L’opuscolo, insieme alla mostra, è uno strumento di ... 1914‐2014: CENTO ANNI DALLA I GUERRA...

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1 L’opuscolo, insieme alla mostra, è uno strumento di controinformazione nato per contrastare le incombenti “Celebrazioni per il centenario della Grande guerra” organizzate dal governo all’insegna dell'esaltazione del sacrificio per la Patria, dell’onore di essere Italiani “brava gente”, del richiamo alla compattezza nazionale contro i nemici interni ed esterni, della necessità di rafforzare il nostro apparato militare contro le “forze ostili”... Una retorica ormai dilagante che impedisce di comprendere le cause di quello che fu uno spaventoso massacro. Un massacro che, oggi con i rumori di guerra sempre più forti, rischia di riproporsi. I contenuti di questo opuscolo sono approfonditi nel sito www.centoannidiguerre.org Le Immagini della mostra – realizzata dalla Rete Napoli No War – possono essere liberamente scaricate all’indirizzo: https://drive.google.com/folderview?id=0B_WENlEYeAwqSGwtbDNzclg4ejQ&usp=sharing

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L’opuscolo, insieme alla mostra, è uno strumento di controinformazione nato per contrastare le incombenti “Celebrazioni per  il centenario della Grande guerra” organizzate dal governo all’insegna dell'esaltazione del sacrificio per la Patria, dell’onore di essere Italiani “brava gente”, del richiamo alla compattezza nazionale contro i nemici interni ed esterni, della necessità di rafforzare il nostro apparato militare contro le “forze ostili”...  Una retorica ormai dilagante che impedisce di comprendere le cause di quello che fu uno spaventoso massacro. Un massacro che, oggi con i rumori di guerra sempre più forti, rischia di riproporsi. 

 I contenuti di questo opuscolo sono approfonditi nel sito www.centoannidiguerre.org 

Le  Immagini della mostra – realizzata dalla Rete Napoli No War – possono essere liberamente scaricate all’indirizzo: https://drive.google.com/folderview?id=0B_WENlEYeAwqSGwtbDNzclg4ejQ&usp=sharing 

 

 

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 1914‐2014: CENTO ANNI DALLA I° GUERRA MONDIALE. 

 Perché anche noi parliamo di Prima Guerra Mondiale  

Nel  centenario dell’inizio della Prima Guerra Mondiale,  il Governo  italiano, ma non è  il  solo, ha avviato una serie  di manifestazioni  celebrative.  Perché  celebrare  quello  che  tutti  riconoscono  essere  stato  un  enorme massacro? Forse per condannare  la guerra tra nazioni? Per  invocare  la fraternizzazione dei popoli? O per fare appello a fermare  i tanti conflitti  in corso e a mettere fine all’inutile e crescente nuova corsa agli armamenti? Niente di tutto questo.  

La retorica con cui viene presentato  il primo grande macello mondiale è esattamente  l’opposto:  l’esaltazione della Patria e del  sacrificio della vita per  la  sua difesa;  l’onore di essere  italiani – brava gente  ‐portatori dei valori  della  “nostra”  democrazia  nel  mondo  anche  se  sulla  punta  dei  fucili.  Quotidianamente,  sia  dalla compagine governativa che sui massmedia, non si perde occasione per richiamare alla compattezza nazionale contro i nemici interni ed esterni e alla necessità di rafforzare il nostro apparato militare contro le “forze ostili”. L’enfasi sulle “nostre” missioni all’estero, come pure l’osceno accordo tra il Ministero della Pubblica Istruzione e quello della Difesa per consentire ai militari di tenere conferenze nelle scuole sulla Prima Guerra Mondiale, sono parte di quelle campagne di opinione che mirano a creare consenso verso un clima di unità nazionale e di criminalizzazione del nemico, condizione imprescindibile per qualsiasi avventura militarista.  

I rumori di guerra si fanno sempre più forti ed esattamente come nel 1914, si vuole rafforzare il fronte interno, l’union sacrée, per affrontare il nuovo macello che si intravede all’orizzonte.  

Esageriamo? Non ci sembra.  Il  ‘900, dopo  la Grande Guerra, ha visto  la Seconda Guerra Mondiale ed  infiniti conflitti  “regionali”: dalla Corea al Vietnam, dalle  lotte di  liberazione  contro  il  colonialismo al  conflitto  sino‐giapponese, dallo  smembramento della Yugoslavia  allo  scontro  Irak‐Iran  fino  all’operazione Restore Hope  in Somalia. Il nuovo secolo non è da meno. Dal 2001 è un susseguirsi di “conflitti”: Afganistan, Irak, Libia, Siria ed ora, con l’Ucraina,  la guerra è alle porte dell’Europa. La corsa agli armamenti e il crescere delle tensioni tra gli stati sta preparando il terreno per un nuovo conflitto generale e devastante. 

Vogliamo  allora  partire  proprio  dalla  Prima  grande  guerra  per  smascherare  le menzogne  su  quell’immane crimine, per demistificare la retorica patriottica con cui, proprio in occasione della celebrazione dei 100 anni, se ne  farà  la narrazione. Soprattutto proveremo a  raccontare  le vere  ragioni  che  stanno dietro a quella guerra come  a  tutte  le  altre,  a  svelare  la  propaganda  che  prepara  le  popolazioni  a  questi  tragici  eventi,  uguale  e sofisticata, ieri ed ancor più oggi.  

Per impedire che ciò avvenga di nuovo, per organizzarci e opporci ai loro disegni da adesso! 

 Non poteva che essere guerra  

Non fu certo l’attentato di Sarajevo (l'uccisione di Francesco Ferdinando, erede al trono dell'Impero Asburgico) la  vera  causa  dello  scoppio  della  Prima Guerra Mondiale.  A  determinarla  fu,  nella  sostanza,  la  lotta  tra  le potenze  imperialiste europee per accaparrarsi  le  spoglie dell’Impero Ottomano e  il  tentativo di  sfuggire alle crescenti  contraddizioni  economiche  determinate  dal  giganteggiare  della  produzione  capitalistica  e,  quindi, dalla necessità di ricercare nuovi mercati per le merci e per i capitali. 

Questa politica espansionistica nasceva non solo dalle spinte del grande capitale di ogni nazione per creare  la possibilità di  sempre maggiori profitti, ma anche dalla paura derivante dalla  crescente  forza del movimento operaio organizzato che, di fronte ad una eventuale crisi economica, rappresentava un potenziale pericolo per la  stabilità del  regime  capitalistico. Ma,  in un mondo oramai già  spartito  in aree di  influenza delle maggiori potenze,  gli  interessi  dei  diversi  capitali  nazionali,  nonostante  ampi  livelli  di  collaborazione  per  spartirsi  il bottino,  vedevano  crescere  la  conflittualità  per  accaparrarsene  una  quota  più  consistente.  Ben  prima  della Grande Guerra, le potenze dell'epoca, (in primo luogo, Gran Bretagna e Francia) avevano colonizzato gran parte del  mondo  per  accaparrarsi  materie  prime  e  per  costituirsi  mercati  protetti  per  le  merci  e  i  capitali.  La Germania ‐ diventata una potenza industriale solo alla fine del XIX secolo ma che dal punto di vista industriale aveva nel frattempo sopravanzato l’Inghilterra – pretendeva, invece, una diversa spartizione coloniale e nuovi 

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rapporti di  forza  in Europa. Nasce da qui  il  conflitto  tra  le potenze della Triplice e quelle dell'Intesa  che già avevano condotto “per procura” sanguinosi conflitti.  

Nei Balcani, ad esempio, Serbia, Bulgaria e Grecia ‐ strozzate dal cappio del debito che avevano stipulato con le banche  francesi e  austriache  ‐  si erano  combattute per  anni;  stessa  sorte per  i  sudditi delle nuove  colonie: Tunisia, Algeria, Sudan... Per l’occupazione del Marocco si era già sfiorata la guerra tra Francia e Germania; in Libia, occupata dall'Italia nel 1911,  la Francia armava  i  ribelli. Ma  il peggio doveva ancora arrivare. Già  il 28 maggio  1913  la  lettera  del  governatore  di  Bosnia,  Oskar  Počorek  al ministro  asburgico  Bjelinski  illustrava dettagliatamente i piani di guerra contro la Serbia. Il 28 giugno 1914 ‐ in una Sarajevo dalla quale, stranamente,  erano stati fatti allontanare i soldati che avrebbero dovuto proteggere l’arciduca Francesco Ferdinando ‐ arriva l’attentato.  Il 23  luglio,  l’ultimatum  austriaco  alla  Serbia  che  sostanzialmente  accetta  le  condizioni  imposte. Inutilmente. Il 28 luglio, l'Austria dichiara guerra alla Serbia. Inizia la Grande Guerra. 

Sebbene  tutti  i  governi  sostenessero  di  voler  evitare  la  guerra,  tutti  agivano  nella  direzione  che  creava  le condizioni  per  la  sua  deflagrazione:  una  crescente  corsa  al  riarmo  (le  spese militari  di  Germania,  Austria‐Ungheria, Gran Bretagna, Russia, Italia e Francia erano passate da 132 milioni di sterline del 1880, a 205 milioni nel  1900),  provocazioni  reciproche  per  sottrarsi  aree  di  influenza,  finanziamento  e  sostegno  alle  campagne stampa per  favorire un clima sciovinistico e nazionalistico, etc. Quindi  lo scatenamento della guerra non  fu  il prodotto di avvenimenti più o meno casuali, ma  il risultato necessario del dominio capitalistico nella sua fase imperialistica  per  garantirne  la  sua  sopravvivenza,  nonostante  i milioni  di morti  e  le  distruzioni  che  essa avrebbe provocato. 

 L’Italia poteva evitare la guerra?  

Dopo  la  rivoluzione  di  ottobre  1917,  i  Bolscevichi  pubblicarono  sul  giornale  “Izvestija”  i  trattati  segreti conservati presso il Ministero degli Esteri. Tra questi il “Trattato di Londra”, stipulato (senza che il Parlamento italiano, in maggioranza neutralista, ne fosse informato)  il 26 aprile 1915, dal governo Salandra.  

Il trattato ‐ firmato dal marchese Guglielmo Imperiali, ambasciatore a Londra ‐ impegnava l’Italia ad entrare in guerra contro  l’Austria ottenendo,  in caso di vittoria, Trentino, Sud Tirolo, Friuli, Dalmazia, Albania e qualche colonia in Africa sottratta all’Impero austro‐ungarico. 

Eppure, Vienna stava già accettando una proposta presentata    l’8 aprile 1915 dal ministro degli Esteri  italiano Sidney Sonnino che, in cambio della neutralità italiana, prevedeva la cessione del Trentino‐Sud Tirolo, la piena autonomia di Trieste (città libera, porto franco e università italiana) e una sorta di protettorato italiano in vaste zone della Dalmazia e in Albania. 

Perché  il  governo  italiano  optò  per  la  guerra  quando  avrebbe  potuto  ottenere,  con  la  neutralità, sostanzialmente gli stessi territori? 

Le motivazioni  costruite  dalla  propaganda  dell’epoca  e  soprattutto  quelle  propagate  in  seguito  dal  regime dominante  e  dalla  stampa  ad  esso  asservita  circa  l’obiettivo  di  recuperare  i  territori  italiani  ancora  sotto  il dominio austro‐ungarico per completare il processo di unità nazionale, sono pura menzogna per coprire le mire imperialistiche dello stato e del capitalismo italiano.  

L’Italia, giunta in ritardo all’unità nazionale, attraverso una serie di intrighi e approfittando della competizione tra  le  grandi  potenze  già  esistenti,  era  stata  interessata  a  ridosso  della  fine  del  secolo,  da  un  processo impetuoso di sviluppo, fondato anche sul brutale saccheggio del Meridione. Attraverso le commesse di Stato si erano sviluppati dei grandi poli industriali in particolare nella siderurgia, nella cantieristica e nella produzione di macchinari. Non meno  impetuoso  era  stato  lo  sviluppo  del  capitale  finanziario  che  vedeva  primeggiare  tre grandi istituti: la Banca Commerciale, il Credito Italiano e la Banca di Roma. Nel giro di pochi decenni le capacità produttive  ed  i  capitali  accumulati  da  questi  grandi  gruppi  industriali  e  finanziari  erano  andati  ben  oltre  le possibilità di assorbimento dell’asfittico mercato nazionale. Per tale motivo si cominciò a cercare avidamente nuove possibilità di investimenti e di esportazioni in altri paesi. Ma la esistente divisione del mondo tra le altre grandi  potenze  e  le  capacità  industriali  e  finanziarie  di  quest’ultime  lasciavano  poco  spazio  alle  mire espansionistiche  dei  nostri  famelici  capitalisti.  In  generale,  tanto  nei  paesi  già  sviluppati  quanto  nelle  aree periferiche, al  capitale  italiano  veniva  concesso al massimo un  ruolo  subalterno    che non  consentiva grandi sbocchi all’industria e al capitale  finanziario. Divenne pertanto  impellente ritagliarsi proprie aree di  influenza 

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controllate direttamente e dove  il capitalismo  italiano  la potesse fare da padrone. Le  linee direttrici di queste mire  espansionistiche  si  concentrarono  essenzialmente  in  tre  direzioni:  il  nord  ed  il  corno  d’Africa,  l’area balcanica  e  segnatamente  la  Dalmazia,  il Montenegro  e  l’Albania  ed  in  ultimo  qualche  area  della  Turchia approfittando della decadenza dell’impero Ottomano. 

I  tentativi  di  sottomettere  l’Eritrea  e  la  Somalia  si  rivelarono  un  clamoroso  fallimento  con  sonore  sconfitte inflitte da parte delle popolazioni  locali, mentre  l’invasione della  Libia  richiese  circa un  trentennio prima di poter essere completata a causa dell’eroica resistenza popolare guidata da Omar Muktar. Tutto ciò non impedì all’esercito italiano in tutte queste circostanze di rendersi protagonista di efferati crimini e di un vero e proprio genocidio. Molti storici considerano l’aggressione alla Libia e lo scontro militare con l’impero Ottomano uno dei fattori che contribuirono ad accelerare  il percorso verso  la guerra, poiché esso dimostrò quanto quest’ultimo fosse debole, dando la stura ad altre guerre nei Balcani per strappare al controllo ottomano ulteriori territori. Questi due precari insediamenti in Africa non si rivelarono, però, particolarmente remunerativi per il nascente imperialismo italiano, quindi le attenzioni del governo e della borghesia si indirizzarono con maggiore intensità verso  i  Balcani,  in  aree  che  erano  fondamentalmente  controllate  dall’Impero  Austro‐ungarico  e  da  quello Ottomano. Qui, non potendo usare  immediatamente  la  forza militare,  si  agì prevalentemente  attraverso  gli intrighi, la corruzione e la diplomazia ancora una volta senza ottenere significativi risultati. Anche il tentativo di ritagliarsi una propria area di influenza direttamente nella costa meridionale dell’attuale Turchia si scontrò con la dura opposizione della Germania e dell’Austria che formalmente erano sue alleate. Nonostante  il vorticoso protagonismo dell’Italia  le  sue  velleità di entrare nel novero delle grandi potenze  imperialiste e  colonialiste venivano ripetutamente frustrate.  

Con  l’avvicinarsi dello scoppio della guerra,  la classe dirigente  italiana si divise tra neutralisti ed  interventisti, ma nessuno dei due schieramenti era mosso da ragioni etiche o umanitarie. La parte neutralista, impersonata soprattutto da Giolitti, che tra l’altro era colui che aveva deciso l’invasione della Libia, semplicemente riteneva che facendo balenare la possibilità di un proprio intervento a favore dell’uno o dell’altro schieramento avrebbe potuto ottenere risultati significativi senza impegnarsi in un conflitto che poteva risultare distruttivo per le mire imperialiste del paese. Gli interventisti che erano una minoranza tanto nel parlamento quanto nel paese, erano foraggiati  proprio  da  quel  grande  capitale  che  aveva  visto  sostanzialmente  frustrate  le  proprie  mire espansionistiche  e  riteneva  di  poter  lucrare maggiori  risultati  scendendo  direttamente  in  campo  per  poter partecipare alla spartizione del bottino di guerra e consolidare in maniera duratura l’espansione imperialistica del paese. Alla fine l’intervento militare fu deciso proprio perché si riteneva che la guerra sarebbe durata poco, e ci si buttò dalla parte della coalizione ritenuta vincente per potersi sedere al tavolo della “pace” e non essere esclusi dal depredamento delle spoglie dei perdenti. 

