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SEMIOTIC BRAND MANAGEMENT LO STUDIO DELL’IMMAGINE A SERVIZIO DELL’IMPRESA Strategie comunicative delle imprese Fortuny Borsista: Valeria Burgio Referente Universitario: Patrizia Magli Università Iuav di Venezia Anno accademico 2010-2011

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SEMIOTIC BRAND MANAGEMENT

LO STUDIO DELL’IMMAGINE A SERVIZIO DELL’IMPRESA

Strategie comunicative delle imprese Fortuny

Borsista: Valeria Burgio Referente Universitario: Patrizia Magli

Università Iuav di Venezia

Anno accademico 2010-2011

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Indice 03

Introduzione 05

Parte I – Immagine, Impresa, Territorio 07

1. Paesaggi della Marca 07

1.1 Marchiatura e Marcatezza: semiotica per il marketing 07

1.2 “Tra tradizione e innovazione”: l’identità 10

1.3. Verso un’interpretazione letterale della marca 13

1.4 L’Autore, la firma e la marca 15

2. La gestione dell’innovazione 18

2.1 Gestire il cambiamento dal progetto alle sue manifestazioni 18

2.2 Innovazione nel prodotto: diversificazione ed estensione di linea 20

2.3. Innovazione nella comunicazione: le trappole del rebranding 21

2.4 Innovazione nella distribuzione: showroom e forme di vita 22

2.5 Cambiare politiche dei prezzi? 24

3. Il discorso della tradizione e del localismo nel discorso di marca 27

3.1 La ricerca dell’autentico e l’apologia dell’Artigiano 27

3.2 Il Made in Italy come supermarca o metabrand 31

3.3 Il Made in Venice 36

3.4 Il settore tessile a Venezia 37

3.5 Il Lusso prima della Moda 40

3.6 Beni di lusso e consumi culturali 42

Parte II - Caso Studio: Tessuti Artistici Fortuny SPA 46

4. Fortuny: storia e mito dietro la costruzione dei marchi 48

4.1 L’artista artigiano 48

4.2 L’artista, le luci e il teatro 50

4.3 Il Delphos: l’immortalità nell’innovazione vestimentiaria 53

4.4 Vestire gli interni 57

4.5 Gestire Fortuny dopo Fortuny 59

4.6 Palazzo Fortuny: dalla collezione permanente a un nuovo stile espositivo 61

5. L’azienda Fortuny: a tappe verso l’innovazione 67

5.1 Nuovi prodotti, nuove linee, nuove collaborazioni 68

5.2 Il marchio è la firma 70

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5.3 Etichette: fiumi di parole 72

5.4 Rassegna Stampa: della discrezione 74

5.5 Posizionamento di rete 76

5.6 Sinergie tra azienda e museo 78

5.7. Distribuzione e showroom 80

6. Il segreto e il labirinto 85

Bibliografia 88

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Semiotic Brand Management: lo studio dell’immagine a servizio dell’impresa.

Strategie comunicative delle imprese legate alla figura di Mariano Fortuny

 

Introduzione

 

Scopo di questa ricerca è l’analisi delle strategie messe in atto da un’impresa in relazione ai comportamenti 

delle istituzioni che ne portano lo stesso nome. Il singolare caso riguarda l’azienda Tessuti Artistici 

Fortuny S.P.A. che produce tessuti dal 1922; la sua fabbrica è situata nell’isola della Giudecca e il suo 

quartier generale a New York. L’azienda sta tentando da quasi un anno di rilanciarsi su diversi fronti: sta 

innovando sul fronte dei prodotti, avendo esteso la produzione dai tessuti agli oggetti d’arredo e di 

design; ha riprogettato i due showroom, a Venezia e New York; ha intensificato la frequenza di eventi 

mirati a rinforzare la comunicazione con un pubblico di ospiti selezionati. Per affrontare questi 

cambiamenti, l’azienda si trova in tensione tra due forze opposte: da una parte le redini conservative 

assoggettano ogni nuova idea e produzione alla sanzione ipotetica del fondatore e creatore del marchio; 

dall’altra lo sprone innovativo impone al management di inventare qualcosa di nuovo. L’innovazione 

consente anche di emettere un’immagine di sé proiettata verso il futuro, non fondata soltanto sulla 

riproduzione di un passato affascinante ma, per altri versi, decadente e stantio. 

Il passato però, per quanto freni e limiti, non è un genitore asfissiante che reprime ogni impulso al 

cambiamento: come dimostreremo con l’approfondimento teorico dei valori sottesi alla marca, il passato 

dà continuità e coerenza ed è spesso (e soprattutto in questi anni) invocato per costruire un rapporto di 

fiducia con il consumatore. La visione del futuro è però più che necessaria nella cultura progettuale. 

Questo rapporto tra passato e futuro, storia e progetto, è alla base di ogni identità personale o collettiva 

che sia. Nel nostro caso studio, questa identità si chiama Mariano Fortuny e ha una personalità 

estremamente marcata; per questo, l’azienda continua a richiamarne lo spirito e a richiederne virtualmente 

l’approvazione per ogni decisione presa. Intanto però l’azienda inizia la collaborazione con altri marchi di 

design e si lancia nell’ideazione e nella produzione di nuovi oggetti. In questa tensione continua tra storia 

e progetto, sono oltremodo importanti i rapporti con il museo Fortuny. Non di “museo d’azienda” si tratta, 

chiaramente, perché il museo nasce dalla donazione della vedova Fortuny al Comune di Venezia della casa 

e laboratorio di Mariano Fortuny; non è quindi un ramo dell’azienda che voglia comunicarne il marchio. 

Al contrario, è dal museo che emana lo spirito di Fortuny che continua a dominare la cultura della 

produzione. Le sinergie con questa istituzione cittadina sono un obiettivo fondamentale per l’azienda. Tra 

l’altro il museo sta scegliendo una politica analoga a quella della fabbrica, che da una parte difende la 

conservazione tramite una grande rilevanza data agli archivi; dall’altra associa alla tutela del patrimonio 

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una programmazione di mostre temporanee improntate sulla ricerca e sull’innovazione. Vedremo quindi 

in questa sede se ci siano e quali siano le sinergie tra le due istituzioni. 

Per comprendere il cambiamento del marchio e valutarne la fattibilità e la validità, ci serviremo di un vasto 

apparato teorico. Ci interrogheremo in particolare sul funzionamento dell’identità di marca, come già 

detto tesa tra i due poli della tradizione e dell’innovazione, fatta di tratti pertinenti rilevabili in tutti gli 

elementi del marketing mix; vedremo poi come si coordinino le azioni innovative di una marca, 

dall’estensione di linea al rinnovamento del marchio; come funzioni il raggruppamento dei marchi sotto 

una macroetichetta come “il made in Italy” o l’Alta Gamma. Approfondiremo a questo punto l’argomento 

del mercato del lusso e il suo rapporto con il marketing dell’arte, secondo il principio della rarefazione 

dell’offerta e quello del bene da investimento. 

A questo punto saremo pronti per un’analisi del caso studio, con una valutazione del suo posizionamento 

nei confronti dei marchi legati allo stesso settore merceologico, e, più in particolare, di quelli legati al suo 

stesso nome. Valuteremo i cambiamenti fatti in questi ultimi mesi e, con la dovuta modestia e cautela, 

proporremo la direzione verso cui andare e i passi da fare per imporre la propria immagine. 

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Parte I – Immagine, Impresa, Territorio

 

1. Paesaggi della Marca

1.1 Marchiatura e Marcatezza: semiotica per il marketing

 

La semiotica è la disciplina che studia i processi di costruzione del senso e i modi in cui si costruisce la 

cultura del consumo. Lo scopo di quest’intervento è rendere evidente l’importanza di saperi considerati 

umanistici e lontani dall’ambito economico entro cui il fenomeno della marca si situa non come apparati di 

una sovrastruttura accessoria utile semplicemente a imbellettare i prodotti, ma come strumenti in grado di 

costruire strategie di mercato vincenti. Già da tempo il marketing ha smesso di considerare il prodotto 

soltanto nella sua dimensione concreta, oggettuale e utilitaristica, per cui la sua qualità dipende 

unicamente dalle sue qualità materiali, come la robustezza, il peso, la durabilità. Esiste un plusvalore del 

prodotto costruito dalla comunicazione e dalle qualità immateriali dell’oggetto. Se il prodotto non è un 

oggetto fatto da sole qualità materiali, il consumo stesso non si definisce nei termini dell’usura e della 

distruzione finale dell’oggetto. Il consumo è principalmente una pratica significante. Se si definisce la 

merce in termini fisico‐tecnici e utilitaristici, il suo utente è definibile come somma di bisogni semplici o 

complessi da soddisfare e da creare. Questo tipo di consumatore mosso da bisogni sempre più complessi 

in relazione all’evoluzione e alla sofisticazione della società in cui vive, è ritratto nella piramide di Maslow, 

utilizzata dal marketing di impronta behaviorista degli anni Cinquanta e Sessanta. Quando si comincia a 

considerare il prodotto non soltanto nelle sue caratteristiche materiali ma anche per le sue qualità 

immateriali, il consumatore costruisce con esso una relazione di tipo diverso, lo include nelle sue pratiche 

di vita quotidiana, e sceglie di acquistare sulla base di un progetto di forma di vita e quindi di 

teatralizzazione, di comunicazione, del suo comportamento di consumo. C’è una “osservazione di secondo 

ordine” (Luhmann, 1984) nella pratica di consumo, molto più complessa del piatto rapporto 

stimolo/risposta, bisogno/soddisfazione del bisogno. C’è un compiaciuto guardarsi, rappresentarsi come 

rappresentante di quei valori implicati nel prodotto e nella sua comunicazione. Uscire dalla logica 

behaviorista ci impone anche di considerare le pratiche significanti come non necessariamente aderenti 

agli inviti della marca. Da una parte esiste un modello di consumatore ideale che si fa portatore dello 

spirito incarnato nelle proposte della marca; dall’altra parte sono infinite le forme d’uso e d’abuso della 

marca stessa, oltre che dei suoi prodotti e della sua comunicazione. La marca entra nell’insieme delle 

pratiche sociali e lì viene risemantizzata attraverso strategie di appropriazione o di rifuto. 

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La “personalità” della marca, la sua “identità”, diventano fattori di primaria importanza nelle logiche di 

mercato, perché rimbalzano dal prodotto al consumatore, e costruiscono il loro senso nella negoziazione 

intersoggettiva. 

Parlare di “marca” ci proietta direttamente nell’universo del vocabolario semiotico. La marca infatti è un 

“nome proprio” che si dà agli oggetti per differenziarli dagli altri1. La strategia basilare del discorso di 

marca è di differenziare quello che è marcato da quello che non lo è, costruire una riconoscibilità basata sui 

termini opposti essere/non‐essere. Un prodotto appartiene a una marca o no e il prodotto “di marca”, 

rispetto a quello non marcato, si presenta implicitamente come superiore, dotato di maggiore personalità. 

La marca usufruisce del meccanismo dialettico della costruzione identitaria sulla base del quale il Sé si 

determina in funzione dell’Altro, principio basilare del posizionamento. Passando dalla linguistica alla 

semiotica discorsiva, la marca è il segno che l’autore lascia dentro il testo, la sua dichiarazione di presenza 

e la presa in carico della responsabilità riguardante quel testo. Nel testo linguistico, la soggettività si 

manifesta attraverso un sistema di marche d’enunciazione personali (“io”), temporali (“ora”) e spaziali 

(“qui”). L’installazione dell’io/qui/ora costituisce un ancoraggio del soggetto all’interno dell’enunciato, un 

punto di partenza da cui orientarsi verso l’alterità e il resto del mondo, verso spazi più o meno distanti, 

verso il passato e il futuro (cfr. Benveniste, 1966; Magli 2004). L’enunciazione esiste anche nei testi visivi, 

quando l’autore si rappresenta nel testo o lascia tracce della sua presenza, o chiama in causa lo spettatore 

puntando lo sguardo fuori quadro. L’enunciazione è l’aspetto più importante del discorso di marca, 

perché è il modo in cui l’Autorialità s’iscrive nell’insieme del marketing mix, dal prodotto alla 

comunicazione, rendendo percepibili i valori sottesi alla marca. Questo non significa che la marca sia una 

semplice firma, un logo che si appone sui prodotti, sulle etichette e sulle insegne dei negozi, che si veicola 

nelle campagne pubblicitarie: questo significherebbe ridurre la marca a marchio. La marca è invece un 

insieme di valori, un progetto che si esteriorizza attraverso diverse forme espressive – le sue 

manifestazioni. Se già la compatibilità tra i due domini del marketing e della semiotica è fondata a livello 

lessicale, la costruzione di modelli che formalizzano la doppia faccia della marca – vista come forma del 

contenuto che si fa espressione in varie forme traduttive, progetto che si estrinseca attraverso 

manifestazioni – ne dimostra la “natura eminentemente semiotica” (Marrone, 2007: 3). L’approccio 

semiotico è entrato nella consuetudine delle ricerche di mercato già da tempo, soprattutto grazie al lavoro 

svolto da Jean‐Marie Floch (1990 e 1995), che ha dimostrato in modo scientifico e rigoroso, con un rispetto 

congiunto di teoria e applicazione pratica, come la semiotica sia non solo una valigetta degli attrezzi utile 

1 In linguistica la marcatezza è ciò che differenzia un elemento dall’altro, il tratto pertinente la cui presenza o assenza in un’unità linguistica data, fonda un’opposizione (Trubeckoj, 1939 e Jakobson, 1958). Per fare un esempio, in fonologia il fonema [d] è termine marcato rispetto a [t] perché prodotto con la vibrazione delle corde vocali, è sonoro mentre [t] è non sonoro. Le lingue evolvono verso una sempre maggiore marcatezza, e anche quando i bambini apprendono il linguaggio, prima imparano i termini non marcati e poi quelli marcati. La marcatezza è dunque segno di evoluzione (a questo proposito, cfr. Simone, 1990:113). 

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per l’analisi della comunicazione di marca, ma sia strettamente connaturata a ogni fase della produzione 

del senso, dalla pianificazione della comunicazione al design del prodotto e del punto vendita. Secondo 

Andrea Semprini (1992), il contributo di Jean‐Marie Floch è importantissimo per aver spostato l’oggetto 

della ricerca di marketing dal consumo materiale del prodotto alla produzione di senso da parte 

dell’utente che impone una valorizzazione del bene in linea con le sue abitudini, e per aver concepito in 

nuce una teoria della Marca. La marca infatti “occupa lo snodo che articola nel modo più evidente 

l’incontro tra semiotica e marketing: la problematica della significazione applicata al mondo dei prodotti e 

della comunicazione, la testualizzazione delle pratiche di consumo e la dialettica tra produzione di senso e 

consumo di senso” (Semprini, 1992: 31). 

Floch legittima la propria posizione di ricercatore prestato al marketing, presentando la semiotica come 

disciplina a vocazione scientifica, in grado di dare maggiore intelligibilità, pertinenza e differenziazione a 

un campo in cui la produzione e la gestione del senso è affidata a un team che lavora con tempi molto 

limitati e senza possibilità di approfondimento, sull’onda dell’intuizione. La semiotica è invece in grado di 

dare struttura e riformulare concetti “nebulosi” (intelligibilità), gerarchizzare i livelli di descrizione e 

trovare nella marca le invarianti a livello sia di significante che di significato (pertinenza), lavorare con 

coerenza e consapevolezza attraverso diversi linguaggi e diversi media (differenziazione). È attraverso 

queste tre proprietà che la semiotica affronta il discorso di marca, considerando che spesso nel mondo del 

marketing mancano chiarezza e riconoscibilità immediata sul piano del significante, e si perdano 

pertinenza e coerenza nei valori proposti (Floch, 1990). 

Da Floch in poi, è diventato quasi scontato utilizzare strumenti semiotici per analizzare il cosiddetto 

“communication mix” di un’azienda, costituito da nome, logo, packaging, pubblicità e punto vendita 

(Ceriani, 1996: 11). Andrea Semprini in un libro che è seminale per gli studiosi del fenomeno marca 

“Marche e mondi possibili” (1993) ha illustrato come la marca fosse un fenomeno di natura 

fondamentalmente semiotica: la marca è legata al tempo in cui vive perché seleziona alcuni elementi 

all’interno del flusso dei significati che attraversa lo spazio sociale, e li organizza in un racconto pertinente 

e attraente per il pubblico. In poche parole, per Semprini, la specificità principale della marca è di essere 

“un’istanza semiotica, una maniera di segmentare e di attribuire del senso in modo ordinato, strutturato e 

volontario” (Semprini, 1993: 55). Non solo quindi la marca entra nello spazio sociale e lì viene accolta 

attraverso strategie diverse di appropriazione, ma temi circolanti nel discorso sociale vengono 

reincorniciati dal discorso di marca, entrano a far parte del suo bagaglio valoriale. La marca nasce quindi 

sempre da questo scambio, e la sua natura semiotica è ribadita da questa continua negoziazione di stili e di 

valori con la comunità a cui si riferisce. 

 

 

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1.2 “Tra tradizione e innovazione”: l’identità

 

La natura negoziale del discorso di marca ci mette di fronte al problema dell’identità, modo in cui un 

soggetto si propone agli altri, secondo le aspettative che gli altri hanno di lui. L’identità si costruisce per 

differenza, ma la riconoscibilità è fondata su continuità e omologia. Per gestire il cambiamento, bisogna 

mantenere quei tratti caratterizzanti che ci rendono unici ma anche adattarli a una situazione in 

evoluzione. Secondo Paul Ricoeur (1990), l’identità narrativa è risultante del confronto dialettico tra due 

componenti, da una parte il carattere, il sé idem, sorta di codice genetico invariabile e immutabile; dall’altra 

la parola mantenuta, il sé ipse, che mantiene una coerenza nonostante il cambiamento. C’è in ogni identità 

la tendenza a rimanere uguale data da caratteri distintivi, genetici, incancrenita in abitudini, situazioni in 

cui ci si riconosce e si è riconosciuti; dall’altra parte la “parola data” è la tensione verso un progetto, la 

capacità di perseguire uno scopo che ci si è prefissi, di mantenere una promessa. Il carattere è fatto di 

preservazione e tende al proseguimento e alla continuità, alla permanenza e alla sedimentazione; la parola 

data si sviluppa nell’evolutività della perseveranza e della costanza: è la dimensione etica dell’identità, 

capace sì di rinforzare il carattere, ma anche di capovolgere abitudini e tendenze. Questa teoria 

dell’identità, e la sua matrice anti‐sostanzialista e basata invece sulla relazione, è presa in carico e 

consolidata da Jean‐Marie Floch, che ne fa base per le sue ricerche sulle “identità visive”. La natura 

dell’identità è sintagmatica e processuale, secondo Floch, proprio perché nasce in questa tensione 

costitutiva tra sedimentazione e innovazione, tra l’accumulazione delle esperienze e la direzionalità etica: 

in ogni connessione e in ogni strappo rispetto al passato, c’è un soggetto narrativo in fieri che mantiene la 

sua specificità, cioè i caratteri pertinenti che lo rendono riconoscibile, ma nello stesso tempo si evolve, 

secondo delle linee di coerenza che non lo rendano altro rispetto a se stesso. Idem e ipse non esisterebbero 

se non in presenza dell’alterità, ed è sulla base di questa opposizione che mantengono la loro linea etica. 

Floch modellizza questa nozione di identità distinguendo due componenti nel discorso di marca: una 

componente invariabile (il sé ipse, per così dire, della marca) e una componente variabile (il sé idem): queste 

due componenti si trovano rispecchiate su due dimensioni: quella sensibile (il piano del significante, 

riprendendo Hjelmslev a cui Floch si riferisce esplicitamente) e quella intellegibile (il piano del significato). 

Le due dimensioni sono unite da una “cerniera”, utilizzando la metafora di Floch stesso: quando cambia 

qualcosa sul livello del contenuto, cambia qualcosa anche su quello dell’espressione e viceversa. La 

componente invariabile della dimensione intellegibile è chiamata da Floch “etica della marca”; la 

componente invariabile della dimensione sensibile è invece chiamata “estetica della marca”.  Sono le 

componenti che devono essere mantenute, pena la fine della marca stessa, anche a fronte di un dinamismo 

delle parti variabili, nuovi materiali, nuovi colori, nuovi prodotti se è necessario, che non facciano però 

perdere personalità a qualcosa di fortemente radicato.  

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Questa teoria filosofica è alla base dello slogan più utilizzato degli ultimi dieci anni, quello che vede 

protagonista il binomio tradizione/innovazione. È una formula efficace, perché attribuisce al soggetto 

istituzionale (pubblico o privato che sia) la capacità di rispettare e tenere in considerazione il passato e 

nello stesso tempo di immaginare e pianificare il futuro, racchiude conservazione e progresso, continuità 

storica e propensione al cambiamento. Il binomio gestisce attraverso due parole apparentemente 

antitetiche le due forze che sono sottese alla gestione del principio base dell’esistenza del soggetto nella 

relazione: l’identità. Innovazione e tradizione non sono che due polarità necessarie perché ogni identità di 

marca mantenga la propria “faccia” il proprio “stile”, non per questo rifiutando il cambiamento. Alla base 

di slogan apparentemente semplici, esiste un discorso filosofico complesso, molto utile per capire come le 

marche ci somiglino, e come e perché tendiamo a dar loro fiducia come se fossero dotate di personalità. Di 

questa personalità delle marche ha fatto una vera e propria ideologia pubblicitaria Jacques Séguéla, teorico 

della cosiddetta “Star Strategy” (Séguéla, 1982). Secondo questa strategia, la marca, come la persona e in 

particolare la persona “famosa”, è composta da tre elementi: il fisico, il carattere e lo stile. Trasposta 

sull’universo commerciale, il fisico consiste nel prodotto, mentre il suo carattere è costituito dai valori 

invariabili; lo stile è l’insieme dei tratti riconoscibili al livello dell’espressione. È la prima teoria 

involontariamente semiotica della marca, dato che tiene conto della separazione tra l’istanza 

dell’espressione e quella del contenuto. La sua forza consiste nell’aver considerato l’identità di marca al 

pari di quella degli attori, che sono costruiti da una logica industriale tanto quanto i prodotti, ma che non 

sono solo dei corpi venduti all’industria dello spettacolo, ma entità più complesse, costruite a partire dalla 

somma dei ruoli che hanno rivestito nella loro carriera. 

Per essere riconoscibile e ottenere la fiducia del consumatore, la marca deve quindi avere “tenuta”, 

mantenere cioè la sua specificità di carattere e gestire i suoi cambiamenti in base alle promesse fatte. Il 

problema dell’identità e dei suoi cambiamenti si pone sia dalla parte della marca che dalla parte del 

consumatore ed è connessa alla nozione di “stile”. Lo stile infatti si realizza nella proposta sempre 

rinnovata di valori costanti: una marca mantiene lo stile se conia prodotti che corrispondono allo spirito 

dei prodotti precedenti; una persona mantiene il proprio stile se il suo consumo non cade su prodotti che 

rendano la sua identità vacillante. Bisogna fare attenzione però al fatto che l’identità di marca si basa anche 

sulla tendenza maggiore o minore al cambiamento: ci sono marche più tradizionali meno inclini al 

cambiamento, e marche che invece hanno la tendenza a innovare con più frequenza. È la differenza tra 

“stile” e “moda” coniata dal celebre refrain di Coco Chanel: “La moda cambia, lo stile resta”. Ecco che 

allora ci sono marchi con una solida gestione dello stile, e marchi invece più soggetti a seguire l’onda del 

momento e probabilmente più esposti al fallimento: per Chevalier e Mazzalovo (2008), uno dei criteri di 

distinzione tra moda e lusso è rilevabile nelle qualità della “stabilità” e della “perennità”: un brand di 

moda assurge allo stato di marchio di lusso quando possiede dei modelli classici e ha dei best‐seller 

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permanenti. Ecco perché Chanel dura, mentre Courrèges è tramontato dopo qualche gloriosa stagione 

(Barthes, 1967). Sottolineando però i valori perenni della marca, si rischia di svalutare il fattore più 

importante per la vita di un marchio, di lusso o di moda che sia, ossia la capacità di innovare. Per questo 

Gérard Mazzalovo considera altrettanto importanti la capacità di mantenere un’identità e la capacità di 

saper cambiare. Così traduce in termini immediatamente comprensibili per l’uomo di marketing a cui 

rivolge la sua ricerca, l’equilibrio identitario di Ricoeur e la distinzione espressione/contenuto della 

semiotica Hjemsleviana/Greimasiana: nella concezione della “cerniera” cara a Jean Marie Floch, esiste nel 

brand una parte invariabile – il nucleo idem dell’identità di marca – e una parte variabile – la gestione del 

cambiamento secondo linee di coerenza. Stabilità e cambiamento appartengono sia alla dimensione 

sensibile, cioè al livello dei prodotti e della comunicazione, dei prezzi e dei punti vendita, sia alla 

dimensione intellegibile, cioè al livello dei valori e dell’etica di marca. La “cerniera” è il meccanismo 

attraverso cui un’innovazione sul piano sensibile si ripercuote immediatamente sul piano dell’intellegibile, 

e viceversa: se cambia l’estetica della marca, cambia inevitabilmente anche la sua etica; e se la marca si fa 

portatrice di nuovi valori, questo viene subito evidenziato da nuovi modi di produzione e nuovi prodotti, 

e necessariamente viene anche comunicato in campagne pubblicitarie ad hoc. Passare in rassegna i fattori 

di mantenimento e quelli di cambiamento permette di avere una visione più ampia degli orizzonti verso 

cui va la marca e di ridirezionarne il senso nel caso in cui si stessero facendo degli errori. Il problema 

dell’identità si pone anche al livello del consumatore: è vero che questo costruisce tendenzialmente forme 

di vita coerenti, ma può permettersi anche comportamenti incoerenti e imprevedibili nell’associare un 

prodotto a un altro. Anzi il bricolage e la costruzione di uno stile personale oggi sono molto più ricercati 

piuttosto che un “total look”, considerato banale e privo di inventiva (Heilbrunn B. et Hetzel P., 2003). 

 Fino agli anni Ottanta, molti studiosi hanno sostenuto la differenza tra immagine, corporate identity e 

identità d’impresa, vedendo l’immagine come costruzione sociale, somma delle percezioni collettive, la 

corporate identity come immagine “interna”, modo di percepirsi dei dipendenti; l’identità d’impresa è 

invece letta come costruzione individuale, modo in cui la corporation vuole essere vista. Un certo tipo di 

approccio cognitivista (come quello di Keller, 1998) ha letto il rapporto tra identità e immagine in termini 

quantitativi, all’interno della nozione di brand knowledge o brand awareness, concetto che “misura il numero 

di persone che sa a cosa si riferisce il marchio e quali sono le sue promesse” (Kapferer 1997: 137). Il 

successo di una marca, cioè, sarebbe rilevabile nella sua capacità a restare nella memoria del pubblico a 

lungo termine: l’immagine che ci si costruisce della marca influenzerà poi i comportamenti di consumo. È 

una visione di tipo behaviorista che non tiene conto delle interpretazioni, ricostruzioni e trasposizioni della 

marca nella vita quotidiana del consumatore, che viene considerato “come una superficie d’iscrizione e 

memorizzazione più o meno efficace degli stimoli inviati dalla marca”(Semprini, 2006: 100) piuttosto che il 

luogo della negoziazione del senso. La brand awareness è fondata soltanto su un meccanismo quantitativo, 

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poiché è rilevabile nel numero di persone che cita il nome di una marca, quando il ricercatore propone di 

pensare a quali siano le aziende rappresentative di un certo settore merceologico; in seconda istanza il 

ricercatore chiede all’intervistato se abbia mai sentito il nome di una certa marca. Come vedremo nel 

nostro caso studio, a volte non basta conoscere il nome per conoscere il prodotto: spesso si associano a un 

nome di marca prodotti appartenenti ad altre marche. La commistione di valore economico‐finanziario e 

valore socioculturale che è implicata nella distinzione identità/immagine è stata condensata nel termini, 

molto utilizzato nel mondo anglosassone, di brand equity2 (Aaker, 1991). È più utile secondo noi 

considerare la marca come risultato di una relazione, di una continua negoziazione tra proposta di senso e 

uso sociale, seguendo una tradizione di studi che parte da Kapferer (1997) e arriva ai nostri giorni. Per 

Pierluigi Basso, la marca è un vero e proprio “software identitario implementabile” (Basso, 2007), nel senso 

che, più che essere un’identità precostituita in sé, svolge una funzione di mediazione tra lo spazio 

soggettale e l’ambiente esperienziale, fa in modo che un soggetto, tramite la protesi identitaria offertagli 

dalla marca, si oggettivizzi e dichiari la propria appartenenza a un mondo possibile, teatralizzando il suo 

modo di vivere. La marca stessa vive solo se i suoi valori sono attualizzati. Il brand, rendendo disponibili 

valori a cui il consumatore si associa, diventa forma di vita. 

