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Le donne e l’Olocausto è uno dei pochi memoriali che si concentra esclusivamente sulle donne. Con sincerità straziante, Lucille Eichengreen offre uno sguardo approfondito e sincero dell’esperienza femminile nei campi nazisti. Raccontando la storia della propria sopravvivenza, esplora il mondo delle altre donne che ha incontrato, dal potere femminile delle guardie SS, alle prigioniere che erano costrette a prostituirsi per il cibo. Le amicizie che nacquero tra le donne spesso durarono a lungo. Si aiutavano l’una con l’altra, e si dimostravano un affetto e un’attenzione che era difficile trovare persino in famiglia. Certo, avevano anche delle nemiche tra loro. Altre donne le maltrattavano, le denunciavano, le raggiravano e rubavano il cibo o le scarpe. In tutti i campi di concentramento era più o meno lo stesso. Ma in generale c’era fiducia reciproca, le donne si davano una mano e piangevano insieme. Con una prosa secca e toccante, la Eichengreen sa cogliere il nocciolo, l’essenza delle cose ma senza fare prediche. In più, Lucille scrive con l’autorevolezza della testimone oculare, un valore che presto spetterà solo alla pagina scritta e ai documentari filmati, visto che le fila dei sopravvissuti si assottigliano drammaticamente ogni anno. Lei è una di loro, una sopravvissuta che ha ancora voglia di raccontare la propria storia.

lucille eichengreen è miracolosamente sopravvissuta a dodici anni di ghetti e a tre campi di concentramento fino alla liberazione di Bergen-Belsen. Oltre a Le donne e l’Olocausto, è autrice dei memoriali Ashes to Life (Mercury House) e Rumkowski and the Orphan of Lodz (Mercury House), ancora non pubblicati in Italia. Le donne

e l’Olocausto

Lucille Eichengreen

Ricordi dall’inferno dei Lager

Le donne e l’Olocausto

•Lucille E

ichengreen

Gli specchi Marsilio

Sopravvivere al ghetto di Lodz, ad Auschwitz, a Neuengamme e a Bergen-Belsen fu quasi un miracolo. Aveva otto anni e viveva ad Amburgo, in Germania, quando Hitler salì al potere. Aveva vent’anni quando la guerra finì. Dodici lunghi anni di orrore, di privazioni, di umiliazioni, di fame

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Le donne e l’Olocausto è uno dei pochi memoriali che si concentra esclusivamente sulle donne. Con sincerità straziante, Lucille Eichengreen offre uno sguardo approfondito e sincero dell’esperienza femminile nei campi nazisti. Raccontando la storia della propria sopravvivenza, esplora il mondo delle altre donne che ha incontrato, dal potere femminile delle guardie SS, alle prigioniere che erano costrette a prostituirsi per il cibo. Le amicizie che nacquero tra le donne spesso durarono a lungo. Si aiutavano l’una con l’altra, e si dimostravano un affetto e un’attenzione che era difficile trovare persino in famiglia. Certo, avevano anche delle nemiche tra loro. Altre donne le maltrattavano, le denunciavano, le raggiravano e rubavano il cibo o le scarpe. In tutti i campi di concentramento era più o meno lo stesso. Ma in generale c’era fiducia reciproca, le donne si davano una mano e piangevano insieme. Con una prosa secca e toccante, la Eichengreen sa cogliere il nocciolo, l’essenza delle cose ma senza fare prediche. In più, Lucille scrive con l’autorevolezza della testimone oculare, un valore che presto spetterà solo alla pagina scritta e ai documentari filmati, visto che le fila dei sopravvissuti si assottigliano drammaticamente ogni anno. Lei è una di loro, una sopravvissuta che ha ancora voglia di raccontare la propria storia.

