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LE MONNIER L’ITALIA SOTTO TUTELA Stati Uniti, Europa e crisi italiana degli anni Settanta Lucrezia Cominelli

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LE MONNIER

L’itaLia sotto tuteLa

stati uniti, europae crisi italiana

degli anni settanta

Lucrezia Cominelli

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5Strategie di stabilizzazione

(1974-1976)

La sfida della modernità

Gli anni successivi al 1973 per la politica italiana furono «i più in-certi del dopoguerra» 1. La riedizione del centrosinistra implicò l’imme-diato ritorno a coalizioni instabili, ancor più fragili delle precedenti, in un sistema politico sempre più bloccato e avvitato su se stesso. Nel contempo lo scenario economico peggiorava rapidamente. Fra i Paesi dell’Europa occidentale, tutti duramente colpiti dalla crisi, l’Italia si tro-vò in una condizione di particolare debolezza, incapace di far fronte ai rincari del prezzo del petrolio – in pochi mesi quadruplicato – e gravata da un deficit nella bilancia commerciale che sfiorava gli 8 miliardi. Ele-menti già di per sé problematici a cui si aggiunsero nel 1974 un netto calo della produzione industriale, una flessione dell’occupazione e dei consumi (mai registrata dal dopoguerra) e infine una costante crescita del deficit pubblico che portò il rapporto debito/PIL a crescere in tre anni dal 52% al 60,6%. Nello stesso anno la fuga di capitali raggiunse livelli preoccupanti e gli investimenti crollarono 2.

Il rincaro delle spese energetiche divenne presto insostenibile 3 e il governo Rumor si vide costretto a varare un “codice di austerità” che impose limiti di velocità maggiori per le auto, aumenti sui prezzi della benzina, chiusura anticipata di cinema ed esercizi pubblici, divieti di cir-colazione nei giorni festivi. Provvedimenti che non mancarono di ren-dere immediatamente percepibile e incalzante la realtà della crisi, sen-za tuttavia individuare soluzioni più articolate e condivise 4. Le divisioni fuori e dentro la maggioranza sembravano anzi aumentare di pari pas-so con le difficoltà economiche, come se il brusco arresto della crescita, diminuendo le risorse disponibili, accentuasse il clima da resa dei conti.

Con un’evidente forzatura, i comunisti interpretarono la crisi eco-nomica come una crisi generale del capitalismo determinata dalla con-quiste dei lavoratori in Occidente e dallo sviluppo del Terzo mondo. Ancor meno fondata era la lettura che contrapponeva le difficoltà del

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blocco occidentale allo sviluppo dei Paesi socialisti. «È un fatto» avreb-be affermato Berlinguer al XIV Congresso del PCI nel marzo del 1975, «nel mondo capitalistico c’è la crisi, nel mondo socialista no», insisten-do sul «superiore clima morale» che si respirava ad Est 5. Partendo da questi presupposti Berlinguer riteneva che la sinistra potesse utilizza-re la congiuntura per modificare alcuni elementi di fondo del sistema italiano: con una evidente incomprensione dei processi economici in atto, il PCI reclamava una «programmazione democratica dell’econo-mia» in grado di uscire dalla «logica del capitalismo» e introdurre nella società «elementi di socialismo» 6.

Rispetto alla situazione contingente, le richieste dei comunisti si di-ressero più realisticamente verso una politica di controllo degli investi-menti e di riqualificazione della spesa pubblica. Questa linea trovò qual-che sponda nei ministri socialisti Antonio Giolitti (al Bilancio) e Luigi Bertoldi (al Lavoro), troppo deboli tuttavia per incidere sulle scelte eco-nomiche dell’esecutivo. Gestita con mano ferma dal ministro del Teso-ro Ugo La Malfa, la politica del governo si consolidò anzi su una linea sostanzialmente deflattiva che mirava a favorire la compressione della domanda e dei consumi, ignorando totalmente le sollecitazioni e le ri-forme proposte – peraltro senza grande energia – dai ministri socialisti.