 

1.3. Verso un’interpretazione letterale della marca

 

La riconoscibilità è stata il primo obiettivo della “marchiatura” dei prodotti già all’origine delle prime 

forme di mercato: perché non si confondessero, perché non si perdessero, gli oggetti destinati al 

commercio marittimo portavano impresso il loro marchio di provenienza, così rendendone 

immediatamente riconoscibili proprietario, origine e produttore. In questo modo si distingueva e si 

differenziava l’oggetto dagli altri, si rapportava questo oggetto con un soggetto (che fosse il produttore o il 

proprietario) e se ne segnalava la provenienza. La marca serviva anche come strumento mnemonico, 

affinché l’identità del produttore restasse impressa nella mente del cliente. Così il marchio, associato a un 

prodotto, sarebbe stato strumento utile per risalire all’artefice, che sarebbe stato nuovamente interpellato 

nel caso in cui il prodotto avesse soddisfatto le attese del cliente. La reiterata acquisizione di beni 

appartenenti a un certo marchio genera meccanismi di fiducia: saltando il passaggio del rimando al 

produttore e all’origine, il marchio stesso diventa sintesi visiva della reputazione del prodotto, 

attribuzione di fiducia al produttore, alla provenienza, al proprietario o al commerciante. 

2 La brand equity racchiude la sua natura ambigua del concetto di identità di marca, e cioè la sua appartenenza a una dimensione economica e sociale: un incremento di capitale finanziario significa una possibilità di aumento di valore aggiunto, e nel contempo una migliore percezione da parte del pubblico può anticipare un miglioramento nelle prestazioni economico‐finanziarie.   

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La marchiatura nasceva dunque con l’artigianato ma soprattutto con il commercio, con il distanziamento 

tra produttore e consumatore, che, diventando invisibili l’uno all’altro, trovavano nel marchio un medium 

in grado di metterli in relazione. La distanza tra gli attori del commercio diventò siderale con l’avvento 

della produzione industriale. È nel momento di massima espansione produttiva che il brand acquisisce 

veramente forza. In un tempo in cui produzione e scambio diventano standardizzati e in cui non c’è più il 

controllo di unʹunica persona sulla produzione, il marchio diventa fonte unica di garanzia che quel 

prodotto è realizzato con certi crismi e secondo certi modelli. La nascita del brand è associata all’estensione 

della proprietà industriale e dei brevetti: è della fine dell’Ottocento la prima legge federale statunitense sui 

marchi di fabbrica (Chevalier e Mazzalovo, 2008: 98), ma lo sviluppo del brand va accelerando nel corso 

del Novecento, assumendo spessore teorico e valenza strategica con lo sviluppo della Corporate Image 

negli anni Cinquanta, e raggiungendo l’apice del suo successo negli anni Sessanta (Vinti, 2007). La 

corporate image nasce infatti dalla necessità delle grandi aziende americane di dotarsi di un’anima, di 

umanizzarsi (Marchand, 1998), di dare una fisionomia appunto a quella “personalità” che Kotler inserisce 

tra le “7 p” del suo marketing mix. Avviene quindi uno scollamento: il marchio diventa un segno di 

distinzione e di qualità rispetto alla concorrenza, ma si appone sull’artefatto prodotto in serie, non più 

sull’oggetto riconosciuto come proprio dall’artigiano. Ecco che allora il discorso di marca si distacca dalle 

caratteristiche intrinseche del prodotto e dalla storia della sua produzione, per situarsi su un terreno 

arbitrario, scelto in base a strategie di posizionamento sul mercato. Seguendo la tesi postmodernista di 

Fredric Jameson, Basso dimostra come la mediatizzazione della società abbia reso invisibili i meccanismi e 

le dinamiche di produzione e impercettibile il legame tra paternità e merci: per questo le marche ricorrono 

alla costruzione di un immaginario, a un mondo possibile invece di risalire alle dinamiche della 

produzione. “Non appena il logo è mediatizzato, si perdono le tracce dei processi di produzione e di 

apposizione del logo stesso. Il logo non ha più, come invece la firma e la griffe, un legame forte e stabile 

con il processo di produzione” (Basso, 2007: 137). La marca è quindi trattata alla stregua di una star 

(Seguéla, 1982), seguita nel suo sviluppo e curata nei tre aspetti che la formano: il suo corpo, la sua 

psicologia e il suo stile. I suoi prodotti sono dimenticati a favore della costruzione di un’identità 

suppletiva. L’ideazione di certe campagne pubblicitarie, come quelle di un famoso creativo come Jacques 

Séguéla, sono il risultato di questa ideologia: costruire dei miti che andassero al di là delle qualità 

intrinseche del prodotto pubblicizzato. Questo ha permesso il passaggio di valori dalla merce alla persona 

che ne usufruiva. La persona che sceglie una certa marca, diventa marchiata essa stessa da quei valori di 

cui è investito il prodotto tramite la costruzione di un mito. Il pacchetto di valori associato alla marca 

finisce per investire anche il suo utente. Questi valori erano quindi diventati piuttosto arbitrari negli anni 

Ottanta, nomadici, lontani dal prodotto. L’ipotesi è che oggi qualcosa stia cambiando, che la marca stia 

recuperando la sua “letteralità”, cioè il fatto di essere marchio di garanzia legato a un prodotto specifico. 

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Ciò non significa che sia terminata la fase di costruzione di un mito intorno alla marca: semplicemente è 

cambiato il tipo di ideologia che invece di essere costruita su concetti piuttosto vaghi e arbitrari (la libertà, 

la sensualità, la sensibilità per i problemi sociali), si situa su una nuova ideologia della produzione. Chi 

compra una marca oggi, tendenzialmente esprime adesione a un universo di valori, che ha anche a che fare 

con il sostegno dell’industria locale e dell’artigianato, e un’avversione alla produzione di massa. 

 

1.4 L’Autore, la firma e la marca

 

La marca è come una “firma” che si appone sul prodotto e per questo è soggetta a un regime simile a 

quello dell’opera d’arte. Come l’autore di un’opera d’arte, la marca è un marchio di fiducia, d’origine, di 

garanzia, di proprietà; come l’opera che viene apprezzata quando se ne riconosce la firma, l’autore che l’ha 

prodotta, allo stesso modo, la merce vale perché è prodotta da un’azienda che “ha un nome”: il 

consumatore sceglie di investire il suo denaro in quella merce, perché ne conosce il produttore, così come il 

visitatore di una mostra (per non parlare del collezionista d’arte) dimostra apprezzamento per un’opera se 

sa che l’ha prodotta un artista famoso. Per questo la marca svolge una funzione di orientamento di fronte 

alla difficoltà di costruirsi un gusto personale. D’altra parte, come l’autore è considerato un genio proprio 

perché produttore di un lavoro riconosciuto socialmente come opera d’arte, così un’azienda diventa marca 

solo quando produce una merce riconoscibile (questo discorso vale nella moda, nel design, nell’arte come 

nell’architettura). Lo sviluppo delle marche ha quindi seguito la stessa tendenza che si è affermata nelle 

arti da Duchamp in poi: ciò che dà valore all’opera è la firma che gli viene apposta. Così, se l’orinatoio 

diventa opera d’arte non è soltanto perché l’oggetto è stato spostato di contesto – da un bagno pubblico a 

un museo ‐ ma perché è stato firmato dal’Artista. “La firma – segno istituzionale del gesto d’autore – fa 

apparire come prodotto irripetibile il banale elemento di una qualsiasi serie di oggetti, trasformando 

l’opera allografica in prodotto autografico (Marrone, 2008 con riferimento a Goodman, 1968). L’autografia 

del prodotto seriale è diventata una vera e propria esigenza di fronte all’imperversare della contraffazione 

dei prodotti griffati: il successo di una marca si legge infatti anche nella quantità di epigoni che ne 

riprendono lo stile. 

La marca è dunque l’iscrizione di un Autore in un prodotto e in tutte le variabili del marketing mix. 

Questo Autore è sempre più spesso una Persona, nel senso di maschera, di ruolo fisso. Difficilmente è 

rappresentato come il produttore materiale della merce, ma è costruito come un creativo, un intellettuale 

dallo sguardo profondo e sicuro di sé. L’autore è l’incarnazione del gusto e dello stile legati alla marca, 

essendone l’inventore. Giorgio Armani veste e si comporta secondo lo stile che inventa, sobrio, 

minimalista, elegante, monocromatico. Versace ha avuto una vita trasgressiva ed eccentrica, adeguata allo 

stile “lessi is boring” che lo caratterizzava. L’Autore non è dunque un mero emittente, “mandante” della 

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griffe e dei suoi valori, come potrebbe apparire a un occhio ingenuo; piuttosto ne è lui stesso incarnazione. 

Anche la costruzione dell’autore rientra nel progetto di marca e ne è manifestazione. In un ruolo che è di 

testimonial rinforzato (perché è lui stesso che ha inventato prodotti e marchio), il designer costruisce il 

fruitore a sua immagine e somiglianza. Il testimonial è una mediazione tra enunciatore, di cui condivide i 

valori, ed enunciatario di cui è simulacro vicario. Se è famoso, proietta i valori con cui è stato costruito il 

suo personaggio sulla marca stessa che sostiene3. 

Il cortocircuito tra autore di una griffe e fruitore della stessa è dimostrato in chiave ironica e attraverso una 

comunicazione obliqua che mette in gioco lo spettatore in almeno due campagne pubblicitarie: una è la 

famosa campagna di Diesel “Be stupid”; l’altra è la campagna 2009‐2010 di Patrizia Pepe “Who is 

Patrizia?”. 

Non ci occuperemo di tutta la campagna Diesel, che avrebbe bisogno di una ricerca a sé, ma di un’edizione 

unica di annuncio, cioè il paginone centrale di Repubblica del 15 Settembre 2010 dedicato a Renzo Rosso, 

l’Autore appunto. Dopo aver diffuso tra i manifesti cittadini e le pubblicità della stampa il messaggio “Be 

stupid” (perchè lo stupido è quello che fa, non quello che critica; quello che ascolta il cuore, non la testa; 

quello che ha le palle, non il cervello e così via), quel giorno Diesel svela finalmente chi si celi dietro il 

modello “Stupid” che il destinatario creativo, anticonformista, “cool” dovrebbe seguire. Il messaggio così 

diceva: “C’è chi vede le cose per come sono. C’è chi le vede come potrebbero essere. A Renzo, primo degli 

stupidi, dei coraggiosi, dei visionari, tanti auguri per i tuoi 55 anni. Da tutti noi, stupid Diesel people”.  

Si spiega allora tutto il senso della campagna, esortazione al destinatario a “essere stupid”: la stupidità è il 

valore che ha fatto in modo che Diesel fosse Diesel, è il suo carattere centrale incarnato dall’inventore della 

Diesel. Un controvalore diventa valore posizionante del marchio, perché è un controvalore ridefinito come 

sinonimo di coraggio e visionarietà. In questo originale biglietto d’auguri, destinante e destinatario si 

invertono: non è più Diesel che suggerisce al lettore di essere stupido, ma sono i “diesel people”, a cui 

appartiene il lettore se aderisce ai valori enunciati dalla campagna (se è abbastanza stupido), a comunicare 

un messaggio di ringraziamento al capo dell’azienda. Nel ribaltamento della situazione enunciativa, il 

lettore, il consumatore Diesel diventa parte del “noi” enunciato nel messaggio e così facendo dimostra di 

aderire al valore di stupidità che Renzo, primo degli stupidi, incarna. 

Ancora più evidente la confusione tra Autore e Lettore nella celebre campagna di Patrizia Pepe, “Who is 

Patrizia?”, classico esempio di comunicazione integrata e invasiva rispetto ai social networks. Nelle riviste 

e nei giornali troviamo diverse fotografie dove una donna ben vestita e in ambientazioni diverse ma 

sempre chic copre il viso con oggetti diversi (una macchina fotografica, un ritratto, uno specchio); le 

pubblicità a stampa costruiscono così il mistero sull’identità misteriosa e rimandano al sito web. Per 

ottenere risposta all’annosa domanda, inseriamo i nostri dati nella home page. La procedura di  3 Cfr a questo proposito Coluzzi F. « Dal divo al marchio e ritorno. Storie di riabilitazione attraverso il brand”, Tesi specialistica in Comunicazioni Visive e Multimediali, Università Iuav di Venezia, 2011. 

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inserimento dei dati, lunga e noiosa, può essere saltata, facendo l’accesso diretto dalla nostra pagina di 

Facebook. Finalmente riusciamo ad accedere alla campagna pubblicitaria e clicchiamo su ogni foto per 

“cercare gli indizi” che ci permetteranno di capire chi si cela dietro le maschere. Scopriamo allora che 

Patrizia ha i nostri stessi gusti musicali, la nostra età e, infine, il nostro nome. Come se non bastasse, 

l’ultima schermata esplicita questa strepitosa scoperta con una scritta a tutto schermo: “Patrizia sei tu!”. 

Ecco un classico esempio dove la ricerca dell’identità dell’autore finisce con l’immedesimazione 

dell’utente, in una versione contemporanea del “de te fabula narratur”; come se non bastasse, per una 

profezia che si autodetermina, abbiamo ceduto i nostri dati presenti nelle pagine di facebook all’ufficio 

comunicazione del marchio Patrizia Pepe, che adesso sa quali sono i gusti musicali e cinematografici, il 

grado di educazione, il tipo di amicizie del suo consumatore ideale. E può costruire il suo personaggio 

“Patrizia” seguendo il nostro profilo. Patrizia adesso sarà davvero come noi, perché i suoi valori saranno 

costruiti e ridefiniti attraverso il profilo del suo utente ideale. 

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2. La gestione dell’innovazione

2.1 Gestire il cambiamento dal progetto alle sue manifestazioni

 

Gli studi semiotici e sociologici sulla marca hanno prodotto una rivoluzione copernicana nel campo del 

marketing. Da Séguéla in poi infatti si è smesso di pensare che la marca fosse un fenomeno accessorio e 

secondario rispetto ai core values del prodotto e le si è data centralità assoluta. Il marketing tradizionale 

invece, rappresentato dal celebre modello di marketing mix di Kotler (1986), mette il prodotto al centro, 

circondato da prezzo, comunicazione, distribuzione e posizionamento. Questo modello designa l’insieme 

coerente delle variabili agendo sulle quali si sviluppa una buona strategia di mercato. È un modello che si 

situa storicamente agli albori del mercato, quando l’offerta stava cercando di costruire una domanda e di 

creare una cultura del consumo. In questo contesto, il prodotto aveva una centralità assoluta e la 

comunicazione era solo un coadiuvante alla commercializzazione, allo stesso modo del packaging, dei 

canali di distribuzione, delle politiche dei prezzi e del posizionamento (la nicchia di mercato dove il 

prodotto è al riparo dalla concorrenza). Negli anni Settanta comincia a diffondersi negli ambienti del 

marketing la distinzione tra due tipi di comunicazione (che però è considerata sempre ancillare rispetto al 

prodotto): la comunicazione di prodotto e la comunicazione di marca. Mentre la comunicazione di 

prodotto mette in discorso le caratteristiche sostanziali e qualitative dell’oggetto commercializzato, la 

comunicazione di marca inizia a costruire un universo di senso che fa riferimento agli stili di vita che il 

consumatore dovrebbe assumere acquistando quel prodotto. È un’idea del primo grande teorico della 

marca, Jean‐Noel Kapferer, che ci siano due tipi di relazione possibile tra la marca e il prodotto: una 

relazione “costruttiva” – per cui la pubblicità crea il prodotto ‐, e una relazione “referenziale” – secondo 

cui il prodotto crea la sua comunicazione. La distinzione diventa ancora più netta quando si sviluppa un 

tipo di pubblicità alla Séguela, come già citato, o alla Benetton, che si allontanano dal prodotto per 

costruire un universo mitico. Non c’è una ragione sostanziale per cui le pubblicità si allontanano 

gradualmente dal prodotto: non è che il prodotto abbia perso qualità e abbia bisogno di una 

comunicazione che lo nasconda, e la pubblicità “costruttiva” non è certamente più ingannevole di quella 

“referenziale”. Semplicemente si basa su un genere diverso: una costruisce mondi possibili, l’altra torna ai 

valori della produzione.  Si tratta di due tipi di filosofia messe al servizio della comunicazione o di generi 

pubblicitari, come metterà in luce J.M. Floch (1990): un tipo di comunicazione tende a costruire una 

ideologia “referenziale”, mentre un altro tipo di comunicazione costruisce un universo “mitico”. La 

pubblicità sostanziale e la pubblicità referenziale non hanno uno statuto ontologico privilegiato rispetto a 

una pubblicità che nasconda il prodotto sotto i lustri dello spettacolo. Entrambe sono discorsi, ma uno 

mira a costruire un’immagine di sé che sia fondata sull’onestà e sull’affidabilità; l’altra costruisce sogni.   

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La disamina critica di Floch corrisponde perfettamente allo spirito del marketing degli anni Novanta, che 

dà finalmente centralità alla marca, mentre il prodotto diventa una delle variabili che ruotano intorno alla 

marca. Secondo questa nuova conformazione del marketing mix, “la marca non vive in funzione del 

prodotto ma, anzi, è il prodotto stesso a farsi manifestazione testuale della marca, a incrementarne lo 

spessore simbolico, a garantirne la riconoscibilità” (Marrone, 2007: 10). L’idea che il prodotto non sia che 

una delle “manifestazioni testuali” del progetto di marca è ben formalizzata da Andrea Semprini (2006), 

che elabora un modello che distingue il Progetto dalle Manifestazioni: all’interno del Progetto si colloca la 

strategia, l’originalità e la forza socioculturale di una marca; ma sono le Manifestazioni – servizi e prodotti 

– che concretizzano il progetto e lo fanno vivere nella quotidianità dei consumatori. Questo approccio 

considera marca e prodotto parte di un sistema olistico, dove la marca non è semplicemente un apparato 

di comunicazione che circonda il prodotto, elemento materiale e fondamentale dello scambio economico, e 

nello stesso tempo il prodotto non è semplicemente un pretesto su cui viene costruita una campagna 

mediatica totalmente arbitraria rispetto alla sua presenza. Sia il prodotto che la comunicazione incarnano i 

valori sottesi alla marca, ne selezionano i tratti pertinenti e invariabili. Il Progetto è alla base della 

dimensione comunicativa e della dimensione materiale. La marca contemporanea, secondo Semprini, non 

trascura il prodotto: semplicemente, lo assoggetta a un progetto di senso con il quale deve essere coerente 

e pertinente. La marca, più che essere un diffusore di informazione, è un motore semiotico, una “logica di 

selezione, di organizzazione e di concretizzazione di un progetto di senso” (Semprini, 2006:58). 

Il progetto di marca si realizza dunque grazie ai livelli di manifestazione che sono: il prodotto; la 

comunicazione; il punto‐vendita e il prezzo. 

È a partire da questi livelli di manifestazione che si gioca l’innovazione: questa può investire i prodotti 

(attraverso il restyling, la differenziazione o l’estensione di linea); la comunicazione (nuove campagne 

pubblicitarie; cambio del logo; strategie di rebranding); la distribuzione (redesign dei punti vendita; scelte 

di distribuzione su nuovi canali o nuovi media); il prezzo (strategie premium o di trading up). Una volta 

definito il progetto, ci si può permettere di gestire il cambiamento anche investendo nuovi territori. Il 

cambiamento, come già visto in 1.2, deve giocarsi sul delicato terreno dell’identità: bisogna essere capaci di 

innovarsi senza perdere il proprio carattere. La logica del cambiamento si situa su una dimensione 

contrattuale, che investe i campi della fiducia e della fedeltà: un consumatore sarà fedele a una marca, se 

questa persegue in modo coerente lo stesso progetto attraverso nuove manifestazioni. La fiducia crollerà, 

una volta che la marca tradirà se stessa e i valori affermati nel suo passato. Bisogna quindi avere il 

coraggio di cambiare e di evolversi, ma entro i limiti richiesti dal contratto di fiducia che lega la marca al 

consumatore: se il consumatore non vede i vantaggi implicati nel cambiamento non lo accetterà.  

 

 

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2.2 Innovazione nel prodotto: diversificazione ed estensione di linea

 

La diversificazione consiste nell’espansione del territorio della marca che, dalla produzione di un prodotto 

o di una certa tipologia di prodotti, passa alla produzione di una gamma più ampia di prodotti. Può 

consistere in un’estensione di linea, quando la marca amplia la gamma dei suoi prodotti all’interno di uno 

stesso territorio (quello dell’abbigliamento, ad esempio, o dell’alimentazione); o in un’estensione di marca, 

quando coinvolge territori diversi da quello d’origine: è il caso della Virgin, ad esempio, che dalla 

produzione di dischi è passata alla gestione di compagnie aeree low cost e di bevande analcoliche.  

Nel settore del lusso, spesso l’estensione di linea ha segnalato il passaggio dall’artigianato e dal controllo 

diretto sul prodotto a una dimensione più ampia e a un volume di vendite più corposo, ed è stato un passo 

necessario perché l’azienda si affermasse come brand: ad esempio Gucci ha iniziato la sua carriera con la 

produzione artigianale di borse di pelle, in un secondo tempo ha provato la produzione sartoriale, e infine 

ha ampliato la gamma con una serie di accessori come gli orologi, i gioielli e gli occhiali; anche Ferragamo 

è passato dalla pelletteria (in particolare dalla produzione di scarpe) alla sartoria maschile e femminile; 

Calvin Klein è passato dai profumi al’abbigliamento, Chanel dall’abbigliamento femminile ai gioielli e agli 

orologi fino alle creme di bellezza con il marchio Précision; Dior dalla sartoria d’alto livello ai cosmetici. 

Un’estensione di linea generalizzata riguarda la produzione di profumi, che tutti i marchi, anche quelli di 

media gamma, tendono ad avere e su cui basano una parte consistente del fatturato. Altri marchi hanno 

adottato un’altra strategia che consiste nell’invenzione di una nuova marca sotto garanzia della marca 

principale, con conseguente fenomeno di trading up da parte di consumatori (vedi par. 2.5): così ha fatto 

Cartier, che ha lanciato Must; Dolce e Gabbana con la linea D&G; Armani con Emporio Armani. Un’altra 

modalità di estensione di marca consiste nella cessione di licenze a terzi: così è successo per Armani Casa o 

per Versace Home Collection. 

L’estensione di marca è un processo molto delicato perché modifica la relazione tra la marca e il prodotto, 

nonché la relazione tra la marca e la categoria dei prodotti. Essendo il prodotto manifestazione della 

marca, l’ideazione di un nuovo prodotto deve essere sempre rispondente ai codici etici ed estetici della 

marca; l’oggetto deve quindi manifestare i valori pertinenti della marca, sia nelle sue forme che nelle sue 

funzioni. J.N. Kapferer (2002: 157) cita l’esperienza di estensione fallimentare della compagnia Bic, che 

dalla produzione di penne a sfera è passata a quella degli accendini e dei rasoi, e fin qui tutto bene. 

Quando ha iniziato a produrre profumi e collant, qualcosa è andato storto. La ragione è semplice: mentre 

le prime categorie di prodotto rispondevano a valori come l’economicità, l’ergonomia, lo stile “usa e 

getta”, erano fatte di materiali come la plastica e avevano forme semplici e riconoscibili, le categorie dei 

collant e dei profumi non si adattavano bene a questi valori. Associati all’universo di senso della 

funzionalità estrema, raggiunta con semplicità di materiali, finivano per scadere in un universo cheap. 

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L’estensione di linea o di marca è un affare rischioso, e deve essere realizzata solo se ce n’è effettivamente 

bisogno e se si hanno i mezzi. Infatti, bisogna essere disposti a un forte investimento in comunicazione e 

pubblicità: non ha senso inserirsi in un mercato dove già esiste una concorrenza affermata e radicata, se 

non si comunica a nessuno che lo si sta facendo. Una buona motivazione per ricorrere a una politica di 

estensione della marca è secondo Kapferer (ibidem: 161) la necessità di svecchiamento nel caso di marche 

tradizionali e fortemente legate a un territorio, che devono adattarsi a un ambiente in continua evoluzione. 

Queste marche basano il loro progetto sui valori della tradizione, ma non fanno i conti con le concorrenti 

che entrano nel mercato veicolando valori nuovi e più appetibili per un pubblico giovane. È necessario in 

questo caso investire in innovazione e tecnologia. Kapferer fa riferimento alle biciclette danesi Kildamoes, 

che avevano perso forti quote di mercato di fronte all’affermarsi di biciclette leggere, colorate e prodotte in 

Asia; un buon investimento in materiali high tech e ricerca ha favorito il reinserimento di questa marca 

vecchia e tradizionale nel circuito della moda.  

 

2.3. Innovazione nella comunicazione: le trappole del rebranding

 

La pratica del rebranding può passare per diverse gradazioni: può consistere nel cambiamento del nome 

dell’azienda, oppure nella riprogettazione del suo logo e della comunicazione. Come già detto, per la 

teoria della cerniera di Floch, un piccolo cambiamento sul lato del significante, produce anche un 

aggiustamento dell’etica di marca. Forse per questo i fenomeni di rebranding generano sempre reazioni 

passionali forti da parte dei consumatori affezionati al brand e tra i dipendenti dell’azienda stessa. Un 

piccolo cambiamento del suo logo può significare un abbandono dei valori per cui si era legati a quel 

marchio ed essere indizio di “tradimento”. Essendo il brand basato su un contratto fiduciario, se non ci si 

riconosce più nell’universo della marca, la si potrebbe anche abbandonare per qualcosa di nuovo. 

Semprini racconta del momento del rebranding di British Airways, il cui logo era caratterizzato fino al 1996 

dallo speedbird, un logo lineare, spigoloso e monocromatico (rosso) che era una derivazione di quello di 

Imperial Airlines; quando l’azienda fu privatizzata, decise di segnalare simbolicamente la sua dimensione 

internazionale e l’aumento nella proposta delle destinazioni e delle rotte, e mise sulla coda dei velivoli 

l’emblema del Commonwealth oltre al blu e rosso dell’Union Jack. Il riferimento era sempre alla madrepatria 

inglese e alle sue ex‐colonie, ma l’attaccamento alla bandiera nazionale da parte della maggioranza dei 

passeggeri era troppo forte per passare inosservato. La compagnia di bandiera fu così costretta a fare 

marcia indietro e a proporre una riedizione del vecchio design. Oggi sulla coda degli aerei della British 

Airways non solo ci sono i colori della bandiera, c’è una rappresentazione tridimensionale dell’oggetto 

bandiera sventolante.  

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La resistenza all’innovazione si verifica quasi sempre quando un marchio subisce dei cambiamenti. È 

necessario giustificare bene l’avvenuta variazione per favorirne l’accettazione. Una grande macchina 

comunicativa si è mossa ad esempio quando la Andersen Consulting ha deciso di cambiare struttura 

organizzativa e di ampliare il target dei potenziali clienti; questa decisione è stata accompagnata da una 

srategia di rebranding estrema come il cambiamento del nome, che è diventato Accenture (una “crasi” tra 

Accent e Future). Grazie a un testimonial d’eccezione come Tiger Woods (prima che fosse accusato dalla 

moglie di tradimenti seriali e di sex addiction), una buona campagna pubblicitaria e un ottimo design del 

logo, l’azienda ha superato senza traumi questo cambiamento. 

Non la stessa cosa si può dire della semplificazione di marchi come quello della Lancia o di Starbucks; il 

rebranding della Lancia ha eliminato la lancia dallo scudo, cancellando quindi il riferimento oggettuale 

della parola in cui consiste il marchio; ha unito le lettere maiuscole, rendendo il carattere serif, 

tradizionale, italiano, una specie di corsivo maiuscolo; infine, come succede sempre più spesso nel design 

dei marchi contemporaneo, ha reso lo stemma fintamente tridimensionale, con effetti di ombre e riflessi. La 

cosa non è piaciuta a designer e consumatori, che si sono accaniti nei forum per addetti ai lavori contro 

questo inutile restyiling. Stessa cosa si può dire a proposito del rebranding di Starbucks che ha sollevato 

nugoli di proteste. Il logo, caratterizzato dalla presenza del nome e di due stelle in una corona verde, e di 

una sirena all’interno del cerchio, ha eliminato la corona esterna per mantenere soltanto la figura 

femminile stilizzata. L’accettazione del pubblico è stata molto negativa, probabilmente perché bisogna 

stare molto attenti a togliere dal marchio gli elementi che lo rendono tale, che sono il contorno e la 

presenza di marche molto specifiche come i segni grafici minimi (stelline, virgolette, accenti). 