lucille eichengreen è miracolosamente sopravvissuta a dodici anni di ghetti e a tre campi di concentramento fino alla liberazione di Bergen-Belsen. Oltre a Le donne e l’Olocausto, è autrice dei memoriali Ashes to Life (Mercury House) e Rumkowski and the Orphan of Lodz (Mercury House), ancora non pubblicati in Italia. Le donne

e l’Olocausto

Lucille Eichengreen

Ricordi dall’inferno dei Lager

Le donne e l’Olocausto

•Lucille E

ichengreen

Gli specchi Marsilio

Sopravvivere al ghetto di Lodz, ad Auschwitz, a Neuengamme e a Bergen-Belsen fu quasi un miracolo. Aveva otto anni e viveva ad Amburgo, in Germania, quando Hitler salì al potere. Aveva vent’anni quando la guerra finì. Dodici lunghi anni di orrore, di privazioni, di umiliazioni, di fame

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GLI SPECCHI

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Marsilio

Le donne e l’Olocausto

Lucille Eichengreen

Ricordi dall’inferno dei lager

traduzione di Errico Buonanno

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Titolo originale: Haunted Memories© 2011 by Lucille Eichengreen

© 2012 by Marsilio Editori® s.p.a. in VeneziaPrima edizione digitale 2012ISBN [email protected] Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata

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INTRODUZIONE

Ti pregofa’ qualcosa

impara un passo di danzaqualcosa che giustifichi la tua esistenza

qualcosa che ti dia il dirittodi vestire la tua pelle e i peli del tuo corpo

impara a ridere e a camminareimpara perché non avrebbe senso

che in tanti fossero mortie che tu vivessi

senza far nulla della vita tua.

Charlotte Delbo, Una conoscenza inutile

Come Lucille Eichengreen, Charlotte Delbo, l’autrice di Una conoscenza inutile, sopravvisse ad Auschwitz. E come la Eichengreen, la Delbo attese molti anni prima di pubblicare le proprie memorie, esortando i lettori a godersi la vita, a viverla appieno, almeno come ricono-scimento postumo a tutte le donne che non potevano più ballare, ridere o camminare. È con lo stesso spirito che Lucille Eichengreen ha scritto i suoi tre libri: Dalle ceneri alla vita: i miei ricordi dell’Olocausto, Rumkowski e gli orfani di Lodz e quest’ultimo, la sua opera più no-ta, Le donne e l’Olocausto: ricordi dall’inferno dei lager.

Lucille incominciò a scrivere intorno ai sessant’anni, ovvero cinquant’anni dopo i fatti narrati, perché «ricor-

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dare è troppo doloroso, lo è ancora». Ci furono altre ragioni per cui attese così a lungo, benché forse meno personali. Innanzitutto, i libri di memorie sull’Olocausto scritti da donne non erano molto popolari, cinquant’anni fa: si pensava che gli uomini fossero i soli testimoni at-tendibili. In più, gli editori erano convinti che i libri sull’Olocausto non vendessero. Così, buttando giù qual-che appunto ma senza nessuna seria intenzione di scri-vere, Lucille si limitò a raccontare i propri ricordi ai figli, quando furono abbastanza grandi per poter capire. Fu questo il modo in cui tenne quelle storie in vita.

A incoraggiare Lucille a stendere le proprie memorie fu un poeta dei dintorni di San Francisco. Incominciò con un certo pudore, scrivendo poesie, alcune delle qua-li furono tradotte e pubblicate in Israele e in Germania. Quando andò in pensione, negli anni ottanta, sentì final-mente che era giunto il momento di mettere ordine ai suoi appunti. «Parte del materiale» confessa «mi sembra-va difficile da riportare sulla carta... Quello che era suc-cesso a mia sorella, ad esempio... mi era impossibile da scrivere. Era tutto così difficile!»

Per molti anni, Lucille lavorò al primo libro insieme alla sua amica, la professoressa Harriet Hyman Cham-berlain. Scrisse e riscrisse quei capitoli fino a dieci volte di seguito. Poi, con l’aiuto di un agente, trovò un edito-re, la Mercury House: il manoscritto venne accettato e affidato a un editor di fama. «Il problema» spiega Lu-cille «è che l’editor ne voleva trarre un romanzo. Voleva che fosse leggibile, scorrevole, pulito. Ma i fatti che rac-contavo non avevano nulla di pulito! Io volevo che fos-se un libro aspro, duro!» Cambiò editore e il suo libro, Dalle ceneri alla vita, fu finalmente pubblicato nel 1994.

