L'ossessione e il sogno

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Walter Serra, romance. Questa storia racconta di un gioco di specchi. Di come la vita talvolta diventi all’improvviso assurda, insostenibile, truce. Quante volte si vorrebbe riavvolgere il nastro del nostro destino per tornare indietro, per evitare gli errori o un guaio che ci ha rovinato la vita? I personaggi di questo romanzo vivono di sogni, pulsioni e ossessioni. Sono ribelli, vittime o carnefici, a seconda dell’occasione di mostrarsi. Se leggere è insinuarsi in quei corpi disincarnati, vestire i loro abiti, immaginare quel che i loro occhi vacui vedono fra le righe di una pagina stampata, facile sarà immedesimarsi nei loro tormenti, farli nostri e, alla fine, partecipare a quel mutamento che è redenzione e dannazione allo stesso tempo, perché nella vita si concede sempre qualcosa in cambio di qualcos’altro. Come ogni respiro è vita e morte assieme.

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In uscita il 30/11/2015 (15,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine dicembre '15 e inizio gennaio '16

(4,99 euro)

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WALTER SERRA

L’OSSESSIONE E IL SOGNO

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L’OSSESSIONE E IL SOGNO Copyright © 2015 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-928-9 Copertina: un battente del portone d’ingresso della villa – foto

dell’autore

Prima edizione Novembre 2015 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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Un omaggio a Silvi Marina, Silvi Paese e all’Abruzzo

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Prefazione dell’autore In questa storia racconto di un gioco di specchi. Di come la vita talvolta diventi all’improvviso assurda, insostenibile, truce. Quante volte si vor-rebbe riavvolgere il nastro del nostro destino, per tornare indietro, evi-tare gli errori o un guaio che ci hanno rovinato la vita? Per stare meglio, per stare meno male. Oppure, per curare un’ossessione che ci sta logo-rando. Soldi, potere, amore, odio, invidia, prevaricazione. Sentimenti e pulsioni che ci governano, tanto per citarne alcuni, per i quali perdiamo talvolta il lume della ragione o perlomeno la serenità. Perché, diciamo-celo, un’ossessione – grande o piccola, grave o governabile – ce l’abbiano tutti. Bello, sarebbe spingere un pulsante e modificare tutto, avere altre occasioni, ravvedersi, passare di sogno in sogno per fuggire la realtà, sovvertire l’ordine delle cose. Già, ma se non siamo davvero noi, a scegliere? Se altri hanno già il dito premuto sul nostro destino, noi, che possibilità abbiamo di intervenire? Dipende, quindi, da dove punta il dito… I protagonisti di questa storia vivono una grande storia d’amore, ma an-che sogni, pulsioni e ossessioni. Sono ribelli, vittime o carnefici, a se-conda dell’occasione di mostrarsi. Se leggere è insinuarsi in quei corpi disincarnati, vestire i loro abiti, immaginare quel che i loro occhi vacui vedono fra le righe di una pagina stampata, facile sarà immedesimarsi nei loro tormenti, farli nostri e, alla fine, partecipare a quel mutamento che è redenzione e dannazione allo stesso tempo, perché nella vita sem-pre si concede qualcosa in cambio di qualcos’altro. Come ogni respiro è vita e morte assieme.

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Ringrazio in particolare l’amico scrittore, compositore e jazzista Raffa-ele Olivieri di Monterotondo di Passirano (Brescia), instancabile reviso-re e cesellatore delle mie bozze e l’amico Palmucci Stefano, poliedrico commediografo sammarinese, prezioso suggeritore dalla buca del regi-sta per questa storia del teatro dell’assurdo (ma non troppo).

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I La sera sta calando in fretta e già inizia a dissiparsi il ricordo del pome-riggio trascorso a passeggiare sulla spiaggia semi deserta, guardati a vi-sta dalla sagoma della Torre del Cerrano bruciata dal sole. Ermanno controlla dallo specchietto retrovisore il volto di sua moglie, intenta a badare alla bambina che sta lottando per non addormentarsi. Ha gli occhi stanchi e arrossati per la brezza di mare, pure sorride grata per quelle ore passate assieme a spingere il passeggino, a guardare lo stesso panorama, scherzare per un volo di gabbiano schizzato a pochi passi. Ermanno sa di essere importante per Claudia, ora ancora di più dopo la nascita della bambina. La sua, più che una grande storia d’amore, era stata la storia di una grande assenza, per via del suo lavoro che lo porta spesso lontano, all’estero. Distoglie lo sguardo, per non fare trasparire quella malinconia che da qualche tempo accompagna i suoi discorsi, circa un futuro diviso a me-tà fra lavoro e famiglia, come un bicchiere mezzo pieno che non ti de-cidi mai a bere. Claudia lo vuole meno impegnato col lavoro e più vicino a lei e a Mar-tina, Ermanno non è intenzionato a perdere l’occasione che dopo anni di gavetta lo ha portato a dirigere una sede in Germania della multina-zionale per la quale lavora. Due bicchieri mezzi pieni, l’uno antitesi dell’altro, entrambi con una bevanda amara da inghiottire. Per questo ha sempre rimandato la deci-sione e ormai la bevanda si sta guastando. Ben presto altri avrebbero deciso per lui e non sarebbe più stato artefice del proprio destino. Lavo-ro o famiglia, cos’avrebbe scelto? «Non volevi fermarti a quell’asta di mobili antichi?». Claudia sa come toglierlo dall’imbarazzo, è sempre un pensiero davanti a lui. «Sì, ma ormai sarà chiusa... ». «Ci passiamo davanti, basta rallentare». «Sì, ma la bambina…». «S’è addormentata, io resto in macchina, tanto non ne capisco nulla». Ecco, come sempre Claudia s’è imposta. Sa farsi amare, altrettanto sa farsi odiare. In quei momenti Ermanno si sente una pedina, e come una

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pedina si può muovere solo se qualcun altro lo fa al posto suo. Andare a quella mostra, dove sperava di trovare finalmente quello scrittoio che avrebbe completato l’arredo del suo studio, ora si era trasformata in una concessione di Claudia e non più una sua decisione, l’appagamento di un suo desiderio. Lei, nel gratificarlo, nel dargli attenzione, aveva ucci-so l’ultimo dei suoi sogni. La villa si trova lungo la statale, all’inizio di Silvi Marina per chi scen-de in direzione di Pescara. La si nota perché è proprio sulla strada, con sterpaglie al posto dello steccato, piccioni in luogo di persone sui bal-coni, scuretti pendenti invece di panni stesi. Pure quella vecchia villa conserva intatto il suo fascino, magari un poco dimesso, ma reso evi-dente dalle formelle del sottotetto, le finte colonne che reggono la trifo-ra all’ultimo piano, e quel timido puntale parafulmini, piccolo e discre-to, che pretende ancora, dopo tanti anni e col cavo tutto arrugginito, di sfidare il cielo per proteggere la casa e i suoi abitanti. Ermanno non fa caso a nessuno di quei particolari, svolta bruscamente a destra ed entra nel parco della villa, malamente ripulito da erbacce e rampicanti per fare posto a un piccolo parcheggio. Si gira verso Claudia per dire qualcosa, ma è lei a impartire le istruzioni. «Va, io resto qui. Se trovi un mobile che ti piace, piacerà anche a me». Ermanno stringe le labbra. In altri tempi sarebbe potuta passare come una smorfia di compiacimento, ma ora a malapena maschera il dissapo-re scendendo in fretta dall’auto. Si guarda attorno e vede lo sfacelo del tempo che ha dato una mano all’incuria dell’uomo. Palme morte per l’attacco di insetti nocivi, pini smembrati dalla neve, grondaie corrose, sterpi e roveti nati un po’ ovunque. Ma su tutto nota il cartello che avvi-sava della vendita: asta ore quindici. Sono ormai le diciannove, nessu-na speranza di accaparrarsi qualcosa d’interessante. Dall’auto, Claudia gli fa cenno d’entrare, di affrettarsi. Lo vuole solo incoraggiare, ma Ermanno percepisce sempre di più il distacco che cre-sce ogni ora più prepotente. Non ama più la sua donna? Non doveva sposarsi? Che fare, adesso? Tre gradini per accedere alla villa dall’ingresso secondario, tre doman-de senza risposta né ritorno. Dentro, l’atmosfera è inaspettatamente diversa, confortevole. Superato un piccolo disimpegno, Ermanno si ritrova in una saletta che sembra fungere da spartiacque della villa: a sinistra uno scalone accede con rampe ad angoli retti al piano nobile, a destra una grande porta spalan-