In un clima di continuo disaccordo, l’atto più clamoroso fu compiu-to all’inizio del 1974 da La Malfa, il quale, in accordo con Guido Carli e con la Banca d’Italia, decise di chiedere un prestito al Fondo Moneta-rio Internazionale per un miliardo e duecento milioni di dollari senza nemmeno avvertire il ministro al Bilancio Giolitti. Si trattava di una de-cisione importante: una volta concesso il prestito il FMI avrebbe impo-sto di fatto dei vincoli alla politica economica del governo, imponendo una linea deflazionistica e di restrizione del credito. Per ottenere il fi-nanziamento, l’Italia avrebbe dovuto firmare e rispettare una “lettera di intendimenti” che delineava obiettivi precisi, definiti in termini di “cre-dito totale interno”. Questi avrebbero richiesto una pesante manovra di contenimento della domanda per frenare lo squilibrio dei conti con l’estero e il deterioramento del cambio, in concomitanza con le misure di restrizione creditizia messe in atto dalla Banca d’Italia. Una restrizio-ne seconda, per intensità, solo a quella del 1947.

Come era avvenuto nel 1964 si invocava un “vincolo esterno” – mo-tivato dalla crescita dell’inflazione e dei costi della crisi globale – che avrebbe costretto di fatto a una determinata politica economica 7. Ma in realtà si trattava di una linea assai congrua agli interessi che i partiti di centro intendevano rappresentare, primi fra tutti quelli delle banche, che

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nel frattempo operavano in modo da favorire la restrizione del credito, diminuendo la liquidità bancaria e spingendo i tassi di interesse a livelli inediti. Erano dunque scelte che corrispondevano alla linea conservatri-ce di Fanfani e alle richieste di quegli esponenti del mondo degli affari (come Eugenio Cefis della Montedison) che proponevano un’alleanza fra ceti medi e grande industria di stato, in opposizione con l’area che faceva riferimento ad Agnelli che premeva invece per una qualche forma di apertura verso il PCI e il movimento operaio 8.

Il precario compromesso su cui si fondava la maggioranza non resse perciò alle polemiche legate all’accoglimento delle condizioni del Fondo. Malgrado fosse uscito vincente dallo scontro con Giolitti, La Malfa deci-se di dimettersi, mettendo in crisi il governo ma salvando la maggioran-za da uno scontro ancora più aspro. Così cadeva anche questo governo, sostituto il 14 marzo 1974 da un nuovo esecutivo, sempre guidato da Rumor ma questa volta retto da una coalizione a tre fra democristiani, socialisti e socialdemocratici con l’appoggio esterno dei repubblicani9. Una soluzione ancor più precaria destinata a durare solo per pochi mesi.

Le analisi dell’ambasciatore, piuttosto equilibrate, dimostrano in questo frangente una buona comprensione della realtà italiana: «la po-lemica sul prestito del FMI», scriveva Volpe, non era che «la goccia che aveva fatto traboccare il vaso» 10. La crisi di governo rifletteva in realtà i «profondi contrasti» fra repubblicani e socialisti nelle scelte di politica economica. Mentre il pacchetto sviluppato da La Malfa e Carli aveva come scopo «stare in linea con le spese, moderare la pressione dell’in-flazione, ridurre la bilancia dei pagamenti e mantenere la lira grosso-modo sui livelli attuali», i socialisti premevano per un programma di riforme che potesse anche «stimolare l’economia, mettendo la crescita e i livelli di occupazione come obiettivi primari, da anteporre al con-trollo dell’inflazione» 11.

Quello che sembrava maggiormente angosciare Volpe era la posizio-ne della DC, da diversi mesi impegnata in un’opera di mediazione fra le due parti. Sebbene indubbiamente «utile» nella fase precedente, questo ruolo cominciava ora a sembrare insufficiente. Cresceva così da parte americana la pressione perché la DC adottasse «una chiara linea econo-mica propria», senza continuare a dividersi fra «la sua ala sinistra, che favoriva fortemente l’approccio del PSI, e il centro e la destra simpateti-ci con le idee conservatrici di La Malfa» 12. Malgrado l’ambasciatore non potesse che considerare la DC come il suo interlocutore naturale, egli mascherava ormai a stento l’insofferenza per l’incapacità dei democri-stiani di scegliere una linea politica chiara.