La storia di Lucille era dura davvero. Strappata dal seno di un’agiata famiglia di origine polacca, aveva patito

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ogni aspetto dell’odio razziale nazista, prima nella sua città natale di Amburgo, poi, successivamente, nel ghetto di Lodz, ad Auschwitz, a Neuengamme e a Bergen-Belsen. Era sopravvissuta a ogni sorta di umiliazione, dai lavori forzati alla fame più nera. Aveva perso la famiglia, aveva perso la sua casa, ma non aveva perso mai la sua dignità di essere umano. Dopo la liberazione, aveva aiutato le truppe alleate a identificare i colpevoli. Era immigrata negli Stati Uniti, si era sposata, aveva messo su famiglia, ed era riuscita a costruirsi una carriera di successo.

Fu attraverso quel libro che giunsi a conoscere Lucil-le di persona. Come docente e studiosa dell’Olocausto, e come curatrice di un libro di memorie di recente pub-blicazione, avevo letto decine di opere del genere. E tuttavia decisi di adottare proprio Dalle ceneri alla vita per tenere lezione ai miei studenti. Lo stile lucido di Lucille, la sua visione chiara dei fatti, l’intensità della sua storia e l’efficacia con cui illustrava la sistematicità della barbarie nazista nei confronti degli ebrei rendevano il suo testo un perfetto strumento di insegnamento. Cyn-thia Ozick, autrice di Lo scialle, ha detto del libro di Lucille: «Colpisce il lettore con la forza della sua asso-luta autenticità; ci si rende conto immediatamente che in esso nulla è “costruito”: ogni cosa è stata vista, odo-rata, provata, sofferta... Mi hanno sconvolta la sua veri-dicità, la sua essenzialità, la secchezza della sua dolente morale.»

Nel 2006, Lucille pubblicò il suo secondo libro di memorie, Rumkowski e gli orfani di Lodz. Ne rimasi assolutamente impressionata. Vi si raccontavano le vio-lenze e gli abusi sessuali che donne e bambini avevano subito a opera di Chaim Rumkowski, il responsabile ebreo del ghetto di Lodz nominato dai tedeschi. Rum­kowski e gli orfani di Lodz è un contributo immenso

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allo studio della condizione femminile durante l’Olo-causto.

Lucille Eichengreen, al secolo Cecilia Landau, nacque ad Amburgo, in Germania, il 1° febbraio del 1925. Pri-ma della sua nascita, i genitori erano emigrati dalla Po-lonia in cerca di lavoro e per fuggire dai pogrom. Lucil-le ricorda una vita familiare felice, sicura, fatta di corsi di musica, lezioni alla scuola ebraica e vacanze estive. Martin Buber, il celebre filosofo ebreo, era tra i frequen-tatori abituali dello studio, stracolmo di libri, nel quale il padre di Lucille teneva conversazioni su argomenti filosofici e politici.

Poi, nel gennaio del 1933, due giorni prima dell’otta-vo compleanno di Lucille, Hitler salì al potere. Nel ca-pitolo di apertura di Dalle ceneri alla vita, significativa-mente intitolato Presentimento, Lucille rievoca quel tem-po, il modo in cui si sforzava di capire il senso di quel-la parola, “antisemitismo”, che sentiva pronunciare dai suoi genitori. Ricorda gli scherzi sempre più frequenti dei suoi vecchi compagni di giochi, le paure crescenti – che finirono per influire negativamente sul suo rendi-mento scolastico –, l’obbligo, infine, per tutta la famiglia, di lasciare il proprio appartamento.

Nell’ottobre del 1938 il suo amatissimo papà venne arrestato e deportato in Polonia. Tornò nel maggio del 1939, solo per essere arrestato di nuovo in settembre e spedito a Dachau, dove morì agli inizi del 1941.

Lo stesso anno, in ottobre, i nazisti deportarono Lu-cille, sua madre Sala e sua sorella minore Karin nel ghet-to di Lodz. Nell’intero arco dei dodici anni in cui dura-rono le persecuzioni naziste, i tre anni che vi trascorsero furono, sotto molti aspetti, i più duri. Sua madre morì di fame nel ghetto diciotto mesi dopo il padre. Così, all’età di diciassette anni, Lucille, insieme alla sorella, si

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ritrovò a essere orfana. Sala l’aveva scongiurata di pren-dersi cura di Karin ma, quando la sorella venne manda-ta a est, non poté fare altro che restare a guardare im-potente. Ora, era totalmente sola.