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cata lascia intravedere un vasto ambiente. Attorno, mobili d’ogni tipo disposti a file strette, ognuno con un cartello su cui sta un numero e un prezzo. Il soffitto è affrescato a moresche e stona alquanto col degrado degli infissi e con la polvere che s’intravede lordare i vetri alle finestre. Ermanno prende a vagare fra un comò stile impero e un divanetto dormeuse, poi si sofferma ad ammirare una coppia di poltrone Luigi XVI poste sotto una specchiera dalla cornice dorata. Un armadio a giorno cattura la sua attenzione, ne potrebbe trarre una libreria per i suoi romanzi preferiti, ma in quel momento un colpo di tosse lo coglie alle spalle, discreto quanto perentorio. «Desidera?». L’uomo è quasi più largo che alto, occhiali dalla montatura d’oro, baf-fetti da topo e una stilografica che sbuca dalla tasca del panciotto. Per fortuna la cartella che tiene fra le braccia è di plastica di un rosso acce-so, altrimenti l’avrebbe potuto scambiare per un fantasma del secolo scorso. «Chiedo scusa, avrei voluto passare prima per vedere i mobili, ma ho fatto tardi sulla spiaggia». «In effetti, è tardi. L’asta s’è conclusa più di un’ora fa, sono andati via tutti. Abbiamo aggiudicato la maggior parte degli arredi, ma è rimasto qualcosa, se vuole dare un’occhiata e fare un’offerta, ho ancora mezz’ora prima che passi il custode a chiudere la villa. Il mese prossi-mo battiamo i dipinti, se le interessa. Tenga d’occhio gli avvisi nella sala comunale». L’uomo gli fa cenno di seguirlo ed Ermanno gli tiene dietro nell’altra sala. «Ecco, è rimasto un armadio di noce massello – alza un occhio per scorgere la sua espressione, poi prosegue – Un tavolo fratino, una ma-dia di olmo, uno scrittoio…». Alla voce scrittoio Ermanno ha come un guizzo, il sobbalzo che compie un uomo destato all’improvviso. Sta cercando l’arredo giusto da mesi, non fosse mai che… «Ah, il signore è interessato allo scrittoio. È un bel pezzo, vedrà. Non so perché sia rimasto invenduto, forse sarà dipeso dal fatto che ha due cassetti chiusi e manca la chiave. Però un bravo artigiano potrebbe…». L’uomo continua a ciarlare, ma Ermanno non lo ascolta più. Lo segue aggirarsi fra le file dei mobili e si blocca dietro a un armadio, invenduto pure lui, a fissare quell’oggetto annunciato. In effetti è un bel mobile, una ribaltina intarsiata, due cassetti grandi sotto il piano di scrittura, va-ri scomparti ricavati nell’incavo interno. Da restaurare e ripulire, ma già

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Ermanno se lo vede accanto alla finestra col suo portatile poggiato so-pra e i cd infilati negli incavi al posto delle scartoffie dell’epoca. «Quanto?». «Duemilasettecento euro. Prezzo finito, non c’è più asta». Ermanno lascia scivolare la mano sul legno laccato del mobile. Ne ri-cava una sensazione di piacere e una stilla di polvere sui polpastrelli. «Non li vale. Il restauro non ne costa meno di mille e non so quei cas-setti come andranno a finire, dal momento che nessuno s’è preso la re-sponsabilità di aprirli». L’uomo fa una smorfia. «Senta, non meno di duemila, e si prenda quel tappeto persiano là so-pra. È antico per quanto è consumato, e glielo assicuro, è molto consu-mato. Sotto la ribaltina farà ancora la sua bella figura». «Se mi aggiunge una di quelle poltrone là in fondo, le faccio l’assegno». «No, no, quelle sono vendute. Le darò una seggiola di legno con i brac-cioli. Venga gliela mostro…». Tornano nella sala dove si è tenuta l’asta. La seggiola sembra scolpita a mano e ha i cavicchi dello schienale torniti. «Non male. Concludiamo? Per la consegna quanto tempo prevedete?». «Mi occorre un suo documento, poi preparo la liberatoria per la conse-gna a domicilio, penso fra una decina di giorni al massimo. Lei ha fatto un affare!». «Direi che è il proprietario della villa ad aver fatto un affare. Ha vendu-to quasi tutto». Ermanno gli porge la patente e si appresta a compilare l’assegno. L’uomo prende il documento e siede alla scrivania per copia-re i dati. «La villa appartiene allo Stato e, ne sono certo, il vecchio proprietario, fosse ancora vivo, non si sarebbe mai separato dalle sue cose. Mi da-rebbe dieci minuti? Ho diverse schede aperte e rischio di fare confusio-ne». «Va bene. Posso fare un giro?». «Non salga di sopra, però. La villa non è assicurata!».

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II Ermanno torna nel salone, occhieggia i mobili, ma prepotente sente sa-lire il richiamo verso il proibito. Il banditore è preso dalle sue scartoffie e non si accorge del passo leggero che lo conduce su per la scalinata che s’inerpica sinuosa addossata al muro, dove una passatoia sfilacciata attutisce i suoi passi frettolosi. Si blocca davanti a una porta, allunga la mano ma sente come una voce, una vibrazione che gli nega l’accesso. Arretra spaventato e s’appoggia a una porticina lì discosta, che si spa-lanca e mostra la ringhiera di una scaletta a chiocciola che sale ancora più su. Ermanno allunga il collo. Sopra s’intravede della luce. La scala è di marmo, sembra solida. Appoggia un piede, saggia i gradini impol-verati. Inizia a salire, circospetto. Giunge alla torretta che dà sulla stra-da. Sembra un piccolo appartamento mansardato, suddiviso in quattro camerette disposte a croce con la scaletta al centro del minuscolo balla-toio che le divide. Sono tutte semi vuote, tranne quella che dà sulla strada. È uno studio, a giudicare da uno scrittoio e dalle carte sparse a terra. Una seggiola è piazzata di lato, con un cuscino consumato sopra. Pare che attenda ancora il ritorno di chi ha interrotto il lavoro, anche se la macchina da scrivere non c’è più, ne rimane solo l’ombra più scura sul piano del mobile. Una piccola libreria conserva ancora qualche vo-lume ormai sfaldato. Il tetto ha delle perdite e sul pavimento s’è deposi-tato un sedimento biancastro, come latte disseccato. Dal vetro di una delle tre finestre affiancate occhieggia un piccione. Ha fatto il nido fra l’infisso e lo scuretto, tanto che mezza finestra è riempita di escrementi. Si avvicina all’anta di destra, prova ad aprirla. Sotto di lui scorrono le auto lungo la statale, poco più in là un condominio di cinque piani ripa-ra la vista dalla ferrovia, che corre a meno di trenta metri dalla villa. Sulla sinistra, in lontananza, si scorge come una strettoia fra i pini che costeggiano la strada e a Ermanno pare di scorgere il culmine della Tor-re del Cerrano. Una lingua di mare corre all’orizzonte, di sicuro vent’anni prima si vedeva anche la spiaggia, senza i palazzacci moderni cresciuti nel frattempo. Richiude, non c’è altro da vedere. Raccoglie un foglio di carta. È scritto a macchina, denota errori grossolani e ribattute di lettere. Senz’altro si

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tratta della minuta di un qualcosa che non ha tempo né voglia di legge-re, sentenzia. Lo posa sul tavolo. Torna al pian terreno, i dieci minuti stanno scadendo. Ha intenzione di dare un’altra occhiata al mobile che ha comprato, ma fatica a ritrovarlo nel dedalo di cose ammassate. Facce severe lo spiano dai dipinti appesi ai muri. Facce scure, baffute. Niente donne. Si ritrova la strada sbarrata da un pesante tendaggio. Ne scosta un lembo, dietro c’è una porta. Ab-bassa la maniglia e apre. Rimane bloccato sul posto per la sorpresa. Dentro c’è un camino acceso, legna che crepita fra fiamme voraci. La stanza sembra ribollire, l’aria è secca e sa di fuliggine. Di fronte al ca-mino c’è una poltrona dallo schienale molto alto. Attorno, è una proces-sione infinita di libri e volumi, molti sono rilegati in pelle. Allineati su mensole, dentro scansie a giorno, ammucchiati su tavoli e davanzali, accatastati a terra, rovesciati. La stanza è illuminata dalle finestre che recano ampie vetrate, slanciate e dalla punta a ogiva. Poi c’è il riverbe-ro del fuoco e la luce tremolante di diversi candelabri che proiettano i loro bagliori dalla mensola del camino. Anche qui quadri alle pareti e ritratti. C’è un’intera facciata ricoperta di fotografie color seppia. Dalla sua postazione, Ermanno riesce a scorgere soldati in abito coloniale, nelle posture più disparate. Anche lì i libri impilati raggiungono il me-tro da terra, colonne erette a sorreggere un tempio del sapere. Ermanno rimane col fiato sospeso. Crede di avere scoperto l’antro se-greto di uno studioso, la cella di una mente illuminata che ha bandito la propria esistenza in favore della conoscenza. Innumerevoli volumi sono infatti aperti e carte e pergamene mostrano i lembi macchiati per la con-tinua consultazione. Ha paura che quello studioso rientri da un momen-to all’altro, fa per ritrarsi finché è in tempo. Ma una voce flebile lo blocca sul posto. Proviene dalla stanza, più precisamente dalla poltrona, ma non ne vede l’occupante. «Vieni avanti, figliolo. È tanto tempo che nessuno s’interessa più a me e ai miei studi». «Chiedo scusa, non volevo disturbarla». «Sciocchezze. Il Sapere deve essere disturbato. Si chiede forse scusa a un filosofo al quale ci si rivolge per un consulto?». Ermanno cammina dei passi verso la poltrona. Pian piano inizia a intra-vedere delle gambe nascoste da una coperta, dei piedi infilati dentro pantofole di cuoio. Infine, appare una mano ossuta e un volto che sem-bra quello di un moribondo. Smunto, picchiettato di macchie senili, con due occhi infossati ma vigili, sempre in movimento. Due occhi neri ma brillanti per le fiamme che vi si riflettono.

