ventisette scellini viene investita in grandezze di valore che restano costanti durante tutto il processo; un'altra parte, viene invece investita in grandezze di valore che si incrementano, variano. Dal nostro esempio appare infatti chiaramente che il valore della materia prima (cotone) e dei mezzi di produzione (fusi) viene tra­sferito al prodotto finito, ma rimanendo costante dall'inizio alla fine del processo di produzione: il valore delle venti libbre di cotone viene trasferito inalterato

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nel valore del refe, in cui è contenuto; analogamente per il logoramento fusi. Invece il capitale investito nella forza-lavoro subisce una variazione di grandezza: si investono tre scellini, e se ne ricavano sei in valore prodotto dal consumo della merce forza-lavoro. Il capitale (C) si scinde in due parti: una somma di denaro (c) anticipata in mezzi di produzione e un'altra somma di denaro (v) anticipata in forza­lavoro, sicché la sua composizione risulta essere C= c +v. Chiamando p il plusvalore, alla fine del processo di produzione capitalistica, con la trasformazione di C (ventisette scellini) in C' (trenta scellini), avremo C' = (c +v) +p. Quanto è, in C', il valore creato ex novo? Poiché il valore di c non fa che trasferirsi, restando costante, da C in C', il valore prodotto nel corso della filatura non è, come parrebbe a prima vista, (c +v) +p [ossia, nel nostro esempio, (z4 scellini + 3 scellini) + 3 scellini = 30 scellini], bensì v +p (ossia 3 scellini + 3 scelli­ni = 6 scellini).

Restando c costante, per calcolare l'incremento di v, possiamo eguagliare c a zero. Il capitale anticipato, investito, si ridurrà quindi, per il nostro calcolo, da c +v a v, mentre il valore prodotto dal processo capitalistico sarà v + p. La cifra di tre scellini (p), ossia l'eccedenza di C'rispetto a C, esprimerà allora la grandezza assoluta del plusvalore prodotto. « Ma la sua grandezza proporzionale, cioè la proporzione in cui si è valorizzato il capitale variabile, è evidentemente determinata dal rapporto del plusvalore col capitale variabile, ossia è espresso dalla

formula _E_ . » Marx chiama questa grandezza saggio del plusvalore. Evidentemente v

il saggio del plusvalore coincide con il grado di sfruttamento della forza-lavoro: nel nostro esempio, pur rappresentando tre scellini l'incremento di I /9 del ca­pitale anticipato (ventisette scellini), e pur rappresentando essi solo I /Io del valore finale del refe (trenta), esprimono un incremento del capitale variabile_v pari a tre scellini su tre, e quindi del Ioo%.

Ovviamente il capitalista tende ad aumentare il saggio del plusvalore, e ciò è possibile mediante il prolungamento della giornata lavorativa (plusvalore assoluto; nel nostro esempio, se l'operaio è costretto a lavorare anziché dodici, poniamo quindici ore, il saggio del plusvalore diviene del 15o%), o mediante la riduzione della parte di giornata lavorativa necessaria a reintegrare la somma anticipata in salario, cioè v; sicché - sempre nel nostro esempio - aumento al I 5o% del saggio del plusvalore (che in tal caso dicesi plusvalore relativo) si ha, ferma restando la durata di Iz ore della giornata lavorativa, riducendo ad es. da sei a tre (grazie all'au­mento della produttività del lavoro) le ore necessarie a filare dieci libbre di refe.

In una società capitalistica sviluppata l'aumento del saggio del plusvalore passa soprattutto attraverso l'incremento del plusvalore relativo, cioè della pro­duttività del lavoro. Le fasi storiche fondamentali della produzione del plusvalore relativo sono I) la cooperazione semplice, z) la divisione del lavoro e la manifat­tura, 3) la grande industria moderna e le macchine. Concretamente, le origini

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del sistema capitalistico di produzione si hanno quando si verifica l'operare di un numero piuttosto considerevole di operai, allo stesso tempo e nello stesso luogo, per la produzione dello stesso genere di merci sotto il comando dello stesso capitalista. Ha luogo allora la cooperazione, cioè « la forma del lavoro di molte persone che lavorano l'una accanto all'altra e l'una insieme all'altra secondo un piano, in uno stesso processo di produzione, o in processi di produzione diffe­renti ma connessi». Inizialmente, l'innovazione causata dalla cooperazione ca­pitalistica rispetto alla produzione artigianale è solo quantitativa: se il singolo tessitore indipendente produceva in una giornata lavorativa di dodici ore una massa di valore pari a sei scellini, inizialmente dodici tessitori salariati (essi, all'alba della produzione capitalistica, lavorano nello stesso modo e con gli stessi stru­menti che quando erano artigiani indipendenti) producono settantadue scellini al giorno. Ma, subito, già il fatto di riunire sotto l'imperio dello stesso capitale dodici operai produce modificazioni che da quantitative divengono qualitative: abbiamo visto infatti che il « lavoro oggettivato in valore è lavoro di qualità sociale media; dunque applicazione di una forza-lavoro media. Ma una grandezza media esiste sempre soltanto come media di molte differenti grandezze individuali dello stesso genere. In ogni ramo d'industria l'operaio individuale, Pietro o Paolo, s'allontana più o meno dall'operaio medio. Queste differenze individuali, che in matematica si chiamano "errori"' si compensano e scompaiono appena si riunisca un numero piuttosto considerevole di operai ». Quando dunque si ab­biano dodici operai che fanno una giornata lavorativa di dodici ore, la loro gior­nata lavorativa complessiva sarà di centoquarantaquattro ore, « e benché il lavoro di ognuno di quei dodici operai possa differire o meno dal lavoro sociale medio e quindi benché il singolo possa abbisognare di più o meno tempo per la stessa operazione, tuttavia la giornata lavorativa di ogni singolo possiede la qualità media sociale, in quanto è un dodicesimo della giornata lavorativa complessiva di centoquarantaquattro ore. Ma per il capitalista che occupa una dozzina di operai, la giornata lavorativa esiste come giornata lavorativa complessiva di quei dodici operai. La giornata lavorativa di ogni singolo esiste come parte aliquota della giornata lavorativa complessiva »; se invece quegli stessi dodici operai venissero occupati a due per volta come garzoni da un maestro artigiano, le differenze individuali di produttività avrebbero peso, e diverrebbe praticamente impossibile che sei maestri artigiani nelle loro sei botteghe abbiano la stessa produzione giornaliera. «Dunque la legge della valorizzazione, in genere, si realizza completamente per il singolo produttore soltanto quando egli produce come capitalista, impiega molti operai nello stesso tempo, e quindi mette in moto sin da principio lavoro sociale medio.»

Inoltre all'inizio dell'era capitalistica il modo di lavoro restava inalterato sia se praticato individualmente, sia se praticato in cooperazione: il modo in cui tessono dodici operai sotto l'imperio di un unico capitalista era lo stesso di quello

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in cui tessevano sei coppie di garzoni nelle botteghe artigianali. Ma anche sotto questo aspetto il cambiamento quantitativo, lievitato dal rapporto di produzione capitalistico, dà immediatamente luogo ad una vera e propria rivoluzione quali­tativa del processo lavorativo: la cooperazione, ad esempio, consente l 'uso in co­mune di una massa di mezzi di produzione (edifici, depositi di materiale, recipienti, mezzi di trasporto ecc.), dando luogo a un'economia sui costi' di produ­zione che si traduce in miglioramenti della produttività. La cooperazione consente inoltre un salto qualitativo della produttività del lavoro: «Come la forza d'attacco di uno squadrone di cavalleria o la forza di resistenza di un reggimento di fanteria è sostanzialmente differente dalle forze di attacco o di resistenza sviluppate da ogni singolo cavaliere o fante, così la somma meccanica delle forze dei lavoratori singoli è sostanzialmente differente dal potenziale sociale di forza che si sviluppa quando molte braccia cooperano contemporaneamente ad una stessa operazione indivisa; per esempio, quando c'è da sollevare un peso, da girare una manovella, o da rimuo­vere un ostacolo. » Inoltre il semplice contatto sociale genera nella maggior parte dei lavori produttivi una emulazione che fa sì che una dozzina di persone insieme forniscano in una giornata lavorativa di centoquarantaquattro ore un prodotto complessivo assai maggiore di quello di dodici operai singoli che lavorino ognuno separatamente dodici ore, o di un operaio che lavori dodici giorni di seguito. La cooperazione implica inoltre la concentrazione e l 'accumulazione capitalistiche: per mettere in moto un processo produttivo che richiede l 'assunzione di un nu­mero quantitativamente già rilevante di salariati, il capitalista deve già concentrare ed accumulare capitali ingenti.

La cooperazione capitalistica si crea la propria figura classica nella manifattura, forma caratteristica del processo di produzione capitalistico dalla metà del xvi se­colo all'ultimo terzo del XVIII. L'origine della manifattura è duplice: in un caso, vengono riuniti in una sola officina, sotto l'imperio dello stesso capitale, operai che esercitano mestieri differenti, attraverso le cui mani, da una mano all'altra, passa il prodotto manifatturiero: classico l'esempio della manifattura di car­rozze, che prima erano il prodotto di un gran numero di artigiani indipen­denti: carradore, sellaio, stuccatore ecc. ; con il sorgere della manifattura capi­talistica delle carrozze, questi artigiani vengono riuniti da un unico capitale in un edificio ove lavorano contemporaneamente. Già que.sto semplice cambiamento quantitativo dà luogo a modificazioni qualitative: carradore, sellai o ecc. perdono con l'abitudine anche la capacità di esercitare in tutta la sua estensione l'antico me­stiere artigianale, la loro attività diviene angustamente unilaterale, sicché mentre all'origine la manifattura delle carrozze si presentava come una combinazione di mestieri indipendenti, a poco a poco diviene divisione della produzione di carrozze nelle sue differenti operazioni particolari ognuna delle quali si cristallizza in funzione esclusiva di un lavoratore e il cui complesso viene compiuto dalla unione di questi lavoratori parziali.

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L'altro modo in cui sorge la manifattura è opposto a questo, e consiste nel­l'assunzione contemporanea nella stessa officina, da parte dello stesso capitalista, di molti artigiani che fanno lo stesso mestiere o mestieri analoghi: ad esempio una ma­nifattura di aghi. Anche in questo caso, la cooperazione manifatturiera dà imme­diatamente luogo ad un cambiamento qualitativo: inizialmente ogni operaio produ­ce la merce dall'inizio alla fine, eseguendo una dopo l'altra le operazioni necessarie, come se fosse ancora un artigiano indipendente. Ben presto subentra però una divisione parcellare del lavoro: il processo di produzione della merce viene scom­posto in operazioni singole, che non richiedono più l'antica perizia artigianale, ed ogni operaio esegue una o poche operazioni. Da prodotto individuale di un artigiano indipendente, che esegue molte operazioni, la merce si trasforma nel prodotto sociale d'una associazione di operai, ciascuno dei quali esegue continua­mente solo un'unica operazione parziale e sempre la stessa.

Sia che abbia origine dalla cooperazione di artigiani che eseguono mestieri del tutto differenti, sia che abbia origine dalla cooperazione di artigiani che eserci­tano lo stesso mestiere, la figura conclusiva della manifattura è sempre la stessa: un meccanismo di produzione i cui organi sono uomini.

Alla manifattura succede, logicamente e storicamente, la grande industria. Nella società capitalistica, l'impulso, potentissimo, allo sviluppo del macchinario tipico della grande industria non viene certo dall'aspirazione «umanitaria» del capitalista di lenire le fatiche della classe operaia: in regime capitalistico, il mac­chinario è inteso unicamente come mezzo per creare plusvalore (e quindi profitto); questa fu la molla della rivoluzione industriale. La differenza specifica tra manifat­tura e grande industria moderna è che nella manifattura la rivoluzione del modo di produzione ha come punto di partenza la forza-lavoro, nella grande industria il mezzo di lavoro. Presupposto della rivoluzione industriale è la parcellizzazione delle operazioni del processo lavorativo; ma mentre nella manifattura era ancora l'operaio che eseguiva manualmente, con lo strumento, le operazioni, nella grande industria moderna, invece, lo strumento viene azionato meccanicamente.

Il macchinario moderno è riduci bile a tre organi costitutivi fondamentali: macchina motrice, meccanismo di trasmissione e macchina utensile. La macchina motrice (ad esempio macchina a vapore) genera l'energia di tutto il complesso; il meccanismo di trasmissione (pulegge, ruote dentate, alberi) regola il movimento e quando occorre lo trasforma, ad esempio da perpendicolare in circolare. Que­ste due parti servono la macchina utensile, l'operatrice vera e propria, che trasforma l'oggetto del lavoro: tornisce, trancia, fila, tesse, ecc. È con la macchi­na utensile che ha luogo la vera e propria rivoluzione industriale; l'immediata conseguenza rivoluzionaria rispetto al lavoro manuale della manifattura è che men­tre il numero di strumenti (ad esempio fusi) con i quali l'uomo può operare contemporaneamente è limitato, la macchina può azionarne un numero incom­parabilmente superiore: filare con diecine di fusi ecc.

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Il macchinario moderno riduce enormemente la giornata lavorativa neces­saria, aumentando di conseguenza il saggio del plusvalore relativo; tutto ciò non è possibile senza una massiccia applicazione della scienza alla produzione e costi­tuisce una socializzazione radicale, qualitativamente nuova, del processo di produ­zione e lavorazione. « Come macchinario, il mezzo di lavoro viene ad avere un modo di esistenza materiale che porta con sé la sostituzione della forza dell'uomo con le forze naturali e della routine derivata dall'esperienza con l'applicazione consapevole delle scienze della natura. Nella manifattura l'articolazione del pro­cesso lavorativo sociale è puramente soggettiva, è una combinazione di operai parziali; nel sistema delle macchine la grande industria possiede un organismo di produzio­ne del tutto oggettivo, che l'operaio trova davanti a sé, come condizione materiale di produzione già pronta. Nella cooperazione semplice e anche in quella specificata mediante la divisione del lavoro, la soppressione dell'operaio isolato da parte dell'operaio socializzato appare sempre più o meno casuale. Il macchinario, con alcune eccezioni ... , funziona soltanto in mano al lavoro immediatamente socializ­zato, ossia al lavoro in comune. Ora il carattere cooperativo del processo lavorativo diviene dunque necessità tecnica imposta dalla natura del mezzo stesso di lavoro. »

Il sistema capitalistico di produzione non è sempre esistito, ed è fatalmente destinato a scomparire: esso è cioè storicamente determinato, sussiste solo in pre­senza di certe condizioni storiche. Sorge allora il problema dell'accumulazione primi­tiva, di come cioè si siano venuti formando i presupposti storici della produzione capitalistica. Marx imposta tale problema in tutta la sua complessità, enunciando le condizioni logiche, teoriche del sorgere del capitale moderno e sviluppando, nel corso di tutta l'opera ed in una serie di capitoli particolari, vasti affreschi storici per mostrare come concretamente quelle condizioni siano state soddisfatte, dandoci un saggio ineguagliato di storiografia condotta con il metodo del mate­rialismo storico. « Si vede come con questo metodo fO sviluppo logico non è costretto a rimanere sul terreno puramente astratto. Al contrario, esso ha bisogno dell'illustrazione storica, del contatto permanente con la realtà» (Engels). Le pagine dedicate da Marx al sorgere dei rapporti di produzione capitalistici costi­tuiscono anche un 'implacabile demistificazione delle vantate « libertà» ed « ugua­glianza» borghesi, delle quali Marx mostra lucidamente la radice strutturale nello sfruttamento dell'uomo sull'uomo. È chiaro infatti che non poté avere luogo as­sunzione di mano d'opera salariata su larga scala finché non fu abbattuta la servitù della gleba, sia perché questa consentiva ai grandi proprietari feudali di negare mano d'opera alla nascente produzione capitalistica, sia perché «in sé e per sé lo scambio delle merci non include altri rapporti di dipendenza fuori di quelli derivanti dalla sua propria natura. Se si parte da questo presupposto, la forza-lavoro come merce può apparire sul mercato soltanto in quanto e perché viene offerta o venduta come merce dal proprio possessore, dalla persona della quale essa è la forza-lavoro ». Il lavoratore deve quindi essere giuridicamente « libero », formalmente « uguale »,

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sul piano giuridico astratto, al capitalista con cui stringe un contratto di compra­vendita della forza-lavoro; devono, cioè, essere introdotte l'« uguaglianza » e la « libertà », che però non soltanto sono di fatto solo formali (concernono esclusiva­.mente il rapporto giuridico, la sfera « politica », e non il rapporto reale, concreto, «sociale»), ma anche devono essere solo formali: una uguaglianza sostanziale, reale, sarebbe impossibile, perché nessuno che non vi fosse costretto si presterebbe ad es­sere sfruttato : « La seconda condizione essenziale, affinché il possessore di denaro trovi la forza-lavoro sul mercato come merce, è che il possessore di questa non abbia la possibilità di vendere merci nelle quali si sia oggettivato il suo lavoro, ma anzi, sia costretto a mettere in vendita, come merce, la sua stessa forza-lavoro, che esiste soltanto nella sua corporeità vivente. » L 'humus sociale da cui sorse il moderno operaio salariato furono piccoli contadini spogliati della terra, servi della gleba fuggiti o scacciati, artigiani rovinati. La più spaventevole miseria, il più spietato e feroce sfruttamento: ecco la vera sostanza delle vantate libertà e ugua­glianza borghesi sin dai primissimi tempi delle rivoluzioni antifeudali in Inghilter­ra ed in Francia, rivoluzioni che sanzionarono anche sul piano politico l'avvenuta accumulazione originaria del capitale: la sua genesi storica, in ultima analisi, quando non sia trasformazione immediata di schiavi e servi della gleba in operai salariati, significa soltanto «l'espropriazione dei produttori immediati, cioè la dissoluzione della proprietà privata fondata su/lavoro personale», cioè dei contadini e degli artigiani.

Il processo di accumulazione del capitale prosegue incessantemente. Da quan­to abbiamo detto, risulta chiaro che il primo movimento della quantità di valore che deve funzionare come capitale avviene sul mercato, nella sfera della circola­zione, e consta nella conversione di una somma di denaro in mezzi di produzione, materia prima e forza-lavoro. La seconda fase del movimento avviene non nella sfera di circolazione, ma nel processo di produzione, ed «è conclusa appena i mezzi di produzione sono convertiti in merce il cui valore superi il valore delle sue parti costitutive, e che dunque contenga il capitale originariamente anticipato e inoltre un plusvalore. Queste merci devono ora venir gettate di nuovo nella sfera della circolazione. Bisogna venderle, realizzarne in denaro il valore, conver­tire di nuovo in capitale questo denaro, e così via. Questo movimento circolare che percorre sempre le identiche fasi successive costituisce la circolazione del capitale ». Quando questo processo ha luogo su scala allargata, una parte del plusvalore viene reinvestita, cioè trasformata in capitale; ha luogo allora l'accumu­lazione del capitale.

Quali sono le conseguenze dell'accumulazione capitalistica per le sorti della classe operaia? Marx esamina la composizione del capitale, ossia le leggi che regolano la proporzione tra capitale costante e capitale variabile. Se questa composizione restasse invariata, l'accumulazione porterebbe evidentemente ad una domanda crescente di forza-lavoro: « Supponiamo che, insieme a circostanze altrimenti inva­riate, rimanga invariata la composizione del capitale, ossia che una determinata

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massa di mezzi di produzione e di capitale costante richieda sempre la medesima massa di forza-lavoro per essere messa in moto; in tal caso la domanda di lavoro e il fondo di sussistenza degli operai aumentano evidentemente in proporzione del capitale e aumentano tanto più rapidamente quanto più rapidamente aumenta il capitale. » Ma aumentando il capitale, si estende lo sfruttamento capitalistico; «accumulazione del capitale è quindi aumento del proletariato>>.

Ma non si creda, semplicisticamente, che ciò significhi che abbiano ragione co­loro che invocano la «libertà» per il capitale come condizione anche della creazione di nuovi « posti di lavoro ». La concorrenza tra capitalisti, la concentrazione di capitali, l'allargamento del sistema del credito, lo sviluppo generale della scienza e della tecnica e la loro applicazione alla produzione, l'interazione di questi fattori l'uno sull'altro, tutto ciò porta- tra altre conseguenze- anche ad un costante aumento della produttività del lavoro e ad un'enorme dilatazione del capitale costante, sicché si ha una diminuzione della massa di lavoro paragonata alla massa dei mezzi di produzione da essa messa in movimento, cioè un aumento del capitale costante relativamente al capitale variabile; « siccome la domanda di lavoro non è determinata dal volume del capitale complessivo, ma dal volume della sua parte costitutiva variabile, essa diminuirà quindi in proporzione progressiva con l'aumentare del capitale complessivo», perché «con l'aumentare del capitale complessivo cresce, è vero, anche la sua parte costitutiva variabile ossia la forza-lavoro incorporatale, ma cresce in proporzione costantemente decrescente ». E poiché ogni nuova fase di accu­mulazione e centralizzazione diventa immediatamente spinta accelerata ad una accumulazione ancora più avanzata, e quindi ad un ulteriore aumento proporzio­nale del capitale costante ed una ulteriore diminuzione del capitale variabile, ne segue che « questa diminuzione relativa della parte costitutiva variabile, accelerata con l'aumentare del capitale complessivo e accelerata in misura maggiore del proprio aumento, appare dall'altra parte, viceversa, come un aumento assoluto della popolazione operaia costantemente più rapido di quello del capitale variabile ossia dei mezzi che le danno occupazione »: si ha cioè la formazione di una disoccupazione di massa cronica e crescente, di una sovrappopolazione operaia che costituisce un esercito industriale di riserva disponibile, al quale il capitale attinge, in modo elastico e quindi per esso estremamente conveniente, quando si trova in fase di espansione; la massa della popolazione disoccupata o sottoccupata aumenta paurosamente, poi, nella fase delle crisi ricorrenti. La legge generale, assoluta, dell'accumulazione capitalistica, che come tutte le leggi economiche è storicamente determinata, cioè modificata nel corso della propria attuazione da una serie di circostanze con­crete (ad esempio il grado di organizzazione della classe operaia nei diversi paesi; la sua combattività sindacale e politica nei diversi rami della produzione, ecc.), risulta dunque essere la seguente: «Quanto maggiori sono la ricchezza sociale, il capitale in funzione, il volume e l'energia del suo aumento, quindi anche la grandezza assoluta del proletariato e la forza produttiva del suo lavoro, tanto maggiore è l'esercito indu-

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striale di riserva. La forza-lavoro disponibile è sviluppata dalle stesse cause che svilup­pano la forza d'espansione del capitale. La grandezza proporzionale dell'esercito indu­striale di riserva cresce dunque insieme con le potenze della ricchezza.» È chiaro che oggi questa legge va commisurata su scala mondiale, dopo che il capitalismo, giunto alla sua fase suprema, quella imperialistica, ha assunto dimensioni mondiali.

L'accumulazione capitalistica comporta necessariamente la lotta spietata tra capitalisti: la concentrazione di enormi capitali è, per ogni capitalista, la condizione per sopravvivere ed espandersi; ogni capitalista tende quindi ad espropriare il suo concorrente, a farlo fallire, ad assorbirne l'impresa, la clientela, il mercato. « Questa espropriazione si compie attraverso il giuoco delle leggi immanenti della stessa produzione capitalistica, attraverso la centralizzazione dei capitali. Ogni capitalista ne ammazza molti altri. Di pari passo con questa centralizzazione, ossia con l'espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi, si sviluppano su scala sempre crescente la forma cooperativa del processo di lavoro, la consapevole applicazione tecnica della scienza, lo sfruttamento metodico della terra, la trasformazione dei mezzi di lavoro in mezzi di lavoro utilizzabili solo collettivamente, l'economia di tutti i mezzi di produzione mediante il loro uso come mezzi di produzione del lavoro sociale, combinato, mentre tutti i popoli vengono via via intricati nella rete del mercato mondiale e così si sviluppa in misura sempre crescente il carattere internazionale del regime capitalistico. Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la massa della miseria, della pressione, dell'as­servimento, della degenerazione, dello sfruttamento, ma cresce anche la ribellione della classe operaia che sempre più s'ingrossa ed è disciplinata, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico. Il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo di produzione che è sbocciato insieme ad esso e sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l'ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati.

« Il modo di appropriazione capitalistico che nasce dal modo di produzione capitalistico, e quindi la proprietà privata capitalistica, sono la prima negazione della proprietà privata individuale, fondata su/lavoro personale. Ma la produzione capitali­stica genera essa stessa, con l 'ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione. È la negazione della negazione. E questa non ristabilisce la proprietà privata, ma invece la proprietà individuale fondata sulla conquista dell'era capitali­stica, sulla cooperazione e sul possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti da/lavoro stesso.

« La trasformazione della proprietà privata sminuzzata poggiante sul lavoro personale degli individui in proprietà capitalistica è naturalmente un processo incomparabilmente più lungo, più duro e più difficile della trasformazione della

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proprietà capitalistica, che già poggia di fatto sulla conduzione sociale della pro­duzione, in produzione sociale. Là si trattava dell'espropriazione della massa della popolazione da parte di pochi usw:patori, qui si tratta dell'espropriazione di po­chi usurpatori da parte della mas.sa del popolo. »

Il processo ciclico del capitale si attua in tre stadi: nel primo stadio il capitali­sta si presenta sul mercato delle merci come compratore; il suo denaro viene con­vertito in merce, ossia compie l'atto di circolazione D-M. Se chiamiamo L la for­za-lavoro, Pm i mezzi di produzione, la somma M di me.rci da comperare è ugua­le a L + Pm, o, più brevemente, M <~m. Nel secondo stadio ha invece luogo il consumo produttivo della merce acquistata; consumo che avviene non nella sfera della circolazione, ma in quella della produzione, ed il cui risultato è la creazione di una merce di valore maggiore di quello dei suoi elementi costitutivi di produ­zione. Nel terzo stadio infine il capitalista si ripresenta sul mercato come vendito­re: la sua merce viene convertita in denaro, ossia compie l'atto della circolazione M-D. La formula per il ciclo del capitale è dunque

D-M <~m ... P ... M'-D'

nella quale i puntini indicano l'interruzione del processo di circolazione e M'e D' contrassegnano M e D accresciuti di valore e P indica lo stadio della produzione. Nei tre stadi del ciclo completo, il capitale agisce volta a volta come capitale-de­naro, capitale-produttivo, capitale-merce; questi tre diversi stadi del ciclo con­tengono già di per sé la potenzialità di una diversificazione, che nella società capitalistica sviluppata ha effettivamente luogo: il capitale impegnato nella pro­duzione (industriale o agricola) si distacca da quello commerciale e da quello di credito, e da tale separazione nasce l'esistenza dei diversi gruppi della borghesia (industriali, mercanti, banchieri) tra i quali si opera la ripartizione del plusvalore creato dalla classe operaia.

Il movimento del capitale attraverso le tre fasi costituisce il suo ciclo. Se con­sideriamo tale ciclo non come un fatto isolato, ma come un processo periodico, abbiamo la rotazione del capitale, la cui durata è data dalla somma del suo tempo di produzione e del suo tempo di circolazione. Il tempo di produzione del capitale è dunque quello in cui il capitale si trova nella sfera della produzione in senso stretto. A seconda che resti nella sfera della produzione, o che invece trapassi subito in quella della circolazione (vendita), il capitale produttivo si divide in capitale fisso e capitale circolante. Vediamo ancora l'esempio della produzione di refe: una parte del capitale viene investita in cotone, cioè anticipato in elementi costitutivi del prodotto finito che, compiuto il processo di produzione, lasciano la sua sfera e passano in quella della circolazione per essere venduti. Invece i mezzi d,i lavoro - nel nostro esempio il fuso meccanico - resta nella sfera della produzione, e trasferisce il suo valore al prodotto non tutto d 'un colpo, ma poco per volta; il

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capitale fisso è ancorato alla forma del capitale produttivo; tali sono le macchine, gli edifici, ecc. Mentre il capitale costante ed il capitale variabile si differenziano per il diverso ruolo che svolgono nel processo di produzione, il capitale fisso ed il capi­tale circolante si distinguono per il modo diverso in cui compiono la rotazione.

Da quanto abbiamo sinora esposto, risulta chiaramente che il valore delle merci prodotte entro rapporti capitalistici si scinde in tre parti: 1) valore del capitale costante(una parte del quale è costituito dal valore del capitale fisso; un'al­tra parte, dal valore della parte circolante del capitale costante); z.) valore del capi­tale variabile; 3) valore del plusvalore. Se noi rapportiamo il plusvalore (p) non al

capitale variabile soltanto ( ~ , saggio del plusvalore), bensì a tutto il capitale

anticipato ( P ) , otteniamo il saggio del profitto. Vediamo ancora una volta il c +v

nostro esempio della produzione di refe: vendendo il refe prodotto a trenta

scellini, il capitalista ha un profitto di 3 (p) , pari dunque all'u,(I)%. Il 2.4(c) + 3 (v)

saggio del profitto è sempre e necessariamente inferiore al saggio del plusvalore, giacché il capitale complessivo anticipato (c +v) è sempre maggiore del solo

capitale variabile (v), e dunque _E__ sempre maggiore di P . Sempre secon-v c+v

do il nostro esempio, mentre il saggio del profitto è dell'I 1,(1) %, quello del

plusvalore è pari a 3 (p), cioè del 100%. 3 (v)

Sul saggio del profitto influisce in primo luogo il saggio del plusvalore, poiché è chiaro che se allungando la giornata lavorativa (plusvalore assoluto) o dimi­nuendo la sua parte necessaria (plusvalore relativo), il capitalista del nostro esem­pio ottiene nove anziché tre scellini di plusvalore, il saggio del plusvalore sale al 3oo%, e quello del profitto al 3 3,(3)%. Sul saggio del profitto influi­sce inoltre la composizione organica del capitale: a parità di massa di capitale investito e di saggio di plusvalore (poniamo il 100 %), se un capitalista investe un capitale di 2.7 scellini con composizione organica 18c, 9v, avrà un plusvalore di

9 scellini, ed un saggio del profitto pari a _2_, cioè del33,(3)%; invece il capi-2.7

talista del nostro esempio, che per la produzione di refe ha investito 2.7 scellini ma con composizione organica più alta (z.4c, 3v), ha un plusvalore di 3 scellini ed

un saggio del profitto di - 3-, cioè dell'11,(1) %. Inoltre, se calcoliamo il saggio del 2.7

profitto su di un lasso di tempo, ad esempio annualmente, su di esso incide ovvia­mente la velocità di rotazione del capitale investito.

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Marx dimostra inoltre come i diversi saggi del profitto tendano necessaria­mente a livellarsi in un saggio medio, sociale. La molla di questo livellamento è la concorrenza tra capitali, concorrenza che si esercita sia all'interno di ogni ramo della produzione, sia tra diversi rami della produzione. All'interno dello stesso ramo della produzione le diverse imprese hanno macchinari più o meno moderni e costosi, cioè differente composizione organica; hanno diverso grado di sfrutta­mento della forza-lavoro, diversa velocità di rotazione ecc., e dunque un diverso saggio del profitto. Il valore di venti braccia di tela prodotte dalla ditta A sarà dunque diverso dal valore di venti braccia di tela prodotte dalla ditta B. Ciò non toglie però che, anche se le venti braccia di tela di A « valgono» più di quelle di B, A debba vendere al prezzo di B, a meno che non si rassegni a lasciare in­vendute le sue venti braccia di tela. Si forma dunque un «valore» medio, sociale della tela. Per poter abbassare il prezzo della propria tela senza esser costretto a svendere sottocosto, il capitalista A dovrà migliorare la produttività della propria impresa, cioè alzare (con investimenti in capitale fisso: macchinari ecc.) la com­posizione organica del proprio capitale, il che - a parità di capitale investito -comporta una diminuzione del saggio del plusvalore, e quindi di quello del pro­fitto. B a propria volta cercherà di contrastare la rinnovata concorrenza di A compiendo la stessa operazione, e così via. Si afferma così un'inarrestabile tenden­za all'abbassamento del saggio de] profitto. Allo stesso risultato porta anche la concorrenza tra diversi rami della produzione: capitali investiti in rami diversi hanno ovviamente composizione organica diversa, e poiché il plusvalore deriva esclusivamente dalla parte variabile del capitale, è chiaro che capitali impiega­ti in rami con bassa composizione organica hanno un saggio del plusva­lore superiore, e quindi un superiore saggio del profitto. Supponiamo dunque che in tre diversi rami produttivi (edilizia I; tessili n; costruzioni meccaniche m) vengano investiti tre capitali di Ioo sterline ognuno, aventi rispettivamente le seguenti composizioni organiche: I (7oc, 3ov); n (Soc, 20v); m (9oc, Iov). Sup­poniamo inoltre che tutti e tre i capitali abbiano un saggio del plusvalore del IOo%: alla conclusione di ogni ciclo, nell'edilizia avremo un plusvalore di 30, nei tessili di zo, nelle costruzioni meccaniche di I o, sicché le masse di prodotto saranno rispettivamente pari a: I, I 3 o; n, uo; III, II o. Il prodotto complessivo dei tre rami sarà pari a 36o, il saggio del profitto (a parità, ricordiamo, di saggio del plusvalore) sarà, rispettivamente, del 3o%, zo%, 10%. È evidente che il capitalista che ha investito nella produzione di costruzioni meccaniche si trova svantaggiato, e che cercherà di liberare il proprio capitale per investirlo nell'edili­zia. Lo stesso farà l'industriale tessile. Il risultato sarà una concorrenza spietata tra i capitali dell'edilizia, con conseguente riduzione del saggio del profitto, mentre una scarsità relativa di costruzioni meccaniche permetterà a chi fosse rimasto in quel settore di realizzare un sovrapprofitto aumentando i prezzi. Lo spostamento di capitali da un ramo all'altro porta così necessariamente alla forma-

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zione di un saggio medio del profitto, che possiamo calcolare così: sommiamo il valore prodotto globalmente dai tre capitali in esame (I 3 o + uo + I I o = 3 6o) e dividiamolo per il numero dei capitali: avremo il valore prodotto globale medio, sul

quale calcolare il saggio medio del profitto: ~ = I 20; saggio medio del pro-3

fitto: zo%. Avviene così che, proprio in base alla teoria del valore, le merci siano vendute non in base al valore individuale di esse, ma in base ai costi di produzione sociali: capitale investito più saggio medio del profitto. « In tal modo il fatto indiscutibile e generalmente noto del divario tra i prezzi e il valore e della perequazione del profitto viene pienamente spiegato da Marx sulla base della legge del valore, perché la somma del valore di tutte le merci coincide con la somma dei prezzi >>

(Lenin). E poiché lo sviluppo industriale implica la dilatazione incessante del capitale costante, « a questo crescente incremento di valore del capitale costante corrisponde una crescente diminuzione di prezzo del prodotto. Ogni prodotto, considerato in se stesso, contiene una somma minore di lavoro di quanto avviene nei gradi più arretrati della produzione, in cui la grandezza relativa del capitale investito in lavoro rispetto al capitale investito in mezzi di produzione è molto maggiore »: da qui la caduta tendenziale del saggio del profitto. Ecco una breve dimo­strazione: la somma dei tre capitali - edile, tessile e meccanico - del nostro esempio era 3oo; la composizione media: 24oc, 6ov; il saggio medio del profitto: zo%; supponiamo ora che lo sviluppo generale della società e della produzione capitalistica - sviluppo che come abbiamo visto passa principalmente attraverso il macchinario ecc., e che si riflette inevitabilmente in un aumento della parte costitutiva costante del capitale medio - innalzi il capitale globale dei tre rami a 500, con composizione di 425c, 75v. Restando invariato il saggio del plusvalore

(10o%), avremo un saggio medio del profitto di __]_J_' pari cioè al 15 %: la massa 500

del profitto è dunque salita da 6o a 7 5, ma il saggio del profitto è caduto da 20%

a 15%· Marx ha anche brillantemente risolto il problema della formazione della ren-

dita fondiaria, prendendo in esame i rapporti tra le tre classi che costituiscono la cornice della società moderna: la classe degli operai salariati (qui si tratta dei salariati agricoli, veri e propri operai della terra che con il loro lavoro sfruttato producono sia il profitto dei capitalisti che investono in aziende agricole, sia la rendita dei proprietari fondiari), la classe dei capitalisti (qui gli affittuari, che esercitano l'agricoltura unicamente come campo particolare di sfruttamento del loro capitale), la classe dei proprietari fondiari (che detengono il monopolio della terra, e sfruttano la produzione in modo completamente parassitario ). Esporremo qui brevemente le due forme della rendita fondiaria differenziale e la rendita fondiaria assoluta.

La prima forma della rendita fondiaria differenziale è connessa alla coltura esten-

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siva. In una massa di terreni messi a coltura, ve ne sono necessariamente di meno produttivi e di più produttivi, a seconda della fertilità, della, posizione più favo­revole o meno rispetto ai mercati, ai mezzi di trasporto, alle possibilità di conser­vazione dei prodotti, ecc. Per semplicità prendiamo in esame la sola fertilità, e supponiamo di poter dividere tutti i terreni messi a coltura in tre categorie: molto fertili (I), mediamente fertili (n), scarsamente fertili (m). L'affittuario, come ogni capitalista, per investire in agricoltura anziché in un ramo industriale esigerà il profitto medio, che fissiamo alzo%. Supponiamo ora che tre affittuari investano tre capitali di uguale valore (10o sterline) in tre terreni coltivabili a grano, di uguale estensione ma di fertilità decrescente (I, n, m). Poiché i costi di produzione sono sempre pari al capitale investito più il saggio medio del profitto (I 2.0 ), ne verrà che, essendo uguali i tre capitali investiti ( 100 ), le tre masse di grano raccolte nei tre di­versi terreni (grano I; grano n e grano III) avranno un. costo di produzione uguale (12.o). Ma causa la differente fertilità, sul terreno I si raccoglieranno poniamo sei quintali, sul terreno n cinque quintali e sul terreno III solo quattro quintali. Pur essendo dunque uguali i costi di produzione delle tre masse di grano prodotti dai tre diversi terreni (I zo ), il valore del singolo quintale di grano sarà diverso a seconda

I2.0 del terreno da cui proviene, e cioè, rispettivamente, per il I terreno, - 6- = zo

. . I2.0 I2.0 a qmntale; per 11 n, -- = 2.4; per il m,-- = 30. Ma poiché il terreno

5 4 meno fertile (ed esiste sempre, in un insieme di terreni messi a coltura, quello meno fertile) non verrebbe messo a coltura se i terreni più fertili bastassero a coprire il fabbisogno sociale di grano (il che significa semplicemente che nessun capitalista arrischierebbe il proprio denaro su di un terreno poco fertile, se non presumesse ragionevolmente di venderne il prodotto), è chiaro che sul mercato potranno es­sere venduti ad un prezzo equivalente ai costi di produzione del grano m (3o sterline a quintale) anche il grano n ed il grano I: fa testo, insomma, il prezzo del grano prodotto dal terreno meno fertile. Così l'affittuario del terreno III rea­lizzerà, vendendo i suoi quattro quintali, le I zo sterline corrispondenti al costo di produzione (capitale anticipato più saggio medio del profitto); ma l'affittuario del terreno n, vendendo a 30 sterline cinque quintali, avrà un sovrapprofitto, su di un prodotto di I 5o, di 30 sterline; e l'affittuario del terreno III, un sovrapprofitto di 6o su un prodotto di I So sterline, ricavate dalla vendita di sei quintali di grano. Questi sovrapprofitti vengono incamerati parassitariamente dal proprietario fon­diario, e costituiscono la prima forma della rendita differenziale.

La seconda forma della rendita differenziale è invece specifica della coltura inten­siva: dati due terreni di uguale estensione ed ugualmente fertili, dà maggior raccolto quello in cui si fanno maggiori investimenti di capitale (concimazione chimica; opere di bonifica; macchine agricole, ecc.). Supponiamo ora che su di un terreno fertile come il terreno I dell'esempio succitato si investa

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un capitale addizionale di ulteriori roo sterline, e che dia un raccolto supplemen­tare di sette quintali. I costi di produzione del raccolto relativo al capitale addizio­nale, fermo restando il saggio del profitto del zo%, sono ancora 12.0 sterline; vendendo al prezzo inalterato di 30 sterline a quintale, i sette quintali danno luogo a 2.1 o sterline: il sovrapprofitto di 90 sterline costituisce la rendita differenziale della seconda forma. È qui da notarsi che se un affittuario stipula un contratto d'affitto per un terreno di fertilità r per, poniamo, dieci anni, ad un canone pari alla rendita differenziale di prima forma (6o sterline annue), avrà tutto l'interesse ad investire capitale addizionale (e quindi, in ultima analisi, a migliorare il terreno con opere di bonifica ecc.), perché in tal modo durante i dieci anni dell'affittanza intasca non solo il profitto sociale medio di 2.0 sterline, ma anche il sovrapprofitto corrispondente alla rendita differenziale della seconda forma. Ma allo scadere del contratto, il proprietario fondiario terrà conto della migliorata fertilità del proprio terreno ed aumenterà il canone d'affitto di 90 sterline annue, incamerando la rendita differenziale seconda. Anche da ciò risulta come i proprietari fondiari pro­fittino in modo del tutto parassitario dello sviluppo della società. D'altra parte l'avvicinarsi della scadenza del contratto spingerà l'affittuario a lesinare sugli investimenti in concimi, bonifiche ecc. - ed, in generale, egli non farà mai opere di bonifica di vasto respiro - ed a sfruttare senza ritegno il terreno, anche a pe­ricolo di inaridirlo. È chiaro dunque che la fertilità di un terreno non è qualche cosa di naturalmente dato in modo eterno e inalterabile, ed infatti sono innumere­voli gli esempi di regioni fertilissime rese aride e brulle da uno sfruttamento insen­sato (ad esempio la Sicilia). «Analizzando minutamente la rendita differenziale, mostrandone l'origine nella diversa fertilità dei diversi terreni, nelle differenti quantità di capitale investito nella terra, Marx mise in piena luce l'errore di Ricar­do, il quale riteneva che la rendita differenziale provenisse soltanto dal passaggio progressivo da terreni migliori a terreni peggiori. Invece si producono anche passaggi in senso inverso; i terreni di una categoria si trasformano in terreni di un'altra categoria (grazie al progresso della tecnica agricola, allo sviluppo delle città, ecc.), e la famosa <legge della produttività decrescente del terreno > è un profondo errore che tende a scaricare sulla natura i difetti, la limitatezza e le con­traddizioni del capitalismo» (Lenin).

Nell'analisi delle due forme della rendita differenziale abbiamo visto che il terreno peggiore ha rendita fondiaria pari a zero. Ma come è evidente che l'affit­tuario non investirebbe nel terreno meno fertile se non presumesse ragionevol­mente di venderne il prodotto al costo di produzione, così è ovvio che nemmeno il proprietario fondiario concederebbe in affitto gratis il terreno meno fertile, la cui rendita differenziale è appunto pari a zero. L'affittuario non accetterà certo di decurtare il saggio medio del profitto, giacché in tal caso avrebbe convenienza a trasferire il proprio capitale in un altro ramo della produzione. La rendita quindi deve esserci anche per il terreno meno fertile, e deve scaturire da un sovrappro-

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fitto, non da una decurtazione del saggio medio del profitto. Marx ha risolto il problema osservando che la composizione organica media del capitale agricolo è inferiore a quella del capitale industriale. Sia pari a 8oc, zov la composizione orga­nica media di tutto il capitale globale dei rami produttivi non agricoli, e sia del I oo% il saggio del plusvalore: il prodotto sociale sarà pari a 8oc + zov + zop =

= IZo, il saggio del profitto ~ = zoo/o. Supponiamo che la composizione or-Ioo

ganica del capitale agricolo sia 6oc, 4ov (effettivamente per lavorare un terreno agricolo normalmente si impiega una quantità di capitale costante proporzional­mente inferiore che per una attività industriale, e «ciò dimostra che l'agricoltura non ha ancora raggiunto lo stesso grado di sviluppo dell'industria. Cosa questa spiegabilissima, poiché, astraendo da tutto il resto, è premessa dell'industria la più antica scienza della meccanica, e premessa dell'agricoltura le nuovissime_scienze della chimica, geologia e fisiologia»); avendo supposto che il saggio medio del plusvalore sia del IOo%, per un capitale di 100 investito in agricoltura avremo un plusvalore di 40, ed il seguente prodotto globale: 6oc + 4ov + 40p = 140, cioè

un saggio del profitto pari a ___:l-~ = 40%. L'affittuario ha dunque un sovrap-1oo

profitto, rispetto al profitto sociale medio, di zo sterline: queste vengono incame­rate dal proprietario fondiario come canone del terreno meno fertile, e costituisco­no la rendita assoluta.

Da tutto quanto abbiamo detto risulta chiaro che il modo di produzione ca­pitalistico è inficiato da contraddizioni insolubili. Le medesime forze che spin­gono alla dilatazione del plusvalore relativo, a sempre più massicci investimen­ti di capitale costante, all'aumento della produttività - e quindi della massa di merci immesse nel mercato - conducono necessariamente anche alla cadu­ta tendenziale del saggio del profitto e soprattutto al testardo proposito delle classi sfruttatrici nel loro complesso di aumentare i profitti intensificando lo sfruttamento della forza-lavoro e contenendo entro i limiti più bassi possibili i salari, unica fonte del potere d'acquisto della stragrande maggioranza della società. Le masse popolari non potranno quindi mai disporre del potere d'acquisto necessario ad assorbire la massa crescente di merci immesse sul mercato; da qui la crisi di sovrapproduzione: sovrapproduzione che è dun­que sempre relativa, non assoluta: si tratta sempre di una sovrapproduzione rispetto alla domanda solvibile, non rispetto alla domanda sociale, sicché il fondamento delle ineliminabili crisi di sovrapproduzione è nella radice stessa dell'organizzazione capitalistica. «Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso, è questo: che il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e punto di arrivo, come motivo e scopo della produzione; che la produzione è solo produzione per il capitale, e non al contrario i mezzi di pro­duzione sono dei semplici mezzi per una continua estensione del processo vitale

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per la società dei produttori. I limiti nei quali possono unicamente muoversi la conservazione e l'autovalorizzazione del valore_.capitale, che si fonda sull'espro­priazione e l'impoverimento della grande massa dei produttori, questi limiti si trovano dunque continuamente in conflitto con i metodi di produzione a cui il capitale deve ricorrere per raggiungere il suo scopo, e che perseguono l'ac­crescimento illimitato della produzione, la produzione come fine a se stessa, lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali del lavoro. Il mezzo - lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali - viene permanente­mente in conflitto con il fine ristretto, la valorizzazione del capitale esistente. Se il modo di produzione capitalistico è quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti sociali che gli corrispondono. »

III · LA PRIMA INTERNAZIONALE DEGLI OPERAI

Mentre dispiegava la sua attività scientifica, Marx lavorava intensamente anche sul piano organizzativo, d'agitazione, giornalistico, di propaganda e di difesa del comunismo. La borghesia e la reazione avevano riconosciuto in lui il loro maggiore e più implacabile nemico, sicché per tutta la vita egli fu oggetto di calunnie e di attacchi. Quando era in causa la sua sola persona, Marx sprezzava di replicare; ma quando nella sua persona si calunniava e si attaccava il comunismo, replicava anche a costo di sacrifici personali e di sottrarre parte delle proprie ener­gie alla ricerca scientifica. È questo il caso dell'opuscolo Herr Vogt(/1 signor Vogt, r86o), in cui difendeva se stesso ed i suoi compagni di lotta dall'infame accusa di essere a capo di una banda di avventurieri che per far progredire «la causa» avrebbe impiegato impudentemente i mezzi più vili, come il ricatto e la falsifica­zione, come l'inviare a persone in vista lettere compromettenti, da usarsi poi quale arma di ricatto per ottenere finanziamenti, appoggi, ecc. Lo scritto Il signor Vogt riduceva in polvere queste accuse, ed il crollo del secondo impero francese dimo­strò quanto Marx avesse ragione: neg1i archivi segreti della cancelleria imperiale risultò che lo zoologo Vogt, l'accusatore di Marx, era un informatore di Napo­leone III. Questo mentre le condizioni economiche in cui versava Marx erano le peggiori che si potessero immaginare, tanto che, respinta per la difficoltà a leggere la sua grafia una domanda che aveva presentato per essere assunto come impiegato delle ferrovie, Marx pensò addirittura di traslocare in un albergo per indigenti, ave avrebbe occupato un misero alloggio pagando una pigione bassissima, ma in un ambiente spaventoso. Fu Engels che, con il proprio continuo e fraterno aiuto, impedì quella soluzione estrema.