 

2.4 Innovazione nella distribuzione: showroom e forme di vita

 

Se consideriamo il negozio nella sua accezione di “punto‐vendita”, ne selezioniamo le proprietà che lo 

rendono spazio destinato al commercio, luogo che ha la funzione di ospitare il momento dello scambio tra 

prodotto e denaro. Eppure, sulla base di quanto detto riguardo alla marca come progetto che promuove 

valori e stili di vita, anche il negozio diventa manifestazione del progetto di marca, interfaccia e luogo di 

mediazione tra il concept e i consumatori. “Il punto vendita dice e traduce il senso del brand, ma 

soprattutto lo esteriorizza e lo mette in pratica, coinvolgendo in modi più o meno seducenti il 

consumatore, i suoi desideri, i suoi affetti, il suo stesso corpo. Entrare in un punto vendita non è entrare in 

contatto con le merci ma vivere forme d’esperienza che i brand propongono e dispongono. Il negozio non 

si limita a fornire al consumatore un pacchetto di istruzioni per il consumo, ma suggerisce tipi 

d’esperienza che rientrano nel discorso di marca, che conseguono dal suo universo di valori” (Marrone, 

2007: 317). La centralità data al punto vendita (o showroom o flagship store che dir si voglia) risponde alla 

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necessità di fare del consumo un’esperienza, e di stimolare emozioni legate all’universo della marca: la 

ricerca americana lo ha chiamato “emotional branding” (Gobé, 2001) o “experiential marketing” (Schmitt, 

1999). Il passaggio dalla compravendita del prodotto all’esperienza segnala il cambiamento di mentalità 

nella gestione della marca, che si orienta più verso le emozioni e le passioni della persona, piuttosto che 

verso i bisogni del consumatore, come faceva il marketing tradizionale. Non si offre più un servizio, ma 

una relazione. Come nell’arte contemporanea si è sviluppata la tendenza a non mostrare più opere ma a 

costruire relazioni (Bourriaud, 2001), così l’industria costruisce esperienza invece di offrire prodotti. È il 

superamento della logica del consumismo in nome di un’intensa volontà di costruzione sociale del sé, 

certamente più legata a processi passionali che non a logiche d’azione. L’azienda offre uno stile; il 

consumatore dimostra buon gusto. 

Per questo lo spazio della vendita e della fruizione assumono sempre più importanza. Il punto vendita 

diventa lo spazio dell’esperienza, ribalta entro cui il fruitore mette alla prova la sua capacità di vivere in un 

certo modo, con un certo stile di vita. “La nuova offerta, quella delle esperienze, si verifica ogni qual volta 

un’impresa utilizzi intenzionalmente i servizi come palcoscenico e i beni come supporto per coinvolgere 

un individuo. Se le merci sono fungibili, i beni tangibili, e i servizi intangibili, le esperienze sono 

memorabili” (Pine e Gillmore, 1999, p. 14 tr. it.). Beni e servizi, secondo Pine e Gillmore, teorici 

dell’economia delle esperienze, non sono che pretesti per vivere un’esperienza, occasioni per la 

costruzione del proprio sé in relazione alla forma di vita scelta. 

La “forma di vita” è un principio che struttura i comportamenti quotidiani, resi coerenti da scelte ideali di 

fondo. È stata definita da Juri Lotman (1975) sulla base di un esempio, quello dei cosiddetti decabristi nella 

Russia di inizio secolo: i valori inscritti nei testi di riferimento di questo gruppo di rivoluzionari dandy 

sono un sistema di istruzioni e una guida per la loro vita quotidiana. Ma perché ci sia forma di vita, è 

necessario un riconoscimento sociale, uno sguardo esterno che ne approvi la coerenza: la forma di vita 

presuppone dunque la teatralizzazione, l’esibizione della propria esperienza di consumo. Il fruitore si vede 

e si mette in mostra in uno spazio che è la ribalta ideale del personaggio che vorrebbe impersonare. Se la 

marca dunque fornisce un sistema di valori a cui appellarsi e secondo cui vivere, lo show‐room o il punto 

vendita possono diventare palcoscenico dove questa forma di vita è messa alla prova o realizzata. Il punto 

vendita si arricchisce in questo modo di funzioni e di missioni: non è semplicemente il luogo dove avviene 

la distribuzione della merce, ma è uno spazio relazionale, impregnato dei valori di marca, dove il fruitore 

si aggira appropriandosi dello stile che gli viene offerto. Il punto vendita è luogo di esteriorizzazione e 

teatralizzazione del discorso di marca, dove a essere coinvolto è in primis il corpo del visitatore che si 

muove nello spazio. Ci sono negozi che mimano gli spazi della vita quotidiana, si propongono come 

terreni di prova per stili di vita. Un esempio è il negozio di Ralph Lauren a Manhattan, ospitato in una casa 

della fine dell’Ottocento di sette piani dal nome Rhinelander Mansion. Capi in vendita e oggetti di 

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arredamento si confondono, e ogni stanza è arredata con oggetti d’antiquariato, tappeti, quadri, specchi e 

candelieri. I prezzi non sono visibili e sopraggiunge dunque una confusione nel consumatore che si trova 

all’interno dello spazio tra ciò che è in vendita e ciò che non lo è. Secondo Patrick Hetzel (2003), che al caso 

Ralph Lauren ha dedicato uno studio, il negozio sta diventando uno spazio esperienziale sempre più 

simile al bazaar, dove si mischiano profumi e sapori. Non è più il prodotto a essere enfatizzato attraverso 

protesi come vetrine o piedistalli, è l’atto del consumo il vero oggetto venduto, l’esperienza. Ciò fa 

dell’esperienza del consumo un atto ludico, un’esplorazione divertita, e viene sollecitato un lavoro 

interpretativo dell’enunciatario, affinché decifri nei dettagli d’arredo cosa è in vendita e cosa non lo è. 

 

2.5 Cambiare politiche dei prezzi?

 

Il prezzo potrebbe sembrare a prima vista la componente più concreta e legata alla natura economica dello 

scambio costituito dalla compravendita di un prodotto. Eppure anche il prezzo ha un significato, è un 

valore semiotico prima ancora di essere un valore monetario. Una marca che pratichi prezzi di vendita alti 

si pone automaticamente su un certo livello e seleziona il suo target sulla base delle sue possibilità di 

spesa; il prezzo alto è una condizione necessaria (ma non sufficiente) per definire il prodotto di lusso, 

perché ne evidenzia la difficile accessibilità al livello delle condizioni materiali che sono necessarie per 

ottenerlo. Normalmente, per i prodotti “commodity” all’aumentare del prezzo, le vendite tendono a 

diminuire; per i prodotti ad alto valore aggiunto di differenziazione infatti, alla diminuzione del prezzo, le 

vendite non aumentano. È il paradosso di Veblen, secondo cui il prodotto di lusso non può essere venduto 

sotto una certa soglia di prezzo, a rischio di perdere il suo status. Il prezzo dei prodotti di lusso dipende in 

primo luogo dal valore della marca che li firma, e veicola un enorme plusvalore, poiché prescinde in gran 

parte dai costi di produzione e svolge una prevalente funzione simbolica. Il valore simbolico degli oggetti 

di lusso è la tassa di accesso al mondo degli “happy few”, i pochi intenditori che sono in grado di 

apprezzare e soprattutto di accedere al bene desiderato. Il prezzo è alto anche a causa  della tipologia dei 

prodotti, che possono essere considerati come beni‐rifugio il cui valore non diminuisce nel tempo, al 

contrario del denaro che perde di valore. Eloquenti a questo proposito sono le pubblicità a stampa ideate 

dai pubblicitari della marca di orologi Patek Philippe: la campagna, internazionale e quindi declinata in 

diverse lingue, era composta di un pacchetto di fotografie, rigorosamente in bianco e nero, che 

rappresentavano un padre e un figlio in un momento di quotidianità e intimità, al bar o sul divano di casa. 

Al polso del padre, immancabile, un orologio. In sovraimpressione la scritta: “Un Patek Philippe non si 

possiede mai completamente. Semplicemente si custodisce. E si tramanda” (nella versione inglese: “You 

never actually own a Patek Philippe. You merely look after it for the next generation”). Sotto il marchio, il 

pay‐off recita: “Ogni tradizione ha il suo inizio”. La marca vuole veicolare valori di tradizione e di 

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conservazione, di cura e custodia degli oggetti e dei figli, rinforza i valori della famiglia e dell’eredità 

materiale e spirituale. Inoltre non valorizza l’idea della proprietà ma quella del trasferimento (per quanto 

si riferisca a un concetto di proprietà “familiare” che, se esula da quella propriamente individuale ed 

edonistica, è comunque una forma di possesso altrettanto privata). Da notare che questo compito di tutela 

e conservazione del bene di famiglia è affidata solo alla parte maschile della famiglia. La campagna 

pubblicitaria Patek Philippe per signore le invita non a “iniziare una tradizione” ma a impegnarsi in “una 

lunga relazione d’amore”. L’oggetto amato non è il marito, ma l’orologio, cosa che costruisce il 

personaggio femminile come disimpegnato e interessato al consumo materiale degli oggetti, mentre il suo 

uomo costruisce i valori da tramandare alla prossima generazione. A parte le implicazioni sessiste di 

queste campagne pubblicitarie, resta il nocciolo comune che è il valore della durata e della intemporalità 

(seppure in oggetti, che il tempo lo cronometrano e lo misurano): il misuratore del tempo è un oggetto in 

temporale, come i veri beni di lusso, beni‐rifugio. Stesso tema è declinato dal celebre motto della De Beers: 

“Un diamante è per sempre”.   

Una marca che pratichi invece prezzi bassi non necessariamente veicola con sé l’idea della cattiva qualità 

dei suoi materiali e delle sue tecniche di produzione: può veicolare invece un senso di democratizzazione e 

di accessibilità. È la politica attuata da H&M o da Ikea, da Yves Rocher o da L’Oréal: sono marchi il cui 

progetto consiste nel rendere democratici e accessibili la moda, il design, la cura di sé. Un innalzamento 

del prezzo dei loro prodotti farebbe crollare tutto il loro progetto di marca. 

Esiste il fenomeno deleterio per la marca che è la “corsa al valore”, come riportato da Semprini. Questo 

fenomeno consiste nella tendenza da parte della marca ad aumentare progressivamente i prezzi, 

realizzando un prodotto premium o semplicemente spostando gradualmente verso l’alto i prezzi dei 

prodotti già lanciati sul mercato. Se l’aumento dei prezzi non è giustificato, in particolare in termini di 

qualità, la corsa al valore può provocare disaffezione da parte del cliente. 

Il fenomeno opposto è quello del “Trading down”, cioè la creazione da parte di un marchio di lusso di una 

linea più accessibile in termini di prezzo, in modo tale da fidelizzare il ceto medio, che non può 

permettersi il prodotto di altra gamma, ma ha tutto l’interesse di possedere un oggetto “firmato”. 

Il prezzo non è ovviamente un’entità semiotica totalmente slegata dai costi di produzione: l’abbassamento 

del prezzo oggi, soprattutto dopo le denuncie realizzate in libri inchiesta come No Logo, è associato quasi 

sempre a una delocalizzazione della produzione o alla cattiva qualità dei materiali usati. Il prezzo ha 

quindi spesso effetti di senso “etici”: abbassandolo si democratizzerà l’accesso ai beni, ma molto spesso si 

sfrutterà il lavoro all’estero e non si aiuteranno le economie nazionali in crisi. 

Aumenti e abbassamenti dei prezzi devono quindi essere sempre giustificati anche in termini etici: un 

innalzamento deve essere giustificato dal miglioramento della qualità del prodotto in termini di materiali e 

manodopera; un abbassamento deve essere sottratto al sospetto che l’azienda abbia prodotto o comperato 

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le materie prime dove costano di meno, o abbia utilizzato macchinari meno sofisticati e destinati alla 

produzione di massa. 

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3. Il discorso della tradizione e del localismo nel discorso di marca

3.1 La ricerca dell’autentico e l’apologia dell’artigiano

 

Di fronte alla sofisticazione raggiunta oggi dalle contraffazioni dei marchi e al logoramento del modello 

della multinazionale globale, si afferma sempre di più da parte del consumatore la ricerca dell’autentico. 

L’autenticità è diventata il valore chiave del mercato e le imprese che riusciranno a trasmettere e 

dimostrare di far proprio questo valore, risulteranno vincenti nel mercato. Questo è quanto sostengono 

programmaticamente Gilmore e Pine (2007) nel loro saggio diretto alle imprese Authenticity: what 

consumers really want. L’autenticità non è una qualità intrinseca del prodotto, ma un valore costruito 

socialmente attraverso il discorso dei media e dei consumatori stessi. Come la pubblicità “sostanziale” di 

cui parla Floch (1990), che vuole fare emergere l’essenzialità del prodotto, le sue qualità sostanziali, 

l’autenticità è una strategia enunciativa, esito della volontà di far credere al fruitore qualcosa che riguarda 

quell’oggetto o quella serie di oggetti. Il ritorno all’autentico, al genuino, all’artigianale, è un cliché oggi 

molto diffuso nel discorso di marca. Si difende la tradizione insieme all’innovazione, la storia insieme alla 

pianificazione del futuro. L’autenticità riguarda lo “stile” del marchio, più che la sua vera provenienza; il 

discorso costruito intorno al marchio piuttosto che la sua essenza. 

Nata nei tempi in cui la produzione in serie rivoluzionava il mercato sia al livello della produzione che a 

quello dei consumi, la marca era un segno di distinzione e di qualità rispetto alla concorrenza. Una marca 

che punti sul valore artigianale del suo prodotto, pezzo unico rispetto alla riproduzione in serie dei marchi 

concorrenti, ha ovviamente una marcia in più per ribadire la distinzione e la qualità enormemente 

superiore del suo prodotto e si situa in continuità con i valori circolanti attualmente: la ricerca del locale e 

dell’artigianale in tempi di crisi dell’industria, della produzione in serie e del consumo di massa. Ci 

troviamo in un terreno molto diverso da quello delle grandi corporation americane degli anni Cinquanta e 

Sessanta, percepite come distanti e astratte da un pubblico di compratori. Una piccola azienda legata a una 

figura di grande personalità parte oggi avvantaggiata sul terreno dell’immagine, perché ha un’anima e una 

storia profondamente radicata in un’identità. Storicizzazione, tradizione e mitizzazione del padre 

fondatore di un marchio vanno di pari passo. 

Il riferimento alla produzione materiale e all’origine artigianale della merce è recepito come valore di 

marca: un artefatto che sia prodotto artigianalmente e non nell’ambito di un sistema industriale 

spersonalizzante e omologante assume caratteristiche che lo pongono in un settore più alto di mercato: 

l’unicità del pezzo, il fatto che sia prodotto da un lavoratore alla cui identità si può risalire, sono qualità 

dell’opera che la rendono più appetibile rispetto alla merce industriale. La dimensione artigianale e il suo 

forte legame con il territorio di provenienza è considerata, da Chevalier e Mazzalovo, proprio uno dei 

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criteri per distinguere un oggetto di lusso da un prodotto qualunque. Secondo questi due autori, la visita 

alla fabbrica nel campo del lusso è bandita, mentre è possibile, per un cliente che ne faccia domanda, 

assistere alla lavorazione dei prototipi e dei pezzi singoli. Un marchio di lusso quindi non necessariamente 

abbandona la produzione industriale, ma fa circolare la leggenda della produzione artigianale dei suoi 

capi. Mentre Jameson vedeva l’evoluzione del mercato nella rimozione del legame tra autore, produttore e 

merce, e mentre Séguéla lanciava le sue campagne pubblicitarie fondate su mitologie estranee e arbitrarie 

rispetto all’atto della produzione, oggi è tornata in auge la trasparenza, la messa in scena dell’atto della 

produzione. L’esempio più comune citato dagli studiosi di storia della marca (Semprini 2006: 17) è quello 

della comunicazione Benetton sotto la direzione di Oliviero Toscani. La marca veniva interpretata allora 

come un attore protagonista nel dibattito sociale, che può prendere posizione e dominare l’opinione 

pubblica. Così la marca può parlare, attraverso la fotografia e gli slogan, di problemi sociali, dimenticando 

il suo legame con la produzione. All’epoca di Toscani, in effetti, la comunicazione Benetton non aveva più 

alcun legame con i mestieri dell’azienda e con l’artigianato, ed era caratterizzata da una decisa 

deterritorializzazione e dall’aderenza a valori universalistici (Fiorentino, 2006).  Adesso la tendenza 

sembra andare nel verso opposto: la comunicazione sempre più parla del prodotto invece di costruire 

mondi possibili, e valorizza la fattura artigianale, l’originalità e l’unicità dei pezzi. Che un bene sia 

“artigianale” o “industriale” lo decide quindi la comunicazione, oltre al processo di lavorazione 

effettivamente subito da quel bene. Il discorso di marca costruisce un’immagine più o meno vicina ai 

valori della produzione manuale, legata ai ritmi e ai climi della natura, impregnata di quel luogo e di quel 

momento in cui il bene è stato fabbricato. Il racconto può soffermarsi sul momento della produzione, o 

scegliere di creare scenari di possibile fruizione del bene.  Ci sono marchi che adottano entrambe le 

strategie: da una parte raccontano chi, dove e come ha inventato o realizzato quel prodotto, dall’altra 

inventano una sceneggiatura finzionale, dove si vede il contesto d’uso del bene, e il tipo di utilizzatore 

ideale. Distinguere questi due tipi di strategie comunicative “finzionale” o “documentaria” è solo una 

distinzione di genere: entrambe sono infatti frutto di una costruzione. Le strategie comunicative possono 

essere associate ai due tipi di discorsi di marca rilevati da Jean‐Noel Kapferer (2008): i marchi basati sulla 

Storia (quelli con pedigree, prevalentemente europei), e i marchi basati sul Racconto (quelli più 

contemporanei, prevalentemente americani, bisognosi di creare un universo di valori arbitrario). 

Di fronte alla crisi e alla perdita di fiducia nei confronti delle grandi multinazionali, la tendenza è quella di 

ribadire il discorso dell’autenticità sui marchi riconosciuti internazionalmente, e di valorizzare il luogo 

dove il bene è nato, insieme a quelle risorse umane e materiali presenti solo in quel territorio che ne hanno 

permesso la nascita e il successo. L’esaltazione del locale e della manifattura fa parte più che mai del 

discorso di marca attuale. Di fronte alla concorrenza sleale dei fabbricanti di merci contraffatte, la 

comunicazione di marca tende sempre più a dimostrare l’unicità, l’originalità e l’artigianalità dei suoi 

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prodotti, nonché la garanzia di qualità. Ad esempio, nell’ultima campagna Louis Vuitton per la stampa, 

una fotografia in bianco e nero ritrae un esperto artigiano impegnato con vite e martello a lavorare su un 

baule; il testo informativo ci dice che sta fissando a intervalli regolari i rivetti, per realizzare la caratteristica 

“chiusura a S” delle valigie Vuitton. “I gesti per creare un baule si ripetono immutati, oggi come ieri” 

afferma il testo informativo, finalizzato ad esaltare la tradizione di un marchio che ha subito, più di tutti gli 

altri, imitazioni e contraffazioni. Nessun altro, si sottintende, è in grado di far chiudere i bauli come noi, e 

il legame tra i nostri artigiani e i nostri prodotti è fisico, reale. Il valore del prodotto è nel lavoro; il 

plusvalore dell’immagine di marca, quello che fa esplodere i mercati, non ci interessa. Il fondamento 

dell’abilità artigianale è nella tradizione e nella storia, nella capacità degli artigiani di tramandarsi il loro 

sapere: la foto, in bainco e nero, potrebbe essere di oggi come di ieri, perché non c’è una degradazione del 

mestiere dovuta al tempo che passa: “i gesti si ripetono immutati”. La griffe che contende il primato in 

contraffazioni a Vuitton, Gucci, è uscita con un’analoga campagna pubblicitaria: una fotografia in bianco e 

nero ritrae degli operai intenti a lavorare su tessuti; un sottotitolo comunica che si tratta della casa di moda 

Gucci nella storica sede di via delle Caldaie a Firenze nel 1953. Il pay‐off recita “Forever now”. Anche in 

questo caso, si mette in evidenza la continuità e la tradizione del marchio, che si avvale della preparazione 

e della dedizione di artigiani competenti e preparati. Il testo informativo racconta una breve storia 

edificante, quella di Guccio Gucci che dal 1921 ha inseguito con passione la “perfezione assoluta” nel 

lavoro. “La sua dedizione ispira oggi la nostra tradizione. La bellezza di quel che lui ha intrapreso nutre da 

novant’anni intere generazioni di artigiani. Il suo desiderio di realizzare ciò che dura per sempre continua 

a stimolare ognuno di noi. Ricordando il passato mentre creiamo il futuro”. Il leitmotiv del binomio 

tradizione/innovazione trova espressione nella esaltazione dell’intemporalità, della permanenza e della 

resistenza al tempo dei prodotti (“Forever”, “ciò che dura per sempre”); l’innovazione è solo una 

dichiarazione d’intenti, che però viene espressa in chiave rétro dalla fotografia: la disposizione del 

personale – moderna icona del lavoro di squadra ‐ sotto i sempiterni soffitti affrescati di un palazzo 

fiorentino. Le strategie di Gucci di ricompattamento dell’azienda intorno all’origine del marchio non si 

esauriscono solo con questa campagna pubblicitaria: a Marzo 2010, Patrizio di Marco, presidente e 

amministratore delegato, ha organizzato la prima riunione mondiale dei circa cinquecento manager dei 

negozi Gucci nel mondo. Ha spiegato la sua iniziativa con queste parole: “Pochi numeri e sale riunioni ma 

tante visite sul campo: perché è fondamentale che chi deve trasmettere il valore del marchio al cliente, e 

ogni anno nei nostri negozi entrano 60 milioni di persone, veda i laboratori dove si tagliano le pelli. E 

sappia come lavora l’ufficio stile, dove nascono i prototipi delle nuove borse che poi piccole aziende 

artigiane produrranno rigorosamente a mano”. La filiera produttiva, dalla lavorazione delle pelli alla 

creazione dei prototipi fino alla produzione “rigorosamente a mano” dei prodotti finali, deve essere 

oggetto di conoscenza diretta da parte dei venditori, che solo così riusciranno a comunicare con coscienza 

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“l’italianità del prodotto”, anche fuori d’Italia. Anche qui, il rapporto dell’artigiano con la materia è 

l’aspetto che più bisogna valorizzare del prodotto, e chi gestisce le operazioni “immateriali” come l’atto di 

vendita, deve avere un rapporto diretto con il momento della materializzazione dell’oggetto.  

Non ci sarebbe bisogno di ribadire l’originalità e la filiazione in via diretta di un marchio se non ci fossero 

dei fratelli illegittimi e impostori che rivendicano l’eredità e il diritto d’esistenza. Così lo stabilizzarsi di 

marchi come Vuitton e Gucci su strategie comunicative che ne magnificano il passato e l’identità, dimostra 

la paura dei nostri tempi, attenti a stabilizzare legami e radici più che a lanciare nuovi valori su cui far 

ruotare l’immagine della marca. L’accento sulla durata e sulla tradizione mette in risalto anche l’aderenza 

dei marchi citati ai valori tipici del mondo del lusso, fondato sull’intemporalità e sul classico 

intramontabile. 

La tendenza a dar valore alla storia e alla “anzianità” della marca è presente in numerose campagne 

pubblicitarie. Belstaff, ad esempio, ricostruisce la storia del proprio marchio in forma di biografia, 

segnalando gli anni e gli eventi più importanti della propria storia: dall’invenzione di tessuti e la 

deposizione dei relativi brevetti, all’utilizzo delle giacche della collezione da parte di testimonial eccellenti, 

come Lawrence d’Arabia e Che Guevara. La headline recita: “Belstaff, since 1924 the style of heroes. 

Perché, generazione dopo generazione, non è cambiato nulla: chi porta dentro una grande storia, spesso la 

porta anche addosso”. Il discorso di marca mette intelligentemente in relazione la storia del marchio, 

corredata da curriculum vitae, a personaggi che hanno fatto la storia, testimonial eccellenti (e involontari) 

appartenenti a diverse fasi temporali. Il testimonial eccellente, come già visto, ha la forza di proiettare il 

pacchetto di valori con cui è costruito il suo personaggio sul marchio stesso: e così l’eroismo, la carica 

rivoluzionaria, l’avventura passano attraverso i personaggi storici alla marca, che però esplicita nel testo 

solo il valore della “storia”. Da anni le campagne pubblicitarie della Belstaff adottano come testimonial i 

corpi militari dello stato, dalla polizia alle guardie di finanza, le cui divise sono proprio di questa marca: 

ne emerge un immaginario di marca piuttosto conservatore, che va dall’esaltazione della tradizione alla 

celebrazione della difesa della nazione. Da non sottovalutare è il fatto che questa marca abbia iniziato a 

costruire il proprio pedigree storico e a comunicarlo quando è passata da un proprietario inglese a un 

trevigiano. È proprio quando il legame con il territorio di origine è entrato in crisi, che si è costruito un 

discorso storico della marca, per ribadire i valori tradizionali della marca nonostante il passaggio 

proprietario. Biografia e curriculum vitae sono comunque criteri di selezione che mirano a convincere un 

compratore sempre più critico riguardo all’onestà della marca, e disposto a spendere solo per un oggetto 

su cui valga la pena spendere. Se Gucci e Louis Vuitton sviluppano, in parallelo a un discorso di marca 

fondato su immagini tradizionali di moda, un discorso che ne mette in risalto la tradizione e l’originalità, 

altri marchi, come Dolce & Gabbana, continuano a costruire un’immagine di marca finzionale, spostando il 

problema dell’italianità sul versante della messa in scena senza rappresentare l’atto della produzione. 

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Lanciano così campagne pubblicitarie incentrate su una sceneggiatura tipica il cui genere rimanda ai film 

di gangster e di mafia, costruite su un’immagine steretotipata del sud‐Italia e della Sicilia in particolare. La 

riconoscibilità del marchio di quest’ultima casa di moda è basata sulla costruzione coerente di un’identità 

di marca piuttosto che sulla difesa della stessa. Dolce & Gabbana resiste alla crisi mantenendo la propria 

iconografia, senza dichiarazioni di intenti né pubblicazione del proprio curriculum vitae: del resto, è un 

marchio relativamente giovane, e i disegnatori che l’hanno fondato sono sempre sotto i riflettori dei media, 

nonché amici di star di Hollywood e regine del pop. Non hanno sicuramente ragione di mettere nelle 

comunicazioni pubblicitarie storie edificanti riguardo alla nascita del brand: bastano le storie tramandate 

per via orale sul difficile apprendistato dei due nel duro ambiente lavorativo milanese. 

 

3.2 Il Made in Italy come supermarca o metabrand

 

La denominazione di origine risponde dunque a una retorica dell’autenticità e dell’originalità. In questa 

sede non ci occuperemo di capire quanto sia aderente alla realtà l’apposizione dell’etichetta del “Made in”, 

e cioè se quel prodotto sia stato effettivamente realizzato in tutte le sue parti nel territorio dichiarato. 

Piuttosto ci interessa capire quale sia il discorso veicolato dal “made in country”, quali siano i contenuti 

resi pertinenti dalla denominazione d’origine, e in che modo una marca assuma dei valori aggiuntivi 

grazie alla sua dichiarazione di appartenenza territoriale. 

Il “Made in Italy” può essere infatti considerato come un “metabrand” (Barile, 2006) cioè un’entità 

complessa che raccoglie tutte le marche di uno specifico settore, e soprattutto di una specifica provenienza, 

o anche “una sorta di comune denominatore, di media ponderata, di risultante dalla comparazione 

positiva e negativa tra le diverse aziende che operano a partire da un dato territorio” (Barile, 2006: 150). 