 Menzogne di guerra  

Agli  albori  della  Prima  Guerra  Mondiale,  lo  Stato  Maggiore  francese  diffuse  quattro  milioni  di  cartoline, realizzate  dal  disegnatore  Francois  Poulbot,  per  attestare  un  crimine mai  commesso:  i  soldati  tedeschi,  in Belgio, mozzavano  le mani  ai bambini. Era una   menzogna data per buona da  giornalisti disponibili, per un pugno  di  lire, marchi,  sterline,  franchi...,  a  orientare  l’opinione  pubblica  verso  questo  o  quell’altro  nemico. Interi giornali e gruppi editoriali erano su libri paga dei governi. In Italia, mentre comincia a delinearsi lo scontro fra  interventisti e neutralisti,  il Kaiser tenta di acquistare  in blocco “Il Messaggero”, “La Stampa”, “Il Secolo”; dall'altra parte i servizi segreti francesi finanziano la nascita de “Il Popolo d’Italia” di Mussolini (già direttore del giornale socialista “Avanti!” e divenuto improvvisamente “interventista”); l’Inghilterra cerca di mettere le mani sul “Corriere della Sera”....  

Da allora sono passati cento anni ma  le cose non sembrano essere molto cambiate. Oggi, per  farci accettare una  guerra  sono mobilitate  agenzie  di  “pubbliche  relazioni”,  reti  televisive,  giornali,  siti  internet,  e  persino molte delle cosiddette “organizzazioni umanitarie”.  

Inventano storie strazianti per convincerci che è  indispensabile “fare qualcosa” contro  lo “stato canaglia” o  il dittatore  di  turno.  E  così,  quando  partono  i  bombardamenti,  ci  sentiamo  quasi  sollevati.  Perché  ci  hanno convinto che, in fondo, non si tratta di un’altra guerra, ma di una sacrosanta “missione umanitaria”. 

E sono ancora molti gli “opinionisti” sul libro paga di ambasciate, ministeri, servizi segreti, fabbricanti d’armi...  

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La guerra e la Seconda Internazionale  

Nel  1914,  i  partiti  socialisti  (riuniti  nella  Seconda  Internazionale)  contano  in  Europa  milioni  di  elettori, moltissimi militanti, parlamentari, circoli, cooperative, giornali, case editrici... Una forza mai raggiunta fino ad allora dal movimento operaio. Nel 1912 il Congresso di Basilea, di fronte alle ostilità tra Austria e Russia, si era concluso con  il “Manifesto contro  la guerra” che vincolava  i partiti socialisti a non appoggiare una guerra che non  poteva  che  essere  generale,  a  fare  ogni  sforzo  per  impedirne  l’avvio  e,  nel  caso    fosse  scoppiata,  ad utilizzarla per avviare un processo insurrezionale per abbattere la dominazione capitalista.  Nonostante questi principi, solo 2 anni dopo, prevalse la difesa della propria nazione, della propria industria, del proprio capitale, insomma l’union sacrèe con la propria borghesia. 

Il 4 agosto i socialisti tedeschi votano a favore dei “crediti di guerra”; quindi i socialisti francesi votano a favore della “difesa nazionale”; li seguiranno a ruota i laburisti inglesi e altri partiti socialisti. 

Pochi  i gloriosi esempi di opposizione  alla guerra:  in  Italia,  si oppone alla guerra  la maggioranza del Partito Socialista; in Francia, Jean Jaurès, leader socialista francese, ucciso da un nazionalista il 31 Luglio; in Germania l’anarchico  Ernst  Friedrich  e,  soprattutto,  Rosa  Luxemburg  che  insieme  a  Karl  Liebknecht  si  oppone  alla posizione bellicista del partito guidando il fronte antimilitarista. Pagò con il carcere, in cui passò quasi tutti gli anni del conflitto.  In Gran Bretagna  il piccolo Partito  Indipendente del Lavoro;  i socialisti serbi che con  il  loro unico  deputato  si  rifiutano  di  votare  i  crediti  di  guerra.  Anche  il  partito  socialista  bulgaro  rimane all’opposizione. Infine in Russia la sinistra del partito socialdemocratico (bolscevichi) che per la loro agitazione contro la guerra vengono tutti mandati in Siberia. 

A Zimmerwald (5‐8 Settembre 1915) si riunirono in conferenza i pochi esponenti socialisti rimasti contrari alla guerra. A  causa delle diversità di posizioni,  fu  scartata  la mozione  che,  riprendendo  il Manifesto di Basilea, chiedeva di  "trasformare  la guerra  imperialista  in guerra  civile", e  fu votata  la più  tiepida mozione  che, pur denunciando  la guerra “prodotto dell’imperialismo”, proponeva di “ripristinare  la pace tra  i popoli sulla base della pace senza annessioni e del diritto all’autodeterminazione”. Mozione che, ovviamente, non soddisfaceva i più intransigenti come i bolscevichi. 

Non  solo  tra  i politici, anche  tra gli  intellettuali,  l’opposizione alla guerra  fu una voce minoritaria: George B. Shaw  in Gran Bretagna, Bertha von Suttner ed Albert Einstein  in Germania, Emma Goldman negli USA; tra gli altri,  lo scrittore francese Henri Barbusse, autore de “Il Fuoco” (1916) e  il filosofo britannico Bertrand Russell, condannato a sei mesi di prigione per le sue pubbliche posizioni contro la guerra.  

 “Né aderire, né sabotare”  

Quando  il 2 agosto 1914  il Presidente del  consiglio  Salandra   annuncia  che  l’Italia  sarebbe  rimasta neutrale ebbe l’appoggio di cattolici, giolittiani e socialisti, tutti contrari alla guerra. Soprattutto i “liberali” che facevano riferimento  a  Giovanni  Giolitti  ritenevano  l'Italia  impreparata  al  conflitto.  Tale  analisi,  all'interno  dello schieramento  liberale, era accompagnata dalla  convinzione per  cui  l'Impero Asburgico non avrebbe  resistito all'“urto delle nazionalità” e, di conseguenza,  l'Italia avrebbe potuto ottenere vantaggi e compensazioni dalla sua  neutralità.  All’avvio  delle  ostilità  da  parte  dell’Italia  nel  1915,  i  giolittiani,  sebbene mantenessero  un atteggiamento  prudente,  dichiararono  incondizionato  appoggio  al  governo;  stessa  cosa  fecero  i  cattolici.  Il gruppo neutralista di “Italia nostra” si sciolse per collaborare alla difesa della Patria.  

Meno  compatto  il  campo  socialista. Numerosi    i  “social‐patrioti”,  i  “socialisti  rivoluzionari”  e  persino  alcuni anarchici (Libero Tancredi, Oberdan Gigli, ad es.), con diverse motivazioni, si dichiararono favorevoli alla guerra partendo addirittura come volontari al fronte. 

Il  Partito  socialista  si  opponeva  alla  guerra,  ritenendola  figlia  dello  scontro  inter‐imperialistico  tra  le  grandi potenze e foriera di sciagura e morte per  il proletariato. Ma mentre di fronte alla possibilità di una guerra al fianco degli alleati della Triplice (Italia, Germania ed Austria) contro  la Francia democratica ribadiva, finanche nelle sue componenti più moderate, tutta la sua opposizione e la volontà di fermare il conflitto con un processo insurrezionale,  cominciava  ad  apparire meno  coeso davanti  all’ipotesi di una  guerra  al  fianco della  Francia. Simbolo della simpatia verso  l’Intesa (Francia, Gran Bretagna, Impero Russo) è  il cambio di rotta del direttore de l’Avanti!, Mussolini. A soli pochi mesi dall’uscita del suo articolo “Abbasso la guerra” (l’Avanti! Del 26 luglio 

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1914),  in cui scriveva “Mobilitate, noi ricorriamo alla forza”, Mussolini   pubblica  il 18 ottobre  l’articolo “Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante”. Era il preludio al suo schieramento pro guerra. 

Mussolini  fu  espulso  dal  partito  e  di  lì  a  pochi  giorni,  grazie  ai  soldi  dell’Intesa,  faceva  uscire  il  quotidiano interventista “Il popolo d’Italia”. 

Il Partito Socialista mantenne, nonostante tutto, la sua posizione contro la guerra rifiutando di votare i crediti di guerra e di entrare nel governo.  La  formula  fu quella decisa al Convegno di Bologna del maggio 1915  :  “né aderire né sabotare”. Una formula ambigua, frutto del compromesso tra l’ala moderata (a cui si rifaceva quasi interamente  il  gruppo  parlamentare)  e  quella  riformista  del  partito,  che  ostacolò  la  crescita  e  la generalizzazione delle mobilitazioni dei lavoratori e dei contadini contro la guerra.  

Come ricorda Gaetano Arfè: «Di fatto l’agitazione socialista, nonostante l'enfasi del linguaggio, è condotta con i metodi  classici  della  pacifica  mobilitazione  dell'opinione  pubblica,  assomiglia  magari  di  più  a  una  accesa campagna elettorale che non a una leva di forze rivoluzionarie pronta a un'azione energica e decisa».  

La destra del Partito non mancò di esprimere il suo patriottismo. Significative le parole dell’onorevole socialista Casalini  che  alla  Camera  dichiarava  che  il  Partito  socialista  sabotava  non  la  guerra  “ma  l’eventualità  di movimenti  impulsivi  delle masse”.  O  quelle  dell’onorevole  Turati  che  il  14  dicembre  1916  dichiarò,  fra  gli applausi della maggioranza della Camera, che  l’Italia non avrebbe potuto fare  la pace senza ottenere sia quel territorio che era veramente  italiano sia  le garanzie strategiche che  le spettavano di diritto.  Insomma  in una sola dichiarazione seppelliva anche le posizioni uscite dalla conferenza socialista di Zimmerwald. 

Ciò nonostante, la classe dominante ed il governo, certi di non riuscire ad avere il completo appoggio di tutto il Partito Socialista, si dettero alla più aspra repressione di tutte le voci antimilitariste colpendo duramente tanti dirigenti del Partito. A pagare di più furono i socialisti della frazione della sinistra rivoluzionaria che faceva capo a  Bordiga,  l’unica  a  difendere  la  posizione  intransigente  contro  la  guerra  e  la  necessità  della mobilitazione disfattista, sin dall’avventura  italiana  in Libia (1911) e contro  la guerra balcanica. Ad essa si deve  l’opuscolo  il “Soldo al soldato”(agosto 1913) e  ”Coscritto, ascolta”  (1914) con cui portò avanti la campagna di propaganda ed agitazione antimilitarista presso i lavoratori ed i giovani soldati. Nonostante la censura e la ferrea disciplina militare, il “Soldo al soldato” e  ”Coscritto, ascolta”  continuarono a circolare tra le truppe per tutti gli anni della Grande Guerra. Molti i soldati socialisti arrestati o fucilati perché promotori delle insubordinazioni. 

 Contrari  sino  alla  fine  saranno  anche  gli  anarchici  internazionalisti,  animati  da  Errico Malatesta  e  Camillo Berneri. Nell’agosto  1914,  a  nome  delle  donne,  l’internazionalista  Leda  Rafanelli,  la  profuga  russa Angelica Balabanoff e la socialista Maria Giudice firmano un manifesto delle donne intitolato: “Non vogliamo la guerra!” 

  Da il “Soldo al soldato”:  Il decalogo del coscritto: 

1. Non sparare sui tuoi fratelli lavoratori. 2. Non ti prestare a fare da krumiro. 3. Non odiare né la patria tua, né quella degli altri. Ama la patria dei lavoratori che è il mondo intero… 

  Gli intellettuali e la guerra  

In  Europa  il desiderio prima  e  l’adesione poi  alla  guerra  viene  fatta propria  ‐ quasi  sempre  senza dubbi né esitazioni – da tanti intellettuali e da esponenti della cultura che finiscono così per condizionare pesantemente  l'opinione pubblica. Rudolf Herzog, Paul Ernst, Thomas Mann e lo stesso Sigmund Freud si schierarono a favore dell’intervento. Non mancarono donne inebriate dall’atmosfera di guerra: la danzatrice Isadora Duncan disse di essersi sentita «tutta fuoco e fiamme». 

In  Italia,  l’imminente massacro,  salutato  come  “quarta  guerra  di  Indipendenza”    si  sovrappone  alla  lunga stagione risorgimentale, con  i suoi miti e  la sua retorica:  il Risorgimento come crogiolo della nazione;  il mito garibaldino  del  “popolo  in  armi  per  interesse  supremo  della  Patria”;  un  patriottismo  declinato  come nazionalismo;  l'irredentismo come mito della  liberazione dal giogo straniero delle “terre  irredente”  (Trento e Trieste) e, infine, il vagheggiamento dell'Impero, soprattutto dopo la Guerra di Libia (1911).  

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Non  furono  solo  i  Futuristi  come  Filippo  Tommaso  Marinetti  dunque,  a  partire  dal  1909,  ad  esaltare  il dinamismo  e  l'“igiene  del mondo”  scaturiti  dalla  guerra;  Ardengo  Soffici  e  Giovanni  Papini  dalle  pagine  di “Lacerba”, democratici come Cesare Battisti, persino gli ermetici, con Giuseppe Ungaretti, e,  inoltre, Gabriele D'Annunzio,  che  prima  aderì  alla  Associazione  Nazionalista  Italiana,  fondata  da  Enrico  Corradini,  contro l'«Italietta meschina e pacifista», quindi  si  arruolò  volontario, e Carlo E. Gadda, pure  lui  volontario,  col  suo “Giornale di Guerra e di Prigionia” (1918). Non mancarono quelli di parte socialista come Giovanni Pascoli che nel discorso  tenuto a Barga  (1911), “La grande proletaria  s’è mossa”, già aveva  sostenuto  la guerra  libica  in nome del nazionalismo. 

Anche di fronte al macello, non fecero un passo indietro: 

Paul  Ernst  (“Vossischen  Zeitung”,  22  agosto  1915):  Oggi  siamo  la  nazione  più  grande!  E’  nostro  compito guidare l’umanità verso il progresso. Ogni atto di misericordia verso i popoli inferiori rappresenta un tradimento della nostra missione. 

Giovanni Papini (“Lacerba”, 20 settembre 1914): «Fra  le tante migliaia di carogne abbracciate nella morte e non più diverse  che nel  colore dei panni, quanti  saranno, non dico da piangere, ma da  rammentare?  (…)  La guerra,  infine, giova all’agricoltura e alla modernità.  I campi di battaglia rendono, per molti anni, assai più di prima senz’altra spesa di concio. Che bei cavoli mangeranno i francesi dove s’ammucchiarono i fanti tedeschi e che grasse patate si caveranno in Galizia quest’altro anno!». 

(Lacerba): “Ci vuole alla fine un caldo bagno di sangue. La guerra rimette in pari le partite... Fa il vuoto perché si respiri meglio...  Amiamo  la  guerra  ed  assaporiamola  da  buongustai...  La  guerra  è  spaventosa  ed  appunto perchè  è  spaventosa  e  tremenda  e  terribile  e  distruggitrice  dobbiamo  amarla  con  tutto  il  nostro  cuore  di maschi”. 