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«Vedi questa villa? Cade a pezzi, come me. Per anni l’ho trascurata, immergendomi nei miei studi, nelle mie inutili ricerche. Dovrei dire nella mia ossessione. Ma non voglio annoiarti, cosa posso fare per te?». «Oh, nulla. Ero qui per l’asta, e ho comprato uno scrittoio. Spero che non le dispiaccia». «Credimi – sussurra il vecchio – È l’unico mobile che darei via volen-tieri. Avvicinati…». Ha gli occhi profondi come pozzi bui, la voce gli diventa carica di mi-stero. Ermanno si sente percorrere da un fiotto di adrenalina, arretra pieno di inquietudine e teme di non riuscire più a restare in equilibrio…

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III

«Signore, signore, mi sente?». Ermanno la sente, quella voce. Ma sembra provenire da un sotterraneo, per quanto è distante e fredda. Una mano lo ghermisce a un braccio e lo scuote. «Signore, si sente bene?». Ermanno torna in sé con un lungo respiro. È ancora nella stanza dei li-bri, abbandonato sulla poltrona sfasciata, i volumi sparsi in giro. Ma non c’è più fuoco acceso, i candelabri giacciono sotto coltri di polvere e ragnatele e, soprattutto, la poltrona è vuota. Sporca, lacera e vuota sotto di lui. Il banditore lo guarda diritto negli occhi, poi riprende a blaterare. «Si rende conto, signore, che non sapevo più cosa pensare? È mezz’ora che la cerco in tutta la casa, sua moglie è molto preoccupata!». «Chiedo scusa, mi ero perso, per fortuna che mi ha trovato lei!». L’uomo lo guarda stranito. La villa è grande, ma proprio non lo crede possibile. «Tenga, la sua patente e la bolla di consegna. Beninteso, dopo che l’assegno sarà incassato» precisa. «Vorrei dare un’ultima occhiata allo scrittoio, uscendo». «Venga, facciamo presto!». Lo scorta veloce e sicuro fra le fila di mobili e glielo indica. Ermanno lascia scivolare ancora i polpastrelli su quelle lacche delicate. Nuova-mente percepisce un vago piacere in quel contatto. Osserva la sua mano per comprenderne il motivo e si ritrova i polpastrelli schizzati d’inchiostro. «Peccato per quelle serrature» commenta. «Già. Vedrà, un buon restauratore le risolverà il problema». Ermanno resta pensieroso a fissare quelle piccole aperture e d’istinto si porta la mano al collo. Si ritrova a tenere una catenina che non ha mai saputo da dove gli provenga. Dalla maglietta esce un piccolo oggetto, non è un crocifisso, anche se riluce d’oro. La indossa da quand’era un bambino.

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«Provi con questa…». Si sfila la catenina e porge quella che al banditore appare a tutti gli ef-fetti una chiave. L’uomo guarda lui, poi la chiave. La afferra e la infila nella prima serratura che gli capita a tiro. Entra, ma non gira che a me-tà. «Eppure è lei, senti come scorre! La serratura è bloccata, proviamo l’altra... Niente da fare!». L’uomo si fissa negli occhi di Ermanno, non serve che faccia la domanda cui chiede risposta. «Ce l’ho da così tanto tempo… È il mio portafortuna!». Ermanno non è molto bravo a mentire, ma l’uomo non ha più tempo per starlo a sentire. «Domani porto del lubrificante e vedo se riesco ad aprire. Le farò sape-re». Ermanno sta per borbottare qualcosa, ma l’uomo prende a lamentarsi che è tardi e lo mette alla porta. E s’è tenuto la chiave. «Domani, se vuole torni domani. Adesso è tardi, molto tardi e devo an-cora completare la redazione del verbale d’asta!». Chiude malamente il portone dopo che l’ha fatto uscire. Fuori sta dav-vero calando la sera, ma è nell’auto che si agita un temporale: Claudia e la bambina che frigna. Ermanno sospira: per ogni cosa bella che la vita ci regala c’è anche un prezzo da pagare. Allunga il passo e si prepara a pagare il suo.

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IV Sono trascorsi tre giorni da quel momento. Ermanno è tornato a casa, le ferie sono finite e lui deve tornare al lavoro. Sono stati tre giorni diffici-li, Claudia ha montato un broncio che stenta a mandare via. E che s’era preoccupata non vedendolo, e il banditore non lo trovava, e la villa a-veva dei solai pericolosi, e la bimba piangeva che aveva fame e lui non tornava. Insomma, un elevato prezzo da pagare. Ermanno si guarda allo specchio. Ha il volto abbronzato e i capelli ne-rissimi. Per quanto non sia un atleta, non ha un filo di grasso e una mo-derata muscolatura gli consente di riempire le giacche e di fare bella fi-gura. Sa che gli rimangono meno di ventiquattro ore da stare in fami-glia, poi partirà per Stoccarda, per almeno due settimane. Peccato, non assisterà alla consegna dello scrittoio. Puntuale come un castigo divino, squilla il cellulare e la voce del bandi-tore giunge per portare una qualche notizia, che subito non si preannun-cia buona. «Signor Chiari? Sono Giuseppe Finimenti, il banditore d’asta che ha conosciuto a Silvi Marina giorni orsono». Ermanno è infastidito da quell’inutile presentazione, ma ancora di più dalle occhiate furenti di Claudia, che ha accolto il nuovo acquisto come un segno di discordia fra di loro. «Mi dica, è tutto a posto? State spedendo il mobile?». «Affatto, signor Chiari, affatto. Per prima cosa la informo che siamo riusciti ad aprire i cassetti, quindi la chiave era quella giusta. Peraltro, sono accaduti dei fatti, per cui non abbiamo potuto porre all’incasso il suo assegno e di conseguenza non le spediremo lo scrittoio». Ermanno s’impettisce e prende a inveire contro l’uomo. «Ma cosa significa? Per chi mi ha preso? Io pretendo…». Giuseppe Finimenti, il banditore d’asta che ha conosciuto giorni orsono a Silvi Marina ha come un colpo di tosse, poi prende a balbettare scuse. «Non è come ha inteso, mi creda, nessuno dubita della sua solvibilità, anzi! È che quel che è successo ha costretto il Sindaco ad annullare l’asta. Inoltre…». Ermanno non ci vede più.

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«Non la starò a sentire oltre. Sono le dieci, fra due ore sarò alla villa e se non mi consegnate il mobile che ho regolarmente acquistato con tan-to di ricevuta chiamo la polizia e vi denuncio, Sindaco compreso!». Chiude la telefonata con un gesto rabbioso. Claudia gli afferra il polso, quasi gli pianta le unghie nella carne. «Ma sei impazzito? Stiamo per uscire al parco con la bimba, mica mi puoi piantare qui e andartene dove cavolo vuoi!». «Il parco c’è anche oggi pomeriggio, quello scrittoio no. Ci vediamo più tardi!». Ermanno guarda la moglie con uno sguardo che sono mesi che cova dentro e, per una volta, Claudia s’ammutolisce e abbassa la testa. Due ore all’andata, due per il ritorno, pochi minuti per caricare lo scrit-toio. Che senza di quello non se ne torna indietro. Ma nella mente di Ermanno si ripresenta il volto del vecchio e la solita domanda: da dove proviene quella chiave che si porta al collo fin da quand’era bambino?

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V Ermanno è così agitato che salta l’uscita di Atri-Pineto ed è costretto a proseguire fino a Pescara-Monte S. Angelo. Minuti preziosi perduti per una distrazione, minuti che lo agitano ancora di più. S’immette sulla statale e freme lungo la via trafficata. Code, semafori e tanta gente che tira a far sera, fra una gita in bicicletta e le buste della spesa che sanno di vita, una vita vera che gli manca come l’aria. Su, quand’era sul cavalcavia che attraversa la forra sotto a Silvi Paese, Ermanno aveva cercato di vedere il mare, ma soprattutto la Torre del Cerrano che tanto gli era rimasta negli occhi. Uno scampolo di vita normale con moglie e figlia, prima di riprendere il corso dei litigi, so-spetti e malumori che Claudia riversa da qualche tempo nella loro vita di coppia con sempre maggiore accanimento. Non era andata sempre così. Anni addietro si amavano, la figlia era stata voluta, ma Ermanno un paio di mesi prima della vacanza a Silvi aveva percepito come uno strappo. Accadde un mattino dopo colazione, in quei momenti quando sei tranquillo e rilassato e non ti aspetti un tiro mancino, specie se sta per arrivare dalla tua compagna. «Devi lasciare il tuo lavoro» gli aveva detto Claudia perentoria senza nemmeno buttarla sulla supplica o den-tro una preghiera. «Devi lasciare il tuo lavoro perché io a casa da sola con la bambina non ci resto» aveva aggiunto. Ed Ermanno, solitamente di buonumore e pronto alla battuta, se n’era rimasto in silenzio, con la tazza del caffelatte appoggiata alle labbra. «Non voglio» le aveva rispo-sto. E allora lei aveva gettato il tovagliolo sul tavolo e si era chiusa in camera. Nella camera erano pronti i bagagli per il viaggio in Germania per il nuovo turno di lavoro. Sarebbe dovuto uscire di casa entro un’ora, se non voleva perdere l’aereo. Ermanno aveva terminato di fare cola-zione, si era alzato e si era appressato alla porta. «Claudia, apri. Par-liamo, poi devo andare via» aveva sussurrato attraverso l’uscio. Lei, niente. Forse piangeva, forse aspettava che lui si schernisse a chiederle perdono, che avrebbe fatto tutto quello che voleva lei. E invece Erman-no aveva aperto la porta con una spallata, preso le sue cose e se n’era andato via senza salutarla. Una cosa, sì, le aveva detto: «fai riparare la porta».