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Nei mesi successivi il clima venne ulteriormente avvelenato da vari scandali che a lungo occuparono l’agenda del Paese, provocando un’on-data di critiche sulla DC, sulla sua integrità morale e capacità politica 13. Il caso più grave fu quello delle tangenti versate a vari uomini politici dall’Unione petrolifera in cambio di trattamenti di favore: si scoprì che tra il 1966 ed il 1973 i partiti di governo avevano concesso facilitazio-ni e aumenti dei prezzi alle grandi compagnie in cambio di cospicui fi-nanziamenti. Nonostante alcune ammissioni, la magistratura non riuscì a provare la concussione e i partiti si difesero sostenendo che si era trat-tato di “legittime elargizioni”, anziché di tangenti 14.

Come risposta, il Parlamento approvò frettolosamente la legge per il finanziamento pubblico ai partiti, nella quale si stabiliva che tutti i grup-pi politici dovessero essere finanziati in proporzione alla loro rappre-sentanza in parlamento. Una misura tuttavia che non prevedeva alcuno strumento di controllo e che non bastò a placare un’opinione pubblica sempre più insofferente rispetto alla gestione delle finanze statali, so-prattutto per il sospetto che i finanziamenti pubblici si sarebbero sem-plicemente aggiunti a quelli occulti, senza eliminarli 15.

Ma le difficoltà maggiori vennero paradossalmente alla DC pro-prio dal tema scelto da Fanfani per rilanciare e rinsaldare l’unità dei cattolici, ovvero il referendum sul divorzio. Dopo la rottura dell’unità dei dorotei nel 1968 la DC non era più riuscita a riconoscersi in una corrente unitaria o in una solida maggioranza, né a ricomporre un suo equilibrio interno. Se in passato il partito aveva trovato come comune denominatore prima la leadership carismatica di De Gasperi, poi va-rie forme di coabitazione policentrica, all’inizio degli anni Settanta la grande “balena bianca” si configurava piuttosto come una confederazio-ne di forze politiche diverse 16.

Tornato segretario della DC, Fanfani tentò di invertire la rotta. Come ha notato acutamente Piero Craveri, mentre la strategia di Moro prende-va le mosse da una visione realistica del partito, in Fanfani aveva sempre predominato l’idea di un diverso “poter essere” della Democrazia cristia-na che lo portò, una volta tornato alla segreteria, a cercare di contrastare la disarticolazione in fazioni 17. Abbandonando definitivamente la consoli-data immagine di uomo simbolo del centrosinistra, sposò una linea aper-tamente centrista e tradizionalista, nell’estremo tentativo di ricompattare il partito e riconquistare il centro della scena politica. Così la DC, mentre riapriva le porte ai socialisti, tornava al contempo a spostarsi a destra, sce-gliendo come cavallo di battaglia la campagna antidivorzista che la con-vocazione referendaria per la primavera del 1974 metteva a disposizione.

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La storia del divorzio in Italia è una vicenda complessa che copre un arco temporale di almeno quattro anni. La legge che lo istituziona-lizzava – la Fortuna Baslini 18 – era stata approvata in via definitiva il 1 dicembre 1970, vincendo la dura opposizione di cattolici e Vaticano 19. Lo stesso giorno un gruppo di autorevoli antidivorzisti aveva costituito il Comitato Nazionale per il Referendum sul Divorzio (CNRD), dando inizio al lungo iter referendario per l’abrogazione20.

La reazione statunitense alla legge fu inizialmente di aperta soddisfa-zione per l’introduzione di una normativa che uniformava l’Italia ai mag-giori Paesi occidentali, sebbene «comparata a quelle in vigore in altri pae-si» la legislazione italiana risultasse «piuttosto conservatrice» 21. Malgrado il giudizio di merito, l’opinione degli statunitensi mutava radicalmente quando il discorso si spostava sulle implicazioni politiche della vicenda, soprattutto a fronte della possibilità di un referendum abrogativo. Un’ag-guerrita campagna referendaria avrebbe potuto non solo «far risuscitare il latente anticlericalismo italiano», ma anche «isolare i democristiani dalle altre forze democratiche, mettendo in pericolo le istituzioni» 22. Gli statu-nitensi temevano, in altre parole, che il divorzio potesse costituire una mi-naccia per l’equilibrio delle forze governative e per il ruolo, la centralità e la forza della DC al loro interno. Per quanto favorevoli all’introduzione di una norma che modernizzava la società italiana, non potevano prescinde-re dalla considerazione che uno scontro sul divorzio avrebbe messo seria-mente in difficoltà il loro principale alleato e referente in Italia.