Ciò nonostante, le voraci attenzioni che ricevette da Chaim Rumkowski non furono affatto benvenute. Rum-kowski aveva il controllo assoluto degli ebrei rinchiusi nel ghetto. Se aggiungeva il nome di qualcuno a una lista di deportazione, ciò equivaleva a una condanna a morte. I nazisti, che lo avevano scelto per ricoprire il ruolo di responsabile, non erano certo interessati alle suppliche degli ebrei soggetti ai suoi capricci. Così, il suo potere e la libertà di pretendere favori sessuali finivano per essere praticamente illimitati.

Le testimonianze di altre vittime, che l’autrice incontrò nel ghetto di Lodz o che rintracciò dopo l’Olocausto, aiutarono a convalidare i suoi racconti e a dimostrare quanto estesi fossero stati i crimini di Rumkowski. Come direttore dell’orfanotrofio di Lodz prima della guerra, aveva abusato regolarmente dei bambini e delle bambine che gli erano stati affidati. Come responsabile del ghetto, aveva chiesto favori sessuali in cambio di buoni per il cibo, incarichi di lavoro e alloggi. Lucille racconta dei vari incontri che ebbe con quest’uomo nel suo secondo libro, Rumkowski e gli orfani di Lodz. Le sue descrizioni sono vivide, di una crudezza insostenibile.

Nell’agosto del 1944 il ghetto di Lodz venne sgombe-rato. Lucille fu deportata ad Auschwitz. Non aveva mai sentito parlare di quel posto fino al giorno del suo arri-vo, e nulla sapeva di quel che vi avveniva. Forse la gio-vane età la salvò dal peggio: dopo poche settimane, i nazisti la spedirono in un campo di lavoro ad Amburgo, sua città natale, per riparare i danni causati dai bombar-damenti nella zona portuale.

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Con il trasferimento a un altro campo di lavoro, ven-ne impiegata nella costruzione di edifici destinati ai te-deschi che erano rimasti senza casa dopo i raid alleati. Nel marzo del 1945 fu trasferita di nuovo, questa volta a Bergen-Belsen, da cui fu liberata il 15 aprile del 1945. Da quel momento, la storia di Lucille prosegue attraver-so un campo profughi, un lavoro con l’esercito inglese per identificare i colpevoli dell’Olocausto, la fuga in Francia, fino all’arrivo in America dove incontrò il ma-rito Dan Eichengreen.

Le opere di Lucille tuttavia – e questo è il loro pregio – vanno molto al di là del semplice resoconto di un’espe-rienza personale.

La conferenza che si tenne allo Stern College di New York, nel 1983, sul tema Le donne sopravvissute all’Olo­causto, viene generalmente ricordata come la prima ad aver posto attenzione alla questione femminile nella Shoah. Curiosamente, le sopravvissute, persino quelle che parteciparono alla conferenza, si sono spesso dimo-strate scettiche davanti alle analisi di genere della propria esperienza. I tentativi di stabilire quanto le cause e gli effetti della Shoah differissero tra gli uomini e le donne agli occhi dei diretti interessati non sono sembrati altro che pose intellettuali. I loro ricordi dolorosi non si con-ciliano facilmente con la teoria e le astrazioni.

Lucille Eichengreen rappresenta una sorta di eccezio-ne alla regola. Se qualcuno ritiene che concentrarsi sul genere significhi banalizzare l’accaduto, spostando l’at-tenzione sul sessismo a scapito dell’antisemitismo, Lucil-le è convinta che solo prendendo in considerazione il genere si possa comprendere l’Olocausto appieno. Rum­kowski e gli orfani di Lodz riesce a mostrare, con un notevole impatto emotivo, quanto l’esperienza di una donna fosse diversa da quella di un uomo: gli abusi

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sessuali che le donne patirono a opera di Rumkowski furono frequenti, e semplicemente spaventosi. Altri so-pravvissuti avevano già raccontato casi simili, ma si era-no sempre concentrati su quel che era avvenuto ad altri, mai a se stessi. Una reticenza, questa, che si può forse spiegare come una sorta di pudore, di vergogna, o con il tipico senso di colpa che arrivano a provare le vittime.