Quali siano questi valori che fanno da comune denominatore, è tutto da vedere però: spesso il Made in 

Italy si esaurisce in uno stereotipo di “italianità” che fa riferimento quasi sempre al periodo 

Rinascimentale, alla creatività e alla versatilità dei principi dell’epoca che passavano con estrema scioltezza 

dalla politica all’arte, dall’economia alla poesia; insito in quest’idea di Rinascimento è anche quella di 

tolleranza e di apertura nei confronti degli stimoli esterni, qualità che trovavano sbocco in opere dallo stile 

composito, con venature esotiche. Contemporaneamente, si sta cercando di costruire una cultura del made 

in Italy che metta l’accento sulla sperimentazione e sull’innovazione vista in termini quasi avanguardistici, 

sul plusvalore del know‐how, locale ma metropolitano, della cultura italiana. Questo tipo di concezione 

del Made in Italy trova radici nei processi innovativi che si realizzarono in particolare negli anni Settanta, 

anni in cui si passò dall’artigianato all’industria, dalla sartoria altolocata al prêt‐à‐porter. È un passaggio 

epocale perfettamente rappresentato dallo “slittamento dell’asse del prêt‐à‐porter da Firenze a Milano” 

(Barile, ibidem: 140): secondo questo approccio, l’idea di Made in Italy si incarna meglio nell’industrial 

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design che nell’artigianato artistico. Coesistenza di artigianato e ricerca tecnologica non sono in 

contraddizione, dato che il riferimento continuo al genio rinascimentale porta in sé le caratteristiche della 

creatività e della tecnologia: ingegnere, artista, architetto sono ruoli che possono essere rivestiti dalla stessa 

persona, come insegna Leonardo, idealtipo dell’italiano alla cui eredità facciamo sempre riferimento nei 

trasferimenti all’estero. È stato Mario Boselli, presidente della Camera Nazionale della Moda italiana, a 

coniare gli slogan del Made in Italy che oggi dominano: il ʺbello e ben fattoʺ e “l’effetto Rinascimento”, 

caratterizzato da “una sapiente tradizione di lavoro, che sa unire la qualità estetica e immateriale legata 

alla nostra storia e la qualità dell’innovazione tecnica e materiale dei prodotti” (Boselli, 2008: 11). In altre 

occasioni, ha sintetizzato questo concetto nella formula della “creatività tecnologica”, alchimia tutta 

italiana tra “creatività e tecnologia”. Per “Effetto Rinascimento”, Boselli intende una presunta naturale 

propensione degli italiani, visto il loro pedigree storico artistico, ad avere senso estetico e abilità artigianali. 

Questo deriva dal fatto di “vivere in un Paese che vanta il più ricco patrimonio monumentale del mondo e 

costituisce una specie di scuola collettiva che sviluppa il senso per l’estetica e le cose belle” (in Magnaghi, 

2008). 

La storia, per il discorso del Made in Italy, non è soltanto il deposito da cui pescare delle figure che 

possono rappresentare il genio italiano. È essa stessa valore che rientra nel discorso di marca di tutte le 

aziende raggruppate nel macromarchio “Made in Italy”. Per Alessandra Rinaldi, ad esempio, il prodotto 

italiano non possiede soltanto delle “peculiarità intrinseche di creatività, trasgressione, ironia, 

intelligenza”, ma appartiene anche “a un sistema sostenuto da una realtà nascosta ma determinante: la 

storia. A differenza di qualsiasi altro prodotto, sia che si tratti di una borsetta o un tipo di vino o di 

formaggio, quello italiano, il cosiddetto made in italy, appare spesso straordinariamente sofisticato e 

creativo e, soprattutto, risulta essere il frutto del lavoro più o meno esplicito di azioni umane quotidiane 

lungo alcuni millenni e, quindi, di una storia davvero importante. Ma questo non basta: la stessa storia 

contribuisce in un secondo tempo a ʺblasonareʺ un prodotto anche al di là che esso sia storico o meno. Mi 

spiego meglio: la gran parte dei prodotti italiani sono ʺstoriciʺ in quanto sono il frutto di una lunga 

evoluzione, di una lunga messa a punto che si è svolta durante i millenni. Altri prodotti, apparentemente 

del tutto contemporanei, appartengono anchʹessi a un comune humus antico, dal quale nascono 

continuamente cose nuove. Comprando un prodotto italiano, uno straniero compra cosi sostanzialmente 

un pezzo di storia: il prodotto italiano è carico di storia perchè il nostro Paese è una importante sede della 

Storia” (Rinaldi, 2010). Il solo fatto che la merce provenga dall’Italia, che essa sia antica o meno, le dona un 

afflato di storia, dato che, anche se non è ammantata dell’aura dell’antichità e dalla patina del tempo, è 

comunque prodotto di uno spirito locale, di un modo di far le cose che gli italiani, solo perché italiani, 

hanno ereditato dai loro padri. 

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Il Made in Italy è quindi un concetto fumoso che veicola contenuti vaghi quali genio, creatività, storia, 

rivendica l’appartenenza a un humus territoriale e a un presunto genius loci. È un discorso di natura 

promozionale che non ci preoccupiamo di analizzare nella sua ontologia, ma nella sua coerenza e 

pertinenza. Associando diversi discorsi sul Made in Italy, emergono però facilmente delle contraddizioni. 

Come tipo di organizzazione economica, il discorso del Made in Italy fa spesso riferimento ai distretti, un 

modello di organizzazione industriale che fa in modo che in un certo territorio si sviluppi un tipo di 

produzione attraverso la creazione di una filiera: aziende appartenenti allo stesso settore merceologico si 

accordano per differenziare la produzione, e invece di specializzarsi o di entrare in concorrenza l’una con 

l’altra, uniscono le loro forze per realizzare il prodotto finale. È un tipo di “imprenditorialità diffusa” 

(Plechero e Rullani, 2007) tipico dell’Italia del Nord‐Est che valorizza la comunità d’imprenditori più che il 

singolo “uomo di genio”. Ecco che due valori entrano in contraddizione: la centralità dell’uomo d’estro e 

d’ingegno si contrappone al valore del lavoro di rete e di gruppo (più adatto, ad esempio, ai cliché sul 

Giappone). L’organizzazione per distretti ha avuto una grande crescita negli anni Ottanta e Novanta ed è 

stata studiata anche dagli economisti stranieri per le peculiarità che ne hanno decretato il successo, ma ha 

poi subito un arresto: alcune imprese hanno chiuso, altre hanno delocalizzato, per ridurre i costi aziendali 

attraverso l’utilizzo di manodopera a basso costo in altri paesi. Le aziende hanno però continuato a 

marchiare i loro prodotti come “Made in Italy”, mantenendo in loco le attività di design, progettazione del 

prodotto, controllo di qualità, comunicazione, anche quando la produzione materiale era stata 

delocalizzata. Una legge è allora intervenuta per definire questo terreno incerto: è la legge Reguzzoni‐

Versace‐Calearo (legge 166 del 2009) che prevede l’etichettatura di Made in Italy ai prodotti finiti per i 

quali le fasi di lavorazione «hanno avuto luogo prevalentemente nel territorio nazionale e, in particolare, 

se almeno due delle fasi di lavorazione per ciascun settore sono state eseguite nel territorio medesimo e se 

per le rimanenti fasi è verificabile la tracciabilità». I requisiti minimi perché un prodotto possa meritarsi 

l’attribuzione dell’etichetta sono: che sia prevalentemente realizzato in Italia, che i materiali siano di prima 

scelta, che lo stile e la progettazione siano italiani, che la lavorazione sia tradizionale e tipica. 

Il Made in Italy è diventato a questo punto un “marchio” non solo in termini metaforici come 

“metabrand”, minimo comun denominatore di alcuni prodotti realizzati in un certo territorio, ma anche in 

termini letterali. È nata infatti la certificazione di garanzia 100% Made in Italy con la quale ogni azienda 

può chiedere di essere etichettata per dimostrare che la propria produzione è avvenuta interamente in 

Italia. Lo stesso ente che gestisce l’assegnazione del marchio di garanzia, l’Istituto per la Tutela dei 

Prodotti Italiani, dichiara che l’azienda che si sottopone all’attribuzione del marchio “Made in Italy” sta 

svolgendo “un indispensabile atto di comunicazione”, dato che il marchio di tutela è “rappresentativo 

della qualità produttiva, della creatività e dello stile famoso ovunque nel mondo, apprezzato per 

lʹeleganza, scelto per le linee, desiderato per la bellezza e lʹoriginalità”. L’italiano lascia a desiderare, ma il 

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concetto è chiaro: il marchio comunica valori e qualità dell’oggetto che non sarebbero visibili se non si 

dicesse che quel prodotto è italiano; la qualità, la creatività, lo stile, l’eleganza, la bellezza e l’originalità. 

Di certo non è con la legge e con l’economia che si esce dalla retorica e dagli stereotipi: il sito che presenta i 

vantaggi della marchiatura 100% Made in Italy esordisce con queste parole: “Insieme alle parole ʺPizzaʺ e 

ʺPasta Asciuttaʺ il termine ʺMade in Italyʺ è il più famoso del mondo”, confondendo i livelli di pertinenza 

(“pizza” e “pasta” dovrebbero essere tipi della classe “Made in Italy”, per dirla aristotelicamente, e non 

essere messi allo stesso livello) e trascurando il fatto che Made in Italy non può essere la parola italiana più 

famosa del mondo, per ovvie ragioni linguistiche. 

Stesso errore di classificazione ha fatto Pambianco Strategie dʹimpresa, che ha basato sulla metodologia 

dell’intervista la rilevazione del successo del made in Italy. Chiedendo a consumatori stranieri perché 

comprassero prodotti Made in Italy, i ricercatori hanno scoperto che il fattore principale del successo del 

Made in Italy è lʹimmagine del Paese e dellʹazienda (al 24%) mentre seguono altri fattori come il design 

(22%), la qualità (21%), il servizio (18%) e infine il prezzo (15%). Emerge subito un effetto parola evidente: 

se chiedo a qualcuno “perché compri un prodotto “made in Italy”, la risposta più facile è la tautologia: 

“Perché amo l’Italia” e la sua immagine.  

Qualità, creatività, stile, eleganza, bellezza e originalità sono dunque i nuclei semantici che l’immagine paese 

Italia dovrebbe veicolare e proiettare sui suoi prodotti stessi. Esiste, ed è studiato in economia, il cosiddetto 

Country of Origin Effect, meccanismo attraverso cui i consumatori associano il prodotto al paese da cui 

proviene, applicando le qualità che riconoscono a quest’ultimo al prodotto stesso. Un precursore di questi 

studi è stato Nagashima (1970) che si concentrò in particolare sulla relazione tra l’immagine del Giappone 

e quella dei suoi prodotti. L’immagine Paese sarebbe per Nagashima «la rappresentazione, la reputazione, 

lo stereotipo che gli uomini d’affari e i consumatori associano ai prodotti di uno specifico paese». 

Attraverso una metodologia d’indagine che consiste nella rilevazione della frequenza con cui si associano 

le parole tra di loro, Aiello e Donvito (2009) sono arrivati a una configurazione di un cluster semantico 

intorno al concetto di made in Italy che include le parole qualità, eleganza, innovazione, tradizione, design 

e stile. In realtà alla parola Italia sono associate in primis delle categorie merceologiche, cioè il cibo e la 

moda: è su queste categorie che il discorso del paese d’origine fa più effetto, tanto che succede spessissimo 

che aziende straniere utilizzino nomi italiani o pseudo italiani per i loro marchi, di pasta, di caffè, di 

lingerie. 

La ricerca sociale si fonda per lo più sul focus group, e sulle associazioni di parole rilevate, tra l’altro, da 

studenti (un campione non del tutto rappresentativo della popolazione). Più utile è rilevare la presenza di 

certe parole nei testi in una forma di analisi semantica. Dal confronto tra il testo che abbiamo riportato 

presente nella homepage del marchio 100% Made in Italy e il rilevamento delle associazioni da parte di un 

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focus group vediamo che non c’è molta differenza. La cultura di un focus group è necessariamente 

risultante dell’esposizione ai testi.    

L’immagine del made in Italy si avvale dunque degli stereotipi su cui gli altri costruiscono le proprie 

aspettative, e questi altri sono spesso gli stranieri. Su questo substrato di qualità comunicate si situano i 

suoi prodotti. Un esempio lampante a questo proposito di coniugazione di immagine dell’Italia e 

immagine di marca è il padiglione italiano esposto alla fiera di Shanghai nel 2010: questo ha trasmesso 

un’immagine dell’Italia prima di tutto attraverso il suo contenitore architettonico, disegnato da Gianpaolo 

Imbrighi, che ha mostrato materialmente nuove tecniche produttive e nuovi materiali (in particolare il 

cemento trasparente fornito da Italcementi, fornitore ufficiale del padiglione). Ma l’immagine dell’Italia è 

stata costruita anche attraverso i contenuti, risultanti di una commistione tra arte e moda, design e storia. 

In alcune sale erano esposte opere appartenenti a tutti i periodi storici e a tutte le provincie italiane: da 

Canaletto al Barocco Siciliano, dai busti romani a De Chirico. Altre mostre erano ibridi storico‐

commerciali, ad esempio una mostra organizzata da Bulgari che, accanto agli ori presi in prestito al museo 

archeologico di Taranto, poneva i suoi pezzi storici e contemporanei, proponendosi così come ultimo 

anello di una catena evolutiva (puntando quindi sull’idea di tradizione e storicità). Una sala dedicata al 

“Making of” ha ospitato via via diverse aziende, che invece di mostrare i loro prodotti come in una vetrina, 

hanno allestito uno spazio di produzione: Zegna ha messo in scena una sartoria dove un maestro 

modellista svolgeva il suo lavoro utilizzando apparecchiature moderne; Ferragamo ha messo in piedi un 

calzaturificio dove un artigiano ritagliava e cuciva delle scarpe. Gli artigiani lavoravano in uno spazio 

separati dal pubblico tramite un recinto di plexiglas. È proprio la trasparenza dell’atto produttivo a essere 

esposta, e il fatto che questo sia mostrato in Cina, patria della contraffazione e delle imitazioni a basso 

costo, dimostra il senso di superiorità intrinseco della qualità italiana: noi sappiamo farlo e siamo stati i 

primi a farlo, la vostra concorrenza non ci spaventa, perché domani come oggi sapremo trovare il modo di 

innovarci. 

Trasparenza dunque, sicurezza delle proprie capacità, ma anche la supremazia dell’artigianato sulla 

grande industria. Questi sono i concetti che il made in Italy vuole esportare all’estero. Il discorso del Made 

in Italy quindi non solo fa riferimento alla qualità, alla bellezza e allo stile, ma anche a una certa etica della 

produzione, basata sulla piccola impresa e sulla riappropriazione del lavoro da parte dell’operaio e, pur 

introducendo l’innovazione tecnologica e la creatività, tende a valorizzare l’artigianalità, il legame con il 

territorio e la relazione con la storia. 

Un’implicazione del “country of origin effect” può dunque essere l’”effetto souvenir”: se comprando un 

prodotto italiano, si compra un pezzo di storia, il compratore non si sente un mero consumatore, ma un 

collezionista, un connaisseur, un viaggiatore curioso. Tra marketing del prodotto e marketing territoriale, 

si insinua un altro fenomeno che interessa al mercato: il turismo. 

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3.3 Il Made in Venice

 

Se il “made in Country” può essere considerato un metabrand che apparenta dei marchi facendo leva su 

caratteristiche comuni al territorio generale, il “made in Town” può mirare ad applicare a certi prodotti 

caratteristiche più specifiche e più tipiche del territorio locale. L’Italia è per tradizione storica un insieme di 

comuni, e continua a esserlo, nonostante i centocinquanta anni di vita unitaria. La stereotipizzazione 

agisce quindi anche in ambito cittadino: Firenze è la culla del Rinascimento, Roma la città del romance e 

delle rovine, Milano la patria del design e della moda. Ogni marchio italiano è fortemente territorializzato 

in base alla sua provenienza: i gigli di Firenze imperversano nei loghi di molti marchi toscani, la cupola di 

San Pietro ritorna nei loghi romani, il leone di San Marco e il ferro di prua della gondola ricorrono negli 

emblemi delle aziende veneziane. Per stereotipo Venezia è la città dei mercanti di stoffe e di gemme, dei 

palazzi sull’acqua, della nobiltà decaduta, del Carnevale. La forte connotazione del territorio ne influenza 

la produzione, a volte anche limitando l’innovatività delle idee e la libertà di progettazione. Come il Made 

in Italy è legato ai settori merceologici del tessile e del design, il Made in Venice si lega a settori 

merceologici particolari, quelli dei tessuti, del vetro e delle maschere. Non sono bastati i decenni di 

produzione industriale a Marghera né il nuovo centro scientifico e tecnologico aperto in ex area 

industriale: è l’artigianato locale ancora a caratterizzare l’immagine del territorio. La grande industria – 

come l’ENI, la Montedison o l’Alcoa che si sono installate a Marghera ‐ rappresenta il globale che si 

impossessa del locale e quindi fa perdere identità al territorio rendendolo simile al resto del mondo; al 

contrario l’artigianato è culla del know‐how locale che si diffonde al resto del mondo attraverso il 

fenomeno del turismo. Venezia concentra più di ogni altra città queste caratteristiche: da una parte 

localizza il globale con la concentrazione nel suo piccolo centro storico di tutti i megabrand e delle firme 

internazionali, da Mac Donald a Disney Store, dalla boutique di Gucci a quella di Louis Vuitton. Dall’altra 

parte globalizza il locale, essendo diventata essa stessa il modello per città‐copia come la Venezia di Las 

Vegas o di Macao, e avendo popolato le fantasie di massa con un immaginario fatto di maschere e di 

gondole al chiaro di luna. Anche i prodotti cosiddetti locali hanno iniziato a essere prodotti in altri paesi: 

accanto a un mercato artigianale che produce oggetti ad alto costo e ad alto indice di specializzazione, si 

vende comune paccottiglia che viene spacciata per locale; è il fenomeno diffuso della importazione di vetro 

e maschere dalla Cina o dall’Albania. Per quanto la qualità del vetro fabbricato in Cina sia inferiore a 

quella del vetro soffiato veneziano, nel tempo le differenze sono diminuite fino a rendere ingiustificabile 

una grande differenza di prezzo. Da un’inchiesta attuata per un nostro lavoro precedente (Migropolis, 

2009: 664‐665), è emerso che una murrina prodotta in Cina dall’apparenza identica a una murrina 

veneziana può costare più di cento volte meno di quest’ultima. Inoltre il know‐how dell’artigiano straniero 

si sta raffinando, anche grazie alla frequentazione delle scuole di fabbricazione del vetro da parte di 

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professionisti cinesi e l’esportazione della conoscenza dei maestri muranesi, pagati per insegnare le loro 

tecniche. Diventa allora totalmente irrazionale per un turista comprare l’oggetto made in Venice solo per il 

suo marchio di provenienza quando può acquistarne uno altrettanto bello a un prezzo ridotto. Questo 

genera però un paradosso: se il souvenir è un oggetto che ricorda il luogo che si è visitato, questo deve 

avere un legame esistenziale e fisico con il posto in cui è stato comprato. L’oggetto è un frammento 

simbolico del luogo e del viaggio e la sua autenticità e dichiarazione di origine sono più importanti della 

sua sostanza stessa. Se un souvenir è prodotto in un altro posto, perde parte del suo potere 

rappresentativo perché perde il legame esistenziale con il luogo. 

Se il souvenir tipico è un oggetto piccolo e poco costoso che rimanda al luogo, è vero che ogni tipo di 

produzione locale, anche destinata al settore del lusso, può diventare souvenir, mirando a un settore più 

benestante della popolazione dei turisti. Così come ci sono differenze nel tipo di soggiorno scelto a 

Venezia (dormire in un albergo di lusso in Laguna o in un ostello della terraferma?) così ci sono differenze 

nel tipo di spesa affrontata. Sempre da un’indagine realizzata per Migropolis (pp. 532‐533), emerge che 

non solo la spesa per il vitto di un turista è direttamente proporzionale alla spesa per il pernottamento, ma 

anche la spesa di beni trasportabili di chi pernotta in città è più che doppia rispetto a quella dei cosiddetti 

“escursionisti”. Bisogna puntare quindi al turista che ama (e che si può permettere di) vivere a Venezia 

anche la notte, per vendere i prodotti veneziani di lavorazione sofisticata. Bisogna inoltre cercare di 

resistere allo schiacciamento dell’offerta dovuto alla sopraffazione da parte della domanda. Se i 

consumatori richiedono in massa prezzi bassi per prodotti scadenti, è necessaria la collaborazione da parte 

di imprese e istituzioni, per continuare a offrire prodotti di alto livello. È il caso del vetro di Murano, i cui 

produttori si sono consorziati e hanno registrato il distretto del vetro artistico, per resistere alle imitazioni e 

per certificare l’originalità del loro prodotto. A questo scopo nel 1985 è nato Promovetro, un consorzio atto 

a proteggere e valorizzare il vetro originale di Murano contro ogni forma di contraffazione. Il marchio 

“Vetro Artistico di Murano” certifica l’appartenenza del produttore al circuito degli artigiani muranesi. 

Come nel caso del Made in Italy, il marchio di garanzia d’origine veicola, oltre all’informazione sul luogo 

di produzione, il valore della tradizione edella storia. Ci dice che la conoscenza artigianale nel campo della 

produzione del vetro si è tramandata da maestro ad allievo nel corso dei secoli in un unico luogo, isolato, 

caratterizzato da questa produzione. Il lampadario di Murano e la maschera di cartapesta sono parte 

dell’immagine di Venezia, così come i tessuti. 

 

3.4 Il settore tessile a Venezia

 

Aziende come Bevilacqua e Rubelli fondano la loro immagine sulla storia della famiglia fondatrice e sulla 

“venezianità”. Non a caso entrambe le ditte hanno nel loro logo il leone di Venezia. Rubelli ha 

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modernizzato da poco la sua immagine coordinata, legandola fortemente a Venezia forse proprio perché 

ha spostato la sua produzione a Como presso la Tessitura Zanchi di Cucciago. Ha mantenuto invece a 

Venezia il proprio quartier generale presso Palazzo Corner Spinelli, residenza rinascimentale sul Canal 

Grande. Intanto si è espansa con la acquisizione della società Dominque Kieffer e di Donghia e la 

concessione di licenze ad altre aziende come Armani Casa. La sua “venezianità” ha dovuto quindi 

necessariamente essere sottolineata dal logo e dalle sponsorizzazioni mirate: il “dono” dei tessuti per 

riarredare la Fenice dopo il distruttivo incendio del 1996 o l’arredamento delle camere del doge a Palazzo 

Ducale compensano lo spostamento della produzione dal Veneto alla Lombardia e l’acquisizione di marchi 

non veneti. 

Bevilacqua rappresenta nel suo stemma due leoni che si fronteggiano in un motivo simmetrico derivante 

da tessuti antichi. La sua “venezianità” è stata comunicata al grande pubblico grazie a un film dai toni 

romantico‐decadenti come “Anonimo Veneziano” (Regia di Enrico Maria Salerno, 1971). In una scena del 

film la protagonista femminile (Valeria, interpretata da Florinda Bolkan) si agghindava con velluti e 

broccati della manifattura mentre il suo ex marito (Enrico, impersonato da Tony Musante), guardandola 

compiaciuto, rifletteva sulla capacità degli abiti di fare allontanare dalle donne il pensiero della morte 

citando Proust: “Nella vita della maggior parte delle donne, tutto, anche il più grande dolore, fa capo alla 

messa in prova di un abito nuovo”. Valeria si copre di diversi drappi di seta color oro e arancione, verde e 

rosso. A un rallentamento della colonna sonora, la telecamera si sofferma su un primo piano: il 

personaggio smette di sorridere e osserva il proprio abito, di colore viola scuro, accarezzandolo. Poi si 

volta verso Enrico, seria, con il capo coperto da un velo bianco. È facile leggere una simbologia cromatica 

negli ultimi due capi indossati da Valeria: in un film che usa con maestria stereotipi e simbologie, i colori 

degli abiti ci parlano della vita e della morte. Nell’elegante gioco di cliché del film, Venezia è luogo di 

condensazione dei valori esistenziali fondamentali: la vita e la morte, l’amore e la separazione, la 

giovinezza e la decadenza, la bellezza del passato e il dolore del futuro. Il personaggio maschile ‐ 

veneziano doc, libertino e musicista, raffinato e scanzonato ‐ è manifestazione dei valori della sua città, e 

coinvolge poco a poco la ex moglie in questo vortice di gioia e dolore, trasferisce su di lei lo suo strazio 

delle sue opposizioni. Lei, che vive in terraferma e ha una vita stabile e poco avventurosa, cede a poco a 

poco alla fascinazione dell’uomo e della città; nei nostri termini, diventa anche lei manifestazione dei 

valori di marca della città Venezia. Il negozio di Bevilacqua è luogo che incornicia questo cedimento: è la 

bellezza dei tessuti a provocare il momento di agnizione della protagonista femminile, che si rende conto 

della fugacità della felicità e della bellezza e si ricongiunge, con uno sguardo, all’ex marito. Il tessuto 

prezioso è oggetto che media tra i valori della città e quelli dell’uomo, la bellezza, l’amore e la morte. 

L’analogia tra l’uomo e la città è esplicitata in un altro dialogo del film: “sto morendo” dice lui a lei, sul 

ponte del redentore alla Giudecca; “tutti stiamo morendo, anche questa città!” urla lei. Venezia proietta sui 

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suoi abitanti (che diventano personaggi di un set come quello di Anonimo veneziano) i suoi valori 

fondamentali. L’azienda storica veneziana si carica a sua volta di questi valori, ne incarna il lusso e la 

decadenza, diventa rappresentante di uno stile di vita fondato sull’eccezionalità del quotidiano e su una 

forma di vita estetizzante e orientata alla bellezza. Il tessuto come motivo ricorrente e caratterizzante una 

storia d’amore romantica e drammatica, che abbiamo visto incarnato nei tessuti che la protagonista 

femminile di Anonimo Veneziano indossa di fronte allo sguardo dell’uomo vicino alla morte, si ritrova in 

Proust, che non a caso il protagonista del film cita. I mantelli che Albertine indossa, più volte citati nei vari 

libri che formano la Recherche, sono di Fortuny, non di Bevilacqua. Questo passo in particolare dimostra 

come la scena del film sia una traduzione del libro, che di Venezia è impregnato: “In attesa che le vesti da 

noi scelte fossero pronte, me ne facevo a volte prestare alcune, e talora soltanto delle stoffe, che facevo 

indossare ad Albertine o drappeggiavo su di lei, ed ella camminava su e giù per la mia camera con la 

maestà di una dogaressa e di una indossatrice”.   

Varrebbe la pena analizzare le varie forme testuali in cui Venezia diventa un nucleo denso di significati 

che proietta sui personaggi e sui prodotti. Innumerevoli sono le pubblicità ambientate in questa città, così 

come i film che traggono il loro valore aggiunto dall’ambientazione veneziana. 

Forte anche di questa pubblicità che la rendeva marchio rappresentativo della Venezia lussuosa, lasciva e 

decadente, Bevilacqua ha continuato ad avere successo fino a oggi. L’apoteosi della comunicazione della 

venezianità si è avuta con la partecipazione al Padiglione Venezia dell’expo di Shanghai. L’expo non è 

stata soltanto una vetrina per il made in Italy che ha dovuto oggettivarsi a uno sguardo cinese, ma anche 

per alcune città italiane che sono state scelte come rappresentanti della Urban Best Practices Area (Ubpa): 

Venezia, Bologna e Milano. Bevilacqua in particolare ha allestito lo spazio del padiglione Venezia con i 

suoi tessuti e presentato una nuova collezione di velluti Art Déco tessuti a mano su antichi telai del 

Settecento. Adesso l’azienda è stata scelta con altre nove venete come rappresentante delle imprese 

storiche che hanno più di centocinquant’anni in occasione dell’anniversario dell’unità d’Italia. 

Torniamo ai loghi, e a Shanghai. Il logo di Shanghai‐Venezia 2010 contiene anch’esso il Leone ed ha 

analogie formali con il logo di Bevilacqua: si tratta di un leone e di un dragone rappresentati di profilo che 

si fronteggiano. Il colore è bianco su fondo rosso, e ricorda per questo il logo della Biennale di Venezia. Il 

rosso è anche il fondo della bandiera cinese ed è quindi un omaggio all’ospite. 

Il marchio Fortuny non ha elementi tipicamente veneziani, e utilizza il linguaggio verbale per riferirsi a 

Venezia (il marchio inciso sulla porta dello showroom di New York è “Mariano Fortuny – Venice”). 