Negli anni successivi all’approvazione della Fortuna Baslini gli statu-nitensi sconsigliarono perciò ripetutamente ai democristiani di intrapren-dere sul divorzio una “guerra di religione”, assicurando il loro sostegno alle varie ipotesi di compromesso per modificare la legge 23. Il PCI con-divideva il medesimo atteggiamento prudente: Berlinguer e la direzione del partito temevano che gli appelli all’unità della famiglia e al rispetto dei valori cattolici potessero lacerare profondamente il loro elettorato e scatenare un conflitto tra fede religiosa e impegno politico. Per decenni i comunisti avevano dovuto difendersi dall’accusa di voler indebolire le istituzioni familiari, e la loro priorità rimaneva quella di evitare una con-trapposizione ideologica con i cattolici, soprattutto nel momento in cui si lanciava l’ipotesi del compromesso storico con la DC. Il PCI si mo-strò così restio a porre la questione alla pari con altre grandi battaglie politiche, manifestando una certa «sordità» 24 – come si espresse Ingrao– verso le ragioni di coloro che da sinistra si battevano per le libertà civili.

Una volta tornato alla guida del partito democristiano, Fanfani deci-se però un repentino cambio strategia: nel novembre del 1973 annun-

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ciò di voler adottare una posizione netta e si schierò apertamente nella campagna referendaria, puntando tutto il suo “patrimonio” politico sul tentativo di riaffermare la presenza pubblica dei cattolici sotto il vessillo della DC 25. L’investimento, anche personale, fu intenso: Fanfani si in-nalzò a difensore della famiglia, facendo leva, soprattutto al Sud, su un conservatorismo basato sui valori tradizionali e giocando infine anche la carta dell’anticomunismo 26. Il 10 maggio lo stesso papa Paolo VI, ri-masto fino a quel momento in silenzio, si schierò apertamente contro la legge 27. La questione del divorzio, per lungo tempo un tema scomodo e da evitare, era diventata per la DC un avamposto simbolico, nel ten-tativo di ricompattare anche ideologicamente il blocco sociale conser-vatore. A pochi mesi dal voto il PCI era invece ancora indeciso sul da farsi e stentava a lanciarsi nella campagna referendaria, ma l’attivismo di Fanfani lasciò ai comunisti poche possibilità di sfuggire al confronto. Fu infine Amendola a chiamare alla mobilitazione il partito, vincendo le ultime resistenze, e la questione venne definitivamente politicizzata.

La posizione americana sulla questione, si è detto, era influenzata da considerazioni che poco avevano a che fare con un giudizio di merito sull’opportunità di abolire l’istituzione del divorzio. In generale la linea che Fanfani cercava di imporre alla DC non dispiaceva, non solo perché si trattava di «un leader forte ed energico con idee ferme» 28, ma soprattut-to perché si poteva esser certi che avrebbe avversato un accordo con i co-munisti con tutte le sue forze; la linea conservatrice aveva dunque garan-tito a Fanfani ampi consensi oltreoceano. La decisione di lanciarsi nella competizione referendaria apparve invece da subito un azzardo assai me-no convincente, soprattutto per il «livello di stress al quale il referendum avrebbe sottoposto la coalizione di centrosinistra» 29: l’eventuale vittoria del fronte abrogazionista avrebbe messo in seria difficoltà il PSI (lo stes-so firmatario della legge, Fortuna, era un socialista), mentre in caso di sconfitta la DC «avrebbe perso la faccia uscendone umiliata» 30. In un cli-ma che scivolava sempre più verso uno «scontro frontale» fra DC e il PCI, il referendum rischiava di avere «un impatto di vasta portata sul futuro della politica italiana e sulle sue istituzioni» e di costituire una pesante ipoteca in vista delle importanti elezioni amministrative del 1975 31.