(Amiamo  la guerra “Lacerba”, ottobre 1914): Finalmente è arrivato  il giorno dell'ira dopo  i  lunghi crepuscoli della paura. Finalmente stanno pagando la decima dell'anime per la ripulitura della terra. Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue per l'arsura dell'agosto; e una rossa svinatura per le vendemmie di settembre; e una muraglia  di  svampate  per  i  freschi  di  settembre.  È  finita  la  siesta  della  vigliaccheria,  della  diplomazia, dell'ipocrisia e della pacioseria.  I fratelli sono sempre buoni ad ammazzare  i fratelli!  i civili son pronti a tornar selvaggi, gli uomini non  rinnegano  le madri belve.  [...] Chi odia  l'umanità  ‐ e come  si può non odiarla anche compiangendola?  ‐ si trova  in questi  tempi nel suo centro di  felicità. La guerra, colla sua  ferocia, nello stesso tempo  giustifica  l'odio  e  lo  consola. Avevo  ragione  di  non  stimare  gli  uomini,  e  perciò  son  contento  che  ne spariscano parecchi.  

Renato Serra (“Esame di coscienza d’un letterato del 1915” ): Se non parteciperemo alla guerra invecchieremo falliti. Saremo  la gente che ha fallito  il suo destino. Nessuno ce  lo dirà e noi non  lo sapremo, ci parrà d’averlo scordato  e  lo  sentiremo  sempre,  non  si  scorda  il  destino.  Siamo  insieme  aspettando  oggi  come  saremo nell’andare domani. …  La guerra  è un  fatto,  come  tanti altri  in questo mondo; è  enorme, ma  è quello  solo, accanto agli altri  che  sono  stati  e  che  saranno: non  vi aggiunge, non  vi  toglie nulla nel mondo. Neanche  la letteratura. 

 I cattolici al fronte  

Poche settimane dopo l'inizio delle ostilità, viene eletto Papa Benedetto XV, passato alla storia come il “Papa della pace” anche per aver definito la guerra in corso “un'inutile strage”. Ciononostante il clero e le gerarchie cattoliche di tutti i paesi si schierano immediatamente con i rispettivi governi. Così in Francia, in Austria, in Germania. 

In  Italia  la Chiesa non ebbe remore nell’accettare uno sbalorditivo accordo con  lo Stato Maggiore  italiano:  la vendita (sei lire al chilo) di migliaia di campane da fondere per produrre cannoni e mitragliatrici. In più, mise a disposizione  dell’esercito  italiano  24.446  ecclesiastici  e  2400  Cappellani.  Ben  1582  erano  inquadrati  come ufficiali e molti erano al comando di reparti ottenendo anche decorazioni al valor militare. 

I  cappellani  oltre  a  benedire  i  soldati  in  procinto  di  uccidere  e  farsi  uccidere,  svolsero  un’ampia  attività  di propaganda bellica tra i soldati.  

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Mons. Bartolomasi, “Vescovo del campo” con giurisdizione su  tutto  il clero  in armi,  in occasione della prima Pasqua di guerra, spiegò ai soldati quale fosse il loro dovere: “Soldati , vi desidero forti, perché tali vi desidera ed ha bisogno che voi  siate  la Patria,  tale è  il dovere vostro; e dalla  fortezza vostra compatta per disciplina, temprata per virtù d’animo dipendono le sorti delle armi.  La Patria guarda a voi, spera in voi, da voi attende il lieto giorno di pace gloriosa”.   

e contro le diserzioni:  

“Credete voi che si possa vincere una battaglia, una  lunga e aspra guerra quando  il povero capitano  invece di pensare a combattere il nemico deve esaurirsi a spronare i suoi soldati e difendersi dai suoi sotterfugi? Il soldato che fa il soldato per paura (delle punizioni, della prigione o della fucilazione n.n.) è la rovina del reggimento e dell’esercito. …  Il buon soldato fa quello che deve fare perché è il suo dovere, perché egli ama il superiore, ama la disciplina, ama  la Patria, ama  il buon Dio” (spiegazione di un passo del Vangelo da parte di un cappellano, 19/9/1915). 

 Uccisi dalla Patria  

Quando  si  commemorano  i  seicentomila  soldati  italiani morti  nella  Prima Guerra Mondiale,  si  fa  l’indegna operazione  di  attribuirli  al  solo  nemico.  Volutamente  si  nascondono  le  colpe  dirette  dello  Stato  italiano  in questo bagno di sangue. L’Italia entrò in guerra assolutamente impreparata e con la convinzione che si sarebbe trattato di uno scontro della durata di qualche mese. Le armi erano insufficienti tanto che le reclute venivano istruite con  il bastone al posto del fucile (ce n’era 1 per ogni 10 uomini); fino al 1916  la gran parte dei nostri fanti  non  avevano  elmetto  e  portavano  in  testa  berretti  di  feltro.  Nonostante  la  zona  di  guerra  fosse prevalentemente sulle montagne, i soldati non venivano riforniti di indumenti di lana; in settembre 1915, nella sola zona Vrata‐Monte Nero si verificarono 700 casi di congelamento. 

Le  condizioni  e  l’equipaggiamento  dei  soldati  al  fronte  erano,  quindi,  sin  dall’inizio  pessime.  A  questo  si aggiunse la crudeltà del Comando Supremo Militare al capo del qualche era il gen. Luigi Cadorna, sostituito l’8 novembre del 1917 dal gen. Armando Diaz. 

Tra luglio e agosto 1915 infezioni ed epidemie si diffusero tra le truppe nelle zone di operazioni: circa 6000 casi di tifo e 15‐20 mila casi di colera che venivano curati con poco cognac diluito con acqua. Quelli che venivano considerati per spacciati erano lasciati morire di fame. Ne morirono 4.300. 

Molto peggio che  in altri eserciti,  in quello  italiano  la “disciplina militare” assunse  livelli di ferocia  inaudita. Le lettere  scritte  dai  soldati  dovevano  trasmettere  “entusiasmo  per  la  guerra”;  chi  trasgrediva  rischiava  la condanna  al  carcere  militare.  Un  soldato  poteva  essere  arrestato  se  durante  la  licenza  dava  notizie  o  si lamentava delle condizioni al fronte e perfino se si accompagnava  in pubblico con  la fidanzata. Poteva essere fucilato  se  tornava  in  ritardo  da  una  licenza  (bastava  un  semplice  ritardo  di  24  ore  per  essere  dichiarati disertori) o se “sorpreso a riferire o scrivere una frase ingiuriosa contro un suo superiore”; stessa sorte per gli ufficiali che osavano dubitare pubblicamente della tattica imposta dal Comando Supremo.     

Con  il crescere delle perdite ed  i primi episodi di  indisciplina, precise disposizioni  furono date agli ufficiali al comando ed ai Carabinieri per colpire alle spalle i soldati non sufficientemente “arditi” nell’assalto alle trincee. Per  Cadorna,  infatti,  la  giustizia militare  era  troppo morbida  nonostante  il  numero  enorme  di    processi  e condanne. Nei tre anni di guerra ci furono 350mila processi per 150mila condanne, di cui più di 4mila alla pena capitale anche se solo 750 furono quelle realmente eseguite. 

Qualche giorno dopo  la   battaglia dell’Altopiano di Asiago ed  il cedimento del fronte  italiano, Cadorna, In una lettera del 26 maggio 1916 al gen. Lequio, comandante della zona della Carnia, così comandava: “ L’E.V. prenda le più energiche ed estreme misure: faccia fucilare, se occorre, immediatamente e senza alcun provvedimento, i colpevoli  di  così  enormi  scandali    a  qualunque  grado  appartengano.  L’altopiano  di Asiago,  va mantenuto  a qualunque prezzo. Si deve resistere o morire sul posto”. 

Il 28 maggio 1 sottotenente, 3 sergenti ed 8 uomini di truppa appartenenti al 141° reggimento fanteria messo in  fuga  dagli  austriaci,  furono  passati  per  le  armi.  Fu  il  primo  caso  di  decimazione  nell’esercito  italiano.  La decimazione fu una pratica diffusa ed usata tutte le volte in cui l’insubordinazione era commessa da un gruppo di soldati. 

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Il gen. Cadorna  in una circolare  in cui  lodava uno dei comandanti artefici delle decimazioni,  ricordò che non esisteva “altro mezzo  idoneo per reprimere  i reati collettivi che quello di fucilare  i maggiori colpevoli”  . Ma se l’accertamento delle  responsabilità personali non  fosse  stato possibile, ai comandanti  restava “il diritto ed  il dovere di estrarre a sorte alcuni militari e punirli con la pena di morte”. 

Vale la pena ricordare uno dei più terribili episodi di massacro per fuoco amico.  Ai primi di luglio 1916, i fanti appartenenti all’89° reggimento della brigata Salerno furono non solo decimati ma bombardati con le artiglierie e  le mitragliatrici per ordine dei  loro comandanti. Erano 250 uomini feriti e rimasti tra  le due opposte trincee per due  giorni e due notti  senza  soccorso;  furono puniti perché  alcuni di  loro provarono a  consegnarsi  agli austriaci. Due giorni dopo, per un nuovo tentativo di diserzione di massa, la brigata Salerno fu allontanata dalla prima linea ed 8 militari furono fucilati (1 dichiarato reo, 3 indiziati e 4 sorteggiati). 

“Il giorno 1° dello scorso mese di luglio – scrisse Cadorna – in tre successive riprese, nuclei sempre più numerosi, appartenenti al III battaglione dell’89° reggimento fanteria, passavano vilmente al nemico: su di essi si dirigeva, implacabile giustiziere, il fuoco delle nostre artiglierie e delle nostre mitragliatrici.” 

Quanti furono i soldati italiani fucilati per i reati di insubordinazione, per non aver dato prova di “vigore” o che furono  sparati  alle  spalle  dai  Carabinieri  per  non  aver  dato  l’assalto  a  qualche  trincea?  Nessuna  statistica ufficiale  lo dice.  Sta di  fatto  che  i  soldati  facevano di  tutto per non  combattere  e per  sottrarsi  alla  crudele disciplina militare. Alcuni soldati si suicidavano al momento dell’attacco, altri ricorrevano all’autolesionismo o alla diserzione che furono i “reati” più diffusi.  

Le condanne per mutilazione volontaria ed infermità procurate  (finiti spesso con la morte) furono 1403 nel I° anno di guerra, 4133 nel 2°, 3620 nel 3° e 705 nel 4°. In totale 10.000 condanne.  Alla fine del 1916 gli episodi di autolesionismo  iniziarono  diminuire  perché  un  nuovo  decreto  stabilì  che  quelli  in  grado  di  combattere dovevano  tornare  al  fronte  anche  se  condannati.  Era  questo  il  modo  per  evitare  che  le  stesse  carceri diventassero  luoghi di “imboscamento”.  Inoltre  si  stabilì che  se  l’atto autolesionista era compiuto davanti al nemico veniva giudicato  come  “codardia  con atti” e punito  con  la pena di morte. Un provvedimento  che  si giustificava con i frequenti episodi di “amichevole” ferimento reciproco tra i soldati delle contrapposte trincee. 

Le condanne per diserzione furono 101.665. La maggior parte furono alla reclusione da scontarsi dopo la guerra e con l’obbligo di tornare al fronte;  le condanne a morte eseguite 370. Ma a tutte le fucilazioni stabilite dalle Corti Marziali vanno aggiunte le centinaia eseguite sul posto e senza processo ricordate sopra.  

Alla  vigilia  di  Caporetto,  secondo  Cadorna,  c’erano  22.000  disertori  dell’esercito  mobilitato,  circa  34.000 disertori  dell’esercito non mobilitato ed altri 48.000 renitenti non presentatisi alla chiamata.  

Sempre secondo i dati di Cadorna, tra i disertori latitanti non erano numerosi quelli prigionieri del nemico. Al 1 ottobre 1917  lui  stesso dichiarava che  se ne contavano  solo 3000  (tutti condannati a morte  in contumacia). Eppure si usò questa ragione per giustificare il grande massacro per mano della Patria dei prigionieri italiani. 

A loro, infatti, si addebitava di essersi consegnati al nemico, di aver abbandonato le armi ed essersi allontanati dal fronte nel momento cruciale della guerra. Fu questa la giustificazione data da Cadorna e dagli altri ufficiali del Comando Supremo davanti alla sconfitta di Caporetto di cui erano responsabili i loro errori tattici e la superiorità militare dei  tedeschi. L’impreparazione,  l’abbandono delle  linee da parte degli ufficiali,  la disorganizzazione nella ritirata, lasciarono in soli 3 giorni (23‐26 ottobre) ben 294.000 soldati nelle mani del nemico.  

In  totale  si  calcola  che  furono  più  di  600.000  gli  italiani  ammassati  nei  campi  di  prigionia  dell’Impero austroungarico, abbandonati dall’Italia perché considerati “disertori, arresisi volontariamente al nemico”.  

Furono centomila i soldati italiani che morirono di fame nei campi di prigionia per volontà dei generali italiani che proibirono ad essi l’invio di viveri e posta. 

Vienna aveva proposto al governo italiano una soluzione analoga a quella raggiunta da Francia e Germania, con l’invio di  treni di  rifornimenti, ma Roma  rifiutò nella convinzione “che ciò valesse a  trattenere  i combattenti dalla  resa  e  dalla  diserzione”.  Gabriele  D’Annunzio  additava  i  soldati  italiani  prigionieri  come  «Imboscati d’oltralpe, sventurati e svergognati che hanno peccato contro la Patria». 

E così, mentre, ad es., la mortalità tra i francesi prigionieri di guerra fu di appena 18.882 uomini su 1.600.000, di cui  una  parte  per  ferite  contratte  in  precedenza  o  per  tubercolosi,  la  conseguenza  della  criminale  politica italiana  fu  la morte  per  fame  e malattie  di  100.000  suoi  uomini. Non  solo.  Il  sospetto  di  diserzione  veniva 

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pagato con la vergogna, l’emarginazione e la punizione per le stesse famiglie dei soldati a cui veniva tolto anche il  misero  sussidio.  In  più.  Finita  la  guerra  i  prigionieri  sopravvissuti  furono  internati  in  Italia  in  campi  di concentramento  chiusi  solo  nel  gennaio  del  1919  sotto  la  spinta  dell’opinione  pubblica.  Per  loro  era  stato deciso, addirittura, il trasferimento nei lager presenti in Libia e nei Balcani. 

Condanne a morte e processi si ebbero in tutti gli eserciti. 

L’esercito austro‐ungarico, composto da elementi di varie nazionalità, era molto meno omogeneo  degli altri e ciò  si manifestava  con una diffusa  indisciplina  e  frequenti diserzioni di boemi,  romeni,  cecoslovacchi o  altri slavi, punite con  la Corte marziale. Molti dei disertori passavano  letteralmente al nemico. Famoso  l’episodio dell’estate  del  ’17  a  Carzano,  nel  Trentino,  quando  ufficiali  sloveni  si  accordarono  con  quelli  italiani  per consentire a questi di passare oltre le linee. L’operazione fallì per la disorganizzazione italiana.  

In Francia, dove  la  condanna a morte del  soldato doveva essere validata dal Presidente della Repubblica,  ci furono “solo” 554 (49 realmente eseguite) condanne capitali contro 1.492 condanne leggere e 1.381 dai cinque anni all'ergastolo, normalmente condonate a fine guerra. 

In Gran Bretagna la Corte marziale dovette istruire nel corso della guerra ben 300.000 processi per diserzione, conclusisi con 3.000 condanne a morte (solo un decimo eseguite). 

 La ribellione al fronte  

A dispetto del terrore della disciplina militare, le inumane condizioni al fronte, la stanchezza di una guerra così lunga, il rifiuto di uccidere ed essere uccisi, determinarono in tutti gli eserciti episodi di insubordinazione e vero e proprio  ammutinamento. Ad essi  contribuì non poco  anche  ciò  che  stava  avvenendo nella  lontana Russia dove a marzo del 1917 era iniziato il processo rivoluzionario al grido di “pane, pace e libertà”.  

Nell’agosto del 1917 il Comando supremo austro‐ungarico redarguiva gli ufficiali affinché frenassero il desiderio di pace presente tra  le truppe che si esprimeva con scritte sui baraccamenti  inneggianti alla fine della guerra. Addirittura una compagnia boema si arrese, sul Carso, al canto dell’Internazionale.  