Ma nulla poteva spezzare la tempra di questo rivoluzionario. Nel 1 864 a Londra venne fondata l'Associazione internazionale degli operai, e Marx si accollò

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ancora una volta la maggior parte del lavoro. Eletto nella commissione incaricata di redigere programma e statuti, lavorò con la consueta energia e profondità: dopo aver criticato a fondo, argomentatamente, le bozze preparate dai mazziniani, re­dasse e fece approvare il famoso Indirizzo inaugurale che, con uno stile sintetico che trova pari, per efficacia e lapidarietà, solo nel Manifesto, tracciava il bilancio scientifico e critico dello sviluppo capitalistico dopo il I 848, mostrando in modo irrefutabile che solo la classe operaia aveva pagato - con il lavoro e la miseria -l'espansione industriale e commerciale del quarto di secolo trascorso dall'ultima rivoluzione. Marx dimostrava poi che era del tutto illusorio sperare che migliora­menti tecnici dei mezzi di produzione, della distribuzione, dei trasporti, delle fonti di energia, ed in generale un aumento della produttività del lavoro, potessero inci­dere sullo sfruttamento. Solo l'abbattimento dei rapporti di produzione capitali­stici avrebbe cambiato la situazione: «Nessun perfezionamento delle macchine, nessuna applicazione della scienza alla produzione, nessun progresso dei mezzi di comunicazione, nessuna nuova colonia, nessuna emigrazione, nessuna apertura di nuovi mercati, nessun libero scambio, né" tutte queste cose prese assieme elimi­neranno la miseria delle classi lavoratrici; ché, anzi, sulla falsa base presente, ogni nuovo sviluppo delle forze produttive del lavoro inevitabilmente deve tendere a rendere più profondi i contrasti sociali, e più acuti gli antagonismi sociali. »

Sottolineando l'importanza di tutte le rivendicazioni sindacali (la classe operaia aveva da poco conquistato la legge che istituiva la giornata lavorativa di dieci ore), Marx mostrava contemporaneamente che solo conquistando il potere politico la classe operaia avrebbe posto fine allo sfruttamento. L'Internazionale aveva dunque il compito di unificare su scala internazionale le lotte della classe operaia. I principi strategici e tattici del marxismo impregnavano di sé anche gli statuti, che respin­gevano ogni illusione paternalistica e riformistica e ribadivano che l'emancipa­zione della classe operaia poteva essere opera solo della classe operaia stessa.

Come sempre, anche nell'Internazionale Marx intese il lavoro politico" quale intima fusione di teoria e prassi, di organizzazione, agitazione e loro fondazione scientifica. Egli respingeva ogni impostazione acritica, non comprensiva di tutti i nessi dialettici della realtà, e quindi polemizzò vivacemente, oltre che con i nemici di classe dichiarati, anche con gli esponenti di una corrente dell'Internazionale che era ultrasinistra a parole, ma reazionaria nei fatti: costoro - influenzati anche dal proudhonismo - sostenevano che la lotta per gli aumenti salariali in nulla giovava agli operai, perché comportava un immediato aumento dei prezzi anziché una diminuzione dei profitti, e quindi dava luogo ad un rincaro del costo della vita che annullava i miglioramenti salariali, e spesso anzi peggiorava la situazione. In un intervento al consiglio generale dell'Internazionale (I 86 5 ), Marx dimostrò l' er­roneità scientifica e l'insostenibilità politica di questa tesi, condensando in poche decine di pagine i risultati di decenni di studi sui rapporti tra salario, prezzo delle merci e profitto capitalistico: Value, price and profit (Salario, prezzo e profitto).

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Fu proprio in questi anni di grandissimo impegno nella guida dell'Internazionale che Marx, ben conscio dell'enorme responsabilità che gli competeva nel dover dare alla lotta della classe operaia uno strumento scientifico inoppugnabile, stese, tra « dolori di parto » provocati da uno spirito autocritico spietato che lo spingeva a non lasciare inesplorato nessun aspetto dell'oggetto della propria indagine, il Capitale. Ad un amico, al quale dopo la consegna del manoscritto all'editore Marx trovava finalmente tempo per scrivere, spiegava: «Ero continuamente sul­l'orlo della tomba. Per questo dovevo utilizzare ogni momento che potevo dedi­care al lavoro per terminare la mia opera, cui ho sacrificato la salute, la felicità della vita e la famiglia. »

Soprattutto a partire dal 1868 Michail Aleksandrovic Bakunin (1 814-76), prin­cipale esponente di una corrente anarchica infiltratasi nell'Internazionale, segre­tamente organizzata in frazione al suo interno, tentò di scalzare la direzione marxi­sta dell'organizzazione. Sconfitto ripetutamente nei suoi tentativi di trasformare l 'Internazionale in una setta completamente staccata dal reale movimento di massa degli operai, Bakunin non desistette da una serie di intrighi che culminarono in una scissione. Marx riuscì invece a condurre l'Internazionale al sostegno attivo della Comune di Parigi (1871), la prima rivoluzione della storia in cui il prole­tariato conquistò il potere politico. I marxisti si schierarono decisamente ed aper­tamente con i « titani » di Parigi, « che muovevano all'assalto del cielo ». Mentre la stampa reazionaria di tutto il mondo li dipingeva come sanguinati, Marx dispiegò tutte le sue energie per spezzare l'isolamento politico e morale in cui la reazione voleva stringere i comunardi, e quando Parigi rossa cadde, egli scris­se un messaggio dal titolo The civil war in France (La guerra civile in Francia), appro­vato all'unanimità il 3 o maggio dal consiglio generale dell'Internazionale; testo nel quale tracciava il bilancio della Comune, traendone fondamentali insegnamenti per le future rivoluzioni proletarie. « Nel movimento rivoluzionario delle masse, benché esso non avesse raggiunto il suo scopo, Marx vide un'esperienza storica d'immensa portata, un deciso passo in avanti della rivoluzione proletaria mondiale, un tentativo pratico più importante di centinaia di programmi e ragionamenti. Analizzare questa esperienza, attingervi lezioni di tattica e rivedere in base ad essa la sua teoria: ecco il compito che s'impose a Marx » (Lenin). Fu allora che egli ed Engels approfondirono ulteriormente il concetto di dittatura del proletariato, mo­strando che « la Comune, specialmente, ha fornito la prova che la classe operaia non può impossessarsi puramente e semplicemente della macchina statale già pronta e metterla in moto per i suoi propri fini », bensì deve spezzarla, ed instau­rare una macchina statale del tutto nuova, originale, espressione specifica della dit­tatura del proletariato. Nel messaggio Marx esamina come i comunardi avessero adempiuto a questo compito, ed indaga l'essenza di quella prima gloriosa esperien­za di potere politico proletario:« Il suo vero segreto fu questo: che essa fu essenzial­mente un governo della classe operaia, il prodotto della lotta dei produttori contro la

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classe appropriatrice, la forma politica finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere l'emancipazione economica del lavoro.» Marx analizza da tale punto di vista l'abolizione dell'esercito permanente e la sostituzione ad esso del popolo in armi; l'eleggibilità e revocabilità immediata di tutti i funzionari statali (polizia com­presa), e l'equiparazione della loro retribuzione all'ammontare del salario operaio; l'abolizione del confessionalismo; l'abolizione del parlamentarismo, smascherato nella sua vera essenza antidemocratica ed antipopolare: « Decidere periodica­mente, per un certo numero di anni, quale membro della classe dominante oppri­merà, schiaccerà il popolo al parlamento, ecco la vera essenza del parlamentarismo borghese, non solo nelle monarchie parlamentari costituzionali, ma anche nelle repubbliche più democratiche » (Lenin) ..

Così, proprio quando la Comune, anch'essa «vinto vincitore», cadeva, Marx, sprezzando come sempre ogni opportunismo, proclamava solennemente: «Parigi operaia, con la sua Comune, sarà celebrata in eterno come l'araldo glorio­so di una nuova società. I suoi martiri hanno per urna il grande cuore della classe operaia. I suoi sterminatori, la storia li ha già inchiodati a quella gogna eterna dalla quale non riusciranno a riscattarli tutte le preghiere dei loro preti. » In quella tragica circostanza Marx fu ovviamente più che mai bersaglio di attacchi accaniti, e pochi giorni dopo la pubblicazione del messaggio scriveva ad un amico: «Tu sai bene che durante tutto il periodo della recente rivoluzione francese venivo continuamente denunciato dai giornali di Versailles 1 e par répercussion dai giornali di qui come il grand chef de l' lnternationale. Ed ora anche il messaggio che avrai ricevuto l Esso solleva un chiasso del diavolo, e io ho l'onore di essere in questo momento l'uomo più calunniato e più minacciato di Londra. Ciò fa veramente bene dopo quel noioso idillio ventennale nel pantano. Il foglio governativo - "The Observer" - mi minaccia di persecuzione legale. Che osino l Mi rido di queste canaglie l »

Conclusasi, dopo il congresso di Ginevra (1873), la breve ma gloriosa vita della prima Internazionale, Marx dedicò gli ultimi anni all'attività scientifica e ad un impegno politico tenace e costante nella guida dei partiti operai sorti in tutta Europa ed in America, i cui dirigenti migliori erano in continuo contatto episto­lare e personale con lui e con Engels. Grazie ad Engels, che aveva ceduto appena possibile le azioni, ereditate dal padre, dell'azienda di Manchester, poteva contare finalmente su di una rendita modestissima ma sicura. Liberatosi del «bestiale commercio », Engels si trasferì a Londra, ed i due amici collaborarono intensa­mente sia in campo teorico, sia nella guida del movimento operaio. Marx si ap­plicò al lavoro per la stesura degli altri volumi del Capitale, ma purtroppo la morte lo raggiunse prima che fossero pronti per la stampa. È di questi ultimi anni anche uno dei suoi capolavori: la critica scientifica della devia­zione socialdemocratica, che attua la collaborazione di classe con il capitalismo

1 Sede del governo controrivoluzionario.

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anziché accumulare tenacemente forze per la rivoluzione socialista: Randglossen zum Programm der deutschen Arbeiterpartei (Glosse marginali al programma del partito operaio tedesco, I875, pubblicate postume da Engels).

Anche per Engels furono anni di intensissima produzione scientifica: in questo periodo di quotidiana comunanza con Marx - circostanza che smentisce coloro che pretendono di vedervi un pensiero sostanzialmente non marxista- egli compose tra le altre opere una serie di saggi (I877-78) contro un teorico della socialdemocrazia, Eugen Diihring, poi raccolti in volume con il titolo Herrn Eugen Diihrings Umwalzung der Wissenschaft. Philosophie. Politische Oekonomie. Sozialismus (Il rovesciamento della scienza ad opera del signor Eugen Diihring. Filosofia. Economia politica. Socialismo; il titolo corrente ed universalmente accettato dell'o­pera è Anti-Diihring). Si tratta di un contributo fondamentale al socialismo scienti­fico ed al materialismo, del quale, insieme agli altri scritti di Engels di filosofia della natura e della scienza, si parla più estesamente nel prossimo capitolo ( ove si accennerà pure alla figura e al pensiero di Diihring).

Karl Marx si spense il I 4 marzo I 8 8 3 ; fu tumulato nel cimitero londinese di Highgate, ove i suoi resti ancora si trovano. L'amico, compagno di pensiero e di lotta per tutta una vita, Friedrich Engels, tenne una brevissima orazione funebre che sintetizzava l'opera di Marx, ed alla quale cediamo la parola: «Così come Darwin ha scoperto la legge dello sviluppo della natura organica, Marx ha sco­perto la legge dello sviluppo della storia umana cioè il fatto elementare, sinora nascosto sotto l'orpello ideologico, che gli uomini devono innanzi tutto mangiare, bere, avere un tetto e vestirsi, prima di occuparsi di politica, di scienza, d'arte, di religione, ecc. ; e che, per conseguenza, la produzione dei mezzi materiali immedia­ti di esistenza e, con essa, il grado di sviluppo economico di un popolo e di un'epo­ca in ogni momento determinato costituiscono la base dalla quale si sviluppano le istituzioni statali, le concezioni giuridiche, l'arte e anche le idee :religiose degli uomini, e partendo dalla quale esse devono venir spiegate, e non inversamente, come si era fatto finora.

« Ma non è tutto. Marx ha anche scoperto la legge peculiare dello sviluppo del moderno modo di produzione capitalistico e della società borghese da esso generata. La scoperta del plusvalore ha subitamente gettato un fascio di luce nell'oscurità in cui brancolavano prima, in tutte le loro ricerche, tanto gli econo­misti classici che i critici socialisti.

«Due scoperte simili sarebbero più che sufficienti a riempire una vita. Fortunato chi avesse avuto la sorte di farne anche una sola. Ma in ognuno dei campi in cui ha svolto le sue ricerche - e questi campi furono molti e nessuno fu toccato da lui in modo superficiale - in ognuno di questi campi, compreso quello delle matematiche, egli ha fatto delle scoperte originali.

« Tale era lo scienziato. Ma lo scienziato non era neppure la metà di Marx. Per lui la scienza era una forza motrice della storia, una forza rivoluzionaria. Per

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La maturità di Marx

quanto grande fosse la gioia che gli dava ogni scoperta in una qualunque disciplina teorica, e di cui non si vedeva forse ancora l'applicazione pratica, una gioia ben diversa gli dava ogni innovazione che determinasse un cambiamento rivoluzio­nario immediato nell'industria e, in generale, nello sviluppo storico. Così egli seguiva in tutti i particolari le scoperte nel campo dell'elettricità e, ancora in que­sti ultimi tempi, quelle di Marcel Deprez.1

« Perché Marx era prima di tutto un rivoluzionario. Contribuire in un modo o nell'altro all'abbattimento della società capitalistica e delle istituzioni statali che essa ha creato, contribuire all'emancipazione del proletariato moderno al quale egli, per primo, aveva dato la coscienza delle condizioni della propria situazione e dei propri bisogni, la coscienza delle condizioni della propria liberazione: questa era la sua reale vocazione. La lotta era il suo elemento. Ed ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno combattu­to. La prima "Rheinische Zeitung " nel I 842, il "Vorwarts ! " di Parigi nel I 844, la "Deutsche Briisseler Zeitung "nel I847, la "Neue Rheinische Zeitung" nel I 848-49, la "New York Tribune" dal I 8 52 al I 86I e, inoltre, i numerosi opuscoli di propaganda, il lavoro a Parigi, a Bruxelles, a Londra, il tutto coronato dalla grande Associazione internazionale degli operai, ecco un altro risultato di cui co­lui che lo ha raggiunto potrebbe esser fiero anche se non avesse fatto nient'altro.

« Marx era perciò l'uomo più odiato e calunniato del suo tempo. I governi, assoluti e repubblicani, lo espulsero, i borghesi, conservatori e democratici radi­cali, lo coprirono a gara di calunnie. Egli sdegnò tutte queste miserie, non prestò loro nessuna attenzione, e non rispose se non in caso di estrema necessità. È morto venerato, amato, rimpianto da milioni di compagni di lavoro rivoluzionari in Europa e in America, dalle miniere siberiane sino alla California. E posso aggiun­gere, senza timore: poteva avere molti avversari, ma nessun nemico personale.

« Il suo nome vivrà nei secoli, e così la sua opera! »

I Marcel Deprez (I84~-I9I8) fu un fisico francese, inventore di vari apparecchi di misura meccanici ed elettrici. Nel I 88z, con la collabora-

zione di J acques Arsène d' Arsonval (I 8 5 I- I 940 ), realizzò un nuovo tipo di galvanometro ancora oggi denotato con i loro due nomi.

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CAPITOLO QUI N DICESIMO

EtJgels e la dialettica della tJatura

I · CONSIDERAZIONI GENERALI

Di Friedrich Engels (182.0-95) si è già parlato a lungo nel capitolo Iv, trat­tando della sua formazione, del suo incontro con Marx e della esemplare col­laborazione (scientifica e politica) che i due autori seppero realìzzare fra loro a partire dal 1844. A lui si è inoltre fatto più volte riferimento nel capitolo pre­cedente, dove si sono fra l'altro riportati - a chiusura del capitolo stesso -ampi stralci dell'orazione funebre che Engels pronunciò sulla tomba dell'amico scomparso. Ora però riteniamo necessario riprendere in esame il suo pensiero, con specifico riferimento alle ultime fasi di esso, sia per illustrarne la notevolis­sima importanza entro lo sviluppo della filosofia e della scienza della seconda metà dell'Ottocento, sia per discutere e chiarire i gravi equivoci che si sono da tempo formati intorno alla figura di Engels.

Questi equivoci riguardano da un lato la sua attività di studioso, dall'altro la sua attività di uomo politico, contro le quali sogliano venire sollevate fortis­sime critiche che mirano, in ultima istanza, a contrapporlo a Marx. Se valide, tali critiche dimostrerebbero non solo che Engels non riuscì a comprendere il nucleo più profondo del pensiero dell'amico, ma che anzi lo travisò radical­mente aprendo la via a tutte le false interpretazioni di esso che, nel corso degli anni, risultarono tanto nocive al movimento operaio. Ne è scaturito un « pro­blema di Engels » che non può venire eluso da chi intenda studiare seriamente la storia del pensiero ottocentesco.

Le critiche concernenti l'attività più propriamente teoretica del nostro autore possono venire riassunte in due accuse fondamentali: quella di essere stato un positivista e quella di essere stato un semplice ripetitore di Hegel.

Ebbene, la nostra opinione al riguardo è che entrambe abbiano un certo fondamento, ma che, esaminate con rigore obbiettivo, non valgano affatto a porre in luce due aspetti negativi della problematica engelsiana. AI contrario, noi riteniamo che questi aspetti rivelino la presenza, nel nostro autore, di istanze della massima importanza storica e teoretica.

In effetti l'accusa di« essere stato un positivista »si regge, a ben guardare, su

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Engels e la dialettica della natura

di un solo argomento: sulla constatazione che Engels fu seriamente convinto dell'importanza dell'indirizzo positivistico, da intendersi - come già fu detto nel capitolo I di questa sezione, e come verrà più ampiamente spiegato nei capi­toli vr, vrr, VIII del prossimo volume - non tanto quale ben determinata dottrina filosofica, quanto piuttosto quale « atmosfera culturale » diffusasi in gran parte dell'Europa a seguito dei grandi successi conseguiti dalle ricerche scientifiche. Non ci nascondiamo che tale convinzione possa apparire gravemente limitativa al­l'idealista odierno, abituato ad accogliere a priori frettolose svalutazioni di tutto l'indirizzo positivistico; è ovvio però che essa non può venire considerata una colpa da chi si sia reso conto, senza pregiudizi, della serietà di molte istanze avanzate - sia pur rozzamente - nella seconda metà dell'Ottocento dalla co­siddetta «filosofia scientifica».

Nel capitolo xv del volume quarto si è cercato di spiegare, con argomenti non facili a confutarsi, che il positivismo rappresentò -- bene o male - nel secolo in esame, l'erede diretto dell'illuminismo, anche perché fu proprio esso a prose­guirne le più significative battaglie culturali: contro l'oscurantismo clericale, con­tro le vecchie metafisiche, a favore del pieno riconoscimento dell'importanza teorica e pratica della scienza, ecc. Come si potrà ora, se si accetta questa diagnosi dei fatti, rimproverare a, Engels di avere compreso che la nuova cultura di cui egli si faceva banditore (la cultura della classe operaia) avrebbe dovuto schie­rarsi, in questa battaglia, accanto ai positivisti, e non contro di essi (cioè non dalla parte dei risorgenti indirizzi irrazionalistici, programmaticamente rivolti a negare ogni valore alle coraggiose innovazioni degli illuministi)?

Sarebbe senza dubbio lecito fargli una colpa di questa scelta strategica, se egli non avesse nel contempo individuato le gravi deficienze filosofiche di molti scienziati positivisti e non avesse cercato coraggiosamente di smascherare i loro assunti metafisici. Ma, come vedremo fra poco, è certo che simile rimpro­vero non gli può venire in alcun modo mosso, ché anzi gran parte delle sue po­lemiche sono proprio rivolte contro un tal genere di scienziati.

L'accenno a queste polemiche ci porta- vorremmo dire, naturalmente- a prendere in esame la seconda delle due accuse a Engels poco sopra riferite: quella di essere stato « un semplice ripetitore di Hegel ». Essa si regge sul se­guente argomento: che Engels riconobbe- a differenza di molti presunti hege­liani odierni- il carattere seriamente razionalistico della filosofia hegeliana, e pensò di rivolgersi a questo tipo di razionalismo per attingervi alcuni fondamentali suggerimenti onde espletare il proprio programma di colmare le lacune lasciate aperte dal « razionalismo scientifico ».

Spiegheremo in seguito in che cosa consistevano queste lacune e discuteremo la validità o meno dei tentativi engelsiani di colmarle. È ovvio, comunque, che l'idea di fare appello a Hegel per espletare questo programma non può essere tacciata di mera « ripetizione » delle concezioni hegeliane; in effetti si radica in

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una situazione culturale totalmente diversa da quella in cui operava il filosofo di Stoccarda, e non può venire sensatamente confusa con essa.

È naturalmente lecito porre in dubbio che Engels sia riuscito davvero ad attuare il proprio ardito programma; non si può tuttavia negare che il problema di scoprire un nesso profondo tra le due vie aperte rispettivamente dal raziona­lismo scientifico moderno e dal razionalismo hegeliano (troppo semplicistica­mente contrapposti l'uno all'altro tanto dagli esaltatori dogmatici della scienza quanto dai suoi non meno dogmatici denigratori), costituiva ai tempi di Engels - e in certo senso costituisce ancor oggi- uno dei nodi più essenziali del pen­siero filosofico.

Le critiche concernenti l'attività di Engels come uomo politico (cioè come dirigente della classe operaia) si incentrano nell'accusa che, dopo la morte di Marx, egli ne avrebbe abbandonato le posizioni rivoluzionarie sul problema dello stato e del partito e, in luogo di esse, avrebbe proposto (o accettato) una visione sostanzialmente gradualista e parlamentaristica della lotta politica.

Allo scientismo- sul piano filosofico- corrisponderebbe una teoria poli­tica di tipo opportunistico; così come all'insistente richiamo allo hegelismo- in­teso come apriorismo- corrisponderebbe una sostanziale incomprensione dei nuovi processi storici emersi alla fine del secolo.

Data la connessione fra i due ordini di critiche, è chiaro che, se si respingono quelle di ordine teoretico, anche l'ultima accusa- concernente l'attività politica di Engels- perde gran parte della sua «plausibilità a priori». Né va d'altra parte taciuto che essa appare poco plausibile anche da un punto di vista pratico, se si tiene presente la stretta intesa che si mantenne fra lui e Marx - come è storicamente dimostrabile - anche quando, almeno dal I 8 7 5, fu soprattutto Engels a intervenire pubblicamente nel dibattito politico e nella polemica sia con avversari sia con dirigenti dello stesso movimento operaio. In realtà, proprio per il maggior rilievo che assunse l'iniziativa politica di Engels, le accuse alle sue posizioni sono sempre state il primo passo per una più generale critica al patri­monio teorico e politico del marxismo.

Ovviamente, per valutare in modo adeguato la fondatezza delle accuse solle­vate contro l'iniziativa politica di Engels occorrerebbe compiere una circostan­ziata analisi- che fuoriesce dai limiti della presente trattazione - della strategia da lui messa in atto dopo la scomparsa di Marx. Pur non potendoci addentrare in essa, riteniamo che una preliminare analisi del pensiero economico-politico del nostro autore possa servire a dissolvere molti equivoci al riguardo.

Essa varrà infatti a porre in luce la costante fedeltà di Engels agli insegna­menti di Marx, la sua piena consapevolezza dell'importanza decisiva di questo insegnamento, il tenace sforzo da lui compiuto - sin dal discorso pronunciato sulla tomba dell'amico- al fine di precisare e individuare il significato dell'ere­dità che questi aveva lasciato. È uno sforzo che testimonia perlomeno la sin-

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cerità e serietà con cui Engels cercò di penetrare l'enorme portata scientifica e pratica di tale eredità. Né va dimenticato che in successivi articoli e saggi egli continuò sempre a ribadire la necessità di stabilire esattamente i complessi rap­porti intercorsi tra Marx e il movimento operaio nonché tra Marx e la tradizione rivoluzionaria precedente.

Va infine fatto presente che la battaglia ideologica aveva per il nostro autore -come per ogni serio rivoluzionario- un'importanza primaria anche sul fronte politico. Egli era infatti convinto, e ben a ragione, che se il proletariato doveva assolvere adeguatamente ad una funzione di direzione della società, era neces­sario fornirgli degli strumenti teorici superiori a quelli posseduti dalla borghesia. Già il lavoro di Marx era stato espressamente finalizzato a questo scopo; dopo la sua scomparsa diventava indispensabile comprendere a fondo il suo retaggio cul­turale, difenderlo e arricchirlo, onde conservare ed accrescere la sua forza pro­pulsiva. Come vedremo nel seguito del capitolo, anche la difesa dell'unità tra sapere filosofico e sapere scientifico rientra per Engels in questo grandioso programma.

II · IL PENSIERO ECONOMICO-POLITICO DI ENGELS

NE,I SUOI ULTIMI VENT'ANNI

Come già venne ricordato nel precedente capitolo, la prima Internazionale (che era stata fondata nel I864) cessò la propria attività nel 1873. Due anni più tardi, nel congresso di Gotha del maggio 1875, si realizzò l'unificazione della socialdemocrazia tedesca sulla base di un programma che sostanzialmente igno­rava le posizioni teoriche e politiche di Marx e di Engels. Tale programma doveva purtroppo servire di modello a vari altri partiti socialisti proprio perché in quell'epoca la classe operaia tedesca era universalmente riconosciuta come la più agguerrita sia sul piano organizzativo che su quello ideologico1•

Engels riuscì a comprendere subito la gravità dei pericoli che si celavano dietro questa svolta del movimento socialista e la necessità di combatterli. Si può dire che tale consapevolezza stia alla base di tutta l'attività che egli svolse con straordinario fervore dal 1875 fino alla morte, sia in campo teorico sia in campo direttamente politico (si ricordi che Marx, negli ultimi anni della sua vita, dovette invece concentrare gran parte delle proprie forze nella ricerca scientifica per la stesura degli ultimi volumi del Capitale).

I Ha così inizio una nuova fase « socialde­mocratica » del movimento operaio europeo. Que­sta nuova fase riuscirà a darsi una vera e propria organizzazione solo nel 1889, dopo che all'inter­no dei singoli paesi si sarà consumata un'esperien­za di lotta di classe, politica e ideologica, di note­voli proporzioni. Nel luglio di tale anno si terrà infatti a Parigi un congresso internazionale dei

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movimenti socialisti che fonderà la seconda In­ternazionale. Questa - diversamente dalla prima e poi dalla terza Internazionale - non ebbe una struttura centralizzata, sicché ogni partito ade­rente ad essa restava completamente autonomo nelle proprie decisioni e nelle prese di posizione politiche.

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Engels e la dialettica della natura

Nella nuova situazione che si era così venuta creando, Engels, sollecitato da amici, accettò con notevole sacrificio di sospendere gli studi di carattere scienti­fico che stava ormai conducendo seriamente da anni (nel 1873 aveva iniziato la stesura dei primi appunti di un'opera- Dialektik der Natur [la Dialettica della natura] - che non riuscì mai a condurre a termine pur lavorandovi, ma con nu­merose interruzioni, fino al I 8 8 3 e che uscirà solo nel nostro secolo, in edizioni sempre incomplete sebbene via via migliorate). Tale sacrificio gli permise di utilizzare la sua preparazione filosofica e scientifica per comporre una serie di articoli per il giornale del partito socialista tedesco « Vorwiirts » («Avanti»), ri­volti a esaminare e criticare le teorie di Diihring1 ; trattasi dei saggi, cui si è già fatto cenno nell'ultimo paragrafo del capitolo precedente, che vennero poi raccolti nel volume universalmente noto col titolo di Anti-Duhring, pubblicato nel 1878. Come sottolinea lo stesso autore nella prefazione alla seconda edizione (1885), l'intero manoscritto venne da lui letto a Marx, e anzi« il decimo capitolo della sezione riguardante l'economia è scritto da Marx, e io ho dovuto solo, per considerazioni estrinseche, con mio rincrescimento, abbreviarlo ».

Riservandoci di prendere in esame nel prossimo paragrafo la concezione generale della natura abbozzata nella prima sezione dell' Anti-Diihring, ci limi­tiamo per ora a sottolineare l'importanza anche della seconda e della terza, ri­spettivamente dedicate all'economia politica e al socialismo. Nel 188o il nostro autore ne stralciò alcune parti (dall'introduzione e dalla terza sezione) racco­gliendole in un opuscolo che venne pubblicato in quello stesso anno, tradotto in francese da Paul Lafargue, genero di Marx, con il titolo Socialisme utopique et socialisme scientiftque (Socialismo utopistico e socialismo scientifico). Due anni più tardi

r Eugen Karl Diihring (1833-1921) raggiun­se, malgrado la cecità da cui era affetto, una certa notorietà come scrittore di filosofia e di economia politica. Fu per qualche anno libero docente al­l'università di Berlino, ma in seguito si trovò co­stretto ad abbandonarla a causa del grave urto sorto fra lui e Helmholtz (che era allora uno dei più potenti professori di tale ateneo). Carattere pre­suntuoso e diffidente, credette di scorgere ovunque nemici e denigratori del proprio pensiero e consi­derò se stesso come un autentico riformatore del­l'umanità. Le sue opere principali sono: Kritische Geschichte der Nationalokonomie und des Sozialismus (Storia critica dell'economia politica e del socialismo, 1871); Kursus der National-und-Sozialokonomie ein­schliesslich die Hauptpunkte der Finanzpolitik (Corso di economia politica e sociale, compresi i punti prin­cipali della politica finanziaria, 1873); Kursus der Phi­losophie als streng wissenschaftliche Weltanschauung und Lebensgestaltung (Corso di filosofia come visione ri­gorosamente scientifica del mondo e formazione di vita, 1875).

L'indirizzo filosofico diihringhiano occupa una posizione in certo senso intermedia fra criti-

cismo e positivismo. Si avvicina a Kant in quanto afferma che la ricerca filosofica deve iniziare da una scrupolosa analisi dei processi conoscitivi; si avvi­cina al positivismo, in quanto afferma che i risultati di tale ricerca vanno continuamente verificati me­diante un confronto con le teorie scientifiche.

Tra pensiero (che tende sempre verso l'illi­mitato) e realtà naturale (irrevocabilmente sotto­posta alla legge del numero determinato) sussiste­rebbe - secondo Diihring - una insormontabile antitesi; essi risulterebbero ciomalgrado legati uno all'altra da un'innegabile connessione interna (al rapporto meramente concettuale fra premessa e conseguenza corrisponderebbe per esempio il rap­porto reale tra causa ed effetto). Ciò proverebbe che sia il pensiero sia la realtà si basano su qualcosa di più profondo, costituente il nocciolo ultimo del­l'esistenza. Questo «qualcosa» sarebbe il vero oggetto della filosofia, capace di darle un'assoluta superiorità rispetto a tutte le scienze. Proprio per­ché si occupa di tale «fondo dell'esistenza», essa risulterebbe automaticamente in grado di fornirci una spiegazione completa ed esauriente di tutto l 'universo.

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Engels e la dialettica della natura

lo stesso Engels lo rielaborò in forma definitiva dandogli il titolo Die Entwick­lung des Sozialismus von der Utopie zur Wissenschaft (L'evoluzione del socialismo dal­l'tttopia alla scienza). Il volumetto ebbe una diffusione enorme, paragonabile a quella del Manifesto. Engels scrisse un'ampia prefazione all'edizione inglese del 1892, in cui confermò la validità del marxismo anche contro le nuove posizioni agnostiche e antiscientifiche che allora riemergevano nella pubblicistica di par­tito e nella cultura accademica.

Vale la pena far presente che, contrariamente all'atteggiamento di altezzoso disprezzo che Duhring aveva verso gli utopisti, Engels fa il più completo recu­pero del pensiero politico e teorico progressista e in modo particolare degli uto­pisti (ai quali si farà cenno nel capitolo 111 del volume sesto), di cui mette in rilievo i grandi meriti. Questo approccio dialettìco e materialista alla storia del pensiero permette a Engels di rielaborare le più importanti posizioni teoriche del socia­lismo, precisando che solo al grado di sviluppo raggiunto dalla società verso la metà dell'Ottocento «il socialismo non si presentava più come la scoperta oc­casionale di questo o quell'altro cervello geniale, ma come il n~cessario portato della lotta fra le due classi formatesi storicamente, fra il proletariato e la bor­ghesia ... Il suo compito era quello di scoprire, nella situazione economica creata in questo modo, gli elementi per la soluzione del conflitto. Ma con questa con­cezione materialistica il socialismo esistito fino allora era altrettanto inconciliabile, quanto la concezione della natura, propria del materialismo francese, era incon­ciliabile con la dialettica e con le scienze naturali moderne».

Come già sappiamo, Marx riuscì a curare personalmente la pubblicazione soltanto del primo volume del Capitale. Due mesi dopo l~ sua morte (14 marzo 1883), Engels inizia la redazione degli altri due volumi. Il lavoro che deve com­piere per condurre a termine la stesura dell'opera è enorme: non si tratta solo di racc.ogliere e ordinare degli appunti, ma di ristrutturare una parte del materiale e, in certi casi, di integrare o scrivere interi capitoli. Non è solo per un dovere di amicizia che Engels dedicherà il suo tempo migliore a tale fatica, ma per il fatto di ritenere quest'opera l'arma teorica decisiva per il proletariato: l'opera in cui Marx ha raggiunto i risultati più completi e persuasivi del lavoro di tutta la sua vita.

È noto che Engels subito dopo la pubblicazione del primo volume si era adoperato per infrangere il « muro di silenzio » della pubblicistica, e non solo di quella borghese. Il Capitale non fu allora ritenuto, da gran parte dei dirigenti del movimento operaio, lo strumento fondamentale per conoscere la società borghese. L'impegno messo da Marx nella pubblicazione francese del Capitale io dispense- perché fosse diffuso e letto dagli operai- è noto e significativo. Orbene, Engels riuscì a dimostrare l'importanza scientifica e politica di questa opera come nessun altro; ne riconobbe la. centralità perché solo con il Capitale si dimostra che « il socialismo non è una chimera di sognatori, ma lo scopo finale e il risultato inevitabile dello sviluppo delle forze produttive nella società con-

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Engels e la dialettica della natura

temporanea» (Lenin). L'accettazione del Capitale nella integralità delle analisi ivi contenute è ciò che caratterizza la posizione di Engels rispetto a tutti i mar­xisti della seconda Internazionale, differenziandolo nettamente da essi.

Nel I896, un anno dopo la morte di Engels, Eduard Bernstein (I85o··I932) avanzerà ufficialmente la proposta di una revisione del marxismo, in una serie di articoli sulla « Neue Zeit ». Ebbene, al centro della discussione, che impegnerà tutti i dirigenti del movimento operaio europeo, si trova soprattutto l'esame del Capitale, in particolare dei volumi pubblicati da Engels e delle integrazioni da lui apportatevi, in relazione ai nuovi fenomeni emersi nell'economia mondiale.

Riteniamo opportuno soffermarci su questo problema, perché è alla base di tutte le più importanti critiche rivolte al pensiero politico dell'ultimo Engels. Questi, nell'ampia prefazione al 3 ° libro, pubblicato nel I 894, e nei Complementi e aggiunte pubblicati postumi nel I 896, rispose, in modo adeguato, alle di­verse critiche rivolte all'opera di Marx; soprattutto individuò con acutezza la matrice ideologica di queste critiche. Coloro che hanno avanzato rilievi o riserve, da Conrad Schmidt (I863-I932) a Werner Sombart (I863-194I) e Achille Loria (I857-1943)- rilievi e riserve ripresi poi da Bernstein ·-partono da un presup­posto di carattere generale che mette in discussione la possibilità stessa di un'eco­nomia come scienza. Questi critici considerano il Capitale come un insieme di « sofismi »,o una« finzione», o una« ipotesi»; affrontano cioè l'esame dell'opera marxiana sulla base di una già raggiunta revisione pragmatistica del positivismo stesso, che ha nella critica del sapere scientifico il suo elemento più caratteristico. Sulla base di questa posizione antipositivistica si tenta poi una parziale utilizzazione del marxismo: come canone interpretativo o come ipotesi di lavoro per circoscritte analisi economiche da verificare, o come sociologia da usare per la spiegazione di fenomeni sociali ecc. Si critica insomma Engels come positivista,proprio in quanto del positivismo si respinge l'elemento più valido, cioè la riconosciuta razionalità del processo storico e la completa conoscibilità della società.

La « revisione » del marxismo, iniziata da Bernstein, è operata sul terreno di una mediazione culturale e poli~ica fra le posizioni di Marx e le diverse eredità culturali « nazionali ». È una operazione « riduttiva », in quanto si tende a non riconoscere validità proprio agli elementi originali, di novità teorica, portati da Marx ed Engels, ma al massimo si rinnova la tradizione culturale borghese1 •

1 Può essere interessante segnalare che Bernstein era stato un fervente ammiratore di Diihring, da cui poi si allontanò non per una rag­giunta consapevolezza dei suoi limiti teorici, ma solo per l'approdo antisemita del pensatore sud­detto. Ecco le parole che egli stesso scrisse sull'ar­gomento:« Posso ben dire che per la propagazione di questo libro [Corso di economia politica e del socialismo, di Diihring], nelle file della democrazia sociale nessuno ha fatto più di me, e nessuno più di me ha contribuito al culto di Diihring, che nella

metà del decennio dal 1870 al x88o aveva invaso una serie di compagni attivi. Per mezzo mio quasi tutti i più noti compagni, che si riscaldavano più o meno per Diihring . .. ebbero conoscenza del suo scritto socialistico, e da me molti socialisti, studenti e non studenti, tedeschi e stranieri, specie russi, furono determinati a frequentare i corsi di Diihring. Nondimeno io mi devo difendere dal­l'accusa di aver mai accettato, o propagandato esclusivamente, le speciali opinioni socialistiche o "societarie" di Diihring. Giacché quello che tra t-

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Engels e la dialettica della natura

Orbene Engels ebbe l'incontestabile merito di individuare per primo e su­bito non solo i limiti.filosofici, ma anche gli sbocchi politici di questi revisionisti, proprio come aveva fatto per Diihring. Cercò pertanto di rispondere anche ad essi con lo stesso vigore polemico che aveva usato nell'opera anti-diihringhiana.

È proprio questa esigenza di controbattere con rigore scientifico i loro argo­menti che lo porta a riconoscere francamente che si è in presenza di alcuni feno­meni politici ed economici nuovi (il problema della borsa, il capitalismo di stato, ecc.), i quali richiedono un approfondimento delle indagini di Marx. Questo approfondimento non significa « abbandono » delle teorie svolte dal Capitale (in particolare della teoria del valore), ma applicazione di esse alla nuova situazione.

Seguendo una tale linea di ricerca, Engels riesce a individuare con mirabile precisione qual è la tendenza fondamentale dei processi economici che stanno emergendo nell'economia mondiale della fine del secolo. «Lo sviluppo econo­mico della nostra società contemporanea,» egli scrive, «porta sempre più alla concentrazione, alla socializzazione della produzione in moderne aziende che non possono più venire dirette da singoli capitalisti », al che deve aggiungersi il peso sempre più rilevante che assume io stato negli affari economici. Sull'im­portanza di questi risultati ci sembra pienamente condividibile il giudizio che ne darà Lenin: «È stato individuato qui l'elemento più importante nella valutazione teorica del moderno capitalismo, ossia dell'imperialismo, e cioè che il capitalismo si va trasformando in capitalismo monopolistico ... [l'analisi di Engels] dimostra con quale attenzione e ponderatezza egli seguì i cambiamenti del nuovo capita­lismo e come seppe pertanto anticipare in una certa misura i compiti della nostra epoca imperialista. »

Le critiche al Capitale e alle posizioni politiche di Marx tendono sostanzial­mente a dissociare il marxismo, come pensiero scientificamente fondato, dal movimento operaio. È indubbio che questa operazione sia purtroppo sostan­zialmente riuscita, perché avvenne su un terreno politico favorevole. Infatti il movimento operaio europeo si è incontrato con teorie politiche estranee o pole­miche verso il marxismo: illassallismo1 in Germania, il proudhonismo in Francia, il mazzinianesimo e l'anarchismo nei paesi latini, il tradeunionismo in Inghilterra.

teneva me, e con me anche altri dal farlo, non erano ragioni teoriche, non era una convinzione della loro in­sufficienza basata sopra indagine critica [corsivo no­stro], ma il fatto che a noi le riserve teoriche e le speculazioni dell'avvenire di Diihring sembravano come " questioni aperte " ... »

I Ferdinand Lassalle (1825-64) fu studioso di problemi filosofici, politici, giuridici, nonché coraggioso uomo di azione. Il suo pensiero si muove nell'ambito dell'hegelismo, avvicinandosi però, sotto certi aspetti, più a Fichte che a Hegel. Partendo dalla concezione hegeliana dello stato, Lassalle sostiene che soltanto Io stato possiede la forza di liberare le classi lavoratrici; sostiene inol-

tre, richiamandosi palesemente agli ideali illumi­nistici, che la libertà delle classi lavoratrici sarà in grado di realizzare« la libertà stessa dell'umanità».

Sulla base di queste idee, egli si sforzò di imprimere un carattere nazionale al socialismo ( « lassallismo » o « socialismo di stato » ), giun­gendo perfino a tentare una forma di compromesso fra la classe operaia tedesca e il governo di Bismarck. Con tale tentativo dimostrò chiaramen­te di non aver saputo distinguere l'idea astratta di stato (hegelianamente inteso) dalle forme ben de­terminate che tale idea assume nel corso effettivo della storia.

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Tutte queste posizioni sono riconducibili a teorie premarxiste e prescientifiche, al « socialismo piccolo-borghese », alle posizioni degli utopisti il cui limite fon­damentale è stato, secondo quanto è detto nel Manifesto, quello di non individuare « dalla parte del proletariato nessuna funzione storica autonoma, nessun movi­mento politico che gli sia proprio».

La lotta di Engels contro queste correnti costituisce un elemento di conti­nuità con tutta l'opera e l'azione politica di Marx prima e durante la direzione esercitata alla testa della prima Internazionale. L'analisi che il Manifesto compie del « socialismo piccolo-borghese » è ulteriormente approfondita e precisata nel corso degli ampi dibattiti che hanno caratterizzato gli ultimi sei anni di vita di Engels e che coincidono con i primi sei anni della seconda Internazionale. Engels con rigore scientifico comprende molto bene che gli atteggiamenti anticapitali­stici del « socialismo piccolo-borghese » non nascono né da una opposizione antagonistica all'ordinamento borghese, né da una particolare e solidale indigna­zione verso la povertà della classe operaia. La protesta piccolo-borghese è origi­nata dallo sviluppo capitalistico industriale che declassa ed emargina questo ceto sociale, rispetto a precedenti posizioni di prestigio o privilegio.

La condizione del piccolo-borghese è, alla radice, contraddittoria, perché come piccolo produttore è parte integrante dell'ordine capitalistico, sia pure a un basso livello; d'altra parte si differenzia dal proletariato ma tende « natural­mente» a integrarsi a più alti livelli dell'ordine borghese.

Se il processo economico e la lotta sociale e politica emargina e mette in crisi questo ceto, allora si instaura un rapporto di solidarietà fra esso e il prole­tariato, di cui vengono anche assunti atteggiamenti sovversivi anticapitalistici. Sul piano ideologico, l'elemento costante e comune del «socialismo piccolo­borghese » è però rappresentato da una concezione che fa perno sull'idea di stato, sottratto alla lotta di classe. In altri termini, viene negata la necessità della. dittatura del proletariato. Su questo terreno avviene una netta differenziazione fra la posizione politica e teorica di Engels e quella di molti dirigenti della se­conda Internazionale: « Il punto di dissidio è prettamente di principio: si deve condurre la lotta come lotta di classe del proletariato contro la borghesia, oppure deve essere permesso di rinunciare in modo opportunistico al carattere di classe del movimento e al programma, per avere più voti, più aderenti? »

La polemica, strenua e costante, che Engels condusse contro le correnti sopraelencate è nota e documentabile. Costituisce il dato dominante della sua presenza nella seconda Internazionale: presenza che non costituì mai accetta­zione, né parziale né totale, dei principi antimarxisti di tale organizzazione.

È vero che egli mantenne stretti rapporti epistolari con tutti i più importanti dirigenti dei singoli partiti operai, e rispose alle molte richieste di aiuto politico, direttamente, precisando di volta in volta che spettava ad ogni partito la respon­sabilità della direzione politica nel proprio paese. Ciò non esclude però che En-

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gels abbia sempre combattuto, da militante, perché fossero acquisiti e difesi i principi teorici fondamentali del marxismo. Inoltre intervenne, anche polemica­mente, per difendere le nuove posizioni tattiche e strategiche che la mutata situazione richiedeva. Egli ebbe una precisa percezione delle condizioni della lotta politica del proletariato: «L'era delle barricate e della battaglia di strada è passata per sempre; se la truppa si batte, la resistenza diventa follia. Dunque, necessità di trovare una nuova tattica rivoluzionaria. »

Questa ricerca di metodi nuovi ma non perciò meno rivoluzionari compor­tava, secondo Engels, non solo una più attenta ricognizione delle condizioni sociali e politiche in cui avvenivano le lotte degli operai e dei contadini, ma anche un approfondito esame di problemi di tattica e di strategia militare (perché « da quel tempo [I 848] si sono verificati moltissimi altri cambiamenti, e tutti a favore dell'esercito ... Dal lato degli insorti, al contrario, tutte le condizioni sono di­ventate peggiori»), onde si può dire che egli fu il primo a rivendicare- anche sul terreno militare- una autonomia di posizioni da parte del proletariato e dei partiti proletari.