Sembrava inoltre impossibile prevedere l’esito del referendum 32. A pochi giorni dalla consultazione, anche i contatti dell’ambasciata non offrivano nessuna previsione utile, dal momento che «la novità dello strumento del referendum e l’apparente mancanza di fiducia di tutti i partiti nella costanza del loro stesso elettorato» rendeva tutte le previ-sioni «altamente speculative». L’unica previsione su cui tutti, compre-

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so lo stesso Volpe, concordavano era che il «margine fra la vittoria e la sconfitta sarebbe stato stretto» 33.

Così invece non fu. Con un livello altissimo di partecipazione in tutto il territorio nazionale, la maggioranza degli italiani si espres-se contro l’abrogazione del divorzio, attribuendo al fronte divorzi-sta una vittoria che andava oltre le più rosee previsioni 34. Sia Fanfani che il PCI avevano mal giudicato l’elettorato: il primo puntando tutto sul «vecchio sanfedismo contadino e paleoindustriale e sull’intransi-gentismo», i comunisti con un atteggiamento estremamente timoroso sull’esito positivo delle votazioni35.

La Chiesa soprattutto ne era uscita sconfitta; con la rigidità della sua posizione pregiudiziale aveva finito per dividere insanabilmente il mon-do dei credenti 36. Gli italiani si scoprivano invece meno legati ai vincoli religiosi e fortemente attratti da una “modernità” che, seppure in forme confuse e spesso conflittuali, implicava anche in Italia una rapida seco-larizzazione della società. Per la prima volta apparve inoltre un voto de-terminato da scelte individuali non necessariamente coincidenti con la collocazione politica degli elettori. I tradizionali mondi di riferimento non offrivano più un’appartenenza certa e gli elettori avevano votato liberamente, segno evidente del passaggio «dal primato della mobili-tazione collettiva» a quello delle «scelte individuali e della dimensione privata» 37, oltre che di un indebolimento dei partiti come organizzatori e mediatori della vita civile e politica del Paese, a fronte di una società civile che si era dimostrata molto più moderna e «matura» 38 di quanto non credessero i partiti e gli osservatori alla vigilia del voto.

Restava ovviamente tutta da definire la qualità di questa moder-nità 39. Il referendum sul divorzio segnò infatti in Italia il passaggio, si direbbe oggi, a una società postmoderna, con tutte le contraddizioni che questo comportava. Significativa a questo proposito la posizione di Pasolini che, all’indomani della più grande “vittoria progressista” dell’Italia repubblicana, scriveva sul «Corriere della Sera»:

La mia opinione è che il 59% dei “no” non sta a dimostrare, miracolisti-camente, una vittoria del laicismo, del progressismo, della democrazia: nient’affatto. Esso sta a dimostrare invece due cose: che i “ceti medi” so-no radicalmente, antropologicamente cambiati: i loro valori positivi non sono più quelli sanfedisti e clericali ma sono i valori dell’ideologia edo-nistica del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di tipo americano. L’Italia contadina e paleoindustriale è crollata, si è disfatta, e al suo posto c’è un vuoto.

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Il “no” è stato una vittoria, indubbiamente. Ma la indicazione che essa dà è quella di una mutazione della cultura italiana che si allontana tanto dal fascismo tradizionale che dal progressismo socialista 40.

Nel breve periodo comunque, specialmente la DC uscì ridimensio-nata da questa vicenda. I milioni di italiani cattolici che avevano votato “no” avevano dimostrato in maniera inequivocabile che le trasformazio-ni innescate dalla modernizzazione avevano reso il disegno di un bloc-co clerico-moderato «velleitario e privo di una base reale nel Paese» 41, aprendo nuovamente le porte alla linea di Moro. Oltre che di un errore politico, si era trattato di un fenomeno di «attardamento culturale» e di un’errata analisi della società italiana. La Democrazia cristiana aveva as-sunto il ruolo di «portabandiera di uno schieramento arretrato»42, men-tre il PCI, quasi suo malgrado, si era presentato come rappresentante di un’Italia più moderna e civile uscendone, nonostante le iniziali tituban-ze, con una posizione rafforzata. Tutto ciò avrebbe avuto conseguenze importanti sull’equilibrio di forze fra comunisti e democristiani negli anni successivi, tanto che è stato detto che senza la vittoria del referen-dum difficilmente si sarebbe manifestata la “grande avanzata” del PCI alle amministrative dell’anno successivo.