Eppure è un marchio che rappresenta Venezia, essendo fondato, come del resto Rubelli e gli altri tessitori 

storici, sul felice e fecondo incontro di Venezia con le terre d’Oriente e l’Europa cosmopolita. Un’altra 

citazione proustiana è d’obbligo, per far capire come circolasse nella cultura dell’Ottocento un’immagine 

di marca fortemente improntata sulla venezianità: “Dicono che un artista di Venezia, Fortuny, abbia 

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ritrovato il segreto della loro fabbricazione e che, tra qualche anno, le dame potranno passeggiare, e 

soprattutto stare a casa loro, in broccati splendidi come quelli che Venezia ornava, per le sue patrizie, con i 

disegni dell’oriente” (Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore). Come dice Giandomenico Romanelli, “è 

nell’identificazione fatta dalla cultura europea tra i prodotti di Fortuny e l’immagine di Venezia, che 

risiedono le ragioni e le spiegazioni più convincenti per decifrare il fenomeno Fortuny” (Romanelli, 2004, 

p. 99). I marchi di tessuti veneziani nascono quindi come fortemente legati a un territorio, ma sono parte di 

un discorso internazionale: era tipico dei marchi di lusso dell’epoca circolare tra le dame dell’alta società 

superando i confini nazionali. Il “glocalismo” era ben presente nelle aristocrazie già dal Settecento, con la 

diffusione nelle corti delle lingue straniere (in particolare il francese) e la circolazione delle merci preziose. 

Un marchio come quello di Fortuny ha non solo il vantaggio ma anche la responsabilità di rappresentare 

Venezia, e con essa  non solo il valore della qualità e della raffinatezza, il rapporto con l’Oriente e la 

globalizzazione felice, ma anche l’invecchiamento, la caduta negli stereotipi e nel turismo di masse. Un 

universo di senso recepito come sull’orlo di una sparizione, rischia di cadere in un’aura di passatismo e 

decadenza. Per questo è così importante puntare all’innovazione e alla ricerca, sia dal punto di vista del 

prodotto che dell’immagine: bisogna resistere al rischio di una continua riproduzione dell’identico e a una 

relazione soffocante con il passato.  

 

3.5 Il lusso prima della Moda

 

Abbiamo già visto come il legame con il territorio di provenienza e l’artigianalità possano essere proprietà 

fondamentali del bene di lusso, insieme alla sua durata, alla stabilità e alla perennità. Secondo Dubois e 

Laurent (1995), un prodotto per essere di lusso non solo deve avere la garanzia di un’alta qualità conferita 

dalle materie prime o dal processo di lavorazione e un prezzo elevato rispetto a prodotti che svolgono la 

stessa funzione; deve anche essere raro, contrapponendosi così alla distribuzione massificata; deve avere 

un rapporto privilegiato con la tradizione, con il passato e con la storia, ed essere più inutile che 

funzionale. 

Oggi come mai sta tornando in auge la fascinazione dell’oggetto unico e irripetibile, a fronte di un mercato 

industriale sempre più in crisi d’immagine. L’attenzione ai prodotti bio e a chilometro zero ha come 

parallelo sul lato “alto” della fruizione l’acquisizione sempre più diffusa di prodotti locali, storici e 

rigorosamente fatti a mano. È l’altra faccia della medaglia del low‐cost e delle offerte 3x2 da supermercato. 

Di fronte alla crescente industrializzazione e alla nascita della società dei consumi, il pensiero critico degli 

anni Cinquanta rilevava una distinzione fondamentale tra il fenomeno del Lusso e quello della Moda. Il 

lusso è il passato: era la sartoria destinata alle élites, che superava le barriere regionali e nazionali e vestiva 

le signore “alla francese”, e i signori “all’inglese” (Gramsci, 1975, vol. I); dopo lo sviluppo industriale, non 

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ci fu più lusso ma moda, sempre a dire di Antonio Gramsci. Nel frattempo Coco Chanel bandiva il lusso 

antiquato, e invitava le signore a vestirsi “come cameriere” e a praticare l’arte dell’anonimato (Colaiacomo, 

2006: 22). Secondo queste premesse, quindi, parlare di “industria del lusso” è una contraddizione in 

termini. Non esiste lusso che sia industriale, il lusso è confinato al di fuori dell’industria, nei mestieri, 

nell’artigianato e nel controllo della produzione da parte di un’unica personalità. Nell’abbigliamento, il 

passaggio dal lusso alla moda è segnalato dall’introduzione delle taglie al posto del “fatto su misura”. 

C’è quindi, secondo questo approccio, una relazione molto stretta da una parte tra lusso e artigianato, 

dall’altra tra moda e industria. Il lusso avrebbe una relazione con il potere e con il privilegio; la moda con 

la standardizzazione del pezzo unico, la democratizzazione e il consumo di massa. 

I grandi marchi del lusso, colossi multinazionali e basati su una produzione industriale, vogliono a tutti i 

costi  continuare a  forgiarsi di questo nome, anche  se, per  ragioni di mercato, hanno abbassato  i propri 

standard qualitativi e hanno mirato anche ai settori più popolari della società con la creazione di linee più 

accessibili di prodotti. Il mercato del lusso basa i propri introiti su questo tipo di strategia. Esistono quindi 

diversi tipi di  lusso. Danielle Allérès (1990) ha proposto una tipologia che distingue  il lusso  inaccessibile 

dal  lusso accessibile:  il primo sarebbe caratterizzato dalla creazione di modelli esclusivi,  fatti a mano  in 

unità  singole  e  irripetibili.  È  il mondo  della Haute Couture,  del  “su misura”,  che  si  rivolge  a  un’élite 

economica, sociale e culturale. Il lusso diventa accessibile quando i modelli vengono riprodotti e diffusi su 

scala più  larga.  Il  fenomeno del  trickle down  funziona  così:  il modello unico diventa pret‐à‐porter  e  le 

classi sociali agiscono per mimetismo delle classi più abbienti. È interessante notare che il 98% del business 

del  lusso corrisponde al  lusso accessibile.  Il  lusso emergente, o accessibile, rende  l’oggetto del desiderio, 

considerato prima eccezionale, potenzialmente introducibile nel proprio quotidiano. Si tratta del fenomeno 

del “Trading up” del consumatore di fascia intermedia. Il fenomeno del trading up motiva, in parallelo, il 

ritorno  al  “su  misura”  per  il  lusso  “vero”  che  vuole  distinguersi  da  questi  fenomeni  sociali  di 

appropriazione di settori inizialmente destinati alle classi più abbienti. 

Jean‐Noel Kapferer (2008) non distingue tra lusso accessibile e lusso inaccessibile: piuttosto individua due 

modelli fondati su ragioni geografiche‐culturali. Le marche europee come Dior, Chanel e Givenchy sono 

radicate in una tradizione legata alla figura di un artigiano, e pongono l’enfasi sul prodotto e sulla sua 

qualità come elementi di distinzione dalle altre marche. Le marche americane come Ralph Lauren, Calvin 

Klein, DKNY si concentrano invece sulla creazione di un’atmosfera relativa alla loro comunicazione e ai 

punti di distribuzione. Esistono quindi due modelli: uno basato sulla storia (la history) della marca e sul 

prodotto; l’altro sul racconto (la story) della marca e sulla sua distribuzione (Kapferer, 2008: 97). 

Il primo modello, che per semplificare chiameremo d’ora in poi “modello europeo”, può essere 

visualizzato in una piramide che ha al suo vertice la griffe – la firma del creatore incisa su un’opera unica, 

il che spiega perché quello che fa più paura a questo tipo di marca sono le copie e le contraffazioni. Al 

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secondo livello, questo modello di marca produce pochi esemplari in un piccolo laboratorio, basato sulla 

manifattura, che è sinonimo del “fatto bene”. Il terzo livello è quello della produzione di massa di prestigio 

realizzata attraverso l’estensione di marca o di linea (ad esempio la linea di cosmetici di YSL). Kapferer la 

chiama “mass prestige” e attribuisce a questo livello il massimo del ricavo di una grande marca. 

Il secondo modello, il “modello americano” invece costruisce il suo successo su una storia, messa in scena 

nei luoghi di distribuzione del marchio e mira a produrre un immaginario. C’è un legame con il Country of 

Origin effect di cui abbiamo parlato precedentemente: essendo gli Stati Uniti un paese giovane, formato 

interamente da immigrati, esso rappresenta la libertà e il sogno, e riesce a trasmettere questi valori 

attraverso i suoi brand, non legati a un passato “nobiliare” come quelli europei. Quando la Cina 

trasmetterà valori positivi di innovazione e di ricerca, probabilmente leggere “Made in PRC” sui nostri 

capi non sarà più motivo di vergogna. 

All’interno del “modello europeo” esistono a nostro avviso diversi tipi di marchi: quelli che investono tutti 

e tre i livelli della piramide e quelli che restano solo al vertice della piramide. Incrociando dunque le due 

teorie di Kapferer e Allères, c’è un lusso reso accessibile all’interno del modello europeo, e un lusso che 

invece resta inaccessibile. Come visto precedentemente, i marchi storici che hanno investito 

nell’immaginario “all’americana” negli anni ottanta, stanno oggi tornando a un tipo di comunicazione che 

valorizza il prodotto e la manifattura. Il lusso è caratterizzato dal fattore tempo e dal fattore “patrimonio 

culturale”: c’è un legame molto forte quindi con la storia e con la cultura dell’area in cui un marchio si 

impone. Il museo d’azienda e la cultura d’impresa quindi mettono in mostra i propri archivi e i propri 

prodotti storici per parlare di sé, ma soprattutto per costruire intorno a un marchio un pedigree che fonda 

la sua credibilità sulla storia.  Più il tempo passa, più la marca si ammanta di valore. Il tempo lavora nel 

lusso come una patina, è una sedimentazione che non diventa mai démodé. 

 

3.6 Beni di lusso e consumi culturali

 

Se la storia e il legame con la tradizione sono caratteristiche fondamentali del bene di lusso, abbiamo anche 

citato, all’inizio di questo paragrafo il valore della rarità e della difficile reperibilità. Il mercato del lusso si 

differenzia infatti dal mercato generico per alcuni “paradossi” (Dubois, 2003; Tartaglia e Marinozzi, 2006): 

prima di tutto i suoi prodotti non sono soggetti alla logica della domanda e dell’offerta: per la maggior 

parte dei beni tradizionali la variazione del prezzo corrisponde a una variazione nella quantità del bene 

domandato, nel senso che a un abbassamento del prezzo corrisponde un aumento della domanda; per i 

prodotti di lusso invece la domanda è rigida: qualunque sia il prezzo, la quantità domandata non cambia. 

Può anzi verificarsi il fenomeno opposto: se il prezzo diminuisce, può esserci una disaffezione da parte del 

pubblico, che comincia a percepire il bene di lusso come un bene qualsiasi e quindi perde interesse. Si 

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tratta del cosiddetto “effetto snob” che riguarda i beni di status: la domanda del consumatore per un 

determinato bene cala per il fatto che quello stesso bene viene acquistato da altri consumatori. Alla 

diminuzione del prezzo non corrisponde un aumento dei consumatori perché i nuovi consumatori hanno 

sostituito i vecchi, che di fronte alla democratizzazione dei consumi indietreggiano. A questo si aggiunge 

l’effetto Veblen, secondo cui il consumatore considera il prezzo alto come una garanzia di esclusività del 

prodotto: paradossalmente quindi, a un aumento del prezzo, aumentano i consumatori, convinti che quel 

bene aumenti il loro prestigio, che sia garanzia di qualità e di unicità (su effetto snob ed effetto Veblen cfr 

Leibenstein 1950). Del resto Veblen è il teorico che ha inventato la regola del “consumo vistoso” secondo 

cui l’abito è il primo indicatore della propria posizione finanziaria, e quind molto bisogna investire in 

questo campo per dimostrare la propria rendita. 

Il consumo d’arte segue le stesse leggi del bene di lusso: non solo l’acquisizione di opere d’arte, ma anche 

la frequentazione di musei e gallerie, è caratterizzata da una certa rigidità della domanda rispetto al 

prezzo. Per quanto riguarda sia l’offerta culturale che il bene di lusso, tra l’altro, è l’offerta a creare la 

domanda e non viceversa. Il prodotto sembra più un’emanazione del maestro e della sua creatività che una 

risposta alle attese del mercato. Almeno, così dovrebbe essere. Nella maggior parte dei casi infatti anche il 

mercato dell’arte si basa sulla domanda dei consumatori (ad esempio la pittura ha molti più utenti delle 

altre forme artistiche, perché si presta a un uso domestico) e inoltre molti artisti hanno continuato a 

riproporre un proprio stile, se non proprio gli stessi soggetti, perché entrati in un’ottica del brand per cui 

era la riconoscibilità dei propri stilemi a farli vendere, più che la ricerca e l’innovazione. Lo stesso 

problema si pone per alcune mostre, come quelle di Linea d’ombra, che rispondono ai gusti del pubblico, 

interessato al momento più dall’impressionismo e dall’espressionismo nordico che alle sperimentazioni 

contemporanee. Anche nel caso del consumo culturale esiste quindi una distinzione analoga a quella 

esistente tra lusso e moda: se le élites culturali frequentano gallerie che espongono artisti di difficile 

comprensione, o semplicemente ancora poco conosciuti, la gran parte dei consumatori ha appena imparato 

ad accettare quello che era considerato scandaloso alla fine dell’ottocento. Questo provoca un distacco da 

parte delle suddette élites, che hanno ormai difficoltà a provare piacere estetico di fronte 

all’impressionismo o a Munch e scelgono di visitare un altro tipo di mostre. 

 Le élites cercano l’artista sconosciuto e vogliono scovarlo, avere l’impressione della scoperta. Nel mercato 

del lusso, vige il paradosso della distribuzione: un’eccessiva diffusione nuoce all’immagine dei prodotti e 

dei servizi di lusso; se un marchio è troppo diffuso e conosciuto, perde valore. Se i suoi beni si possono 

acquistare in troppi punti vendita, si perde il gusto della conquista e della conoscenza personale. La rarità 

e la scarsezza sono valori. Allo stesso modo, funziona il paradosso della comunicazione: troppa pubblicità 

nuoce; la ridondanza e la pervasività del marchio sfiniscono il consumatore raffinato che preferisce scovare 

al di fuori dei riflettori e delle vie più battute i propri oggetti. “Anche a causa della proliferazione delle 

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marche e dal bombardamento della comunicazione su diversi media, la scelta ricade su un tipo di 

marketing minimalista”. In futuro “una marca di prestigio dovrà prendere le vie della discrezione, potrà 

comunicare soltanto su richiesta dei suoi target, dovrà parlare a voce bassa, usare un discorso e strumenti 

di comunicazione non invasivi, prendere a prestito temi e argomenti pertinenti e moderati. È ampiamente 

possibile che la capacità di trovare un equilibrio fra spinta naturale alla logorrea comunicazionale  e 

necessario ritegno, tanto tecnico che di contenuti, sia una posta in gioco di primaria importanza per quanto 

riguarda la legittimità delle marche in un contesto sociale generale caratterizzato da un inquinamento 

mediale accresciuto. Soltanto le marche in grado di capire e praticare questo understatement comunicativo 

potranno trarne i dividendi in termini di prestigio e legittimità” (Semprini, 2006: 30). Meno si comunica e 

più ci si distingue. 

Difficile però restare fedeli a questa volontà di ritrarsi e di mantenere il silenzio e la discrezione: Hermès 

aveva resistito fino all’anno scorso alla tentazione di espandere i propri spazi di vendita parigini, e aveva 

mantenuto la sua piccola boutique in rue Faubourg Saint‐Honoré, limitando la distribuzione parigina a 

questo discreto negozio. Era una politica dell’immagine scelta anche in contrasto alla frenesia pubblicitaria 

delle aziende raccolte sotto la Lvmh di Bernard Arnault, di cui Hermès ha sempre rifiutato le mire 

espansionistiche. Le strategie sono però cambiate e, alla fine del 2010, ha aperto uno scenografico concept 

store in rue de Sèvres, nei luoghi che prima erano adibiti a piscina dell’Hotel Lutétia. 

Un marchio che ha scelto la riservatezza, la scarsa visibilità e la rarefazione dell’offerta è sicuramente 

Comme des Garçons, il cui negozio parigino è un luogo di difficile accesso. Si trova anch’esso in Faubourg 

Saint‐Honoré, a due passi dall’Eliseo, ma al numero civico che corrisponde al suo indirizzo non c’è 

un’entrata. Bisogna invece entrare in un cortile, e da questo cortile accedere a un altro ancora. Un lato di 

questo secondo cortile è caratterizzato da un muro di plexiglass rosso: se ci si avvicina, questa si apre 

automaticamente con un meccanismo scorrevole. Possiamo a questo punto finalmente entrare nel negozio 

di Comme des Garçons. Le forme d’accesso sono antitetiche alle tradizionali vetrine, che espongono lo spazio 

interno all’avventore che si trova all’esterno del negozio, con un invito esplicito a entrare. La presenza di 

spazi liminali che allontanano dalla porta di accesso e di ostacoli veri e propri, come la porta opaca rossa, 

manifesta una presa di distanza nei confronti del visitatore, che deve essere davvero motivato per entrare 

nello spazio espositivo. La gestione dello spazio è simile a quella della famosa galleria parigina Marian 

Goodman, anch’essa ritirata rispetto all’ingresso su strada, con un’entrata all’interno di una seconda corte; 

in più la parte più ampia della galleria adibita all’esposizione si trova in un piano sotterraneo; a differenza 

della boutique giapponese, però, si entra in galleria attraverso una porta a vetri. 

Ecco dunque un caso in cui la rarità e la difficoltà di accesso al bene viene manifestata attraverso una 

gestione dello spazio che declina in vari modi le forme del distanziamento. L’architettura del punto 

vendita parigino risponde ai valori profondi della marca, come la riservatezza e il minimalismo, espresse 

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anche dalla quasi assenza di comunicazione nei media tradizionali. Si predilige il passaparola in una forma 

al limite della cospirazione. Comme des Garçons non si basa infatti solo su punti vendita introvabili e di 

difficile accesso, ma anche sui guerrilla stores, negozi temporanei la cui apertura è pubblicizzata attraverso 

modalità virali in rete. Ultimamente ha ideato, sempre a Parigi, la formula dei Pocket Store, forme di Corner 

Shop che vendono una linea (Play) più accessibile. Anche un marchio di lusso estremo come Comme des 

Garçons sta quindi infine adottando forme di democratizzazione del marchio, creando la sua linea di 

prodotti di fascia più accessibile e diffondendo i suoi punti vendita. Non dimentichiamo che Hermès, 

prima di aprire il suo concept store in centro a Parigi, ha inventato una linea di prodotti più accessibile, dal 

nome, neanche a dirlo, di “Maison de Luxe”. 

Restare completamente isolati in una torre d’avorio inaccessibile non conviene più a nessun marchio di 

lusso, neanche a quello più snob. 

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Parte II - Caso Studio: Tessuti Artistici Fortuny SPA

 

Il principio base del posizionamento di una marca sul mercato è che l’identità si costruisce nella differenza. 

La marca deve assumere una posizione rispetto ai suoi concorrenti, e quindi affermare le sue proprietà 

negando quelle degli altri: è il principio differenziale della costruzione dell’identità. Il primo problema è 

quindi capire chi sia il destinatario ideale dei propri prodotti – chi è l’altro che può sceglierci; il secondo 

problema è capire chi siano i nostri concorrenti – chi è l’altro che può essere scelto in nostra vece. 

La Tessuti Artistici SPA sta cercando di superare due categorie di problemi principalmente, una ha a che 

fare con la costruzione dell’offerta; l’altra con l’emergere della concorrenza. 

L’offerta di Fortuny è tradizionalmente monoprodotto e necessita di diversificazione; lamenta una certa 

ripetitività nella produzione e una mancanza d’innovazione dovuta a un pedigree tanto nobile e 

affascinante quanto limitante nella creazione di nuovi items; il suo target è fatto di intermediatori, gli 

arredatori, che danno un’impronta personale e non controllabile al design finale del prodotto Fortuny. 

Intanto afferma la sua presenza sul mercato un’altra marca che firma con il nome Fortuny ed è legalmente 

riconosciuta, la Venetia Studium (il cui marchio registrato è Fortuny SAS). 

Considerando allora il possibile posizionamento sul mercato di Fortuny, dobbiamo scegliere due ordini di 

concorrenti: da una parte le aziende che appartengono allo stesso settore merceologico, cioè quelle che si 

occupano della produzione e del commercio dei tessuti. Dall’altro, le aziende che condividono parte dei 

valori profondi specifici della marca Fortuny, ma scelgono un diverso sistema di manifestazioni. Il 

“racconto” di marca di Venetia Studium è fondato sulla stessa mitologia, quella che fa capo a Mariano 

Fortuny, alla sua eclettica cultura e produzione alla sua figura di artista inventore, condensabile nell’idea 

del genio rinascimentale. Le manifestazioni della marca sono espressione di questa narrazione ma anche di 

un altro tipo di valorizzazione che tende alla diffusione e all’accessibilità dei prodotti: Venetia Studium si 

differenzia fortemente da Fortuny per la tipologia di prodotti proposta, il modo di esporli nei punti 

vendita, la distribuzione sul territorio dei punti vendita, la comunicazione, il target, le politiche di prezzo 

attuate. 

Dalle visure storiche delle due aziende depositate presso la Camera di Commercio di Venezia, risulta che 

entrambe svolgono produzione artigianale di prodotti d’arredo e d’illuminazione, ed entrambe detengono 

il marchio “Fortuny”. Fino al 2007 il nome dell’azienda che si cela dietro l’insegna dei negozi “Venetia 

Studium” era Delphos SAS, e la sua ragione sociale prevedeva la “produzione artigianale di manufatti in 

seta o altri tessuti plissettati e non, della confezione di articoli d’arredo e di illuminazione in materiali vari. 

La società, inoltre potrà eseguire lavorazioni sartoriali per la produzione di articoli artigianali di 

abbigliamento e relativi accessori”. In seguito la denominazione assunta è stata quella di Fortuny. il 

marchio però è stato abbandonato per una causa intentata dal museo Fortuny, detentore unico del marchio 

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storico, quello con la U appuntita come nella tradizione epigrafica. L’oggetto sociale di Fortuny SPA è 

invece “la produzione in genere di tessuti stampati nonché la stampa meccanica e fotografica di carta da 

parati; la produzione di prodotti e apparecchi per l’illuminazione”. Entrambe le aziende possono svolgere 

commercio sia al minuto che all’ingrosso. Le due aziende sembrano occupare quindi due settori diversi 

delle molteplici attività svolte da Mariano Fortuny: la prima produce i tessuti plissettati, quelli che hanno 

dato origine al famoso abito Delphos e agli scialli Knossos, e utilizza le pieghe anche per nuove produzioni, 

cioè accessori come sciarpe e borsette; la seconda ha invece l’esclusiva per la stampa dei tessuti e della 

carta da parati. Resta la sovrapposizione sui prodotti per l’illuminazione, su cui la legislazione non è 

chiara. 

La loro uguale denominazione e la chiamata in causa della stessa narrazione mitica (la vita e le opere di 

Mariano Fortuny) genera un problema di confusione identitaria, per cui le azioni e i comportamenti di 

una azienda finiscono per condizionare e modificare la percezione dell’altra. Questo può avere effetti 

positivi in termini quantitativi: se basassimo la nostra ricerca sulla rilevazione nei focus group di una 

brand awareness (vedi par. 1.2), riscontreremmo sicuramente un numero di reazioni al nome Fortuny 

piuttosto alto. Il problema è capire a cosa si associa il nome Fortuny, a quale tipologia di prodotto e a 

quale istituzione; la conoscenza diffusa del marchio Fortuny ha le forme di un’idea vaga e imprecisa, 

che ha poco a che fare con i prodotti dell’azienda della Giudecca. Per la maggior parte dei veneziani la 

fabbrica è chiusa, e l’unica attività legata al nome Fortuny è il museo. Tra i due marchi legati al nome 

Fortuny, Venetia Studium gode sicuramente di una popolarità maggiore, dovuta alla centralità dei suoi 

negozi e alle buone strategie di comunicazione effettuate dall’azienda. 

L’esistenza del Museo Fortuny  è  sicuramente  responsabile della diffusa  conoscenza del marchio. Come 

interagiscono allora questi tre soggetti che detengono lo stesso nome? Il comportamento di ogni soggetto 

influenza  la  costruzione  dell’immagine  complessiva,  che  assume  connotazioni  diverse  a  seconda  delle 

modalità estetiche scelte e delle strategie seguite dalle tre istituzioni. Bisogna allora scegliere se collaborare 

e creare  sinergie oppure differenziarsi  in modo evidente e  significativo. Le scelte di marketing già  fatte 

dalle due aziende mostrano che la sinergia è molto difficile: si tratterebbe di realizzare una filiera per cui 

Fortuny fornisce il materiale semilavorato, e Venetia Studium si occupa di realizzare il prodotto finito. Le 

due marche si pongono però su settori di mercato  troppo diversi, per quanto  il punto di partenza sia  la 

stessa narrazione. La sinergia con il museo potrebbe essere ambita invece da entrambe le aziende, perché 

fornisce una legittimazione culturale e artistica al marchio. 

Il rapporto tra Venetia Studium e Fortuny non è dunque di semplice concorrenza, dato che c’è concorrenza 

se c’è omogeneità di prodotto, mentre nel nostro caso le due aziende coprono settori merceologici diversi; 

la concorrenza è più che altro sull’immagine venduta, sul marchio stesso. Non si tratta in questo caso di 

“concorrenza sleale” visto che per questa si intende una situazione in cui “si usano marchi e contrassegni 

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che possono generare confusione tra il proprio prodotto e un prodotto già affermato e largamente diffuso” 

(definizione dizionario Garzanti). La scarsa diffusione del prodotto Fortuny all’epoca della registrazione 

del marchio da parte di Lino Lando (1989) e l’inesistenza di soggetti che prima di lui avessero intrapreso la 

produzione delle lampade disegnate da Mariano Fortuny, pone Venetia Studium all’interno dei confini 

della legalità e la rende estranea a qualunque vizio di slealtà. 

La situazione comincia a complicarsi oggi che Fortuny sta cambiando le proprie politiche di vendita, 

ampliando la gamma di prodotti venduti e aprendo uno showroom dentro la fabbrica. 

Leggeremo adesso i termini della contesa tra le due aziende. Inizieremo con il raccontare brevemente quale 

sia il loro universo condiviso, ma poi rileveremo le loro differenze attraverso l’analisi del loro marketing 

mix. 

 

4 Fortuny: storia e mito dietro la costruzione dei marchi

4.1 L’artista artigiano

 

La narrazione condivisa dai due marchi si basa sulla storia e sul genio di Mariano Fortuny y Madrazo, 

inventore e artista che visse a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Nato a Granada nel 1861, cresciuto tra 

Roma e Parigi, si installò a Venezia e fissò il suo laboratorio e la sua dimora a Palazzo Pesaro degli 

Orfei in campo San Beneto. Viaggiava però continuamente tra le grandi capitali europee e accoglieva a 

casa sua personaggi di diversa provenienza appartenenti alla intellighenzia dell’epoca.  