È vero inoltre che non oppose un rifiuto di principio alla lotta democratica, ma solo perché ritenne che, nelle mutate condizioni della lotta politica, lo stesso suffragio « da strumento di inganno qual è stato sin qui », avrebbe potuto venire trasformato « in strumento di emancipazione ». Fu proprio questa convinzione a tàrgli sostenere che, al fine di garantire sul serio l'autonomia di lotta e di posi­zioni politiche e ideologiche al proletariato, bisognava combattere su due fronti: contro l'opportunismo di coloro che volevano limitare la lotta all'ambito parla­mentare, e contro il massimalismo di chi non riconosceva validità alla lotta demo­cratica e si trincerava in una astratta difesa dei principi.

La precisa critica engelsiana dell'operaismo dei piccolo-borghesi, va inte­grata con la costante critica che Engels fece dell'anarchismo e che così sintetizzò in una lettera a Theodor Friedrich Cuno (1847-1934): « Poichèper Bakuninil male fondamentale è lo stato, non si deve far nulla che possa mantenere in vita lo stato, e cioè uno stato qualsiasi, repubblica, monarchia o quale altro si voglia. Perciò, dunque, completa astensione da ogni politica. Compiere un atto politico, ma specialmente partecipare a una elezione, sarebbe un tradimento dei principi. Si deve far propaganda, caricare lo stato di insolenze, organizzarsi; e quando si avranno tutti gli operai al proprio lato, cioè la maggioranza, allora si destituiranno tutte le autorità, si distruggerà lo stato, si porrà al posto di esso l'organizzazione dell'Internazionale. Questo grande atto, col quale incomincia il millennio, si chiama la liquidazione sociale. Tutto questo sembra estremamente radicale, ed è così semplice che si può imparare a memoria in cinque minuti, motivo per cui questa teoria bakuniniana ha trovato rapidamente degli aderenti in Italia e in Spagna, tra giovani avvocati, laureati e altri dottrinari. Ma la massa degli operai non si lascerà mai persuadere che gli affari pubblici del suo paese non sono anche

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in pari tempo i suoi propri affari; gli operai sono di loro natura politici, e se qualcuno propone loro di non occuparsi di politica, essi finiranno con l'abbando­narlo. Predicare agli operai l'astensione dalla politica in ogni circostanza, significa spingerli nelle braccia dei preti e dei repubblicani borghesi. »

Agli operai Engels sottolineò sempre la natura di classe dello stato e il fatto che: « La repubblica, come qualsiasi altra forma di governo, è determinata da ciò che contiene; finché è la forma del dominio borghese, ci è sempre ostile come qualsiasi monarchia (salvo la forma di questa ostilità). È dunque una illusione del tutto gratuita considerarla come una forma socialista per sua essenza . . . Po­tremo strapparle delle concessioni, ma mai incaricarla di assolvere ai nostri bi­sogni. » Agli anarchici e ai massimalisti fece presente che il terreno della lotta democratica rimane fondamentale per il proletariato. La lotta democratica fino in fondo può realizzare concretamente una rivoluzione permanente; non ci sono panacee teoriche che possano sostituire l'esperienza rappresentata dalla lotta so­ciale e politica del proletariato: la scelta della « democrazia » come terreno di lotta non è stata- da parte della borghesia- spontanea, ma obbligata, proprio dalla lotta del proletariato. Appunto per questo la borghesia tende a fuoruscire dai limiti istituzionali da essa stessa prima «accettati». Per realizzare questa lotta, il proletariato ha bisogno di un proprio strumento, il partito di classe: « Perché il proletariato, al momento decisivo, si dimostri sufficientemente forte e possa riportare la vittoria, è necessario che crei un proprio partito, separato da tutti gli altri e che si contrapponga a questi altri, un partito che si riconosca come partito di classe. » Tale partito dovrà mantenere- come direttrice di fondo- un orientamento internazionalista, nella ferma convinzione che la classe operaia potrà raggiungere il socialismo con una battaglia che durerà per un'intera epoca storica e che coinvolgerà non solo una lotta nazionale, come aveva pensato la piccola borghesia, ma una lotta che impegna il proletariato unito, di tutti i paesi, contro il « capitalismo collettivo ».

Non possiamo qui elencare, per evidenti limiti di spazio, tutti gli scritti nei quali Engels sviluppò e cercò di diffondere durante il ventennio in esame le proprie concezioni economico-politiche. Fra essi vanno annoverati- oltre, be­ninteso, alle introduzioni e i complementi ai volumi del Capitale personalmente curati dal nostro autore - numerosi articoli pubblicati su periodici tedeschi, inglesi, francesi, russi (« Sozialdemokrat », « Neue Zeit », « Vorwiirts », « The Labour Standard », « Almanach du Parti Ouvrier », ecc.); prefazioni a dedizioni, nella lingua originaria o in traduzione, a precedenti lavori propri o di Marx, per esempio alla prima edizione in lingua tedesca ( r 8 8 5) di La miseria della ftlosofta di Marx, alla traduzione in lingua inglese (r887) del proprio scritto La condizione della classe operaia in Inghilterra, alla traduzione, sempre in inglese (I 892 ), del pro­prio saggio L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza; discorsi, discussioni con vari capi del movimento operaio, e così via.

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Engels e la dialettica della natura

Ci limiteremo a ricordare i titoli di tre importanti lavori di argomento più propriamente filosofico:

Der Ursprung der Familie, des Privateingentums und des Staats (L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato, 1 8 84), che si propone di individuare la storicità delle tre componenti essenziali della società moderna; su questa impor­tante opera ritorneremo nel paragrafo IV.

Ludwig Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutschen Philosophie (Ludovico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, I 886), che rivendica la necessità di uno studio approfondito del pensiero teorico tedesco il quale aveva costituito la base preparatoria della nascita del socialismo scientifico; quest'opera costituirà uno dei punti di riferimento (gli altri due essendo l' Anti-Diihring e la Dialettica della natura) per l'esame- cui sarà dedicato il prossimo paragrafo­della concezione teoretica generale del nostro autore.

Zur Ceschichte der Urchristentums (Per la storia del cristianesimo primitivo, I 895 ), che è la conclusione di studi condotti nel corso di parecchi anni secondo i canoni del materialismo storico.

Pur non essendo, come si è detto, di argomento direttamente politico, gli scritti testé citati non potrebbero venire compresi nel loro autentico significato se non venissero inseriti nel quadro- che poco sopra cercammo di tratteggiare nelle sue grandi linee- del pensiero politico del grande rivoluzionario. Gli argo­menti ivi trattati non costituiscono infatti, nella mente del loro autore, semplici temi di speculazioni astratte (di per se stesse più o meno interessanti), ma co­stituiscono parti ineliminabili di un programma essenzialmente unitario, come già si è accennato alla fine del paragrafo precedente: programma diretto con fermezza e costanza a fare del proletariato la classe dirigente della società mo­derna e proprio perciò il portatore di una nuova cultura, seriamente impe­gnata su tutti i maggiori problemi della nostra epoca.

III · IL MATERIALISMO DIALETTICO ENGELSIANO

Per comprendere appieno il significato teoretico del materialismo dialettico engelsiano occorrerebbe tenere presente l'intero quadro dei dibattiti che ebbero luogo, particolarmente in Germania, nella seconda metà dell'Ottocento sui grandi temi del materialismo, del meccanicismo, dell'agnosticismo, dell'evoluzionismo e in genere sui rapporti fra scienza e filosofia. Purtroppo nella nostra trattazione alcuni di questi temi sono specificamente esaminati in capitoli successivi al pre­sente; così ad esempio la tesi, sostenuta nel modo più efficace da Emil Du Bois­Reymond, della esistenza di limiti invalicabili per la conoscenza scientifica verrà esposta solo nel capitolo VI del volume sesto. Occorre quindi che il lettore ci scusi se non riusciremo a chiarire fino in fondo - come sarebbe desiderabile -alcuni punti estremamente stimolanti del pensiero engelsiano, riservandoci di riprenderli in esame nel volume settimo.

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Una cosa va comunque tenuta fin d'ora presente: che Engels era ben consa­pevole dell'importanza di tali dibattiti e dei gravi pericoli che si celavano nelle incerte soluzioni che la borghesia tentava di fornire ai problemi da essi eviden­ziati. Di qui la sua profonda convinzione della necessità che anche il socialismo scientifico affrontasse in modo aperto questi problemi, sia smascherando le pseudo-soluzioni che la vecchia cultura si sforzava di elaborare in proposito, sia indicando, se non la loro soluzione, una via originale per trattarli con rinno­vato rigore razionale.

Proprio per porre in luce questa sua posizione nel contempo polemica e costruttiva- nella quale, comunque, la pars destruens antecede quella construens­non inizieremo il nostro discorso con l'esposizione delle «leggi generali» della dialettica, ma articoleremo la trattazione in base ai quattro punti seguenti: I) esame di alcune critiche particolarmente significative sollevate da Engels contro il materialismo meccanicistico; z) esame del suo modo di concepire i rapporti tra filosofia e scienza; 3) analisi del significato generale (filosofico) che egli attribuisce alla storicità della scienza; 4) cenno conclusivo al significato assunto, in questo quadro, dai principi generali del materialismo dialettico.

I) Il materialismo meccanicistico che Engels trova innanzi a sé presenta, come sappiamo, parecchie varianti: la più recente è quella del materialismo «biologico», che aveva costituito il centro della grande controversia scatenatasi in Germania verso il 18 5o (a cui è stato dedicato il capitolo IV del presente vo­lume), ripreso poi- sia pure con notevoli innovazioni- dal cosiddetto« ma­terialismo evoluzionistico » di Haeckel (del quale ci si occuperà nel capitolo x del volume sesto); un'altra variante è costituita dal « meccanicismo fisico », meno direttament~ conosciuto da Engels, a cui però egli fa non di rado riferi­mento col prendere in esame talune fondamentali concezioni di Helmholtz.

Se il nostro autore preferisce far convergere le proprie critiche sul materia­lismo meccanicistico del Settecento, è perché lo considera (e non certamente a torto) come una delle più ardite espressioni del pensiero della borghesia di quel secolo, di una borghesia cioè che stava- nella sua epoca- all'avanguardia del progresso civile. Ciò che egli intende in tal modo sottolineare è che la nuova concezione del mondo avanzata dal proletariato dovrà, per un lato, ricollegarsi alla più coraggiosa filosofia borghese (e perciò dovrà essere materialistica), per l'altro lato, differenziarsi nettamente da essa evitando- nella sua stessa imposta­zione- le difficoltà in cui tale filosofia si era imbattuta (per cui sarà, sì, una concezione materialistica, ma anche «dialettica»).

L'aver compreso l'insostenibilità, di fronte ai progressi conseguiti dalla scienza nella seconda metà dell'Ottocento, del vecchio materialismo meccanici­stico, costituisce a nostro parere un merito innegabile di Engels, tanto più se ricordiamo che egli, pur attentissimo studioso della produzione scientifica del­l'epoca, non era un autentico scienziato professionista. Il lettore che abbia se-

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guito i capitoli del presente volume dedicati alla crisi del meccanicismo- in parti­colare il capitolo x e il xn - si sarà reso certamente conto della complessità e profondità del dibattito di cui tale crisi rappresentò in certo senso la conclu­sione. È vero che Engels non sembra conoscere le opere di uno dei maggiori protagonisti di tale dibattito, Ernst Mach (il machismo verrà sottoposto ad ac­curata analisi, qualche decennio più tardi, da Lenin, continuatore in ciò della battaglia engelsiana), ed è altresì vero che suscita talvolta l'impressione di muo­versi ancora sulla sci.a delle vecchie obiezioni romantiche alla meccanica newto­niana; è tuttavia incontestabile che egli occupa nel dibattito in questione un posto di notevole rilievo sia per la finezza di alcune osservazioni particolari solle­vate contro il meccanicismo, sia per l'ampio respiro filosofico che dà alla propria polemica.

Ciò che lo distingue dai critici a lui contemporanei del meccanicismo fu soprattutto la preoccupazione di evitare il pericolo, che l'abbandono del mate­rialismo meccanicistico comportasse il simultaneo abbandono del materialismo sotto qualsiasi forma. Già ricordammo alla fine del capitolo xu che questo pe­ricolo era effettivamente presente in Mach, e vedremo che le· concezioni degli anti-meccanicisti furono non di rado utilizzate, nei dibattiti filosofici, quale stru­mento particolarmente « moderno >> per difendere la necessità di un ritorno allo spiritualismo e all'idealismo. Se Engels tentò di combattere alla radice questo pericolo, è perché egli ne comprendeva assai bene- in pieno accordo con Marx­tutta la gravità, rendendosi perfettamente conto delle conseguenze cui avrebbe potuto dare luogo non solo nell'ambito del pensiero scientifico-filosofico, ma pure in quello della politica.

Tra le varie obiezioni sollevate da Engels contro il meccanicismo, due me­ritano una particolare menzione. Una riguarda l'abuso del concetto « puramente soggettivo » di forza, acriticamente introdotto per spiegare tutti i fenomeni. «Noi,» egli scrive, «parliamo della forza muscolare, della forza di sollevamento del braccio, della forza di salto delle gambe, della forza di digestione dello sto­maco e del canale intestinale, della forza di secrezione delle glandole, e così via. In altri termini: per risparmiarci il compito di indagare la vera causa di una tra­sformazione prodotta da una funzione del nostro organismo, introduciamo una causa fittizia, una cosiddetta forza corrispondente alla trasformazione. Trasfe­riamo poi questo comodo procedimento anche al mondo esterno ed inventiamo così tante forze per quanti sono i fenomeni. » Il nostro autore non si rifiuta di riconoscere che il fisico e fisiologo Helmholtz (uno dei meccanicisti più diretta­mente coinvolti, come sappiamo, anche dalle critiche di Mach) cerca di usare il termine con maggiore cautela dei vecchi scienziati, connettendolo al concetto di legge; Engels nota però giustamente che questa cautela è ben lungi dall'eliminare tutte le anzidette difficoltà ad esso legate. «Noi facciamo frequentemente ricorso al nome di forza non perché abbiamo conosciuto fino in fondo la legge, ma pro-

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prio perché non abbiamo ancora messo in chiaro le "condizioni piuttosto compli­cate" di certi fenomeni. Esprimiamo così non la nostra scienza, ma la nostra mancanza di scienza in merito alla natura della legge e al suo modo di operare. In questo senso, come espressione abbreviata di un rapporto causale non ancora stabilito, come necessità del linguaggio, nell'uso corrente può passare. Ma solo in questo senso; al di là, c'è l'errore. »

È doveroso riconoscere la maturità critica presente nel brano testé citato; essa emerge con chiarezza ancora maggiore, se si tiene conto che Engels seppe distinguere, con rara precisione, il ruolo compiuto dal termine «forza» nella meccanica e nelle altre scienze. Si può notare che molte di queste acute osserva­zioni rimasero purtroppo inutilizzate dai contemporanei perché contenute in un testo (Dialettica della natura) che fu pubblicato solo nel nostro secolo, ma ciò non diminuisce ovviamente il merito del loro autore. « Nella meccanica si considerano date le cause del movimento e non ci si occupa della loro origine, ma solo dei loro effetti. Non vi è quindi nessun pregiudizio, per la meccanica in quanto tale, se si dà alla causa di un movimento il nome di forza; ma si è soliti trasferire questa denominazione anche alla fisica, alla chimica e alla biologia, e allora la confusione è inevitabile. »

Di importanza ancora maggiore è la seconda delle obiezioni engelsiane al meccanicismo. Essa ritorna più e più volte nei suoi scritti e si accentra sulla pretesa di questo indirizzo di ridurre tutti i tipi di movimento a moti meccanici, cioè a semplici cambiamenti di luogo. Poiché vi sono coinvolti alcuni problemi di fondo del pensiero filosofico-scientifico, ci sembra opportuno dedicarle uno spazio alquanto più ampio.

Cominceremo dunque con alcune interessantissime citazioni. « Ogni mo­vimento, » scrive Engels in uno dei frammenti raccolti nell'ultima parte della Dialettica della natura, «include in sé del movimento meccanico, cioè spostamento di parti grandi o piccole di materia, e il primo compito della scienza (ma anche soltanto il primo!) è di conoscere questo movimento meccanico, Questo movi­mento però non esaurisce il movimento in generale. Il movimento non è soltanto cambiamento di luogo: quando si va al di là della meccanica, è anche cambia­mento di qualità. » Il tema dell'irriducibilità dell'intera scienza alla meccanica continua dunque ad essere anche qui il leit-motiv dell'argomentazione di Engels. Ora egli aggiunge però qualcosa di nuovo: l'osservazione che l'anzidetta pre­tesa comporterebbe in ultima istanza la reintroduzione nella fisica ottocentesca di una delle più discutibili tesi della filosofia settecentesca (la tesi che « tutta la materia è costituita di particelle materiali identiche»): «È l'ignoranza dei nostri attuali scienziati di ogni filosofia che non sia la più ordinaria filosofia volgare ... a permettere loro di m~neggiare espressioni come "meccanico", senza ren­dersi conto, e senza neppur sospettare, quali conseguenze ultime così facendo si caricano sulle spalle. »

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Per comprendere l'importanza davvero fondamentale della polemica contro la riduzione di tutti i movimenti a cambiamenti di luogo, ci sembra opportuno accennare a una posizione pressoché antitetica a quella di Engels, sostenuta da un suo autorevole contemporaneo: vogliamo intendere quella dello psicologo Wilhelm Wundt (del quale si parlerà nel capitolo II del volume sesto). Ci var­remo all'uopo delle parole con cui un acuto epistemologo, Ernst Nagel, espone gli argomenti- apparentemente estranei ad ogni metafisica- di Wundt. Scrive dunque Nagel: «La sostanza del suo [di Wundt] ragionamento è la seguente: supponiamo di vedere un oggetto che subisca un cambiamento qualitativo, ad esempio che cambi di colore o di temperatura. Pur percependo il cambiamento, noi assumiamo tuttavia che l'oggetto rimanga in un qualche senso, il medesimo oggetto. Entro i limiti della nostra intuizione di quanto è successo, il cambia­mento- prosegue Wundt- è reso manifesto semplicemente dalla scomparsa di un oggetto fornito di certe qualità e dalla comparsa di un oggetto fornito di altre qualità. Il nostro convincimento che i due oggetti siano identici deve dunque basarsi su una qualche relazione concettuale che stabiliamo fra i due gruppi di qualità. Così la nostra intuizione del cambiamento porta a due oggetti, mentre la nostra concezione di esso ci porta a uno. Come si può conciliare la nostra intuizione con la nostra concezione? La conciliazione tentata col postulare una sòttostante sostanza, che non subisca variazioni, non è soddisfacente, perché tale sostanza sarebbe qualcosa di inconoscibile che trascende l'esperienza. Si dovrà dunque cercare entro l'esperienza stessa una soluzione alla difficoltà, e ciò col trovare qualche caratteristica fenomenica degli oggetti che possa venire intuita come su­scettibile di cambiamento e ciomalgrado lasci inalterati gli oggetti. Ma, secondo Wundt, l'unico aspetto per il quale si possa percepire un oggetto nell'atto di cam­biare pur percependo lo come identico a se stesso è il suo moto. " I cambiamenti di posizione sono gli unici cambiamenti intuibili delle cose, malgrado i quali le cose rimangono identiche a se stesse. " Ne segue che ogni cambiamento andrà riportato al moto. Una volta stabilito questo punto, diventa un gioco da bam­bini presentare in una veste prima facie plausibile la priorità della meccanica su ogni altra branca delle scienze naturali. »

L'argomentazione di Wundt, esposta da Nagel, serve a porre in luce che il grosso problema qui coinvolto è quellodell'autoidentità degli oggetti nell'atto stes­so in cui cambiano, cioè il problema del divenire come essere e non essere. Ma il lettore ricorderà che il divenire era proprio stato uno dei temi fondamentali della filosofia hegeliana, che aveva introdotto- per spiegarlo razionalmente- la lo­gica dialettica. Non possiamo quindi stupirei se Engels, posto di fronte a questo difficilissimo argomento, abbia ritenuto di dover ricorrere per l'appup.to a tale genere di logica, dalla quale risulta che il cambiamento di posizione (ossia quello meccanico) non è l'unico tipo di cambiamento capace di conciliare l'essere con il non essere.

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Considerato da questo angolo visuale, il carattere nuovo e innovatore del materialismo dialettico rispetto a quello meccanicistico emerge in tutte le sue implicazioni. Risulta chiaro che la vera radice da cui esso trae origine va cercata nella giusta esigenza di ampliare il concetto del divenire, riconoscendo che questo concetto - essenziale per la nostra concezione del mondo - non può venire arti­ficiosamente ristretto alla semplicistica nozione di cambiamento di luogo.

L'esigenza di ampliare le nostre categorie del conoscere fu in realtà presente in tutti i maggiori critici ottocenteschi del meccanicismo. L'abbiamo per esempio riscontrata in Mach, in particolare quando abbiamo sottolineato l'influenza su di lui esercitata da Darwin, in cui egli ammirava soprattutto la capacità di creare concetti biologici nuovi, non circoscrivibili nei vecchi schemi. Anche Engels prova nei confronti di Darwin un'ammirazione non minore di quella provata da Mach. Ma Engels sa cogliere, meglio di Mach, le incontestabili implicanze filosofiche dell'esigenza di ampliamento testé accennata; egli ha il merito- su cui sorvolano con troppa leggerezza i suoi avversari- di essersi reso conto che il nucleo centrale del grande dibattito intorno al meccanicismo riguardava proprio il concetto del divenire e, in quanto tale, andava al di là del campo solita­mente coinvolto dai puri dibattiti sc1entifici. Si potrà convenire o no sull'oppor­tunità del suo richiamo a Hegel, ma bisogna ammettere che questo richiamo vale almeno a porre in luce la vastità e profondità della questione.

z) Le ultime osservazioni testé compiute si connettono direttamente al secondo dei quattro punti elencati all'inizio del paragrafo, cioè al tema dei rap­porti tra scienza e filosofia. Engels è così fermamente convinto che debbano es­sere strettissimi, da far risalire gran parte dei difetti riscontrabili nella scienza della sua epoca all'artificiosa separazione introdotta fra le due discipline.

La sua polemica contro gli « scienziati positivisti » che credono di poter fare a meno della filosofia è vivacissima, e ancor oggi di notevole interesse. Il parere di Engels è che, pur proclamandosi liberi da ogni presupposto filosofico, in realtà essi sono condizionati da una cattiva filosofia(« cattiva» proprio perché accettata senza alcuna consapevolezza critica). «Gli scienziati,» egli scrive, « credono di liberarsi dalla filosofia ignorandola o insultandola. Ma poiché senza pensiero non vanno avanti e per pensare hanno bisogno di determinazioni di pensiero - e però accolgono inconsapevolmente queste categorie dal senso comune delle cosiddette persone colte, dominate dai residui di una filosofia da gran tempo tramontata, o da quel po' di filosofia che hanno obbligatoria­mente ascoltato all'università (che è non solo frammentaria, ma un miscuglio delle concezioni di persone appartenenti alle scuole più diverse, e spesso peggiori) o dalla lettura acritica e asistematica di scritti filosofici di ogni specie- non sono affatto meno schiavi della filosofia ma lo sono il più delle volte purtroppo della peggiore; e quelli che insultano di più la filosofia sono schiavi proprio dei peg­giori residui volgarizzati della peggiore filosofia ... »

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Engels e la dialettica della natura

Dopo queste tanto esplicite dichiarazioni, contenute nella Dialettica della natura, può stupire che il nostro medesimo autore abbia altrove proclamato (nell'Anti-Diihring) la fine della filosofia, sostenendo che di essa non resta più in piedi proprio nulla, fuorché «la logica formale e la dialettica. Tutto il resto si risolve nella scienza positiva e nella storia ».

Per spiegare la presenza in Engels di due atteggiamenti apparentemente così diversi, per non dire antitetici, dobbiamo riflettere sul fatto che egli si tro­vava a combattere su un doppio fronte: da una parte contro il tipo poco sopra accennato di scienziati (denigratori di tutte le filosofie ma in realtà schiavi delle peggiori di esse), da un'altra parte contro un tipo non meno pericoloso di filo­sofi, come appunto Diihring, i quali ritenevano di poter rinchiudere il mondo entro schemi rigidi e assoluti, ancora più dogmatici di quelli formulati da Hegel («con tutti i suoi deliri febbrili»). Ciò che Engels contrappone agli uni e agli altri è la costruzione di una scienza via via più consapevole dei propri fonda­menti, dei propri metodi di prova, della perenne mutabilità delle ipotesi di volta in volta introdotte nelle proprie teorie.

Se la polemica del nostro autore appare più spesso diretta contro gli scien­ziati anti-filosofi che non contro i filosofi anti-scienziati, la cosa dipende dal fatto che, a suo parere, una filosofia priva di interesse per la scienza risulterebbe priva di qualsiasi attualità («I risultati della moderna scienza della natura si impon­gono all'attenzione di tutti coloro che si occupano di questioni teoriche ... »), mentre una scienza priva di impegno filosofico gli sembra purtroppo tutt'altro che inattuale.

È lo stesso fenomeno della specializzazione delle ricerche a spingere verso questo atteggiamento; è il desiderio di accumulare sempre nuovi risultati osser­vativi che distoglie un gran numero di scienziati dall'investigazione dei problemi generali. Ma secondo Engels le cose sono ormai giunte a un tal punto, da imporre un radicale mutamento di rotta: «Lo studio empirico della natura ha accumulato una quantità così imponente di conoscenze positive, che la necessità di ordinarie sistematicamente e secondo la loro intrinseca connessione, in ogni singolo ramo di ricerca è divenuta assolutamente improrogabile. È divenuta del pari una ne­cessità improrogabile porre nella giusta connessione tra di loro i singoli campi della conoscenza. Con ciò la conoscenza scientifica si trasferisce, però, sul terreno teorico, e qui vengono meno i metodi dell'empiria, qui può venire in aiuto soltanto il pensiero teorico. »

Sappiamo dalla sezione precedente che già Comte aveva compreso i gravi pericoli della specializzazione e aveva predicato la necessità di porvi riparo (senza perdere i vantaggi delle ricerche specialistiche). Il merito di Engels è di essersi reso conto con chiarezza, che il compito di superare lo specialismo è profonda­mente filosofico: è un compito che non può venire espletato aggiungendo (come riteneva Comte) una nuova scienza alle scienze già in atto, ma sviluppando all'in-

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Engels e la dialettica della natura

terno di ciascuna di esse l'esigenza di una sempre maggiore consapevolezza teorica («Il pensiero teorico è una facoltà innata solo in quanto disposizione naturale. Questa disposizione naturale deve essere sviluppata e formata, e per far ciò non esiste a tutt'oggi altro mezzo se non lo studio della filosofia che vi è stata fino ad ora»).

Riconosciuti i meriti del nostro pensatore, è però necessario a questo punto sottolineare anche una grave manchevolezza da lui rivelata sull'argomento in esame. Esplicitando gli insegnamenti della filosofia finora esistita, egli sostiene che « la forma di pensiero più importante per la scienza naturale odierna » posta in luce da tali insegnamenti sarebbe la dialettica, non il pensiero matematico.

Orbene, la parte positiva di questa tesi è senza dubbio comprensibile e in certo senso giustificabile, in quanto afferma che la dialettica, ed essa sola, sarebbe in grado di farci comprendere « i passaggi da un campo di ricerca ad un altro », e perciò i nessi profondi che legano i vari settori delle nostre indagini al di là delle barriere elevate tra di essi dal trionfante specialismo.

Ciò che invece appare inaccettabile è il misconoscimento, da parte di Engels, della funzione unificatrice espletata dalla matematica. Nei riguardi di questa scienza il suo atteggiamento risulta in verità alquanto complesso: per un lato infatti egli si rende perfettamente conto della sua notevolissima importanza come disciplina teorica, giungendo perfino a considerarla quale prova inconfu­tabile della fecondità delle« contraddizioni dialettiche» (scrive per esempio, dopo aver elencato alcune « contraddizioni » presenti nell'analisi infinitesimale, «e tuttavia la matematica superiore mette capo, con queste contraddizioni e con altre ancora maggiori, a risultati non soltanto esatti, ma assolutamente irraggiun­gibili dalla matematica inferiore»); per un altro lato invece resta aprioristicamente diffidente rispetto alle sue applicazioni nella fisica e in genere nelle scienze della natura. Egli vi scorge una fonte di spiegazioni illusorie (di quel tipo cioè di spiegazioni estrinseche, che il meccanicismo aveva preteso elevare a modello unico e insuperabile di scientificità), e non si avvede del prezioso contributo dato dalla matematica alla formulazione rigorosa di qualunque teoria. Può in tal modo sostenere che il calcolo « disabitua a pensare », non costituendo altro che « il complemento ingannatore dell'empirismo unilaterale».

È probabile che l'avversione in esame sia derivata a Engels dalla sua origi­naria formazione hegeliana. Se, oltre a questa spiegazione di carattere storico, vogliamo anche dargliene un'altra di carattere teorico, dobbiamo cercarla nella sua scarsa conoscenza delle correnti più nuove e più vive della matematica otto­centesca; una maggiore conoscenza di esse sarebbe infatti valsa a dissolvere la sua impressione che la matematica continui sempre a pretendere, come aveva preteso in tempi passati, di fondarsi su principi «assoluti» a priori, onde si tro­verebbe nell'impossibilità di mediarsi con altre conoscenze (limitandosi tutt'al più a fornir loro strumenti estrinseci di calcolo).

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3) L'interesse di Engels per la storia della scienza è un tratto che di nuovo lo accomuna ai maggiori critici ottocenteschi del meccanicismo. Sia questi sia il nostro autore sono profondamente convinti che soltanto l'analisi dell'origine lontana dei concetti scientifici e della loro lenta, laboriosa formazione ci ponga in grado di penetrarne l'autentico significato, al disotto della formulazione astratta e spesso artificiosa che di essa ci viene fornita dalle ordinarie trattazioni; e di conseguenza che soltanto l'analisi storica delle leggi scientifiche ci faccia comprendere la loro non assolutezza e non definitività, l'impossibilità di fon­darle su di un atto intuitivo atemporale, la necessità di legarle allo sviluppo glo­bale delle conoscenze umane. « La conoscenza del processo di sviluppo storico del pensiero umano, » scrive il nostro autore, « delle concezioni dei nessi gene­rali del mondo esterno che vennero espresse nei diversi tempi, è una esigenza necessaria per la scienza teorica della natura; tale conoscenza offre infatti un criterio per le teorie che la scienza ha da costruire.»

Chi ricordi quanto si è spiegato nel capitolo xu sull'importanza che Mach attribuiva all'esame storico della scienza nel processo di acquisizione di un'effet­tiva consapevolezza critica intorno al sapere scientifico e di svecchiamento delle sue attuali strutture, non può far a meno di compiacersi nel constatare che -in modo del tutto indipendente- anche Engels sosteneva all'incirca le medesime concezioni. Ecco ad esempio ciò che il nostro autore scrive, in polemica contro l'« empirismo esclusivo» (nel senso poco sopra chiarito del termine « empiri­smo») adottato da alcuni studiosi di elettrologia: «L'empirismo esclusivo, che consente il pensiero tutt'al più sotto la forma del calcolo matematico, si immagina di lavorare solo con fatti incontrovertibili. In realtà lavora di preferenza solo con concetti sopravvissuti, con prodotti per la massima parte invecchiati dei suoi predecessori . . . Questi concetti servono ad esso come punto di partenza per interminabili calcoli matematici, nei quali la natura ipotetica delle premesse si fa volentieri dimenticare di fronte al rigore della formulazione matematica. » Emerge qui con chiarezza uno dei motivi- già poco fa accennati- dell'av­versione di Engels per la matematica: questa riveste le ipotesi scientifiche di un falso rigore e suscita l'impressione fallace che rappresentino delle verità assolute; invece la consapevolezza della loro formazione storica ci rende liberi di fronte ad esse, ci pone in grado di accogliere e interpretare senza pregiudizi le nuove scoperte non rientranti nei vecchi schemi. « Questa specie di empirismo è altret­tanto credulo nei confronti dei risultati del pensiero dei suoi predecessori, quanto è scettico nei confronti dei risultati del pensiero contemporaneo. Perfino i fatti stabiliti sperimentalmente sono divenuti per esso un po' alla volta indissolubili dall'interpretazione tradizionale ad essi associata ... Un tale empirismo non riesce più a descrivere in modo corretto i fatti, perché alla descrizione si intreccia l'interpretazione tradizionale. »

Ciò che Engels vede qui di nuovo molto meglio di Mach, è la portata filo-

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Engels e la dialettica della natura

sofica, davvero amplissima, di questa storicizzazione del pensiero scientifico. Comprende infatti con chiarezza che essa non investe soltanto una parte della scienza (per così dire, la sua parte ipotetica), ma riguarda tutto intero il processo conoscitivo, cioè le stesse categorie del conoscere. E comprende pure, con rara perspicacia, le implicanze politiche di una demistificazi~ne della presunta assolu­tezza del conoscere: comprende cioè che l'abbandono di tale assolutezza nel campo della scienza e della filosofia significherà il suo abbandono anche nel campo etico-politico, e quindi l'abbandono della pretesa (avanzata dalla classe dirigente) che le odierne istituzioni siano immutabili, che rappresentino la realizzazione perfetta, assoluta, insuperabile della civiltà.

Che cosa permette al nostro autore di raggiungere questa visione, nuova e più profonda, del significato filosofico generale della storicizzazione del sapere scientifico? Egli stesso ce lo dice con chiarezza: è l'inserimento di tale storicizza­zione (raggiunta- da lui come da altri- con una rigorosa riflessione critica sull'effettivo procedere della scienza) in una visione dialettica di marca hegeliana. È proprio questo inserimento che gli fa comprendere il carattere innovatore dell'importante risultato, l'antitesi radicale esistente fra esso e la vecchia meta­fisica. « Due indirizzi filosofici: quello metafisica con categorie fisse, quello dia­lettico con categorie fluide ... La dialettica spogliata del misticismo diventa una necessità assoluta per la scienza, che ha ormai lasciato il terreno sul quale bastava far uso delle categorie fisse. » « Per le verità eterne va ancora peggio nel gruppo delle scienze storiche, che indagano le condizioni di vita degli uomini, i rapporti sociali, le forme giuridiche e statali ... nella loro successione storica e nei loro risultati attuali ... Ora è curioso il fatto che proprio questo campo è quello in cui più spesso ci imbattiamo nelle pretese verità eterne, nelle verità definitive di ultima istanza, e così via. »

Non è il caso di insistere, in questo paragrafo, sulle conseguenze in campo etico-politico della lotta di Engels contro l'ammissione di assoluti. Occorre in­vece accennare a un altro argomento, strettamente connesso alla storicizzazione della scienza.

Trattasi del pericolo che da questa storicizzazione venga ricavata una con­cezione scettico-relativistica del nostro conoscere: se tutte le proposizioni scien­tifiche sono soggette a continue trasformazioni, se le stesse categorie più generali della conoscenza sono essenzialmente fluide, in che modo si potrà sostenere che la scienza non è illusoria? Che i risultati cui essa perviene non sono mere costru­zioni del soggetto?

Ancora una volta Engels riesce a evitare queste conclusioni facendo appello alla dialettica. Questa infatti inserisce il divenire delle nostre conoscenze entro il divenire generale della realtà, e con ciò taglia alle radici la tentazione di con­trapporre un carattere soggettivo (dinamico) del pensare a un carattere oggettivo (statico) dell'essere. Ma la frattura fra il pensare e l'essere può venire eliminata

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per mezzo di due concezioni profondamente diverse: l'una intesa a ridurre, in ultima istanza, l'essere al pensare (sia pure a un pensare non legato al singolo soggetto pensante), l'altra invece a ridurre il pensare all'essere cioè alla materia.

La prima via fu seguita da Hegel, il quale riuscì senza dubbio a eliminare i falsi problemi connessi alla contrapposizione tra realtà e conoscenza della mede­sima, ma solo affermando che tutta la realtà- i vi inclusa la realtà naturale­non sarebbe altro che un momento del divenire dello spirito. Egli ebbe sl il merito di comprendere che il vero compito della filosofia è di seguire, attraverso tutte le deviazioni, la « marcia graduale » del processo di sviluppo dell'umanità e di « dimostrarne, attraverso tutte le accidentalità apparenti, l'intima regolarità »; ma, data l'impostazione idealistica della sua dialettica, fu costretto a tentare di ricavare a priori tutti i gradi di tale processo e quindi anche, in particolare, tutte le determinazioni via via raggiunte dal fluire delle nostre conoscenze.

Questo tentativo è stato però completamente smentito dai progressi della scienza, conseguiti non a priori ma sulla base dell'osservazione dei fatti (fatti, beninteso, da elaborarsi col pensiero e non solo da registrarsi fedelmente come vorrebbe l'empirismo unilaterale). Non ci resta dunque altro che seguire la se­conda delle vie testé indicate, consistente nel ridurre il pensare all'essere (inter­pretato però sul modello dell'interpretazione che Hegel dava dello spirito, e cioè non come qualcosa di statico ma come un perenne divenire). È precisamente la via cui Engels dà il nome di «materialismo dialettico».

4) I critici di Engels sono soliti accentrare la loro analisi del pensiero di questo autore sui tre principi generali che egli pose alla base del proprio materia­lismo dialettico: la legge della conversione della quantità in qualità e viceversa (il cui nucleo centrale consiste nell'affermazione che una variazione quantitativa modifica la qualità), la legge della compenetrazione degli opposti (secondo cui questi possono venire considerati l'uno separatamente dall'altro solo in astratto e con un procedimento del tutto arbitrario), la legge della negazione della nega­zione (secondo cui il divenire dialettico ha luogo per successive negazioni, e la negazione di una negazione non conduce alla semplice affermazione di ciò che venne primieramente negato).

L'accusa fondamentale sollevata contro questi principi, è che essi non fanno altro se non ripetere più o meno letteralmente le leggi generali su cui Hegel aveva basato il proprio sistema. Si deve osservare però che lo stesso Engels aveva riconosciuto la loro origine hegeliana, aggiungendo tuttavia che il signifi­cato ad essi attribuito dal materialismo dialettico sarebbe completamente diverso da quello che possedevano nella filosofia hegeliana: «Tutt'e tre sono stati svi­luppati da Hegel, nella sua maniera idealistica, come pure leggi del pensiero ... L'errore [di Hegel] consiste in ciò che queste leggi non sono ricavate dalla natura e dalla storia ... Da ciò vien fuori tutta l'artificiosità della [sua J costruzione, for­zata e spesso tale da far rizzare i capelli ... Se noi capovolgiamo la cosa, tutto

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diviene semplice; le leggi della dialettica, che nella filosofia idealistica appaiono estremamente misteriose, diventano subito semplici e chiare come il sole. »

Senonché proprio questa delucidazione engelsiana ha dato luogo a nuove obiezioni, in quanto si è osservato che la pretesa del nostro autore di « dimostrare che le leggi dialettiche sono leggi reali dell'evoluzione della natura» risulta del tutto illusoria. In effetti - aggiungono i suoi critici - le « prove » con cui Engels si illude di « dimostrare » le leggi in questione sono estremamente deboli (oltre­ché circoscritte a campi particolari) onde in realtà non dimostrano nulla. Né basta: la stessa formulazione engelsiana di tali leggi è così vaga e generica da rendere impossibile ogni serio tentativo di porle a confronto con la realtà; se è vero che alcuni ritrovati scientifici sembrano confermarle, ciò dipende solo dal fatto che esse non posseggono alcun contenuto preciso. Ancora più radicale, infine, è la seguente obiezione: che l'ammissione stessa dell'esistenza di leggi siffatte si trova in contrasto con tutto il pensiero engelsiano, non potendosi in alcun modo conciliare la presunta validità generale (metastorica) di un principio, quale che esso sia, con la tesi- poco sopra riferita- secondo cui tutto si tra­sforma dialetticamente.

Fuoriesce dai compiti del presente paragrafo quello di fornire una valuta­zione dell'uso che venne fatto nell'ambito politico delle critiche testé riportate. Va detto, comunque, che l'apparente radicalità delle critiche stesse ha fuorviato molti studiosi del pensiero filosofico, inducendoli a ritenere che il materialismo engelsiano non meritasse alcuna seria riflessione, solo per il fatto di prestare il fianco a obiezioni del tipo accennato (quasi che lo stesso non accada anche per le altre concezioni filosofico-scientifiche dell'Ottocento e dei secoli precedenti!). Più serio ci sembra, invece, tentare di comprendere il significato profondo della costruzione engelsiana.

Il primo passo da compiersi a questo scopo consisterà, a nostro parere, nel sottolineare gli strettissimi nessi delle tre famose leggi con l'approfondita critica sviluppata da Engels contro il materialismo meccanicistico. È chiaro infatti che le leggi in esame rappresentano proprio l'altra faccia di tale critica: mentre il meccanicismo escludeva per principio dalla scienza lo studio delle qualità, la prima legge generale della dialettica è chiaramente rivolta a sostenere che non possiamo far a meno di studiarle dato il rapporto esistente fra qualità e quantità; la seconda legge poi, non è altro che l'integrazione (positiva) delle critiche solle­vate da Engels contro le rigide schematizzazioni della vecchia metafisica (impli­cita nel meccanicismo), le quali pretendevano contrapporre la causa all'effetto, il casuale al necessario, la materia allo spirito, l'uomo alla natura e così via; la terza infine è semplicemente un tentativo di descrivere il «divenire» con ca­ratteri irriducibili al movimento meccanico. Si potrà osservare che la « faccia » critica (negativa) della concezione engelsiana è più soddisfacente di quella positiva, ma ciò non elimina l'arbitrarietà di voler isolare quest'ultima dalla prima. Ciò

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di cui bisogna tenere conto è che, con le sue critiche al meccanicismo e con il suo abbozzo di una concezione dialettica della natura, Engels mirava in realtà a trasformare radicalmente i vecchi modelli della conoscenza metafisica, che ri­teneva filosoficamente e scientificamente inadeguati. Si potrà sostenere che il risultato cui pervenne non è del tutto persuasivo, ma non si potrà negare la piena fondatezza dell'esigenza da lui espressa, come non si potrà negare che in molti casi particolari le sue indicazioni erano tutt'altro che infeconde (basti pen­sare all'importanza da lui giustamente riconosciuta alla categoria della casualità nei processi naturali, o alla sua intuizione dell'unità spazio-temporale che in certo senso prelude alle concezioni di Einstein).

Senza dubbio il tentativo engelsiano di rimettere in onore la dialettica hegeliana (sia pure rovesciata), non può non !asciarci perplessi. Non possiamo però dimenticare: 1) che il metodo dialettico si presentava al nostro autore come l'unico capace di esprimere razionalmente la storicità, evitando radicalmente l'errore di considerare lo sviluppo dei fatti sociali come un susseguirsi di eventi arbitrari, impermeabili a qualunque indagine scientifica; z) che tale metodo gli permetteva di conciliare l'abbandono del dogmatismo (cioè della pretesa assolu­tezza delle «verità» filosofico-scientifiche) con il mantenimento di un autentico valore alle nostre conoscenze, e per di più gli dava modo di giustificare la nostra esigenza di una conoscenza totale del mondo.

Per comprendere il motivo profondo del tentativo engelsiano, bisogna inoltre tenere realisticamente presente la situazione della cultura borghese che Engels trovava innanzi a sé: per un lato una larga schiera di scienziati che in nome della rigorosa fedeltà all'esperienza rifiutavano ogni contatto con la filosofia e finivano in realtà - come già ricordammo- di accogliere inconsapevolmente una cattiva filosofia, nonché di lasciar precipitare la ricerca in uno specialismo privo di inci­denza sulla cultura; per un altro lato un gruppo di scienziati filosoficamente più av­veduti che - come Helmholtz- si richiamavano a Kant e in nome del criticismo affermavano l'esistenza di una cosa in sé inconoscibile o che- come Emil Du Bois-Reymond- pretendevano dimostrare a priori l'esistenza di« enigmi» inso­lubili alla ragione umana. È proprio per combattere contro di essi che Engels ritiene indispensabile richiamarsi a Hegel e difendere energicamente una conce­zione dialettica della natura e dell'uomo. Molto significative da questo punto di vista sono le pagine vivacemente polemiche che egli scriveva contro il botanico Karl Wilhelm von Nageli (capitolo x del prossimo volume), il quale pretendeva sostenere che, potendo conoscere soltanto il finito, noi « non possiamo farci alcuna idea dell'infinito o dell'eterno, del permanente e delle differenze assolute; noi sappiamo con precisione cosa significa un'ora, un metro, un chilogrammo, ecc., ma non sappiamo che cosa siano spazio, tempo, forza e sostanza, movimento e quiete, causa ed effetto ». Questo agnosticismo si presentava come espressione di grande cautela critica e proprio perciò riusciva a conquistare l'adesione di '

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molti scienz1at1; ma Engels comprende l'estrema pericolosità delle sue conse­guenze e non teme di prendere netta posizione contro di esso, sia pure a costo di apparire un dogmatico hegeliano. Vale la pena riferire alcune acutissime argo­mentazioni contenute in questa polemica. «L'empirista si sprofonda a tal segno nell'abitudine della conoscenza empirica, da credersi ancora sul terreno della co­noscenza empirica, quando maneggia astrazioni. Noi sappiamo che cosa è un'ora, un metro, non che cosa siano tempo e spazio! Come se il tempo fosse qualcosa di diverso dalle semplici ore, e lo spazio qualcosa di diverso dai semplici metri cubi! Ambedue le forme di esistenza della materia non sono naturalmente nulla senza la materia; sono nozioni vuote, astrazioni che esistono solo nella nostra testa. Ma noi non dovremmo neppur sapere che cosa sono materia e movimento! Naturalmente: perché nessuno ha ancora visto o altrimenti sperimentato la ma­teria come tale e il movimento come tale, bensì soltanto le differenti sostanze e forme di movimenti realmente esistenti ... La materia e il movimento non pos­sono essere conosciuti altrimenti che con lo studio delle singole sostanze e forme di movimento: nella misura in cui conosciamo queste ultime, nella stessa misura conosciamo anche la materia e il movimento come tali. Pertanto quando Niigeli dice che noi non sappiamo che cosa siano tempo, spazio, materia, movimento, causa ed effetto, dice semplicemente che noi dapprima con la nostra testa traiamo delle astrazioni dal mondo reale, e successivamente non possiamo conoscere queste astrazioni da noi stessi costruite, perché esse sono oggetti di pensiero e non oggetti sensibili, mentre tutto il conoscere sarebbe misura fatta con i sensi. È proprio la stessa cosa delle difficoltà che troviamo in Hegel: noi possiamo ben mangiare ciliege e susine, ma non frutta, perché ancora nessuno ha mangiato la frutta come tale. »

Nessuna obiezione sollevata contro Engels può farci dimenticare i meriti da lui acquisiti in questa tenace polemica contro tutte le forme di agnosticismo; è una polemica che può forse apparire anche troppo insistente a chi voglia giu­dicarla in astratto, ma che si rivela oggi ben giustificata se teniamo presenti certi indirizzi irrazionalistici che, sulla fine del XIX secolo e all'inizio del nostro, riten­nero di poter fare appello alla presunta inconoscibilità della natura per denigrare tutta la ricerca scientifica e contrapporle le più incontrollate e gratuite fantasie mistico-filosofiche.