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Ermanno entra nel giardino della villa, parcheggia e s’avventa verso il portone d’ingresso. Giuseppe Finimenti, il banditore, eccetera, eccetera, gli si fa incontro, assieme a un giovane. «Signor Chiari, lei ha staccato il telefono, non mi ha dato modo di spie-gare. La prego, si accomodi. Le presento il Sindaco Marinucci Dario, che ha voluto presenziare personalmente al chiarimento». I due si stringono la mano. Marinucci è giovane, avrà una quarantina d’anni. Giacca blu sportiva sopra una camicia bianca senza cravatta, leggermente aperta sul petto e un jeans con qualche toppa sulle cosce. Un sindaco moderno. Questi lo fa accomodare su una delle due poltro-ne Luigi XVI, in un angolo che sembra preparato apposta per loro due. Finimenti si sistema sulla seggiola da scrivania che faceva parte dell’acquisto sfumato. «Prima di arrivare al dunque, signor Chiari, le devo fare alcune doman-de, se non ha nulla in contrario. Mi sono necessarie per capire la que-stione. Lei ha mai conosciuto il vecchio proprietario di questa villa, Vit-torio Emanuele Stornelli?». «No, sono venuto qui solo in occasione dell’asta». «Lei o i suoi familiari sono parenti, oppure amici di Stornelli?». «Posso provare a chiedere, ma nessuno me ne ha mai parlato. I parenti li conosco tutti, nessun Stornelli». «Bene. Com’è capitato a Silvi Marina, per le sue vacanze? Voglio dire, non che non ci si possa venire, ma sono curioso di capire qual è la sua motivazione». Ermanno inizia ad agitarsi, non vede il nesso fra quelle domande e lo scrittoio che vuole portarsi via. «L’anno scorso siamo andati a Vieste. Ma la bambina non tollera lun-ghi viaggi in auto, e giù faceva un gran caldo. Quest’anno abbiamo cer-cato una meta più vicina. Silvi l’abbiamo scelta perché in questa zona la ferrovia si allontana un poco dalla costa e il passaggio dei treni di notte è meno fastidioso. Contento? Vuole sapere altro? Dove metterò lo scrit-toio, dove ho preso i soldi per pagarlo? Eh? Mi vuole spiegare il senso di questo interrogatorio?». «Le chiedo scusa, signor Chiari, capirà tra poco il senso delle mie do-mande. Si tranquillizzi, lo scrittoio è suo. Così come queste poltrone, quello specchio, quei candelabri. Sì, signor Chiari: questa villa divente-rà sua per volontà testamentarie del vecchio proprietario, che l’ha la-

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sciata a lei. Per questo il signor Finimenti ha parlato di annullamento dell’asta: lo Stato aveva posto in vendita degli arredi di cui non poteva disporre. Ci deve capire, signor Chiari, che ci è parso oltremodo strana l’apparizione di quel testamento a favore suo proprio in concomitanza del suo arrivo alla villa!».

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VI Ermanno ci ha messo un po’ ad assorbire il colpo. Intanto, il Sindaco prosegue il suo resoconto. «L’altro ieri il signor Finimenti ha chiamato un restauratore e lo ha pre-gato di aprire quei cassetti. In realtà è bastato qualche spruzzo di quei prodotti miracolosi per sbloccare le serrature. Dentro c’erano dei do-cumenti e il testamento. A questo punto sarebbe interessante capire com’è giunto in possesso di questa chiave» dice rendendogliela. Ermanno si sistema sulla poltrona. Deve dire la verità? Che non sa se ha sognato un vecchio che poco dopo è sparito come un fantasma? Che dalla memoria gli è emerso il ricordo di suo nonno che gliela appende-va al collo? «Non so che dire. La porto come una comune catenina d’oro da quand’ero piccolo. Mai avrei pensato che un giorno mi sarebbe servi-ta». Ermanno cerca di essere naturale, e forse l’agitazione che ancora lo pervade lo aiuta a essere convincente in quella mezza verità. E così si spiegherebbe anche il lascito. Il Sindaco riprende a parlare. «Il testamento ci ha spiazzato…». «Pensi io! – s’intromette Finimenti – Avevo parlato col nuovo proprie-tario della villa e non lo sapevo. Sono rimasto senza parole per…». Il Sindaco gli fa cenno di tacere. «Ho richiesto un parere legale ai nostri avvocati. La villa è passata allo Stato da oltre un anno, pensavo che ormai quel testamento fosse diven-tato carta straccia. Invece, quelle volontà devono essere legalmente ri-spettate e tutto sommato ci è andata bene ad averlo trovato prima di di-sperdere tutti gli arredi. In definitiva, se accetta l’eredità e paga le tasse d’intestazione, le consegniamo le chiavi e la villa è sua…». Marinucci conclude allargando le mani, come a rimettersi alla sua deci-sione. Ermanno accavalla le gambe, si guarda attorno. Vede molte cose di valore, una vecchia casa che avrebbe bisogno di un restauro urgente, la mezza possibilità di cambiare il corso alla sua vita. Claudia si calme-rebbe e lui probabilmente non sarebbe più costretto a fare il pendolare

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fra Fossombrone e Stoccarda, insomma tutto da guadagnarci. «Ma ci sono debiti?» chiede all’improvviso. Finimenti brucia il sindaco sulla risposta. «Naturalmente abbiamo redatto l’inventario, l’ho curato io. Tutto rego-lare e registrato. Solo poste attive, nessuna passività. E comunque, con la pubblicazione dell’inventario presso il Tribunale e non essendosi presentato nessuno, questi risultano scaduti nei termini e quindi sono diventati inesigibili. Beninteso, può far controllare il resoconto». «Bene, credo allora che accetterò. Silvi Marina è una cittadina ancora vivibile. Magari un giorno mi ci trasferisco. Quanto mi costerà l’intestazione della villa?». Finimenti si contorce sulla seggiola e la fa cigolare. «Non proprio una cifra modestissima. Lei non è parente prossimo, le costerà l’otto per cento. – Attende che Ermanno inarchi un sopracciglio per dare la risposta completa. – Più che la villa, il valore sta nel terreno e negli arredi. Non meno di cinquantamila euro». Ermanno fa una smorfia. Non ce li ha tutti quei soldi. Gli scoccia inde-bitarsi e pensa che sarà costretto a vendere qualche arredo, per rifarsi alla svelta. «Cercherò di rimediarli. D’altronde, con nulla non si ottiene nulla». A Ermanno torna alla mente il rientro da Stoccarda dopo la vicenda del-la porta abbattuta. Claudia era docile come un agnellino, la porta era stata riparata e tutto era rientrato nella norma. Per oltre due settimane non c’erano stati altri screzi, poi la donna aveva ripreso le solite lamen-tele, sopite solo alla vigilia della vacanza assieme a Silvi, durante la quale era sembrata un’altra, per quanto sempre possessiva e gelosa da risultare per lui nauseante. «Bene! – conclude il Sindaco – Se passa domani in Municipio dopo le undici le faremo firmare l’atto e le daremo le chiavi. Per il pagamento, le sapremo dare indicazione circa le tempistiche da rispettare». Dal momento che le chiavi le tengono ancora loro, Ermanno conclude che deve accomiatarsi. Saluta e s’avvia verso l’auto. Butta una rapida occhiata in giro, alla facciata della villa, al parco, alle auto che sfreccia-no a un metro dal cancello. In quel momento passa un treno sferraglian-te, ne percepisce chiaramente il peso attraverso l’onda sussultoria che gli giunge al petto. Gli si sgretolano tutte le fantasie, l’eredità gli sem-bra ora un bluff che minaccia ancora di più le sue finanze e la stabilità familiare. Una voce stridula lo richiama mentre sta partendo. È Finimenti che lo rincorre agitando una busta marrone. Giunge trafelato allo sportello.

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«Ci scusi. In un cassetto c’era questo plico sigillato. È indirizzato a lei. Il Sindaco ritiene che non ci sia motivo per trattenerlo ancora. Di nuo-vo, arrivederci». Ermanno ringrazia, poggia la busta sul sedile accanto e lascia la villa. S’avvia verso il paese, gli occorre un luogo fresco e ombroso dove se-dere e riflettere. Riflettere su cosa deve fare, senza commettere errori. Chiamare Claudia, avvisarla di quella bizzarra situazione, pensare a come rimediare i soldi per le tasse di intestazione, che fare della villa, verificare se occorrono dei lavori urgenti, leggere il testamento, farsi dare copia dell’inventario dei beni che Finimenti ha detto di avere pre-disposto. In testa ha solo una grande confusione. Parcheggia lungo il corso, fra i pini che minacciano di franare sulla strada. Storti, spaccati dalle abbondanti nevicate, castrati dagli operai del Comune, infossati nell’asfalto, grondanti di resine per difendersi dall’attacco dei parassiti sulle ferite più fresche. Alcuni sono tricuspidi, altri a forma di cavatappi. Ce n’è uno, poi, che s’appoggia a una casa, lungo e piegato così com’è cresciuto. Eppure, svettano orgogliosi, le radici che rompono i marciapiedi, ondulano l’asfalto, le pigne che ca-dono da dieci metri d’altezza e possono spaccare la testa ai malcapitati, gli aghi che s’infilano nei sandali dei turisti e li costringono a piegarsi per toglierli. Pini che hanno visto scappare i fascisti, dalla spiaggia, dal-le ville e casini che ancora echeggiano delle risate delle donnine di compagnia, dei lamenti di chi invece si è ritrovato legato su una sedia a ingozzarsi d’olio di ricino. Lungo il tragitto che dalla statale lo ha portato in quel luogo, Ermanno ha incontrato Villa Elena, Villa Terry, Villa Marinucci e tante altre or-mai ammodernate o che non hanno cartelli. Ma Ermanno non si accorge di niente, nemmeno della coincidenza col cognome del sindaco con l’ultima villa che ha incrociato. Ha altro per la testa, punta una panchi-na del parco Marconi vicino alla fontana. Passando, nota due pini che sembrano volersi sdraiare sul selciato, piegati dal vento che tanti anni fa li spingeva sulla sabbia. Puntellati e storti, paiono due fionde gigante-sche pronte a scagliare scomode verità sui passanti, loro che in quella piazza hanno visto cose di cui noi umani dovremmo vergognarci. Siede con in grembo il bustone. È di carta spessa, che crocchia sotto le dita. Sul fronte c’è scritto proprio Per Ermanno Chiari, di Fossombro-ne. Personale – Riservata, una grafia leggera, d’inchiostro azzurro. Ermanno lascia scivolare le dita su quella scritta. Luccica, sembra ap-posta da poco, ma l’inchiostro è secco. Morto. Si chiede cosa contenga, spera di ricevere chiarimenti su quella vicenda, sul perché lui in quel