Mariano era figlio e nipote di artisti: suo padre Mariano Fortuny y Marsal (1838‐1874) era un pittore che 

riscuoteva molto successo in ambito internazionale, e passava la vita viaggiando tra Spagna, Francia e 

Italia; da parte di madre, invece, vantava una discendenza da pittori di corte e architetti: suo nonno 

Federico de Madrazo (1815‐ 1894) era stato pittore di corte presso la regina Isabella II e direttore del 

museo del Prado, e il suo bisnonno José de Madrazo (1781–1859) aveva introdotto il neoclassicismo in 

Spagna. Il padre di Mariano era anche un attento e appassionato collezionista, in particolare di armi e 

armature antiche, di tessuti orientali e rinascimentali, di tappeti persiani. Morì però a soli trentasei anni, 

lasciando al figlio orfano il doveroso desiderio di continuarne le attività. Così Mariano iniziò ben presto 

ad arricchire la collezione di tessuti e tappeti, e intraprese anche lui la carriera di pittore. Il suo 

approccio alla pittura fu decisamente tradizionale: per imparare le tecniche, Fortuny copiava i quadri 

dei grandi maestri del passato come Tiepolo, Tiziano, Tintoretto, Rubens e Velasquez. La sua 

permanenza a Venezia lo mise in contatto soprattutto con le tele e gli affreschi custoditi nelle chiese e 

nei musei della città; in più frequentò lezioni serali all’Accademia di Belle Arti per perfezionare la 

tecnica già insegnatagli dai suoi parenti. Il suo stile non era certo avanguardistico, ma piuttosto 

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improntato a una concezione mimetica della pittura. I suoi quadri sono figurativi e rimandano, per i 

temi trattati e per il trattamento del rapporto tra luce e tenebre, al simbolismo e in particolare a Odillon 

Redon, Arnold Böcklin ed Edward Burne‐Jones. Fortuny vinse molti premi e partecipò a numerose 

biennali, ma guardando i suoi quadri oggi, essi appaiono interessanti soprattutto come premessa 

all’arte in cui si mostrò maestro, quella della tintura e della stampa dei tessuti. Non solo infatti la sua 

abilità nel mischiare i colori preannunciava la commistione e la sovrapposizione dei pigmenti nei suoi 

tessuti; ma anche il modo in cui dipingeva dimostrava un approccio tecnologico e inventivo che 

avrebbe caratterizzato anche tutte le altre discipline in cui si sarebbe cimentato. Infatti, Fortuny 

fabbricava lui stesso i colori e le tele, e rifuggiva da una concezione idealistica dell’arte per cui l’artista 

era semplicemente colui che aveva un’idea e la realizzava acquistando i mezzi già pronti all’uso: 

l’artista era anche artigiano e tecnico. 

Questo era un approccio che riprendeva un certo tipo di visione tecnologica e artigianale dell’arte che si 

respirava nell’Europa dell’epoca. A Londra in quegli anni si stava affermando l’Arts and Crafts 

Movement fondato da artisti come William Morris, Walter Crane, Charles Mackintosh. Questo 

movimento, molto influente all’epoca e legato politicamente al Socialismo, proponeva il rifiuto delle 

gerarchie nelle arti, per cui l’artigianato, il design e l’arte godevano della stessa dignità, così come i loro 

produttori. Inoltre ad essere valorizzata non era solo l’opera finale, ma tutto il processo che ne aveva 

accompagnato la realizzazione, dal progetto all’esecuzione. Il movimento era (inzialmente) fortemente 

anti‐industriale e sosteneva che l’uomo doveva riappropriarsi delle tecniche di fabbricazione manuale 

dell’oggetto, senza utilizzare le macchine, e controllare personalmente il proprio lavoro; la produzione 

era individuale o svolta da piccoli gruppi, tra cui non doveva esserci divisione del lavoro, ma 

coordinamento compartecipato nella realizzazione del prodotto, come succedeva nel medioevo nelle 

corporazioni di arti e mestieri (arts and crafts, per l’appunto). Furono recuperate vecchie tecniche e 

aperti laboratori in zone rurali dell’Inghilterra; i motivi stampati su carte e stoffe attingevano alle 

tradizioni della campagna inglese. Per William Morris, valutare la qualità di un oggetto significava 

avere coscienza dei suoi materiali grezzi e delle sue modalità di produzione, la forma doveva seguire le 

indicazioni della materia che si intendeva manipolare. Questo atteggiamento di opposizione alla 

produzione industriale e la tendenza a rifugiarsi in un passato rurale e corporativo ha chiari 

contraccolpi antimodernisti, e questo non era l’effetto voluto dal Movimento che si riteneva 

progressista nelle idee sociali e politiche. Per questo, Morris in un secondo momento della sua vita fu 

più accomodante nei confronti dell’utilizzo delle macchine, comprendendo che, se la macchina è sotto il 

vigile controllo umano, e riesce a ottenere risultati analoghi alla produzione manuale, allora può essere 

utilizzata come qualsiasi altro attrezzo, e anzi è opportuno usarla, perché riduce i tempi del lavoro, e 

permette all’artigiano di avere più tempo libero. La macchina non deve schiavizzare ma rendere liberi: 

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il suo utilizzo è criticabile solo se è finalizzato all’accelerazione e all’aumento della produzione, con 

conseguente alienazione dell’operaio, che perde il legame con il proprio lavoro e il proprio prodotto. 

William Morris era una figura a tutto tondo e fabbricava manualmente i suoi strumenti di lavoro: 

preparava i pigmenti per i suoi dipinti, realizzava la tela e i tessuti, cuciva i suoi libri e addirittura 

fabbricava l’inchiostro con cui venivano stampati, le lastre per l’incisione e persino lo stampo 

tipografico. 

Al contrario di William Morris, Mariano Fortuny non aveva interesse per il socialismo e non si 

preoccupava del ruolo che le macchine avevano nella produzione di massa. Condivideva però la 

valorizzazione della tecnica al pari dell’arte, e la necessità del pieno controllo di tutti gli stadi della 

produzione. Se l’Arts and Crafts Movement riprendeva i motivi decorativi dalla tradizione rurale inglese, 

medievale, romantica a o popolare, lui li prelevava dal Rinascimento italiano e nell’Oriente con cui le 

città‐stato italiane avevano avuto, nel loro passato glorioso, rapporti commerciali e culturali. 

L’eclettismo di Fortuny ha radici anche nella profonda ammirazione che Fortuny aveva per Richard 

Wagner, sui cui testi lavorò per tutta la vita. Le leggende da cui Wagner traeva spunto per le sue opere 

erano le stesse che Fortuny rappresentava nei suoi dipinti. Inoltre Fortuny conosceva bene e ammirava 

le teorie di Wagner sull’arte e sul teatro, che furono alla base del suo approccio idealistico e 

interdisciplinare alle arti. Le sue idee sulla ricerca di un’opera d’arte totale e la visione dell’opera come 

luogo dell’integrazione di tutte le discipline davano uguale importanza a poesia, pittura, musica, 

danza, architettura e teatro. A differenza dell’opera lirica italiana del tempo, l’opera wagneriana non 

dava centralità al “bel canto”, ma metteva sullo stesso livello la poesia e la musica, la scenografia, il 

disegno dei costumi e l’illuminotecnica, necessaria a creare la giusta relazione tra luce e tenebre centrale 

per la narrazione wagneriana. 

 

4.2 L’artista, le luci e il teatro

 

Quando Fortuny assistette per la prima volta alla messa in scena delle opere di Wagner a Bayreuth nel 

1892, rimase deluso dal trattamento degli scenari e dell’illuminazione: trovava infatti che la messa in 

scena, caratterizzata da fondali dipinti illuminati con la luce a gas, fosse in aperta contraddizione con lo 

spirito del Gesamtkunstwerk propagato da Wagner. In questo, Fortuny si trovava in accordo con 

Adolphe Appia, che aveva già notato come le teorie di Wagner fossero disattese dai risultati sulla 

scena. Secondo Appia, “la luce ha, in termini di rappresentazione, la stessa funzione che la musica ha 

come colonna sonora: è l’elemento espressivo che si oppone al visibile; e proprio come la musica, non 

può esprimere niente che non sia parte integrante degli elementi essenziali della visione” (Appia, 1962: 

55). Per Appia, l’unico modo per rendere il sistema d’illuminazione elemento espressivo di pari 

51

importanza alla musica, era l’utilizzo della luce elettrica, sistema più flessibile e manovrabile. Quando 

ne propose l’applicazione alle opere di Wagner, fu considerato un sacrilego da Cosima Wagner, che 

gestiva l’eredità materiale e ideale del marito, che chiuse le porte di Bayreuth ad Appia. Sia Appia che 

Fortuny erano invece convinti che Wagner se fosse stato vivo avrebbe salutato con entusiasmo 

l’innovazione tecnologica. Nell’opuscolo che Fortuny aveva scritto nel 1904 per presentare l’invenzione 

del suo nuovo sistema d’illuminazione (Eclairage Scénique: Système Fortuny), sosteneva con convinzione 

questa rivoluzione tecnologica e ne spiegava le ragioni: la luce elettrica è uno strumento molto più 

flessibile della luce a gas prima di tutto perché è bianca, e quindi ha un colore di base neutro che 

permette di sovrapporgli tutta la gamma di colori, mentre la luce a gas è gialla; in secondo luogo è 

mobile e può quindi essere spostata rispetto alla scena; e infine la sua intensità è variabile e quindi può 

scemare o intensificarsi a seconda delle volontà registiche. Sul presupposto di queste convinzioni, 

cominciò quindi, nel chiuso del suo studio, a sperimentare nuove tecniche d’illuminazione. La sua 

scoperta più clamorosa fu quella della luce riflessa: se prima la luce era puntuale e diretta, adesso la 

luce poteva essere rivolta verso uno sfondo riflettente che la diffondeva rendendola omogenea e più 

simile alla luce naturale. Inoltre, cambiando il colore dello sfondo, si poteva cambiare anche il colore 

dell’atmosfera. L’utilizzo della luce riflessa nel teatro permetteva quindi un’imitazione più naturalistica 

dei fenomeni atmosferici e una gamma di scelta molto più ampia riguardo a colori e intensità della 

scena. Questi esperimenti sulla luce riflessa portarono Fortuny alla sua più grande invenzione 

tecnologica: la Cupola Fortuny, detta anche Ciclorama. È un quarto di globo che doveva posizionarsi 

sullo sfondo della scena e farne scena e schermo nello stesso tempo. La cupola sfruttava tutte le 

possibilità della luce elettrica, proiettata su piccoli specchi dipinti che rappresentavano diversi tipo di 

cielo (nuvoloso, limpido, al tramonto) in modo che la scena poteva cambiare a piacimento senza 

bisogno di spostare i fondali. Fortuny inventa dunque uno strumento di doppia riflessione e lo 

riassume in questo modo: 

 

“Per  fare  una  sintesi,  il  mio  sistema  si  compone  di  tre  parti:  un  sistema 

d’illuminazione per mezzo della riflessione; un sistema di decorazione della scena 

per mezzo della riflessione, permesso dall’uso di una superficie concava per creare 

cieli  e  vedute  a  distanza;  infine,  cosa  più  importante,  una  riforma  completa 

dell’elemento visivo nel teatro, tale che si può dire che per la prima volta la scena 

teatrale  riuscirà  a  trasformarsi  in  accordo  con  la musica,  secondo  il  dominio  di 

quest’ultima,  cioè  a dire  nel  tempo, mentre  fino  a  ora  era  riuscita  a  svilupparsi 

soltanto  nello  spazio.  Quest’ultima  possibilità  è  di  suprema  importanza  per  la 

messa in scena dei lavori di Richard Wagner” (Fortuny, 1904: 13; trad. nostra). 

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Fare della luce arte del tempo piuttosto che dello spazio suona come un’interessante anticipazione delle 

tecniche cinematografiche e soprattutto delle proiezioni di immagini in movimento nelle scene di 

teatro. L’utilizzo della videoarte nel teatro è dunque l’ultima tappa di questa evoluzione partita dai 

fondali riflessi, ed è del tutto coerente con gli sviluppi proposti da Fortuny. Nonostante le sue ferme 

convinzioni riguardo alla superiorità della luce elettrica rispetto a quella a gas, Fortuny non riuscì 

subito a mettere in atto i suoi progetti, perché il mercato non era ancora pronto. Quando gli venne 

richiesto di preparare le scene per il Tristano e Isotta di Wagner alla Scala di Milano nel 1901, fu 

entusiasta di poter finalmente mettere il pratica le proprie idee, proprio su una delle opere che 

conosceva meglio e amava di più. Ma le sue aspettative furono deluse dalle forti restrizioni imposte dal 

teatro milanese, ancora non pronto per accogliere un sistema di illuminazione nuovo e rivoluzionario. 

Fortuny dovette accontentarsi di dipingere le scene e usare al meglio l’apparato illuminotecnico 

parecchio antiquato del teatro, ovviamente a gas. Sempre nello stesso anno, Gabriele D’Annunzio lo 

coinvolse nella preparazione di scene e costumi per la Francesca da Rimini: fu la prima situazione in cui 

Fortuny dovette cimentarsi con il design dei vestiti, che implicava in questo caso una profonda ricerca e 

conoscenza delle abitudini vestimentiarie e dei tessuti medievali. Con la collezione di tessuti ereditata 

dal padre e da lui stesso ampliata, e con la competenza in materia che aveva, il compito non fu difficile. 

Lo fu però la relazione con D’Annunzio che da una parte pretendeva troppo lavoro da parte sua, 

dall’altra (probabilmente) non ne riconosceva abbastanza il valore. Tanto che Fortuny si ritirò dal 

lavoro proposto prima che fosse messo in scena. Non i suoi costumi furono però ritirati: essi andarono 

in scena lo stesso, segnando l’inizio delle attività di stilista e costumista di Fortuny, come vedremo nel 

prossimo paragrafo. 

Se i teatri pubblici avevano avuto difficoltà ad accettare il nuovo sistema di illuminazione di Fortuny e 

gli avevano imposto numerose restrizioni, fu dal settore privato che arrivò la prima richiesta di 

installazione della cupola: dopo aver ospitato nel suo teatro tre opere dirette da Adolphe Appia in 

collaborazione con Fortuny, la Contessa Martine de Béarn chiese a quest’ultimo di occuparsi dei lavori 

di restauro del teatro facente parte del suo hotel particulier a Parigi: Fortuny realizzò il sipario con un 

velluto stampato e vi installò la cupola. Nel 1906 il rinnovato teatro della contessa venne inaugurato 

con un balletto di Widor. È l’inizio del successo per la Cupola di Fortuny, che, dopo anni di ostilità da 

parte delle istituzioni, comincia ad avere successo e ad essere richiesta da numerosi teatri, privati e 

pubblici. Per gestire al meglio il perfezionamento della tecnica e la sua commercializzazione, Fortuny si 

mette d’accordo con la ditta tedesca AEG. L’invenzione si diffonde soprattutto nei teatri tedeschi e 

francesi e Fortuny mette a punto anche una versione flessibile e ripiegabile (con struttura a fisarmonica) 

della sua cupola, permettendone così il trasporto. Con il perfezionamento della tecnica, non solo teatri 

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ma anche musei e chiese chiedono a Fortuny di curarne l’illuminazione, dato che la luce riflessa è ideale 

per garantire omogeneità di visione anche in presenza di vetri o superfici lucide. Nascono in questo 

modo lampade più piccole, utilizzabili anche in ambienti privati, eleganti e moderne. Ne è un esempio 

la lampada Fortuny, ancora utilizzata e venduta da Pallucco che ne ha rilevato la licenza di vendita. 

Questa lampade rientra nei cento oggetti di design più importanti del XX secolo secondo il catalogo 

Phaidon.  

In questi anni dunque Fortuny raggiunse risultati ineguagliabili nel campo dell’illuminotecnica; ma 

non potendo più fare progressi, e dovendo semplicemente seguire le dinamiche della produzione 

industriale e della commercializzazione, cominciò a dimostrare perdita di interesse. Voltò pagina e 

inizio a occuparsi di tessuti.  

 

4.3 Il Delphos: l’immortalità nell’innovazione vestimentiaria

 

L’attività di costumista, disegnatore e tintore di stoffe inizia per Fortuny con le ricerche fatte per la 

realizzazione di vestiti medievali per la Francesca da Rimini di D’Annunzio (1901). Anche se alla fine 

Fortuny non seguì tutti i lavori per la messa in scena di quest’opera, colui che lo sostituì (Odoardo 

Antonio Rovescalli) volle mantenere in scena i costumi da lui disegnati. 

La prima occasione per mostrare al pubblico le sue creazioni di moda si presentò con l’inaugurazione 

del teatro della Contessa de Béarn a Parigi (1906): in occasione del già citato balletto su musiche di 

Charles Widor, non solo Mariano Fortuny dimostrò pubblicamente le potenzialità del suo nuovo 

sistema di illuminazione, ma anche mise in scena il suo primo prodotto di vestiario originale, destinato 

a una grande diffusione, lo scialle knossos, velo con motivi geometrici ispirati all’arte cicladica, con cui 

coprì le danzatrici. Questi rettangoli di seta potevano essere usati in molti modi, per coprire la testa, le 

spalle, o essere avvolti intorno al corpo. L’abito che però diede fama e successo a Fortuny fu il 

cosiddetto Delphos. Il Delphos era una tunica pieghettata in tinta unita con un’apertura sulle spalle che 

permetteva di regolarla alle forme del corpo: uno stesso abito poteva essere adattato a corpi molto 

diversi, con un sistema di tiranti che restringeva e accorciava il vestito. 

Il riferimento diretto è alla tunica greca, in particolare al chitone indossato dall’auriga di Delfi, che 

cadeva verticalmente rispetto al corpo e ne lasciava trapelare le forme. Il Delphos era un’autentica 

rivoluzione in un periodo in cui le donne usavano busti e corsetti. Infatti furono brevettate come 

invenzioni sia il vestito sia il sistema di plissettatura: peccato che da un’analisi della descrizione del 

metodo di pieghettatura consegnata all’Ufficio della Proprietà Industriale, emerga che il sistema 

spiegato e depositato è quello della ondulazione degli abiti, non il sistema per fare le pieghette. Questo 

è rimasto segreto ed è morto con  Fortuny. Molti hanno tentato di riprodurre queste pieghe, riuscendo 

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anche bene nel compito: Mary Mc Fadden ha creato degli abiti plissettati indistruttibili, sebbene 

l’ampiezza delle pieghe sia superiore a quella di Fortuny e il tessuto non sia seta bensì poliestere. 

Anche Issey Miyake, con la sua linea Pleats Please ha ripreso esplicitamente la tunica di Fortuny, ma, 

come nel caso di Mary Mc Fadden, i vestiti sono in fibra di poliestere, non in leggerissima seta. Il 

Delphos era tutto fabbricato in casa, cioè a Palazzo Pesaro degli Orfei: la seta arrivava grezza dal 

Giappone, veniva lavorata, tinta, pieghettata e tagliata; anche i fili e le corde erano fabbricate nel 

laboratorio: solo le perline di vetro che chiudevano il vestito provenivano da Murano, dove Fortuny si 

recava personalmente a sceglierle. 

Il Delphos è un vestito senza tempo, con cui sono ritratte muse e dive di inizio secolo: dalla Marchesa Casati 

a Isadora Duncan, da Natasa Rambova, coreografa, costumista e moglie di Rodolfo Valentino, a Lilian 

Gish, musa lanciata dal cinema di Griffith in America; da Clarisse Coudert, moglie di Condé Nast a Peggy 

Guggenheim. Ebbe fortuna soprattutto negli Stati Uniti, per due motivi: prima di tutto la responsabile 

della distribuzione di New York, Elsie Mc Neill Lee, che diventerà una figura centrale per la produzione 

Fortuny, come vedremo nel prossimo paragrafo, era un’ottima comunicatrice e stratega; d’altra parte, le 

donne americane erano più aperte ed emancipate delle coetanee europee: se in Europa il Delphos era 

considerato idoneo a un utilizzo domestico ed era usato come tea‐gown da indossare debitamente coperto 

da una vestaglia o da un mantello in caso di visite di ospiti, in America le donne non si facevano remore a 

usarlo come vestito da sera, per quanto l’abito lasciasse intravedere le forme del corpo e non fosse 

esattamente pudico. 

Il Delphos era in continuità con le idee più avanzate di “riforma vestimentaria” già portate avanti alla 

fine dell’Ottocento, che miravano all’eliminazione del corsetto e alla promozione di vestiti leggeri e in 

grado di permettere il movmento del corpo. Dalle file del già citato Movimento Arts and Crafts in 

Inghilterra, Walter Crane aveva tuonato contro il corsetto, stretto, pesante, poco igienico e salutare; lo 

stesso Crane era vicepresidente di un sindacato che promuoveva l’abbigliamento salutare, lo Healthy 

and Artistic Dress Union e aveva prodotto e illustrato numerosi opuscoli tra i quali uno dal titolo 

programmatico: “How to Dress Without a Corset”: i progetti di vestito non furono però realizzati, e 

Crane restò ideologo, illustratore e pittore, ma non designer di vestiti. Medici e artisti erano d’accordo 

sul fatto che la cosiddetta vita da vespa, costretta da busti e corsetti, bloccava il movimento, 

danneggiava gli organi interni e non era neanche bella a vedersi, e auspicavano a un ritorno di un 

vestito leggero e comodo come la tunica in età greco‐romana. Il dibattito sul rinnovamento del vestito 

aveva implicazioni di tipo sessuale e sociale, e si esprimeva in giornali il cui argomento centrale verteva 

sull’abito come strumento di emancipazione. Fu così che nell’ultimo decennio del XIX secolo vennero 

pubblicate riviste come Aglaia e The Rational Dress Gazette. Aglaia (dal nome di una delle tre grazie nella 

mitologia greca) aveva come scopo di “inculcare chiari principi per progettare e realizzare vestiti belli e 

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sani, familiarizzare i nostri lettori con la figura umana, in modo che possano imparare la differenza tra 

ornamento e distorsione” (cit. in Cunningham 2003: 124). Lo stile suggerito da Aglaia era lo stile Impero, 

con i suoi riferimenti all’età classica. Dello stesso avviso era Arthur Lasenby Liberty, fondatore della 

famosa ditta omonima Liberty, grande fornitore di vestiti e produttore di stoffe artistiche, che 

privilegiava il vestito leggero, che scendesse dalle spalle, senza forzare busto e vita. L’importanza del 

vestito, di taglio semplice, stava tutta nei materiali usati. Non a caso Liberty era vicino all’Arts and 

Crafts Movement, fedele com’era al motto del movimento “Truth to material”.  

La tunica greca era stata anche sdoganata da Isadora Duncan, la prima danzatrice che si era liberata del 

tutu, e che rivendicava la libertà del corpo attraverso la leggerezza del vestito. È un momento di grande 

fermento in tutti i campi dell’arte, le avanguardie stanno prendendo piede, e le riforme nelle arti e nella 

società civile passano anche per la riforma del vestito. Tra il 1910 e il 1920, i Ballets Russes di Bakst e 

Diaghilev girano l’Europa. Sono a loro volta influenzati da Isadora Duncan, e lo stile dei costumi fa 

riferimento a Oriente e Grecia.  Si sviluppa la moda dell’Orientalismo e tutto ciò rende estremamente 

attuale la creazione di Fortuny. Sicuramente questo clima culturale preesistente giocò un certo ruolo nel 

successo del Delphos. Una forma di pubblicità indiretta molto efficace era svolta anche dai grandi 

romanzieri del periodo: Albertine e Madame de Guermantes indossano vestaglie Fortuny in più passi 

della Recherche di Proust, e D’Annunzio veste Isabella Inghirani, protagonista di Forse che sì forse che no, 

con una tunica a motivi di tipo miceneo firmata Fortuny (Davanzo Poli 1992: 51, Gnoli 2005: 29).  

Il trionfo del classicismo in quell’epoca ci mette di fronte a un paradosso: la riforma e l’innovazione 

passano per un recupero del passato. Per guardare avanti, si guarda indietro. È in questa 

contraddizione che si situa il fascino del Delphos, nella coesistenza tra classicità e un’idea progressista 

del corpo e del vestito. Oggi ovviamente, la spinta innovativa del vestito si è persa, di fronte alle grandi 

trasformazioni vestimentarie della seconda metà del XX secolo, ma il capo resta eterno e 

intramontabile. Non è un caso che sia stato scelto da Susan Sontag per la sua sepoltura, come racconta 

Guillermo da Osma (2010). Il Delphos, per la sua sola forma, appare in grado di garantire a una donna 

l’immortalità. Per Jorge Lozano (2010), il Delphos è archetipo insieme del classico e del barocco ad un 

tempo. È chiaro infatti il rimando alla statuaria classica, alla kore greca o ai torsi egizi, al neoclassicismo 

e all’ellenismo che imperversavano alla fine del XVIII secolo. Secondo Jean‐Marie Floch, molta della 

produzione visiva contemporanea può essere letta attraverso l’interdefinizione delle categorie facenti 

capo a due grandi concezioni: quella classica e quella barocca. Il suo riferimento è Wolfflin che nel 1915 

nei suoi Concetti Fondamentali di storia dell’arte ha interdefinito queste due grandi forme significanti. È 

un contributo della storia dell’arte all’analisi semiotica. Le grandi categorie che contrappongono il 

classico al barocco sono: lineare e pittorico, piano e profondo, forma chiusa e forma aperta, molteplicità 

e unità, chiarezza e oscurità. 

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Nello stile lineare, che corrisponde alla visione classica, le cose sono viste in termini di linee, 

delimitazioni, mentre nello stile pittorico, che corrisponde al barocco, sono recepite e apprezzate in 

forma di masse. Esaminando il Delphos alla luce di queste categorie, il vestito è estremamente lineare, 

ma, attraverso la congiunzione con un corpo, esalta la massa e i valori pittorici. È una forma chiusa 

dove niente è fuori posto, la gravità è creata attraverso la presenza delle perle che portano il peso del 

vestito verso il basso e ne chiudono le cuciture laterali: le perle sono una forma di cornice all’interno 

della quale si situa il vestito sul corpo. Nello stesso tempo però, il vestito tende a uscire dalla cornice 

del corpo coprendo i piedi e creando una continuità con il terreno. Per mantenersi, quando è libero 

dalla struttura del corpo, non deve essere appeso su protesi sostitutive del corpo come grucce e 

manichini, ma deve essere tenuto appallottolato.  

Una lettura plastica permette invece di leggere il Delphos nei suoi costitutivi espressivi. Rispetto a una 

semiotica della pittura che esamina i formanti cromatici, topologici ed eidetici, il vestito deve essere 

letto più come una scultura, aggiungendo la matericità e il rapporto con la luce. Ma deve essere letto 

anche come membrana, in grado di far comunicare il corpo e l’ambiente. 

Per quanto riguarda i formanti cromatici, il Delphos è solitamente in tinta unita, realizzato attraverso 

tintura per immersione. Ha un colore delicato e intenso nello stesso tempo. 

Il Delphos è una forma chiusa, profilata, piombata; la sua chiusura è però contraddetta da una 

mancanza di soluzione di continuità tra figura e terreno: la donna sembra emergere da terra e 

innalzarsi; raramente si vedono le scarpe. 

La sua configurazione interna è caratterizzata dalla presenza di pieghe, scanalature del corpo, che 

creano un ritmo iterativo interno, e moltiplicano le linee parallele verticali. La discontinuità generata 

dalle pieghe è però modulata dalla presenza di un’ondulatura, che crea continuità e modulazione.  

La materia degli abiti è seta plissettata, leggera ma elastica: aderente al corpo ma comprendente anche 

parti svolazzanti, fuggenti. La piega è una forza elastica, e per rafforzare questa elasticità, il tessuto è 

stato ondulato. C’è una ritmica potente nel vestito di Fortuny. le perle, dure e fattori di gravità all’abito, 

contrastano con la leggerezza della seta.  

La luce è frammentata dalla piega, cangiante, riflessa. 

Sul piano espressivo e materiale il Delphos appare allora come composizione di forze opposte: chiusura 

vs apertura; aderenza vs fluttuazione; increspatura vs distensione; radicamento vs innalzamento. 

Questo rende il vestito luogo di un equilibrio tensivo, espressione di stabilità. Proiettata sul piano 

figurativo, questa idea di equilibrio e stabilità è rinforzata dalla somiglianza a figure del mondo come 

quella della colonna e dell’albero, tutte strutture di sostegno, verticali, elevate e ben piantate a terra. 

Jacques Derrida (1978) ha rilevato i caratteri fondamentali della monumentalità nella verticalità e nella 

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fissità. Possiamo concluderne che il Delphos fa della donna un monumento, eretto ma solidamente 

fissato a terra. 

È forse per queste sue caratteristiche formali che il Delphos è stato scelto da molte donne come vestito 

con cui essere sotterrate, con cui andare incontro all’aldilà. 

Sembra allora che il Delphos sia l’apoteosi del Classico, vista anche la sua somiglianza con lo stile con 

cui erano vestite le donne del Canova e il richiamo allo Stile Impero. Fortuny fa della donna una statua 

vivente, e soprattutto colorata. Non è infatti da mettere in secondo piano la sua distanza dal neo‐

classicismo dovuta all’uso del colore, così centrale per la sua produzione. 

Il suo uso delle pieghe avvicinerebbe invece il suo abito all’archetipo del barocco, secondo la visione di 

Gilles Deleuze secondo cui “il Barocco produce di continuo pieghe. Non è una novità assoluta: si pensi 

a tutte le pieghe provenienti dallʹOriente, o alle pieghe greche, romane, romaniche, gotiche, classiche. 