IV • L'ORIGINE DELLA FAMIGLIA E LA CRITICA

DEL CONCETTO DI STATO

Nell'ampia produzione di Engels, i suoi lavori sulle società primitive pos­sono a prima vista apparire alquanto isolati dagli altri, almeno per il tipo di problematica ivi trattato. Di fatto si inseriscono invece con perfetta coe­renza nella sua personalità di studioso. E ciò per due ben precisi motivi: uno

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di carattere personale e uno di carattere metodologico. Il primo concerne la formazione stessa del nostro autore a partire dagli anni della sua giovinezza; il secondo è connesso allo sviluppo delle istanze di fondo del materialismo storico.

Quanto al primo, basterà ricordare che Engels si trovò spinto a tali interessi dall'esigenza di chiarire il senso storico e teorico della religione cristiana; egli stesso scrive, in una lettera del r 894 a Karl Kautsky (r 8 54-1938): «Mi sono occu­pato dell'argomento sin dal 1841, anno in cui ho assistito a una lezione di Berray sull'apocalisse.» Questo accoppiamento di interessi per i fenomeni religiosi e per le strutture delle società primitive durerà lungo tutto l'arco della sua vita; ne è una riprova il saggio sul protocristianesimo pubblicato - come ricordammo alla fine del paragrafo n -nel r895, cioè l'anno medesimo della morte del nostro autore.

Sappiamo del resto che l'interesse per la nascita del cristianesimo era assai vivo nella scuola hegeliana; anzi, fu per l'appunto intorno all'interpretazione della figura di Gesù e dell'autentico senso del suo insegnamento che esplose la prima grave frattura all'interno dell'hegelismo. Ma ben presto Marx ed Engels assun­sero, come pure sappiamo, una posizione del tutto nuova e originale entro lo stesso gruppo degli hegeliani di sinistra. E ancora una volta il dissenso coinvolse in modo essenziale l'interpretazione dei fenomeni religiosi.

Mentre Feuerbach pretendeva che « le epoche del genere umano si distin­guono soltanto per mutamenti religiosi », i nostri due autori sostenevano invece che le differenze più caratterizzanti fra un'epoca e l'altra dovessero venire cercate altrove. È bensì certo, scriverà Engels, che « grandi svolte storiche sono state accompagnate da mutamenti religiosi »; ma non può dirsi affatto che ciò si sia verificato per tutte le svolte storicamente più rilevanti. L'affermazione è, a suo parere, sostenibile « solo se si considerano le tre grandi religioni universali esi­stite finora: il buddismo, il cristianesimo e l'islamismo ».

La tesi contrapposta da Marx e da Engels a Feuerbach costituiva un primo implicito passo verso la concezione centrale del materialismo storico (cioè verso la concezione secondo cui « le relazio~i materiali fra gli uomini stanno alla base di tutte le loro relazioni»). Una volta pienamente elaborato, sarà questo stesso materialismo storico a far sorgere l'esigenza di un'approfondita indagine delle società primitive, da esaminarsi nelle loro strutture economiche e non solo nelle loro sovrastrutture (fra cui va inclusa la loro vita religiosa).

I nostri due autori non ebbero mai dubbi che la linea interpretativa della storia fornita dal materialismo storico avrebbe dimostrato la propria efficacia esplicatrice anche nello studio delle società precapitalistiche. Ma tutte le ricerche storiche da essi eseguite avevano ampiamente convalidato tale linea interpretativa solo nell'ambito delle società economicamente evolute; è un fatto che- fino agli ultimi lavori di Engels- era mancata invece un'indagine altrettanto esaurien-

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te delle società primitive. Di qui la necessità di convalidare, anche rispetto ad esse, la validità universale (scientifica) del materialismo storico.

Marx aveva affermato che « la società borghese è la più complessa e svilup­pata organizzazione storica della produzione », deducendone logicamente che « le categorie che esprimono i suoi rapporti e fanno comprendere la sua struttura, permettono di capire al tempo stesso la struttura e i rapporti di produzione di tutte le forme di società passate, sulle cui rovine e con i cui elementi essa si è costruita». Si trattava ora di dimostrare con ricerche concrete la verità di questa tesi. Un esito negativo di tali ricerche avrebbe automaticamente posto in crisi tutta la concezione marx-engelsiana. È la piena consapevolezza metodologica di ciò, che condusse Engels a occuparsi molto seriamente delle società primitive. Considerati da questo punto di vista, i suoi studi intorno ad esse si inseriscono appieno- come poco sopra accennammo - nel quadro di tutta la sua attività di pensatore.

Ma quale fu la più antica organizzazione della produzione, e quindi il primo oggetto da prendere in esame per uno studio materialistico-storico delle società primitive? Tutte le ricerche storiche dimostrano che fu la famiglia; di qui la necessità di includere anch'essa in uno studio siffatto.

Se Engels assume su di sé questo compito, non bisogna però dimenticare che già Marx aveva compreso molto bene il contenuto economico dell'istituzione familiare: «La famiglia contiene in germe, non solo la schiavitù (servitus), ma anche la servitù della gleba, poiché questa, fin dall'inizio, è in rapporto con i ser­vizi agricoli. Essa contiene in sé, in miniatura, tutti gli antagonismi che si svilup­peranno più tardi largamente nella società e nello stato. »

Si tratta dunque di studiare, accanto all'origine della proprietà privata e dello stato, anche l'origine della famiglia, poiché essa è stata la più antica orga­nizzazione della produzione, e inoltre perché continua a costituire, insieme con la proprietà privata e lo stato, uno dei cardini essenziali della società moderna. E si tratta proprio di studiarla con metodo materialistico, non limitandosi a descri­verla sociologicamente, ma considerandola come un fatto storico, oggettivo, fornito di strutture diverse da un'epoca all'altra, e quindi mutabile essa pure -come tutti i rapporti di produzione- attraverso la lotta di classe.

Dopo queste brevi considerazioni è facile capire che la stesura dell'opera (già più sopra menzionata) L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato, scritta da Engels in poche settimane (nel 1 884), non costituì soltanto «l'esecuzione di un lascito»- in quanto Marx stesso aveva iniziato lo studio di questo problema- ma la sistemazione storica e teorica di un gruppo di inda­gini che il nostro autore veniva coltivando da tempo (in quanto legate ai suoi interessi per il sorgere della religione cristiana) e che si presentavano ora come l'ultimo banco di prova della validità scientifica del materialismo storico.

Il tema era del resto, a quell'epoca, di incontestabile attualità. Se ne era

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Engels e la dialettica della natura

occupato Lassalle fin dal 1861 nel suo System der erworbenen Rechten (Sistema dei diritti acquisiti) in cui era evidente un'impostazione generale di tipo hegeliano, come sottolineò lo stesso Engels.1 E nel 188z se ne era occupato Kautsky, pub­blicando sulla rivista darwiniana di Stoccarda, « Kosmos », due articoli intorno all'origine della famiglia e del matrimonio.

L'opera di Engels si presenta apertamente come una riflessione sulle ricerche dell'etnologo americano Lewis Henry Morgan (I8I8-8x), e in particolare sul suo volume Ancient sociery (La società antica, 1877), di cui viene fornito un ampio riassunto. Come leggiamo nella prefazione, « non altri che Marx si era riservato il compito di esporre i risultati delle indagini di Morgan, connettendoli con i risultati della sua (posso dire nostra, entro certi limiti) indagine materialistica della storia, mettendo così in evidenza la loro importanza ». Ma la morte gli impedì di attuare questo progetto, ed Engels si accinge a condurlo a termine sulla base di «annotazioni critiche» dell'amico scomparso, che egli tiene innanzi a sé e che anzi riproduce fedelmente « nella misura in cui ·è possibile ».

In pieno accordo con Marx, anche Engels sottolinea subito la grande impor­tanza storica delle scoperte fatte da Morgan: « Sulle origini delle società esiste un libro decisivo, decisivo come l'opera di Darwin per la biologia. Morgan, scrivendo il suo libro, ha riscoperto spontaneamente la concezione materialistica della storia di Marx [corsivo nostro]; e le sue conclusioni relative alla società attuale sono dei postulati assolutamente comunisti. »È un'affermazione molto impegnati­va sulla quale dobbiamo ora soffermarci brevemente, perché ha offerto lo spunto a una prima critica di carattere generale sollevata contro Engels dai suoi denigratori.

Questa critica si incentra, in ultima istanza, nell'accusa che Engels avrebbe tradito, nello studio delle società primitive, i canoni del materialismo storico, dimostrando una manifesta propensione per il darwinismo (in quanto l'etnologo americano da lui tanto elogiato avrebbe per l'appunto usato, nelle proprie in­dagini, un metodo sostanzialmente darwiniano).

È doveroso tuttavia osservare subito che tale critica non sembra molto facilmente sostenibile, se si tiene presente che lo stesso Engels sollevò parecchie obiezioni al lavoro poco sopra citato di Kautsky, accusandolo proprio di darwi­nismo. Come avrebbe potuto rivelare personalmente una così manifesta propen­sione per questa dottrina, se nel contempo individuava i limiti di Kautsky per l'appunto nell'impostazione darwiniana delle sue ricerche?

Ma vi è di più: studi recenti hanno dimostrato in modo convincente che !;ipotesi del darwinismo di Morgan era, essa stessa, infondata. Ecco ad esempio la conclusione cui giunge Emmanuel Terray nel suo volume Le marxisme devant /es sociétés «primitives» (Il marxismo e le società «primztizJe», 1969 ): «Di fatto, le tecniche di sussistenza di Morgan non sono altro che il sistema delle forze produttive di

I « Lassalle, da fedele vecchio hegeliano, fa derivare le disposizioni del diritto romano non

dalle condizioni sociali dei romani, ma dal "con­cetto speculativo della volontà ". »

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Marx; il periodo etnico corrisponde al modo di produzione accompagnato dalle sovrastrutture politiche e giuridiche da esso richieste. Per Morgan, come per Marx, l'economia è in ultima analisi determinante; per Morgan, come per Marx, le diverse sfere della sovrastruttura hanno una loro logica e reagiscono attra­verso tale logica all'azione dell'infrastruttura; infine è lo stesso Marx che scopre nella teoria dei sistemi di consanguineità di Morgan la sua teoria delle ideologie. »

La critica a Engels testé discussa viene generalmente accompagnata da un'altra, che riguarda il metodo da lui adottato e così esplicitato nella prefazione alla prima edizione: « Secondo la concezione materialistica, il momento deter­minante della storia in ultima istanza è la produzione e la riproduzione della vita immediata. Ma questa è a sua volta di duplice specie. Da un lato, la produ­zione di mezzi di sussistenza, di generi per l'alimentazione, di oggetti di vestia­rio, di abitazione e di strumenti necessari per queste cose; dall'altro, la produzione degli uomini stessi: la riproduzione della specie [corsivo è nostro]. Le istituzioni so­ciali entro le quali gli uomini di una determinata epoca storica e di un determinato paese vivono, sono condizionate da entrambe le specie della produzione; dallo stadio di sviluppo del lavoro, da una parte, e dalla famiglia, dall'altra. Quanto meno il lavoro è ancora sviluppato, quanto più è limitata la quantità dei suoi prodotti e quindi anche la ricchezza della società, tanto più l'ordinamento sociale appare prevalentemente dominato da vincoli di parentela. »

Al metodo di Engels viene rimproverata una dicotomia fra due criteri ge­nerali interpretativi, il che di nuovo sarebbe in pieno contrasto con il materia­lismo storico.

A questa critica va però risposto che nel brano ora riferito della prefazione engelsiana non siamo affatto in presenza di una vera dicotomia fra due criteri generali interpretati vi; in altre parole, non è che il processo della riproduzione della specie sia messo sullo stesso piano del processo produttivo, solo che in Engels c'è il pieno riconoscimento del peso e del ruolo svolto dalle istituzioni, perché storicamente documentabile. La storia è prima di tutto storia dell'uomo; ha inizio infatti nel momento in cui l'uomo usa le mani e il lavoro diventa un'at­tività nuova, creatrice. Questa prima fase è stata descritta mirabilmente da Engels in un saggio (composto nel 1876 ma pubblicato nel 1896), «sulla parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia». Ora se il primato spetta all'uomo, non si può disconoscere che il processo di riproduzione della specie (e della famiglia nelle diverse forme in cui si è sviluppata) sia di enorme impor­tanza. Questa critica pertanto deve essere ascritta a una certa riduzione econo­micistica del marxismo, e non a una carenza metodologica di Engels. Va co­munque sottolineato che gli studi contemporanei hanno confermato la validità dell'impostazione engelsiana, che del resto si richiama, per questo aspetto, alle acquisizioni della stessa Ideologia tedesca in cui Marx aveva riconosciuto nella parentela «il tipo di organizzazione più generalizzato del vecchio mondo».

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Dopo queste brevi considerazioni introduttive sull'impostazione generale dell'opera di Engels, possiamo ora passare a una sommaria elencazione di alcune tesi particolari ove egli dimostra una maggiore originalità; va notato che egli stesso segnala, nella prefazione, quali sono le principali aggiunte da lui apportate alle indagini di Morgan.

Una delle più interessanti fra queste aggiunte consiste nella precisazione che nel periodo del paleolitico inferiore e forse anche in parte del medio, le società umane hanno assunto la forma dell'orda, cioè di comunità numericamente piccole, sparse e instabili in cui vi erano rapporti endogami, di promiscuità ses­suale. Questo periodo è stato seguito da un altro del tutto diverso, caratterizzato da comunità più ampie e stabilizzate, con rapporti di carattere esogamico; i rapporti sessuali avvenivano cioè solo fra membri di comunità diverse, chiamate gentilizie. Questo periodo si è protratto fino all'inizio della nostra civiltà. Questa prima fondamentale periodizzazione della storia umana, fondata su una diversità di rapporti di produzione e di rapporti familiari, rimane un punto fermo del­l'indagine antropologica e storica. Lo stadio della comunità gentilizia rappre­senta una differenza enorme rispetto al precedente; in questo momento si è avuto infatti un notevole incremento e una accelerazione del processo culturale, tecnico e biologico: quest'ultimo determinato proprio dai diversi rapporti ses­suali instaurati al di fuori della cerchia di consanguinei.

Sulla base dei dati accertati da Morgan sulle comunità gentilizie, Engels ha iniziato una originale interpretazione della più recente storia greca, romana e germanica. Egli si è impegnato anche nel campo dell'interpretazione linguistica dei testi antichi e classici. Per queste ricerche è considerato un precursore degli studi di geografia dialettale.

Un'altra notevole scoperta, ampiamente utilizzata da Engels, è quella del matriarcato: « Questa scoperta della gens originaria, matriarcale, come stadio anteriore della gens patriarcale dei popoli civili, ha per la storia delle origini la stessa importanza che ha la teoria dell'evoluzione di Darwin per la biologia, e la teoria del plusvalore di Marx per l'economia politica. » Il riconoscimento che la donna, per un lungo periodo di tempo - fino alla società divisa in classi­è stata al centro della comunità umana, costituisce per Engels un'arma effica­cissima per combattere tutte le ideologie tendenti a presentare la donna come un essere biologicamente o fisiologicamente inferiore: «È una delle idee più assurde di derivazione illuministica del xvrrr secolo, che la donna all'inizio della società sia stata schiava dell'uomo. La donna invece, presso tutti i selvaggi e i barbari dello stadio inferiore e medio e in parte anche dello stadio·superiore, aveva una posizione non solo libera, ma anche di alta considerazione. »

Il nostro autore individua il passaggio dalla società matriarcale a quella patriarcale nello sviluppo della pastorizia e nella prima fondamentale divisione fra tribù agricola e tribù pastorale. Studi più recenti hanno confermato la fonda-

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tezza di questa tesi, ponendo in rilievo l'importanza del passaggio dalla« coltura a zappa» o preparatoria alla« coltura aratoria». Lo sviluppo della famiglia è stret­tamente collegato alla modificazione dei rapporti di produzione e di quelli all'in­terno delle comunità stesse. Il passaggio al patriarcato è individuato nel fatto che « le ricchezze, nella misura in cui si accrescevano, da una parte davano al­l'uomo una posizione nella famiglia più importante di quella della donna, dal­l'altra lo stimolavano ad utilizzare la sua rafforzata posizione per abrogare, a vantaggio dei figli, la successione tradizionale ... Il rovesciamento del matriar­cato segnò la sconfitta sul piano storico universale del sesso femminile ».

Quale importanza storica assuma per l'emancipazione completa dell'uma­nità il superamento di questa iniziale diseguaglianza è sottolineato sia da Marx che da Engels. Nella Ideologia tedesca Marx aveva affermato che «la prima divisione del lavoro è quella tra uomo e donna per la procreazione dei figli. Ed oggi posso aggiungere: il primo contrasto di classe che compare nella storia coincide con lo sviluppo dell'antagonismo tra uomo e donna nel matrimonio monogamico, e la prima oppressione di classe coincide con quella del sesso femminile da parte di quello maschile ». La possibilità stessa della creazione di una nuova società è da Engels strettamente condizionata all'emancipazione della donna, perché, finché esiste la condizione di ineguaglianza della donna, esiste un rapporto di sfruttamento.

Un ultimo argomento, e fondamentale, è l'indagine sull'origine dello stato. Qui Engels porta sostanziali integrazioni rispetto alle ricerche precedenti, anche di Marx, e riprende la polemica- cui si è già fatto cenno nel paragrafo 11-

contro le teorizzazioni dello stato anarchiche e lassalliane. Engels conclude la ricerca storica esaminando le tre forme principali nelle

quali lo stato si eleva sulle rovine della costituzione gentilizia: la forma realiz­zatasi in Atene, quella realizzatasi a Roma, e quella attuata dai germani vincitori dell'impero romano. Sulla base di queste acquisizioni storiografiche, può infine passare a prendere in esame gli elementi distintivi dello stato. Prima di tutto ne individua tre: il territorio, la forza pubblica e le imposte; successivamente af­fronta il tema della generalizzazione delle funzioni dello stato. I risultati da lui raggiunti in questa analisi sono così importanti da costituire ormai un'acquisizione stabile per tutto il marxismo.

Non potendo diffonderci oltre sull'argomento, ci limiteremo a riportare direttamente alcuni brani di Engels stesso, che a nostro avviso bastano da soli a illustrare i punti più significativi della sua tesi. « Lo stato dunque non è affatto una potenza imposta alla società dall'esterno, e nemmeno la "realtà dell'idea etica'', "l'immagine e la realtà della ragione" come afferma Hegel; esso è piuttosto un prodotto della società giunta a un determinato stadio di sviluppo, è la con­fessione che questa società si è scissa in antagonismi inconciliabili che è impo­tente a eliminare. » « Essendo nato dal bisogno di tenere a freno gli antagonismi

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di classe, ma contemporaneamente in mezzo al conflitto di queste classi, lo stato è, per regola, lo stato della classe più potente, economicamente dominante, la quale, per mezzo suo, diventa anche politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per tenere sottomessa e sfruttare la classe oppressa. »

V · L'ATTUALITÀ DI ENGELS

Abbiamo ritenuto opportuno soffermarci, nell'ultimo paragrafo, sulle no­tevoli scoperte di Engels nell'ambito dell'etnologia, sottolineando in modo par­ticolare il metodo da lui seguito nello studio delle società primitive. È fuori dubbio che un approccio storicamente corretto di queste società conserva ancor oggi un grande significato, soprattutto per il rilievo politico sempre maggiore che sta assumendo il complesso problema dei rapporti fra paesi « avanzati » e paesi «arretrati ».

Con pari impegno avevamo cercato di evidenziare nel paragrafo u i meriti di Engels, sia per avere tenacemente difeso l'importanza scientifica del Capitale, sia per essersi reso conto che la polemica contro la scientificità dell'economia marxiana implicava in modo diretto le più gravi conseguenze anche nel cam­po politico (cosicché proprio qui emerge a nostro parere l'incolmabile frattura tra la sua posizione e quella dei dirigenti della seconda Internazionale).

I contributi dati dal nostro autore all'elaborazione del materialismo storico erano stati precedentemente illustrati nel capitolo IV del presente volume; tanto in esso quanto in questo capitolo è stata inoltre posta in luce l'estrema impor­tanza della tesi - costantemente difesa sia da Marx sia da Engels - secondo cui la classe operaia deve saper esprimere, nel processo rivoluzionario di con­quista del potere, una nuova cultura scientificamente più valida di quella difesa dalla vecchia classe antagonista.

Questi punti sono largamente sufficienti a farci pronunciare un giudizio nettamente positivo sul pensiero engelsiano, senza !asciarci condizionare dalle notissime parole (dettate da eccessiva modestia e dalla devozione per l'amico) scritte da Engels stesso intorno ai suoi rapporti con Marx: «Non posso negare di avere contribuito all'elaborazione della teoria, durante i quarant'anni in cui sono stato in relazione con Marx. Ma la maggior parte delle idee direttive, spe­cialmente in storia e in economia, così come la formulazione definitiva [del socialismo scientifico], appartengono esclusivamente a Marx. Ciò che ho dato io, Marx avrebbe potuto facilmente farlo da sé, salvo forse due o tre parti spe­ciali. Ma ciò che ha fatto Marx, io non avrei potuto mai farlo.» È del resto risaputo che un autore non è mai il miglior giudice della propria opera.

Ma non è fondandoci principalmente sui meriti testé elencati, che inten­diamo qui parlare dell'attualità di Engels. Gli argomenti che ci inducono a ri­chiamare, in questa sede, l'attenzione del lettore sul pensiero engelsiano debbono

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essere altri: debbono vertere in special modo sul tema che fin dal volume primo è stato posto al centro di tutta la nostra trattazione, quello cioè dei nessi tra conoscenza filosofica e conoscenza scientifica. Occorrerà quindi ritornare bre­vemente su quanto detto nel paragrafo ru, per enucleare i motivi profondi della dialettica della natura, e basarci su di essi per una valutazione conclusiva del nostro autore.

Ci siamo sforzati di chiarire in tale paragrafo l'importanza della difficile battaglia condotta da Engels, per un lato contro il dogmatismo, per l'altro contro l'agnosticismo. Converrà ora aggiungere qualche parola per illustrare ulterior­mente le radici profonde di questa difficoltà. Esse vanno cercate nel fatto che sembra pressoché impossibile trovare una terza via tra dogmatismo e agnosti­cismo. Tutta la storia del pensiero filosofico-scientifico ci insegna, infatti, che il rifiuto del dogmatismo ha sempre aperto la strada a forme esplicite o implicite di relativismo le quali hanno prima o poi condotto a conclusioni scettiche o agnostiche (se non possiamo attribuire alcuna assolutezza alle nostre conoscenze, allora il nostro sapere sarà sempre relativo, e quindi sarà per principio impotente a farci conoscere l'effettiva realtà), e viceversa il rifiuto dell'agnosticismo ha sempre aperto la strada all'accettazione di alcune verità come definitive e intoc­cabili, sottraendole in ultima istanza all'esame critico della ragione (se non è vero che la nostra conoscenza si trova di fronte a limiti invalicabili, allora essa sarà in grado di giungere a verità assolute, che potranno costituire la base di un sapere la cui validità risulta al di sopra di ogni dubbio). Orbene, noi siamo convinti che la ricerca di una terza via, diversa dal dogmatismo e dall'agnosti­cismo, costituisca uno dei moventi fondamentali del materialismo engelsiano; e riteniamo inoltre che tale ricerca conservi anche nel nostro secolo la massima attualità, risultando ancora oggi tutt'altro che chiaro come possa accadere che la comunità degli uomini (in particolare degli scienziati) sia sicura di accrescere anno per anno le proprie conoscenze e, d'altra parte, constati (senza rimanerne affatto sgomenta) che tutte le conoscenze acquisite vengono pressoché perenne­mente rimesse in discussione. Se vi è un caso in cui sembra lecito parlare di « dialettica », tale è appunto quello rappresentato dalla singolare situazione testé accennata.

Engels preferisce presentare il quesito sotto un altro aspetto, cioè come problema del rapporto tra pensiero ed essere. « Il grande problema fondamentale di tutta la filosofia, e specialmente della filosofia moderna, » scrive nel Ludovico ~Feuerbach, «è quello del rapporto del pensiero con l'essere.» Queste parole hanno scandalizzato molti critici, ma in realtà non fanno altro che enunciare sotto un nuovo aspetto il medesimo quesito poco sopra accennato. Ci dicono infatti che il problema fondamentale della filosofia è quello di stabilire come il pensiero possa raggiungere in qualche modo l'essere (e quindi il nostro conoscere sia un effettivo conoscere), senza pretendere perciò di fissarlo in proposizioni

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assolutamente valide (e cioè senza cadere in forme più o meno palesi di dogma­tismo). In altri termini: è il problema di riuscire a fare un discorso sull'essere senza cadere con ciò stesso in un discorso metafisica.

La soluzione, che Engels propone e accanitamente difende, si incentra sulla tesi che il pensiero fa parte dell'essere, non costituisce cioè una «sostanza» diversa da quella della natura materiale: come si potrebbe infatti spiegare il processo conoscitivo se esistesse una totale alterità fra essere e pensiero? In tal caso le nostre conoscenze non sarebbero effettive conoscenze, ma pure costru­zioni dell'attività pensante.

A ben considerare le cose, anche Hegel propendeva - come già ricor­dammo- per una soluzione di questo tipo; salvo che affermava non già la materialità del pensiero, bensì la spiritualità della materia (sosteneva infatti che la natura non sarebbe altro che un momento del realizzarsi dello spirito). Engels non può accettare questa concezione, perché essa comporterebbe la conoscibilità a priori della natura (ossia la possibilità di dedurla dai principi generali del pen­siero), e ciò risulta in manifesto contrasto con il procedere della conoscenza scientifica a base sperimentale. Se egli conclude col materialismo, è dunque perché, volendo evitare i pericoli dell'agnosticismo, non vede possibile altra via fuorché quella idealistica o quella materialistica.

Ma, come sappiamo dalle pagine precedenti, egli fa ancora qualcosa di più: cerca cioè di elaborare un materialismo. dialettico, avendo dimostrato, con argo­menti che abbiamo riconosciuto incontestabili, l'incompatibilità del materialismo meccanicistico con la scienza moderna. Già abbiamo discusso a lungo il significato del termine dialettico, e abbiamo visto che Engels lo usa essenzialmente ad uno scopo: per rifiutare la presunzione gratuita dei meccanicisti di ridurre ogni tipo di variazione a moto meccanico. Non si nasconde però il pericolo che l'uso di tale termine lo riporti nell'ambito della filosofia idealistica, ed è perciò che parla arditamente di «dialettica della natura», sostenendo inoltre- per non dar luogo ad una nuova frattura tra pensiero ed essere- la profonda identità della dia­lettica della natura con la dialettica dello spirito (cioè con la dialettica che si realizza in tutto lo sviluppo dell'umanità: in quello delle nostre conoscenze come in quello delle nostre concezioni etiche, delle nostre istituzioni sociali ecc.). L'opzione per il materialismo dialettico significa, per lui, l'esclusione di qualunque iato fra la storia della natura e la storia dell'umanità.

È una tesi che ha lasciato e lascia perplessi anche molti marxisti, sebbene Engels la ribadisca più e più volte con estrema energia: «La dialettica, la co­siddetta dialettica obiettÙJa, domina in tutta la natura, e la cosiddetta dialettica soggettiva, o pensiero dialettico, non è che il riflesso del movimento che nella natura si manifesta sempre in opposizioni. »

Non è il caso di diffonderci a lungo sulle prove con cui egli cerca di con·· validare la concezione ora riferita. Esse si riducono in sostanza all'argomento già

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più sopra accennato: se non si vuole ammettere un'insuperabile alterità fra essere e pensiero (alterità che ci condurrebbe fatalmente all'agnosticismo), bisogna riconoscere che, risultando tutti i pensieri dialetticamente legati fra loro, anche gli oggetti della natura dovranno essere legati dialetticamente l'uno all'altro. Insomma, non è possibile considerare « essenzialmente nel loro nesso » le im­magini soggettive delle cose, senza fare altrettanto anche per le cose stesse. En­gels ne conclude che la natura dovrà costituire « il banco di prova della dialetti­ca». E aggiunge con evidente soddisfazione: «Noi dobbiamo dire a lode della moderna scienza della natura che essa ha fornito a questo banco di prova un materiale estremamente ricco che va accumulandosi giornalmente, e che di conseguenza essa ha dimostrato che, in ultima analisi, la natura procede dialetti­camente e non metafisicamente. »

Affiora qui un secondo movente che ha condotto Engels al materialismo dialettico: è l'intento di delineare una concezione profondamente unitaria del pensiero filosofico e di quello scientifico. Mentre stava diffondendosi nella cul­tura borghese europea (ormai in crisi) l'idea della rigida contrapposizione fra scienze della natura e scienze dello spirito (si ritornerà su questo argomento nel capitolo VI del volume sesto), Engels ritiene che la classe proletaria debba corag­giosamente assumere nelle proprie mani la difesa di quella concezione unitaria di tutto il sapere che era stata una delle principali bandiere della borghesia nella sua fase ascendente; Questa difesa dovrà venire svolta con armi nuove (appunto con le armi della dialettica), ma proprio perciò avrà un'efficacia per l'innanzi scono­sciuta. Se la filosofia elaborata dal proletariato dovesse presentarsi soltanto come una filosofia della storia umana, e non anche come una filosofia della natura, ciò costituirebbe per essa un segno di gravissima debolezza comportando per principio la rinuncia, da parte della nuova cultura, ad avvalersi dei fecondi sti­moli che ci vengono ininterrottamente forniti dallo sviluppo della scienza (uno dei prodotti più grandiosi e più validi della società moderna).

Lo sforzo compiuto da Engels di saldare fra loro le cosiddette « scienze della natura » e le cosiddette « scienze dello spirito » ci rivela un terzo movente, non meno importante, della sua concezione. Il pericolo di un frantumarsi del patrimonio conoscitivo dell'umanità in tante conoscenze settoriali e specialistiche, prive di incidenza sulla cultura, è ben presente innanzi a lui; come pure è pre­sente il pericolo di voler artificiosamente costruire un « sistema del mondo » che rinnegherebbe a priori la possibilità di nuove scoperte capaci di rivoluzio­nare il patrimonio anzidetto. Per evitare l'una e l'altra tentazione occorre trovare una via che lasci piena libertà di sviluppo a tutte le ricerche particolari (sulla storia dell'uomo come su quella della natura) e nel contempo instauri fra esse - nessuna esclusa- un nuovo tipo di legame essenzialmente aperto; occorre cioè scoprire un nuovo modo di concepire i processi conoscitivi che, senza im­porre loro alcuna chiusura a priori, non ci impedisca di mirare, attraverso ad

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essi, ad una « rappresentazione della totalità del mondo ». Ebbene, proprio la dialettica e solo essa è capace - secondo Engels - di fornirci lo strumento idoneo a questo fine, il che costituisce un'ulteriore prova della sua validità. «Un sistema che abbracci completamente e concluda una volta per sempre la conoscenza della natura e della storia è in contraddizione con le leggi fonda­mentali del pensiero dialettico; la qual cosa però non esclude affatto, ma al con­trario implica, che la conoscenza sistematica di tutto il mondo ... possa com­piere di generazione in generazione dei passi da gigante. »

Resta infine da accennare ad un ultimo scopo- forse quello per lui più importante - che indusse Engels a delineare una concezione dialettica generale (dei processi naturali e di quelli umani). È l'intento di fornire un fondamento obiettivo al materialismo storico. Finché questo si limita a provare la validità della dialettica nel campo dei fenomeni umani, nessuno potrà spegnere il dubbio che esso sia qualcosa di meramente soggettivo, e in ultima istanza illusorio. Se invece si riesce a radicare la dialettica della storia umana nella dialettica della storia della natura, la sua validità risulterà immensamente rafforzata. E, per En­gels, rafforzare la validità della dialettica significa rafforzare il movimento rivo­luzionario del proletariato. È una convinzione fermissima, che gli proviene di­rettamente da Marx. Ecco infatti ciò che possiamo leggere nel Capitale: «Nella forma razionale la dialettica è scandalo e orrore per la borghesia e per i suoi corifei dottrinari, perché nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso, la comprensione cioè del suo necessario tramonto, perché concepisce ogni forma come divenuta nel fluire del movimento e quindi include anche la comprensione del suo lato transeunte, perché nulla la può intimidire ed essa è critica e rivo­luzionaria per essenza. »

Si potranno sollevare molte obiezioni contro il materialismo dialettico en­gelsiano, ma non si potrà fare a meno di riconoscergli una grande coerenza in­terna e una straordinaria capacità di individuare i problemi cruciali della nostra epoca, da quelli teorici a quelli più direttamente politici (come l'ultimo testé accennato, cioè il rafforzamento dello spirito rivoluzionario). Per questo abbiamo parlato di attualità del pensiero di Engels, indipendentemente dall'accettazione o meno delle singole tesi da lui sostenute.

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CAPITOLO PRIMO

Caratteri positivi e negativi della nuova epoca

Oltre agli studi ricordati nel volume precedente, si vedano i seguenti altri lavori: G. MILHAUD, Le positivisme et le progrès de l'esprit, Parigi I9o2; G. CANTECOR, Le po­sitivisme, Parigi I9o4; A. ScHMEKEL, Die positive Philosophie in ihrer geschichtlichn Ent­wicklung, Berlino I914; F. SYDNEY MARVIN, The century of hope. A sketch ofwestern progress from IBIJ to the great war, Oxford 1919; R. HENNIG, Buch beriihmter Ingenieure. Grosse Miinner der Technik, ihr Lebensgang und ihr Lebenswerk, Berlino I923; L. GEYMONAT, Il problema della conoscenza nel positivismo, Torino 193 I; A. BRIGGs, The age oJ improvement, New York I957; P. RoussEAU, Ces inconnus ont Jait le siècle, Parigi 196o; W.M. SIMON, European positivism in the nineteenth century. An esscry in intellectual history, New York I963; S. HABER, Ejjìcienry and uplift: scientiftc management in the progressive era, I890-I920, Londra-Chicago 1964; The golden age oJ science. Thirry portraits of the giants oJ the 19th century science, lry their scientiftc contemporaries, a cura di B.Z. JoNES, New York 1966; J. G. CROWTHER, s tatesmen of science, Cb ester Spring I 966; Beitriige zur Entwicklung der Wissenschajtstheorie im 19. jahrhundert, a cura di A. DIEMER, Meisenheim am Glam I968.

CAPITOLI SECONDO-TERZO

La crisi dell' hegelismo - Il rovesciamento dell' hegelismo

Sulla scuola hegeliana in generale, e sulle tendenze di destra e di sinistra, ci sono due antologie: Die Hegelsche Rechte, a cura di H. LtiBBE, Stoccarda-Bad Cannstatt 1962 (testi scelti dalle opere di esponenti della destra hegeliana); Die Hegelsche Linke, a cura di K. LowiTH, Stoccarda I958, trad. it., Bari I96o, II ed. 1966, (testi di H. Heine, A. Ruge, M. Hess, M. Stirner, B. Bauer, L. Feurbach, K. Marx, S. Kierkegaard).

Si vedanò i seguenti studi generali: K. BIEDERMANN, Die deutsche Philosophie von Kant bis auj unsre Zeit, ihre wissenschaftliche Entwicklung und ihre Stellung zu den politischen und sozialen Verhiiltnissen der Gegenwart, 2 voli., Lipsia I 842; K.L. MICHELET, Entwick­lungsgeschichte der neuesten deutschen Philosophie mit besonderer Riicksicht auf den gegenwiirtigen Kampf Schellings mit der Hegelschen Schule, Berlino I 843; J .E. ERDMANN, Anhang al II vol. del Grundriss der Geschichte der Philosophie, Berlino I866, ampliato nel r869 e I877, ed.

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Bibliografia.

postuma I896, a cura di B. ERDMANN; ora pubblicato autonomamente con il titolo Die deutsche Philosophie seit Hegels Tode, a cura di H. Lt.iBBE, Stoccarda Bad Cannstatt I964; G. MAYER, Die Anfange des politischen Radikalismus in vormarzlichen Preussen, in « Zeiischrifr fiir Politik » I9I 3; G. MAYER, Die ]unghegelianer und der preussische Staat, in « Historische Zeitschrift » I9:w; K. RosENKRANZ, Alphabetische Bibliographie der Hegel­schen Schule, in Neue Studien, v, I878; T. ZIEGLER, Die geistigen und sozialen Stromungen Deutschlands im I!). und 20. Jahrhundert, Berlino I92I; D. KorGEN, Zur Geschichte der Philosophie und Sozialphilosophie des junghegelianismus, Berna I90I; B. GROETHUYSEN, Les ]eunes Hégéliens et /es origines du socialisme contemporain en Allemagne, in « Revue philosophi­que » I923; E. HIRSCH, Die idealistische Philosophie und das Christentum, Giitersloh I926; W. MooG, Hegel und die Hegelsche Schule, Monaco I93o; il volume di F. MEHRING, Zur Geschichte der Philosophie, Berlino I 9 3 I, raccoglie anche studi su autori della scuola hegeliana; K. HECKER, Mensch und Masse. Situation und Handeln der Epigonen, Berlino I933; H. PLESSNER, Das Schicksal deutschen Geistes im Ausgang seiner biirgerlichen Epo­che, Zurigo I935; F. SCHNABEL, Die religiosen Krafte, Friburgo i. B. I937, (rv ed. I959, trad. it., Brescia I944, rv vol. della Deutsche Geschichte im I!). jahrhundert, 4 voli., Friburgo i. B. I929-37); K. LowiTH, Von Hegel zu Nietzsche, Zurigo I94I, n. ed. Stoccarda I949 (trad. it., Torino I959, m ed. I969); M.G. LANGE, Der ]unghegelia­nismus und die Anjange des Marxismus, Jena I946; G. Mt.iLLER, Die Entwicklung der Religionsphilosophie in der Hegelschen Schule, in « Zeitschrift fiir philosophische For­schung » I949; M. Rossi, Introduzione alla storia delle interpretazioni di Hegel, Messina I9H; E. HIRSCH, v vol. della Geschichte der neueren evangelischen Theologie, Giitersloh I954 (n ed. I96o); G. LuKA.cs, Die Zerstorung der Vernunft, Berlino I954 (n ed. I962; trad. it., Torino I959, II ed. I964); A. CoRNU, K. Marx et F. Engels, 4 voli., Parigi I95 5-70, (trad. it. dei voli. I-II, Milano I962); F. ScHLAWE, Die « Berliner ]ahrbiicher fiir wissenschajtliche Kritik ». Ein Beitrag zur Geschichte des Hegelianismus, in « Zeitschrift fiir Religions- un d Geistesgeschichte » I 9 59; H. L t.iBBE, Di e politische Theorie der Hegelschen Rechte, in « Archi v fiir Philosophie » I 96o; F. ScHLAWE, Die junghegelsche Publizistik, in« Die Welt als Geschichte. Bine Zeitschrift fiir Universalgeschichte » I96o; M. Rossi, Marx e la dialettica hegeliana, 2 voli., Roma I96o-63, (n ed., Milano I97o), vol. 11: La genesi del matel"iàlismo storico; F. FERGNANI, Il« bifrontismo »di Hegel e la Sinistra hegeliana, i.n «Pensiero critico» I96I; F. SERRA, Dalla sinistra hegeliana all'Europa, in« Il Mulino» I962; C. CESA, Hcgelismo e filosofia a Tubinga intorno al I8 JO, in «Giornale critico della fi­losofia italiana)) I962; H.M. SASS, Untersuchungen zur Religionsphilosophie in der Hegelschen Schule, Miinster I962; H.M. SAss, Schelling und die Junghegelianer. Ein unbekannter Brief Schellings, in « Zeitschrift fii~ Religions- und Geistesgeschichte » I962; B. BACZKO, La gauche et la droite hégélienne en Pologne dans la première moitié du XIX siècle, in «Annali» dell'Istituto G.G. Feltrinelli, I963; A. WALICKI, Hegel, Feuerbach, and the russian « philo­sophicallejt » I 8 36-I 8 48, i vi; C. CESA, Figure e problemi della storiografia filoso fica della sinistra hegeliana. I8p-I848, ivi; J.DRoz-P. AYçOBERRY, Structures sociales et courants idéologiques dans I'AIIemagne prérévolutionnaire. I8JJ-I84J, ivi; J. GEBHARDT, Politik und Eschatologie. Studien zur Geschichte der Hegelschen Schule in den jahren I8JO-I8JO, Monaco I963; H. STESSLOFF, Die ]unghegelianer, Berlino I963; W.A. ScHULZE, Das johannesevangelùtm im deutschen Idealismus, in« Zeitschrift fiir philosophische Forschung » I964; E. RAMBALDI, Le origini della sinistra hegeliana. Heine, Strauss, Feuerbach, Ba11er, Firenze I966; L. MAJOR,

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Bibliografia

Zur Ceschichte des Streites um das politische Projil der Hegelschen Philosophie des Rechts, in « Filosoficky Casopis » I 966.

Su Goschel si veda: H. ScHMIEDER, K.F. Cosche!, Lipsia I863; J. FocH, K.F. Cosche!, Lengerich i.W. I939·

Su E. Gans, si veda: L. GEIGER, Aus Cans' Friihzeit {I8IJ), in « Zeitschrift fi.ir die Geschichte der Juden in Deutschland)) I892; W.R. BEYER, Cans' Vorrede zur Hegelschen Rechtsphilosophie, in« Archiv fi.ir Rechts- und Sozialphilosophie » I959; H.J. ScHOEPS, Um die Berufung von E. Cans in « Zeitschrift fi.ir Religions- und Geistesgeschi­chte » I962; H.G. REISSNER, E. Cans, Tubinga I965; M. RIEDEL, Hegel und Cans, in AuTORI v ARI, Natur und Ceschichte. Karl Lowith zum JO. Ceburtstag, Stoccarda I967.

Non esiste una edizione complessiva delle opere di F.K. VON SAVIGNY, ma molti suoi scritti sono stati riediti; così Vom Beruf unserer Zeit fiir Cesetzgebung und Rechtswissen­schaft (I8I4), più volte riedito, è uscito recentemente in una n.ed., Hildesheim I968, ed aveva avuto una trad. it., Verona I857; la monumentale Ceschichte des romischen Rechts i m Mittelalter, 6 voli., Heidelberg I 8 I 5-3 I, n ed. ampliata in 7 voli., i vi, I 8 34-5 I, è stata tradotta in i t. in 3 voli., Torino I 8 54-57; lo scritto 5_ystem des heutigen Rechts, 8 voli., Berlino I840-49, è stata trad. in it. in 8 voli., Torino 1886-88, come pure Das Ob!igationenrecht, 2 voli., Berlino I85I-53, trad. it. 2 voli., Torino I9I2-I5.

Per valutare l'incidenza di Savigny giurista si consulti la rivista specializzata « Zeitschrift der Savigny-Stiftung fi.ir Rechtsgeschichte »; per una valutazione generale dell'autore, si vedano: A. STOLL, F.K. von Savig?ry, 3 voli., Berlino I927-29; F. ZWILG­MEYER, Die Rechtslehre Savig~ys, Lipsia I929; H. KANTOROWICZ, Savig?ry and the historical school of law, in« Law quarterly review », I937; F. WIEACKER, F.K. von Savig?ry, Gottinga I959; H. }AEGER, Savig?ry et Marx, in « Archives de philosophie du droit » I967; G. MARINI, Savig?ry e il metodo della scienza giuridica, Milano I967.

Le opere di J.F. FRIES, Siimtliche Schriften, sono riedite (con un Fries-Lexicon) a cura di G. KoNIG e L. GELDSETZER, Aalen I968.

Lo scritto postumo di J.F. FRIES, Politik oder philosophische Staatslehre, a cura di E.F. APELT, Jena I848, ha avuto una n.ed. a Hildesheim I965; anche l'organo della scuola di Fries, « Abhandlung der Friesschen Schule », ha avuto una n.ed., ivi I964; informazioni critiche e bibliografiche nella nuova serie delle « Abhandlungen der Friebschen Schule », I904-37, ed ora nella rivista friessiana « Ratio », I958 segg. (edita a Francoforte s.M.).

Per un inquadramento critico si veda: E.L.T. HENKE, ].F. Friess Leben aus seinem handschrift!ichen Nachlass dargestel!t, Lipsia I867; T. ELSENHANS, Fries und Kant, 2 voli., Giessen I9o6; R. OTTo, Kantische-Fries'sche Religionsphilosophie und ihre Anwendung auf die Theologie, Tubinga I9o9; M. HASSEBLATT,j.F. Fries, seine Philosophie und seine Person­lichkeit, Monaco I922; J.KRAFT,.DieMethodeder Rechtstheorie in der Schu!e von Kant und Fries, Berlino I 924; W. DuBISLAV, Die Friessche Lehre von der Begriindung, Domitz I 926; K. HEINRICH, Ueber die realistiche Tendenz in der Erkenntnislehre von ].F. Fries, Wi.irzburg I93 I; J. HASENFUSS, Die Re!igionsphilosophie bei ].F. Fries, Monaco I934; L. NELSON, Fortschritte und Riickschrztte der Philosophie, Francoforte s.M., IQ62.

Delle opere complete di Heine citiamo due edizioni Siimtliche Werke, 7 voli. a cura di E. ELSTER, Lipsia-Vienna s.d. (prefazione I 89o); Siimt!iche Werke, a cura di O. WALZEL e J. FRANKEL, Lipsia I9I I-20. Per l'epistolario si consulti Briefe. Erste Cesamtausgabe

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Bibliografia

nach den Handschriften herausgegeben, a cura di F. HIRTH, 6 voli., Magonza I948-57. Ri­cordiamo le segg. traduzioni, che concernono opere in prosa interessanti la storia della scuola hegeliana e del socialismo: La scuola romantica, Milano I927; Per la storia della religione e della filosofia in Germania, a cura di O. FERRARI, Milano I 94 5 ; Italia (Impressioni di viap,gio), a cura di B. MAFFI, Milano I95 I; Germania e Inghilterra (Impressioni di viaJ!gio), a cura di B. MAFFI, Milano I956; Lutezia, a cura di F. AMoRoso, Torino I959·

Per una bibliografia, si veda W. WADEPUHL, Heine-Studien, Weimar I956. Per un inquadramento generale dell'opposizione letteraria (la «Giovane Germania») alla re­staurazione, si vedano: J. PROLLS, Das funge Deutschland. Ein Buch deutscher Geistes­geschichte, Stoccarda I 892; L. GEIGER, Das funge Deutschland und die preussische Zensur, Berlino I9oo; G. BRANDES, Das funge Deutschland, Berlino I924; G. LuKJ\.cs, Fortschritt und Reaktion in der deutschen Literatur, Berlino I947; P. REIMANN, Hauptstromungen der deutschen Literatur, Berlino I 9 56.