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momento sia lì, su quella panchina, e non sulla via del ritorno a casa, con lo scrittoio nel portabagagli e la vicenda conclusa. Afferra la linguetta del risguardo e cerca di aprire. È incollata bene, no-ta anche i tentativi di qualcuno, forse di Marinucci, che poi ha desistito, altrimenti avrebbe stracciato la carta e violato la volontà del conte. Oc-chieggia l’interno. Trova dei fogli ripiegati e un involto. Lo apre: con-tiene delle chiavi senza etichetta. Una è d’acciaio, robusta, una più pic-cola di ottone. Infine, l’ultima è proprio minuscola. Le rimette all’interno e prende le carte. Escono per prime delle fotografie e una scivola a terra. Rappresenta una ragazzina scura di pelle, è tutta nuda, adagiata su un letto e sembra fare le moine al fotografo, per adescarlo. La mette subito via, gli pare di essere spiato e quella vecchia foto in bianco e nero lo spaventa. Altre immagini sono ancora più datate, dello stesso colore di quelle appese alle pareti dello studio. Già, ma in che epoca le ha viste? Quando c’era il vecchio erano illuminate dal camino acceso e dai candelabri. Poco dopo, tornato in sé col banditore che lo richiamava, tutto era diventato scuro e impenetrabile e quelle immagini non si vedevano più. Le guarda con attenzione. Non riconosce nessuno, sembrerebbero sol-dati al fronte Abissino nel marzo 1936, a giudicare dalle note apposte sul retro. Sono in posa davanti alle tende dell’accampamento, oppure su un’altura, sul greto di un fiume in secca, dietro due corpi che dalla po-stura sembrano morti ammazzati e quelli invece ridono. Si chiede chi di loro sia il conte, nessuno riconduce ai lineamenti del vecchio visto o sognato nello studio. Infine passa ai documenti. C’è una lettera, vergata con grafia minuta, precisa, senza svolazzi. È indirizzata a lui e datata 3 dicembre 1991. Caro Ermanno. Se sei tu a leggere, prosegui pure. Se altri hanno osato profanare la mia volontà aprendo in tua vece, che siano maledetti. Se solo conoscono la villa e le sue dicerie, se ne saranno astenuti. Perché, devi sapere, sulla villa grava una specie di maledizione. I molti errori miei e dei miei avi devono avere irritato qualche santo o qualche dia-volo. Da che io ricordi o che mi sia stato raccontato, nessuno dei miei predecessori è morto di vecchiaia e a malapena sono riusciti ad avere un unico figlio maschio, per proseguire la stirpe e non perdere la villa. L’ultimo, io medesimo, nemmeno quello. Sono condannato a morire senza eredi, dunque, e questa villa finirà in mani forestiere. Già qual-cuno mi ha chiesto di vendere, per farci delle palazzine, uno addirittura un albergo. È per questo che ho scelto te, e ti affido questa missione. Ti chiederai come sia possibile che tu abbia ricevuto un’eredità da uno

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sconosciuto. È così e non è così allo stesso tempo. Io conoscevo tuo nonno, siamo stati assieme in Africa durante la campagna d’Abissinia. Io comandavo un battaglione e lui era il mio attendente. Dopo la guer-ra ci siamo persi di vista, ma non mi sono mai dimenticato del suo e-roico gesto: mi ha salvato la vita durante un’imboscata ed è rimasto ferito per fermare dei ribelli che stavano per tagliarmi la gola e invece mi hanno solo ferito, anche se gravemente. Non penso che ne abbia mai parlato, era troppo discreto per vantarsene. Poi la vita ha fato il suo corso, ho perso mia moglie e la possibilità di riscattare la mia famiglia dai misfatti compiuti, rinchiudendomi in me stesso. Non parlo di me, che di orrori ne ho visti e compiuti parecchi, ma del figlio che non ho mai avuto. Per lui avrei cambiato il corso della mia vita, venduto la vil-la, magari, dato tutto in beneficienza, ma non ne ho avuto l’occasione. Riverso su di te le mie speranze. Ho preso le mie informazioni, la tua famiglia è cresciuta rigorosa e onesta e allora ho visto in te il galan-tuomo che cercavo per dare continuità a questa reliquia di ricordi. Ne ho parlato con tuo nonno e lui, commosso, ha accettato di farmi da complice in questo ultimo inganno al destino. Dovrai sistemare la villa e per quello avrai bisogno di fondi di cui non disponi. In un foglietto allegato troverai le indicazioni e le credenziali per ottenere tutto ciò che ti necessita. Probabilmente dovrai portare una copia del testamen-to per legittimare la tua posizione nei confronti della banca. Oltre al mio conto, hai diritto al contenuto della mia cassetta. La chiave piccola apre una cassetta piccola, dentro troverai le chiavi per aprire quella grande. Non pensare, non giudicare. Usa quelle sostanze per la tua vita e per fare del bene per chi soffre, preferibilmente per le zone dell’attuale Etiopia. Se hai visto le fotografie, capirai il perché di tanti rimorsi, e non tutti sono dovuti per le azioni di guerra… Troverai tanta documentazione sull’Africa, i Corpi d’Armata, usi e costumi degli indi-geni. Ho cercato di capire perché l’abbiamo persa, quella guerra, chi era quella gente, cosa li ha resi così fieri e noi invece tanto debosciati. È stata l’ossessione della mia vita. Cercando, capirai. Non portare fiori sulla mia tomba, ma i progetti per il restauro della villa. Teniamo queste cose fra noi due. Buona fortuna. Cav. Conte Vittorio Emanuele Stornelli

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VII Ermanno verifica il resto della documentazione. Contratti relativi a un conto svizzero, i riferimenti e le credenziali per accedervi. Nulla ri-guardo all’utilizzo della chiave più grossa e di quella piccola. Sembra dorata. Guardandola meglio gli pare identica a quella usata per aprire i cassetti dello scrittoio. Per l’altra, nebbia assoluta. Rimugina sui contenuti della lettera. Sui soldi certo non ci sputa. Ma degli altri discorsi non sa giudicare se si tratta dei vaneggiamenti di un vecchio o qualcos’altro. Eppure, Ermanno dentro di sé è certo di averlo incontrato, il conte, tre giorni prima, benché fosse morto da oltre vent’anni. Naturalmente si dice che non è possibile e cerca di convin-cersi allora che è stato tutto un sogno, un incubo e che la realtà è un’altra. Il tempo passa, su quella panchina il pomeriggio si fa sera, con appena un panino e una birra nello stomaco. Deve chiamare Claudia. A casa non risponde e il cellulare squilla a vuoto. Conclude che è anco-ra arrabbiata con lui. Decide di mandarle un SMS. Claudia, mi è capita una cosa strana, che ci cambierà la vita. Ricordi la villa dove ho acquistato lo scrittoio? Per una strana combinazione diventa mia. Cambieremo vita, cambierò lavoro. Vedrai, tutto muterà in meglio. Rimango fuori per la notte, ti chiamo domani dopo le 11. Ermanno. Avrebbe voluto aggiungere che l’ama, ma non è vero. Certo, la sua vita sta cambiando, ma è Claudia che deve modificare certi comportamenti, poi si vedrà, previsione o non previsione del Cav. Conte Vittorio Ema-nuele Stornelli. Gli arriva la risposta pochi minuti dopo e gli fa davvero male. Sono contenta per te. Sto via qualche giorno dai miei, mia madre ha un poco di febbre. Ti chiamo io. Martina ti manda un bacio. Lei no, lei non glielo manda. I suoi sono in Toscana, dalle parti di Em-poli, se n’è proprio andata via di casa.

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Si deve essere davvero incazzata di brutto…

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VIII Ermanno apre gli occhi nella stanza d’albergo, destato dalla sveglia del cellulare. Per tutta la notte si è voltato e rivoltato nel letto, assediato da negrette lascive che gli si strusciavano addosso e che gli portavano via la villa, mattone su mattone. Lui le rincorreva nel giardino e il conte gli urlava dal terrazzino dell’ultimo piano di impegnarsi di più, poi rideva, rideva di lui e della sua inettitudine. «Nemmeno una puttana riesci a prendere» diceva. Si stropiccia gli occhi, contento di essere tornato alla realtà. L’aria con-dizionata è ancora accesa e la stanza è una ghiacciaia e non più un for-no come quando era andato a coricarsi. Una colazione veloce, il conto, poi lascia l’Hotel Playa e si dirige all’appuntamento. Non ha bagaglio, solo una busta nascosta sotto i tap-petini dell’auto. Ha deciso che non ne parlerà, sono cose fra lui e il con-te. Alle undici meno un quarto è già nei corridoi del Municipio, sta aspet-tando il Sindaco. «Dieci minuti» gli ha fatto sapere attraverso un im-piegato. Alle undici in punto si apre la porta di un ufficio e ne esce una ragazza, che lo squadra per un attimo poi va via. Ermanno ne rimane colpito. Giovane e molto carina. È vestita con un pantaloncino sopra al ginoc-chio e una maglietta che le taglia le spalle lasciandole scoperte. Ne se-gue l’andatura fino a che scompare sul fondo del corridoio, in un mo-vimento di capelli che ondeggiano leggeri. Il Sindaco Marinucci sbuca dalla medesima porta. «Chiari, venga!» lo sollecita un po’ bruscamente. Si stringono la mano, poi lo conduce nel suo ufficio. C’è già Finimenti e un signore che non conosce. Ci pensa il Sindaco alle presentazioni. «Signor Chiari, le presento l’avvocato e notaio Antonio Colasanti, dell’avvocatura del Municipio. Finimenti lo conosce già». Si stringono la mano, poi Chiari prende posto nell’unica poltrona rima-sta libera. Marinucci siede alla sua scrivania, fra la bandiera italiana e il ritratto del Presidente della Repubblica. Gli manca solo la fascia trico-lore.