In  Germania  la  scintilla  fu  il  peggioramento  del  rancio.  Gli  equipaggi  di molte  navi  da  guerra  elessero  le “commissioni per  il rancio” collegate tra di  loro, molti equipaggi si ammutinarono e ci furono  incontri segreti tra  i  rappresentanti  dei  marinai  ed  i  deputati  schierati  contro  la  guerra.  Il  2  agosto  ci  fu  una  grande manifestazione dei marinai. 

Sul  fronte  francese, tra aprile ed ottobre del 1917, ci  furono ammutinamenti e sommosse che coinvolsero  la metà dell’esercito. L’episodio più clamoroso si verificò, nel maggio 1917, a Missy‐aux‐Bois dove un reggimento di  fanteria  francese  si  impadronì della  città  e nominò un  "governo pacifista".  Le  autorità militari usarono  il pugno di  ferro:  le corti marziali giudicarono colpevoli di ammutinamento 23.395 soldati, dei quali più di 400 vengono condannati a morte. Sentenza poi ridotta a 50 fucilati e ai lavori forzati nelle colonie penali per gli altri. 

In  un’altra  occasione  circa  40.000  soldati  ammutinatisi manifestarono  al  canto  dell’Internazionale.  A  Parigi soldati e scioperanti fraternizzarono inneggiando alla rivoluzione, alla pace, alla Russia. 

L’esercito  britannico  conosce  un  unico  caso  di  indisciplina  collettiva:  nel  settembre  1917  le  truppe acquartierate  nel  campo  di  riposo  di  Étaples  si  ribellarono  alle  dure  condizioni  cui  erano  sottoposte scontrandosi con la polizia militare. 

In  Italia,  nello  stesso  periodo,  nonostante  l’incredibile  aumento  di  processi  e  fucilazioni,  crebbero  le insubordinazioni collettive. Anche in questo caso le cause principali sono da ricercare nel peggioramento delle condizioni  al  fronte:  licenze  negate,  divieto  assoluto  di  ogni  attività  di  svago  ‐  tranne  l’accesso  alle  case  di tolleranza e la grappa distribuita generosamente prima di ogni battaglia‐ e, soprattutto, la fame. 

Infatti, alla fine del 1916 la razione di cibo del soldato diminuì: il pane passò da 750 gr. a 600 gr, la carne da 375 a 250 gr.. A dettare il provvedimento fu non solo la difficoltà degli approvvigionamenti ma, udite udite, anche il parere di molti esperti che ritenevano la razione distribuita troppo ricca di proteine. 

A  ciò  si aggiunga  che quasi mai, né prima né dopo  la  riduzione,  il  soldato  riceveva  la  razione  stabilita ed  in generale era di pessima qualità.  

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Il malcontento era aggravato dalla consapevolezza che  in  tanti, dentro e  fuori  l’esercito,  lucravano sulla  loro pelle, dalla miseria delle loro famiglie e dal diverso trattamento riservato agli ufficiali.  

La paga del fante era di 89 centesimi + 40 centesimi di soprassoldo. Dagli 89 cent. venivano trattenuti: 38 cent per  il vitto, 14 per manutenzione e vestiario, 27 per  il pane. Rimanevano 10 centesimi più  i 40 di soprassoldo per un  totale di 50  centesimi  al  giorno. Molto poco da mandare  alle  famiglie  che,  in  gran parte  contadine, vedevano  il  proprio  reddito  drasticamente  ridotto  per  il  venir meno  della  forza  lavoro maschile.  Solo  alle famiglie più bisognose lo Stato riconosceva un sussidio di 60 centesimi per la moglie e 30 per i figli al di sotto dei 12 anni. Le pensioni in caso di morte o di mutilazione erano un miseria.  

Gli ufficiali, al contrario, godevano di un trattamento economico consistente oltre al buon rancio. 

L’odio per gli ufficiali e la voglia di pace, esattamente come sugli altri fronti, diventava sempre più crescente e con esse le ribellioni, al punto che Cadorna invocò una dura repressione contro i pacifisti ed i disfattisti nel paese. 

In molti episodi, durante  il  trasporto al  fronte,  i  soldati  sparavano all’impazzata dai  treni    in  corsa  contro  il personale ed i carabinieri in servizio presso le stazioni. Le fucilate erano accompagnate da grida come “Abbasso la guerra, abbasso i guerrafondai, evviva la Russia e la rivoluzione”. Numerosi furono anche i casi di carabinieri assassinati in trincea e impiccati o pugnalati nelle retrovie.  

Nelle  audizioni  per  l’Inchiesta  Caporetto,  il  gen.  Porro  ammise  che  nel  semestre  precedente  l’offensiva  di Caporetto, ci furono circa sessanta processi per ammutinamento con rivolta. Il caso più eclatante e drammatico fu quello della brigata Catanzaro (141° e 142° fanteria). L’episodio scatenante fu l’arresto, il 14 luglio  ’17, di 9 soldati considerati  istigatori di proteste che erano stati  individuati da carabinieri  infiltrati.   La sera successiva nuclei  di  rivoltosi  tentarono  di  invadere  il  paese  di  S.  Maria  La  Longa  impiegando  bombe  a  mano  e mitragliatrici.  Tutta  la  6°  compagnia  del  142°  si  ammutinò.  Per  sedare  la  rivolta  intervenne  l’artiglieria, carabinieri, cavalleria e autoblindo, insieme ai reparti rimasti fedeli. Negli scontri morirono 2 ufficiali e 9 soldati e  2  ufficiali  e  25  soldati  furono  feriti. Davanti  a  tale  potenza  di  fuoco,  i  rivoltosi,  approfittando  del  buio  si sciolsero raggiungendo i reparti. All’alba furono fucilati 28 soldati di cui 12 per decimazione. Nei giorni seguenti altri 4 soldati furono fucilati  e 135 militari (di cui 123 della 6° compagnia) furono sottoposti a processo. Circa 500 fra soldati sospetti ed ufficiali “di poca energia” furono allontanati dalla brigata. 

Dopo  la  battaglia  di  Caporetto,  nel  caos  della  ritirata,  furono  centinaia  di migliaia  i  soldati  che  sbandati  e terrorizzati, provarono a tornare a casa. In qualche caso addirittura inneggiarono al nemico nella speranza che la sua vittoria mettesse finalmente fine alla guerra. In molti hanno parlato di “sciopero militare”. In realtà non vi fu nulla di organizzato. A prevalere, nello sbando generale della linea di comando, fu la stanchezza della guerra ed il tentativo  di  cogliere  quell’occasione  per  sottrarsi  al  fronte.  Anche  in  questo  caso,  furono  decine  e  decine  le fucilazioni.  Infatti, pur  in piena offensiva nemica, non mancò chi, come  il gen. Andrea Graziani, pensò bene di intraprendere, come scrisse egli stesso: “una lotta di aggressione morale e fisica contro le orde di sbandati”.  

 Natale di guerra  

L’orrore della Prima Guerra Mondiale è costellato anche di eventi straordinari come quando   soldati    fino al allora  “nemici”,  fraternizzarono.  L’evento più  famoso  ‐   perché documentato, anche  con  foto, dal New York Times statunitense (paese  in quel momento ancora neutrale) avvenne la notte del 24 dicembre 1914, quando in una trincea delle Fiandre, nei pressi di Wulvergem, alcuni soldati tedeschi iniziarono a cantare  “Stille Nacht “ [Astro  del  ciel]  seguiti  da  lì  a  poco  da  un  grande  coro  e  dall’inalberarsi  di  cartelli  con  la  scritta:  “Noi  non spariamo, voi non  sparate”. Dalla parte opposta  inglesi e  francesi, dopo un po’,  risposero  con  canti natalizi. Uscirono  allo  scoperto,  fraternizzarono  e,  contro  gli  ordini  degli  ufficiali,  uscirono  fuori  dalle  trincee  e concordarono  tre giorni di  tregua.  I  soldati  si aiutarono a vicenda per  seppellire  i morti;  ci  furono abbracci, scambi di dolci e persino una partita di pallone. 

Sempre a Natale, a Pervyse, alcuni soldati belgi si riunirono per  la messa  in una chiesa vicina alla prima  linea. Nonostante le luci accese per permettere lo svolgimento della funzione, i tedeschi non spararono un solo colpo per  tutta  la  notte.  Il  giorno dopo,  il  25 dicembre,  sulle  rive del  fiume  ghiacciato  che  separava  le due  linee comparvero  una  sessantina  di  tedeschi  disarmati  che  chiedevano  del  cappellano  militare.  Al  suo  arrivo  i tedeschi cominciarono a cantare. Finito il canto natalizio, cui si unirono i belgi, un ufficiale tedesco consegnò al 

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cappellano un reliquiario neo‐gotico, fatto di oro e pietre preziose che avevano trovato  in una cantina di una casa occupata dichiarando che erano venuti a restituirlo ai legittimi proprietari.  

Anche sul fronte italiano si verificarono episodi di fraternizzazione, ma la documentazione è scarna per la ferrea censura che colpiva le lettere dei soldati al fronte. Da alcuni rapporti militari sappiamo di un Natale di Guerra nel  1916  sui monti  Kobilek  (Friuli)  e  a  Zebio  (altopiano  di Asiago)  quando  soldati  italiani  e  austro‐ungarici, addirittura,  brindarono  gomito  a  gomito;  evento  che  ispirò  Giuseppe  Ungaretti,  che  quel  giorno  scrisse  la poesia “Natale”. Altri episodi nel    febbraio del 1916, sul Carso, e, nel maggio del 1917, sulla vetta Chapot  in Friuli. In molti casi tra le trincee opposte, a volte distanti pochi metri l’una dall’altra, si barattavano persino le cose, come tabacco e pane.  

I comandi ostacolavano ogni contatto con il nemico per timore della fraternizzazione; si proibì non soltanto la raccolta dei feriti durante il giorno ma anche l’invio di parlamentari se non in casi eccezionali.  

 L’opposizione sociale  

In Italia lo scontro tra borghesia nazionalista guerrafondaia e proletariato internazionalista inizia con l’impresa libica.  Anarchici  e  socialisti  si  opposero  all’avventura  coloniale  italiana:  blocchi  dei  binari  per  impedire  la partenza  dei  soldati,  sabotaggi  alle  strade  ferrate,  assalti  alle  caserme,  scioperi, propaganda  tra  i  soldati  in partenza e tra quelli che reprimevano le manifestazioni. La repressione giolittiana fu feroce e centinaia furono gli  antimilitaristi,  anarchici,  socialisti  e  sindacalisti  condannati.  Per  gli  effetti  che  ebbero  sui  fatti  del  ’14 ricordiamo: il muratore Augusto Masetti, che la mattina del 30 ottobre 1911, alla caserma Cialdini di Bologna, gridando «Abbasso la guerra! W l’anarchia!», sparò al colonnello Stroppa che elogiava la guerra di Libia, feren‐dolo alla spalla. Pur di evitare un processo che avrebbe rischiato di dare pubblicità alle sue idee antimilitariste, venne giudicato pazzo e rinchiuso nel manicomio criminale di Imola; e Antonio Moroni che per aver scritto una lettera  al  fratello, pubblicata dall’«Avanti! »  il 23 dicembre 1912,  in  cui  lamentava  il durissimo  trattamento subito  per  le  sue  idee  politiche  nel  reggimento  in  cui  era  arruolato,  venne  incriminato  per  diffamazione dell’esercito. Prosciolto dal Tribunale di Cagliari  il 27 aprile 1913, fu assegnato alla Compagnia di Disciplina di San Leo di Romagna(Pe). Le compagnie di disciplina nell’esercito erano dei veri e propri campi di rieducazione dove  finivano  le  reclute  ed  i  soldati dissidenti  che, oltre  a  subire  trattamenti disumani,  venivano  addetti  ai lavori più duri e umilianti ed agli incarichi più pericolosi. 

Di fronte ai rischi di una nuova guerra, nel 1914 la campagna antimilitarista si fece ancora più aspra. Il 7 giugno, ad Ancona, i circoli repubblicani, anarchici e socialisti convocarono, nell’anniversario dello Statuto Albertino, un comizio antimilitarista,  in cui si chiedeva  l'abolizione delle Compagnie di Disciplina nell’Esercito, si protestava contro  il militarismo  e  contro  la  guerra  e  si  chiedeva  la  liberazione  di  Augusto Masetti  e  Antonio Moroni, simboli delle persecuzioni militariste. La manifestazione, duramente repressa dai carabinieri, si concluse con 3 morti  e  numerosi  feriti.  La  protesta  diventò  subito  rivolta  in  tutta  la  città  e,  con  il  diffondersi  della  notizia dell’eccidio, si estese in tutta Italia. Fra le grandi città insorsero Torino, Milano, Parma, Firenze e Napoli dove la marina sbarcò truppe d’assalto (3  i morti, 4  i feriti e 30 gli arresti). Scontri, feriti e morti si contarono  in ogni parte. Vengono proclamate repubbliche provvisorie. Fu la settimana rossa. I capi tradirono (la Confederazione del lavoro, ad es., ordinò la fine dello sciopero generale), ma i lavoratori lottarono contro la guerra ed in difesa delle loro condizioni di lavoro. La parola d’ordine era quella della fratellanza con uno schieramento al fianco di quanti lottano anche in altri paesi: i minatori del Colorado massacrati dalla Guardia Nazionale, i dissidenti russi spediti  in Siberia,  l’argentino Teodoro Antilli e  il  cubano Eduardo Vasquez,  incarcerati per  reati di  stampa e Juesus Gonzales, ucciso sul Rio Bravo dagli americani mentre raggiunge ribelli messicani.  

Stroncata la rivolta, Salandra impose la guerra a gente che la odiava. Non mancarono proteste, scioperi e gesti eclatanti, come quello di Libero Merlino che  ferì  in duello Mussolini  interventista. Ma dobbiamo aspettare  il 1916 per la discesa in piazza di migliaia di donne, di operai, di contadini e braccianti. 

Infatti, a partire da gennaio, in tutt’Italia si ebbero centinaia di violente manifestazioni contro il prolungarsi del conflitto. Ad animarle erano soprattutto le donne. Quasi ogni lunedì, giorno in cui venivano distribuiti i sussidi, si  verificavano  dimostrazioni  per  il  ritorno  dei  soldati  dal  fronte  e  per  l’aumento  dei  sussidi. Ma  il  dato economico era presso che  irrilevante  tant’è vero che anche quando  i sussidi  furono aumentati,  la gran parte delle donne si rifiutavano di riscuoterli preoccupate che gli aumenti fossero il contentino per la continuazione 

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indisturbata della guerra. La direzione generale della Pubblica sicurezza calcolò che solo tra il 1 dicembre ’16 al 15 aprile ’17 ci furono circa 500 manifestazioni. 

Eccezionali  furono  le manifestazioni  in Campania  (22  in  tra maggio e novembre)  con 5 municipi  invasi. A  S. Gregorio  Magno  in  2000  assalirono  i  carabinieri  invocando  la  pace;  a  Sora  invasero  la  sottoprefettura chiedendo  il  ritorno dal  fronte; a   Monte S. Biagio  (Caserta)  ci  fu  il  tentativo di  invadere  il municipio e una giovane fu uccisa dalla pubblica sicurezza; ad Orsara di Puglia (allora provincia di Avellino) la popolazione scese nelle  piazze  e  distrusse  la  linea  telegrafica. Manifestazioni  si  susseguirono  a  Firenze,  Parma,  Reggio  Emilia, Bologna e nel ferrarese. 

Nei primi giorni di maggio del  ’17 a Milano  la manifestazione, composta  in maggioranza da donne proletarie, provenienti  anche  dalle  campagne,  percorse  i  quartieri  industriali  lanciando  sassi  contro  gli  stabilimenti  di produzione di armi. Insieme agli operai usciti dagli stabilimenti si chiedeva la chiusura delle fabbriche di morte, pace subito e ritorno a casa dei soldati. Le cronache di allora le descrissero come furie.  

Infine, i moti di Torino dell’agosto del ’17: l’unico esempio di una intera città in rivolta nel pieno della guerra.  