Ma il Barocco curva e ricurva le pieghe, le porta allʹinfinito, piega su piega, piega nella piega. Il suo 

tratto distintivo è dato dalla piega che si prolunga allʹinfinitoʺ (Deleuze, 1988). La piega di Deleuze è 

però la piega nella piega, la piega inclusiva, il “ripiegarsi”, ha più a che fare con una spirale centripeta 

piuttosto che con la moltiplicazione delle pieghe del plissé. Il fatto però che il primo marchio registrato 

da Fortuny nel 1908 sia un labirinto, ”luogo dalle molte pieghe” rende questa lettura di Fortuny 

barocco plausibile. 

 

4.4 Vestire gli interni

 

Ogni esemplare del Delphos era realizzato in tinta unita, ma il suo colore era sempre diverso e unico. 

Veniva immerso nella tintura diverse volte per impregnarsi più profondamente ma anche per assumere 

infinite sfumature che risaltavano per rifrazione della luce sulle pieghe dell’abito. La tintura dei tessuti 

diventò così l’attività predominante e identificante di Fortuny, che presto, di fronte al successo 

commerciale del Delphos, dovette, nonostante la sua avversione per la grande produzione, ampliare il 

suo apparato produttivo. Il laboratorio di Palazzo Pesaro degli Orfei accoglieva allora un centinaio di 

lavoratori, per far fronte alla accresciuta domanda. Si amplia anche la distribuzione con l’apertura a 

Parigi nel 1912 di una boutique in Rue Marignan e a Londra in Old Bond Street. La grande guerra 

provocò una caduta commerciale del marchio Fortuny, che però si riprese subito dopo con la 

fondazione, nel 1919, della Società Anonima Fortuny. Dopo tre anni di lavori, nel 1922 fu aperta la 

fabbrica in Giudecca, presso un antico convento che era stato chiuso da Napoleone all’inizio 

dell’Ottocento. L’edificio era parte della proprietà di Giancarlo Stucky, che possedeva il grande mulino 

prospiciente la fabbrica. L’istituzione della fabbrica della Giudecca segnala l’inizio della produzione 

industriale per Mariano Fortuny che aveva al suo servizio un centinaio di lavoratori esperti. Se 

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l’aumento della domanda aveva favorito questo ampliamento, i nuovi ritmi di produzione e 

l’innalzamento dei costi di gestione imposero un incremento della distribuzione. Così nel 1920 riaprì il 

negozio a Parigi, questa volta in rue Pierre Charron, proprio accanto al negozio di Poiret. Il negozio era 

arredato nello stile del palazzo veneziano, per offrire al cliente un’esperienza e un’atmosfera 

decisamente esotica: era come trovarsi a Venezia, pur essendo a Parigi. Fortuny aveva un negozio 

anche a Milano, e diversi distributori a Roma, Napoli, Torino, Madrid, Zurigo, Londra e New York. 

La produzione di abiti e vestaglie in seta e velluto restò a Palazzo Pesaro, sotto la stretta sorveglianza di 

Mariano e della moglie Henriette. Nella fabbrica della Giudecca invece si sperimentò la stampa su 

tessuti meno costosi, come i cotoni, adatti al design d’interni e particolarmente idonei all’assorbimento 

dei colori. Così la produzione si divise in due rami: da una parte, il fashion design; dall’altra il design 

d’interni. Questa decisione non fu solo conseguenza dell’ampliamento di Fortuny e dell’accrescimento 

della sua fama nel mondo intero. Fu dovuto anzi a una scelta di razionalità economica: materie prime 

come seta e velluto, durante e dopo la Prima Guerra Mondiale, avevano raggiunto un prezzo molto 

alto, il che imponeva all’artigiano Fortuny di alzare il prezzo del prodotto finito per recuperare la spesa. 

Nello stesso tempo, i possibili acquirenti si erano impoveriti e avevano abbassato il proprio livello di 

vita e la propria capacità di spesa. Ecco che allora si era trovata una via d’uscita in quella che oggi 

chiameremmo Brand Extension, la produzione di tessuti destinati all’arredamento. L’idea era buona e 

non era incoerente con la produzione precedente. Tra l’altro Fortuny, collezionista di tessuti ed erede 

della collezione del padre, aveva un’immensa cultura in materia e uno speciale repertorio di idee da cui 

trarre ispirazione. Ebbe quindi sin da subito delle commesse, sia da privati che da committenti pubblici: 

Fortuny arredò case patrizie come quella dell’attrice Dina Galli a Roma, di Consuelo Vanderbilt a New 

York, della principessa di Noailles a Parigi (Franzini et al., 2008: 30); ma allestì anche luoghi pubblici, 

come l’Hotel Excelsior di Venezia al Lido (1920), il Museo Nazionale di Napoli, la chiesa del Redentore 

nell’isola della Giudecca. Dal 1922 in poi, fu commissario per il Padiglione spagnolo della Biennale: lì 

non solo espose delle sue opere ma anche curò l’arredamento e allestì gli spazi per accogliere le opere. 

Negli stessi anni, gli fu chiesto di arredare il Museo Carnavalet di Parigi: per l’occasione, Mariano ideò 

un nuovo motivo floreale che ebbe gran successo, e chiamò proprio Carnavalet. 

Venezia era la città più adatta per la produzione e il commercio dei tessuti. Infatti, come 

testimoniavano anche le fonti visive da cui Fortuny traeva ispirazione (i quadri di Tintoretto, Bellini o 

Carpaccio) da sempre il territorio veneziano era stato specializzato nella produzione tessile e nella 

distribuzione internazionale. Già in età medievale Venezia era centro di commerci di stoffe, tessuti e 

tinture, ma fu nel Rinascimento che raggiunse l’apice nella produzione di sete, velluti, cotoni e broccati, 

legando inscindibilmente la sua identità a un’idea di raffinatezza, eleganza e ricerca tecnologica 

applicata alle stoffe. Per tutti i secoli successivi, Venezia convisse con questa tradizione, cercando di 

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adattarla al presente. Nell’Ottocento ad esempio, erano attivi a Venezia tessitori come Sartori, Trapolin, 

Rubelli e Bevilacqua, che fabbricavano tessuti d’arte imitanti l’antico, realizzati ancora con tecniche 

artigianali. Bevilacqua accolse le innovazioni tecnologiche in atto nel resto d’Europa (e soprattutto in 

territorio francese) adattando la nuova tecnica Jacquard a telai antichi (Davanzo Poli e Moronato, 1994). 

Per quanto mantenessero un certo gusto eclettico e revivalistico, allergico al modernismo che andava 

imponendosi in Europa, i tessitori veneziani – in particolare Bevilacqua e Rubelli – seguirono le mode 

europee del periodo: i primi del Novecento furono caratterizzati dall’imperversare di disegni 

tipicamente Art Nouveau, che poi, nel decennio successivo, si orientarono verso il gusto Art Déco. 

Fortuny si inserisce in questo gusto eclettico e decorativo, portando però notevoli innovazioni sul piano 

tecnico: mantiene infatti i motivi della tradizione sul tessuto operato, ma, anziché decorarlo a mano, 

inventa nuove tecniche di stampa. Sperimenta e brevetta continuamente sistemi di stampa: prendendo 

spunto dalle tecniche dei katagami giapponesi, brevetta nel 1910 un sistema di stampa a banda continua 

basato su un processo di tipo serigrafico. Come nel caso della pittura, Fortuny non si preoccupava solo 

di realizzare il prodotto finale, ma produceva le tinte, le macchine e i blocchi tipografici. Con le sue 

invenzioni fu in grado di aumentare esponenzialmente la produzione, ma il tocco umano della 

manifattura resta importante anche oggi, con i ritocchi finali e con l’attento controllo del processo di 

lavorazione. Un ruolo importante riveste anche il caso: ogni pezza stampata asciugata all’aria risente 

delle condizioni climatiche del momento in cui è stata esposta all’aria. Temperatura e umidità saranno 

le variabili che influenzeranno la saturazione e la brillantezza della tinta. Per tutti questi motivi, anche 

quando la produzione dei tessuti diventa “industriale”, il prodotto finale sarà un pezzo unico e 

inimitabile, legato all’artigianato, al lavoro umano e alle condizioni ambientali.  

Per la produzione tessile, Fortuny disegnò migliaia di motivi diversi nella sua vita, ognuno dei quali 

era poi stampato in diverse combinazioni di colore. Di chiara ispirazione rinascimentale era il disegno 

della melagrana aperta, che poi era a sua volta simile al fiore del loto orientale. Altri disegni facevano 

riferimento all’arte araba, turca, giapponese, e persino oceanica e precolombiana. 

 

4.5 Gestire Fortuny dopo Fortuny

 

Fu la visita al Museo Carnavalet di Parigi a far entrare in contatto l’arredatrice americana Elsie Mac 

Neill con Fortuny. La giovane imprenditrice restò colpita dall’eleganza dei velluti stampati e così decise 

di andare a visitare l’artista a Venezia. Conosciutolo e avendo visto la gamma della sua produzione, gli 

chiese di poter avere l’esclusiva sulla distribuzione dei tessuti Fortuny negli Stati Uniti: così iniziò il 

sodalizio tra i due. Come già visto, da allora in poi, la Mac Neill ebbe un ruolo fondamentale nella 

diffusione del Delphos tra le signore americane. 

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La Mc Neill e il marito Arthur Humphrey Lee, ebbero un ruolo decisivo durante la crisi del 1929, 

quando tutte le proprietà di Giancarlo Stucky, compresa la fabbrica Fortuny, andarono in bancarotta: 

furono loro a rilevare la fabbrica in amministrazione fiduciaria. Con la seconda guerra mondiale, la 

fabbrica chiuse, e lo stesso Palazzo iniziò a subire un inevitabile processo di decadenza, dovuto anche 

al declino delle energie e della vitalità del suo vecchio proprietario. 

Nel 1949, Mariano Fortuny morì. La moglie Henriette rimase unica erede di tutti i possedimenti della 

famiglia Fortuny, palazzi e collezioni comprese. Da quel momento in poi la memoria di Fortuny, il suo 

palazzo, la sua fabbrica in Giudecca, caddero nell’abbandono e, di conseguenza, nell’oblio. Henriette si 

dimostrò infatti sin da subito incapace e soprattutto non interessata di tener testa alle aziende ereditate. 

Chiese allora a Elsie Lee Mc Neill di comprare lei la fabbrica e di occuparsi della produzione: la signora 

americana era infatti l’unica persona secondo Henriette che avesse le forze per sostituire il marito 

deceduto, avendo competenze sia di tipo commerciale che di profilo tecnico. Elsie si rimboccò le 

maniche, investì molto denaro nel rinnovo dei locali, delle macchine e delle materie prima e riattivò la 

produzione. Nel frattempo, morto il suo primo marito, sposò in seconde nozze un nobile veneziano, il 

conte Gozzi: assunse così il titolo di Contessa Mac Neill Lee Gozzi. 

Nel frattempo, il palazzo venne donato al Comune di Venezia, con la condizione che lo studio di 

Fortuny sarebbe rimasto intatto, e Henriette potesse abitarci fino alla morte (che sopravvenne nel 1965). 

Iniziò in questo modo lo scollamento tra il palazzo, che entra nel circuito dei musei civici, e la fabbrica, 

che diventa di proprietà americana. È in America infatti che cresce la fama di Fortuny, mentre in Italia 

se ne perde la memoria. I vestiti vintage vengono mostrati in diverse esposizioni e collezioni e 

cominciano ad assumere valore raggiungendo cifre da capogiro in aste come Christie’s. A New York, lo 

showroom funziona molto bene, mentre la fabbrica di Venezia agisce nell’ombra, dimenticata da molti 

veneziani. All’inizio degli anni Ottanta, la contessa Lee Gozzi, non avendo una discendenza a cui 

lasciare la fabbrica, chiede al suo avvocato Maged Riad di acquisire la fabbrica e di occuparsene dopo la 

sua morte. Questi era riluttante, ma alla fine, dopo tante insistenze da parte della Contessa, comprò la 

fabbrica nel 1988. La sua proprietà durò solo dieci anni, dato che quando i suoi figli raggiunsero un’età 

adatta alla gestione di una tale azienda, la affidò a loro. Ancora oggi Mickey e Maury Riad sono i 

principali artefici del processo di rinnovamento che sta avvenendo in fabbrica.   

È durante gli anni di reggenza di Maged Riad che un imprenditore veneziano, Lino Lando, riesce ad 

acquistare il marchio e compra i diritti per fabbricare lampade e accessori, manufatti in seta e tessuti 

plissettati. L’azienda viene chiamata Delphos SAS, apre una fabbrica a Cannaregio e diversi negozi nel 

centro storico a Venezia e persino in aeroporto. Si tratta di Venetia Studium. Questa azienda si inserisce 

in un vuoto di offerta con la missione di ricominciare a produrre e diffondere i prodotti di Mariano 

Fortuny e con questi, la sua fama e il suo nome. Il marchio nasce dalla passione di un imprenditore 

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collezionista che, negli anni, aveva accumulato, grazie alla frequentazione di archivi e mercati 

dell’antiquariato, una grande conoscenza e un vasto repertorio di oggetti appartenuti o prodotti da 

Fortuny. Ne aveva studiato quindi alacremente lo stile e la fattura.  

Fortuny Giudecca si accorge troppo tardi di aver perso la possibilità di fabbricare e vendere gran parte 

dei prodotti a firma Fortuny. Per la separazione del laboratorio di moda e della fabbrica di tessuti che 

era già avvenuta nel 1922, l’area di pertinenza aziendale riguardava solo la stampa di cotoni e non la 

produzione di oggetti di vestiario. Gestendo però macchinari e possedendo gli stampi e le tinte 

originali, avrebbe potuto allargare la produzione, restando di fatto l’unica azienda in grado di produrre 

i tessuti stampati originali. Nel 2003 crolla anche sopra la fabbrica Fortuny una parte della torre del 

Mulino Stucky, incendiato dolosamente. 

Nel bene o nel male, a seconda dei punti di vista, l’emergere sul mercato del fenomeno Venetia 

Studium rimette in circolazione il nome e lo stile Fortuny. Comincia a circolare nella cultura 

commerciale questo nome, abbinato ai suoi prodotti, in particolare alle lampade. Le lampade 

commercializzate da Venetia Studium sono praticamente identiche a quelle disegnate da Fortuny, ma 

sono vendute in diverse dimensioni. Per renderle più resistenti all’usura, però, i nuovi fabbricanti 

hanno deciso di usare il vetro anziché la seta: le lampade sono dunque vendute in due varianti, ma il 

vetro ha un costo inferiore. Nello stesso tempo, Palazzo Pesaro degli Orfei è aperto al pubblico, e 

permette quindi a chi si avventuri nelle sue stanze, di scoprire le opere d’ingegno di questo grande 

inventore. C’è un effetto eco che va dal palazzo al negozio di Venetia Studium. Le lampade sono 

sicuramente tra gli elementi più vistosi della collezione del museo: quelle in seta appese al soffitto 

dominano lo spazio, maestose e arabeggianti: i loro nomi – Scudo Saraceno, Sherazade – coerentemente 

con la loro forma richiamano un universo orientaleggiante ed esotico; completamente diverse, orientate 

a un gusto funzionale e minimalista e ai valori della solidità e della durata, sono le lampade da terra, 

come la lampada a riflessione che oggi ha in produzione l’azienda Pallucco. L’uso pratico di questa 

lampada è segnalato anche dalla presenza di un porta oggetti di legno a circa metà del fusto. 

 

4.6 Palazzo Fortuny: dalla collezione permanente a un nuovo stile espositivo

 

La collezione Fortuny comprende un ricco assortimento di opere e materiali, ordinati per settore 

disciplinare di riferimento: pittura, illuminazione, teatro, tessuti e vestiti, e fotografia. Dagli anni 

Ottanta in poi, il museo, anziché mostrare semplicemente se stesso e i suoi arredi, inizia una fitta 

programmazione di mostre legate alle arti applicate e alla comunicazione visiva, dalla moda ai gioielli, 

dalla fotografia al graphic design. Palazzo Fortuny mostra dunque una natura doppia: da una parte gli 

arredi e la disposizione degli oggetti del palazzo restano identiche a come l’aveva lasciata Mariano, così 

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come vengono preservati la ricca collezione permanente e gli archivi, che vengono ordinati con cura; 

dall’altra il museo apre le porte a mostre di nicchia piuttosto innovative, orientate alla comprensione 

dei fenomeni della contemporaneità. Le due cose non sono in contraddizione. Gran parte delle mostre 

fotografiche prende spunto da oggetti presenti nella collezione e ne espone degli esemplari: la 

fotografia era infatti una delle arti praticate da Mariano, e sicuramente di importanza non secondaria 

rispetto alle altre. Non solo Fortuny era stato uno sperimentatore appassionato del nuovo medium, ma 

anche in questa disciplina aveva inventato delle tecniche: dalle ottiche elaborate per realizzare riprese 

di dimensione panoramica a sistemi di stampa nuovi come una carta fotografica ai pigmenti di carbone, 

il cui brevetto fu consegnato nel 1931. Non è quindi in contrasto con la sua figura che vengono 

inaugurate negli anni Ottanta una serie di mostre organizzate e curate da Paolo Costantini dal 1987 fino 

alla morte prematura del critico nel ‘97: “Dialectical Landscape” (1987), ”Paparazzi, foto di Velio Cioni” 

(1988), “L’insistenza dello sguardo. Fotografia italiana dal 1839 al 1989” (1989), “La fotografia al 

Bauhaus” (1993). Oltre alle mostre fotografiche, si organizzano altre esposizioni con uno speciale 

interesse per le arti cosiddette minori, applicate, dal fumetto ai bozzetti, dalla grafica alla mostra di 

moda: tutto ciò è coerente con lo sperimentalismo di Mariano e il suo rispetto per tutte le forme d’arte e 

di tecnica. Queste mostre si svolgono prevalentemente al piano nobile, presso il portego di Palazzo 

Pesaro degli Orfei, che viene utilizzato per il suo impatto scenografico. L’allestimento si distingue sin 

da subito per il suo carattere anti‐minimale: non potendo cambiare lo sfondo, perché così richiede il 

lascito testamentario della vedova Fortuny, le mostre fanno dell’horror vacui una virtù, e 

progressivamente una cifra stilistica dell’esposizione “alla veneziana”. Le mostre di grafica o fotografia 

sono però prevalentemente di oggetti bidimensionali e non vistosi. Sono piuttosto le installazioni 

video‐sonore che aprono Palazzo Fortuny alla multisensorialità e al potenziamento del barocchismo 

degli spazi: nel 1985 un salone del palazzo si anima delle immagini provenienti da dodici schermi 

televisivi, collocati a semicerchio. I dodici televisori sono collegati ad altrettante telecamere disseminate 

in diversi punti di Venezia. Le immagini provenienti dal circuito chiuso sono in bianco e nero, ma sono 

montate e sovrapposte con altre immagini a colori dove attori dialogano con telecamere e pubblico. Il 

Palazzo diventa così luogo di mediazione tra interno ed esterno, documentazione e finzione. Vedute è la 

prima installazione video ospitata nel museo,firmata dal gruppo di artisti italiani più all’avanguardia 

del momento sul piano dell’invenzione e della tecnologia, Studio Azzurro. Questa installazione che 

rinchiude cartoline viventi di Venezia all’interno di dodici monitor è la prima a giocare su due qualità 

dello spazio di Palazzo Fortuny: la fantasmaticità ‐ presenza nell’assenza di forme umane; e il rapporto 

metonimico del Palazzo con la città di Venezia, riportata dentro il palazzo attraverso le telecamere a 

circuito chiuso. Usare il video come forma d’arte è in continuità con quello che diceva Fortuny a 

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proposito della luce nel teatro, che non era un elemento neutro della messa in scena, ma “arte del 

tempo” che modificava le condizioni della scena. 

L’installazione video del 1993 di Peter Greenaway, Watching Waters, curata da Luca Massimo Barbero, si 

pone in continuità con Vedute di Studio Azzurro, per il suo uso della tecnologia video e per l’inclusione 

della città all’interno del palazzo. Questa installazione è però più scenografica e sovrabbondante di quella 

degli artisti italiani. Con Greenaway s’impone a Palazzo Fortuny un tipo di mostra orientata all’eccesso 

visivo, all’accumulazione, all’utilizzo dei cinque sensi, alla proiezione di ectoplasmi sulle pareti interne di 

stanze disabitate ma così popolato di spiriti da richiedere con forza un loro risveglio. È un esperimento 

estremo e fuori moda rispetto al canone dominante dell’arte contemporanea: siamo negli anni del 

minimalismo elegante, dell’esposizione dentro spazi spogli come white cube. Un allestimento neo‐barocco 

spinto all’estremo ha senso soltanto a Venezia. Nasce così una mostra sontuosa e traboccante di elementi 

che stimola tutti i sensi: proiezioni multiple rappresentano l’acqua in tutte le sue forme; suoni udibili 

anche a distanza riproducono flussi d’acqua e brusio umano, drappi rossi, tessuti dorati e argentati di 

produzione Fortuny ricoprono il palazzo dandogli visibilità e sfarzo. 

È sicuramente a queste esperienze che si rifaranno, quindici anni dopo, le mostre Artempo (2007) e – in 

misura diversa ‐ In‐finitum (2009), che mettono in mostra parti della collezione ricca ed eclettica del 

mercante d’arte Axel Vervoordt in un contesto che già trabocca di oggetti, opere e mobilio. Il richiamo alla 

mostra di Greenaway in Artempo è rappresentato sin dall’entrata dall’installazione di El Anatsui, un 

grande arazzo dorato che ricopre la facciata del Palazzo: non si tratta però di tessuto prezioso, ma di un 

mosaico di fondi di lattine. In‐finitum è una mostra sul vuoto e sulla fantasmaticità, e su questi temi 

giocano installazioni video come Bodies of light (2006) di Bill Viola, i dipinti di Michael Borremans o di Jeff 

Verheyen, per fare solo qualche esempio. Del palazzo è enfatizzato il lato fantasmatico, il silenzio, il vuoto 

nonostante l’abbondanza degli arredi e dei colori. Sono le personalità che con Fortuny condividono molto, 

come Peter Greenaway o Axel Vervoordt, che riescono a rievocare lo spirito del palazzo magnificandone le 

qualità: il rischio è la ridondanza, o l’eccesso; la posta in gioco è l’invenzione di un modello espositivo. Lo 

stile Fortuny, eclettico, orientato alla giustapposizione di oggetti provenienti da mondi ed ere diverse, 

multimediale, interdisciplinare, appartiene anche a questi artisti/collezionisti/inventori che fanno del 

montaggio sia temporale che spaziale la loro abilità fondamentale. Vervoordt, collezionista eclettico, ha 

come sola asse di pertinenza della sua collezione il buon gusto e la raffinatezza, il disprezzo per la moda e 

per il trendy, e l’amore per l’intemporale e l’eterno. I criteri di scelta degli oggetti nella sua collezione e 

nella sua offerta di mercante sono esplicitate nel manifesto programmatico pubblicato sul suo sito: “l’arte 

contemporanea, l’arte orientale e l’arte povera (che denotano una vita di meditazione, di spazi vuoti, di 

amore e rispetto per la natura e per l’esistenza umana); l’architettura, che rappresenta la proporzione, 

l’equilibrio e l’armonia; il barocco dorato e cortigiano”. Si capisce già da questa manifestazione delle 

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proprie preferenze che l’abilità dell’uomo non è quella di creare assi di pertinenza coerenti nelle proprie 

scelte collezionistiche, ma di inventare giustapposizioni di oggetti provenienti da diverse aree geografiche 

e da diverse epoche. Sono l’eclettismo e la multimedialità le caratteristiche che rimbalzano dalle mostre 

temporanee alla collezione permanente. 

L’ultima esperienza che si rifà a questa tradizione è il teatro della compagnia Anagoor. La produzione 

degli Anagoor, ancora molto limitata vista la giovane età dei componenti del gruppo, si pone in continuità 

con artisti come Peter Greenaway o Bill Viola. Come in molte opere di questi artisti, gli Anagoor traducono 

testi visivi del passato nel linguaggio dei media contemporanei: Tempesta, performance teatrale del 2009, 

metteva in scena in forma di tableaux vivants frammenti di dipinti del Giorgione; accostava agli attori sulla 

scena delle videoinstallazioni che riproducevano in forma audiovisiva l’immagine vista sulla scena in 

diverse variazioni; la traduzione da un linguaggio all’altro (pittura, teatro, video) e la moltiplicazione delle 

cornici (dispositivi scenici come cubi in plexiglass e schermi video) ha una chiara ascendenza dagli artisti 

visti precedentemente esporre nelle stanze di Palazzo Fortuny, la cui produzione comprende l’animazione 

attraverso i nuovi media di immagini provenienti dall’iconografia dell’arte occidentale. 

Il progetto appositamente pensato da Anagoor per Palazzo Fortuny sarà completato nell’estate del 2011 e 

presentato alla centrale Fies di Dro per il festival Drodesera. Il progetto comprende quattro episodi: 

l’ultimo di questi episodi, chiamato Ballo Venezia, è stato inscenato proprio a Palazzo Fortuny a Febbraio 

2011, in collaborazione con il teatro Fondamenta Nuove. In occasione di questa performance, gli episodi 

precedenti erano richiamati attraverso installazioni‐video esposte in diverse nicchie del palazzo. La 

performance, secondo lo stile degli artisti che si sta ormai confermando, era caratterizzata dalla presenza 

degli schermi in mezzo agli attori reali. A differenza degli altri spettacoli che puntano su una o due figure 

soltanto sulla scena, Ballo Venezia è una messa in scena corale, che impegna una trentina di performers. Gli 

schermi raccontano l’antefatto della performance: è una rivisitazione del mito greco del Minotauro e del 

labirinto, focalizzato più che sull’uccisione del mostro e sulla liberazione di Arianna da parte di Teseo, 

sulla vicenda del ritorno di Teseo e dei suoi compagni a casa. I giovani eroi avevano promesso ai loro 

concittadini che, se fossero riusciti nell’impresa, avrebbero issato sulla loro barca delle vele bianche al 

posto di quelle nere con le quali erano partiti. Nella foga della partenza, dimenticano questa promessa e 

tornano con le vele nere. Questa dimenticanza provoca una serie di catastrofi e semina la morte (nella 

leggenda originale, l’unica reazione alla vista della nave era “soltanto” il suicidio del padre di Teseo, Egeo, 

che gettandosi in mare gli dà il suo nome). Mentre dei giovani uomini oscillano incappucciati, si 

avvicendano sugli schermi immagini di statue dell’antica Grecia, Korai e Kouroi in particolare, e immagini 

documentarie di volti sfigurati dalla guerra. Dopo questa serie di volti, sugli schermi appaiono immagini 

di Venezia colpita durante la prima guerra mondiale, provenienti dall’archivio Fortuny e scattate 

dall’artista stesso. In una composizione iconografica che fa del montaggio la sua tecnica di messa in 

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relazione, emergono le analogie, tra l’arte antica sfigurata, i giovani soldati deturpati e Venezia colpita e 

sfregiata anch’essa. Intanto il telo azzurro/argento che fa da sfondo all’oscillazione degli uomini – la nave 

era il punctum della narrazione – si alza e una statua animata e dorata inizia a oscillare anch’essa, poi si 

ferma, a indicare il cielo, ed entrano in scena delle fanciulle vestite di nero che la circondano con una 

danza ritmata. I riferimenti a Fortuny non sono biografici ma iconografici: il labirinto, la Grecia, l’oro; per 

assonanza con il nome dell’ospite del palazzo, siamo anche portati a vedere nella divinità dorata la 

Fortuna. La danza delle vestali intorno alla dea è animazione di una ruota –la ruota della fortuna?‐ mentre 

formalmente traduce in termini spaziali la tipica decorazione di un vaso greco: la posizione delle mani e 

dei piedi delle danzatrici, il loro offrire viso e corpo solo di profilo, rimanda a quell’iconografia. Il 

movimento di rotazione si riproduce sulla colonna sonora, che si avvolge e riavvolge in un loop ipnotico.  