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L’avvocato dispiega un discreto plico di carte sull’angolo del tavolo, si schiarisce la voce e inizia il suo ufficio. «Signor Chiari, tra poco darò lettura del testamento, ma prima mi lasci dire che abbiamo trovato alquanto bizzarra la sua apparizione in questa faccenda. Come il Sindaco Marinucci ha già appurato, lei non risulta avere mai conosciuto lo scomparso conte Stornelli, né era suo parente. Peraltro, il testamento risulta valido, non contraffatto, né lei avrebbe potuto manipolarlo, essendo custodito in un cassetto con la serratura bloccata. Della quale, peraltro, lei aveva la chiave». «In realtà, ora ne ho due – mostra ai presenti la piccola chiave dorata – Il conte me l’ha fatta avere col plico. C’è anche una lettera, assieme ad altri documenti. Per quanto non abbia intenzione di parlarne, posso al-meno dire che l’eredità ha a che fare con vicende accadute tanti anni fa, ai tempi della guerra d’Africa, alla quale lui e certi miei parenti suoi buoni amici hanno partecipato. Ecco, se questo risponde alla vostra cu-riosità, è quanto posso al momento offrirvi come giustificazione alla bizzarria cui lei ha fatto cenno». Là, una bella stoccata! Ermanno ne è compiaciuto. Pur senza tirare fuo-ri dei documenti inutili ai fini dell’eredità, che non era in discussione, aveva portato una motivazione accettabile e difficilmente confutabile. L’unico dubbio era il contenuto del testamento, che poteva smentire tut-to quanto. «Certo, certo – si affretta a precisare l’avvocato – Questo risponde alla curiosità, non ci sono eccezioni dal punto di vista legale, questo glielo posso confermare. Rimane un certo imbarazzo per l’asta annullata, ma gli aggiudicatari non hanno fatto storie, hanno compreso l’impiccio. D’altronde, gli incassi non avevano ancora avuto luogo. Possiamo dare lettura al testamento e concludere la pratica». L’avvocato Colasanti in-forca gli occhiali e si prepara alla lettura. Prende un foglio protocollo, lo dispiega e cerca una posizione più comoda. La voce, poi, gli esce so-lenne.

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IX «Io sottoscritto Stornelli Vittorio Emanuele, conte di Silvi, nato a Pa-lermo il 3 dicembre 1908 e residente a Silvi Marina a Villa Stornelli, col presente testamento intendo disporre dei miei averi, senza l’assistenza di testimoni salvo che Dio e la mia coscienza. Non ho pa-renti cui lasciare il patrimonio che è stato degli Stornelli da metà del seicento. Non ho amici, tutti mi hanno voltato le spalle per motivi che non è il caso di riportare qui, le malelingue ci hanno ricamato sopra per anni. In questa giornata piovosa, del 3 dicembre 1991, festeggio il mio ottantatreesimo compleanno in piena lucidità e nel pieno possesso delle mie facoltà intellettuali, morali e religiose. Nomino mio erede u-niversale il signor Ermanno Chiari, nato il 26 di luglio del 1983 a Fos-sombrone e ivi residente in via dei Bastioni Meridionali n. 85, ovvero presso diverso domicilio da ricercarsi a cura del notaio che darà lettu-ra al testamento. A lui andranno Villa Stornelli e il suo contenuto, oltre al terreno atti-guo e di pertinenza, nonché ogni altra mia proprietà, avere, diritto e interesse, comunque, dovunque presenti, futuri, riconosciuti e spettanti, a eccezione dell’ammontare residuo del mio conto corrente descritto all’allegato n. 1, relativo all’estratto conto ultimo speditomi dalla ivi indicata banca, da destinare alla parrocchia di Silvi nelle mani del proprio curato. Se in grado, chiedo a Ermanno Chiari di prendersi cura della villa. Che è come una persona, triste e immusonita se non la si considera, gaia e gratificante a volerle bene. Nessuno osi contestare queste mie volontà e non piangete per me, dato che ora sono finalmente in pace. Dio salvi l’Italia e perdoni noi, che abbiamo peccato in nome suo. Redatto di mio pugno nel salone pianterreno di Villa Stornelli a Silvi Marina, addì 3 dicembre 1991. È firmato Cav. Conte Vittorio Emanuele Stornelli». Colasanti depone il testamento sul tavolo. Ermanno lo prende e ne stu-dia la grafia e la firma in calce. Sono le stesse dello scritto indirizzato a lui.

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«È tutto – dice Colasanti – Abbiamo predisposto i documenti per l’accettazione dell’eredità e per l’intestazione della villa. Se vuole con-trollare e firmare…». Ha fretta di andarsene, Ermanno se ne accorge. Anche Finimenti si agi-ta sulla sedia. Mesi, forse anni trascorsi a redigere inventari e schede sul contenuto della villa, e adesso arriva lui e si piglia tutto il malloppo. Ermanno legge i tratti salienti degli atti, poi li firma. Giunti a quel pun-to, lo Stato non avrebbe interesse a fare le cose a metà. «Ecco fatto. Mi occorre una copia dell’inventario dei beni, per rendermi conto appieno di cosa ho ereditato e di cosa posso disporre. Per il pa-gamento delle imposte, posso lasciare un assegno?». Nella mattinata ha consultato la banca. Ha venduto tutti i titoli che ave-va acquistato e non guardava più da mesi, per come erano messi male. Invece avevano recuperato tutto il capitale e si era trovato per le mani quasi tutto il necessario. Per il resto, aveva dato fondo al piccolo affi-damento del conto corrente, fidando sull’accredito dello stipendio e del-le provvigioni, previsto per fine mese, per rientrare almeno a credito. Compila l’assegno con particolare attenzione, lo stacca e lo consegna al notaio. L’uomo si alza e gli stringe la mano. «Buona fortuna!» gli dice. «Ne avrò molto bisogno» commenta Ermanno. Finimenti esce col notaio, deve rimediare l’inventario. Marinucci si sistema sulla poltrona. La pelle geme. È pelle nera, come quella della ragazzina abissina della foto. Ermanno ha i brividi. «Che farà, adesso? Andrà vivere alla villa?» dice con l’evidente intento di prenderlo in giro. Si vede chiaramente che gli scoccia l’averla persa. «Perché no? Magari assumo un paio delle puttane di colore che si ve-dono in giro per il paese per dare una bella pulita, così ripristiniamo gli scenari di qualche decennio fa. Sì, mio nonno è stato un fascista con-vinto, e il suo?». Finimenti entra in quell’istante. Ermanno quasi gli strappa l’inventario dalle mani e lascia la stanza, masticando un buona giornata di contro-voglia. Silvi è diventata all’improvviso una prigione dorata e lui fatica a trova-re la chiave per uscirne. Pensa a Claudia, che l’ha piantato in asso, alla villa, che deve essere messa in sicurezza, e a quel conto in Svizzera, che è bene controllare prima di fare qualsiasi progetto su questo e su quello.

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Intanto, ha le chiavi della villa in mano e cinquantamila euro di meno nelle tasche. Di che essere poveri ma soddisfatti.

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X Ermanno parcheggia davanti al cancello arrugginito. La macchina è metà in strada, si affretta col lucchetto e la catena. Apre i battenti, fa at-tenzione a non sporcarsi e agli spuntoni di ferro. Spalanca e gli sembra di sentire un soffio d’aria alitargli sulla faccia, come il respiro della vil-la. Alza gli occhi per un istante, poi il latrato di un camion che si ritrova stretto contro il posteriore dell’auto lo fa decidere per portarla dentro. Di nuovo osserva il fianco della villa, il terrazzino che è appena un pre-dellino sul cortile, le finestre chiuse, le grondaie che cadono a pezzi. Prosegue verso il retro, curioso di vedere dove il giardino va a finire. Appiccicata alla casa è cresciuta una buganvillea altissima e fiorita. Una piccola costruzione sporge dalla villa. Si capisce che è stata ag-giunta in seguito perché non è intonacata, i mattoni sono a vista. L’arcata sottostante la sorregge come un palchetto e nasconde una porta di ferro che dà su una piccola scalinata d’accesso. C’è un numero civi-co, il 44, e un interruttore attende di essere premuto per accendere un più moderno faretto al neon attaccato di lato, che sopra la porta non c’era spazio. Preme con la mano sulla lamiera verniciata di scuro, che ondeggia, si lamenta ed emette una nota cupa che risuona all’interno, come dentro una casa vuota. Ermanno torna nel giardino. Prova a seguirne i contorni, ma nel retro l’erba non è stata tagliata e si deve fermare. Allunga il collo, il giardino sembra terminare a una trentina di metri dalla villa, contro un terrapie-no e il campo sovrastante. Di lato, ci sono palazzine nuove, alte, bruli-canti di panni stesi ai terrazzi. Sanno di vita. Guarda la villa. Sporca, scrostata, abbandonata, sa invece di morte. Si allontana quasi scappando, come se volesse strapparsi quei pensieri dalla testa. Mentre cammina passa in rassegna le chiavi del grosso maz-zo che ha ricevuto dal Sindaco. Cerca quella che apre il portone d’ingresso. È lunga e nera, con l’occhiello alla fine del manico e la doppia pista tutta denti e scalini. Sorride. Sembra molto più sicura delle chiavi moderne. La infila nella toppa e gira. Piano, senza fretta. Uno. Due. Tre scatti. Ruota ancora la chiave di mezzo giro, sente il paletto cedere; la porta si