Specificamente su Heine: L. DucRos, Heine et son temps, Parigi I886; A. STRODT­MANN, H. Heines Leben und Werke, 2 voli., Berlino I 867-69; L. P. BETz, Heine in Frankreich,

l Zurigo I895; G. BRANDES, H. Heine, Berlino I89I; G. KARPELES, H. Heine. Aus seinetn Leben und seiner Zeit, Lipsia I 899; H. LICHTENBERGER, H. Heine penseur, Parigi I905; F. MEYER, H. Heine und das funge Deutsch/and, Lipsia I9Io; H.H. HouBEN, Ge­spriiche mit Heine, Francoforte I926, rr ed. Potsdam I948; E.M. BuTLER, The Saint Simonian religion in Germmry, New York I926; G. LuKA.cs, H. Heine als nationaler Dichter (I937), ora in Deutsche Realisten aus dem 19. fahrhundert, Berlino I95 I; trad.it., Milano I963; G. LuKA.cs, Heine und die ideologische Vorbereitung der 48.er Revolution, in « Kommunistische Internationale » I94I, trad.it. in « Sodetà » I956; A. SPAETH, Pour connaitre la pensée de Heine, Parigi I946; F. HIRTH, Heine und seine Jranzosische Freunde, Magonza I949; F. HIRTH, H. Heine. Bausteine zu einer Biographie, Magonza I95o; J. MiiLLER, Marx und Heine, Berlino I95 3; J. DRESCH, Heine à Paris (I8p-I8;6), Parigi I 9 56; AuTORI V ARI fase. doppio dedicato a Heine della rivista « Europe » I 9 56; W. HARICH, H.Heine und das Schulgeheim11iss der deutschen Phi!osophie, in « Sinn und Form » I956; D. CANTIMORI, Note heineiane (I956), ora in Studi storici, Torino I958, m ed. I963; H. KAuFMANN, Politisches Gedicht und klassiche Dichtung. H. Heine, Deutschland, ein Wintermiirchen, Berlino I958; T.W. ADORNO, Die Wunde Heine, in Noten zur Literatur, Francoforte sfM. I 9 58; J. FLEISCHMANN, Heine und di e Hegelsche Philosophie, in « Deutsche Universitatszeitung » I959; P. CHIARINI, Heine fra decadentismo e marxismo, in« Società» I96o; A. FuHRMANN, Recht und Staat bei H. Heine, Bonn I96I; G. ToNELLI, Heine e la Germania, Palermo I963; W. WIELAND, H. Heine und die Philosophie, in « Deutsche Vierteljahrschrift fiir Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte » I963.

Per gli scritti di D.F. STRAUSS si veda la seg. edizione: Gesammelte Schriften, a cura di E. ZELLER, I2 voli., Bonn I876-78; in una edizione mutila è stata pubblicata la dissertazione di dottorato: D.F. Strauss' Doktorarbeit, a cura di E. MiiLLER, in « Zeit­schrift fiir wiirttembergische Landesgeschichte » I942. Del carteggio si hanno tre rac­colte: Ausgewiihlte Briefe, a cura di E. ZELLER, Bonn I895; Briefe von D.F. Strauss an L. Georgii, a cura di H. MEIER, Tubinga I912; Briefwechsel zwischen Strauss und Vischer, a cura di A. RAPP, 2 voli., Stoccarda I952-53. Testi, lettere e documenti anche in: A. HAUSRATH, Strauss und die Theologie seiner Zeit, 2 voli., Heidelberg I876-78, e T. ZIEGLER, D.F. Strauss, Strasburgo I9o8.

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Bibliografia

Tra gli studi critici, ricordiamo: E. ZELLER, D.F. Strauss in seinem Leben und seinen Schriften geschildert, Bonn I874; A.E. BIEDERMANN, Strauss, und seine Bedeutung fiir die protestantische Theologie, Lipsia I875; S. EcK, D.F. Strauss, Stoccarda I899; K. HARRAEUS, D.F. Strauss, Lipsia I90I; A. KoHuT, D.F. Strauss als Denker und Erzieher, Lipsia I9o8; K. FISCHER, Ober D.F. Strauss. Gesammelte Aufsiitze, Heidelberg I9o8; A. LÉVY, D.F. Strauss, la vie et l'teuvre, Parigi I9Io; A. ScHWEITZER, Ge.rchichte der Leben-Jesu Forschung, Tubinga I92I, VI ed. I95 I; F. FIORENTINO, D.F. Strauss, in Ritratti storici e saggi t·ritici, Firenze I93 5; R. MARX, introduzione a D.F. Strauss, Voltaire, sechs Vortrage, Lipsia I936; K.BARTH, D.F. Strauss als Theologe, Zurigo-Zollikon I938, n ed. I948; G.A. VAN DEN BERGH VAN EYSINGA, K. Barth contra D.F. Strauss, in « Nieuw Theologisch Tijdschrift » I94I; C. HARTLICH-W. SACHS, Der Ursprung des Mythosbegriffs in der modernen Bibelwissenschajt, Tubinga I952; G. BACKHAus, Kerygma und Mythos bei D.F. Strauss und R. Bultmann, Amburgo-Bergstedt I956; H. STEUSSLOFF, Die Religionskritik von D.F. Strauss, in« Deutsche Zeitschrift ftir Philosophie » I962.

Non abbiamo nessuna raccolta completa degli scritti di B. BAUER, ma ci sono state varie riedizioni parziali: Das entdeckte Christmtum è stato riedito in E. BARNIKOL, Das entdeckte Christentum im Vormarz, Jena I927, con saggio introduttivo; abbiamo poi una scelta antologica: Bruno Bauer redivivus. Ausschnitte aus den Schriften des « Meisters der theologischen Kritik » (184o-I88o), a cura di G. RuNZE, Berlino I934; lo scritto Geschichte der Politik, Kultur und Aufklarung im 18. Jahrhundert, 2 voli., è riedito ad Aalen I965; la raccolta di saggi Feldziige der reinen Kritik è dedita a cura di H.M. SAss, Francoforte I968, mentre la Posaune desjiingsten Gerichts è stata riedita ad Aalen I969, ed è contenuta integralmente anche nella citata antologia Die Hegelsche Linke; il Briefwechsel zwischen B. Bauer und E. Bauer (I844) è riedito ad Aalen I969.

Su B. Bauer si veda: E. ScHLAGER, B. Bauer und seìne Werke, in « Internationale Monatsschrift » I882; M. KEGEL, B. Bauer und seine Theorien iiber die Entstehung des Chris­tentums, Lipsia I 908; E. BARNIKOL, B. Bauers Kampf gegen Religion und Christentum und die Spaltung der vormarzlichen preussischen Opposition, in « Zeitschrift ftir Kirchen­geschichte » I927; C. CESA, B. Bauer e la filosofia dell'autocoscienza {I84I-I84J), in« Gior­nale critico della filosofia italiana » I 96o; M. Rossi, La « Posaune » di B. Bauer e la fi­losofia hegeliana della religione, in «Rivista di filosofia» I963; G.A. VAN DEN BERGH VAN EYSINGA, Aus einer unveroffentlichten Biographie von B. Bauer, in «Annali» del­l'Istituto G. G. Feltrinelli I963; H. STEUSSLOFF, B. Bauer als ]unghegelianer, in« Deutsche Zeitschrift ftir Philosophie » I963; G. SIEGMUND, Hegel als Glaubensschicksal. B. Bauers Weg vom Theologen zum Atheisten, in Philosophisches Jahrbuch I96J-64; J.V. KEMPSKI, Ober B. Bauer, in « Archiv ftir Philosophie » I963, ora in Brechungen. Kritische Ver­suche zur Philosophie der Gegenwart, Amburgo I964; A. ZANARDO, B. Bauer hegeliano e giovane hegeliano (saggio bibliografico), in «Rivista critica di storia della filosofia» I966.

Abbiamo due edizioni complete delle opere di L. Feuerbach; la prima, licenziata dall'autore, è la Samtliche Werke, Io voli., Lipsia I 846-66; la seconda si intitola Samtliche Werke, a cura di W. BoLIN e F. JooL, Io voli., Stoccarda I9o3-II, n.ed. ampliata in 13 voli., a cura di H.M. SAss, Stoccarda-Bad Cannstatt I96o-64. Una terza edizione è in corso di pubblicazione: Gesammelte Werke, a cura di W. ScHUFFENHAUER, Berlino 1967 sgg.; sinora sono usciti i sgg. volumi: IV, VI e VIII a cura di W. HARICH,

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Bibliografia

III e VII a cura di W. ScHUFFENHAUER e W. HARICH. Carteggi ed opere postume in L. Feuerbach in seinem Briefwechsel und Nachlass, a cura di K. GRiiN, z voll., Lipsia-Heidel­berg I 874; Briefwechsel zwischen L. Feuerbach und c. Kapp, a cura di A. KAPP, Lipsia I 876; Ausgewiihlte Briefe von und an L. Feuerbach, a cura di W. BOLIN, z voll., Lipsia I904, n.ed. ampliata a cura di H.M. SAss quale voli. XII-XIII della cit. ried. della Siimtliche Werke; carteggio ed inediti in A. KOHUT, L. Feuerbach, sein Leben und seine Werke, Lipsia I9o9; altre lettere a cura di M. e F. HERWEGH, sotto il titolo di Briefwechsel Georg und Emma Herweghs mit L. Feuerbach, in «Nord und Siid. Eine deutsche Monatsschrift » I909. Varie lettere prima inedite in L. Feuerbach Briefwechsel, a cura di W. ScHUFFENHAUER, Berlino I963. Importanti testi inediti sono stati pubblicati a cura di C. AscHERI: Notwendigkeit einer Veriinderung ( 1842-4J), testo tedesco in L. FEUERBACH, Kleine Schriften a cura di K. LoviTH, Francoforte s.M. I966; testo tedesco con apparato critico e trad. italiana a fronte a cura dello stesso C. AscHERI in «De homine » I966, n.ed. Firenze, I97I; Ein unbekannter Brief von L. Feuerbach an K. Daub, a cura di C. AscHERI, in Karl Lowith zum 70. Geburtstag, Stoccarda I967. La Opponenzrede a Harless è stata pubblicata a cura di C. AscHERI, con nota di C. CEsA, in « Rivista critica di storia della filosofia » I970. Si vedano infine due attribuzioni: H.M. SAss, Fuerbach stati Marx, in «Interna­donai review for social history » I965, e E. RAMBALDI, La prima presentazione de (( L'essenza del cristianesimo », in (( Rivista critica di storia della filosofia )) I 966. Edizioni critiche in senso proprio non si hanno, nemmeno l'edizione di Das Wesen des Christentums presentata come «critica» da K. QuENZEL, Lipsia i9o4; ricordiamo però l'ed. di Das Wesen des Christentums, z voll., curata da W. ScHUFFENHAUER, Berlino I956, perché contiene un apparato delle varianti tra le tre edizioni dell'opera licenziate dall'autore (1841, 1843, 1849)·

Ricordiamo le segg. traduzioni italiane: La morte e l'immortalità, trad. it. di B. GALLETTI, Palermo 1866, Lanciano I9I7, II ed. I934, una riduzione delle Lezioni sull'essenza della religione venne tradotta a cura di L. STEFANONI, Milano I87z, IV ed. 19z7; testi scelti in appendice alla monografia di F. LOMBARDI, Ludovico Feuerbach, Firenze 1935; sotto il titolo di Principi della filosofia dell'avvenire, a cura di N. BoBBIO, Torino 1946, III ed. 1971, sono tradotti, oltre ai Principi, anche le Tesi e la Critica de/la filosofia hegeliana; L'essenza del cristianesimo è tradotta (incompletamente) da C. CoMETTI, introd. di A.BANFI, z voli., Milano 1949-50, ried. in un volume nel 196o, III ed. I971; Versi sulla morte, trad. di G. ScABIA, in «Il contemporaneo» 196z. Un'ampia antologia è stata curata e tradotta da C. CEsA: Opere, Bari 196 5. Lo scritto Essenza della religione, è stato tradotto a cura di C. AscHERI e C. CESA, Bari 1968.

Quali strumenti bibliografici ricordiamo la rassegna di C. CEsA, Ludovico Feuerbach nella più recente letteratura, in «Giornale critico della filosofia italiana» I961; la bibliogra­fia aggiunta da H. M. SAss all'xi vol. dell'edizione da lui curata delle Siimtliche Werke; W. W. WARTOFSKY, L. Feuerbach. A review of some recent literature, in« The philosophical forum» I964-65.

Su Feuerbach si veda: W. WINDELBAND, L. Feuerbach, in « Neues Reich » I87z; A. RAu, L. Feuerbachs Philosophie, Lipsia 188z; K. GRiiN, L. Feuerbach, Stoccarda I885; E. v. HARTMANN, L. Feuerbach und M. Stirner, in« Magazin fiir die Literatur des In- und Auslandes )) I886; L. STEIN, Die sazia/e Frage im Licht der Philosophie Feuerbachs, Stoccarda 1887; W. WINTZER, Die naturliche Sittenlehre Feuerbachs, Stoccarda I887;

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Bibliografia

W. BouN, L. Feuerbach. Sein Wirken und seineZeitgenossen, Stoccarda I89I; C.N. STARCKE, L. Feuerbach, Stoccarda I895; K. QuENZEL, L. Feuerbach, ein Totgesschwiegener, in «All­gemeine deutsche Universitatszeitung » I9oo; F. JoDL, L. Feuerbach, Stoccarda I904, II ed. I92I; A. LÉVY, La philosophie de Feuerbach et son influence sur la littérature allemande, Parigi I 904; R. MoNDOLFO, Feuerbach e Marx, in « La cultura filosofica» I 909, ora am­pliato in R. MoNDOLFO, U manismo di Marx. Studi filosofici I9 o8-66, Torino I 968; K. LEESE, Die Prinzipienlehre der neueren systematischen Theologie im Lichte der Kritik L. Feuerbachs, Lipsia I9I2; H. GIRKON, Darstellung und Kritik des religiòsen Illusionsbegriffs bei Feuerbach, Tubinga I9I4; K. BARTH, L. Feuerbach, in« Zwischen den Zeiten » I927; K. LowrTH, L. Feuerbach und der Ausgang der klassischen Philosophie, in « Logos >> I928, ampiamente ripreso in K. LowiTH, Das Individuum in der Rolle des Mitmenschen, Monaco I928. Classica la monografia S. RAwroowrcz, L. Feuerbachs Philosophie, Berlino I931, II ed. I964; F. LOMBARDI, L. Feuerbach, Firenze I935; G. NiiDLING, L. Feuerbachs Religionsphilosophie, Paderborn I936, II ed. I96I; H. DE LuBAC, Le drame de l'humanisme athée, Parigi I944, varie ried.; G. BALLANTI, Il problema dell'essere in L. Feuerbach, in « Rivista di filosofia neo­scolastica» I95 I; J. VurLLEMIN, La signiftcation de l'humanisme athée chez Feuerbach et l'idée de la nature, in « Deukalion » I952; W. HARICH, tJber L. Feuerbach, in« Deutsche Zeitschrift ftir Philosophie » I954; K. HAGER, L. Feuerbach, ein grosser Materialist, in « Zeitschrift ftir Theorie und Praxis cles wissenschaftlichen Sozialismus » I954; J. H6PPNER, L. Feuerbach und der Idealismus, in « Wissenschaftliche Zeitschrift der Hum­boldt Universitat zu Berlin » I954-55; A. MAZZONE, Il problema delle scienze morali e la mediazione teoretico dalla critica feuerbachiana ai « Manoscritti» di Marx, in «Aut-Aut» 195 5; w. SCHUFFENHAUER, L. Feuerbachs Entwicklung zum philosophischen Materialisten, Berlino I956; W. ScHILLING, Feuerbach und die Religion, Monaco I957; H. ARVON, L. Feuerbach, ou la transformation du sacré, Parigi I957; G. DrcKE, Der Identitiitsgedanke bei Feuerbach und Marx, Colonia-Opladen I96o; K. BoCKMUHL, Leiblichkeit und Ge­sellschaft, Gottinga 1961; C. CEsA, Storicismo e storia nel pensiero di Feurbach, in «Atti del xii congresso internazionale di filosofia» r96I; W. MAIHOFER, Konkrete Existenz. Versuch iiber die philosophische Anthropologie L. Feuerbachs, in AuTORI V ARI, Existenz und Ordnung. Festschrift fiir F. Wolf zum 6o. Geburtstag, Francoforte I962; c. CESA, Il giovane. Feuerbach, Bari I963; J. GLASSE, Barth on Feuerbach, in « The Harvard theological review » 1964; A.J. KLIMKEIT, Das Wunderverstiindnis L. Feuerbachs in rel~gionsphii­

nomenologischer Sicht, Bonn 1965; W. ScHUFFENHAUER, Feuerbach und der }unge Marx, Berlino I 96 5 ; E. RAMBALDI, La critica antispeculativa di L.A. Feuerbach, Firenze r 966; C. AsCHERI, Feuerbach I842: necessità di un cambiamento, in «De homine » I966, n.ed. Firenze, I97I; A. ScHMIDT, Fiir eine neue Lektiire Feuerbachs, introd. a L. FEUERBACH, Anthropologischer Materialismus, ausgewiihlte Schriften, Francoforte I966; K. LowiTH, Nachwort a L. Feuerbach, kleine Schriften, Francoforte I966; J.P. OsrER, Introduction alla trad. francese, a cura di J.P. OsiER e J.P. GROSSEIN, di L. FEUERBACH, L'essence du christianisme, Parigi I 968; C. AscHERI, Aspetti dell' hegelismo del giovane Feuerbach, in « Hegel-Studien » I969; C. CEsA, Zeller e Feuerbach; L DuBSKY, L. Feuerbach in der Buberschen Sicht; H.M. SAss, Diskussionsstrategien und Kritikmodelle in der Feuerbachkritik, in Studi in memoria di Carlo Ascheri, Urbino I97o; E. KAMENKA, The philosop~y of L. Feuerbach, Londra, I97I.

Su Stahl, si veda: G. MASUR, F.]. Stahl. Geschichte seines Lebens, Berlino I93o;

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Bibliografia

O. VoLZ, Christentum und Positivismus. Die Grundlage der Rechts- und Staatsauffassung F.]. Stahls, Tubinga I95 I.

Delle opere di Ruge abbiamo tre edizioni, sostanzialmente uguali, ma né critiche né complete: Séimttiche Werke, IO voli., Mannheim I846-47, ivi I847-48, Lipsia I85o; incompleto anche il pur ampio carteggio, raccolto in A. RuGE, Briefwechsel und Tage­buchblatter aus den jahren I82J-I88o, a cura di P. NERRLICH, 2 voli., Berlino I 886; il saggio di Ruge, Unser System (I85o), fu riedito a cura di C.I. GRECE, Francoforte I903.

Su A. Ruge si veda: H. RosENBERG, A. Ruge und di e Hallischen Jahrbucher, in « Archi v fiir Kulturgeschichte » I93o; W. NEHER, A. Ruge als Politiker und politischer Schriftsteller, Heidelberg I93 3; M. G. LANGE, A. Ruge und die Entwicklung des Parteilebens im Vormà'rz, in « Einheit » I 948; B. MESMER-STRUP, A. Ruges Pian einer « Alliance intellectuelle)) zwischen Deutschen und Franzosen, Berna I963.

Su Koppen si veda: H. HuscH, K.F. Koppen, in « International review for so­eia! history » I936.

Di H. Leo è stato recentemente pubblicato un inedito: Der Hegelianismus in Preussen, a cura di H. DIWALD, in « Zeitschrift fi.ir Religions- und Geistesgeschichte » I95 8.

Le edizioni complessive delle opere di J.J. Gorres sono le seguenti: Gesammelte Schriften, a cura di M. G6RRES e S. BrNDER, 9 voli. (vn-rx epistolario), Monaco I854-74; una nuova edizione critica, promossa dalla Gorres-Gesellschaft, esce a Colonia I9z6 e segg., ed è finora in 26 voli., a cura prima di W. ScHELLBERG e A. DYROFF, proseguita poi da L. JusT.

Per un inquadramento critico dell'autore, ricordiamo: H. GARNERT, Graf ]. de

Maistre und ].v. Gorres vor Io o jahren, Colonia I922; K.A. v. MuLLER, Gorres in Strassburg. I8I9-20, Stoccarda I926; G. KALLEN,j. Gorres und der deutsche Idealismus, Monaco I926; AuTORI VARI, Gorres Festschrift, a cura di K. HoEBER, Colonia I926; F. BoRINSKI, Gorres und die deutsche Parteibildung, Li p sia I 92 7; c. RIELER, Gorres' sozialphilosophische Anschauungen, Lipsia I927; V. W ALTER, Die christliche M_ystik von ]. Gorres in ihrem Zusammenhang mit der wissenschaftlichen Romantik, Monaco I957; G. BuRKE, Vom Mythos zur _:tfystik. ]. von Gorres' m_ystische Lehre und die romantische Naturphilosophie, Einsiedeln I95 8; R. HABEL, ]. Gorres. Studien uber den Zusammenhang von Natur, Geschichte und Mythos tn seinen Schriften, Wiesbaden I96o.

CAPITOLO QUARTO

La fondazione del socialismo scientifico

Per quanto concerne Marx e il socialismo scientifico si veda la bibliografia del capitolo xrv.

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CAPITOLO QUINTO

La lotta per il materialismo in Germania

Dei materialisti tedeschi sono tradotte in italiano le seguenti opere: di J. Moleschott, La circolazione della vita, a cura di C. LoMBRoso, Milano 1869; Per gli amici miei; ricordi autobiografici, Milano 1902; di Biichner, Forza e materia, a cura di L. STEFANONI, Milano 1883 (m ed.); L'uomo secondo la scienza del tempo passato, presente e futuro, a cura dello stesso, 3 voli., Milano 187o-8 3; Scienza e natura, a cura dello stesso, Milano 1868.

Sul materialismo tedesco, sia in generale che sui singoli autori, gli studi sono scarsi: ]. FRAUENSTADT, Der Materialismus. Bine Erwiderung auf dr. L. Buchners « Kraft und Sto./f», Lipsia 1856; K. MARX, Herr Vogt, Londra 186o; F.A. LANGE, Die Geschichte des Materialismus und Kritik seiner Bedeutung in der Gegenwart, 2 voli., Iserlohn 1866 (x ed., Lipsia 1921; trad. it. a cura di A. TREVES, 2 voli., Milano 1932); E.A. NEUMANN, Die Naturwissenschaften und der Materialismus, Bonn 1869; P. JANET, Le matérialisme contempo­rain en Allemagne, Parigi 1864; H. LANGENBECK, Soli von dr. L. Buchners « Kraft und Sto./f» auch noch eine neunte Auflage erscheinen, Lipsia I865; E. JoHNSON, H. Czolbe, Ko­nigsberg 1873; H. V AIHINGER, Die drei Phasen des Czolbeschen Naturalismus, in « Phi­losophische Monatshefte » I 876; P. FRIEDMANN, Darstellung und Kritik der naturalistischen Weltanschauung H. Czolbes, Berna 1905; ]. ]uNG, K. Vogts Weltanschauung, Paderborn I915; H, MISTELLI, K. Vogt, Zurfgo 1938.

CAPITOLO SESTO

S chopenhauer e Kierkegaard

Le principali edizioni complessive delle opere di Schopenhauer sono le seguenti: Werke, a cura di J. FRAUENSTADT, 6 voli., Lipsia I873-74 (nuova edizione rielaborata a cura di A. HuBSCHER, 7 voli., Wiesbaden 1946-p); Werke, a cura di E. GRISEBACH, 6 voli., Lipsia 1891 segg. (m ed. a cura di E. BERGMANN, Io voli., I921 segg.); Werke, a cura di P. DEuSSEN, Monaco 1911 segg. La migliore edizione del Nachlass è quella curata da A. HuBSCHER, Francoforte sul Meno 1966. Numerose le edizioni di lettere e di vari documenti biografici. Le principali opere di Schopenhauer sono tradotte in italiano: Il mondo come volontà e rappresentazione, vol. I, a cura di N. PALANGA, Perugia 19I3 (nuova ed. Milano 1969); a cura di P. SAVJ-LOPEZ e G. DE LoRENZO, Bari 1928 (nuova edizione a cura di C. VASOLI, 2 voli. I968); vol. n, a cura di G. DE LoRENZO, Bari I93o; Parerga e paralipomena, a cura di G. CoLLI, M. MoNTINARI e E. AMENDOLA KuHN, Torino I959; La quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, a cura di E. AMENDOLA KuHN, Torino 1959; Etica, a cura di G. FAGGIN, Torino I961; La volontà nella natura, a cura di G. SEREGNI, Milano 1927. Per quanto concerne la bibliografia si vedano anzitutto gli Jahrbiicher della Schopenhauer-Gesellschaft, pubblicati a partire dal 1912, e inoltre: F. LABAN, Die Schopenhauer-Literatur, Lipsia 188o (supplemento, Londra 1882); E. GRISE­BACH, Edita und inedita schopenhaueriana. Bine S chopenhauer Bibliographie, Li p sia I 8 8 8; Io., Schopenhauer. Neue Beitrage zur Geschichte seines Lebens nebst einer Schopenhauer-Biblio-

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Bibliografia

graphie, Berlino 1905; E. ZoccoLI, Della letteratura schopenhaueriana, Modena 1908; B. VARISCO, Bibliografia su Schopenhauer, in «Bollettino filosofico» I9I 3; G. RAHLFS, Schopenhauer-Bibliographie, in Gedéichtnisschrift fiir A. Schopenhauer, Berlino I938; G. MoRRA, Cento anni di studi schopenhaueriani in Italia, in La riscoperta del sacro. Studi per una antropologia integrale, Bologna I 964. Si ricordano inoltre i seguenti lessici: J. FRAUEN­STADT, Schopenhauer-Lexicon, Lipsia I 87I; W. HERSTLET, Schopenhauer-Register, Lipsia I89o; G. W. WAGNER, En:zyklopéidisches Register zu Schopenhauers Werken, Karlsruhe

I909· I principali studi complessivi sulla vita e sull'opera di Schopenhauer sono i seguenti:

]. FRAUENSTADT, Briefe iiber die Schopenhauersche Philosophie, Lipsia I854; C.G. BA.HR, Die Schopenhauersche Philosophie in ihren Grundziigen,Dresda I857; R. SEYDEL, Schopenhauers philosophisches System dargestellt und beurtheilt, Li p sia I 8 57; W. GwiNNER, A. Schopenhauer aus personlichem Umgange dargestellt, Lipsia I862 (m ed. I9Io; nuova edizione a cura di C. GwiNNER, I922; Francoforte sul Meno I963); E.O. LINDNER, A. Schopenhauer. Ein W or t der Verteidigung, Berlino I 863; R. HAYM, A. Schopenhauer, Berlino I 864; D. AsHER, Schopenhauer-Neues von ihm und iiber ihn, Berlino I87I; K. VON SEIDLITZ, A. Schopenhauer 110m medizinischen Standpunkt aus betrachtet, Dorpat I872; J. BoNA-MAYER, A. Schopenhauer als Mensch und Denker, Berlino I 872; F. HARMS, A. Schopenhauers Philosophie, Berlino 1874; T. RIBOT, La philosophie de Schopenhauer, Parigi I874 (xrr ed. I9o9); J. FRAUEN­STADT, Neue Brieje iiber die Schopenhauersche Philosophie, Lipsia I 876; E. VON HARTMANN, Schopenhauer et son disciple Frauenstéidt, in « Revue philosophique » I 876; H. ZIMMERN, A. Schopenhauer, his !ife andphilosopry, Londra I876 (trad. italiana, Milano I887); G. BARZELLOTTI, Il pessimismo dello Schopenhauer, Firenze I 878; C. RENOUVIER, La logique du système de Schopenhauer, in « Critique philosophique » I 878; In., La métapf?ysique de Schopenhauer. Idéalisme, matérialisme, monisme, Parigi I882; A. PAULSEN, A. Schopenhauer. Der Zusammenhang seiner Philosophie mit seiner Personlichkeit, in « Deutsche Rundschau » I882; R. KOEBER, Die Philosophie Schopenhauers, Heidelberg I888; E. LEHMANN, Die verschiedenartigen E le mente der S chopenhauerschen Willenslehre, Strasburgo 1 8 89; C. RENOU­VIER, Schopenhauer et la métaprysique du pessimisme, in « L'année philosophique » I892; K. FISCHER, Schopenhauers Leben, Werke und Lehre, Heidelberg I893; M. MILLIOUD, Étude critique du système philosophique de S chopenhauer, Losanna I 89 3; E. LEHMANN, Schopenhauer. Ein Beitrag zur P.rychologie der Metapi?Jsik, Berlino I894; w. CALDWELL, Schopenhauer's system in its philosophical significance, Edimburgo I896; T. LoRENZ, Zur Entwicklungsgeschichte der Metaprysik Schopenhauers, Lipsia I 897; E. GRISEBACH, Schopen­hauer. Geschichte seines Lebens, Berlino I 897; F. P AULSEN, S chopenhauer, Hamlet, Mephi­stopheles. Drei Aufséitze zur Naturgeschichte des Pessimismus, Berlino I9oo; J. VoLKELT, Schopenhauer. Seine Personlichkeit, seine Lehre, sein Glaube, Stoccarda I9oo (m ed. I9o7); A. BossERT, Schopenhauer, l'homme et l'oeuvre, Parigi I903; E.J. M6Brus, Schopenhauer, Lipsia I904; E. GRISEBACH, Schopenhauer. Neue Beitréige zur Geschichte seines Lebens, Berlino I905; P. WAPLER, Die geschichtlichen Grundlagen der Weltanschauung Schopenhauers, in« Archiv flir Geschichte der Philosophie » I9o5; G. MELLI, La filosofia di Schopenhauer, Firenze I905; O. JENSEN, Die Ursache der Widerspriiche in Schopenhauers System, Lipsia I9o6; G. SIMMEL, Schopenhauer und Nietzsche, Lipsia I9o7 (trad. italiana, Torino I9o7); S. RZEWUSKI, L'optimisme de Schopenhauer, Parigi I9o7; A. KowALEWSKI, A. Schopenhauer und seine Weltanschauung, Balle I9o8; H. RICHERT, Schopenhauer, seine Personlichkeit,

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Bibliografia

seine Lehre, seine Bedeutung, Lipsia I9o8; A. CovoTTI, La vita e il pensiero di Schopenhauer, Torino I9Io; K. KEYSERLING, Schopenhauer als Verbi/der, Lipsia I9Io; T. RuYSSEN, Schopenhauer, Parigi I9I I; E. SEILLÈRE, Schopenhauer, Parigi I9I I; W. O. DDRING, Schopenhauer, Lubecca I922; H. HASSE, Schopenhauer, sein Leben, seine Lehre, Monaco I926; U. PADOVANI, A. Schopenhauer. L'ambiente, la vita, le opere, Milano I934; W. ScHNEIDER, A. Schopenhauer. Bine Biographie, Vienna I937; E. BRÉHIER, L'unique pensée de Schopenhauer, in« Revue de métaphysique et de morale» I938; P. MARTINETTI, La rinascita di Schopenhauer, in «Rivista di filosofia» I94o; R. BoRCH, A. Schopenhauer, Berlino I94I; F. RossiGNOL, La pensée de Schopenhauer, Grenoble I945; F. CoPLESTON, Schopenhauer, philosopher of pessimism, Londra I946; G. FAGGIN, Schopenhauer. Il mistico senza Dio, Firenze I95 I; K.O. KuRTH, A. Schopenhauer, Kitzingen Main I952; H. ZINT, Schopenhauer als Erlebnis, Monaco-Basilea I954; A. EscHER or STEFANO, La filosofia di A. Schopenhauer, Padova I95 8; J. THYSSEN, Schopenhauer zwischen den Zeiten, in « Kantstudien » I96o-6I; P. GARDINER, Schopenhauer, Londra I963; B. F. HrMPEL, The philosopl!J of Schopenhauer. An analysis of the world as will and idea, Boston I964; C. RosSET, Schopenhauer,philosophe de l'absurde, Parigi I967; W. ABENDROTH, A. Schopenhauer in Selbstzeugnissen und Bilddkumenten, Amburgo I967; G. RrcoNDA, Schopenhauer interprete dell'Occidente, Milano I969; E. SANS, Richard Wagner et la pensée schopenhauerienne, Parigi I969; I. VECCHIOTTI, La dottrina di Schopenhauer, Roma I969; Io., Introduzione a Schopen­hauer, Bari I97o.

Su aspetti particolari del pensiero di Schopenhauer si vedano i seguenti studi: H.L. NoRTEN, Quomodo Schopenhauer ethicam fundamento metapl!Jsico constituere conatus sit, Halle I 864; E. JoNAS, Der transzendentale Idealismus Schopenhauers und die Mystik Meister Eckharts, in « Philosophische Monatsschrift » I 868; C.A. THILO, Ober S chopenhauers ethischen Atheismus, Berlino I872; G. }ELLINECK, Die Weltanschauu~gen Leibnizs und Schopenhauers, Vienna I872; J. BAHNSEN, Das Tragische als Weltgesetz und der Humor als iisthetische Gesta/t des Metapl!Jsischen, Lauenburg 1877; R. PENZIG, A. Schopenhauer und die menschliche Willensfreiheit, Halle I 879; J .M. TscHOFEN, Die Philosophie S chopenhauers in ihrer Relation zur Ethik, Monaco I 879; P. JANET, Schopenhauer et la physiologie française: Cabanis et Bichat, in « Revue cles deux mondes » I88o; E. REICH, Schopenhauer als Philosoph der Tragodie, Vienna I 88o; A. SIEBENLIST, Schopenhauers Philosophie der Tragodie, Lipsia I 88o; M. KocK, Schopenhauers Abhandlung uber die Freiheit des menschlichen Willens, Berlino I89I; A. WYCZOLKOWSKA, Schopenhauers Lehre von der menschlichen Freiheit in ihrer Bezie­hung zu Kant und Schelling, Berlino I893; R. RrcHTER, Schopenhauers Verhiiltnis zu Kant in seinen Grundzugen, Lipsia I893; N.A. NoBEL, Schopenhauers Theorie des Schonen in ihren Beziehungen zu Kants Kritik der iisthetischen Urteilskrajt, Bonn I 897; O. DAMM, Schopen­hauers Ethik i m Verhiiltnis zu seiner Erkenntnislehre und Metapl!Jsik, Annaberg I 898; K. WEIGHT, Die politischen und sozialen Anschauungen Schopenhauers, Berlino I899; o. DAMM, Schopenhauers Rechts-und Staatsphilosophie, Halle I9oo; H. MrCHELS, Schopen­hauers Stellung zum psychopl!Jsischen Parallelismus, Lipsia I903; H. RAEDER, Die Psychologie in Schopenhauers Erkenntnistheorie, Lipsia I9o4; G. CHIALVO, L'estetica di Schopenhauer, Roma I904; E. MDLLER, Schopenhauers Verhiiltnis zur Dichtkunst, lipsia I904; o. ScHRADER, Mt?ya-Lehre und Kantianismus, Berlino I9o4; K. ScHWEBE, Schopenhauers Stellung zu der Naturwissenschajt, Berlino I9o5; G. LEHMANN, Die intellektuelle Anschauung bei Schopenhauer, in « Berner Studien zur Philosophie und ihre Geschichte » I9o6;

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Bibliografia

K. WEIDEL, Schopenhauers Religionsphilosophie, in « Archiv fiir Geschichte der Philoso­phie » I 907; O. WEiss, Zur Genesis der schopenhauerschen Metap~ysik, Lipsia I 907; H. BASSE, Die Richtungen des Erkennens bei Schopenhauer mit besonderer Beriicksichtigung des Rationalen und Irrationalen, Lipsia I9o8; G. PICKEL, Das Mitleid in der Ethik von Kant bis Schopenhauer, Erlangen I9o8; M. KELLY, Kant's ethics and Schopenhauer's criticism, Londra I9Io; P.M. MARKOVITZ, Die Einfiihlung bei Schopenhauer, Monaco I9Io; F. ZAMBONINI, Schopenhauer e la scienza moderna, Sassari I9I I; E. WARSCHAUER, A. Schopen­hauers Rechts-und Staatslehre, Berlino I9I I; H. BASSE, Schopenhauers Erkenntnislehre, Lipsia I9I3; E. BENDA, Das moralische Recht Schopenhauers, Jena I913; A. FAUCONNET, L'esthétique de Schopenhauer, Parigi I9I3; G.A. LEVI, Rapporti fra l'arte e la morale secondo Wagner e secondo Schopenhauer, Catania I9I4; E. voN HARTMANN, Der Pessimismus Scho­penhauers und seine Beziehungen zu verwandten Stromungen in der Philosophie, Gottinga I9r6; E. BERGMANN, Die Erlosungslehre bei Schopenhauer, Monaco I92I; E. KELLER, Das religiose Erleben bei Schopenhauer, Tubinga I923; H. BASSE, Schopenhauers Religionsphilosophie und ihre Bedeutungfiir die Gegenwart, Francoforte sul Meno 1924; E. KrLB, Schopenhauers Religionsphilosophie und die Philosophie des « Als oh», Giessen I925; K. EcKSTEIN, A. Schopenhauers Anschauungen vom Sinn und Wesen der Philosophie, Colonia I925; H. NA.GELS­BACH, Das Wesen der Vorstellung bei Schopenhauer, Heidelberg I928; A. CovOTTI, La metafisica del bello e dei costumi di A. Schopenhauer, Napoli I934; L. ScARANO, Il problema morale nella ftlosofta di A. Schopenhauer, Napoli I934; G. CAPONE BRAGA, Il criterio della valutazione estetica secondo Schopenhauer, in « Sophia » I942; M. GuÉROULT, Schopenhauer et Fichte, in « Publications de la Faculté cles lettres de Strasbourg » I945; H.R. ZEPPEN­FELD, Operari sequitur esse. Bine Auswertung des Schopenhauerschen Aufsatzes: uber die an­scheinende Absichtlichkeit im Schicksal des Einzelnen, Bonn I954; M. MÉRY, Essai sur la causalité phénoménale se lo n S chopenhauer, Parigi I 948; K. VON BLOCH, S chopenhauer und die moderne Naturwissenschaft, in « Die Naturwissenschaften » I95o; F. RosTAND, Scho­penhauer et /es démonstrations mathématiques, in « Revue d'histoire cles sciences » I95 3; K. BRINKMANN, Die Recht-und Staatslehre Schopenhauers, Bonn I958; O. Pt.iGGELER, Schopenhauer und das Wesen der Kunst, in « Zeitschrift fiir philosophische Forschung » r96o; V. MATHIEU, La dottrina delle idee di A. Schopenhauer, Torino I96o; A. JoussAIN, L'essence et l'existence de l'individu chez Schopenhau~r, in« Archives de philosophie » I964; P. MEI, Etica e politica nel pensiero di Schopenhauer, Milano I966; R. NEIDERT, Die Rechts­philosophie Schopenhauers und ihr Schweigen zum Wiederstandsrecht, Tubinga I966; D.L. BA.sCHLIN, Schopenhauers Einwand gegen Kants transzendentale Deduktion der Kategorien, in « Zeitschrift fiir philosophische Forschung » I968; S.M. ENGEL, Schopenhauers impact on Wittgenstein, in « Journal of the history of philosophy » I969; C. RossET, L'esthétique de Schopenhauer, Parigi I969; H.D. BAHR, Das gefesselte Engagement. Zur Ideologie der kontemplativen Asthetik Schopenhauers, Bonn I970.

Si ha una edizione complessiva degli scritti di Kierkegaard: Samlede Vaerker, a cura di A.B. DRACHMANN, ].L. HEIBERG e H.O. LANGE, I4 voli., Copenaghen I90I-o6 (n ed. con un volume di indici supplementare, I92o-26; m ed., in 20 voli. I962-64). Notevole è inoltre l'edizione critica delle carte di Kierkegaard, Papirer, 20 voli., a cura di P.A. HEIBERG, P.A. KuHR e E. ToRSTING, Copenaghen I909-48. Molto utile è l'edizione delle lettere e dei documenti biografici curata da N. THULSTRUP, Breve og Aktsrykker vedrorende S. Kierke.f!,aard, 2 voli., Copenaghen 195 3-54. Tra le numerose

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Bibliografia

antologie, si veda quella curata da F.J. BrLLESKOV-JANSF.N, Vaerker i Udvalg, 4 voli., Copenaghen I950. Numerose le traduzioni italiane delle opere di Kierkegaard: L'Ora, a cura di A. BANFI, Roma I93 I (n ed., Milano I95 I); Il concetto dell'angoscia, a cura di M. CoRSSEN, Firenze I942; a cura di E. PACI, Torino I954; La malattia mortale, a cura di M. CORSSEN, Milano I947; Il concetto dell'angoscia e La malattia mortale, a cura di C. FABRO, Firenze I95 3; La ripetizione, a cura di E. VALENZANr, Milano I945; di A. Zuc­CONI, Milano I954; Briciole di filosofia e Postilla non scientifica, a cura di C. FABRO, 2 voli., Bologna I962; Il diario del seduttore, a cura di L. REnAELLI, Torino I9IO (m ed. I942); Diario, a cura di C. FABRO, 3 voli., Brescia I948-5 r.

Si hanno diversi repertori bibliografici su Kierkegaard: F.J. BRECHT, Die Kierke­gaardforschung i m letzten Jahrfiinft, Erfurt I 9 3 I ; A. KABELL, Kierkegaardstudiet i Norden, Co­penaghen I948; R. JouvET, Kierkegaard, Bibliographische Einfiihrungen in das Studium der Philosophie, Berna I 948; A. HENRIKSEN, Methods and results of Kierkegaard' s studies in Scandinavia: a historical and criticai survey, Copenaghen I95 I; E. O. NrELSEN, N. THULSTRUP, S. Kierkegaard, Bidrag ti! en Bibliografi, Copenaghen I95 I; W. ANz, Fragen der Kier­kegaardinterpretation, in « Theologische Rundschau » I 9 52; M. THEUNISSEN, Das Kierke­gaard-Bild in der neueren Forschung und Deutung, in « Deutsche Vierteljahrschrift fiir Literaturgeschichte » I 9 58; J. HIMMELSTRUP, K. DrRKET-SMrTH, S. Kierkegaard. Inter­national Bibliograpf?y, Copenaghen I962; G.E. ARBAUGH, G.B. ARBAUGH, Kierkegaard's authorship. A guide to the writings of Kierkegaard, Londra I 968. Dal I 949 si pubblica inoltre il Bollettino della società kierkegaardiana di Copenaghen che contiene informazioni bibliografiche.

Sulla vita e sull'opera di S. Kierkegaard si vedano i seguenti lavori: F. JuNGERSEN, Dansk Protestantisme ved S. Kierkegaard, Copenaghen I873; A. BARTHOLn, Noten zu Kierkegaard's Lebensgeschichte, Halle I876; In., Lessing und die oijektive Wahrheit aus s. Kierkegaard.r Schriften zusammengestellt, Halle I 877; G. BRANnES, s. Kierkegaard, Lipsia I 879; A. BARTHOLn, Zur theologischen Bedeutung S. Kierkegaards, Hall e I 88o; In., S. Kierkegaard's Personlichkeit in ihrer Verwirklichung der Ideale, Giitersloh I886; H. HòFFDING, S. Kierkegaard som Filosof, Copenaghen I892 (n ed. I9I9; trad. tedesca, Stoccarda I 896); C. KocH, S. Kierkegaard, Copenaghen I 898 (trad. francese, Parigi I934); P.A. RosENBERG, S. Kierkegaard, hans Liv, hans Personlighed, hans Forfatters­kab, Copenaghen I 898; P. MtiNCH, Die Haupt-und Grundgedanken der Philosophie S. Kierkegaards in kritischer Beleuchtung, Lipsia I9o2; O.P. MoNRAn, S. Kierkegaard; sein Leben und seine Werke, Jena I909; G. NIEnERMEYER, S. Kierkegaard und die Romantik, Lipsia I9Io; C. NIELSEN, Der Standpunkt Kierkegaards innerhalb der Religionspsychologie, Lipsia I9II; W. BAUER, Die Ethik S. Kierkegaards, Jena I912; W. LEENnERTZ, S. Kierkegaard, Groninga I 9I 3; T. HAECKER, S. Kierkegaard und die Philosophie der lnnerlichkeit, Monaco I9I3; C. DALLAGO, Der Christ Kierkegaards, Innsbruck I9I4 (n ed. I922); H. REUTER, S. Kierkegaards religionsphilosophische Gedanken im Verhaltnis zu Hegels reli­gionsphilosophischem System, Lipsia I9I4; M. SLOTTY, Die Erkenntnislehre S. Kierkegaards. Bine Wiirdigung seiner Verfasserwirksamkeit vom zentralen Gesichtspunkt aus, Strasburgo I 9 I 5 ; D.F. SwENSON, The anti-intellectualism of Kierkegaard, in « The philosophical review » I9I6; T. BoHLIN,Kierkegaards etiska dskddning, Stoccolma I9I8; W. RonEMANN, Hamann und Kierkegaard, Giitersloh I922; H. HòFFDING, Pasca/ et Kierkegaard, in « Revue de métaphysique et de morale» I923; E. GEISMAR, Das ethische Stadium bei

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Bibliografia

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CAPITOLO SETTIMO

Ilpensiero filosofico inglese. fohn Stuart Mi/l

Su William Hamilton: H. ULRICI, Englische Philosophie: Hamilton, in « Zeitschrift fiir Philosophie und philosophische Kritik » 18 55; C. DE RÉMUSAT, W. Hamilton, in « Revue cles deux mondes » 18 5 9-6o; ].H. J ONES, Know the truth: a critique on the hamilto­nian doctrine of limitation, New York I865; ]. STUART MILL, An examination oJW. Hamil­ton' s philosophy, 2 voli., Londra 186 5 (v ed. 1878); J.H. ST1RLING, W. Hamilton: being the philosophy of perception, Londra I865; M.P.W. BoLTON, Inquisitio philosophica: an examination of the principles of Kant and Hamilton, Londra 1866; J. VEITCH, Hamilton, Edimburgo I882; In., Hamilton: the man and his philosophy, Londra 1883; W.C. FINK, An ana!Jsis of W. Hamilton's « Lectures on metaphysics », Calcutta r88o; W.S.H. MoNCK, W. Hamilton, Londra 1881; F. Boudrillart, La r4forme logique de Hamilton, Parigi I 89I; F. NAUEN, Die Erkenntnislehre W. Hamiltons, Strasburgo·1911; S.V. RAMUSSEN, Studier over W. Hamilton' s ftlosoft, Copenaghen 192 5; G. Esi>OSITO, La critica dello Stuart Mi/l alla teoria di Hamilton, in «Annuario del Liceo Parini» 1933-34; W. BEDNAROWSKI, W. Hamilton's quantification of the predicate, in « Proceedings of the aristotelian society » 1956.