Ovviamente questo era l’aspetto che preoccupava maggiormente gli Stati Uniti. Per Volpe era chiaro che «un’altra importante figura politica europea aveva gravemente mal interpretato gli umori dell’elettorato». Poi-ché Fanfani aveva «scommesso tutto il suo prestigio» nella campagna elet-torale, la sua leadership era ora gravemente compromessa, e gli Stati Uni-ti speravano solo che non vi fossero ripercussioni politiche immediate, prima che una soluzione alternativa avesse il tempo di prendere forma 43.

L’ambasciatore coglieva a pieno le pesanti conseguenze del referen-dum, soprattutto «in termini psicologici». La decisione della DC di in-gaggiare una sfida sul divorzio era stata «un enorme errore di valuta-zione», causato dal rifiuto di riconoscere «lo spostamento di voti dal conservatorismo – clericale e non – verso l’idea di una struttura sociale progressista». La DC doveva dunque accettare che «la pressione per un cambiamento, in particolare nel campo delle riforme sociali stava au-mentando sia nella base popolare, sia nei partiti di sinistra, e che la si-nistra era impaziente di abbracciare questa pressione» 44.

Per questo motivo Berlinguer poteva «guardare al futuro con fiducia e tranquillità»: il referendum gli aveva offerto non solo «un’immediata spinta psicologica», ma soprattutto una carta in più «per rilanciare, come da tempo desiderava, l’immagine del PCI come forza politica respon-

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sabile e affidabile» 45. L’intenzione della coalizione e soprattutto della DC di andare avanti di andare avanti come se nulla fosse (business as usual), per quanto «rassicurante» nell’immediato, rappresentava invece l’ennesima risposta «inadeguata e debole». Il referendum aveva lanciato ai democristiani «una sfida», e l’unica possibilità per non soccombere era quella di trasformarla in «un’opportunità». Il compito degli Stati Un-iti era quello di «monitorare da vicino come e quanto sarebbero stati in grado di rispondere», poiché anche su questo si giocavano le possibilità dell’Italia di restare nel sistema occidentale 46. La necessità sempre più inderogabile di un cambio strategico dei programmi della DC era ormai divenuta un elemento centrale nelle riflessioni sulla situazione italiana – quasi un topos nelle analisi di via Veneto – così come gli auspici di un profondo rinnovamento dei suoi leader e della sua classe dirigente.

La crisi si approfondisce

Mentre l’atteso rinnovamento stentava ad arrivare, a livello interna-zionale si cominciò a temere che l’Italia si trovasse di fronte ad un bi-vio, o peggio, un baratro 47: recessione economica, instabilità politica, debolezza degli esecutivi, corruzione, atti terroristici, rivolte locali, cre-scita delle associazioni mafiose erano ormai gli elementi costanti di ogni analisi riguardante l’Italia.

Le difficoltà della DC – esplose dopo il voto sul divorzio – si intrec-ciavano con il persistere e l’aggravarsi della crisi economica, così gra-ve da far temere a Kissinger che «l’Italia potesse scivolare al livello dei Paesi in via sviluppo» 48. L’aumento del prezzo del petrolio aveva infatti accresciuto il disavanzo nella bilancia dei pagamenti, causando una gra-ve riduzione a livello produttivo e occupazionale, cui si sommava una forte inflazione 49.

In questo clima cupo di recessione tornò al centro della scena la violenza stragista. La mattina del 28 maggio 1974, durante un comizio sindacale in piazza della Loggia a Brescia, una bomba uccise otto per-sone ferendone più di un centinaio. Il giorno successivo Volpe avvisò il Dipartimento di Stato, sottolineando che tutte le forze politiche – com-preso il Movimento Sociale – avevano espresso unanime indignazione e cordoglio per l’accaduto. Si trattava del «peggior atto terroristico do-po l’esplosione della bomba alla banca di Milano nel 1969», un gesto «destinato ad avere serie ripercussioni politiche» 50, soprattutto perché arrivava nel bel mezzo di delicate negoziazioni fra sindacati e governo.

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