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apre e rivela una lama scura, ombrosa. L’interno della villa. Ecco, l’ha sentito di nuovo. Un soffio, una ventata improvvisa che lo schiaffeggia sul volto sudato. Quasi non ha odore. È calda, palpitante, viva come il colpo d’ala di un rapace notturno che fugge al tuo passag-gio. Tu non lo vedi, ma lui ti ha evitato senza problemi. Non gli resta che entrare e prendere possesso della villa. Appoggia il piede sullo scalino d’ingresso, allunga la testa e osserva l’interno. È come la ricordava, solo un poco più buia. Prova l’interruttore a lato del-la porta, ma non c’è corrente. «Non avevo dubbi, nessun regalo dallo Stato!». Spalanca il battente e apre la finestra della saletta d’ingresso. I mobili sono ancora dove ri-corda di averli visti, nessuno s’è preso la briga di riportarli nelle stanze da cui sono stati spostati. Anche in questo caso, nessun regalo. Passa all’ambiente dove s’è tenuta l’asta. Di lì approda nella sala da pranzo. Dalla parte opposta c’è una saletta da fumo o da tè. Alcune finestre si aprono senza sforzo, altre non si aprono proprio. Occhieggia qua e là, senza interesse. D’altronde, non saprebbe da dove iniziare. E per inizia-re cosa. A un certo punto si decide. Attraversa la stanza quasi di corsa. Ignora lo scrittoio che all’improvviso gli si para davanti, punta dritto al tendone che occulta la porta attraverso la quale ha visto – o ha creduto di vedere – quel vecchio. Solleva un lembo polveroso, gira la maniglia e affonda la porta. Dentro è quasi buio. Una scarsa luce filtra attraverso i tagli degli scuretti sconnessi, fatica a illuminare il suo incedere. A memoria, cerca di orizzontarsi nel buio: là il caminetto, di fronte c’era la poltrona, sulla destra si vede la finestra. Si fa coraggio, avanza con circospezione, allunga passi corti e saggia il percorso con la punta della scarpa. Riesce così a guadagnare secondi e ad abituarsi alla penombra. Aggira un cumulo di qualcosa che si ricorda essere libri. Oltrepassa un tavolino basso dove scorge la sagoma di un candeliere e arriva alla fi-nestra senza danni. Si aggrappa alla maniglia, la forza, tira, spinge a due mani. Impreca fra i denti, mugola per la fatica ma perdio no, quella è casa sua adesso e la finestra la vuole aprire! Alla fine la finestra cede. I cardini sembrano scoppiare e crepitano di ruggine che si sfalda. Ora ha di fronte l’inferriata a losanghe e lunghi tralci fioriti della buganvil-lea. L’aria entra a fiotti e una farfalla segue quel refolo, sbatte le ali alla ricerca di fiori, infine si posa su un libro ancora aperto. Si pulisce le lunghe antenne, pare guardarsi attorno poi scappa via, torna al dolce nettare dei fiori e al sole. Scappa, scappa via, farfallina. Qui non c’è niente per te, forse nemme-no per me…

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Ermanno la guarda svolazzare finché scompare alla sua vista, poi torna a mettere a fuoco la stanza. Qualcuno è entrato dopo di lui. Una pila di libri è franata sul pavimento, mancano almeno un paio di quadri, una candela è a terra. Si avvicina alla poltrona. Si rilassa, è vuota e polvero-sa. Per quanto non sia molto incline a credere alle storie da osteria sui fantasmi, l’apparizione di qualche giorno prima l’ha sconvolto. Appari-zione o sogno? Se lo chiede continuamente, senza darsi una risposta de-finitiva. A giudicare dalla desolazione della stanza, propende per la se-conda ipotesi. Ovunque si aggiri c’è un folto strato di polvere a fermare la sua mano, polvere che inizia a sollevarsi e a dare fastidio. Decide di tornare più tardi. La porta in fondo alla saletta dà sulla cucina. È ampia e luminosa per via delle due finestre che hanno gli scuretti interni aperti. È dotata di una grande stufa a legna, due acquai di pietra, un tavolo enorme per preparare le pietanze e un forno per cuocerle. All’angolo, una cucina economica a gas e un frigorifero dalla foggia americana concedono un tocco di modernità all’ambiente. Pentole e casseruole sbucano ovunque e una vetrina straripa di piatti e bicchieri di buona qualità. C’è uno stra-no odore nell’aria, di corrotto, come se qualcosa sia rimasto da qualche parte e si fosse guastato. Sale al piano superiore, ma prosegue prima verso le stanze al terzo li-vello. Apre gli scuretti delle stanze che non ha visto bene, l’altra volta. Spoglie, squallide, mantengono appena una rete con sopra un materasso distrutto. Un comodino, piccoli armadi. Torna nello studiolo. Si affac-cia al terrazzino, tutto sudicio d’escrementi di piccione. Rientra, racco-glie i fogli sparsi a terra. Nel piegarsi nota qualcosa che sbuca dall’angolo del cuscino. Afferra il lembo di un cartoncino e si ritrova fra le mani una vecchia fotografia. Ritrae un uomo in uniforme colonia-le, i baffi curati, lo sguardo fiero. Ma non è lui a catturare la sua fanta-sia: l’uomo tiene una mano agganciata al taschino della casacca, l’altra sulla spalla di una negretta col seno scoperto. Lei ha gli occhi teneri, innocenti. Pure non si vergogna di mostrarsi all’operatore, né di quella mano che ne determina il possesso, l’assoggettamento. Dietro c’è una scritta: il conte Stornelli e la sua puttana negra. Ermanno rimane a lungo su quella scritta, poi torna a fissare l’immagine. Si rende conto di non sapere nulla dell’uomo che l’ha reso ricco, e quel che sta scoprendo gli piace davvero poco. E finalmente lo riconosce nella fotografia per l’uomo del sogno, ma molto, molto più giovane.

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Scende al piano inferiore, dove è quasi tutto rinchiuso in un silenzio se-polcrale. I mobili sono punti scuri contro le pareti, i quadri sembrano volti minacciosi che lo fissano senza approvare la sua presenza. Si sente sovrastato dalla potenza della casa, quasi cacciato. È indeciso, vorrebbe entrare in tutte le stanze e spalancare le finestre, muovere quell’aria ferma, che ristagna irrespirabile. Non riesce a farlo, gli pare di sentire un respiro che gli alita sulle spalle, rumori di passi lungo le scale, riso-lini salire dalla sala da tè sottostante. Vasti angoli in penombra decido-no per lui. Per prima cosa, riallacciare le utenze. Chiude il portone a doppia mandata e va alla ricerca degli uffici di competenza.

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XI Claudia non risponde al cellulare. Ermanno ha provato più e più volte, al massimo riceve il tono dell’occupato. Gli secca agire così, ma ogni tanto manda un SMS attraverso il quale spiegare ciò che sta facendo e dove si trova. Volente o nolente, Claudia è ancora sposata con lui e se solo non fosse così impegnato, andrebbe di corsa a casa dei suoceri a ribadirlo. Non ora. Sta filando a centoventi all’ora verso Lugano, alla banca Ar-ner, dove l’attendono un funzionario e tante risposte. In tasca pensa di avere la chiave giusta per ottenerle. Lugano lo accoglie adagiata sul lago, con un mezzo temporale che ru-moreggia sulla riva opposta. Ermanno si affida al navigatore per de-streggiarsi fra incroci e sensi vietati, alberghi e fermate dell’autobus, infine parcheggia al silos multipiano e si rilassa. Ha guidato per oltre sei ore senza sosta e si sente ovviamente distrutto. Sono le undici e un quarto, appena un ritardo accademico, il dottor Tomasetti lo perdonerà. Infila la porta automatica della banca e chiede di lui all’impiegata della reception. «Il dottor Tomasetti si scusa, ma ora ha assunto un altro impegno». Ermanno socchiude gli occhi, visibilmente seccato. «Gli avevo riferito che si trattava di una questione della massima im-portanza e che probabilmente non sarebbe stata sufficiente l’ora di ap-puntamento che mi aveva concesso. Gli riferisca che sono qui, per cor-tesia!». La ragazza borbotta qualcosa fra sé, ma non osa ribattere alla sua ripic-ca decisa. Confabula con qualcuno al telefono per qualche istante, in francese stretto e a bassa voce. Ermanno ha capito poco o nulla. L’impiegata ora sorride, più sollevata. «Il dottor Tomasetti la riceve subito» dichiara trionfale. «Naturalmente. La ringrazio». Una porta si spalanca in fondo al corridoio e ne esce un ometto basso e bene in carne, che quasi corre verso di lui con un’andatura buffa. Er-manno lo associa a un pinguino.