L'edizione completa delle opere di John Stuart Mill è in corso di stampa (Collected works, a cura di F.E.L. PRIESTLEY, F.E. MINEKA, J.M. RoBSON, Toronto 1963 segg.). Per quanto concerne la corrispondenza: Letters, a cura H.S.R. ELLIOT, 2 voli., Londra I910; Lettres inédites de]. Stuart Mi/là Auguste Comte, a cura di L. LÉVY-BRUHL, Parigi I899·

Si hanno numerose traduzioni italiane delle opere di J. Stuart Mill: Sistema di logica, a cura di G. PACCHI, Roma 1968; Saggi sopra alcune questioni non ancora risolute di economia politica, Torino I 878; Principi di economia politica, con introduzione di F. FERRARA, Torino 1851; a cura di A. CAMPOLONGO, Torino 1953; La libertà, a cura di G. MARSIAJ, Torino 1865; a cura di A. AGNELLI, Milano 1895; con prefazione di L. EINAUDI, Torino I924; La libertà e altri saggi, a cura di P. CRESPI, Milano 1946; Considerazioni sul governo

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Bibliografia

rappresentativo, a cura di F.P. FENILI, Torino I865; a cura di P. CRESPI, Milano I946; Utilitarismo, a cura di E. DEBENEDETTI, Torino I 966; in La libertà e altri saggi, Milano I946; Augusto Comte e il positivismo, a cura di A. DARDANELLI, Roma I9o3; La servitù delle donne, a cura di A. MozzoNI, Milano I87o; a cura di G. NovELLI, Torino I883; Auto­biografia, a cura di D. PETTOELLO, 2 voli., Lanciano I92o; Tre saggi sulla religione, a cura di L. GEYMONAT, Milano I95o; a cura di G. PACCHI, in Il pensiero di]. Stuart Mi/l: antologia degli scritti, Torino I 9 58.

Si vedano inoltre i seguenti repertori bibliografici: N. MAcMINN, ].R. HAINDS, ].M. McCRrMMON, Bibliography of the published writings of ]. Stuart Mi/l, Evanston 1945; K. AMANO, Bibliography of the classica/ economics, m vol., rv parte, fohn Stuart Mi/l, Tokio I964.

Sul pensiero di J. Stuart Mill si veda: A. BAIN, ]. Stuart Mi/l: a criticism, Londra I882; H.A. TArNE, Le positivisme anglais: étude sur Mi/l, Parigi I864; E. LITTR:É, Auguste Comte et Stuart Mi/l; G. WYROUBOFF, Stuart Mi/l et la philosophie positive, Parigi I866 (m ed. IB77); J. McCosH, An examination of ]. Stuart Mill's philosophy, being a defence of fundamental truth, Londra I 866 (n ed. I 877); P.E. GaGGIA, La mente di Mi/l: saggio di logica positiva applzcata specialmente alla storia, Livorno I869; P. JANET, Mi/l et Hamilton: le problème de l'existence descorps, in« Revue cles deux mondes » I869; C. RENOUVIER, De/' esprit de la philosophie anglaise: utilitarianism - Owen and Mi/l, i vi I 87 3; Io., Les rapports du criticisme avec la philosophie de Mi/l, ivi I873; F. PILLON, La raison profonde de la crise mentale de Mi/l: contradiction entre l'éducation intellectuelle et l'éducation morale dans la doctrine associationniste, in« Critique philosophique » I 875; W.L. CouRTNEY, The metaphysics of ]. Stuart Mi/l, Londra I879; B. Kohn, Untersuchungen iiber das Casual­problem auf dem Boden einer Kritik der einschliigigen Lehren Milis, Vienna I 8 8 I; H. LAURET, La philosophie de Stuart Mi/l, Parigi I 8 86; S. HANSEN, Versuch einer Kritik des Millschen Suijectivismus in « Vierteljahrsschrift fiir wissenschaftliche Philosophie » I889; G.W. STORRING, Milis Theorie iiber den psychologischen Ursprung des Vulgarglaubens an di e Aussenwelt, Balle I889; C. DouGLAS, ]. Stuart Mi/l: a stuc[y of hùphilosop~y, Edimburgo I895; H. MICHEL, De Stuartii Mi/Iii individualismo, Parigi I895; ]. WATSON, Comte, Mi/l and Spencer, Glasgow I895; S. SA.NGER, Stuart Mi/l als Philosoph, in« Archiv fiir Geschichte der Philo­sophie » I 896: G. ZuccANTE, Alcune idee di Com te e dello Stuart Mi/l intorno alla psicologia, in «Rendiconti del reale istituto lombardo di scienze e di lettere» I897; L. L:ÉVY-BRUHL, A. Comte et Stuart Mi/l d'après leur correspondance, in « Revue philosophique » I898; E. FAGUET, A. Comte et Stuart Mi/l, in« Revue bleue» I899; S. SA.NGER,j. Stuart Mi/l: sein Leben und Lebenswerk, Stoccarda I90I; A. MARTINAZZOLI, La teoria dell'individualismo secondo]. Stuart Mi/l, Milano I905; E. THOUVEREZ, Stuart Mi/l, Parigi I905; E. ABB, Kritik des Kantischen Apriorismus vom Standpunkt des reinen Empirismus aus, unter besonderer Beriicksichtigung vom ]. Stuart Mi/l und Mach, Zurigo I9o6; S. BECHER, Erkenntnistheore­tische Untersuchungen zu Stuart Milis Theorie der Kausalitiit, Balle I9o6; T. W. WHITTAKER, Comte and Mi/l, Londra I9o8 (nuova ed., Cambridge I934); E. FREUNDLICH, ]. Stuart Milis Kausaltheorie, Diisseldorf I9I 3; H.K. GARNIER, ]. Stuart Mi/l and the philosophy of mediation, New York I9I9; P.J. WusT, ]. Stuart Milis Grundlegung der Geisteswissenschajten, Bonn I9I4; E. WENTSCHER, Das Problem des Empirismus dargestellt an]. Stuart Mi/l, Bonn I922; F. GAZIN, Les enseignements pédagogiques de Mi/l, in« Revue pédagogique » 1922; R. THILLY, The individualism of ]. Stuart Mi/l, 'in « Philosophical

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Sull'etica, la politica e la religione si veda: J. PARKER, ]. Stuart Mi/l on liberry: a critique, Londra I865; P.P. ALEXANnER, Mi/l and Carlyle: an examination of ]. Stuart Mi/l' s doctrine of causation in relation to mora/ freedom, Edimburgo I 866; G.H. BLAKESLEY, A review of Mill's esstry on liberry, Cambridg~ I867; P.P. ALEXANnER, Mora/ causation: or notes on Mi/l' s notes to the chapter on freedom in the Jrd edition of his « Examination of Hamilton's philosophy », Edimburgo I968; F. PrLLON, L'origine de la justice selon Bentham et Mi/l, in « Critique philosophique » I 873; In.,]. Stuart Mi/l au point de vue religieux, ivi I873; In.,]. Stuart Mi/l socialiste, ivi I873; C. RENOUVIER, Le principe du socialisme d'après l'autobiographie de]. Stuart Mi/l, ivi I873; In., L'opinion de]. Stuart Mi/l sur la liberté et la nécessité des actes, i vi I 874; F. PILLON, La science de la morale selon Bentham et Mi/l, ivi I874; B.A. HrNsnALE, A histor:,y of a great mind: a survey of the education and opinions of Mi/l, Cincinnati I874; W.J. IRONS, An examination of Mill's three esstrys on

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Sulla logica di Mill si veda: A. BA1N, Mill's logic, in « Westminster review » I843; W. WHEWELL, Of induction, with especial reference to ]. Stuart Mill's .rystem oj logic, Londra I 849; H.A. T A1NE, ). S tuart Mi/l et son .rystème de logique, in « Revue des deux mondes »

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Bibliografia

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Sul pensiero economico di Mill si veda: L. REYBAuo,J. Stuart Mi/l et l'économie politi­que en Angleterre, in« Revue cles deux mondes » I85 5; N. CERNICEWSKI, Osservazioni criti­che su talune dottrine economiche di]. Stuart Mi/l, Torino I886 (trad. italiana dal russo); F. KRIEGEL, ]. s tuart Milis Lehre vom Wert, Preis und der Bodenrente: e in Beitrag zur Kritik der politischen Oekonomie Milis, Berlino I897; M. ANOYAUT, L'état progressi/ et l'état stationnaire de la richesse nationale chez A. Smith et Stuart Mi/l, Parigi I9o7; J. BoNAR, The economics of ]. Stuart Mi/l, in « Journal of politica! economy » I9I I; J. RAY, La méthode de l'économie politique d'après Mi/l, Parigi I9I4; A. GRAZIANI, Ricardo e]. Stuart Mi/l, Bari I9ZI; H. SÉE, Stuart Mi/l et la propriété foncière, in « Revue internationale de sociologie » I9z4; G. ARIAS, Il pensiero economico di]. Stuart· Mill, in «Annali di econo­mia» I9Z5; R. HERTEL, Die Erklèirung der Krisen bei]. Stuart Mi/l, Colonia I9z8; N.E. HrMES, The piace of ]. Stuart Mi/l and Owen in the hùtory of english neo-malthusianism, in « Quarterly journal of economics » 19z8; Io.,]. Stuart Mi/l' s attitude towards neo-malthu­sianism, in «Economie history » I9Z9; M. APCHIÉ, Les sources françaises de certains aspects de la pensée économique de]. Stuart Mi/l, Parigi I93I; J.E. RossrGNOL, ]. Stuart Mi/l on machinery, in « American economie review » I94o; F.A. VON Hayek, Rae and Mi/l; a correspondence, in «Economica» I943; G. O'BRIEN, ]. Stuart Mi/l and Cairnes, ivi I943; V.W. BLAOEN, The centenary of Marx and Mi/l, in « Journal of economie history » I948; Io.,]. Stuart Mill's principles: a centenary estimate, in« American economie review» I949; A.C. PIGou, ]. Stuart Mill and the wages fund, in «Economie journal » I949; J. VINER, Bentham and ]. Stuart Mi/l: the utilitarian background, in « American

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Bibliografia

economie review » I949; T.A. HuTCHINSON, ]. Stuart Mi/l and the doctrine of the impossi­bili!] of generai overproduction, in Review of economie doctrines r3Jo-rg2g, Oxford I95 3; B.A. BELASSA,j. Stuart Mi/l and the law of markets, in« Quarterly journal of economics » I96o; A.L. HARRIS, f. Stuart Mi/l: government and econo~y, in « Social science review » I963; Io.,]. Stuart Mi/l: servantof East India Company, in« Canadian journal of economics

· and political science » I964; S. HoLLANDER, Technology and aggregate demand in Mill's economie system, ivi I964; P. ScHWARTZ, Mi/l and laissez:faire: London water, in« Econo­mica» I966.

CAPITOLO OTTAVO

Linee generali dello sviluppo delle scienze matematiche e fisico-chimiche nella seconda metà dell'Ottocento

Su J oseph Liouville, di cui è stata pubblicata la corrispondenza con Dirichlet (a cura di J. TANNERY, in « Bulletin cles sciences mathématiques » I9o8-o9) si veda: G. LORIA, Le mathématicien ]. Liouville et ses oeuvres, in« Archeion » I936; E. T. BELL, The problem of Liouville's theorems on arithmetical quadratic forms, in « Scripta mathematica » I947·

Le opere di Charles Hermite sono state pubblicate da E. Picard, 4 voll., Parigi 1905-17. Per la corrispondenza: Correspondance d'Hermite et de Stielijes, a cura di B. BAIL­LAUD e H. BouRGET, 2 voll., Parigi I9o5; Les lettres de C. Hermite à A. Markoff, a cura di H. 0GIGOVA, in « Revue d'histoire cles sciences » I967. Sulla sua opera: C. JoRDAN, C. Hermite, in« Revue scientifique » 1901; M. NoETHER, C. Hermite, in« Mathematische Annalen » I9oi; E. PICARD, L'oeuvre scientiftque de C. Hermite, in « Annales de l'École normale supérieure » 190I; A. BuHL, L'école de C. Hermite et la physique théorique, in « Revue scientifique » I 9 33.

Su Ernst Eduard Kummer si veda: E. LAMPE, Nachrtif fiir E.E. Kummer, in « Jah­resbericht der deutschen Mathematiker Vereinigung » I894; B. METH, Zur Erinnerung an E.E. Kummer als Lehrer, Berlino 1910; Festschrift zur Feier des IOO. Geburstages E. Kummers mit Briefen an seine Mutter und an Leopold Kronecker, in « Abhandlungen zur Geschichte der Mathematischen Wissenschaften » 1910; G. WECHSUNG, Ober Kummers Funktionalgleichung fiir den Pentalogarithmus, in « Jahresbericht der deutschen Mathema­tiker V ereinigung » I 966.

Le opere di Leopold Kronecker sono state edite da K. Hensel, 5 voll., Lipsia I895-I 9 3 I (ristampa, New York I 968); si vedano anche le Vorlesungen iiber Mathematik, 2 voll., Lipsia 1894-1903. Sulla sua opera: H. WEBER, L. Kronecker, in « Mathematische Annalen » I893·

Le opere di Hermann Amandus Schwarz sono state raccolte: Gesammelte mathema­tische Abhandlungen, 2 voll., Berlino I 89o.

Le opere di Felice Casorati sono state pubblicate a Roma a cura dell'Unione mate­matica italiana, 2 voll. I95 I-52, con un saggio introduttivo di E. BER TINI.

Le opere di Enrico Betti, sono state pubblicate a cura dell'Accademia dei Lincei in 2 voll., Milano 1903-13· Su Betti: F. BRIOSCHI, E. Betti, in «Annali di matematica»

1892· Le opere di Ulisse Dini sono pubblicate a cura dell'Unione matematica italiana,

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Bibliografia

Roma I95 3 segg., con numerosi saggi di diversi autori sui vari aspetti dell'opera di U. Dini.

Su Vito Volterra, di cui sono state pubblicate le opere a cura dell'Accademia nazio­nale dei Lincei, 5 voli., Roma, I954-62, si veda: E.S. ALLEN, The scientiftc work of V. Volterra, in « American mathematical monthly » I94I; necrologio di E. T. WHITTAKER, in« Obituary notices of fellows of the Royal Society» I94I; G. CASTELNUOVO, V. VoL­TERRA e la sua opera scientifica, in «Atti dell'Accademia nazionale dei Lincei » I947·

Su Eric Ivar Freedholm: N. ZEILOW, I. Freedholm, in« Acta mathematica » I930. Le opere di Luigi Cremona sono state pubblicate a Milano in 3 voli. con un saggio

biografico introduttivo di E. BERTINI, tra il I9I4 e il I9I7. Su L. Cremona: L. Cremona et son oeuvre mathématique, in« Bibliotheca mathematica » I904.

Su Luigi Bianchi: G. FuBINI, L. Bianchi (r8J6-rg28) e la sua opera scientifica, in« An­nali di matematica» I929; A.M. BEnARIDA, L'opera aritmetica di L. Bianchi in« Bollettino di matematica » I 929.

Le opere di Felix Klein sono state raccolte: Gesammelte mathematische Abhandlungen, a cura di R. FRICKE e A. OsTROWSKI, 3 voli., Berlino I92I-23· Su Klein: R.C. ARCHIBALn, Remarks on Klein' s «jamous problems of elementary geometry », in « American mathematical journal » 19I4; R. CouRANT, F. Klein als wissenoschaftliéher Fiihrer, in « Gèittingen Gesellschaft der Wissenschaften », Nachrichten I925-26; W. LoREY, F. Klein, in« Leo­poldina: Berichte der kaiserlichen deutschen Akademie der Naturforschers zu Halle » I926; G. CASTELNuovo, F. Klein, in« Annali di matematica» I926; K.H. MANEGOLn, F. Klein als Wis.renschaftorganisator. Ein Beitrag zum Verhaltnis von Naturwissenschaft und Technik im rg.jahrhundert, in« Technik-Geschichte » I968; F. Russo, Groupes et géometrie: la genèse du programme d' Erlangen, Conférences du palais de la découverte, Parigi I 969.

Le opere complete di Bernhard Riemann sono state edite a cura di H. WEBER, Gesammelte mathematische Werke und wissenschaftlicher Nachlass, Lipsia I876 (n ed. I892); la maggior parte degli scritti è tradotta in francese, a cura di L. LANGEL, Parigi I898 (ristampa I968). La famosa memoria Vber die Hypothesen, /Ve/che der Geometrie zugrunde liegen è stata ripubblicata in edizione particolare a Darmstadt nel I959· Su Riemann si veda: H. BuRKHARnT, B. Riemann, Gottinga I892; F. KLEIN, Riemann un seine Bedeutung fiir di e Entwicklung der modernen Mathematik, Lipsia I 894 (trad. italiana in « Annali di matematica)) I895); C.L. SIEGEL, Vber Riemanns Nachlass zur analytischen Zahlentheorie, in « Quellen und Studien zur Geschichte der Mathematik, Astronomie und Physik »

I932· Le opere di Karl Weierstrass sono state raccolte: Mathematische Werke, 7 voli., Berlino

I894-I927 (ristampa, Hildesheim-New York I968). Su Weierstrass si veda: W. KILLING, K. Weierstrass, Miinster I897; E. LAMPE, K. Weierstrass, Lipsia I897; K. VON VoiT, K.T. W. Weierstrass, in« Munich Akademie der Wissenschaften », Sitzungsberichte I 897; G. MITTAG-LEFFLER, Weierstrass, in« Acta mathematica » I897; H. POINCARÉ, L'oeuvre mathématique de Weierstrass, i vi I 898; G. MITTAG-LEFFLER, Zur Biographie von Weierstrass, ivi I 9 I I; In., Die ersten 40 jahre des Lebens von Weierstrass, i vi I 92 3; K.R.K. BrERMANN, K. Weierstrass und A. von Humboldt, in « Monatsbericht der deutschen Akademie der Wissenschaften zu Berlin » I 966; In., K. Weierstrass. Ausgewiihlte Aspekte seiner Biographie, in « Journal fiir die reine und angewandte Mathematik » I966; In., Did Husserl take his doctor' s degree under Weierstrass' supervision ?, in « Organon » I 969.

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Bibliografia

Per un esame generale, modernamente impostato, di alcuni fra gli indirizzi fondamen­tali della fisica nella seconda metà dell'Ottocento, vedasi: E. BELLONE, L'approccio statistico alla meccanica 1848-1906 in corso di stampa a Firenze, nella collana della Domus Galilaeana.

Gli scritti più significativi di Hermann von Helmho1tz sono stati raccolti in: Populèire wissenschajtliche Vortrèige, 3 fascicoli, Braunschweig I 865-76; Vortrèige und Reden, 2 voli., Braunschweig I884; Schriften zur Brkenntnistheorie, a cura di P. HERTZ e M. SCHLICK, Berlino I92I; Wissenschaftliche Abhandlungen, 3 voli., Lipsia I882-95· Un'ampia antologia degli scritti di Helmholtz è ora disponibile in italiano: Opere scelte, a cura di V. CAPPELLETTI, Torino I967.

Sull'opera di Helmholtz si vedano i seguenti studi: B. ERDMANN, Die Axiome der Geometrie. Bine Untersuchung der Riemann-Helmholtzschen Raumtheorie, Lipsia I 877; A. KRAUSE, Kant und Helmholtz iiber den Ursprung und die Bedeutung der Raumanschauung, Lahr I 878; ]. ScHWERTSCHLAGER, Kant und Helmholtz erkenntnis-theoretisch verglichen, Friburgo-B. I 893; Festschrift zur Feier des siebzigsten Geburtstages von H. von Helmholtz, Heidelberg I893; W. voN BEZOLD, H. von Helmholtz. Gedèichtnissrede, Lipsia I895; S.S. EPSTEIN, H. von Helmholtz als Mensch und Gelehrter, Stoccarda I 896; C. ScHWEIZER, Brown, Virchow, Helmholtz, Hertz. Ober die Beziehungen der Form und Funktion des Korper­betriebes, Francoforte sul Meno I893; E. Du BOIS-REYMOND, H. von Helmholtz. Gedèichtnis­srede, Li p sia I 897; V. HEYFELDER, Ober den Begriff der Brfahrung bei Helmholtz, Berlino I 897; L. GoLDSCHMIDT, Kant und Helmholtz, Amburgo-Lipsia I 898; T. GRoss, Robert Mqyer und H. von Helmholtz. Bine kritische Studie, Berlino I 898; ].G. MAc KENDRICK, H. von Helmholtz, Londra I 899; L. KoENIGSBERG, H. von Helmholtz, 3 voli., Braunsch­weig I902-o3 (trad. inglese, New York I965); A. RIEHL, Helmholtz in seinem Verhèiltnis zu Kant, Lipsia I9o4; ]. CLASSEN, Helmholtz, Boltzmann, Poincaré, in Vorlesungen iiber moderne Naturphilosophen, Amburgo I 908; M. RuBNER, M. ScHLICK, E. W ARBURG, Helmholtz als Physiker, Physiologe und Ps_ychologe, Lipsia I922; A. RIEHL, Helmholtz als Brkenntnistheo­retiker, in « Die Naturwissenschaften » I929; H. DrNGLER, H. He!mholtz und die Grundlagen der Geometrie, in« Zeitschrift fur Physik » I934-3 5; V.F. Lenzen, He!mholtz's theory oj knowledge, in Studies and essqys in the history oj science and learning offered to George Sarton, New York I946; H. HEBERT, H. von Helmholtz, Stoccarda I949; A.V. LEBE­DINSKIT, U.I. FRANKFURT, A.M. FRENK, Helmholtz, Mosca I966; A.E. WoooRUFF, The contributions of H. von Helmholtz to electroqynamics, in « Isis » I 968; V. CAPPELLETTI, Helmholtz heute, in «Studia Leibnitiana » I969.

Gli scritti di lord Kelvin sono stati raccolti: Mathematical and physical papers, 6 voli., Cambridge I 882-I9I I; Popular lectures and adresses, 3 voli., Londra I 889-94. Il Treatise on natura! phi!osophy di Kelvin e P.G. Tait è stato di recente ristampato (Principles of mechanics and t[ynamics, 2 voli., New York I962). Un'ampia antologia degli scritti di lord Kelvin in traduzione italiana è attualmente disponibile: Opere scelte, a cura di E. Bellone, Torino I971.

Su Kelvin: A. GRAY, Lord Kelvin: an account oj his scientific !ife and work, Londra I 906; Lord Kelvin' s early home; being the recollections of his sister, the late Mrs. B!izabeth King,· together with some jamily letters and a supplementary chapter lry the editor, Blizabeth Thomson King, Londra I9o9; S.P. THOMPSON, The !ife of W. Thomson, baron Kelvin of Largs, 2 voli., Londra I910; D. WrLSON, W. Thomson, ford Kelvin. His way of teaching natura! philosophy, Glasgow I 9 I o; E. PrcARD, Notice historique sur la vie et l' oeuvre de ford Kelvin,

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Su Thomas Al va Edison si veda: V AN B. DENSLOW e J .M. PARKER, T. A. Edison and Samuel F.B. Morse, Londra I887; E. DuERER, Edison, sa vie, ses oeuvres, Parigi I889; W.K.L. DrcKSON e A. DICKSON, The !ife and inventions of T.A. Edison, Londra I894; F.A. JoNES, T.A. Edison; sixty years of an inventor's !ife, Londra I907 (nuova ed. I924); F.L. DYER e T.C. MARTIN, Edison: his /ife and inventions, 2 voli. Londra-New York I9Io; G.S. BRYAN, Edison, the man and his work, Londra-New York I926; F.T. MILLER, T.A. Edison benefactor of humanity, Filadelfia I93 I; W.A. SIMONDS, Edison, his /ife, his work, his genius, New York I934; J.G. CROWTHER, T.A. Edison, in Famous american men of science, New York I937; A.O. TATE, Edison's open door. The /ife story of T.A. Edison, a great individualist, New York I938; The diary and sundry observations of T.A. Edison, a cura di D.D. Runes, New York I948; G.G. CLARK, T.A. Edison, New York I95o; M. JosEPHON, Edison: a biograpby, New York I959; J.B. JoHNSON, Contribution of T.A. Edison to thermionics, in « American journal of physics » I96o; G. HENDRICKS, The Edison motion picture myth, Los Angeles I96I; R. SILVERBERG, Light for the world: Edison and the power industry, Princeton I967.

Si veda poi per altri autori ricordati nel capitolo: E. WARBURG, Zur Erinnerung an Gustav Kirchoff, in« Die Naturwissenschaften » I925; E.H. RrESENFELD, Svante Arrhenius, Lipsia I931; W. ERNST, Julius Pliicker. Bine zusammenfassende Darstellung seines Lebens und Wirkens als ly[athematiker und Physiker auf Grund unveroffentlichter Briefe und Urkunden, Bonn I933; E.E. FouRNIER d'ALBE, The /ife of sir W. Crooke.r, Londra I923; F. GREE­NAWAY, A victorian scientist: the experimental researches of sir William Crookes, 18]2-1919, in « Proceedings of the royal institution of Great Britain » I962; E. WooDRUFF, W. Crookes and the radiometer, in« Isis » I966; L. DE BROGLIE, La realité des molécules et l'oeuvre de Jean Perrin, Parigi I 94 5.

Su Marcelin Berthelot, di cui sono state ristampate le varie opere storiche e il trattato: Chi mie organique fondée sur la .rynthèse, Bruxelles I 966, si veda: C. SNYDER, The rise of .rynthetic chemistry, and its founder, New York I903; E. LAVASSEUR, M. Berthelot (1827-1907), Pa­rigi I9o7; A.M.A. BouTARIC, M. Berthelot (1827-1907), Parigi I927; DIVERSI ARTICOLI in « Chimie et industrie» 1927; A. MIELI, Il centenario di uno storico della scienza, M. Berthelot, in « Archivio di storia della scienza » I 9 2 7; E. PERRIN, A propos d'une réquisitoire con tre M. Berthelot, in « Revue posi ti viste » I 9 3 8 ; M. DELEPINE, M. Berthelot, Conférences du palais de la découverte, Parigi I 940; A. RANe, La pensée de M. Berthelot, Parigi I 948; D. FLORENTIN, M. Berthelot, savant et philosophe rationaliste, in « Cahiers rationalistes » I95 3; L. VELLUZ, Vie de Berthelot, Parigi I964.

Su Edward Frankland: Sketches from the /ife of E. Frankland: bornjanuary 18, 182J, died August 9, 18gg, edited by his daughter, Londra I902.

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Bibliografia

Su August Kekulé: A. BENRATH, Der chemische Unterricht in Bonn vor Kekulé, in « Archiv ftir Geschichte der Naturwissenschaften und der Technik » I9I6; R. ANSCHUTZ, A. Kekulé, 2 voli., Berlino I929; O.J. Walker, A. Kekulé and the benzene problem, in « Annals of science » I939; T.O. BENFEY, A. Kekulé and the birth of the structural theory of organic chemistry, in « Journal of chemical education » I958; E. N. HIEBERT, The experimental basis of Kekulé's valence theory, ivi I959; J. GILLIS, Kekulé te Gent (I8y8-6J). De geschiedenis van de Benoeming van A. Kekulé te Gent en de oprichting van het eerste oderrichts­laboratorium voor scheikunde in Belgie, Bruxelles I959; S. MAHDIHASSAN, The probable origin of Kekulé's symbol of the benzene ring, in « Scientia » I96o; In., Kekulé's dream of the Ouroboros and the signiftcance of this s_ymbol, i vi I96I; J. GILLIS, Kekulé's !ife atGhènt( 18y8-67 ), in « Journal of the chemical education » I96I; W. RusKE, A. Kekulé und die Entwicklung der chemischen Strukturtheorie, in« Die Naturwissenschaften » I965; AuTORI VARI, Kekulé und seine Benzolformel, Weinheim I966; AA.VV., Kekulé centennial, Washington I966.

Su Stanislao Cannizzaro: S. Cannizzaro. Scritti vari e lettere inedite nel centenario della nascita, Roma I926; S. BAGLIONI, L'opera di S. Cannizzaro nella fisiologia e nella medici­na, in «Archivio di storia della scienza» I926; A. MIELI, S. Cannizzaro storico della scienza, ivi; L. C. NEWELL, The centenar:y of Ca~nizzaro, in «Journal of chemical education » I926; D. MAROTTA, S. Cannizzaro, in« Gazzetta chimica italiana» I939; H. HARTLEY, S. Cannizzaro, F.R.S. (1826-I!)Io) and the ftrst international chemical conference at Karlsruhe in 186o, in «Notes and records of the Royal Society » I966.

Le opere di Heinrich Hertz sono state edite da P. Lenard, Gesammelte Werke, 3 voli., Lipsia I 894-95.

Su Hertz: O.J. LODGE, The work of Hertz and some of his successors, in « The elec­trician » I894; M. PLANCK, H.R. Hertz: Rede zu seinem Gedachtnis, Lipsia I894; G. HELM, Ober die Hertzsche Mechanik, in « Vierteljahrsschrift fiir wissenschaftliche Philosophie » I 895; J. CLASSEN, Die Prinzipien der Mechanik bei Boltzmann und Hertz, in « Jahrbuch der hamburgischen wissenschaftlichen Anstalten » I897; H. PorNCARÉ, Les idées de Hertz sur la mécanique, in « Revue générale des sciences » I 897 (anche in Oeuvres, vrr vol.); A. BRILL, Ober die Mechanik von Hertz, in « Mathematisch-natur­wissenschaftliche Mitteilungen, » Wtirttemberg I 900; Io., Ober ein Beispiel des Herrn Boltzmann zur Mechanik von Hertz, in « Jahresbericht der deutschen Mathematiker Vereinigung » I9oo; R. MANNO, H. Hertzfiir die Willensfreiheit? Studie iiber Mechanismus und Willensfreiheit, Lipsia I 9oo ; K. HEuM, Ober die Hertzsche Mechanik, in « Sitzungsberi­chte der berliner mathematischen Gesellschaft » I90I; P. VOLKMANN, Die gewohnliche Darstellung der Mechanik und ihre Kritik durch Hertz, in « Zeitschrift ftir den physikali­schen und chemischen Unterricht » I9oi; K. PAULUS, Erganzungen und Beispiele zur Mechanik von Hertz, in « Sitzungsberichte der kaiserlichen Akademie der Wissenschaften » I9I6; J. HERTZ, H. Hertz, Erinnerung, Briefe, Tagebiicher, Lipsia I927; J. ZENNECK, H. Hertz, in« Abhandlungen und Bericht des deutschen Museums » I929; J.J. SMART, H. Hertz and the concept of force, in « Australasian journal of philosophy » 195 I; P.G. CATH, H. Hertz, in « Janus » I957; C. SussKIND, Hertz and the technological signiftcance of electromagnetic waves, in·, « Isis » I965; A. T. GRIGORIAN, H. Hertz, Mosca I968; A. UNSOLD, H. Hertz, Prinzipien der Mechanik, in « Physikalische Blatter » I97o.

Un'antologia degli scritti di Augusto Righi è stata edita da G.C. DALLA NocE e G. V ALLE, Bologna I 9 5o.

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Bibliografia

Su Augusto Righi: L. DoNATI, A. Righi e l'opera sua, Commemorazione tenuta il I no­vembre 1g2o nell'aula dell'Archiginnasio, Bologna I92I; «L'arduo» I92I (numero dedicato a A. Righi); S. TIMPANARO, Le ricerche del Righi sul fenomeno fotoelettrico, in « L'arduo »

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CAPITOLO NONO

La svolta nella logica dell'Ottocento

Le principali opere di George Boole sono state riedite: Calculus of finite differences, New York I96I; An investigation of the laws of thought, ristampato come n vol. delle Collected logica/ works, a cura di P .E. B. J OURDAIN, Chicago-Londra I 9 I 6; nuova ristampa, New York I95 I; The mathematical analysis of logic, ristampa, Oxford I95 r. Si veda inoltre la raccolta: Studies in logic and probabiliry, a cura di R. RHEES, Londra I95 2 (trad. italiana, Milano I965). Su G. Boole si veda: R. HARLEY, G. Boole, in « The british quarterly review » I866; J. VENN, Boole's logica/ .rystem, in « Mind » I876; L. LIARD, La logique algébrique de Boole, in« Revue philosophique » I877; J.J. MuRPHY, On the quantiftcation of predica/es and on the interpretation of Boole' s logica/ .rymbols, in « Proceedings of the literary and philosophical society of Manchester » I884; W. KNEALE, Boole and the r~vival of logic, in « Mind » I948; A. N. PRIOR, Categoricals and hypotheticals in G. Boole and his successors, in « The australian journal of philosophy » I 949; M. B. HESSE, Boole' s philosophy of logic, in « Annals of science » I 9 52; articoli vari in occasione del centenario della pub­blicazione delle Laws of thought, in « Proceedings of the Royal Irish Academy >> I95 5; F. BARONE, Dalla logica dell'algebra all'algebra della logica; Algebra della logica e leggi del pensiero; Sviluppi e problemi dell'algebra della logica, in «Filosofia» I96o, I96I, I963; E. WHITESITT, Boolean algebra and its applications, I96I; F. GILLOT, Algèbre et logique d' après /es textes originaux de G. Boole et W.S. jevons, Parigi I962; M. TRINCHERO, Alternati­ve di interpretazione della logica di Boole, in « Rivista di filosofia » I 96 5.

I principali scritti di Augustus De Morgan sono stati raccolti da P. HEATH, On the .ryllogism and other logica/ emrys, Londra I 966.

Su A. De Morgan: S.E. DE MoRGAN, Memoirs of A. De Morgan, Londra I882; G.B. HALSTED, De Morgan as logician, in « Journal of speculative philosophy » I884; A. MACFARLANE, A. de Morgan, in Ten british mathematicians, New York I9I6; J.A. PASSMO­RE, A hundredyears of philosophy, Londra I957·

Una bibliografia completa delle opere di Jevons si può trovare in Letters and Journal of W.S. Jevons a cura della moglie HARRIET ANN TAYLOR, Londra I886. L'opera prin­cipale di William Stanley Jevons, The principles of science, è stata ristampata, New York I 9 58. Sono tradotte in italiano le seguenti opere: Lezioni di logica elnmntare, a cura di G. CAPONE BRAGA, Roma I946.(rr ed. I948); Logica, a cura di C. CANTONI, Milano I90I (vi ed. a cura di G. VroARI, I92o).

Su W.S. Jevons: L. LIARD, Un nouvel .rystème de logique formelle: W. S. ]evons, in « Revue philosophique » I 877; R. AoAMSON, Professor Jevons in Milis experimental methods, in « Mind » I 878; A. LEVI, La logica della scienza secondo W. S. ]evons, in « Cultura filo­sofica» I9I6; G. MEYER, Die Krisentheorie von W. Jevons, Kiel I937; W. MAYS, D.P.

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Bibliografia

HENRY, ]evons and logic, in « Mind » I95 3; F. GILLOT, Eléments de logique appliquée d'après Wronski, jevons, Solvay, Parigi I 964.

Si veda inoltre: T.V. CARPENTIER, La logique duhasard d'après fohn Venn, in« Revue philosophique » I878; R.B. BRAITHWAITE, Lewis Carro/las logician, in « Mathematical gazette » I9I6; P. ALEXANnER, Logic and the humor of Lewis Carro!!, in« Proceedings of the Leeds philosophical and literary society » I 9 5 I.

Le opere di Charles Sanders Peirce sono state raccolte in una edizione complessiva: Collected papers, I-VI voli. a cura di C. HARTSHORNE e P. WEiss; VII-VIII voli., a cura di A. W. BuRKS, Cambridge, Mass. I93I-35, I958. Si veda inoltre: C.S. Peirce's letters to Lady Welry, a cura di I.C. LIEB, New Haven I95 3; R. S. ROBIN, Annotated catalogue of the papers of C.S. Peirce, Amherst I967; The philosop~y of Peirce: selected writings, a cura di J. BucHLER, New York I940. In italiano è tradotta l'opera: Caso, amore, logica, Torino I956.

Sulla vita e sull'opera di Peirce si veda: J. DEWEY, The pragmatism of Peirce, in « Journal of philosophy » I9I6; C. LAnn-FRANKLIN, C.S. Peirce at the Johns Hopkins, ivi; J. ROYCE, F. KERNAN, C.S. Peirce, ivi; J.H. MuiRHEAn, Peirce's piace in american philosop~, in « Philosophical review » I928; H. G. ToWNSENn, The pragmatism of Peirce and Hegel, ivi; E. NAGEL, C. Peirce's guess at the riddle, in « Journal of philosophy » I933; J. DEWEY, Peirce's theor:_y of qualiry, ivi I93 5; T.A. GounGE, The views of C. Peirce on the given in experience, ivi; In., Further rejlexions on Peirce's doctrine of the given, ivi I936; H.S. LEONARn, The pragmatism and scientiftc metap~sics of C.S. Peirce, in « Philosophy of science » I 9 37; C. MORRIS, Peirce, Mead and pragmatism, in « Philosophical review » I 9 37; K. BRITTON, Introduction to the metap~ysics and theology of C. S. Peirce, in « Ethics » I938-39; J. BucHLER, C. Peirce'sempiricism, New York I939; In., Peirce's theory of logic, in « J ournal of philosophy» I 9 3 9; In., The accidentsof Peirce' s !JS!em, iv i I 940; T .A. GounGE, Peirce's treatment of induction, in « Philosophy of science » I94o; W.H. HILL, Peirce's pragmatic method, ivi; E. NAGEL, C.S. Peirce, pioneer of modern empiricism, ivi; P. WEiss, The essence of Peirce's s_ystem, in « Journal of philosophy » I94o; C. HARTSHORNE, A critique of Peirce's idea of God, in « Philosophical review » I94I; A. W. BuRKS, Peirce's conception of logic as a normative science, ivi I943; In., e P. WErss, Peirce's sixry-six signs, in « Journal ofphilosophy » I945; A.W. BuRKS, Peirce's theory of abduction, in« Philosophy of science » I 946; J. DEWEY, Peirce' s theory of signs, thought and meaning, in « J ournal of philosophy » 1946; G. GENTRY, Peirce's ear(y and later theory of cognition: some critica! comments, in« Philosophical review » I946; A.O. LoVEJOY, A note on Peirce's evolutionism, in « J o urna! of the history of ideas » I 946; P. WIENER, The evolutionism and pragmatism of Peirce, i vi; In., Peirce' s metap~sical club and the genesis of pragmatism, i vi; J .K. FEIBLEMAN, An introduction to Peirce's philosop~, New York 1946; W.B. GALLIE, The metap~sics of C.S. Peirce, in « Proceedings of the aristotelian society » 1946-47; T.A. GounGE, The conjlict of naturalism and trascendentalism in Peirce, in « J ournal of philosophy » I 949; In., The thought of C.S. Peirce, Toronto I946; W.B. GALLIE, Peirce and pragmatism, Harmondsworth I952; AuTORI VARI, Studies in the philosop~ of C.S. Peirce, a cura di P.WIENER e F.H. YouNG, Cambridge Mass. I952; E.C. MooRE, The scholastic realism of C.S. Peirce, in « Philosophy and phenomenological research » 1952; S.J. BASTIAN, J. Ralph, The « scholastic » realism of C.S. Peirce, ivi 1953; W.D. OLIVER, Studies in the philosop~ of C.S. Peirce, in« Journal of philosophy » 1953; M. THOMPSON, The pragmatic

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Bibliografia

philosophy of C.S. Peirce, Chicago 1953 (n ed. 1963); E.C. MoORE, Professar Bastian's comments on Peirce' s scholasticism, in « Philosophy and phenomenological research » 1953-54; C. LIEB, New studies in the philosop~y of C.S. Peirce, in « Review of metaphysics » 1954; J.F. FERRATER, Peirce's conception of architectonic, in « Philosophy and pheno­menological research » 1954-5 5; E. MADDEN, Chance and counterfacts in Wright and Peirce, in « Review of metaphysics » 19 5 5-5 6; P. WIENER, Peirce' s experimentalism and practicalism, in « Philosophical studies » 1956; H. SPEIGELBERG, Husserl's and Peirce' s phenomenologies: roincidence or interaction, in « Philosophy and phenomenological research » 1956-57; W. ALSTON, Pragmatism and the theor_y oJ signs in Peirce, ivi 1956-57; ]. O' CoNNEL, C.S. Peirce and the problem of knowledge, in « Philosophical studies » I 9 57; C. EISELE, The scientist philosopher, C.S. Peirce at the S mithsonian, in « J ournal of the history of ideas » I957; H.G. FRANKFURT, Peirce's account of inquiry, in« Journal of philosophy» I958; Io., Peirce's notion of abduction, ivi; L MuRPHRY, Peirce's theory of inquiry, in « Journal of philosophy » I959; C. EISELE, C.S. Peirce, nineteenth century man of science, in « Scripta mathematica » I959; B.C. MooRE, American pragmatism: Peirce, James and Dewry, New York I96I; G.M. MuRPHEY, The development of Peirce's philosophy, Cambridge Mass. I96I; H. WENNERBERG, The pragmatism oJ C.S. Peirce: an ana(ytical stut!J, Lund I962; J.F. BoLER, C.S. Peirce and scholastic realism, Seattle I963; C. EISELE­HALPERN, Fermatian it~ference and De Morgan's ~yllogism of transposed quantity in Peirce's « Logic ~( science »in « Physis » I963; AuTORI VARI, Studies in the philosophy of C.S. Peirce, a cura di E.C. MooRE e R.S. ROBIN, Amherst I964; C. WRIGHT MILLS, Sociology and pragmatism, I964 (trad. it. Milano I968); W.P. HAAS, The conception of law and the uniry of Peirce's philosophy, Friburgo I964; ].]. FITZGERALD, Peirce's theory of signs as foundation for pragmatism, L'Aia I966; V.G. POTTER, C. S. Peirce on norms and ideals, Amherst I967; A.]. AYER, The origins of pragmatism: studies in the philosophy of C.S. Peirce and William ]ames, Londra I968; CHUNG-YNG CHENG, Peirce's and Lewis's Theories of induction, L'Aia I969.

Su Ernst Schroder: J. LOROTH, E. Schroder, in « Jahresbericht der deutschen mathematischen V ereinigung » I 90 3 ; G. BEHRENS, Di e Prinzipien der mathematischen Logik bei S chroder, Russe/ and Konig, Amburgo I 9 I 8; A. CHURCH, S chroder' s anticipation of the simple theor.J' of rypes, in « Journal of symbolic logic » I939; ]. VON KEMPSKI, E. Schroder Algebraiker der Logik, in« Geistige Arbeit » I942; F. BARONE, Peirce e Schroder, in «Filosofia» I966.

CAPITOLO DECIMO

La teoria dei campi: Maxwell

Gli scritti di James Clerk Maxwell sono stati raccolti: The scientiftc papers, 2 voli., Cambridge I89o (ristampa, New York I952)· Il Treatise on electriciry and magnetism, e l'opera Matter and motion, sono stati ristampati (Stanford I95 3; New York I9 ;z). È in corso di stampa la traduzione italiana del Treatise.

Su Maxwell: L. CAMPBELL, W. Garnett, The /ife of ].C. Maxwe/1 and selections of his letters, Londra I882 (nuova ed., New York 1969); H. PoiNCARÉ, Électricité et optique;

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Bibliografia

I. Les théories de Maxwe/1 et la théorie é!ectromagnétique de la lumière; II. Les théories de Helmholtz et /es experiences de Hertz, Parigi I 890-9 I; Io., La théorie de Maxwe/1 et /es oscil!ations hertziennes, Parigi 1899 (m ed., I9o7); R. T. GLAZEBROOK,j.C. Maxwell and modern physics, Londra 1901; P. DuHEM, Les théories physiquesdej.C. Maxwell, Parigi 1902; H. LoRENTZ, C. Maxwell's electromagnetical theory, Cambridge I923; AuTORI VARI, ].C. Maxwell. A commemoration volume I8JI-I9JI, Cambridge 1931; J. FoRSYTH, Old tripos days at Cambridge, in« Mathematical gazette » I935; K. PEARSON, 0/d tripos days at Cambridge} as seen from another viewpoint, ivi I936; ]. LARMOR, The origin of C. Maxwell's electric ideas as described in familiar letters to Thomson, Cambridge 19 37; H. ScHUEPP, Les équations de Maxwell et leur établissement, in « Annales Guébhard-Séverine » I938-39; R.L. SMITH RosE, ].C. Maxwell I8JI-79, Londra I948; J.E. TuRNER, Maxwell and the method of physical analogy, in« British journal for the philosophy of science » 195 5; Io., Maxwell on the logic of dynamical explanation, in « Philosophy of science » I956; I.B. HoPLEY, C. Maxwell' s apparatus for the measurement of surface tension, in « Annals of science » I 9 57; Io., Maxwell' s work on electrical resistance. I. The determination of the absolute unit of resistance, ivi; II. Proposals for the re-determination of the B.A. unit of I86J, ivi I95 8; m. Improvement of Mance's method for the measurement of battery resistance, ivi I959; H.T. BERNSTEIN, ]. Clerk Maxwell on the history of the kinetic theory of gases, 1871, in « Isis » 1963; C. Maxwell and modern science. Six commemorative lectures, a cura di C. Domb, Londra I963; D.K.C. MAc DoNALO, Faraday} Maxwell and Kelvin, New York 1964; T.K. SIMPSON, Maxwell and the direct experimental test of his electromagnetic theot:_y, in « Isis » I 966; R. MAR­TENS, C. Maxwell's G!eichungen des denudativen Feldes. Ober Anfange der theoretischen Geogra­phie um I 87 o, in « Sudhoffs Archi v » I 966; A.M. BoRK, Maxwell and the electromagnetic w ave equation, in « American journal of physics » I967; Io., Maxwell and the vector potential, in « Isis » I967; ].L. BROMBERG, Maxwell's displacement current and his theory of light, in« Archive for history of exact sciences » 1967; Io., Maxwell's electrostatics, in« Ameri­can journal of physics » 1968; S. D'AGOSTINO, Il pensiero scientifico di Maxwell e lo sviluppo della teoria del campo elettromagnetico nella memoria « On Faraday' s lines of forces », in « Scien­tia » 1968; Io., I vortici dell'etere nella teoria del campo elettromagnetico di Maxwell: la funzione del modello nella costruzione della teoria, in « Physis » I968; S. G. BRUSH, C.W.F. EvERITT, Maxwell} Osborne R~ynolds and the radiometer, in « Historical studies in the physical sciences » I969; E.A. GARBER, ].C. Maxwell and thermodynamics, in « American journal of physics » 1969; R. KARGON, Mode/ and analogy in victorian science: Maxwell's critique ofthefrench physicists, in« Journal of the history of ideas » 1969; P.M. HEIMANN, Maxwell and the modes of consistent representation, in « Archiv for history of exact sciences » I97o; AuTORI VARI, in « Studies in history and philosophy of science » 1970 (numero inte­ramente dedicato a Maxwell).

CAPITOLO UNOICESIMO

Principi e problemi della tertnodinamica

Sugli sviluppi della termodinamica si veda: E. MACH, Die Prinzipien der Warmelehre. Historisch-kritisch entwickelt, Lipsia 1896 (m ed. 1919); G. HELM, Die Energetik nach ihrer geschichtlichen Entwicklung, Lipsia 1898; A. KLAus, P.W. ALFREO, Ober die Entwicklung

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Bibliografia

der kinetischen Gastheorie und ihre Bedeutung fiir die moderne P~ysik, Friburgo I 904; A. E. HAAS, Die Entwicklungsgeschichte des Satzes von der Erhaltung der Kraft, Vienna I909; K. MEYER, Die Entwicklung des Temperaturbegriffs, Braunschweig I913; G. SARTON, The discovery of the law of conservation of energy, in« Isis » I929; D. Mc Km, N.H. DE V. HEATHCOTE, The discovery of speciftc and latent heat, Londra I93 5; L. RosENFELD, La genèse des principes de la thermodynamique, in « Bulletin de la societé royale des sciences de Liège » 194I; C.B. BOYER, History of the measurement of heat, in « Scientific monthly » I943; D. RoLLER, The early development of the concepts of temperature and heat. The rise and decline of the calorie theory, Cambridge, Mass. I950 (m ristampa 1966); S.G. BRUSH, The develop­ment of the kinetic theory of gases, in « Annals of science » I957-5 8 ;T.S. KuHN, The calorie theory of adiabatic compression, in « Isis » I 9 58; In., Energy conservation as an example of simultaneous discovery, in Criticai problems in the history of science, Madison I959; S.G. BRUSH, The development of the kinetic theory of gases. vr. The equation of state, in « American journal of physics » I96I; In., Thermodynamics and history: science and culture in the ni­neteenth centur:y, in« Graduate journal » I967; E.E. DAuB, Atomism and thermoc/ynamics, in « lsis » I967; In., Probability and thermodynamics: the reduction of the second law, ivi I969.