A  Torino  l'opposizione  alla  guerra  era  stata  vivissima  fin  dal  1914  sia  perché  la  grande, media  e  piccola borghesia  era  stata  nella  grande maggioranza  giolittiana  e  neutralista,  sia  per  la  presenza  di  un  proletario operaio combattivo e radicale (il grande sciopero del maggio 1915 lo aveva dimostrato). 

Lo scoppio della guerra e la presenza a Torino della grande industria avevano fatto della città la prima grande città  industriale  italiana e quindi  la fucina e  l'arsenale della guerra. Il numero degli operai si era  ingrossato ed ammontava  ora  a  varie  centinaia  di migliaia  con  un  forte  aumento  delle  donne,  soprattutto  nell’industria pesante, e del lavoro minorile al di sotto del limite dei 15 anni imposto dalle leggi.  

La  “speciale  legislazione  di  guerra”  promulgata  dallo  Stato  aveva  di  fatto  militarizzato  gli  stabilimenti imponendo  la  soppressione di  tutte  le  conquiste  sindacali a  cominciare dal diritto di  sciopero ed un  regime disciplinare volto a garantire il massimo di sfruttamento (allungamento dell’orario di lavoro, turni di notte, ritmi inauditi) oltre che a punire qualsiasi attività sindacale, le assenze collettive e individuali dalle fabbriche, i rifiuti di  obbedienza  ed  i  sabotaggi.  Se  per  le  donne  ed  i  bambini  le  pene  si  traducevano  in multe, minacce  e licenziamenti, per gli uomini significavano processi, prigione, internamenti e invio al fronte. 

La  disciplina militare  di  fabbrica  era,  quindi,  ben  lontana  dal  garantire  una  situazione  di  “privilegio”  e  di “imboscamento” immaginata ed odiata dai soldati al fronte; un risentimento alimentato anche dalla campagna antisocialista  del  governo  e  dei  comandi militari  e  su  cui,  nel  dopoguerra,  si  fece  leva  da  parte  delle  forze politiche borghesi, in primis il fascismo, per alimentare la contrapposizione tra gli operai e le loro organizzazioni politiche e i disperati che tornavano dal fronte.   

La militarizzazione, lo sfruttamento selvaggio, il salario reale falcidiato e la costante irreperibilità di vari generi di prima necessità avevano reso le condizioni operaie insopportabili.  

Il 1917 è  l'anno peggiore. Tre anni di guerra avevano portato  le  condizioni di vita e di  lavoro del proletariato urbano al limite. Tra marzo e agosto, la situazione è aggravata dalla penuria di pane. Scendono in agitazione e in sciopero in questi mesi decine di fabbriche torinesi, dalle metallurgiche alle automobilistiche, e alle rivendicazioni economiche  si  intreccia  la propaganda per  la pace e, poiché proprio  in questo periodo giungono gli echi della rivoluzione russa del febbraio, sempre più spesso la parola d'ordine diventa di "fare come in Russia". 

Il 21  agosto  la  crisi  si  aggrava e  si  conta  che ottanta  fornai  rimangano  chiusi:  gruppi di donne manifestano davanti alla Prefettura e davanti al Municipio, mentre  il giorno successivo  iniziano  le battaglie  in strada. Nel quartiere Vanchiglia la folla attacca la caserma delle guardie, che sparano ferendo tre dimostranti;  gli scontri si allargano a macchia d'olio in tutta la città, mentre sempre più operai scendono in sciopero e da dimostrazione per  la  penuria  del  pane  diviene  lotta  politica  contro  il  governo  e  per  la  pace  (Ce  ne  infischiamo  del  pane! Vogliamo la pace! Abbasso i pescecani! Abbasso la guerra!) 

L'Autorità,  seriamente  preoccupata,  arresta  il  Segretario  della  Camera  del  Lavoro  ed  occupa militarmente  i locali camerali. 

Il 23 lo sciopero è spontaneo e chiaramente preinsurrezionale in tutta la città, malgrado che nessun ordine sia partito dai sindacati;  i negozi vengono saccheggiati,  in  tutti  i quartieri vengono erette barricate, gli scontri a fuoco  si  moltiplicano,  i  roghi  cominciano  ad  essere  appiccati  in  punti  nevralgici  della  città.  Due  reparti 

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dell'esercito vengono disarmati dai dimostranti e due caserme di guardie di città (a Barriera Milano e a Barriera Aurora)  vengono  assaltate.  È  in  questa  giornata  che  si  contano  i  primi  due morti  della  rivolta,  uccisi  dalle guardie in Piazza Statuto. 

Il 24 è la giornata culminante dell'insurrezione. Nella mattinata tutti i quartieri operai periferici sono in mano al proletariato  insorto  (verranno definiti  la  "cintura  rossa"), mentre  il  centro  città è presidiato dall'esercito; gli operai  spingono  tutt'intorno al centro, cercando di convincere  i  soldati,  tramite manifesti, volantini e donne infiltrate, a passare dalla propria parte o almeno di disarmarli. I risultati di questo tentativo di fraternizzazione con i soldati sono del tutto deludenti. 

La riscossa della forza pubblica è terribile. Entrano  in campo  le automobili blindate e si scagliano a corsa folle per le vie gremite, scaricando le mitragliatrici all'impazzata sulla gente che fugge, su coloro che resistono, nelle finestre delle case, nelle porte, nei negozi alla cieca. 

Quando i carri si misero in moto: “le donne si slanciarono, disarmate, all'assalto, si aggrapparono alle pesanti ruote,  tentarono  di  arrampicarsi  alle  mitragliatrici  supplicando  i  soldati  di  buttare  le  armi.  I  soldati  non spararono,  i  loro volti erano  rigati di  sudore e di  lacrime. Le  tanks avanzavano  lentamente. Le donne non  le abbandonavano. Le tanks alfine dovettero arrestarsi» (Da un opuscolo «Agosto 1917: i fatti di Torino» uscito a Parigi nell'agosto 1928 a cura della «Sezione femminile del Partito Comunista d'Italia» riportato da Spriano). 

Sabato 25 agosto il moto operaio rifluisce, schiacciato dalla repressione armata, dal tradimento della destra del Partito socialista e dalla impreparazione dei «sinistri». Lo sciopero però è ancora quasi unanime in tutta la città e  gli  scontri  si  susseguono  ovunque, ma  le  barricate  sono  state  disfatte  dalle  truppe. Nella  notte  la  polizia arresta tutti i membri delle sezioni esecutive del Partito Socialista e della Camera del Lavoro ed in particolare i «sinistri» che ancora erano a piede libero. Naturalmente non vengono arrestati i massimi dirigenti moderati. Il 26 l'insurrezione è praticamente battuta anche se fino al giorno dopo continua compatto lo sciopero in tutta la città e nelle località della provincia.  

I morti proletari furono circa 50 e 200 i feriti; i militari caduti meno di una diecina e circa 30 i feriti. Migliaia gli operai arrestati di cui 822 rinviati a giudizio. 

Un anno dopo  il Tribunale Militare condannerà, «quali autori morali» dei fatti di Torino, Barberis a sei anni di reclusione, Rabezzana a quattro di detenzione, Serrati a tre anni e mezzo di detenzione, Pianezza, Dalberto e Giudice a tre anni e un mese di detenzione ciascuno. 

Anche negli altri paesi non mancarono manifestazioni e scioperi che chiedevano la fine del conflitto. 

In Germania già nel 1916  c'erano  state manifestazioni    contro  la guerra.  Il 1° maggio  in una manifestazione operaia  Karl  Liebknecht  fu  arrestato mentre,  in  uniforme,  distribuiva  volantini.  Nell’aprile  del  1917  più  di 300.000  operai  delle  industrie  belliche  entrano  in  sciopero  a  Berlino  e  Lipsia.  A  gennaio  del  ‘18  numerosi scioperi di massa guidati dai socialdemocratici espulsi dalla SPD per la loro opposizione alla guerra chiedevano la  fine della  guerra. A Berlino, proprio durante questi  scioperi  si  ebbe  il primo    consiglio dei  lavoratori,  sul modello dei soviet. Nella rivoluzione di novembre saranno oltre 10.000 i “consigli degli operai e dei soldati” nati dall’ondata di scioperi in 30 città tedesche. 

Anche  in Austria nel gennaio 1918 un'ondata  straordinaria di  scioperi  spontanei partita da Wiener Neustadt dilagò  in gran parte del paese, compresa Trieste; ad essi, ai primi di  febbraio, si collegò  la rivolta della  flotta ormeggiata a Cattaro. 

In Gran Bretagna ci furono scioperi già nel febbraio 1915 contro l’abbassamento dei salari e le dure condizioni di lavoro imposte dal padronato. Il conflitto paralizzò i cantieri navali del Clyde; ad agosto scesero in sciopero i minatori del Galles ed i metallurgici.   

In Francia gli scioperi iniziarono a gennaio del 1916 nel settore dell’abbigliamento al grido “Abbasso i salari da guerra”. Nell’ottobre del ’17 gli scioperi operai sfociarono nella fraternizzazione tra  gli scioperanti e migliaia di soldati che si erano ammutinati. 

    

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Gli internamenti  

A partire dal giugno del 1915 le autorità militari italiane diedero avvio nei territori ex‐austriaci occupati ad ampi sfollamenti delle popolazioni (si stimano in circa 70.000) e ad una severa politica di internamenti di massa volta a “bonificare”  le “zone di guerra” dagli ostili “irredenti”, garantire  la sicurezza militare ed  imporre una rapida italianizzazione  dei  territori  occupati.  Tra  le  3.000‐5.000  persone  provenienti  dall’Isontino,  dal  Cadore,  dal Trentino furono internate con l’accusa di essere “austriacanti”, sovversivi e spie.  

Con il proseguire del conflitto ed in particolare dopo la sconfitta di Caporetto ed i fatti di Torino del 1917, con l’aumento  cioè  delle  diserzioni  e  degli  scioperi,  non  solo  le  “zone  di  guerra”  si  allargarono  a  quasi  tutte  le regioni dove erano presenti  le grandi  fabbriche di armi e materiale bellico, passando  sotto  il  controllo delle autorità militari, ma furono emessi una serie di decreti per punire duramente e più  liberamente quanti erano anche solo sospettati di disfattismo o di azioni contro  la produzione. Le autorità sia civili che militari ebbero mano  libera  per  processare  e  imprigionare  e,  nel  caso  di  prove  inesistenti  o  di  assoluzione,  di  ricorrere all’internamento di socialisti, anarchici e sindacalisti. Un potere che si rafforzò con il decreto del 6 marzo 1918 (n. 305)  con  cui  si allargarono ulteriormente  le  facoltà delle autorità di p.s.  riguardo agli allontanamenti dei cittadini italiani, fornendo ai prefetti uno strumento di intimidazione contro gli operai più attivi nelle lotte per ottenere miglioramenti delle condizioni di lavoro. 

Dopo una prima  fase  in cui  l’internamento significò  l’invio  in carcere,  il governo scelse di creare dei centri di smistamento  (Novara  e  Firenze)  dai  quali  si  provvedeva  a  trasferire  gli  internati  in  località  individuate  dal Ministero  degli  Interni  fuori  dalle  “zone  di  guerra”:  i  soggetti  ritenuti  più  pericolosi  in  Sardegna  (2.276  nel periodo 1915‐1918) e nelle  isole di Ponza,   Ustica, Lampedusa e Ventotene, vere e proprie colonie penali; gli altri, soprattutto donne e bambini, venivano smistati verso località isolate, specie del Sud. E’ il confino, niente affatto concepito dal fascismo che non si inventò né le modalità né i luoghi. 

La  sorveglianza  cui  gli  internati  erano  sottoposti  era  odiosa  e  la  libertà  di  circolazione  era  subordinata all’autorizzazione del Segretariato Generale. Dal rispetto del domicilio coatto dipendeva anche  il ricevimento del sussidio di una  lira al giorno che  il governo aveva  istituito per far fronte alle condizioni di povertà di gran parte  di  essi. Una miseria  che,  insieme  alle  pessime  condizioni  abitative,  l’isolamento  e  l’ostilità  dei  locali, destinò alla morte per malattia e fame molti bambini e donne anziane, in particolare nelle aree del Meridione dove era quasi  impossibile trovare un  lavoro con cui  integrare  il sussidio. Di questa disumana condizione non mancò chi si approfittò: spesso gli internati, come i profughi, soprattutto se donne, furono vittime di episodi di sfruttamento sul lavoro, di discriminazioni nell’erogazione dei sussidi o di speculazioni sul vitto e sugli alloggi. 

Va aggiunto,  inoltre, che  l’assistenza alle/agli  internate/i era subordinata a programmi di “redenzione” atti a favorire  il  “sentimento  di  italianità”  e  dissipare,  specie  nella  popolazione  femminile  delle  terre  redente,  i pregiudizi “fomentati dal gendarme e dal prete austriaco contro la nuova patria”. Questa volontà “civilizzatrice” permeava tutti i comitati di assistenza, come ad es. il “Comitato nazionale per le colonie dei profughi delle terre redente”  costituitosi  a Milano  nel  novembre  del  1915  e  guidato  da  esponenti  patriottiche,  e  poi  fasciste, dell’emancipazionismo femminile come Ada Negri e Margherita Sarfatti. 

L’esplicita avversione alla guerra e gli stereotipi femminili, furono alla base dell’accanimento con cui le autorità italiane usarono gli internamenti contro le donne.  

In particolare nel corso del primo anno di guerra, la motivazione principale di internamento per la componente femminile  fu  l’“austriacantismo”, spesso accompagnato dall’accusa di spionaggio, con cui si colpivano donne con  un  cognome  austriaco  o  tedesco,  o  che  avevano  i  figli  o  i mariti militari  nell’esercito  austriaco,  o  che intrattenevano corrispondenze epistolari con l’estero. 

Un’accusa talmente vaga da prestarsi ad essere usata largamente per intimidire e minacciare quelle donne che negavano all’esercito occupante quelli che venivano da esso considerati come i diritti acquisiti del vincitore. In non pochi casi,  infatti,  la reazione alle molestie,  l’indisponibilità sessuale venne qualificata come reato di  lesa maestà e punita severamente anche con questo provvedimento. 

Altre ragioni erano: il mancato rispetto di divieti ed ordinanze, il criticare le operazioni militari e l’occupazione, l’esaltazione della potenza dell’esercito austriaco, gli atti di disfattismo. 

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Le  donne,  infatti,  forse  più  degli  uomini, manifestavano  apertamente  l’ostilità  contro    l’occupazione  delle truppe  italiane,  resa  ancora  più  insopportabile  dal  fatto  che  mariti  e  fratelli  combattessero  nell’esercito austroungarico oppure fossero stati internati dalle autorità italiane. 

Tra  il novembre del 1917 e  il  febbraio del 1918 numerosi  furono gli  internamenti di donne accusate di  reati gravi quali  il favoreggiamento alla diserzione, particolarmente ricorrenti nei piccoli paesi veneti delle retrovie dove  i  soldati  in  fuga  venivano  nascosti,  ospitati  e  dotati  di  abiti  civili.  Lo  strumento  repressivo dell’allontanamento si intensificò contro le donne anche nelle  altre “zone di guerra” (Milano, Torino e Genova) dove,  in particolare contro  le straniere o  le  italiane coniugate con  tedeschi, si usò  l’accusa di   “prostituzione vicino alle industrie” e di “propaganda tedescofila”.

La prostituzione,  infatti,  fu  l’altro elemento usato come accusa strumentale contro  la popolazione  femminile soprattutto nelle  retrovie.  In molti  casi  l’internamento  avveniva per  “dubbia moralità”,  i  “facili  costumi”,  la presunta capacità di “danneggiare scientemente l’efficienza dei soldati col inoculare [...] malattie celtiche”.  