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«Signor Chiari, bene arrivato! La aspettavo. Ero col direttore che mi stava informando…». «Naturalmente» taglia corto Ermanno. Il funzionario lo fa accomodare in ufficio. Scrivania di vetro, due pol-troncine di pelle bianca, quadri astratti alle pareti. Una decalcomania appesa richiama i principi etici cui la banca si affida. L’uomo accende il computer e pasticcia per qualche istante con i programmi. «Lei mi accennava a una richiesta di informazioni circa la morte di un nostro cliente, di cui è erede. Ora posso sapere di chi si tratta?». «Stornelli Vittorio Emanuele, di Silvi Marina, in Abruzzo». Digita dei dati sulla tastiera, poi quasi si congela sulla sedia. Gira lo sguardo verso di lui, lentamente. «Ah. In questo caso devo avvisare il Direttore. Se vuole attendere qual-che minuto…». Si alza e lo lascia solo. Ermanno non ha tempo per riflettere, subito en-tra la segretaria portandosi dietro una scia di profumo. «Desidera qualcosa? Caffè, tè, un cioccolatino, dell’acqua…». «Dell’acqua, grazie». Ermanno inizia ad agitarsi, qualcosa non va. Spe-ra solo di non trovarsi coinvolto in qualche losco affare, nella lettera il conte accennava a dei fondi cui poteva attingere per la ristrutturazione della villa, e lui non pensava certo ad andare incontro a dei guai. Tomasetti rientra poco dopo l’uscita della segretaria. Lo accompagna un omone di quasi due metri, i capelli radi lisciati all’indietro, un com-pleto blu d’ordinanza che sembra dipinto addosso, per quanto gli sta a pennello. Siede al posto di Tomasetti, che resta in piedi, discosto da lui. Adesso è il Direttore in persona a occuparsi della questione. «Sono Paolo Galimberti, direttore di questa banca. Sono trascorsi tanti anni, signor Chiari, che forse non ha più senso porgerle le nostre con-doglianze. Né abbiamo potuto metterci in contatto con alcuno per le questioni ereditarie, come sa, le nostre leggi sulla riservatezza lo vieta-no». Ermanno gli rivolge un sorriso vissuto, come se non sapesse che le ban-che svizzere hanno lucrato su tutto, dall’oro degli ebrei a vari patrimoni di dubbia provenienza. Tenere per decenni fondi di persone decedute, in pratica senza nemmeno remunerarli, non è certo una pratica etica come la decalcomania sul muro vorrebbe enunciare. «Il testamento del defunto conte Stornelli è stato ritrovato solo pochi giorni fa. Io sono stato avvisato appena ieri. Non sono un parente, solo un beneficiario del testamento, per questioni di amicizia con mio nonno

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– prende la busta dalla tasca della giacca leggera e consegna i docu-menti al Direttore – Qui troverà copie autentiche del testamento, del certificato di morte e dell’atto registrato concernente la mia accettazio-ne dell’eredità. In pratica, sono i documenti che mi legittimano a chie-dere informazioni sulle sostanze detenute dalla vostra banca a nome di Stornelli Vittorio Emanuele, il quale mi ha lasciato i riferimenti con un atto a parte». «Certo, certo. Se aggiunge anche un suo documento di identità, faccia-mo avere tutto al nostro servizio legale per l’apertura della pratica. Le faremo sapere». Ermanno non ci sta. «Guardi che lei non ha capito: non mi faccio altre dodici ore di viaggio per avere la sua risposta. Mi occorre ora. Legga i documenti, si accerti che l’erede sia io e mi dica come stanno le cose. È mia intenzione la-sciare il deposito presso la sua banca, e in questo si prenderà qualche giorno per i suoi accertamenti sulla mia persona, ma l’informazione la esigo adesso. La prego di dar corso alla mia richiesta». Ermanno guarda il Direttore. Il Direttore guarda il subalterno. «Chiami il dirigente del Servizio Legale» gli chiede. Tomasetti ha una specie di sussulto, poi si dilegua. «Signor Chiari, lei mi deve capire. Dobbiamo agire con cautela. Sia per il buon nome della banca che per tutelare gli interessi legittimi del si-gnor conte». «Guardi bene, quelle carte dicono che l’erede del signor Conte è Er-manno Chiari. Il passaporto dice che Ermanno Chiari sono io. Lo con-ferma anche il Sindaco di Silvi Marina, che ha rinunciato alla confisca della villa quando il testamento è saltato fuori. Questa la riconosce?». Ermanno allunga sul tavolo la chiave di ottone. Galimberti la osserva, legge il numero stampigliato sulla mostrina e lo confronta con le infor-mazioni che trova ancora impresse sullo schermo, la cui videata non è alla vista di Ermanno. Il Direttore sospira, sembra capitolare. «Il signor Conte era uno dei nostri clienti più facoltosi. Mi auguro che lei, signor Chiari, intenda proseguire nella stessa direzione, affidando il patrimonio che ha ricevuto nelle stesse nostre mani, da sempre attente e scrupolose nel gestirlo e farlo fruttare». Fa una pausa, sembra voluta. «Il conto corrente del defunto Vittorio Emanuele Stornelli, conte di Sil-vi Marina, ammonta a poco più di trentasei milioni di franchi. In soldo-ni, circa la stessa somma in euro. In liquidità e titoli. Inoltre…». Ermanno lo studia senza battere ciglio, il direttore sembra dispiaciuto, rattristato. L’uomo prosegue.

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«Inoltre, il signor Conte disponeva di un piccolo caveau personale. Me l’ha fatto visitare, una volta, ero direttore da circa cinque anni e di me si fidava. Vede, mi disse – gli uomini si dividono in due categorie: chi ha i soldi e chi sa come impiegarli. Noi siamo le due facce della moneta della finanza. Più tardi glielo mostro». In quel momento entra Tomasetti con una donna. Bionda, alta, elegante. Si presenta come Patrizia Blanchard, responsabile del Servizio Legale. Resta in piedi, consulta le carte, legge ogni frase, interpreta ogni tim-bro, firma e certificazione. «Signor Direttore, per me è tutto regolare. Signor Chiari, le mie condo-glianze!». Una stretta di mano, poi si congeda. «Burocrazia, signor Chiari, semplice ma necessaria burocrazia. Io ave-vo visto giusto, ma per evitare che potessi sbagliare, è stato necessario l’intervento di un tecnico, per convalidare il mio giudizio. La banca è in mano ai tecnici, al giorno d’oggi; capiscono più di un consiglio di am-ministrazione, ma costano meno di un terzo, a parità numerica! Toma-setti, mi predispone l’accesso al caveau? Il signor Chiari necessita di verificare le sostanze non numerarie del signor Conte». Ermanno capisce fra le righe che il Direttore è in ansia per qualcosa. Forse è partito col piede sbagliato, forse spera di rivedere quegli ogget-ti, di ricavarne qualcosa. «Allora, signor Chiari, facciamo come dice lei. Apriamo un conto cor-rente e un dossier titoli a suo nome, tempo un paio di giorni e provve-diamo a girare le sostanze del povero signor Conte alla sua posizione. Se ripassa verso le dodici e trenta, le faremo trovare i contratti pronti». «Sta bene. Avrei necessità di ottenere subito l’estratto del conto corren-te e del dossier titoli. E sta altrettanto bene scendere in cassetta. Nell’attesa dei contratti farò una passeggiata lungo il lago». Tomasetti si allunga a lato del direttore e lancia le stampe. Le chiude in una busta anonima e la consegna a Ermanno, che la infila in tasca as-sieme alla chiave della cassetta. «Possiamo scendere» annuncia il funzionario. «Tomasetti, accompagno io il signor Chiari in cassetta. Lei si occupi subito dei contratti, per favore». Tomasetti dissipa l’attimo d’imbarazzo, poi lascia la stanza. Il Direttore si alza e fa cenno a Ermanno di seguirlo. L’ascensore è a due passi e l’uomo infila una chiave in un pulsante con la serratura. Iniziano a scendere. L’ascensore si ferma al piano -3. L’impiegato addetto alle cassette di sicurezza ha un sobbalzo nel vedere il Direttore in persona uscire dall’ascensore.

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«La numero quarantasei» dice l’uomo. Entrano in uno dei locali di sicu-rezza. Le pareti sono di acciaio brillante, custodiscono centinaia di cas-sette di varie dimensioni. L’impiegato punta subito il primo armadio, infila il passepartout e attende che Ermanno gli porga la sua chiave. A-pre e gli porge una cassettina di metallo. «Normalmente, il signor Conte custodiva qui solo la chiave di accesso al caveau vero e proprio» dice il Direttore sotto voce. Ermanno non lo sta a sentire. Entra in un piccolo ufficio a uso della clientela e apre la scatola. Contiene una busta. Dentro c’è la chiave come il Direttore ha supposto, ma ci sono anche ventimila franchi svizzeri in contanti. Er-manno sorride, quel diavolo di un direttore non sa proprio tutto. «Bene, andiamo al caveau. Entrerò prima io, poi deciderò se ammetter-la» dice Ermanno. Stavolta è Galimberti a sobbalzare ed Ermanno ne è contento. Quanta supponenza, alterigia. Non lo sopporta più. Prendono di nuovo l’ascensore. Stavolta scendono a -5. Approdano su un corridoio rivestito di marmo un tempo candido, ora alquanto scurito. L’impiegato muove una manopola per comporre la sua parte di combi-nazione. Il Direttore compone la sua. Una lunga chiave sblocca il terzo meccanismo e il portone blindato finalmente si apre. Dentro ci sono quattro corridoi, molto lunghi e stretti. L’impiegato li porta al caveau numero 111. C’è una sola serratura. «Allora, apra e tenga la porta spalancata, così da bloccare il corridoio. Quando ha fatto, richiuda. Noi aspettiamo all’ingresso». Il Direttore sembra tenere un comportamento professionale, ma Ermanno sa che si è seccato tantissimo. Si avvicina alla porta che reca quel numero, apre e lascia il battente di traverso. Dall’altra parte nessuno è in grado di vede-re niente del suo interno. Alla luce della plafoniera a soffitto Ermanno individua l’interruttore del locale. Il neon lampeggia diverse volte, in-deciso, insonnolito. Infine rischiara con forza la stanza, di circa due me-tri per tre. Ci sono scaffali ai lati lunghi, un budello al centro per il di-simpegno, un tavolino e una sedia sul fondo. Ermanno entra, titubante. Sta per prendere visione di cosa il conte ha nascosto là dentro, in terra straniera, ad almeno quindici metri sotto terra. Sta per diventare parte dei suoi segreti. Occhieggia gli scomparti, solleva i lembi di cartelle e scatole. Svolge pacchetti, apre cofanetti. Infine, siede di schianto sulla seggiola, che pa-re traballare pure lei. FINE ANTEPRIMACONTINUA...