Alcuni scritti di Robert Mayer sono stati raccolti: Kleinere Schriften und Briefe, a cura di J.J. Weyrauch, Stoccarda I893·

Sulla vita e sull'opera di R. MAYER si veda: H. RoHLFS,j.R. von Mayer, sein Leben und sein Wirken, in « Archiv fiir Geschichte der Medicin und medicinische Geographie » I879; E. DOHRING, R. Mcryer, der Galilei des rg. Jahrhunderts, Chemnitz r88o; J.J. WEYRAUCH, Das Prinzip von der Erhaltung der Energie seit R. Mcryer, Lipsia I885; E.O. VON LrPPMANN, R. Mayer und das Gesetz von der Erhaltung der Kraft, in « Zeitschrift fiir Naturwissenschaften )) I 897 (anche in Abhandlungen und Vortriige zur Geschichte der Naturwissenschaften, Lipsia I9o6); T. GRoss, R. Mayer und Hermann von Helmholtz. Bine kritische Studie, Berlino I 898; A. RIEHL, R. Mcryers Entdeckung und Beweis des energieprinzips, in Philosophische Abhandlungen, Tubinga I9oo; J.W.A. HrcKSON, R. Meryers Auffassung des Kausalprinzips, Halle I9oo; E.O. voN LIPPMANN, Justus Liebig iiber R. Mtryer, in « Chemiker-Zeitung » I9o8 (anche in Abhandlungen und Vortriige zur Geschichte de.J Naturwissenschaften, II vol., Lipsia I9I3); W. OsTWALD, P!_ychographische Studien. II.

].R. Mcryer, in « Annalen der Naturphilosophie » I9o8; A. voN 0ETTINGEN, R. M~yers wissenschaftlicher Entwicklungsgang im Jahre r84r, in « Abhandlungen der Koniglich­Sachsischen Gesellschaft der Wissenschaften » I 909; E. J ENTSCH, Zur Geschichte der Entdeckung ].R. Mcryers, in « Die Naturwissenschaften » I9I4; B. HELL, R. Mcryer, in « Kantstudien » I9I4; K. BAuDER, R. Mcryer, der Entdecker des Prinzips von der Erhal­tungder Energie, in« Janus » I9I4; J.J.. WEYRAUCH, Der Naturforscher R. Mcryer, Stoccar­da I925; H. TIMERDING, R. Mcryer und die Entdeckung des Energiegesetzes, Lipsia-Vienna I925; B. HELL, ].R. Mcryer und das Gesetz von der Erhaltung der Energie, Stoccarda I925; A. MITTASCH, ].R. Mcryers Kausalbegriff. Seine geschichtliche Stellung, Auswirkung und Bedeutung, Berlino I94o; In., ].R. Mayer. Erstes und Letztes, Berlino I942; R. PLANK, ].R. Mcryer. Zum hundertjiihrigen Bestehen des Gesetzes von der Erhaltung der Energie, in « Die Naturwissenschaften » 1942; AuTORI VARI, R. Mcryer und das Energieprinzip I842-I942. Gedenkschrift zur IOO. Wiederkehr der Entdeckung des Energieprinzips, Berlino I942; W. BLOCH, Um die Entdeckung der Energie: ].R. Mtryer, Ulm 1947; O.

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Bibliografia

BLi.iH, The value of inspiration: a stuc!J on ].R. Mqyer and Josef Popper-Lynkeus, in « Isis » I952; H. ScHMOLZ, H. WECKBACH, R. Mqyer, sein Leben und Werk in Dokumenten, Weissenhorn I964; H. SCHIMANK, ].R. Mqyer (I8I4-J8), sein Weg zur Erkenntnis und Darstellung des Energieprinzips, in « Abhandlungen und Bericht cles deutschen Museums » I965; H. ScHMOLZ, Das Riitsel um eine Maschine im Nachlass von R. Mqyer, in « Medizin­historisches Journal» I968; W.B. 0BER, R.Mqyer M.D. (I8I4-78) and mechanical equivalent of heat, in « New York State j ournal of medicine » I 968; W. ScHi.iTZ, R. Mqyer, Lipsia I969.

Le Réjlexions sur la puissance motrice du feu di Sadi Carnot sono state ristampate, Parigi I 9 5 3, Londra I 966; si veda anche la traduzione inglese curata da E. MENDOZA, New York I96o.

Su Sadi Carnot si veda: J. LARMOR, On C arno t' s theory of heat, in « Scientia » I 9 I 8 ; E. ARrÈs, L'oeuvre scientiftque de S. Carnot. Introduction à l'étude de la thermoc!Jnamique, Parigi I92I; D. BERTHELOT, S. Carnot et la thermoc!Jnamique, in « Revue scientifique » I 926; K. SCHREBER, S. C arno t und Rudolf Clausius. Wie nennt C arno t den spiiter von Clausius « Entropie des umkehrbaren Vorganges » genannten Begriff?, in « Sudhoffs Archi v » I 9 3 7; V.K. LA MER, Some current misinterpretations of S. Carnot's memoir and rycle, in« American journal of physics » I954-55; T.S. KuHN, La Mer's version of « Carnot's rycle », ivi I95 5; Io., Carnot's version of Carnot's rycle, ivi; M. KERKER, S. Carnot, in « Scientific monthly » I957; M.K. BARNETT, S. Carnot and the second law of thermoc!Jnamics, in «Osiris »I958; E. MENDOZA, Contributions to the stuc!J of S. Carnot and his work, in « Archives internatio­nales d'histoire cles sciences » I959; M. KERKER, S. Carnot and the steam engine engineers, in « Isis » I96o; T.S. KuHN, S. Carnot and the Cagnard engine, ivi I96I; E. MENDOZA, S. Carnot and the Cagnard engine, ivi I963; W.A. GABBEY, J.W. HERIVEL, Un manuscrit inédit de S. Carnot, in « Revue d'histoire cles sciences » I966; B. CrMBLERIS, Rejlections on the motive power of a mind, in « Physis » I967; J. PAYEN, Une source de la pensée de S. Carnot, in « Archives internationales d'histoire cles sciences » I968; R. Fox, Watt's expansive principle in the work of S. Carnot and Nicolas Clément, in «Notes and records of the Royal Society » I969.

Le memorie scientifiche di L. Boltzmann sono state raccolte in 3 voli., Wissenschaf­tliche Abhandlungen, a cura di F. HASENOHRL, Lipsia I909. Su Boltzmann: E. BRODA, L. Boltzmann, Mensch, Physiker, Philosoph, Vienna I95 5; diversi articoli in occasione del 50° anniversario della morte in «Utspekhi Mathematicheski Nauk» I957 (trad. inglese in « Advances in physical sciences » I96o); H. THIRRING, L. Boltzmann in seiner Zeit, in « Naturwissenschaftliche Rundschau » I 9 57; R. DuGAS, La théorie p~ysique au sens de Boltzmann et ses prolongements modernes, Neuchatel I959; H. BERNHARDT, Der Um­kehreinwand gegen da.- H- Theorem und Boltzmanns statische Deutung der Entropie, in « Zeitschrift fi.ir Geschichte der Naturwissenschaften, Technik und Medizin » I967; E. BELLONE, L'energia molecolare e la velocità molecolare come parametri discreti in alcuni scritti di L. Boltzmann in relazione all'ipotesi di M. Planck ed alla teoria della radiazione di S.D. Poisson, in « Physis » I968; I. SzuMILEWICZ, Meéhanùyzm L. Boltzmanna a postulat mikroredukcji (La meccanica di Boltzmann e il postulato di microriduzione) in« Rozprawy Filozoficzne » I 969.

La corrispondenza scientifica di Wilhelm Ostwald è pubblicata a cura di H. KoBER e G. OsTWALD, Berlino I96I segg. In italiano sono tradotti: Gli elementi scientifici di

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Bibliografia

chimica analitica, a cura di A. Bous, Milano 1901; Come si impara la chimica, a cura di G. ANDREONI, 2 voli., Torino 1908.

Su Ostwald: A. DocHMANN, W. Ostwalds Energetik, Berna 19o8; W. BuRKAMP, Die Entwicklung des Substanzbegriffs bei Ostwald, Lipsia 1913; Io., W. Ostwald. Festschrift aus Anlass seines 6o. Geburstages, Vienna 1913; V. DELBOS, Une théorie allemande de la culture. W. Ostwald et sa philosophie, Parigi 1916; J.S. TAYLOR, A simple explanation of the Ostwald colour ~ystem, Londra 1936; G. OsTWALD, W. Ostwald, mein Vater, Stoccarda 1 95 3·

Su Clausius e la teoria cinetica: P. e T. EHRENFEST, Begrijfliche Grundlagen der sta-tistischen Auffassung in der Mechanik, in « Encyklopedie der mathematischen Wissens­chaften »IV, Lipsia e Berlino I9I I; G. HANSEMANN, Die Atome und ihre Bewegungen. Ein Versuch zur Verallgemeinerung der Kronig-Ciausiuschen Theorie der Gas, Lipsia I 87I; M.J. KLEIN, Gibbs on Clausius, in« Historical studies in the physical sciences » I969.

CAPITOLO DODICESIMO

La critica del ?neccaniciSJno: Mach

Le seguenti opere di Mach sono tradotte in italiano: La meccanica esposta nel suo sviluppo storico critico, Roma 1909; a cura di A. D'ELIA, Torino 1968; Letture scientifiche popolari, a cura di A. BoNGIOVANNI, Torino 19oo; Analisi delle sensazioni, a cura di A. VACCARO e C. CESSI, Torino 1903. Sui vari aspetti della vita e dell'opera filosofica e scientifica di E. Mach si vedano i seguenti studi: J. BAuMANN, Vber E. Machs philoso­phische Ansichten, in « Archiv flir systematische Philosophie » I 898; Io., lst Mach von mir missverstanden worden ?, i vi I 899; H. GRtiNBAUM, Zur Kritik der modernen Kausalan­schauungen (Kap. VI. E. Mach), ivi; H. KLEINPETER, Vber E. Machs und Heinrich Hertz' prinzipielle Auffassung der Physik, ivi; P. NATORP, Zur Streitfrage zwischen Empirismus und Kritizismus, ivi; J. BAuMANN, Wo steht der Fehler oder die Einseitigkeit in Machs philoso­phischen Ansichten?, ivi I90I; T. BEER, Die Weltanschauung eines modernen Naturforschers. Ein nichtkritisches Referat iiber Machs « Ana(yse der Empftndungen >>, Dresda 1903; H. KLEINPETER, Kant und die naturwissenschaftliche Erkenntniskritik der Gegenwart ( Mach, Hertz, Sta/lo, Clifford), in « Kantstudien » 1903; R. H6NIGSWALD, Zur Kritik der Mach­schen Philosophie. Bine erkenntnistheoretische Studie, Berlino 1903; E. LucKA, Das Erkenntnis­problem und Machs « Ana!Jse der Empftndungen ». Bine kritische Studie, ivi; F. AoLER, Bemerkungen iiber di e Metapf?ysik in der Ostwaldischen Energetik ( Mach und Ostwald), in « Vierteljahrsschrift flir wissenschaftliche Philosophie und Soziologie » 1905; E. ABB, Kritik des Kantschen Apriorismus vom Standpunkt des reinen Empirismus aus, unter besonderer Beriicksichtigung von ]. Stuart Mi/l und Mach, in « Archiv fiir die gesamte Psychologie » I9o6; T. ZIEHEN, Erkenntnistheoretische Auseinandersetzungen, E. Mach, in « Zeitschrift flir Psychologie » 19o6; P. CARUS, Professor Mach's philosopf?y, in« The monist » 19o6; B. HELL, E. Machs Philosophie. Bine erkenntniskritische Studie iiber Wirklichkeit und Wert, Stoccarda 1907; R. MusiL, Beitrag zur Beurteilung der Lehren Machs, Berlino I9o8; F. REINHOLD, Machs Erkenntnistheorie. Darstellung und Kritik, Lipsia 1908; L. MIRANDA, Mach o Hegel?, in« Rivi.sta filosofica» 1908; V.I. LENIN, Materialismo ed empiriocriticismo.

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Bibliografia

Osservazioni critiche su una filosofia reazionaria (I 909; trad. italiana, Roma I 9 53); A. HoFLER, Zur Geschichte und Wurzel der Machschen Philosophie, in « Zeitschrift fiir den physikalischen und chemischoo Unterricht » I9Io; M. PLANCK, Zur Machschen Theorie der physikalischen Erkenntnis. Bine Erwiderung, in « Vierteljahrsschrift fiir wissenschaftliche Philosophie und Soziologie » I9IO; M. AoLER, Mach und Marx. Ein Beitrag zur Kritik des modernen Positivismus, in « Archiv fiir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik » I9I I; H. BuZELLO, Kritische Untersuchung von E. Machs Erkenntnistheorie, in « Kantstudien » I9I I; K. GERHARDS, Zur Kontroverse Planck-Mach, in « Vierteljahrsschrift fiir wissen­schaftliche Philosophie un d Soziologie » I 9 I 2; c. HAMBURGER, Unser Verhaltnis zur Sinnenwelt in der mathematischen Naturwissenschaft. Ein Weg von Mach zu Kant, ivi; P.E.B. JouRDAIN, The principle of least action. Remarks on some passages of Mach's mechanics, in « The monist » I9I2; H. KLEINPETER, Die prinzipiellen Fragen der Machschen Erkenntnis­lehre, in « Zeitschrift fiir Philosophie und philosophische Kritik » I9I3; K. HoRN, Goethe als Energetiker, verglichen mit den energetikern Robert Mt!Jier, Ottomar Rosenbach, E. Mach, Lipsia I9I4; K. GERHARDS, Studien zur Erkenntnislehre Machs, Stoccarda I9I4; H. HENNING, E. Mach als Philosoph, PÌJysiker und Psycholog, Lipsia I9I 5; A. EINSTEIN, E. Mach, necrologio, in « Physikalische Zeitschrift » I9I6; H. GoMPERZ, E. Mach, in « Archi v fiir Geschichte der Philosophie » I 9 I 6; M.H. BAEGE, E. Mach, in « Di e Naturwissenschaften » I9I6; Io., Die Naturphilosophie von E. Mach, Berlino I9I6; A. ALIOTTA, E. Mach, in «La cultura filosofica» I9I6; P. FRANK, Die Bedeutung der

physikalischen Erkenntnistheorie Machs fiir das Geistesleben der Gegenwart, in « Die Natur-wissenschaften » I9I7; F. AoLER, E. Machs Oberwindung des mechanischen Materialismus, Vienna I9I8; A. LAMPA, E. Mach, Praga l9I8; G. RABEL, Mach und die « Realitiit der Aussenwelt », in « Physikalische Zeitschrift » I92o; R. BouviER, La pensée de E. Mach. Essai de biographie intellectuelle et de critique, Parigi I923; H. DrNGLER, Die Grundgedanken der Machschen· Philosophie. Mit Erstveroffentlichungen aus seinen wissenschaftlichen Tagebiichern, Lipsia I924; P. VoLKMANN, Siudien iiber E. Mach vom Standpunkt eines theoretischen Physikers der Gegenwart, in« Annalen der Philosophie » I924; J. BECHER, Erkenntnistheo­retische Untersuchungen iiber E. Mach, Bonn I927; F. KALLFELZ, Das Oekonomieprinzip bei E. Mach. Darstellung und Kritik. Das Prinzip der Maximalleistung des Denkers, Monaco I 929; H. L6WY, Die Erkenntnistheorie von Popper-Lynkeus und ihre Beziehung zur Machschen Philosophie, in « Die Naturwissenschaften » I932; P. FRANK, E. Mach. The centenar_y of his birth, in « Erkenntnis » I937-38; R. VON MISES, E. Mach und die empiristische Wissenschaftsauffassung. Zu E. Machs roo. Geburtstag am rS februar I9J8, in « Einheits­wissenschaft » I93 8; A. SoMMERFELD, E. Mach als Physiker, Psychologe und Philosoph, in « Verhandlungen der deutschen physikalischen Gesellschaft » I 9 3 8 ; E. LOHR, E. Mach als Physiker, in « Zeitschrift fiir die gesamte Naturwissenschaft» I938-39; F. 0AKLAND, Machs Elementlaere og Biologien, Osio I947; K.R. PoPPER, A note on Berkelry as precursor of Mach, in« British journal for the philosophy of science » I95 3; J. NICOLLE, Lénine, Mach et Pau/ Langevin, in« La pensée » I954; F. HERNECK, Ober eine unveroffentli­che Selbstbiographie E. Machs, in « Wissenschaftliche Zeitschrift der Humboldt-Univer­sitat Berlin» I956-57; P. MooN e D.E. SPENSER, Mach's principle, in «Philosophy of science » I959; K.D. HELLER, E. Mach. Wegbereiter der modernen Physik, Vienna I964; F. RATLIFF, Mach Bands. Quantitative studies on neural networks in the rethina, San Francisco I965; J. THIELE, William James andE. Mach, in« Philosophia naturalis » I966; ~ymposium

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Bibliografia

aus Anlass des JO. Todestages von E. Mach, veranstaltet vom E. Mach Institut, Freiburg-B.ram II-I 2 Miirz 1966 in Freiburg-Br.; M. BuNGE, Mach' s criticism of newtonian mechanics, in « American journal of physics >> I 966; O. BLiiH, E. Mach as an historian of physics, in « Centaurus)) 1968; ]. THIELE, Ein zeitgenossisches Urteil iiber die Kontroverse zwischen Max Planck und E. Mach, ivi; In., Naturphilosophie und Monismus um 1900 ( Briefe von W. Ostwald, E. Mach, E. Haeckel und Hans Driesch), in « Philosophia naturalis » I968; F. SEAMAN, Mach's rejection of atomism, in « Journal of the history of ideas » I968; AuTORI VARI, A .rymposium on E. Mach, a cura di ]. HINTIKKA, in « Synthese » I968; AuTORI VARI, E. Mach physicist and philosopher, a cura di R.S. CoHEN E R. J. SEEGER, Dordrecht I97o; E.N. HIEBERT, Mach's philosophical use ofthe history of science, in Historical and philosophical perspectives of science, a cura di R.H. STUEWER, Minneapolis I97o; A. D'ELIA, E. Mach, Firenze I97I·

CAPITOLO TREDICESIMO

La teoria dell'evoluzione e l'opera di Charles Darwin

Sul dibattito tra geologia e tradizione religiosa in Inghilterra nella prima metà del­l'Ottocento si veda: F.D. ADAMS, The birth and development of the geologica/ sciences, Balti­mora I938 (ristampa, New York I954); H.H. THOMAS, The rise of geology and its injluence on contemporary tought, in« Annals of science » 1941-47; F.S. TAYLOR, Geology changes the outlook, in Ideas and beliefs of the Victorians, Londra I949; C.C. GILLISPIE, Genesis and geology. The impact of scientiftc discoveries upon religious beli~fs in the decades beforeDarwin, Cambridge, Mass. I95I (ristampa, New York 1959); M. MILLHAUSER, The scripturalgeo­logists, in « Osiris » I954; W.F. CANNON, The uniformitarian-catastrophist debate, in « Isis » I96o; R. HooYKAAS, Geologica/ uniformitarianism and evolution, in« Archives internationa­les d'histoire cles sciences » I966; Towards a history of geology, a cura di C.J. ScHNEER, Cambridge, Mass. I969.

Su William Buckland: A.B. GoRDON, The /ife and correspondence of W. Buckland, New York I894; F.J. NoRTH, Paviland Cave, the « Red lac!_y », the deluge and W. Buckland, in « Annals of science » I94I-47·

Le seguenti opere di Louis Agassiz sono state riedite: Esstry on classiftcation, a cura di E. LuRIE, Cambridge, Mass. I 962; Études sur /es glaciers, Londra I 966; Bibliographia zoologiae et geologiae, 4 voli., New York I968. Si veda inoltre: Correspondence between Spencer Fullerton Baird and L. Agassiz, two pioneer american naturalists, Washington I963.

Su L. Agassiz: L. Agassiz, his /ife and correspondence, a cura di E.C. AGASSIZ, 2 voli., Boston I885; A. GRAY, L. Agassiz, in « Andover review » I886; J. MARcou, Life, letters and works of L. Agassiz, 2 voli., New York I896; G.F. WRIGHT, Agassiz and the ice age, in« American naturalist» 1898; A.B. GouLD, L. Agassiz, Boston 19oi; L. CoPER: L. Agassiz as a teacher, Ithaca I917 (nuova ed. I945); E.R. CoRSON, Agassiz's « Esstry on classiftcation »fifty years after, in « Scientific monthly » 1920; J.D. TELLER, L. Agassiz, scientist and teacher, Columbus 1947; T. EmNGER, Agassiz lebt, in « Natur und Volk » I952; W. BARON, Zu L. Agassiz's Beurteilung des Darwinismus, in « Sudhoffs Archiv » I956; C.A. PEARE, A scientist of two worlds: L. Agassiz, New York I958; E. MAYR,

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Bibliografia

Agassiz, Darwin and evolution, in « Harvard library bulletin » I 9 59; L. HALL THARP, Adventurous alliance. T be story of tbe Agassiz fami!J of Boston, Boston I959; E. LuRIE, L. Agassiz. A /ife in science, Chicago I96o; ].P. PoRTMANN, L. Agassiz, pionnier de la glaciologie, in « Annales Guébhard-Séverine)) I962; A.V. CAROZZI, Agassiz's amazing geologica/ speculation « T be ice-age», in « Studies in romanticism » I 966; G.L. DAviEs, Tbe tour of tbe britisb isles made by L. Agassiz in 1840, in « Annals of science » I 968; ].A. WErR, Agassiz, Mendel and beredity, in « J ournal of the history of biology » I968; D.E. PFEIFER, L. Agassiz and tbe origin of species, in Studies in pbilosopby and tbe bistory of science: esscrys in bonor of Max Fiscb, a cura di R. TuRSMAN, Lawrence I970.

I Principles of geology di C. LYELL sono stati ristampati a cura di M.J.S. RunwiCK, New York I97o; si veda inoltre: Life, letters andjournals, a cura di K. LYELL, 2 voli., Lon­dra I88I.

Su C. Lyell: F. D. AnAMS, C. Lyell. His piace in geologica/ science and bis contributions to tbe geology of Nortb America, in « Science)) I933; E.E. SuYDER, c. L_yell's nuxgets of american bistor_y, in« Scientific monthly » I94I; E. BAILEY, C. Lyell F.R.S. (I79J-I8JJ), in« Notes and records of the Royal Society » I959; W.F. CANNON, Tbe impact of unitarianism. Two letters from ]. Herscbel to C. L_yell, I 8 ;6-37, in « Proceedings of the american philosophical society » I96I; W. CoLEMAN, Lyell and tbe « reality » of species: I8JO-JJ, in« Isis » I962; E. BAILEY, C. Lyell. A biograpby oj one oj tbe world's outstanding scientists wbose contributions to geology and natura/ bistory bave witbstood tbe test oj a bundred years, Londra-Edimburgo I962; G. H. ScoTT, Uniformitarianism, tbe uniformity of nature, and paleoecology, in« New Zealand journal of geology and geophysics » I963; F.]. NoRTH, C. Lyell, interpreter of tbe principles of geology, Londra I965; M.J.S. RunwiCK, A critique of uniformitarian geology: a letter from W.D. Conybeare to C. L_yell, 1841, in « Proceedings of the american philo­sophical society » I967; L.G. WrLSON, Tbe origins of C. Lyell's uniformitarianism, in «Geologica! society of America», special paper, I967; M.J.S. RunwiCK, Tbe strategy of Lyell's « Principles oj geology », in « Isis » I970.

La Tbeory oj tbe eartb di James Hutton è stata ristampata, Weinheim 1959. Su ]. HuTTON: ]. PLAYFAIR, Illustrations of tbe buttonian tbeory of tbe eartb, con introduzione di G.W. WHITE, New York I964 (ristampa dell'edizione del I8o2); M. MAcGREGOR, ]. Hutton tbe founder of modern geology, in « Endeavour >> I947; W.A. EYLES, Notes on tbe origina/ publication of Hutton' s tbeor_y of tbe eartb, and on subsequent forms in w bi cb i t was issued, in « Proceedings of the Royal Society of Edinburgh » I 9 5o; E. BArLEY, ]. Hutton,founder of modern geology, i vi; S.I. ToMKEIEFF, ]. Hutton and tbe pbilosoph)' of geology, i vi; V.A. EYLES, ]. EYLES, Some geologica/ correspondence of ]. Hutton, in « Annals of science » I95 I; M.J.S. RunwrcK, Hutton and Werner compared: George Greenougb's geologica/ tour oj Scot­land in I80J, in« British journal for the history of science » I962; G.L. DAVIES, Tbe eigb­teentb century denudation dilemma and tbe buttonian tbeory oJ tbe eartb, in « Annals of science » I966; R. HooYKAAs, ]. Hutton und die Ewigkeit der Welt, in « Gesnerus » I966; E.B. BAILEY, ]. Hutton, tbe founder of modern geo/ogy, Londra I 967; P.A. GERSTNER,]. Hutton' s tbeor_y oj tbe eartb and bis tbeory oj matter, in « Isis » I968.

L'opera principale di Erasmus Darwin: Zoonomia or tbe laws oj organic /ife, è stata tra­dotta in italiano, 6 voli., Milano I 803-05. Si veda inoltre: Essential writings, a cura di D. KING-HELE, Londra I968. Su E. Darwin: E. KRAUSE e C. DARWIN, E. Darwin, Londra

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Bibliografia

1879; H. PEARSON, Doctor Darwin, Londra 1930 (ristampa, New York 1964); N. GAR­FINKLE, Science and re!igion in England, IJ90-z8oo: the criticai response to the work of E. Darwin, in « Journal of the history of ideas » 195 5; N. BARLOW, E. Darwin, F.R.S. (qp-z8o2), in« Notes and records of the Royal Society » 1959; D.G. KING-HELE, E. Darwin, Londra-New York 1963.

Le principali opere di Charles Darwin hanno avuto numerosissime edizioni. Citiamo le più recenti: Journal of researches, edizione con una nuova introduzione di H.G. CAN­NON, Londra 196o; On the origin of species, con introduzione di G. DE BEER, Londra I951; con prefazione di W.R. THOMPSON, Londra I958; con introduzione di J. HuxLEY, New York 1958; A variorum text, a cura di M. PECKAM, Filadelfia I959; con introduzione di E. MAYR, Cambridge, Mass. 1964; con introduzione di J.W. BuRROW, Baltimora I968; The descent of man, Baltimora I936 (insieme con L'origine delle specie); The expressions of emotions, ristampa, Bruxelles I969; The different Jorms of jlowers, Bruxelles I969. Si veda inoltre: The !ife and letters of C. Darwin, including an autobiographical chapter, a cura di F. DARWIN, 3 voll., Londra I887 (ristampa con prefazione di G.G. SIMPSON, New York I 9 59); More letters of C. Darwin. A record of his work in a series of hitherto unpublished letters, a cura di F. DARWIN e A.C. SEWARD, 2 voll., Londra I903; Emma Darwin wife of C. Darwin. A century of fami(y letters, a cura di H.E. LITCHFIELD, 2 voll., Cambridge I9o4; C. Darwin's diary ofthe vqyage of H.M.S. Beagle, editedfrom the MS by N. Barlow, Cambridge I933 (ristampa, New York I969); The autobiograpby of C. Darwin z8o9-82. With originai omissions restored, a cura di N. BARLOW, Londra I958; Some unpublished letters of C. Darwin, a cura di G. DE BEER, in « Notes and records of the Royal Society » I 9 59; Further unpublished letters of C. Darwin, a cura di G. DE BEER, in « Annals of science » I 9 58; Darwin' s notebooks on transmutations of species, a cura di G. DE BEER, in « Bulletin of the british museum » I96o-6I; Darwin's ornithological notes, ivi I963. Tra le antologie: C. Darwin: evolution and natura/ selection, a cura di B.J. LoEWENBERG. Si veda ancora: The works of C. Darwin. An annotated bibliographical handlist, a cura di R.B. FREEMAN, Londra I965; B.]. LoEWENBERG, Darwin and Darwin studies, I9J9-6J, in « History of science » I 96 5.

Degli scritti di Darwin si ha una traduzione italiana complessiva pubblicata dalla U.T.E.T. tra il I872 c il I89o. Le traduzioni più recenti sono le seguenti: L'origine delle specie, con introduzione di G. MONTALENTI, Torino I959 (nuova ed., I967); L'origi­ne dell'uomo, a cura di F. PAPARO, Milano I949 (nuova ed., Roma I966); L'origine delle specie: abbozzo del z842-comunicazione del z8J8 ( Darwin-Wallace), a cura di B. CHIARELLI, Torino I96o; Via/!lt,io di un naturalista intorno al mondo, con prefazione di L. MoNTE­MARTIN!, Milano I945; a cura di M. MAGISTRETTI, Milano I959; a cura di P. 0MODEO, Milano 1967 (con l'Autobiografia e delle lettere); Autobiografia, a cura di L. P A V O LINI, Milano I95o (a cura di L. FRATINI, Torino I962).

Sulla vita e sull'opera di Charles Darwin, sulla diffusione della teoria evoluzioni­stica e sulle reazioni suscitate da essa, si vedano i seguenti studi: L. BucHER, Sechs Vorlesungen iiber die Darwinische Theorie, Berlino I 868; A. DE QuATREFAGES, C. Darwin et ses précurseurs franfais, Parigi I87o; G. CATTANEO, Darwinismo, saggio sull'evoluzione degli organismi, Milano I 8 So; M. LESSONA, C. Darwin, Roma I 8 8 3 ; G. CANESTRINI, La teoria di Darwin criticamente esposta, Torino I887; M. LESSONA, C. Darwin, Roma 1883; AuTORI V ARI, C. Darwin e il darwinismo, a cura di E. MoRSELI.I, Milano I 892; I. RoMANES,

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Bibliografia

Darwin and after Darwin, Londra 1892-97; E.B. PouLTON, C. Darwin and the theory of natura/ selection, Londra r 896; ] . DEWEY, The injluence of Darwin in philosophy, New York r 9 r o; L. DE LANESSAN, L' attitude de Darwin à l' égard de ses prédécesseurs au stijet de l'origine des espèces, in « Revue anthropologique » 1914; L. HuxLEY, C. Daruiin, Londra 1921; E. UNGERER, Lamarck-Darwin. Die Entwicklung des Lebens, Stoccarda 1923; B. PETRO­NIEvrcs, c. Darwin und Aljred Russe/l Wallace. Beitrag zur hoheren P.rychologie und zur Wissenschaftsgeschichte, in« Isis » 1925; G.A. DoRSEY, The evolution of C. Darwin, Londra 1928; H. WARD, C. Darwin: the man and bis warfare, Londra 1928; K. HrLDEBRANDT, Goethe und Darwin, in« Archiv fi.ir Geschichte der Philosophie » 1932; R.W.G. HrNG­STON, C. Darwin, Londra 1934; A. MIGNON, Pour et contre le transjormisme. Darwin et Vialleton, Parigi 1934; T. CowLES, Malthus, Darwin and Bagehot: a stuqy in the transjerence of a concept, in « Isis » 1937; G. WEsT, C. Darwin. A portrait, New Haven 1938; J. HuxLEY, ]. FrsHER, C. Darwin, New York 1939; N. BARLOW, C. Darwin and the voyage of the Beagle, New York 1946; ]. RosTAND, C. Darwin, Parigi 1947; G. CEr, C. Darwin, Firenze 1947; P.H. JESPERSEN, C. Darwin and dr. Gran!, in « Lychnos » 1948-49; M. PRENANT, C. Darwin, Parigi 1949 (trad. italiana, Torino 1949); P. SEARS, C. Darwin. The naturalist as a cultura! force, New Y ork 19 5o; W. RrTTER, C. Darwin and the golden rule, Londra 1954; C. ZrRKLE, Darwin's impact upon modern thought, Filadelfia 195 5; G. PRETI, Materialismo storico e teoria dell'evoluzione, in « Rivista di filosofia » r 9 55 ; R. MooRE, C. Darwin: a great !ife in bri~f, New York r 9 55 ; A. KEITH, Darwin revalued, Londra r 9 55 (trad. i t., Milano 195 9); W. IRVINE, Apes, angels and victorians. Ajoint biography of Darwin and Hux/~y, Londra 1955, New York 1959; A. ELLEGARD, The darwinian theory and the argument of design, in « Lychnos » 1956; In., Darwinian theory and nineteenth-century philosophies of science, in «] ournal of the history of ideas » r 9 57; In., Darwin and the generai reader. The reception oj Darwin's theory oj evolution in the british periodica! press, IIIJ9-72, Goteborg 195 8; ]. HuxLEY, The emergence of darwinism, in « Journal of the linnean society » r 9 58; M. MANDELBAUM, Darwin' s religious views, in « ] ournal of the history of ideas » r 9 58; A book that shook the world: anniversary esstry on C. Darwin' s « Ori gin of species », Pittsburgh 195 8; R. GENSCHEL, c. Darwin. Mensch zwischen Glauben und Wissen, Gottinga 1959; AuTORI VARI, The impact oj darwinian thought on american !ife and culture, Austin 1959; ].A. PASSMORE, Darwin and the clima/e of opinion, in « Australian journal of science » 19 59; « The ori gin oj species » I o o years later, in « Antioch review » 19 59 (numero dedicato a Darwin);« Victorian studies » 1959 (numero dedicato a Darwin); AuTORI VARI, Darwin, evolution and creation, a cura di P .A. ZrMMERMAN, Saint Louis r 9 59; Forerunners of Danvin: I74J-IIIJ9, a cura di B. GLASs, O. TEMKIN, W. STRAUSS JR., Baltimora 1959; Commemoration oj the centennial of the publication oj « The origins oj species » hy C. Darwin, in « Proceedings of the american philosophical society » r 9 59; C. Darwin, evolution and anthropology: a centennial appraisal, celebrazioni della « Anthropological society of Washington », 1959; AuTORI VARI, A century of Darwin, a cura di S.A. BARNETT, Londra 1959; J.L. BLAU, The influence of Darwin on american philosophy, in « Bucknell review » r 9 59; H. BuRLA, Darwin und sein Werk, Zurigo I 9 59; AuTORI V ARI, Darwin' s biologica! works: some aspects reconsidered, a cura di P.R. BELL, Cambridge I959; G. CANGUILHEM, Les concepts de « lutte pour l'existence »et de « sélection nature/le» en IIIJ8: C. Darwin et Alfred Russe! W al/ace, Parigi, Conférences du Palais de la découverte, I 9 59; « Notes and records of the Royal Society »(numero unico in occasione del centenario della pubblica-

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Bibliografia

zio ne dell'Origine delle specie); C.D. DARLINGTON, Darwin' s piace in history, Oxford I95 9; J.K. FEIBLEMAN, Darwin and scientiftc method, in « Tulane studies in philosophy » I959; D. FLEMING, The centenar_y of « The ori gin of species », in « J ournal of the history of ideas » I959; G. HIMMELFARB, Darwin and the darwinian revolution, New York I959; E. MAYR, Agassiz, Darwin and evolution, in « Harward library bulletin » I 9 59; M. MILLHAUSER, Just bifore Darwin: Robert Chambers and « Vestiges », Middletown I959; C.F.A. PANTIN, Young Darwin and the « Origin of the species », Cambridge I959; R. PLATT, Darwin, Mendel and Galton, in« Medicai history » I959; R. ScooN, Retrospect to Darwin, in« Centennial review of arts and sciences » I959; G. HERBERER, C. Darwin. Sein Leben und sein Werk, Stoccarda I959; B.J. LOEWENBERG, Darwin, Wallace and the theory of natura! selection, New York I959; vari articoli in « Annales de la société zoologique de Belgique » I959-6o; R.L. BRETT, The influence of Darwin on his contemporaries, in« The south atlantic review » I96o; P. BRIEN, Hommage à C. Darwin, in « Revue de l'université de Bruxel­les»; G. CANGUILHEM, L'homme et l'anima! du point de vue p.!:;chologique selon C. Darwin, in « Revue d'histoire des sciences » I96o; B. DIBNER, Darwin of the Beagle, Norwalk I96o (n ed., New York I964); H. ENGEL, M.S.J. ENGEL, C.R. Darwin, in « Janus » I 960; S. SMITH, The ori gin of « The ori gin » as discerned from C. Darwin' s notebooks and his annotations in the books he read between I8J7 and 1842, in« Adv~ncement of science » I96o; P. 0MODEO, Darwin e l'ereditarietà dei caratteri acquisiti, in« Scientia » I96o; AuTORI VARI, Actualité de Darwin, Bruxelles I 960; S. TRIFILO, Darwin and the second Beagle expedition in Tierra del Fuego, in« Pacific historical review » I96o; G. WICHLER, Darwin als Botaniker, in « Sudhoffs Archiv » I96o; B. WrLLEY, Darwin and Butler. Two versions of evolution, Londra r96o; A. ELLEGARD, The darwinian revolution, in « Lychnos » I96o-6r; J.C. GREENE, Darwin and the modern world view, Baton Rouge I96I; J.H. RANDALL, The changing impact of Darwin on philosopf!y, in « Journal of the history of ideas » I96I; G. WICHLER, C. Darwin: the founder of the theory of evolution and natura! selection, Oxford I 96 I ; H. E. GRUBER, V. GRUBER, The eye of reason: Darwin' s development during the Beagle v~yage, in« Isis » I96z; F. SoMKIN, The contributions of sir fohn Lubbock, F.R.S., to « The origin of species »: some annotations to Darwin, in « Notes and records of the Royal Society » I 96z; G.R. DE BEER, C. Darwin: evolution ~natura! selection, Londra I963; A. GRAY, Darwi­niana. Essqys and reviews pertaining to darwinism, Cambridge, Mass. I963; P. GREENACRE, The quest for the father: a stu4J of the Darwin-Butler controversy, as a contribution to the un­derstanding of the creative individua!, New Y ork I 96 3 ; A. DICKINSON, C. Darwin and natura! selection, New York I964; J.W. GRUBER, Darwinism and its critics, in« History of scien­ce » I964; H.E.L. MELLERSH, C. Darwin: pioneer of the theory of evolution, Londra I964; W.F. SANFORD JR., Dana and darwinism, in « Journal of the history of ideas » I965; J. HuxLEY, H.B.D. KETTLEWELL, C. Darwin and his world, New York I965; R.M. MA eLEO D, Evolutionism and Richard Owen, I8 ;o-68: an episode in Darwin' s century, in « Isis » I 96 5 ; J .B. WrLSON, Darwin and the transcendentalists, in « J ournal of the history of ideas » 1965; P. VoRZIMMER, Darwin's ecology and its in.fluence upon his theory, in « Isis » I965; L. BAILLAUD, La mémoire de C. Darwin sur !es plantes grimpantes, in « Archives in­ternationales d'histoire des sciences » I966; J.F. LEROY, C. Darwin et la théorie moderne de l'évolution, Parigi I966; G. ALTNER, C. Darwin und E. Haeckel, Zurigo I966; V.D. MARZA, I.T. TARNAVSCHI, The problem of fertilization and evolution of phanerogams in Darwin' s work, in « Indian J ournal of history of science » 1967; R. C. 0LBY, C. Darwin,

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Bibliografia

Londra 1967; C. N. SwrSHER, C. Darwin on the ori gin of behavior, in« Bulletin of the history of medicine» 1967; D.L. CROMBIE, Back to Darwin, in« Journal of the royal college of generai practitioneers » 1967; P.J. VoRZIMMER, Darwin and Mendel: the historical connection, in« Isis » 1968; B. G. BEDDALL, W al/ace, Darwin and the story of natura/ selection, in« Jour­nal of the history of biology » 1968; F.N. EGERTON, Studies of animai populations from Lamarck to Darwin, ivi; J .K. CRELLIN, Darwin and evolution, Londra 1968; R. B. FREEMAN, C. Darwin on the routes of male bumble-bees, in « Bulletin of the british museum of natura! history » 1968; J. HEMLEBEN, C. Darwin in Selbstzeugnissen und Bilddokumenten, Reinbeck 1968; F.F. CENTORE, Darwin on evolution: a re-estimation, in « Thomist » 1969; G.L. GErSON, Darwin and heredity: the evolution of his ~ypothesis of pangenesis, in « Journal of the history of medicine and allied sciences » 1969; M.T. GHrSELIN, The triumph of the dar­winian method, Berkeley 1969; J.W. GRUBER, Who was the Beagle's naturalist?, in« British journal for the history of science » 1969; P.D. KrLBURN, Plants of the Galapagos, in « Isis » 1969; A. MooREHEAD, Darwin and the Beagle, Londra 1969; P.J. VoRZIMMER, Darwin, Malthus and the theory of natura/ selection, in « Journal of the history of ideas » 1969; F.N. EGERTON, Humboldt, Darwin and population, in « Journal of the history of biology » 197o; R.D. FRENCH, Darwin and the p~ysiologists, ivi; E. GrLSON, Darwin sans l'évolution, in « Revue des deux mondes » 1970; C. LrMOGES, Darwinisme et adaptation, in « Revue des questions scientifiques » 1970; Io., La sélection nature/le: étude sur la pre­mière constitution d'un concept (r8J7-I8J9), Parigi 1970; P.J. VoRZIMMER, C. Darwin: the

years oJ controversy. The origin of species and its critics, r8;9-r882, Filadelfia 1970; M. RusE, Natura/ selection in « The origin of species », in « Studies in history and philosophy of science » 1971.

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

La maturità di Marx

L'edizione critica delle opere di Marx ed Engels è rimasta incompiuta: K. MARX­F. ENGELS, Historisch-kritische Gesamtausgabe. Werke, Schriften, Briefe, a cura di D. RJAZANOV e V. AooRATSKY, Francoforte-Berlino-Mosca 192.7-3 5. Tale edizione (normalmente abbreviata in M.E.G.A.) è stata interrotta nel 193 5, dopo che erano stati pubblicati 12. volumi. Frattanto la migliore edizione complessiva è la seguente: K. MARx-F. ENGELS, Werke, 39 voli. di testo, più 2. di completamento e di indici, Berlino 1957 sgg. Per la storia delle edizioni postume di Marx ed Engels si veda il contributo di D. RJAZANOV, Comunicazione sull'eredità letteraria di Marx ed Engels, Mosca 192.3, trad. it. in appendice a L. GoLDMANN, L'ideologia tedesca e le tesi su Feuerbach, Roma 1969.

Per le traduzioni in lingua italiana, rimandiamo all'indice, completo fino al 1960, di G.M. BRAVO, Marx e Engels in lingua italiana. r848-r96o, Milano 1962.; ricordiamo le traduzioni più recenti e più importanti: Differenza tra la filosofia della natura di De­mocrito e quella di Epicuro, a cura di A. SABETTI, in La concezione materialistica della storia, Firenze 1962.; Scritti politici giovanili, a cura di L. FrRPO, Torino 1950; Opere filosofiche giovanili, a cura di G. DELLA VoLPE, Roma 1950 (n ed. 1963); Annali franco-tedeschi, a cura di G.M. BRAvo, Milano 1965; K. MARx, Manoscritti economico-filosofici del r844, a cura di N. BoBBIO, Torino 1949 (m ed. 197o); K. MARx-F. ENGELS, La sacra famiglia,

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Bibliografia

a cura di G. DE CARIA, Roma 1954 (n ed. a cura di A. ZANARDO, I967); K. MARX, Tesi su Feuerbach, in appendice a F. ENGELS, L. Feuerbach e il punto d'approdo della filosofia classica tedesca, a cura di P. ToGLIATTI, Roma 195o; K. MARx-F. ENGELS, L'ideologia tedesca, Roma 1959, trad. it. di F. CoDINO, Roma I958 (n ed. I967); K. MARX, Miseria della filosofia, trad. it. di F. RoDANO, Roma 1950 (m ed. 1969); K. MARX, Lavoro salariato e capitale, a cura di P. TOGLIATTI, Roma 1949 (n ed. I96o); K. MARX-F. ENGELS, Il mani­festo del partito comunista, trad. di A. LABRIOLA, in A. LABRIOLA, In memoria del manifesto dei comunisti, Roma I9o2, molte riedizioni di cui l'ultima in A. LABRIOLA, La concezione materialistica della storia, Bari 1969; altra traduzione a cura di P. ToGLIATTI, in K. MARX, Scritti scelti, 2 voli., Mosca 1943; altra traduzione a cura di E. CANTIMORI MEZZOMONTI, Torino 1948 (vi ed. 197o); K. MARx-F. ENGELS, Il 1848, a cura di B. MAFFI, Firenze I97o (gli articoli della «Nuova Gazzetta Renana »); K. MARx-F. ENGELS, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 18;o, trad. di P. ToGLIATTI, in K. MARX, Scritti scelti, ed. cit.; altra ed. in K. MARX-F. ENGELS, Il 1848 in Germania e in Francia, Roma 195o; K. MARX-F. ENGELS, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania, trad. it. di P. ToGLIATTI, in Scritti scelti, ed. cit.; K. MARX, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, trad. di P. ToGLIATTI, in Scritti scelti, ed. ci t.; K. MARX, Lineamenti fondamentali per la critica dell'economia po­litica, a cura di E. GRILLO, Firenze, 2 voli., I968-7o (terzo in preparazione); K. MARX, Per la critica dell'economia politica, a cura di E. CANTIMORI MEZZOMONTI, Roma I957 (n. ed. I969); K. MARx, Salario, prezzo e profitto, trad. di P. ToGLIATTI, Mosca I947, n. ed., Roma I965; K. MARX, Il capitale. Critica dell'economia politica, 3 voli., Roma I 9 p-56; trad. del I vol. a cura di D. CANTIMORI; del n, a cura di R. PANZIERI; del m, a cura di M.L. BoGGIERI (vm ed. I97o); K. MARX, Teorie sul plusvalore, 3 voli., trad. di E. CoNTI, Torino 1954-56 (n. ed. 197I); trad. di G. GroRGETTI, Roma I96I (n. ed. I97I), del solo primo vol., trad. degli altri due voli. in preparazione; K. MARX, La guerra civile in Francia, trad. di P. ToGLIATTI, in Scritti scelti, ed. cit.; oltre che in questa raccolta, gli Indirizzi del consiglio dell'Internazionale degli operai sono contenuti, a trad. di P. ToGLIATTI, in K. MARX-F. ENGELS, Il Partito e l'Internazionale, Roma 1948; K. MARX, Per la critica del programma di Gotha, trad. a cura di P. ToGLIATTI, in Scritti scelti, ed. cit., come pure in Il Partito e l'Internazionale, ed. ci t.; ricordiamo infine le segg. traduzioni di carteggi: K. MARX-F. ENGELS, Carteggio, 6 voli., Roma I950-53, tradd. di M.A. MANACORDA, S. RoMAGNOLI, E. CANTIMORI MEZZOMONTI; K. MARX, Lettere a Kugelmann, trad. di C. JuLG, Roma 195o; K. MARX e F. ENGELS, Corrispondenza con italiani (1848-9 ;), a cura di G. DEL Bo, Milano 1964; K. MARx-F. ENGELS, Lettere sul Capitale, a cura di G. BE­DESCHI, Bari I97I.