Ciò era  facilitato proprio dal  fatto che  la prostituzione nelle  immediate  retrovie del  fronte era  realmente un fenomeno dilagante a causa della rilevante concentrazione delle truppe e del progressivo peggioramento delle condizioni economiche della popolazione anche grazie alle depredazioni dei nuovi “liberatori”.  In particolare, proprio tra gli sfollati il fenomeno ebbe una crescita rilevante dal momento che i miseri sussidi e l’assenza della componente  maschile,  costringevano  le  donne  all’esercizio  della  prostituzione  per  sfamare  i  propri  figli. L’esigenza di frenare la diffusione di malattie veneree che metteva a repentaglio l’integrità dell’esercito, portò, quindi,  alla dura  repressione della prostituzione  clandestina. Come  in  tutti  i  teatri di  guerra,  furono  istituiti bordelli regolamentati dove tante donne, con ritmi di fabbrica, facevano da carne di piacere per i soldati.   

 l protagonismo delle donne.  

La guerra  fu per  le donne un periodo di  trasformazione. L'enorme numero di uomini  sotto  le armi costrinse tutte le nazioni belligeranti a sostituire i lavoratori maschi con ragazze e donne. 

In Italia furono centinaia di migliaia quelle che presero il posto degli uomini nell’industria e nell’agricoltura. Il 1 novembre 1918  le donne occupate nelle sole  industrie   di guerra furono 196.000 (22% degli addetti totali). A Milano nelle 1.757 aziende oggetto di inchiesta, le donne occupate erano passate da 27.106 unità del 1914 alle 42.937 degli  inizi del 1918  (+58%). Nelle campagne  il  loro apporto fu addirittura maggiore, dal momento che oltre la metà dei combattenti (2,600 milioni) proveniva dalle fila dei contadini.  

In Gran Bretagna tra luglio 1914 e novembre 1918 le lavoratrici passarono da 3,3 a 4,9 milioni portando il tasso di femminilizzazione della manodopera al 38%. Nell'industria degli esplosivi e delle munizioni lavorarono circa 950.000 donne note come munitionettes o canaries (canarini) per il giallo di cui si colorava la pelle dopo pochi mesi  di  lavoro  a  contatto  persistente  col  TNT  (trinitrotoluene).  In  queste  fabbriche, molto  pericolose,  ne morirono 200 e  altre migliaia  furono uccise o  soffrirono di malattie professionali dovute  ai prodotti  chimici usati  e  alla mancanza  di  qualsiasi  protezione.  Il  numero  di  donne  impiegate  in  agricoltura  crebbe,  ed  esse vennero  ad  essere  definite  come Women's  Land  Army.  Alla  fine  della  guerra  quasi  300.000  donne  erano impiegate  in  questo  settore. Un  altro  settore  chiave  per  l'impiego  di manodopera  femminile  fu  quello  dei trasporti: si videro le prime autiste di mezzi pubblici, mentre le donne impiegate presso le ferrovie arrivarono alle 50.000 unità. 

In Francia, paese a forte occupazione femminile già prima della guerra (7,7 milioni di lavoratrici), l’ulteriore ingresso delle donne nelle industrie e nei servizi, porta la manodopera femminile al 40% del totale. In Austria‐Ungheria, se nel 1913 solo il 17,5% degli operai dell'industria era donna, nel 1916 questa percentuale sale al 42,5%. 

In Germania si assiste ad un incremento di oltre il 50% dell’impiego femminile nella grande industria del settore metallurgico, dell’elettricità e della chimica. In particolare cresce più che negli altri paesi la quota delle donne impiegate nel  lavoro a domicilio  riconvertito  in produzione di guerra  (uniformi, maschere antigas, calzature, ecc.). Nel 1918 la quota totale della manodopera femminile raggiunse il 55%.  

L’entrata  nel  mondo  del  lavoro  di  masse  di  donne  viene  raccontata  come  l’inizio  dell’”emancipazione” femminile.  In  realtà,  le  donne  pagarono  a  caro  prezzo  questo  traguardo  che  il  dopoguerra  si  incaricò  di dimostrare quanto fosse effimero.   

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Infatti, ovunque,  i  salari delle  lavoratrici, a parità di ore di  lavoro e di mansioni, erano  in media meno della metà della paga degli uomini. In fabbrica subivano discriminazioni non solo economiche dai datori di lavoro (ad es. in Germania, gli imprenditori facevano firmare alle donne una lettera di dimissioni all’atto dell’assunzione) e molestie sessuali da parte dei capi;  infine sopportavano  le diffidenze da parte dei compagni maschi anche  in ambito sindacale. Alle 10‐12 ore di lavoro in fabbrica si aggiungevano, poi, la fatica di cura della famiglia. 

Queste  terribili  condizioni  di  vita,  l’odio  per  una  guerra  responsabile  della  perdita  dei  loro  affetti,  spiega l’incredibile  protagonismo  delle  donne  nelle  lotte  per  il  salario  (in  particolare  la  rivendicazione  della  parità salariale con gli uomini) e contro la guerra. In tutti i paesi sono loro, nella maggioranza dei casi, a dare avvio alle rivolte per la mancanza di pane ed agli scioperi sul lavoro.  

Questa  immissione  forzata  nel mercato  del  lavoro  e  nelle  lotte  di  così  tante  donne  determinò  giocoforza  un cambiamento sociale e culturale in particolare in Italia. Tale cambiamento, però, rimase ambiguo. Nonostante si assistesse ad uno stravolgimento degli elementi tradizionali dell’identità e dell’immagine femminile, del privato, della  stessa  riproduzione, non  venne mai meno  il  richiamo ai  tradizionali  ruoli dei  sessi ed  alla pericolosità di questa inversione. Specie in Italia, non mancarono assimilazioni della donna che lavorava alla prostituta. 

Nonostante  ciò,  finita  la guerra,  in quasi  tutti  i paesi  coinvolti,  la preoccupazione per  l’attivismo dimostrato dalle donne come rafforzamento delle lotte operaie e la necessità di farle rientrare nei ranghi, portò ad alcune riforme nel campo dei diritti e del voto.  

In  Italia,  la riforma di Ettore Sacchi del 1919 abrogò finalmente  l’istituto dell’autorizzazione maritale,   garantì piena  capacità giuridica alle donne  coniugate  (anche  se gli uomini mantenevano ancora  la patria potestà) e legittimò  le donne ad esercitare tutte  le professioni,  incluse quelle pubbliche (eccezion fatta per  i magistrati, per le diplomatiche e gli agenti di polizia). Ma negò il diritto di voto (ottenuto solo nel 1946). 

Germania ed Austria nel 1918 estesero il diritto di voto a tutte le donne, in Gran Bretagna il Parlamento lo varò solo per  le donne di età superiore ai 30 anni.  In Francia una  legge  in  tal senso, presentata nel 1919, non  fu approvata fino al 1944. 

Fu  il “premio” concesso per  il sacrificio delle donne; gli  fece da contraltare  la smobilitazione dal mercato del lavoro:  era  ora  di  restituire  agli  uomini  il  posto  occupato.  La  retorica  dominante  fu,  infatti,    quella  che prescriveva alle donne di tornare in seno alla famiglia, ai compiti procreativi e materni.  

Le prime ad essere  licenziate furono quelle  impiegate nel settore bellico, ma,  in nome del diritto al reintegro degli ex‐combattenti,  i  licenziamenti proseguirono  rapidi  in  tutti  i  settori. Nel 1921 nel nostro paese, ad es., risultarono occupate nell’agricoltura 3 milioni di donne, nell’industria un milione e 173.000 in meno rispetto al 1913, mentre le donne inattive erano 14 milioni.  

A questo veloce rientro nei ranghi familiari si accompagnò ovunque una campagna sempre più ostile al lavoro femminile  e  di  feroce  critica  nei  confronti  delle  donne  emancipate  e  del  femminismo.  Ne  derivò  una esaltazione della casalinga e della figura materna. La drastica caduta della natalità combinata con  la morte  in guerra  di  milioni  di  uomini,  alimentarono  dovunque,  da  una  parte,  misure  che  vietavano  la  propaganda anticoncezionale e reprimevano  l’aborto, dall’altra, politiche di sostegno all’incremento demografico. In Italia, sarà il fascismo a svilupparle con particolare forza, annientando qualsiasi velleità d’emancipazione femminile.  

 La guerra fuori dall’Europa  

L’arena principale della Prima Guerra fu    l’Europa, ma a causa delle ragioni che  l’avevano determinata furono proprio  le colonie  l’altro fronte su cui si giocarono  i nuovi equilibri mondiali. L’avvio della guerra vide,  infatti, l’immediato  sviluppo  delle  operazioni  militari  in  Asia,  Medio  Oriente,  Oceania  ed  Africa  per  scalzare  la Germania  dai  sui  possedimenti  coloniali. Grazie  al Giappone,  all’Australia  ed  alla Nuova  Zelanda,  entrati  in guerra al fianco di Francia e Gran Bretagna, furono sufficienti pochi mesi e pochi combattimenti per liquidare i possedimenti tedeschi nel Pacifico (Kiao Ciao e Tsing‐Tao in Cina, isole Caroline, isole Marshall, isole Marianne, Samoa  e  Nuova  Guinea  Tedesca). Molto  più  complesso  risultò  lo  scontro  in  Africa.  Qui  la  Germania,  pur partendo da posizioni  svantaggiate  (presenza di poche guarnigioni e  le proprie  colonie  circondate da quelle inglesi, francesi, belghe e portoghesi) dette del filo da torcere ai suoi competitors. 

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Se, infatti, l’ odierno Togo fu rapidamente occupato dalle forze anglo‐francesi (la Francia la parte orientale e la Gran  Bretagna  quella  occidentale)  già  entro  la  fine  dell'agosto  1914,  ci  vorrà  un  anno  per  l’occupazione  dell'Africa del sudovest (odierna Namibia) da parte del governo bianco del Sud Africa, e si arriverà a febbraio 1916 per  avere ragione delle truppe tedesche in Camerun.  

Ancora più duro  lo  scontro nell’Africa orientale  tedesca  (attuale Tanzania) dove gli alleati ebbero bisogno di schierare enormi quantitativi di uomini e mezzi. Qui poco più di 300 tedeschi con circa 2000 indigeni arruolati, con una tattica di guerriglia, riuscirono a ritardare l’occupazione e a portare attacchi alle colonie confinanti; si arrenderanno  nella  Rhodesia  settentrionale  (attuale  Zambia)  solo  il  26  novembre  1918,  dopo  essere  stati informati dell'avvenuta capitolazione della Germania. A comandare le truppe tedesche è von Lettow Vòrbeck, lo  stesso che nel 1905 aveva guidato  le guerre di genocidio contro  i Nama e gli Herero che  si  ribellavano al dominio tedesco (solo tra gli Herero ne furono massacrati 65.000). 

L’altro  fronte  fu  il  Medio  Oriente.  Con  la  campagna  della  Mesopotamia  gli  inglesi  riuscirono  non  solo  a difendere  dalla  minaccia  ottomana  i  possedimenti  nel  Golfo  Persico,  ma  avanzarono  fino  a  Baghdad. L’occupazione dell’Egitto ed il controllo del canale di Suez consentirono la sconfitta degli ottomani anche nella Penisola del Sinai. Nel dicembre del 1917 cadde Gerusalemme e nell’ottobre 1918 gli inglesi avanzarono fino in Siria decretando  la fine dell’Impero Ottomano. Ciò fu reso possibile anche grazie all’offensiva delle tribù della penisola arabica insorte contro gli ottomani sotto la guida del colonnello britannico Thomas Edward Lawrence (passato alla storia come "Lawrence d'Arabia").  

Il  conflitto  tra  i  due  schieramenti,  infatti,  fu  combattuto  anche  istigando  ed  armando  rivolte  dei  popoli dominati.  In  Africa  furono  particolarmente  attivi  i  tedeschi  che,  per  supplire  alla  loro  debolezza militare,  operarono per  sollevare  le popolazioni  sia nel Sud Africa  (appoggio ai boeri  contro gli  inglesi)  sia nell’Africa settentrionale (Marocco, Libia, Darfur, ecc).  

Queste operazioni riuscivano senza grandi sforzi visto l’odio ed il fuoco sempre acceso delle ribellioni in popoli schiavizzati  senza  pietà  dal  dominio  bianco.  Un  odio  che  il  conflitto  inter‐imperialistico  non  fece  che aumentare.  Infatti, al  “normale”  sfruttamento ed alle  “normali” espropriazioni  si aggiunsero  il  reclutamento forzato dei soldati e dei portatori, le requisizioni di bestiame e di alimenti, i saccheggi e la distruzione di interi villaggi, portati avanti senza eccezione da tutti i paesi colonizzatori. Le rivolte contro il dominio occidentale ed il rifiuto di fare da carne da macello si rafforzarono ovunque e la loro repressione fu spietata. Negli stermini per riportare l’ordine non mancò di distinguersi l’Italia, in Libia come in Somalia ed Eritrea; la strage di Misurata del 24 maggio del 1915 ne è solo un esempio. 

Il massacro  fra gli  indigeni  fu enorme. Furono  loro a pagare  il prezzo altissimo di una guerra che almeno  in questa  area  del mondo  poco  costò  alle  truppe  occidentali  in  termini  di  vite  umane.  In  un  solo  giorno  (21 febbraio 1917),  ad es., 700  soldati  africani morirono  annegati per  l’affondamento nell’Atlantico di un  cargo addetto  al  trasporto  delle  truppe. Ma  le  perdite maggiori  ci  furono  tra  i  portatori,  centinaia  di migliaia  di indigeni reclutati con la forza per il trasporto di armi e viveri al seguito degli eserciti bianchi. Non si conosce il numero esatto di quanti ne morirono. “Ma sicuramente furono diverse decine di migliaia. In Mozambico, "per i soli britannici", scrive René Pélissier: si calcolano 26.000 tombe scavate per seppellire  i portatori.  I portoghesi non si sono dati la pena di calcolare rigorosamente queste perdite "civili", dato che avevano già delle difficoltà nel  contabilizzare  i propri morti  in uniforme.”  (dal  testo  “ 1914‐1918  La madre di  tutte  le guerre di Antonio Moscato).  

Ad esse vanno aggiunte le vittime della repressione e quelle dovute al lavoro coatto ed alle carestie seguite alle distruzioni  seminate dagli eserciti.  Le  stime  calcolano  centinaia di migliaia di morti. Ai vivi,  invece,  la guerra riservò il cambio dei padroni ma lo stesso identico sfruttamento. Contro di esso le rivolte proseguirono fino alle grandiose lotte di liberazione dal colonialismo.   

 Un affare per il Capitale e miseria per le masse  

La guerra, grazie anche all’intervento degli Stati Uniti al fianco dell’Intesa, ebbe termine alla fine del 1918 con la vittoria di quest’ultima. Con i diversi trattati, il più importante dei quali è quello di Versailles con la Germania, i vincitori imposero le condizioni di pace.  

I costi umani furono enormi: oltre 16 milioni di morti. 

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In Italia i morti furono circa 600 mila ed altrettanti i feriti e mutilati. Alla fine della guerra si contarono un totale di 345 mila orfani. Ma la Patria per cui ci si era immolati non fu generosa. Quanti tornavano dalla guerra ciechi, sfigurati o amputati agli arti, percepirono pensioni giornaliere di lire 3,45; lire 2,58 chi aveva perduto la mano destra. Per  il  figlio morto  in  guerra,  la madre ebbe una pensione giornaliera di  lire 1,72.  Insomma,  chi non aveva voluto la guerra veniva ricompensato con una miseria. 

Viceversa, per il capitale, che quel macello aveva avviato, fu un periodo d’oro in tutti i paesi belligeranti. Grazie alla Prima Guerra Mondiale, il capitalismo italiano raggiunge profitti altrimenti impensabili: i profitti medi delle banche passano dallo 4,26% del 1914 al 7,75% del 1917; quelli dell’industria meccanica dall’8,20% al 30,51%; industria  chimica  dall’8,02  al  15,39%;  pellami  e  calzature  dal  9,31  al  30,51%;  lanieri  dal  5,18%  al  18,74%; cotonieri, dallo ‐0,94 al 12,27%... 