La Eichengreen, al contrario, ha avuto il coraggio di parlare di quanto ha vissuto personalmente. Un coraggio doppio, richiesto per scrivere Rumkowski e gli orfani di Lodz: quello di narrare i crimini compiuti da un altro ebreo, e di svelare tutta la propria umiliazione e tutti gli orrori dei quali fu vittima.

Rumkowski e gli orfani di Lodz rappresenta una sfida ai capisaldi della cosiddetta letteratura dell’Olocausto: il predominio dell’esperienza maschile e l’idea errata che quanto vissuto dalle donne fosse identico a quanto vis-suto dai sopravvissuti uomini. Eppure la pubblicazione di nuovi e documentati studi sul tema delle donne e l’Olocausto dimostra come l’approccio di genere sia or-mai sempre più accettato. Sì, il genere faceva la differen-za, e non si può non concordare con quanto affermò Joan Ringelheim alla conferenza del 1983: se è vero che metà delle vittime dell’Olocausto furono donne, «in no-me dell’Olocausto e di tutte le persone che vi furono coinvolte, come potremmo non parlare di donne?» È questo il compito che Lucille Eichengreen e tante altre sopravvissute e studiose hanno deciso di assumersi.

I riconoscimenti che la Eichengreen ha ricevuto per i suoi libri sono assolutamente meritati. Le sue opere, al-cune delle quali tradotte in tedesco, appaiono in varie antologie. La «Kirkus Review» ha definito Dalle ceneri alla vita «il più significativo libro di memorie sull’Olo-causto, notevole per la coerenza tra lo stile della narra-

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zione e il tema trattato... una miscela abile, drammatica ma mai sentimentalistica, di introspezione e di azione». Nel 1994, Dalle ceneri alla vita venne selezionato dallo «School Library Journal», tra altri millecinquecento can-didati, come uno dei tredici migliori libri per giovani adulti. A proposito di Rumkowski e gli orfani di Lodz, il «Publisher’s Weekly» ha affermato: «La Eichengreen lan-cia contro Rumkowski un’accusa che sembra impossibile smontare... La descrizione secca e agghiacciante dei suoi abusi sessuali fornisce il più egregio dei resoconti riguar-do alle difficoltà materiali ed emotive vissute nel ghetto, capaci di rendere praticamente impossibile la sopravvi-venza della dignità umana. L’autrice ci fornisce un’imma-gine perfetta di tutto lo sfruttamento e la falsità che mi-navano ogni relazione intima all’interno del ghetto.»

Ho avuto il privilegio di lavorare come editor della prima stesura di Le donne e l’Olocausto. Per me si trat-tò di un autentico onore, perché sono convinta che que-sto libro costituisca una risorsa preziosa tanto per gli studenti che per gli esperti di Olocausto. Ogni capitolo, tra i tanti – più di una dozzina – che compongono l’ope-ra, racconta la storia di una donna diversa, vittima degli orrori del Terzo Reich. Sono le storie che Lucille ricorda: una madre che guarda sua figlia morire; una guardia nazista di buon cuore; una pericolosa relazione lesbica; una coppia rifiutata dagli altri ebrei per essersi conver-tita al cristianesimo; una relazione disfunzionale tra fra-tello e sorella; una coraggiosa dottoressa di Auschwitz; una donna coraggiosa, condannata ai lavori forzati, che si rifiuta di lasciarsi andare. E, tra le altre, in una prosa secca e toccante, Lucille racconta anche di Sala, sua madre, in fin di vita su un letto del ghetto.