Tra i repertori e gli indici bibliografici, si veda: E. DRAHN, Marx-Bibliographie, Berlino I923; E. CROBEL-P. HAJDU, Die Literatur iiber Marx, Engels, und iiber Marxismus seit Beginn des Weltkrieges, « Marx-Engels-Archiv », 1926; D. CANTIMORI, Interpretazioni e studi intorno al pensiero di Marx e di Engels, 1919-39, Pisa I947, poi in D. CANTIMORI, Studi storici, Torino I"959 (m ed. 1969); C.F. HuBERT, Initiation bibliographique à l'oeuvre de Marx et d' Engels, in H. C. DESROCHES, Signiftcation du marxisme, Parigi, I 949; ANONIMI, Die Erstdrucke der Werke von Marx und Engels, Berlino, I95 5; M. RuBEL, Bibliographie des oeuvres de K. Marx, avec en appendice un répertoire des oeuvres de F. Engels, Parigi I 9 56, seguito da un Supplément à la bibliographie des oeuvres de K. Marx, Parigi I96o; sulla « Revue inter­nationale de philosophie » si veda L. FLAM, Etudes sur Marx, e J. GRYNPAS, Marx et

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Bihliografia

marxisme. Bibliographie, ambo del I958; si veda inoltre: H. MAus, K. Marx. Texte und lnterpretationen, in « Neue politische Literatur », I 96 I; bibliografie specifiche sul pensiero filosofico di Marx e di Engels in« Annali dell'Istituto G.G. Feltrinelli », vn, Milano I965.

Tra le biografie su Marx, ricordiamo: F. MEHRING, Karl Marx, Geschichte seines Lebens, Berlino I9I8 (trad. it., Roma I966); M. BEER, The /ife and teachings of K. Marx, Londra I92I; D. RJAZANOV, Marx e Engels, Mosca I922 (trad. it., Roma I969); O. Ri.iHLE, K. Marx, Leben und Werke, Dresda I928; K. VORLANDER, K. Marx, I929, (trad. it., Roma I946); ANONIMI, K. Marx: Chronik seines Lebens in Einzeldaten, Mosca I934; A. CoRNO, K. Marx, Parigi I934 (trad. it., Torino I946); O. MAENCHEN-HELFEN e B. NICOLAJEVSKI, K. Marx, Berlino I936, n. ed., Hannover I963 (trad. it., Torino I947; n. ed. I969); I. BERLIN, K. Marx, his /ife atzd environment, Londra I939 (trad. it., Firenze I967); A. VÈNE, Vie et doctrine de K. Marx, Parigi I946; ANONIMI, K. Marx-Aibum, Berlino I953; H. LEFEBVRE, K. Marx. Sa vie, son f$UVre, Parigi I964; J. LEWIS, The /ife and thought of K. Marx, Londra I965; H. GEMKOW, K. Marx. Bine Biographie, Ber­lino I967.

Tra le opere di carattere generale sulla dottrina di Marx, ricordiamo: B. CROCE, Materialismo storico ed economia marxistica, Bari I 899, poi in Materialismo storico, n. ed. I 96 I ; G. GENTILE, La filosofia di Marx, Messina I899, n. ed., Firenze I95 5; L. BoumN, The theoretical system of K. Marx, Chicago I9o7; G. PLECHANOV, Le questioni fondamentali del marxismo, I9IO (trad. i t., Milano I945); V.J. LENIN, K. Marx, voce della Enciclopedia Grana!, I9I4, dedizioni innumerevoli, trad. it. (spesso riedita) a cura di P. ToGLIATTI, Roma I947; F. 0LGIATI, Carlo Marx, Milano I9I8 (vn ed. I964); M. BEER, A guide to the stu4J of K. Marx, Londra I923; K. KoRSCH, Marxismus und Philosophie, Lipsia I923 (trad. it., Milano I966); S. HooK, Towards the understanding of K. Marx, New York I933; M. TRUMER, Le matérialisme historique chez K. Marx et F. Engels, Parigi I 9 H; K. KoRSCH, K. Marx, New York I938; n.ed. I963 (trad. it., Bari I969); J.K. TuRNER, K. Marx, New York I94I; AuTORI VARI, Spogadi pro Marxia, Kiev I94I; L. SoMERHAUSEN, L'humanisme agissant de K. Marx, Parigi I946; H. VENABLE, Human nature: the marxian • view, Londra I946; H. LEFEBVRE, Pour connattre la pensée de K. Marx, Parigi I947; V. VAN OvERBERGH, K. Marx, Bruxelles I948; R. ScHLESINGER, K. Marx, Londra 1950 (trad. it., Milano I96I); J.Y. CALVEZ, La penséede K. Marx, Parigi I956 (trad. it., Torino I966); H. WEIN, Realdialektik, Monaco 1957; J. HABERMAS, Zur philosophischen Diskussion um Marx und den Marxismus, in« Philosophische Rundschau », 1957; M. RuBEL, K. Marx. Essai de biographie intellectuelle, Parigi 1957; Ace. o. SCIENZE DELL'URss, Osnov.y marksi­stskoj filosofii, Mosca 195 8, trad. it. a cura di G. WETTER, con il titolo Fondamenti di filo­sofia marxista, 2 voll., Milano 1965; N. BoBBIO, La dialettica in Marx, in« Rivista di filo­sofia», 1958, ora in Io., Da Hobbes a Marx, Napoli 1965; F. GRÉGOIRE, L'émancipation humaine d'après K. Marx, Lovanio 1959; E. FROMM, Marx's concept of man, New York 1961; R.C. TucKER, Philosophy and myth in K. Marx, Cambridge I96I; A. PIETTRE, Marx et marxisme, Parigi I962 (xv ed. 1964); R. GARAUDY, K. Marx, Parigi I964; M. DAL PRA, La dialettica in Marx, Bari I965; P. KXGI, Genesis des historischen Materialismus. K. Marx und die Dynamik der Gesellschaft, Vienna-Francoforte-Zurigo 1965 (trad. it., Fi­renze I968); N. RoTENSTREICH, Basic problems of Marx's philosophy, Indianapolis-New Y ork I 96 5 ; C. LuPORINI, Realtà e storicità; economia e dialettica nel marxismo, in « Critica marxista », I966; I. FETSCHER, K. Marx und der Marxismus, Monaco 1967 (trad. it., Fi-

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Bibliografia

renze I969); i saggi che R. MoNDOLFO ha dedicato a Marx a partire dal I9o8 sono rac­colti in R. MoNDOLFO, Umanismo di Marx, Torino I968.

Su Marx giovane, la sua formazione ed i suoi rapporti con Hegel, si veda: C. AN­DLER, Le manifeste communiste de Marx et Engels. lntroduction historique et commentaire, 2 voli., Parigi I 90 I ; J. PLENGE, Marx und H egei, Tubinga I 9 I I ; K. VoRLANDER, Kant und Marx, Tubinga I9II; R. CooPER, The logica! influence of Hegel on Marx, Seattle I925; S. HooK, From Hegel to Marx, Londra-New York I936 (n. ed. I966); H.P. ADAMS, Marx and his earlier writings, Londra I 940; K. BEKKER, Marx' philosophische Entwicklung. Sein Verhiiltnis zu Hegel, Zurigo-New York I94o; C. ANTONI, Considerazioni su Hegel e Marx, Napoli I946; A. KoJÈVE, He,gel, Marx et le christianisme, in « Critique », I947; F. GRÉGOIRE, Aux sources de la pensée de Marx: H egei, Feuerbach, Parigi I 94 7; H. M i.iHLE­STEIN, Utopisme et humanisme marxiste avant I848, Parigi I947; J.T. DESANTI, Le jeune Marx et la métapi!Jisique, in « Revue de métaphysique et de morale », I 94 7; A. CoRNU, K. Marx et la révolution de I848, Parigi I948 (trad. it., Torino I949); G. PrscHEL,' Marx giovane, Milano· I 948; M. BENSE, H egei und Marx, in « Symposium », I 949; B. CROCE, L'ortodossia hegeliana del Marx, in «Quaderni della critica», I947, poi in Filosofia e storio­grafta, Bari I949 (n ed. I969); E. THIER, Die Anthropologie des jungen Marx, Colonia I 9 5o; E. ERIKSON, Marx, marxism and the earliest german lejt, Stanford I 9 5o; W. KRAuss, K. Marx i m Vormarz, in « Deutsche Zeitschrift fiir Philosophie », I 9 53; H. PoPITZ, Der entfremdete Mensch. Zeitkritik und Geschichtsphilosophie des jungen Marx, Basilea I95 3; E. BLoCH, Marx und die biirgerlichen Menschenrechte, in « Aufbau », I95 3; N. HARTMANN, Das Bi/d vom Menschen bei K. Marx, in « Franziskanische Studien », I95 3; G. LUKACS, Zur philosophischen Entwicklung des jungen Marx, in « Deutsche Zeitschrift fiir Philosophie », I954; H. ScHIEL, Die Umwelt desjungen Marx, Trier I954; P. ToGLIATTI, Da Hegel al marxismo, in« Rinascita», I954; K.H. BREUER, Der )unge Marx, Colonia I954; A. CoRNU, K. Marx et F. Engels, 4 voli., Parigi I95 5-70 (trad. it. dei primi 2 voll., Milano I962); ]. HYPPOLITE, Etudes mr Marx et Hegel, Parigi I95 5 (trad. it., Milano I963); E. BENZ, Hegels Religionskritik und die Linkshegelianer. Zur Kritik des Religionsbegriffes von Marx, in « Zeitschrift fiir Religions- und Geistesgeschichte », I95 5; H.]. KELM, Die « Kritik des Hegelschen Staatsrechtr» ( I84J) von K. Marx und ihre Bedeutung fiir die Entwicklung der Philosophie des Marxismus, Berlino I 9 55 ; O. BAKOURADZE, A proposito della formazione delle idee filosofiche di Marx (in russo), Tiflis I 9 56; G. DELLA VoLPE, Rou.rseau e Marx, Roma I956, IV ed. rifatta, Roma I964; R. C. TucKER, The cunning of reason in Hegel and Marx, in « Review of politics », I956; w. ]AHN, Der okonomische lnhalt des Begriffs der Enthemdung der Arbeit in den Friihschriften von K. Marx, in « Wirtschaftswissenshaft », I 9 57; E. THIER, Das Menschenbild des jungen Marx, Gottinga I9 57; M. D. GLADSTONE, The genesis of historical materialism. A stu4J ojthe early writings oj K. Marx, Berkley I957; L. CoLLETTI, Il marxismo e Hegel, in V.J. LENIN,Quaderni ftlosoftci, Milano I957 (n. ed. ampliata, Bari I969); G.M.M. CornER, L' athéisme du jeune Marx et ses origines hégéliennes, Parigi I 9 59; A. OuiBo, L' elabo­razione dei problemi del materialismo storico (in russo), Mosca I959; G. MENDE, K. Marx' Entwicklung vom revolutionaren Demokraten zum Kommunisten, Berlino I 960; M. FRIEDRICH, Philosophie und Oekonomie bei m jungen Marx, Berlino I 960; M. Rossr, Marx e la dialettica he­geliana, 2 voli., Roma I 96o-6 3 (n. ed. con il titolo Da Hegel a Marx, 2 ':oll., Milano I 970); AuTORI V ARI, fascicolo n. 96 de « La Pensée >> interamente dedicato al giovane Marx, I96I; U. CERRONI, La critica di Marx alla filosofia hegeliana del diritto pubblico, in« Rivista in-

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Sulla maturità di Marx e sul suo pensiero economico, si veda: K. KAUTSKY, K. Marx' okonomische Lehren, Stoccarda x887; G. ADLER, Die Grundlagen der K. Marxschen Kritik der bestehenden Volkswirtschaft, Tubinga 1887; K. ScHMIDT, Die Durchschnittspro­fttrate auf Grundlage des Marxschen Wertgesetzes, Stoccarda 1889; W. SoMBART, Zur Kritik des okonomischen Systems von K. Marx, in « Archiv fi.ir soziale Gesetzgebung und Statistik », 1894; E. v. BoHM-BAwERK, Zum Abschluss des Marxschen Systems, in AuTORI V ARI, Staatswissenschaftliche Arbeiten, Festgabe fiir K. Kries, a cura di O. VON BoENIGK, Berlino 1896, poi in E. VON BoHM-BAWERK, Kleinere Abhandlungen iiber Kapital und Zins, Vienna-Lipsia 1926, a cura di F.X. WExss; H. CuNow, Die Zusammenbruchstheorie, in « Die neue Zeit », 1898-99; V. PARETO, Les systèmes socialistes, Parigi 1902 (trad. it., To­rino 1963); F. 0PPENHEIMER, Das Grundgesetz der Marxschen Gese/lschaftslehre, Jena 1903 (n ed. 1926); R. HILFERDING, Bohm-Bawerks' Marx-Kritik, in « Marx-Studien >>, 1904, riedito in trad. inglese, con il citato scritto di Bohm-Bawerk, a cura di P. SwEEZY, New York 1949 (trad. it., Firenze 1971); M. TuGAN-BARANOWSKIJ, Theoretische Grundlagen des Marxismus, Lipsia 1905; L. v. BoRTKIEWICZ, Zur Berichtigung der grundlegenden theoretischen Konstruktion i m dritten Band des « Kapitals », in « J ahrbi.icher fi.ir Nationaloko­nomie und Statistik », 19ci7; A. LABRIOLA, Marx nell'economia e come teorico del socialismo, Lugano I 908; A. GRAZIADEI, Prezzo e sovrapprezzo nell'economia capitalistica. Critica della teoria del valore di c. Marx, Torino 1924; B. RtiTHER, Die Auseinandersetzung zwischen E.v. Bohm-Bawerk und R. Hilferding iiberK. Marx, Colonia 192.6; H. GROSSMANN, Das Akkumulations- und Zusammenbruchsgesetz des kapitalistischen S;•stems, Francoforte I 92.9; H. GROSSMANN, Die Aenderungen des ursprunglichen Aufbauplans des Marxschen « Kapital » und seine Ursachen, in « Archiv fi.ir die Geschichte des Sozialismus und der Arbeiterbe­wegung », 192.9; M. DoBB, Politica/ economy and capitalism, Londra 1937 (trad. it., To­rino 1 968); W. LEONTIEV, The signiftcance of marxian economics for present dcg economie theor_y, in« American economie review », 1938; W.J. BLAKE, Elements of marxian economie theory and its criticism, Londra 1939; AuTORI VARI, a cura di P. SwEEZY, The theory of capitalist development, New York 1942.; trad. it., Torino 1951 (n ed. 197o); J. RoBINSON, An esscg on marxian economics, Londra 1942. (vx ed. 196o) (trad. it., Firenze 195 x); C.P. HuBERT, L'idée de _planiftcation chez Marx et EnJt,els, in« Economie et humanisme », 1946; Io., La

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Su altri aspetti del pensiero e dell'opera di Marx, si veda: T.G. MASARYK, Die philosophischen und soziologùchen Grundlagen des Marxismus, Vienna I 899; H. CuNOW, Die Marxsche Geschichts-, Gesellschafts- und Staatstheorie. Grundziige der Marxschen Soziolo­gie, 2 voli., Berlino I92o-2I; M. AoLER, Die Stoatsauf!assung des Marxismus, in « Marx­Studien », I9ZZ (n. ed., Darmstadt I964); A. HEUSEL, Untersuchungen iiber das Erkenntnis­oijekt bei Marx, Jena I925; M.M. BoBER, K. Marx's interpretation of history, Cambridge I927 (n. ed. I948); S. CHANG, The marxian theory of state, Filadelfia I93 I; K. LowiTH, Max Weber und K. Marx, in« Archiv fiir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik », 1932; H. LuNAU, K. Marx und die Wirklichkeit, Bruxelles I937; J. BRuHAT, Destin de l'histoire. Essai sur l'appor! du marxisme aux études historiques, Parigi I 948 ; AuTORI V ARI, numero speciale di « Cahiers internationaux de sociologie » dedicato a Marx, I 948; A. VÈNE, K. Marx: sa méthode historique et ses ana(yses économiques, in « Anna! es d' économie po-

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Per le opere di M. HEss, si veda: Sozialistische Aufsiitze. I84I-1847, a cura di T.H. ZLOCISTI, Berlino I 92 I ; Briefivechse/, a cura di E. SrLBERNER, Gravenhague I 9 59; Philosophische und sozia/i.rtische Schrifte"n, a cura di A. CORNU e w. M6NKE, Berlino I96I. Per informazioni bibliografiche: E. SrLBERNER, M. Hess. An annoteded bibliograp~y,

New York I95 I; In., The works of M. Hess, Leida 1958; w. M6NKE, Neue Quetlen zur Hess-Forschung, Berlino I964. Per l'inquadramento critico dell'autore, si veda: T. ZLOCISTI, M. Hess, Berlino 192I; G. LuKA.cs, M. Hess und die Probleme der idealistichen Dialektik, Lipsia I926; A. CoRNU, M. Hess et la gauche hégélienne, Parigi I934; AuTORI VARI, Gesammelte Beitriige zur Geschichte der Arbeiterbewegung,Francoforte 195 5; I. BERLIN, The l~fe and opinions of M. Hess, Cambridge r 9 59; J. WErss, M. Hess, utopian sociali.rt, Detroit I 960; H. LAnEMACHER, Die p.olitische und sociale Theorie bei M. Hess, in « Archi v fiir Kulturgeschichte », I96o; E. SILBERNER, Beitriige zur literarischen und politischen Tiitigkeit von M. Hess, in «Annali dell'Istituto G. G. F.eltrinelli », vr, I963; W. M6NKE, Ober die Mitarbeit von M. Hess an der « Deutschen Ideologie», ivi; G.M. BRAVO, La vita e il pensiero di M. Hess: da Marx al sionismo socialista, in « Cahiers V. Pareto», I968; W. M6NKE, M. Hess und der« wahre Sozialismus »,Berlino I970.

Il capolavoro di W. WEITLING, Garantien der Harmonie und Freiheit, è stato riedito a cura di F. MEHRING, Berlino I9o8; altra ed. a cura di B. KAUFHOLn, Berlino I95 5; trad. it. in Il socialismo prima di Marx, a cura di G.M. BRAVO, Roma 197o; si veda inoltre

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Bibliografia

l'edizione di Das Evangelium des armen Siinders, a cura di W.S. H6PPNER, Lipsia I967. Per un inquadramento critico dell'autore, si veda: F. CAILLÉ, W. Weitling, théoricien du communisme, Parigi I905; H. MtiHLESTEIN, Marx and the utopian W. Weitling, in « Science and society », I 948 ; C. WITTKE, The utopian communist. A biography of W. Weitling, Louisiana I95o; W. KoLAWSKI, Die Schweitzer Weitling-Zeitschriften und die Weitling­Forschung, in « Zeitschrift ftir Geschichtswissenschaft », Berlino I 9 58; W.S. HoPPNER, W. Weitling, der erste deutsche Theoretiker und Agitator des Kommunismus, Berlino I96I; G.M. BRAVO, W. Weitling e il comunismo tedesco prima del Quarantotto, Torino I963.

Il capolavoro di M. STIRNER, Der Einzige und sein Eigentum, ha avuto varie edizioni: Lipsia I882 (rv ed. Berlino I924); altra ed. a cura di H. HELMS, Monaco I968; trad. italiana a cura di E. ZoccoLI, Torino-Roma-Milano I9o2 (rv ed. I924); altre edizioni: M. STIRNER, Kleinere Schriften, a cura di J. MACKAY, Berlino I898 (trad. it., Milano I923); Geschichte der Reaktion, fototipica, Aalen I967. Per l'inquadramento critico dell'autore, si veda: H. ENGERT, Das historische Denken M. Stirners, Lipsia I9II; I. FETSCHER, Die Bedeutung M. Stirners fiir die Entwicklung des historischen Materialismus, in« Zeitschrift fi.ir philosophische Forschung », I95 I; H. ARVON, La pensée de M. Stirner, Parigi I95 I; In., Aux sources de l'existentialisme: M. Stirner, Parigi I954; R. HrRSCH, K. Marx und M. Stirner, Monaco I956; H.M. SAss, Emanzipation der Freiheit, in« Archiv fi.ir Rechts-und Sozialphilosophie », I967. '

Per le opere di P.-J. Proudhon si vedano le segg. edizioni: Oeuvres complètes, 26 voli., Parigi I 867-7I; Oeuvres complètes. Nouvelle édition, Parigi I92o segg., interrotta al­l'xr volume; Correspondance, I4 voli., Parigi I874-75; Carnets, 2 voli., Parigi I96o-6r. Ricordiamo le segg. traduzioni: La celebrazione della domenica, Firenze I9o4; La filosofia della miseria, a cura di F. VALORI, Roma I945; dello scritto Che cos'è la proprietà? ricor­diamo le segg. traduzioni: a cura di V. MARAFINI, Roma I947; a cura di G.M. BRAVO, in Il socialismo prima di Marx, Roma I97o; a cura di U. CERRONI, Bari I967; La questione sociale, a cura di M. BoNFANTINI, Milano I957; La'giustizia nella rivoluzione e nella chiesa, a cura di M. ALBERTINI, Torino I968.

Per l'inquadramento storico-critico dell'autore, rimandiamo a: C.A. SAINT-BEUVE, P.-J. Proudhon. Sa vie et sa correspondance, Parigi I872 (n. ed. I947); A.J. LANGLOIS, P.-f. Proudhon, sa vie et son oeuvre, Parigi, I875; A. DESJARDINS, Proudhon, sa vie, son oeuvre, sa doctrine, 2 voli., Parigi I 896; K. DIEHL, Proudhon, seine Lehre und sein Leben, 3 voli., Jena, I888-96; A. MtiHLBERGER, P.-f. Proudhon. Leben und Werk, Stoccarda I899; E. DRoz, P.-f. Proudhon, Parigi I909; C. BouGLÉ, La sociologie de Proudhon, Parigi I9I I; G. Du BosTu, Proudhon et /es socialistes de son temps, Parigi I9I 3; SHI YuNG Lu, Politica/ theories of P.-f. Proudhon, Londra I922; G. SANTONASTASO, P.-f. Proudhon, Bari I935 (n. ed. I954); J. CHABRIER,L'idée de la révolution d'après Proudhon,Parigi I93 5 ;E. DoLLÉANS, La rencontre de Proudhon et de Marx, in « Revue d 'histoire moderne », I 9 3 6; CHEN Hur Sr, La dialectique dans l'oeuvre de Proudhon, Parigi I936; H. DE LuBAC, Proudhon et le christia­nisme, Parigi I945; P. NAVILLE, A propos de Proudhon, in «La révue internationale », I946; L. MAURY, La pénsée vivante de Proudhon, 2 voli., Parigi I945; G. GuY-GRAND, Pour connaftre la pensée de Proudhon, Parigi I947; P. HAUBTMANN, Marx et Proudhon, Liegi I947; E. DoLLÉANs-J.L. PuECH, Proudhon et la révolution de r848, Parigi I948; M. DoM­MANGET, Proudhon, Parigi I95o; R. ScHNERB, Marx contre Proudhon, in « Annales », I95o; H. ARVON, Proudhon et le radicalisme a/lemand, in « Annales », I9P; E. THIER,

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CAPITOLO QUINDICESIMO

Engels e la dialettica della natura

Per quanto concerne le opere di Friedrich Engels, si rimanda alle edizioni complessi­ve delle opere di Marx e Engels citate nella bibliografia del capitolo precedente. Diamo qui un elenco delle principali traduzioni italiane delle opere proprie di F. Engels: L'economia politica (Schizzo critico) in « Critica sociale » I 89 5 ; La condizione della classe operaia in Inghilterra, secondo un'inchiesta diretta e fonti autentiche, a cura di V. PIVA, Roma I 899; a cura di R. PANZIERI, Roma I 9 5 5 ; Ludovico Feuerbach e il punto d'approdo della filosofia classica tedesca, a cura di P. ToGLIATTI, Roma I95o; La guerra dei contadini, a cura di A. MoRANDOTTI, Roma I9o4; a cura di G. DE CARIA, Roma I949; Savoia, Nizza e il Reno, a cura di N. PIGNA T ARI, Roma I9o8, a cura di G. GARRITANO, Roma I95 5; Antidiihring, a cura di S. PuRITZ, Milano I90I; a cura di N. LoMBARDI PIGNATARI, Roma I9I I; a cura di G. DE CARIA, Roma I950 (n ed. con nota introduttiva di V. GERRATANE, I968); 11 socialismo utopico e il socialismo scientifico, a cura di P. MARTIGNETTI, Benevento I883; Milano I892.; Firenze I9o3; Milano I92.0, I945; Roma I95I; Dia­lettica della natura, a cura di L. LoMBARDO-RADICE, Roma I95o (n ed., I967); L'origine della famiglia, della proprietà privtzta e dello stato, in relazione alle ricerche di L.H. Morgan, a cura di P. MARTIGNETTI, Benevento I885; Milano I90I; a cura di L. CECCHINI, Milano I 94 5 ; a cura di M. GRANCHI e M. GrANASSI, Firenze I 946; a cura di G. PIEMON­TESE, Trieste I946; a cura di D. DELLA TERZA, Roma I950.

Su Friedrich Engels e sul materialismo dialettico, oltre agli studi generali e parti­colari citati nella bibliografia del capitolo precedente, si vedano i seguenti lavori: K. KAUTSKY, F. Engels, Berlino I9o8; R. MONDOLFO, 11 materialismo storico di F. Engels, Genova I9I2. (n. ed., Firenze I9P); A. BoNUCCI, Il materialismo storico di F. Engels, in« Cultura contemporanea» I9I2.; E. DI CARLO, La dialettica engelsiana, in« Rivista di filosofia» I9I6; R. MONDOLFO, Chiarimenti su la dialettica engeliana, in« Rivista di filoso­fia» I9I6; G. MAYER, F. Engels. Bine Biographie, 2. voli., Berlino I92.o (n ed., L'Aia I934; trad. it. ridotta, Torino I969); M. ADLER, Engels als Denker, Berlino I92.5; K. SAuER­LANn, Der dialektische Materialismus, Berlino I932.; R. SEEGER, F. Engels. Die religiose Entwicklung des Spiitpietisten und Friihsozialisten, Halle I93 5; P. N A VILLE, Pour le cinquan-

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Bibliografia

tenaire de la mort de Engels, in « Chronique sociale de France» 1945; AuTORI VARI, Engel.r als Denker, Basilea 1945; F. MAREK, F. Engels. Denker und Kampfer, Vienna I95o; V.I. KALADARICHVILI, La formazione dei concetti filosofici di F. Engels (r8;8-4J), Tiflis I952; G.A. WETTER, Der dialektische Materialismus, seine Geschichte und sein System in der Sowietunion, Vienna I952 (Iv ed. I958); G. CoGNOT, La dialectique de la nature, Parigi I953; K. KuPISCH, Zur ]ugendentwicklung von F. Engel.r, in Vom Pietismus zum Kommunismus. Historische Gestalten, Themen, Probleme, Berlino I95 3; K. ZwEILING, F. Engels: Dialektik der Natur, in« Deutsche Zeitschrift fiir Philosophie » I95 3; A.F. MELLINK, Het Europese socialisme van de negentiende eeuv: F. Engels, Arnhem I954; H. BoLLNOW, F. Engels' Auffassung von Revolution und Entwicklung «in seinen Grundsatzen des Kommunismus (r847) », in« Marxismusstudien » 1954; W. A. SCHULZE, F. Engels und Marheineke, in« Zeitschrift fiir Kirchengeschichte » I 9 55-56; L'origine de la famille, de la propriété privée et de l' état de F. Engels, in «La Pensée » I956 (numero dedicato a Engels); F. Engels' philosophische Leistung und ihre Bedeutung fiir die Auseinandersetzung mit der biirgerlichen Naturphilosophie, Berlino I957; R.O. GROPP, Derdialektische Materialismus, Lipsia 1957; E.A. STEPANOVA, F. Engels. Sein Leben und Werk, Berlino I95 8 (trad. ted. dal russo); M. V. SEREBRJAKOV, Il giovane Engels, Leningrado I95 8; P. DEMETZ, Der }unge Engels als Kritiker. Auf de'li Weg zum okonomischen Determinismus, in Marx, Engels und die Dichter, Stoccarda I959; B. ANDREAS, F. Engels' Weg zum Kommunismus, in (( Periodikurn fiir wissen­schaftlichen Sozialismus » 1959; H. ULLRICH, Der )unge Engels. Bine historisch-biogra­phische Studie seiner weltanschaulichen Entwicklung in den Jahren r8;4-4J, 2 voll., Berlino I96I-66; v. MACHACKOVA, Einige Bemerkungen zur literarischen Seite der (( Anti-Schel­lingiana » des jungen Engels, in «Annali Feltrinelli » 1963; A. MALYCH, Les « Umrisse zu einer Kritik der Nationalokonomie », esquisse géniale de la théorie économique marxiste, i vi; R. RosooLSKY, F. Engel.r und das Problem der geschichtslosen Volker, in « Archi v fiir Sozialgeschichte » I964; G. CARLTON, F. Engels. The shadow prophet, Londra 1965; W. MONKE, Das literarische Echo in Deutschland auf F. Engels' Werk « Die Lage der arbei­tenden Klasse in England», Berlino 1965; L. GEYMONAT, Marxismo e scienza della natura, in «Il contemporaneo» I965; F. NovA, F. Engels. His contributions to politica/ theory, New York 1968; S. TrMPANARO, Engels, materialismo, «libero arbitrio», in « Quaderni pia­centini » I 969; N. BADALONI, Scienza e filosofia in Engels, in « Critica marxista » 1970; E. RAGIONIERI, Presenza di Engels, i vi; E. FIORANI, F. Engels e il materialismo dialettico, Milano I97I; AuTORI VARI: F. Engels (Institut fiir Marxismus-Leninismus), Berlino 1970.

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Indici

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Adanson, Miche!, 337 Agassiz, Jean-Louis, 341, 480-481 Arrhenius, Svante, xn

Bakunin, Michail Aleksandrovic, 404

Bauer, Bruno, 32, 47-50, 4!1 Baur, Ferdinand Christian, 25 Beli, Alexander Graham, I S9 Bernstein, Eduard, 414 Berthelot, Marcelin, qS, 470 Bessemer, Henry, 1S9 Betti, Enrico, x6S, 467 Bianchi, Luigi, 171, 468 Boltzmann, Ludwig, 309, 315-

317, 411 Boole, George, 192-194, 206-224,

256 n., 257 n., 472 Biichner, Ludwig, 120-123, 4!! Buckland, William E., 340, 363-

364, 480 Bunsen, Robert, 174 n.

Candolle, Alphonse de, 344 Cannizzaro, Stanislao, xSo, 471 Carnot, Sadi, 2S7-2SS, 296-29S,

411 Carroll, Lewis (Charles Lutwidge

Dogson), 234, 41J Casorati, Felice, x6S, 467 Chambers, Robert, 346-347 Clapeyron, Émile, 29S Clausius, Rudolph, 175, 296, 299-

303, 306, 478 Cournot, Antoine-Augustin, I S4 Crampton, Thomas Russe!, xS5 Cremona, Luigi, qx, 468 Crookes, William, q6, 470 Cuno, Theodor Friedrich, 417 Cuvier, Georges, 33S-34o Czolbe, Heinrich, 123-126

Daimler, Gottlob, xS6 Dalton, John, 2S7 Darwin, Charles, 335, 347-373,

482-48!

INDICE DEI NOMI

I numeri in eorshlo rimandano alJa bibliografia

Darwin, Erasmus, 345-346, 481~ 482

Daub, Karl, 37 De Cristoforis, Luigi, I S6 Delboeuf, Joseph- Rémy- Léo-

pold, 224 De Morgan, Augustus, 195-205,

412 Deprez, Marcel, 407 Diesel, Rudolf, I S6

Goursat, Édouard, x6S Goschel, Karl Friedrich, xS, 449 Gramme, Zénobe-Théophile,

1S7-1SS Grassmann, Robert, 224 Graves, Charles, h5·- ·. Gray, Asa, 361-362 Grove, William, 2S9 Griin, Karl, 94

Dini, Ulisse, x6S, 467-468 Hamilton, William, I4S-150, 4{2 Dodgson, Charles Lutwidge-+ Harley, Robert, 225

Carroll Lewis Heine, Heinrich, 22-25, 449-410 Diihring, Eugen Karl, 412, 414- · Helm, Georg, 313

415 n. Helmholtz, Hermann von, 173,

Echtermeyer, Theodor, 40 Edison, Thomas Alva, 177, 470 Eichhorn, Albrecht Friedrich, 46 Ellis, Robert L., 224 Engels, Friedrich, 70-76, S3-109,

375-377· 379. 3SO, 406-407, 40S-443. 48!-491, 49J-494

Faraday, Michael, 2SS-2S9 Ferraris, Galileo, xSS Feuerbach, Ludwig, 37-40,43-45,

51-56, 64-65, So-SI, 92, 4J1-4JJ

Fisher, Ronald A., 373 Foucault, Léon, 174 Frankland, Edward, 17S, 470 Fraunhofer, Joseph von, 174 Freedholm, Erik Ivar, 170, 468 Frege, Friedrich Gottlob, 195 Fries, Jakob Friedrich, 19 n.,

449

Gabler, Georg Andreas, 3S Gal ton, Francis, I S4 Gans, Eduard, 19, 449 Gaulard, Lucien, xSS Geissler, Heinrich, 176 Goldstein, Eugen, I 76 Gorres, Johann Joseph, 41-42,

414

497

293-296, 303-304, 309-310, 469 Henslow, John Stevens, 34S Hermite, Charles, x6S, qx, 467 Hertz, Heinrich, 276-277, 471 Hess, Mosés, 62, 491 Hilbert, David, x6S Hittorf, Wilhelm, 176 Hooker, Joseph, 354 Hutton, James, 341-342, 481 Huxley, Thomas, 363, 364, 365,

369

Jenkin, Fleeming, 367 Jevons, Stanley William, 194,

224, 225-23 I, 472-47J Joule, James Prescott, 291-293

Kautsky, Karl, 433 Kekulé, August, 179, 471 Kelvin, William Thomson, lord,

173. 296, 29S-30I, 305, 366, 469-410

Kierkegaard, Soren Aabye, x 37-145, 4!8-462

Kirchhoff, Gustav Robert, 174-175, 312-313 470

Klein, Felix, 468 Koppen, Friedrich, 46, 4! 4 Korselt, Alwin, 225 Kronecker, Leopold, x68, 467 Kronig, August, 306

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Kummer, Ernst Eduard, I6S, 467

Lassalle, Ferdinand, 4I5 n. Lawrence, William, 346 Leblanc, Nicolas, I9o Lenin (Vladimir Il'ic Ul'janov),

ns. 379· 4oo, 404, 405 Lenoir, Etienne, IS6 Leo, Heinrich, 42, 4!4 Levi-Civita, Tuili o, I 7 I Lindemann, Ferdinand, I72 Liouvi!le, Joseph, I6S, 467 Loria, Achille, 4I4 Loschmidt, Joseph, I75 Lotze, Hermann, I I 9 Liiroth, Jacob, 225 Lyell, Charles, 125, 34I, 342-345,

369, 48I

Macfarlane, Alexander, 225 Mach, Ernst, 3IS-334, 478-480 Marheineke, Philipp, I9 Marx, Karl, 6I-7o, 76-Io9, 374-

407, 411-443, 48J-49I Matthew, Patrick, 346 Maxwell, James Clerk, 26o-2So,

307-30S, 474-47 J Mayer, Julius Robert, 2S9-29I,

476-477 McColl, Hugh, 225, 235-236 Mendeleev, Dmitrij lvanovic,

II n., I8o-ISI . Menzel, Wolfgang, 34 Meyer, Lothard, I So Mill, John Stuart, I5o-~63, 462-

467 Milne-Edwards, Henri, 357 Mittag-Leffier, Gosta, I6S Mivart, George, 37I-372 Mohr, Karl Friedrich, 2S9 Moleschott, Jakob, 113~116, 4JJ Morgan, Lewis Henry, 435-436 Morse, Samuel, I S9 Miiller, Eugen, 225

Indice dei nomi

Ostwald, Wilhelm, 314-3I5, 477-478

Otto, Nikolaus August, I S6 Owen, Richard, 363 Owen, Robert, 72

Pacinotti, Antonio, I S7 Paley, Wi!liam, 34S Paulus, Heinrich Eberhard Gott-

lob, 37 Peano, Giuseppe, I6S, 225 Pearson, Karl, IS4 Peirce, Charles Sanders, I92, 224,

225, 236-249. 41J-414 Perkin, Wi!liam Henry, I9o Perrin, Jean, I76, 470 Picard, Emile, I6S Pliicker, Julius, 176, 470 Poincaré, Henri, I6S Poretsky, Platon Sergejevic, 225 Prichard, James Cowles, 346 Proudhon, Pierre-Joseph, 95-Ioi,

492-49]

Quételet, Adolphe-Jacques-Lam­bert, IS3

Rankine, Wi!liam John Mac-quorn, 305, 3I2, 3I3

Ricardo, David, 95-Io2 Ricci-Curbastro, Gregorio, I7I Riemann, Bernhard, I6S, 468 Righi, Augusto, 277, 47I-472 Rochas, Alphonse Beau de, I S6 Ruge, Arnold, 40-43, 45-46, 46-

47, n-6o, 414 Russell, Bertrand Arthur Wil­

liam, I95

Savigny, Friedrich Karl von, I9, 449

Schmidt, Conrad, 4I4 Schmidt, Johann Kaspar-+ Stir­

ner, Max Schonbein, Christian Friedrich,

I90 Naegeli, Karl Wilhelm, 431-432 Schopenhauer, Arthur, 129-I37, Niebuhr, Barthold Georg, 25 4JJ-4J8 Nobel, A!fred, I90

Schroder, Ernst Friedrich Wil­helm Karl, I92, 224, 225, 236, 249-253, 414

Schwartz, Hermann Amandus, I6S, 467

Sedgwick, Adam, 34S, 364 Sobrero, Ascanio, I90 Solvay, Ernest, I90 Sombart, Werner, 4I4 Spencer, Herbert, 304 Stahl, Friedrich Julius, 39-40,

4JJ-4J4 Stallo, John Bernard, 312 Stefan, Joseph, I75 Stirner, Max (Johann Kaspar

Schmidt), S5, 492 Strauss, David F., 25-36, 4J0-

4JI Sylvester, James Joseph, 254.

Tarski, Alfred, 224 Tesla, Nikolaus, ISS Thomas, Sidney, IS9 Thompson, Benjamin, conte di

Rumford, 2S6 Trotskij, Lev, II n. Tyndall, John, 312

Ueberweg, Friedrich, 126

Varley, Cromwell, 176 Venn, John, 225, 23I-234, 41J Virchow, Rudolf, II9-120 Vogt, Cari, n6-12o Volterra, Vito, 170, 468

Waals, Johannes van der, I75 Wagner, Rudolf, 118-119 Wallace, Edgar, 349, 354, 369-370 Weierstrass, Karl, I67, I68, 468 Weitling, Wilhelm, 67 n., 49I-

492 Wells, William, 346 Whewell, William, 365 Whitehead, A. North, I95· 224 Wilberforce, Samuel, 364 Wundt, Wilhelm, 423 Wurtz, Adolphe, I 79

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INDICE DELLE CITAZIONI CRITICHE

Agazzi, Evandro - su J. C. Maxwèll 272 n. Allegard, Alvar - su C. Darwin 335, 364 Arata, Fidia -su]. S. Mill 151

Barone, Francesco - su A. de Morgan I96 n., I98 - su C. S. Peirce 239, 248-249 - su E. SchrOder 2 53

Duhem, Pierre - su J. C. Maxwell 273

Enriques, Federigo - su J. C. Maxwell 272

Forti, Umberto

- su L. de Cristoforis I 86 - su H. Bessemer I 89 n.

Gillispie, Charles C. - sulla irreversibilità 298 - sui rapporti scienza-società

nel XIX sec. 363 Gliozzi, Mario - su A. Righi 277 Green, John C. - sulla selezione naturale e il

presunto legislatore della na­tura 362

Irvine, William - su C. Lyell 369

Lewis, Clarence Irving - su S. W. Jevons 230-z3I - su C. S. Peirce 245 Lombardi, Franco - su S. Kierkegaard I42

Nagel, Ernst - sulla fisica del discontinuo 26o - su W. Wundt 423 Nordenskiold, Erik - su C. Darwin 372-373

Pastore, Annibale - su A. Schopenhauer I32 Perucca, Eligio - su H. Hertz 276

Kuhn, Thomas S. Terray, Emmanuel - sulla scienza del XIX sec. 289 - sul marxismo 435-436

499

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INDICE GENERALE

SEZIONE SETTIMA

Lo sviluppo della razionalità scientifica. Inizi e crescita del marxismo

CAPITOLO PRIMO

Caratteri positivi e negativi della nuova epoca

7 I Considerazioni preliminari. 13 xv Il sorgere di una nuova istanza metodo­logica entro la scienza. 9 II La scienza a servizio della produzione.

I I III La fede nella scienza e nel progresso.

I 7 1 Caratteri generali.

CAPITOLO SECONDO

La crisi dell' hegelismo DI ENRICO RAMBALDI

22 II Filosofia tedesca, dialettica hegeliana e rivoluzione francese.

2 5 III La critica religiosa e la scissione nella scuola hegeliana.

31 IV L'hegelismo di destra.

37 I Ludwig Feuerbach.

CAPITOLO TERZO

Il rovesciamento dell' hegelismo DI ENRICO RAMBALDI

51 v L'essenza del CriStianesimo. 40 II Gli « Hallische Jahrbiicher ». 44 III Filosofia genetico-critica.

54 VI Il rovesciamento del metodo hegeliano. 57 VII I « Deutsche Jahrbiicher »:

47 IV Il passaggio di Bruno Bauer alla sinistra.

61 I Formazione di Marx.

CAPITOLO QUARTO

La fondazione del socialismo scientifico DI ENRICO RAMBALDI

64 II La rottura con l'hegelismo. 76 v L'incontro di Marx con l'economia po­

litica. 67 III Gli «Annali franco-tedeschi». 70 IV Formazione di Engels.

83 VI L'elaborazione del materialismo storico. 94 VII Scienza della rivoluzione.

CAPITOLO QUINTO

110 1 Introduzione. 113 II Jakob Moleschott.

La lotta per il materialismo in Germania DI FELICE MONDELLA

120 IV Ludwig Biichner. 123 v Heinrich Czolbe.

116 m Cari Vogt ed il Congresso di Gottingen.

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Indice generale

CAPITOLO SESTO Schopenha~~er e Kierkegaard

127 I Considerazioni preliminari. 129 II Vita e opere di Schopenhauer. I 3 I III L'illusorietà del mondo fenomenico. I 33 IV Il mondo come volontà. I36 v La liberazione dal dolore.

I37 VI Vita e opere di Kierkegaard. I38 VII L'antihegelismo. I40 VIII I tre stadi: estetico, etico, religioso. I4Z IX Il «singolo » e la « folla».

CAPITOLO SETTIMO Il pensiero filosofico inglese. J ohn S tuart Mi/l

I46 I Considerazioni .preliminari. I48 II William Hamilton. ISO III Vita e opere di John Stuart Mill.

IS2 IV Il problema della conoscenza. I s 7 v Le concezioni etico-politiche. I6o VI Il problema religioso.

CAPITOLO OTTAVO Linee generali dello sviluppo delle scienze matematiche e ftsicO:.chimiche nella 1econda metà dell'Ottocento

I64 I Considerazioni introduttive. I66 II La matematica. I 7 2 III La fisica.

I77 IV La chimica. I83 v Le scienze applicate.

CAPITOLO NONO La svolta della logica nell'Ottocento

DI CORRADO MANGIONE

I 92 I Introduzione. I96 II L'opera di Augustus De Morgan. 206 III La « rivoluzione booleana ».

223 IV L'algebra della logica nell'Ottocento do­po Boole.

236 v I contributi di Peirce e di Schroder. 2S4 VI Conclusione.

CAPITOLO DECIMO La teoria dei campi: Maxwel!

260 I Considerazioni preliminari. 26I II Vita e opere di Maxwell. 264 III Le ricerche sulla teoria cinetica dei gas. 266 IV Le prime opere sull'elettricità e sul ma-

gnetismo. 268 v L'etere.

z69 VI La teoria maxwelliana del campo elettro-magnetico.

27I VII Maxwell e il meccanicismo. 274 VIII Matematica ed esperienza. 276 IX Il grande peso della teoria dei campi

entro l'ultima fase della fisica ottocentesca.

CAPITOLO UNDICESIMO Principi e problemi della termodinamica

DI FELICE MONDELLA

z8I I Considerazioni introduttive. 283 II La conoscenza fisica della natura ed il

problema del movimento. 28s III Macchine a vapore e teoria del calorico. 288 IV I fenomeni di conversione. z89 v Prime enunciazioni del principio di con­

servazione dell'energia. 296 VI Teoria di Sadi Carnot. 298 VII Enunciazione dei due principi della ter-

modinamica. Clausius e Thomson. 303 VIII Sviluppi ed interpretazioni dei principi

della termodinamica. 306 IX La teoria cinetica dei gas e la meccanica

statistica. 3 II x L'energetica. 3 I s XI Boltzmann e la polemica contro la fisica

fenomenologica.

CAPITOLO DODICESIMO La critica del meccanicismo: Mach

I Vita e opere. II Dal meccanicismo all'antimeccanicismo. III Critica della meccanica newtoniana. IV Il carattere economico della scienza.

330 v La teoria degli elementi. 332 VI I presupposti filosofici del fenomenismo

machiano.

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Indice generale

CAPITOLO TRBDICESIMO

La teoria dell'evoluzione e l'opera di CharleJ Darwin DI FELICE MONDELLA

B s I Richiami storici. 340 II Geologia e tradizione religiosa in In­

ghilterra. 345 III Evoluzionisti inglesi antecedenti a Dar­

win. 347 IV Charles Darwin ed il viaggio sul «Bea­

gle ».

3S4 v L'« Origine della specie». 36I VI Significato filosofico dell'« Origine della

specie». 363 VII Accoglienza e reazione all'« Origine del­

la specie». 368 VIII L'origine dell'uomo. 3 72 Ix Considerazioni conclusive.

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

La maturità di Marx

374 I Lo sviluppo del materialismo storico. 3 77 II La scienza economica.

402 III La prima internazionale degli operai.

CAPITOLO QUINDICESIMO

EngelJ e la dialettica della natura

408 I Considerazioni generali. 4II II Il pensiero economico-politico di Engels

nei suoi ultimi vent'anni. 4I9 m Il materialismo dialettico engelsiano.

432 IV L'origine della famiglia e la critica del concetto di stato.

439 v L'attualità di Engels.

445 Bibliografia

497 INDICE DEI NOMI

499 INDICE DELLE CITAZIONI CRITICHE

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