Clamorosa poi è  l’ascesa della FIAT. Agli  inizi del 1914 era appena al 30° posto tra  le aziende  italiane. Legata, allora,  agli  ambienti  giolittiani  era  su  posizioni  neutraliste  anche  perché  lavorava  prevalentemente  su commesse  della Marina  austroungarica.  Poi,  fiutato  il  possibile  affare,  finanzia  il  quotidiano  interventista  “l’Idea Nazionale”. Diventerà il principale fornitore di automezzi per l’esercito italiano. E il suo capitale sociale passa  da 25 milioni di lire del 1914 ai 128 milioni del 1918. Nel 1915 i profitti furono calcolati intorno al 70% del  suo  capitale.  Le  imprese  fornitrici  dello  Stato,  come  denunciava  La  Stampa  di  Torino,  si  arricchirono vendendo materiali scadenti a prezzi elevati. 

Il commercio estero raggiunse importi giganteschi; i titoli azionari volarono.  

Gli anni della guerra coincisero con la vera rivoluzione industriale italiana; i 4300 operai Fiat diventano oltre 40 mila,  i 200 operai dell’Alfa Romeo si moltiplicano per venti,  l’Ansaldo passa da 6 mila a 56 mila operai, nasce l’industria aeronautica. Nel 1918 le fabbriche italiane impiegavano più lavoratori di oggi. 

In compenso le spese dello stato passano da 2 miliardi di lire del 1913‐14 a 30,8 miliardi del 1918‐19. Il deficit statale passa negli stessi anni da 214 milioni a 23,3 miliardi.  

Debito pubblico e profitti privati. Non è certamente una novità della storia, ma con la Prima Guerra Mondiale questa tendenza raggiunge per la prima volta proporzioni astronomiche, e non solo in Italia. 

Le  conseguenze  si  faranno  sentire  immediatamente  dopo  la  guerra:  aumento  della  tassazione,  inflazione galoppante  con  conseguente  svalutazione  dei  titoli  del  debito  pubblico  e  dei  salari.  Un  impoverimento generalizzato che stavolta coinvolge anche  larghi strati delle classi medie, colpite dalla crescente tassazione e dalla perdita di valore dei  titoli di  stato  in cui avevano  investito  i propri  risparmi, mentre  i proletari vedono svaporare il valore d’acquisto dei propri salari.   

La classe lavoratrice si era nel frattempo, come abbiamo visto, enormemente accresciuta di numero e, forte di tale consapevolezza, non fu più disposta a subire passivamente il peggioramento delle proprie condizioni di vita e di  lavoro, come era capitato sostanzialmente durante  il periodo della guerra. L’esempio della rivoluzione  in Russia,  non  aveva  avuto  conseguenze  solo  nell’accelerare  la  fine  della  guerra ma  anche  nella  ripresa  delle mobilitazioni contro le ingiustizie e la polarizzazione crescente che la stessa guerra avevano reso possibili. Nel biennio 1919‐20  l’Italia  fu attraversata da poderose  lotte che coinvolsero  tanto  le campagne quanto  le città, culminando  nella  diffusa  occupazione  delle  terre,  le  imponenti  lotte  bracciantili  e  con  l’occupazione  delle fabbriche. Ancora una volta  i socialisti moderati misero  in atto una politica collaborazionista con gli  interessi della  grande  borghesia,  come  avevano  fatto  durante  la  guerra  e,  invece  di  sostenere  le mobilitazioni  che assumevano inevitabilmente anche un connotato sempre più politico, si diedero da fare per farle esaurire.  

Sul versante dei ceti medi, una cui significativa componente era costituita da reduci, la disillusione per i risultati della guerra ed  il crescente  impoverimento determinato dalla politica del governo, provocò anche  in questo settore sociale una  forte attivazione politica che, non  trovando approdo nel più ampio movimento di masse proletarie, si orientò verso il fascismo. Quest’ultimo infatti, pur essendo finanziato da quel grande capitale che era stato  il vero beneficiario della guerra, univa  in una sapiente miscela propagandistica  la generica denuncia del potere del capitale plutocratico con  la denuncia della patria tradita,  in particolare dalle organizzazioni del proletariato  contro  cui  si  cercò  di  indirizzare  il  crescente  malcontento.  Non  mancavano  rivendicazioni economiche e politiche di stampo socialisteggiante,  il tutto, però,  inserito  in un quadro di superamento della lotta  tra le classi per la collaborazione tra di esse in nome dei superiori e comuni interessi nazionali. 

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Il vero obiettivo non erano naturalmente queste  sbiadite organizzazioni politiche che avevano dato prova di ampia  collaborazione  con  la  borghesia  durante  e  dopo  la  guerra, ma  il  protagonismo  proletario  e  la  sua possibilità di organizzarsi e lottare come classe indipendente con interessi contrapposti a quelli del capitale.   

La storia delle coperture e del sostegno forniti al fascismo da parte del grande capitale, delle istituzioni e dalla intellettualità  borghese  è  una  vicenda  oramai  nota, ma  qualcuno  continua  a  propagandare  la  favola  di  un movimento  conservatore  espressione  degli  interessi  del  capitalismo  più  arretrato.  Il  fascismo  invece rappresentava  la  risposta  della  borghesia  alla  paura  della  insorgenza  proletaria  ed  il  tentativo  di  darsi  una struttura economica ed  istituzionale ancora più moderna ed asservita alle esigenze del capitale  italiano, che, nonostante  avesse  vinto  la  guerra,  si  sentiva  frustrato  per  i  risultati  ottenuti  rispetto  alle  proprie  mire espansionistiche.  Rispetto  alle  altre  potenze  imperialiste  e  agli  equilibri  usciti  dalla  guerra,  per  il  capitale italiano vi era bisogno di una ulteriore centralizzazione del potere economico e politico per poter competere con i propri concorrenti, passando prima per la sconfitta e la distruzione del movimento operaio organizzato.  

 La Prima Guerra Mondiale non fu sufficiente  

Se  la  Prima  Guerra  Mondiale  era  stata  la  risposta  alle  difficoltà  crescenti  del  capitalismo  nella  sua  fase imperialistica e al tentativo di dare una più stabile e duratura configurazione agli equilibri internazionali tra le grandi potenze, essa si rivelò inefficace. 

La  “pace”  imposta dai  vincitori  fu particolarmente  vessatoria nei  confronti della Germania, per non parlare dell’Impero Austro‐ungarico e di quello Ottomano che furono semplicemente smembrati. Francia ed Inghilterra ampliarono  a dismisura  i propri possedimenti  coloniali  soprattutto nel Vicino  e Medio Oriente  ed  in Africa, mentre all’orizzonte si profilava il gigante statunitense che, dopo aver imposto il proprio dominio assoluto sul continente americano, si candidava a vera potenza mondiale allargando  le sue mire a tutte  le aree del globo. Gli esorbitanti debiti di guerra e la privazione di ampi territori nazionali imposti alla Germania, determinarono un crescente risentimento nelle classi dirigenti di quel paese, ma anche in Italia che, nonostante facesse parte dello schieramento vincitore, vide frustrate le sue principali mire espansionistiche. 

Quanto  alle  contraddizioni  economiche  del  capitalismo mondiale,  dopo  una  breve  ripresa  di  pochi  anni,  le maggiori  potenze  economiche  conobbero,  dopo  solo  un  decennio  dalla  fine  della  guerra,  la  più  grande  e generalizzata crisi economica che mai avesse colpito il capitalismo.  

La I Guerra Mondiale, infatti, anche se comportò significative novità dal punto di vista degli armamenti e delle tattiche militari rispetto a quelle che  l’avevano precedute, fu sostanzialmente una guerra combattuta solo tra eserciti con i fronti posizionati sulle linee di confine e scarso coinvolgimento delle aree urbanizzate, salvo poche eccezioni.  Le  strutture  industriali e  le  grandi  città non  furono quasi per niente  toccate. Nel  frattempo però questo  già  enorme  apparato  industriale,  che  era  all’origine  delle  precedenti  difficoltà  economiche,  si  era ingigantito  proprio  a  causa  della  produzione  bellica.  Di  conseguenza  alla  fine  delle  ostilità  esso  riprese  a funzionare a pieno ritmo senza più avere a disposizione quell’enorme mercato di sbocco rappresentato dalle spese belliche eccezionali. Le nuove spese per recuperare  le distruzioni provocate dalla guerra non riuscivano ad  assorbire  il  giganteggiare  della  produzione  industriale.  Non  solo.  Proprio  nel  periodo  successivo  al  I° dopoguerra  furono  introdotte  importanti novità nel processo produttivo,  sia  in  termini di macchinari  che di metodi  di  lavoro  (catena  di  montaggio,  diffusione  massiccia  di  macchine  azionate  dall’energia  elettrica, taylorismo etc,). Tali novità consentivano  incredibili aumenti della produttività e dello sfruttamento operaio, ma rendevano ancora più stringente la necessità di trovare mercati dove smerciare i beni prodotti. 

Le nuove colonie acquisite, rispetto alle quali si continuava ad applicare  il classico metodo della rapina e del saccheggio, non erano in grado di rappresentare un mercato di sbocco sufficiente per questa enorme quantità di  merci  prodotta  dagli  apparati  industriali.  Ecco  perché  una  quota  crescente  di  capitali  si  cominciò  ad indirizzare  verso  il  settore  finanziario  e  la  speculazione.  Ma  nel  giro  di  pochi  anni  questa  enorme  bolla finanziaria  esplose  nel  1929  provocando  una  recessione  inaudita  nelle  maggiori  nazioni  sviluppate  con conseguenze molto più gravi di quella di fine secolo precedente. La soluzione provvisoria fu trovata ancora una volta  nel  sostegno  della  spesa  pubblica.  Tutti  gli  stati,  fossero  essi  delle  democrazie  parlamentari  o  delle dittature,  adottarono  le  stesse  misure:  commesse  statali  e  sostegno  al  reddito,  ma  soprattutto  ripresa vertiginosa  della  spesa  per  gli  armamenti.    Ed  effettivamente  una  ripresa  vi  fu, ma  essa  era  drogata  dal sostegno della spesa pubblica e dal relativo aumento del debito pubblico. Era un espediente che non si sarebbe 

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potuto utilizzare per lungo tempo senza provocare una implosione del bilancio degli stati e l’esplosione di una crisi economica ancora più grave di quella che si pretendeva di aver superato.  

Intanto  le  rinnovate difficoltà  economiche  e  gli  strascichi  lasciati dal primo  conflitto mondiale portavano  al riemergere della competizione  interimperialistica. La Germania, che nel giro di pochi anni si era ripresa dalle conseguenze della guerra e dalle condizioni  imposte dai vincitori, aveva avuto uno sviluppo  impetuoso ed era alla  ricerca  ancora  una  volta  di  uno  spazio  di  dominio  imperialistico  per  il  proprio  capitale  nazionale.  Sul versante asiatico il Giappone, cercava di affermare il proprio dominio esclusivo sull’estremo oriente e sulla Cina in  particolare. Ma  le  potenze  vincitrici,  non  erano  disposte  a  tollerare  tale  espansionismo  che  entrava  in conflitto con i propri interessi imperialistici. 

Ancora  una  volta  le  contraddizioni  del  capitalismo  e  la  competizione  tra  le  grandi  potenze  creavano  le condizioni  per  un  nuovo  conflitto mondiale.  Come  nel  caso  della  Prima Guerra Mondiale mancava  solo  la scintilla per innescare l’incendio di cui nel frattempo si erano andate accumulando tutte le premesse. 

Il secondo conflitto mondiale  fu ancora più generalizzato e devastante del primo. Esso  fu condotto con armi ancora più distruttive del precedente, adeguate all’ulteriore sviluppo delle forze produttive determinatosi nel frattempo,  provocando morti  cinque  volte  superiori. Ma  la  vera  novità  di  questo  conflitto  fu  che  esso  non coinvolse soltanto gli eserciti sulle linee dei vari fronti esistenti. Entrambi gli schieramenti, che ora disponevano di una micidiale aviazione militare, quasi del tutto assente nel primo conflitto, mirarono da subito a colpire  le infrastrutture  produttive  e  le  città  dei  propri  avversari.  Intere  aree  industriali  furono  distrutte mentre  città grandi  e  piccole  venivano  rase  al  suolo  con  la  giustificazione  che  si  trattava  di  distruggere  le  potenzialità produttive dei propri avversari per  impedirgli di continuare  la guerra e di suscitare nella popolazione urbana colpita dai bombardamenti la rivolta contro i propri governanti.  

Gli unici che riuscirono a sottrarsi a tale destino furono gli Usa per  la distanza del proprio paese dai teatri di guerra e per la mancanza da parte dei propri avversari di basi di appoggio nel continente americano.  

E gli Usa furono il vero vincitore di questo nuovo conflitto. Le immani distruzioni provocate nelle altre nazioni belligeranti questa volta furono di proporzioni tali,  in termini di uomini e di beni distrutti, che  in alcuni casi si dovette ricominciare quasi da zero. Gli Usa, memori delle conseguenze del primo conflitto e consapevoli di aver creato  un  apparato  produttivo  e  finanziario  immenso,  non  applicarono  le  stesse  misure  draconiane  agli avversari  sconfitti,  salvo  per  la  Germania  che  fu  divisa  in  due  e  fu  privata  ancora  una  volta  di  territori precedentemente controllati.  Inondarono,  invece,  i paesi europei ed  il Giappone di prestiti e di prodotti della propria industria per creare uno sbocco al loro gigantesco apparato produttivo e finanziario.  

Questa  volta  la  ripresa  ci  fu  davvero  con  la  lunga  ricostruzione  durata  almeno  venti  anni  e  con  uno sfruttamento mai visto in precedenza dei paesi periferici, anche di quelli che nel frattempo avevano raggiunto la formale indipendenza politica. Eppure, nonostante ciò, alla fine degli anni ’70, gli Usa avvertono i primi segni di crisi e sono costretti a dichiarare la inconvertibilità in oro del dollaro impostosi nel frattempo come moneta di scambio  internazionale. Una crisi che  insieme alla poderosa crescita dei paesi ricostruiti dopo  la guerra, fa riemergere la latente conflittualità tra Stati formalmente alleati.  

Nel frattempo il dopoguerra è stato punteggiato da conflitti regionali che hanno visto protagonisti soprattutto gli Usa per mantenere il proprio incontrastato dominio imperiale.  

Con  la fine dell’Urss, che non rappresentava certamente un competitore economico, ma sicuramente era una potenza militare di  livello mondiale,  sembrava che  il  lungo dopoguerra  fosse  finalmente  finito e con esso  le tensioni  internazionali. Ma  è  stato  subito  dopo  la  scomparsa  del muro  di  Berlino  che  le  aree  di  crisi  sono rapidamente aumentate e si sono moltiplicati i conflitti militari. Nella maggior parte dei casi si è trattato di vere e proprie guerre di aggressione da parte degli Usa e dei suoi alleati per  imporre  il nuovo ordine mondiale su tutto il pianeta.  

 Cento anni di guerre  

La Prima Guerra Mondiale fu salutata come “La guerra che avrebbe messo fine alle guerre”. Eppure – secondo uno studio dell’Università di Harvard – dal 1918 in poi circa 200 milioni di persone sono morte a causa, diretta o 

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indiretta, di guerre;  resta,  invece,  incalcolabile  il numero di  invalidi,  traumatizzati psichici e  la distruzione di beni economici e culturali. 

La pianificata distruzione del “territorio del nemico” (le sue città, le fabbriche, le infrastrutture...) resa possibile dall’irrompere  dell’arma  aerea  ha  modificato  il  rapporto  tra  vittime  civili  e  militari.  Nella  Prima  Guerra mondiale, dei sedici milioni di morti “solo” cinque milioni (il 31%) erano civili; nella Seconda guerra mondiale (71 milioni di morti)  i morti  civili  (48 milioni)  costituiscono  il 67%. Nelle  guerre  combattute negli ultimi  tre decenni i morti civili arrivano ad essere il 90% del totale. Le nuove letali armi, sperimentate in questi ultimi anni sulla pelle di iracheni, palestinesi e afghani, non muteranno certo questo rapporto. La corsa a dotarsi di armi di distruzioni di massa (queste sì!) da parte di tutti gli eserciti è il segnale che una nuova tendenza alla guerra sta maturando  confermando  l’assoluta  indifferenza verso  la perdita di  civili e  la  logica  inumana e distruttrice di questo sistema.   