Le qualità della Eichengreen come scrittrice sono mol-tissime: sa cogliere il nocciolo, l’essenza delle cose e,

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senza mai mettersi a far prediche, lascia che essa si rive-li con tutto il suo carico umano e i suoi problemi mora-li. Gli studenti mi dicono spesso che, una volta iniziato a leggere uno dei suoi libri, rimangono svegli tutta la notte per finirlo. In più, Lucille scrive con l’autorevolez-za della testimone oculare, un valore che presto spetterà solo alla pagina scritta e ai documentari filmati, visto che le fila dei sopravvissuti si assottigliano drammaticamente ogni anno. Lei è una di loro, una sopravvissuta che ha voglia di raccontare la propria storia. Con i primi due libri, e ora con quest’ultimo, Lucille ha condiviso i suoi ricordi e ha saputo renderli delle lezioni per il mondo intero.

elizabeth baer

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LE DONNE E L’OLOCAUSTO

a Barry, Martin e Michelle

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Le cicatrici ci ricordano dove siamo stati.Solo chi è morto può dimenticare.

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PREFAZIONE

Sopravvivere al ghetto di Lodz, ad Auschwitz, a Neuen-gamme e a Bergen-Belsen fu quasi un miracolo. Avevo otto anni e vivevo ad Amburgo, in Germania, quando Hitler salì al potere. Avevo vent’anni quando la guerra finì. Dodici lunghi anni di orrore, di privazioni, di umi-liazioni, di fame: era stato questo il tributo pagato dalle donne, dai loro mariti e soprattutto dai loro figli.

Le statistiche riguardo al numero delle donne e degli uomini rinchiusi nei campi non sono accurate né facil-mente stilabili, vista la lacunosità dei registri. Gli storici non sono sicuri di quante persone fossero già state fatte prigioniere allo scoppio della guerra, dopo la presa del potere di Hitler nel 1933, né tra il 1940 e il 1941. Ben-ché si conosca il numero totale dei sopravvissuti, tale cifra non fa distinzione tra gli uomini e le donne, ed è ugualmente imprecisa.

Molti dei libri di memorie sull’Olocausto – almeno fino a una quindicina d’anni fa – furono scritti da so-pravvissuti maschi. Forse le donne erano riluttanti a rac-contare il passato, o forse gli editori non credevano alla validità dei loro ricordi: le donne erano considerate inaf-fidabili, poco obiettive, poco sincere. Ora, grazie agli studi di genere e alla consapevolezza femminile, gli edi-

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tori sono arrivati a capire che le nostre esperienze sono altrettanto valide, altrettanto importanti, e allo stesso tempo estremamente diverse, sotto molti aspetti, da quel-le degli uomini.

Se ripensiamo al passato, dobbiamo ammettere che sia gli uomini che le donne furono soggetti a varie forme di abuso sessuale. Accettarle, sottomettersi, significava spes-so ricevere un po’ di cibo in più. Dovremmo condanna-re queste persone? Ovviamente no! Piegandosi davanti a privazioni fisiche e mentali, così come agli scambi ses-suali, tutto era possibile. Nei campi femminili c’erano stupri, ma c’erano anche prestazioni erotiche concesse in cambio di una fetta di pane o di una patata. Sapevamo, vedevamo, sentivamo, ma non ne parlavamo mai. Erava-mo disperate, e perciò ce ne stavamo zitte.

Le donne in Europa, durante gli anni trenta e anche oltre, erano cittadini di seconda classe. Lavoravamo co-me infermiere, segretarie, insegnanti, domestiche, ma era impensabile vederci a capo di un ufficio, di una fabbri-ca o di una squadra di lavoro.

Eppure, nel ghetto di Lodz, tra il 1940 e il 1944, all’improvviso tutto ciò cambiò radicalmente. Per la pri-ma volta, come se nulla fosse, le donne si ritrovarono alla guida di fabbriche, uffici, cucine e di ogni altro settore della vita del ghetto. Erano donne capaci, intel-ligenti, operose e ambiziose. Volevano sopravvivere. Vo-levano poter decidere di almeno una parte della loro vita, in condizioni che erano ben lontane dall’essere nor-mali. E ci riuscirono. Persino gli uomini, cautamente, controvoglia, dovettero ammettere che le donne che rag-giungevano qualche posto di comando si rivelavano ef-ficienti, esperte e capaci di lavorare al meglio.

Esattamente come gli uomini, anche loro facevano dei favoritismi, ma i loro protetti erano in genere dei maschi:

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