 Ancora armi ‐ Le spese militari nel mondo    

Secondo  il  rapporto annuale dello Stockholm  international peace  research  institute  (Sipri), nel 2013  le  spese militari nel mondo sono state pari a 1.747 miliardi di dollari, l’1,9 per cento in meno rispetto al 2012.  

L’andamento delle spese militari mondiali dal 1988 al 2013:

(Fonte: Sipri)

 Il calo nel 2013 è dovuto soprattutto alla riduzione del 7,8 per cento del budget della difesa degli Stati Uniti rispetto all’anno  precedente  legata  al  quasi  totale  ritiro  degli  USA  dall'Iraq  e  dall'Afghanistan.  Gli  Stati  Uniti  restano comunque il paese con la spesa militare più alta al mondo, 640 miliardi di dollari (in realtà quasi 1000 miliardi se si considerano  i fondi extra bilancio), pari al 37 per cento del totale e superiore a quella degli altri primi nove paesi messi  insieme. Alla  luce degli ultimi avvenimenti  (ritorno di migliaia di soldati  in  Irak ed  i bombardamenti per  la cosiddetta lotta all’ISIS) c’è da stare certi che questa riduzione sarà rapidamente recuperata. 

Anche  in Europa occidentale, secondo  il rapporto,  le spese militari sono  in calo (‐2,4 per cento). Fa eccezione solo  la Germania, che ha speso  il 2 per cento  in più rispetto al 2012. Non è un caso che  il Premio Nobel della Pace Obama, insieme al Segretario della Nato, ha richiamato tutti i leaders europei a portare la spesa militare ad almeno il 2 per cento del PIL.  

Come  a  dire:  non  siamo  più  disposti  ad  accollarci  il  grosso  dei  costi  del  mantenimento  “dell’ordine internazionale” di cui anche voi beneficiate. 

In quasi tutto il resto del mondo, invece, le spese militari sono in aumento. Il bilancio della Cina è cresciuto del 7,4 per cento fino a raggiungere i 188 miliardi di dollari, l’11 per cento del totale. Anche la Russia ha aumentato le sue spese militari (+4,8 per cento), e,   per  la prima volta dal 2003,  il rapporto tra spese militari e prodotto interno lordo ha superato quello degli Stati Uniti. 

In Medio Oriente le tensioni regionali continuano a gonfiare i bilanci militari. La spesa nella regione è salita del 4 per cento  rispetto al 2012, ma  il dato non  include  Iran, Qatar, Siria, Emirati Arabi Uniti e Yemen, che non 

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hanno  fornito  cifre  per  il  2013.  L’Arabia  Saudita  ha  addirittura  superato  Regno  Unito,  Giappone  e  Francia diventando la quarta potenza al mondo per valore delle spese militari (+118 per cento rispetto al 2004).  

La crescita relativa di proporzioni maggiori si è registrata in Africa: +8,3% nel 2013, quasi 45 miliardi di dollari. Il Ghana ha raddoppiato  le spese, mentre  l'Algeria ha continuato  la sua crescita fino a diventare  il primo Paese africano a superare i 10 miliardi di assegnazione di fondi. 

I 15 paesi con le spesa militare più alta: 

(Fonte: Sipri)

 

Come mostra  la  tabella  sui 15 maggiori  "spender" militari,  l'Italia  si colloca all’ undicesima posizione con un budget della difesa pari a 32 miliardi di dollari  

Secondo  il  rapporto  del  SIPRI  la  spesa  militare  italiana  sarebbe  in  diminuzione.  In  realtà,  i  dati  presi  in considerazione non tengono conto di tutte  le altre spese riconducibili alla Difesa ma collocate  in altri capitoli del  bilancio  dello  Stato  (es.  le  spese  per  i  sistemi  d’arma  che  sono  finanziate  dal Ministero  dello  Sviluppo Economico  o  le  missioni  internazionali  che  sono  a  carico  del  Ministero  dell’Economia).  Calcolando  gli stanziamenti extra‐bilancio della Difesa, l'Italia arriva ad una spesa militare che può essere “stimata” in circa 40 miliardi di dollari. 

Nel  2013,  ad  es.,  sono  aumentati  in modo  clamoroso  rispetto  all’anno  precedente  i  fondi  per  l'acquisto  di armamenti: complessivamente 5,5 miliardi di euro, grazie al contributo del ministero dello Sviluppo Economico che ha messo a disposizione 2.182 milioni per comprare sistemi militari. Gran parte di questi soldi servono per finanziare l'acquisto dei caccia europei Eurofighter.  

Dopo  la denuncia dei movimenti, molto  si è discusso  sull’enormità dei  costi del  Lockheed F‐35  con  tanto di ipocrite dichiarazioni di contrarietà da parte di quegli stessi partiti che quell’acquisto hanno deciso e con una deliberazione del Parlamento che nei fatti non ne annulla l’acquisto. Ma i 12 miliardi di euro stimati per gli F35 diventano bruscolini  se  rapportati  ai 21,1 miliardi di  euro previsti per  gli  Eurofighter  e  le decine di miliardi stanziati per gli altri programmi di acquisti pluriennali. 

A questa enormità di fondi che da sola basterebbe a garantire un salario a tutti, ad accrescere le spese sanitarie ed a garantire una scuola gratuita per tutti, vanno aggiunte le spese per le missioni internazionali. 

Nel 2011,  in base ai dati della Difesa, erano 30  le missioni  in ben 27 paesi con 8.181 militari  impegnati, di cui oltre la metà operativi in Afganistan. Negli ultimi anni la spesa media annuale per queste cosiddette missioni è stata di circa 1,5 miliardi di euro con significativi aumenti in occasione di nuovi aggressioni ad altri stati. 

Nel caso dell’intervento  italiano  in Libia nel 2011, nei primi  tre mesi  furono  spesi 700 milioni;  il solo utilizzo della Portaerei Garibaldi è costato circa 135.000 euro al giorno per la sua gestione. 

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Secondo  il Ministero degli  Interni, per  l’intervento  in  Libia  il  governo ha  speso oltre  1 miliardo di  euro. Da questo conto sono esclusi i costi degli ordigni sganciati. 

La presenza italiana in Afghanistan, è costata finora 4 miliardi e 150 milioni di euro. Anche in questo caso nella cifra non sono incluse le spese per munizioni ed altre dotazioni da combattimento. 

Queste spese, infatti, non rientrano negli stanziamenti per le missioni decisi dal Parlamento ogni sei mesi, ma sono extra: misure urgenti, incluse nel bilancio ordinario del ministero della Difesa così come altri esborsi per il sostegno delle operazioni internazionali. 

Nel 2011, ad es., per rimpiazzate i colpi esplosi in soli dodici mesi durante i combattimenti in Afghanistan, sono state  acquistate oltre 59 milioni di pallottole, 22 mila  granate,  832  razzi portatili, 2.630 bombe da mortaio pesante, 32 mila munizioni per  fucili da cecchino, decine di migliaia di proiettili per  i cannoni degli elicotteri d'assalto e dei blindati, per una spesa complessiva di oltre 113 milioni. 

Se la spesa militare è aumentata soprattutto fuori dagli USA ed Europa, la maggior parte del know how  e della produzione dei sistemi d’armamento sono collocate in quest’area del mondo.  

Nella lista delle prime 100 aziende mondiali del settore bisogna arrivare alla posizione 25 per trovare una ditta fuori  da  questi  confini.  La  holding  italiana  Finmeccanica  è  tra  le  prime  dieci  aziende  produttrici  di  armi  al mondo.  La  vendita  di  armi  delle  cento  più  grandi  aziende  del  settore  al  mondo  ha  fatto  registrare  un incremento del 60% in termini reali dal 2002 al 2010, anno in cui ha raggiunto i 406 miliardi di dollari. Nel  2011, dopo l’attacco alla Libia, il direttore generale della MBDA (la compartecipata europea dei missili, nel capitale c'è pure Finmeccanica), Antoine Bouvier, dichiarò:  “abbiamo ricevuto un feedback ( traduzione: i profitti ottenuti con il massacro di centinaia di migliaia di persone) molto positivo da parte delle campagne militari  in Afghanistan, Libia e Costa d'Avorio, sulla MBDA attrezzature e il supporto fornito per le forze armate". 

Dopo  il 2011 c’è stata  la “guerra”  in Siria,  le diverse offensive di  Israele contro Gaza,  l’intervento  francese  in Mali, la manomissione dell’occidente ed i combattimenti in Ucraina, la repressione in Egitto, ecc. 

Il feedback è stato ancora più positivo ed anche per il futuro gli affari armati andranno a gonfie vele. 

 Verso una Terza guerra mondiale?  

A parte la Seconda Guerra Mondiale, quasi tutte le guerre succedutesi in questi cento anni dalla Grande Guerra del ‘14‐‘18 sono state prevalentemente condotte direttamente dalle principali potenze economiche, o da esse attizzate, per affermare il proprio dominio sulle aree del pianeta che ritenevano essere di propria competenza. Questa  strategia è  stata perseguita  soprattutto dagli Usa che a  seguito del  secondo conflitto mondiale  sono emersi come il vero vincitore e come unica potenza globale. Ma, a partire dalla fine dell’Urss vi è stata una vera e propria escalation poiché ormai non vi era nessuna grande potenza che potesse impedire di imporre il “nuovo ordine mondiale” teorizzato dalla dirigenza statunitense. Si è trattato di vere e proprie guerre di aggressione a senso  unico  passando  dalla  ex  Jugoslavia  all’Iraq,  dall’Afganistan  alla  Somalia,  senza  dimenticare  il  recente assalto alla Libia ed il tentativo di ripetere l’operazione con la Siria.  

Dopo aver provocato  immani disastri attizzando delle rivolte più o meno etero dirette si fa finta di  indignarsi per gli esiti del proprio  intervento economico, diplomatico e militare. Così  in Libia  si  scopre che  l’intervento liberatorio condotto con micidiali bombardamenti ha prodotto un caos ingovernabile e l’Italia già si ricandida a riportare  l’ordine con proprie truppe di occupazione,  in realtà per ristabilire  il proprio controllo su quel paese che storicamente ritiene far parte della propria area di influenza. Ancora più emblematica la vicenda siriana: in questo  caso  si  è  provveduto  a  finanziare  ed  armare  l’opposizione  al  governo  di  quel  paese  per  sottrarlo all’influenza russa ed aprire un varco alla possibilità di ridisegnare tutta la mappa politica del vicino oriente. Gli effetti di questa “distruzione creativa” sono stati  l’affermazione dell’islamismo più radicale, prima quello di Al Qaeda e poi quella dello Stato  Islamico, che orami dilaga anche  in  Iraq. A questo punto gli stessi che hanno provocato  e  favorito  l’incendio  si  presentano  come  i pompieri  per  legittimare  il  proprio  intervento militare diretto che finora gli era stato impossibile realizzare.   

Sono  state  tutte guerre  condotte  fuori dai  confini delle grandi potenze, mascherate da operazioni di polizia internazionale, di  interventi “umanitari”, di difesa della democrazia che hanno seminato morte e distruzione nei paesi che ne sono stati investiti in misura non minore a quelle del secondo conflitto mondiale. Il loro vero 

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scopo era di affermare  l’egemonia statunitense e costringere quei paesi a sottomettersi ai diktat del grande capitale occidentale. Infatti se la potenza egemone erano senza dubbio gli Usa le altre “democrazie” occidentali sono  intervenute direttamente ed  indirettamente  in queste aggressioni per partecipare,  sia pure  in maniera subalterna, alla politica di rapina e alla penetrazione del grande capitale.  

Eppure, nonostante l’affermazione incontrastata del liberismo più sfrenato che ha visto aumentare a dismisura lo  sfruttamento dei  lavoratori ed  il predominio  imperialista  su aree  sempre più ampie del pianeta, non  si è riusciti ad evitare che le contraddizioni dell’economia capitalistica tornassero prepotentemente a manifestarsi. Dopo un lungo periodo d’incubazione queste sono sfociate in una crisi economica addirittura peggiore di quella del 1929, di cui non si intravede la fuoriuscita all’orizzonte.  

Insieme  a  tali  contraddizioni  si  ripresentano  i  fenomeni  di  conflittualità  crescente  tra  grandi  potenze.  Al momento il blocco occidentale mantiene la sua formale unità, anche se aumentano le frizioni al suo interno. È soprattutto nei  confronti di Russia e Cina però,  le due principali potenze emergenti,  che  sono  indirizzate  le manovre di accerchiamento, per impedire che esse si affermino come potenze globali in grado di contrastare il dominio degli Usa e dei suoi alleati.  

La vicenda ucraina e quella siriana si inscrivono a pieno titolo nelle manovre di accerchiamento della Russia per sottrarle  le residue aree di  influenza e costringerla ad abbandonare ogni velleità di grande potenza mondiale, per  sottometterla  in  maniera  subalterna  alla  penetrazione  dei  capitali  occidentali.  L’insediamento  di  basi militari nei diversi paesi del blocco sovietico, la loro adesione alla Nato, fanno parte di questo piano strategico. Così come le basi, gli accordi militari ed economici nell’area del Pacifico rappresentano un parallelo tentativo di accerchiamento della potenza cinese per stroncare sul nascere ogni ambizione di sottrarsi al ruolo di semplice officina del mondo e trasformarsi a sua volta in una grande potenza imperialista.  

Ma  in  questo  caso  non  si  tratta  di  bocconi  relativamente  piccoli  come  i  precedenti,  bensì  di  potenze economiche  e  soprattutto militari  di  tutto  rispetto.  Paesi  dotati  di  armamenti  nucleari,  oltre  che  di  altre micidiali  armi  di  distruzione  di massa  assai  difficili  da  neutralizzare  con  un  unico  grande  colpo  inferto  al momento dell’attacco, come avviene nei sogni dei dott. Stranamore statunitensi.  

In tale contesto, e sotto le impellenze della crisi assolutamente non risolta, la miscela esplosiva per l’innesco di un nuovo conflitto mondiale va accumulandosi, anche ben oltre le stesse intenzioni degli artefici del crescente interventismo militare. Essi in fondo non sono che le maschere di un regista ben più potente di loro che detta le regole del gioco in maniera ferrea: il grande capitale internazionale e le sue necessità di tutelale le esigenze di una continua accumulazione, di difendere e rafforzare i profitti e con essi i privilegi di classe che esso assicura ai suoi  attori.  Quando  una  simile  condizione  si  va  determinando  “l’incidente  di  percorso”,  deliberatamente cercato o capitato accidentalmente, è sempre a portata di mano. Ma esso non rappresenta che l’innesco più o meno casuale di quella miscela esplosiva che deliberatamente si è contribuito ad alimentare. 

La crescente corsa agli armamenti,  il rinnovato patriottismo e nazionalismo che si cerca di diffondere a piene mani e di cui la stessa campagna di celebrazione del I° conflitto mondiale rappresenta uno dei tasselli decisivi, fanno parte di quel materiale  incendiario che  i nostri governanti,  le  istituzioni,  la grande stampa ed  i padroni vanno accumulando, mentre fanno finta di ripudiare la guerra e di desiderare la pace universale. 

Mettere in evidenza le ragioni economiche dell’avvicinarsi del clima di guerra è necessario per denunciare che i conflitti militari  in cui sono  impegnate  le nostre truppe non sono altra cosa dalla guerra ultradecennale, ed  in via  di  accentuazione,  dichiarata  dai  governi  e  padroni  alle  nostre  condizioni  di  vita  e  di  lavoro,  ma  ne rappresenta  semplicemente  l’altra  faccia  della  medaglia.  Un  esito  obbligato,  se  non  viene  efficacemente contrastato,  di  un’economia  fondata  sulla  continua  ricerca  di maggiori  profitti  e  che,  nonostante  l’enorme incremento dello sfruttamento di questi anni, tanto nel centro che nelle periferie, non riesce a risollevarsi dalle insanabili contraddizioni da essa stessa determinate. 

 

Rete Napoli No War    Napoli, gennaio 2015