Iconofilia ed iconoclastia sono temi dominanti nell’arte degli Anagoor, artisti che hanno scelto la 

figuratività come modo di organizzazione del visibile e che portano in scena, come molti registi teatrali 

coetanei, un teatro di figura vicino alla performance artistica. È proprio la “figura”, a mio avviso, il loro 

oggetto d’indagine artistica, dall’immagine tratta dalla storia dell’arte che ha perso l’aura per eccesso di 

visibilità alle figure retoriche sclerotizzate; il loro tentativo è di rendere queste immagini impoverite di 

nuovo vive e significanti. Sul tema dell’iconoclastia, letta nei visi deturpati del montaggio di Ballo Venezia, 

sviluppano una narrazione vera e propria nell’episodio precedente a questo, Wish me luck: in questo video, 

dei giovani si preparano a un’operazione vandalica; tra le pareti ormai spoglie e sconsacrate della Chiesa 

della Misericordia, si vestono con jeans e felpe con il cappuccio mimando il look dell’adolescenza anonima 

che si aggira nelle nostre città. Terminato il rito della vestizione, si armano di bastoni ed escono, passando 

per sottoporteghi e canali. L’obiettivo del loro vagare è un gruppo di gondole ormeggiate sulla riva del 

Canal Grande. L’ultimo piano‐sequenza ritrae uno degli incappucciati che, sollevato il bastone con 

violenza, è pronto ad abbatterlo sul ferro di prua di una gondola. Non vediamo però l’atto della 

distruzione. Il riferimento è storico, ed è ripreso da un saggio di André Chastel che racconta che nel 1507: 

“Tutte le gondole in Canal Grande furono fracassate. Il mattino seguente, Venezia risvegliandosi, 

ammutolì di fronte allo scempio, cattivo presagio”. 

Con la proiezione di questo video, prologo alla performance Ballo Venezia, vediamo ancora una volta 

l’immagine della città lagunare e dell’acqua apparire all’interno di questo palazzo; come era stato per le 

opere di Studio Azzurro e di Greenaway, video e suoni popolano l’ambiente “svuotato” del palazzo. La 

performance si svolge in due tempi: il primo tempo, consistente nella scena della danza, lascia lo spettatore 

frastornato e quasi ipnotizzato dai ritmi ripetitivi della musica e dei passi; in questo stato d’animo, sente 

delle voci femminili venire da lontano. S’incammina per i labirinti del palazzo, dove le voci si incanalano e 

riecheggiano, fino a trovare due cantanti vestite di nero all’interno di una piccola stanza del primo piano. 

Anche l’elemento fantasmatico, che abbiamo ritrovato più volte nelle installazioni create per Palazzo 

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Fortuny, è centrale per il lavoro degli Anagoor. 

La strategia seguita dall’istituzione museale è dunque di mettere in interazione la collezione 

permanente con la ricerca sulla comunicazione visiva attuale. Non a caso alla messa in scena dell’opera, 

è seguito un workshop, realizzato insieme al Teatro Fondamenta Nuove all’interno del Palazzo. 

L’accostamento con le collezioni di Van Vervoordt fa emergere l’eclettismo e la cultura di Fortuny, così 

come le opere di Greenaway e degli Anagoor permettono di selezionare e di far emergere dei tratti di 

contenuto dell’opera di Fortuny che non riemergerebbero ugualmente se le opere messe in mostra 

avessero unicamente un legame di contemporaneità storica con l’opera e il palazzo di Fortuny. Gli 

anacronismi sono una forma di montaggio che genera nuovi significati attraverso l’accostamento 

apparentemente incongruo di oggetti. La traduzione dell’antico nel nuovo permette di dare nuovo 

senso all’opera d’origine, a rileggere anche le attività di Fortuny con un nuovo occhio. 

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5. L’azienda Fortuny: a tappe verso l’innovazione

 

Il museo è finora riuscito a creare in parallelo all’attività di conservazione un’operazione di rilancio 

attraverso una buona programmazione di mostre temporanee e workshop. L’azienda dovrebbe provare 

a fare la stessa cosa, nei suoi termini e con i suoi limiti, che sono forse ancora più vincolanti di quello 

del museo. L’unico modo di far rivivere i prodotti di Fortuny è quello di creare un progetto nuovo; 

richiamare l’elemento storico attraverso l’innovazione. Come per il museo sarebbe mortifero mantenere 

per anni identica la collezione permanente, senza associarla a mostre temporanee, così per l’azienda 

sarebbe letale ripetere per secoli la stessa produzione occupandosi semplicemente della sostituzione dei 

tessuti là dove si sono usurati. Come abbiamo già visto, i modi per tirar su un marchio storico che sta 

perdendo attrattività, è di investire in ricerca e tecnologia. 

Come si sta comportando l’azienda? Prima di tutto, è avvenuto un cambiamento sostanziale a livello 

gestionale. Da quando Elsie Mac Neill aveva rilevato la gestione della fabbrica nel 1950, l’assetto 

proprietario è stato americano al 100% e gli uffici decisionali ed esecutivi si trovavano a New York, in 

un’area tanto prestigiosa quanto estranea al contesto italiano come il Decoration and Design Building 

sulla 3rd avenue. Venezia è invece rimasta per tutti questi anni sede della produzione, decentrata 

rispetto agli uffici di amministrazione, e lontana anche dal passaggio dei potenziali clienti. Adesso i 

proprietari hanno deciso di investire su Venezia, creando un ufficio di management in loco (nella 

persona di Giuseppe Iannò) che, sebbene non abbia piena autonomia gestionale, cura le pubbliche 

relazioni e i rapporti istituzionali, ed è referente affidabile e attendibile sul territorio. I proprietari 

americani hanno dunque deciso, in modo abbastanza anticonformista rispetto ai tempi, di rilocalizzare 

l’azienda e soprattutto la distribuzione a Venezia. Venezia è diventata anche un centro per la 

produzione e l’ideazione delle nuove linee: un’altri figura importante che ha base a Venezia è il 

designer del gruppo Fortuny (Pietro Lunetta) incaricato proprio di pensare nuove linee di prodotto che 

siano coerenti con la marca, che abbiano un legame con la tradizione ma che siano innovative. 

Ci sono stati anche notevoli investimenti sul piano dell’immagine, non solo perché i responsabili 

Fortuny a Venezia sono personificazioni dell’azienda e quindi ne comunicano i valori, ma anche dal 

punto di vista della comunicazione, c’è un nuovo logo e una nuova etichetta. Ciò che la comunicazione 

veicola è però principalmente il valore dell’autenticità, della legittimità e dell’originalità. 

L’investimento sulla tecnologia e sulla ricerca sta prendendo piede nelle proposte progettuali per il 

design dei nuovi oggetti, ma non è ancora visibile. L’unica forma di innovazione tecnologica rilevabile 

è al momento l’applicazione per i‐pad e i‐phone che permette di visualizzare sugli schermi di questi 

dispositivi tecnologici tutte le possibili gamme di tessuto disponibili, dai motivi ai colori.  Nuove 

proposte di prodotto si stanno faticosamente facendo strada, nonostante problemi di copyright per cui 

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questi prodotti non possono essere chiamati con il nome Fortuny; ma soprattutto si sta lavorando molto 

sulla distribuzione, sullo show‐room e cominciano a fare capolino idee di mecenatismo artistico. 

 

5.1 Nuovi prodotti, nuove linee, nuove collaborazioni

 

La Tessuti Artistici Fortuny produce in primo luogo cotoni stampati, con gli stessi metodi e gli stessi 

motivi che aveva ideato e realizzato Mariano Fortuny un secolo fa. È l’unica azienda che possa farlo e 

che detenga i diritti dei motivi disegnati dall’artista. 

Fortuny SPA si rivolge a un mercato d’alta gamma che difficilmente accusa gli effetti della crisi. ll suo 

prodotto, essendo semilavorato, è destinato al mercato dei decoratori che scelgono i tessuti adatti 

all’arredamento dello spazio che hanno in gestione, ed effettuano ordini di grande entità in termini di 

metratura. Il destinatario non è dunque l’utente finale ma l’intermediario. Si tratta solitamente di 

grandi investimenti e di progetti la cui esecuzione si estende sul lungo periodo: per questo motivo, gli 

effetti della crisi sono ancora difficili a vedersi, risalendo gli ordini attuali a progetti di qualche anno fa. 

In compenso il mercato intermedio – quello relativo agli scampoli e alle piccole metrature di tessuto – 

ha subito un deciso calo. In generale però l’azienda non è in perdita, non ci sono stati né 

ridimensionamenti né licenziamenti, nonostante la maggior parte degli ordini vengano dal paese più 

colpito dalla crisi, cioè gli Stati Uniti. 

Ci sono stati però decisivi cambiamenti negli ultimi due anni, non a causa della crisi globale, ma 

piuttosto a causa dell’emergenza di una concorrenza che relegava la fabbrica di tessuti in un ruolo di 

secondo piano. Venetia Studium che, oltre alle lampade, vende prodotti finiti come borse e sciarpe a 

destinatari finali, può sembrare l’ultimo polo della filiera che utilizza il tessuto semilavorato Fortuny 

per realizzare oggetti Fortuny. Non è così: le stoffe utilizzate da questa marca non sono e non possono 

essere degli originali Fortuny. Per evitare questa confusione, la soluzione sarebbe in apparenza 

semplice: concedere a Venetia Studium la licenza d’uso delle stoffe Fortuny. Ma questa soluzione facile 

non appare possibile alla luce del diverso posizionamento che le due aziende hanno assunto nel tempo: 

una non potrebbe assumersi i costi di un tessuto originale Fortuny, e l’altra si sentirebbe svilita 

dall’asservimento del proprio progetto di marca agli orientamenti del mercato e alla dittatura della 

domanda. Fortuny ha dunque seguito due strategie: da una parte la difesa della propria eredità, con 

campagne di comunicazione volte a sottolineare il lignaggio del proprio marchio; dall’altra, 

timidamente, l’innovazione. L’innovazione ha finora seguito tre vie: 

1. La riesumazione di pattern disegnati da Fortuny ma mai stampati su tessuto e la loro realizzazione 

in diverse colorazioni. Due nuovi pattern, Onde e Papiro, sono motivi semplici ed eleganti, che si 

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adeguano perfettamente al gusto moderno e nello stesso tempo sono “firmati” da Mariano Fortuny. 

Sono stati inseriti nell’ultima collezione, quella del 2010. 

2. La ricombinazione su richiesta: spesso clienti particolarmente esigenti richiedono la realizzazione 

di tessuti combinando colori e motivi che non erano mai stati considerati insieme da Fortuny. 

Pigmenti e pattern rientravano nel paradigma di scelta, la loro combinazione non era mai stata 

realizzata. Un’innovazione anche questa, certo, ma a partire da una grammatica precisa con un suo 

lessico predeterminato. 

3. L’ideazione di nuove linee di accessori per la casa e di mobili. Questa operazione è sicuramente la 

più delicata, perché prevede una progettazione che vada oltre la tintura e la stampa dei tessuti. È a 

tutti gli effetti un’estensione di linea e uno straripamento nel territorio del prodotto finito. Una tale 

“rivoluzione” va realizzata gradualmente: il prodotto finale deve necessariamente utilizzare le 

stoffe stampate in fabbrica o almeno riprendere i motivi disegnati da Fortuny. Poi deve ovviamente 

veicolarne i “valori di marca”, essere destinata allo stesso pubblico che si serve del lavoro dei 

decoratori, se non ai decoratori stessi. 

 

La realizzazione del prodotto finito è anche un modo per saltare lo step del decoratore. Non avendo 

controllo sul prodotto finale realizzato da tale figura professionale, chi produce materiale semilavorato 

può trovarsi di fronte agli usi e abusi più disparati da parte del designer: oggetti come cornici per la 

televisione, cucce del cane in tessuto Fortuny, che pure sono stati realizzati, non rientrano sicuramente 

nel gusto e nella sobrietà che i gestori del marchio imporrebbero ai prodotti finiti, se li fabbricassero 

direttamente. E’ sembrato utile dunque, giustamente, far crescere dentro la fabbrica figure professionali 

che potessero progettare anche oggetti con destinazione finale d’uso. È ancora una fase sperimentale 

che si sta servendo della collaborazione con altre fabbriche e altre maestranze, in primis le vetrerie 

muranesi. I primi oggetti che sono stati realizzati sono delle lampade da tavolo dal nome Madrazo: la 

base delle lampade consiste in un vaso; la corolla è realizzata con stoffa Fortuny. La luce può essere 

accesa o alla base, o sulla corolla, o su tutte e due le parti della lampada. È rispettata una proporzione 

aurea tra la base e la corolla ed entrambe sono intercambiabili: si può scegliere una combinazione 

diversa. Le lampade hanno delle variazioni di colore multiple essendo basate sulla combinazione di 

vasi di diversa colorazione e di tante corolle quanti sono i motivi disegnati da Fortuny. Si possono 

realizzare su ordinazione dell’utente, se predilige una combinazione non ancora realizzata. La 

domanda da porsi è se questo tipo di oggetto sia in linea con i valori di marca tradizionali di Fortuny. 

Non ci sono rischi: la corolla è fatta dei suoi tessuti e l’oggetto è piuttosto tradizionale; ci sono però 

degli elementi di innovazione: intanto la modularità e la separabilità delle parti; poi la 

multifunzionalità del vaso, che può essere usato sia come vaso che come lampada, e, ovviamente, la 

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combinazione tra i due (che è il primo modo di invenzione del nuovo). C’è anche un sistema funzionale 

innovativo che consiste nella realizzazione di un pezzo unico in plastica che unisce la corolla all’anello 

dove si situa la lampadina. 

Il secondo oggetto deriva dalla collaborazione dell’azienda con Vistosi: si tratta del lampadario Rui, dal 

nome tradizionale che hanno i dischi di vetro piombato soffiato a Murano. I dischi di vetro lasciano 

intravedere al loro interno dischi di tessuto Fortuny: il risultato è un lampadario per sospensione che 

ricorda i mobiles di Calder, variegato nella colorazione, che trasmette una luce sfaccettata e in 

movimento. L’estetica è vicina agli anni Settanta. Anche in questo caso, il prodotto può essere 

customizzato a seconda  dei gusti dell’acquirente. 

Sulla stessa combinazione tra vetro e tessuto si basa Garbo, un lampadario a bracci tipicamente 

muranese, con del tessuto invisibilmente insinuato dentro il vetro soffiato e scanalato. 

È nuova anche la tradizionale lampada Pallucco con tessuto Fortuny. Normalmente la lampada è a 

fondo bianco nella parte concava, nero nella parte convessa. Fortuny ha sostituito questo fondo con i 

tessuti colorati. Il risultato è elegante, ma difficile dire se sia nello spirito di Fortuny, che distingueva 

una lampada ornamentale, come quelle orientaleggianti, da una lampada utile, come quella a semisfera 

riflettente. 

Della nuova collezione fanno parte anche dei cuscini, disegnati e realizzati da famosi designer come 

Barry Dixon: come le lampade, combinano insieme vetro e stoffa, poiché sono realizzati con tessuti 

Fortuny e trapuntati di perle di Murano. Meno tradizionale è il cuscino progettato da Monique Gibson 

che ha degli inserti in rafia, materiale ruvido e grezzo, apparentemente in contrasto con la morbidezza 

dei cotoni. 

Come abbiamo visto in 2.2, il prodotto è la manifestazione più sostanziale della marca, che può 

ridefinirne l’etica. L’estensione di linea di Fortuny si è finora spinta soltanto a settori limitrofi 

utilizzando sempre il prodotto principale che è il tessuto. Il vero spostamento consiste, come già detto, 

nel target: il prodotto finito è destinato a un utente finale e non a un intermediario. Iniziando a 

conquistare la fiducia dell’utente finale, ci si può gradualmente spostare verso campi di produzione più 

avventurosi. 

 

5.2 Il marchio è la firma

 

Il logo di Fortuny Inc. è, per il momento, una firma, la firma di Mariano Fortuny riprodotta. 

La base line legata al logo‐firma recita: “The signature of beautiful fabrics”, selezionando tra le proprietà 

visive, ma anche del contenuto, del marchio, il fatto che questa è una firma. I valori della marca sono da 

ritrovarsi proprio in quella firma. Le stoffe sono firmate e sono dunque originali e opere di genio. La 

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bellezza delle stoffe è garantita da una firma che appartiene al creatore originario. Eccoci precipitare nel 

pieno dei paradossi della griffe: come fa un prodotto allografico, creato in serie a essere firmato come se 

fosse un’esecuzione unica? Come fa un logo, che è un oggetto multiplo che ricorre in tutti i prodotti della 

stessa casa madre, ad essere una firma, cioè un oggetto la cui esecuzione è unica? Come fa un morto a 

firmare le proprie creazioni? 

Porsi queste domande significa restare nel campo dell’ontologico e del referenziale, perché è chiaro che la 

riduzione di un logo a firma altro non è che una strategia di comunicazione che ha come scopo quello di 

creare una finzione di istanziazione effettiva: mentre la firma è traccia di un gesto, residuo di un’azione 

autoriale, e ha variabili istanziative uniche e autografiche, il logo ha un regime allografico e le sue modalità 

di esecuzione vanno dalla matrice alle repliche. L’autorialità di marca è un regime autografico a oggetto 

multiplo, ma il logo permette di allontanarsi dal processo di produzione. La vera via di mezzo tra firma, 

traccia enunciazionale, e logo, disincarnato e nomade rispetto al momento della produzione, è, secondo 

Pierluigi Basso, la griffe:  “La griffe regola la coesistenza tra regime allografico dei prodotti tipico delle arti 

applicate e industriali e il regime autografico della firma” (Basso, 2007: 135). 

Qui però non siamo neanche nel campo della griffe, ma in un universo puramente finzionale, dove nella 

firma c’è solo il simulacro di un gesto. L’autorialità e l’originalità entrano così a far parte delle proprietà 

testuali del prodotto, legate alle forme dell’espressione del logo che rimandano all’improvvisazione, all’hic 

et nunc dell’esecuzione della firma. La firma resa logo è la messa in discorso della dichiarazione di 

autenticità, contro tutte le forme di imitazione. Il fatto insomma che manchi un logo, un emblema 

riconoscibile nel caso di Fortuny, non è una mancanza, ma una scelta, necessaria a mantenere il legame 

diretto tra autore e prodotto senza scadere nella replicabilità della produzione di massa. 

Abbiamo visto in 3.1.7 come la marca ha fatto in modo che lo stesso Autore diventasse manifestazione 

dell’etica e dell’estetica legate al marchio: nel caso di un designer vivente, è facile trasformarlo in 

rappresentante di sé stesso e del proprio gusto; nel caso di un designer che non vive più, bisogna 

selezionare i tratti del suo carattere e del suo stile che possono valorizzare la marca, e soprattutto crearne 

degli epigoni, che facciano da “testimonial rinforzati”, come ha fatto Karl Lagerfeld per Chanel. 

Fortuny usa la firma come marchio, e questa è a nostro avviso una forma di reazione all’uso che altre 

marche fanno del nome Fortuny. Esaminiamo Venetia Studium, che utilizza il nome Fortuny sulle 

copertine delle sue brochure e dei suoi cataloghi. È in stampatello maiuscolo, in stile classico, la U è 

diventata una V, come nelle lapidi romane. Il logo è simile a quello di Bulgari, dove i caratteri serif e la 

caratteristica V vocalica rendono omaggio al classicismo italiano. Sotiris Voulgaris, infatti, fondatore 

dell’azienda, era nato in Epiro, e portava nei suoi gioielli il classicismo greco. La traslitterazione italiana 

del suo cognome divenne in seguito BVLGARI: nel passaggio dal greco all’italiano, si perde il dittongo e si 

consonantizza una vocale, alla romana. A prescindere da questi giochi linguistici, il lettering del marchio 

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rimanda all’ispirazione all’arte greca e romana presente nei pezzi di Bulgari. È la stessa fascinazione per 

l’Italia antica che si vuole trasmettere nel logo FORTVNY. La storia del maestro fondatore è parallela a 

quella di Bulgari: un nobile spagnolo affascinato dal’Italia e soprattutto dal Rinascimento italiano, si 

insedia in questa nazione e qui fonda la sua impresa. 

Il riferimento al mondo classico e soprattutto al passato romano dell’Italia è anche nel nome Venetia 

Studium: segno di tradizione e di appartenenza del marchio alla tradizione italica. Lo studium non è 

semplicemente lo “studio”, l’applicazione all’apprendimento, né è il luogo dove si esercita la ricerca. 

Seguendo la distinzione che ne fa Roland Barthes dal “punctum” nel celebre passo de “La Camera 

Chiara”, lo studium è la curiosità disinteressata risvegliata dalla contemplazione della maggior parte delle 

fotografie: un interesse soddisfatto da una serie d’informazioni che solo la precisione dell’immagine 

analogica può fornire, “l’applicazione a una cosa, il gusto per qualcuno, una sorta d’interessamento, 

sollecito, certo, senza nessuna intensità”.  Il punctum invece è una folgorazione, che arriva inaspettata 

quando si guarda una fotografia. È chiaro che gli ideatori del logo Venetia Studium non si riferivano a 

Barthes quando hanno coniato il nome dell’azienda, dato che il termine studium è il “polo negativo” della 

distinzione barthesiana, e si riferisce a una lettura figurativa piuttosto superficiale dell’immagine, non a 

quello che rende la fotografia opera d’arte. Resta però il riferimento all’applicazione, alla laboriosità e alla 

curiosità dell’invenzione, caratteristiche della personalità eclettica di Mariano Fortuny. Il riferimento allo 

“studium” mette tra l’altro l’accento sulla ricerca piuttosto che sul mero lavoro manuale. Il logo di Venetia 

Studium rimanda a uno schizzo tratto da un quaderno di disegni tessili di Giovanni Bellini, ed è simile a 

un altro disegno utilizzato da Fortuny negli anni Venti come copertina di un suo catalogo di stoffe. Il 

riferimento ad autori del XV secolo come Bellini mostra la forte volontà del marchio di continuità con il 

periodo rinascimentale e in generale con il glorioso passato veneziano. 

Venetia Studium si è impossessata del marchio e l’ha registrato, ma non può apporre la firma, perché 

l’unico originale legittimo erede della tradizione di Fortuny è l’impresa concorrente che, nella frustrazione 

di non poter produrre accessori per la moda, continua a firmare le belle stoffe. 

 

5.3 Etichette: fiumi di parole

 

Loghi e firme si trovano su brochure, cartoline ed etichette, paratesti utili a decifrare il discorso di marca di 

Fortuny. Dall’analisi testuale della presentazione dei prodotti, emerge una decisa centralità del valore 

dell’autenticità. L’azienda è effettivamente uno dei pochi casi in cui la marca è davvero radicata in un 

territorio per contratto: nel gentlemen agreement firmato da Maged Riad e la Contessa Mac Neil‐Gozzi è 

firmata una promessa a non spostare mai la produzione da Venezia. L’autenticità, l’originalità e l’unicità 

dei prodotti è inoltre garantita dal segreto più assoluto che vige sulle materie e i metodi di produzione. 

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Sulle etichette dei prodotti, anche quelli più piccoli e meno cari, come i quaderni o gli scampoli di tessuto, 

un lungo testo dice: 

 

“Questa  stoffa  è  il  leggendario  e  incomparabile  tessuto  Fortuny,  fabbricato  ancora 

oggi artigianalmente nell’isola della Giudecca a Venezia usando le stesse macchine e 

le stesse tecniche segrete elaborate e studiate da Mariano Fortuny quasi un secolo fa. 

Questo processo esclusivo, mai replicato  in nessun’altra parte al mondo nonostante 

numerosi tentativi, riesce a fissare per ogni singola produzione il momento preciso in 

cui è stata eseguita, conferendole la caratteristica di pezzo unico e irripetibile. È per 

questo motivo che queste stoffe sono considerate un “momento di storia veneziana”. 

La fabbrica Fortuny e il museo Fortuny sono gli unici luoghi ove è possibile scoprire 

l’ingegno di Mariano Fortuny attraverso  i suoi autentici tessuti, le sue opere e  i suoi 

prodotti originali” (grassetto nostro). 

 

Il discorso del marchio Fortuny verte per il momento quasi esclusivamente sul valore di autenticità del 

prodotto e di unicità del suo processo di produzione. Il discorso sull’autenticità è mirato a difendere 

l’oggetto dalle imitazioni e dalle contraffazioni: da questo dipende l’utilizzo di termini come 

“incomparabile”, “esclusivo”, “mai replicato”, “autentico”, “originale”), o piuttosto per costruire 

l’immagine dell’Altro come “impostore”, qualcuno che realizza un prodotto senza averne la competenza. 

Il discorso è chiaro ed esplicito, ma siamo sicuri che sia efficace? L’etichetta avrebbe infatti il ruolo di 

“parlare della marca e del suo universo con eleganza e concisione” (Chevalier, Mazzalovo, 2008: 109). Con 

questo tipo di etichetta invece, Fortuny si pone sulla difensiva, esplicitando la proprietà intellettuale sui 

propri tessuti, non costruisce un discorso originale, positivo, sintetico ed esauriente. 

Le etichette logorroiche, tradotte in termini semiotici, dichiarano che gli artigiani Fortuny sono gli eredi di 

una tradizione alchemica e segreta che conferisce loro la competenza adatta a produrre il tessuto. In una 

società dove la contraffazione è diventata lo spauracchio dei grandi marchi, l’autenticità, l’identità del 

Destinante, diventa il primo valore da proteggere. Il contratto fiduciario che si innesta tra venditore e 

compratore implica quest’aderenza ai valori di eredità, tradizione, non assoggettamento alle regole del 

marketing. Il discorso sull’autenticità veicola dunque un messaggio negativo (la difesa) ma anche un 

messaggio positivo e che è comune nella comunicazione attuale dei prodotti di lusso: l’unicità, la relazione 

diretta e materiale con il lavoro, la dimensione artigianale e il legame con il territorio di provenienza. 

Bisognerebbe veicolare questo valore in modo più implicito ed elegante, senza ripetizioni e ridondanze. 

  

 

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5.4 Rassegna Stampa: della discrezione

 

Fortuny non fa pubblicità. Ovvero, non la fa nel senso tradizionale del termine, ma sicuramente si avvale 

di un buon sistema di comunicazione. Questo disprezzo nei confronti della pubblicità aveva avuto inizio 

già ai tempi in cui Mariano Fortuny decideva le sorti della sua azienda: la sua breve collaborazione con 

l’AEG lo aveva reso insofferente nei confronti dei meccanismi industriali e più propenso verso forme di 

marketing personali e di breve raggio. Aveva dunque privilegiato un tipo di comunicazione basata sul 

passaparola, il che creava un circolo di estimatori che si passavano la voce sui suoi capi e i suoi tessuti, 

piuttosto che un sistema di comunicazione impersonale. Eppure, con la crescita dell’azienda a livelli 

industriali e l’apertura di negozi a Londra e Parigi, si fa sentire la necessità di aumentare il raggio dei 

destinatari della comunicazione. Escono quindi, sui giornali francesi, delle inserzioni pubblicitarie. In tutti 

i numeri della rivista Les Modes del 1914 appare la stessa inserzione, la fotografia di una veduta del Palazzo 

Pesaro degli Orfei con l’indicazione degli indirizzi dei tre negozi: l’officina a Venezia, il negozio di Parigi e 

il negozio di Londra. Nel Les Modes di Marzo 1914, viene adottata una strategia di marketing tipica dei 

nostri giorni: tutto il giornale è tematizzato su Venezia. L’editoriale del direttore Albert Flament, intitolato 

“Les peintres de Venise”, è molto critico sul turismo mordi e fuggi che infesta la città: a suo avviso ci 

dovrebbero essere più viaggiatori interessati alla pittura delle chiese veneziane, e meno turisti che 

scelgono Venezia solo come meta di turismo balneare. Tra le pagine del giornale, sono riprodotti in bianco 

e nero con i pochi mezzi dell’epoca, in cui stava emergendo il medium fotografico, delle vedute di 

Francesco Guardi. In questo numero, dedicato alla pittura veneziana, appare non a caso l’inserzione 

pubblicitaria di Fortuny. 

Anche oggi l’azienda rifiuta di ideare campagne pubblicitarie, anche perché il suo destinatario non è il 

singolo acquirente, quanto piuttosto l’arredatore, che suggerisce al compratore lo stile con cui arredare la 

propria casa. I tessuti Fortuny appaiono dunque all’interno dei servizi sui giornali specializzati, non in 

forma di inserzione pubblicitaria, ma nel contesto di reportage fotografici costruiti appositamente sulle 

case “in stile”. Le riviste nelle cui pagine abbiamo trovato riferimenti ai tessuti Fortuny sono americane e 

tutte di matrice piuttosto conservatrice: “Traditional Home”, “House and Gardens”, “Classical American 

House”, “Art & Antiques”, “House Beautiful”. Più raro trovare dei servizi che inseriscano tessuti Fortuny 

sui giornali italiani: come abbiamo già detto, l’azienda, forte negli Stati Uniti, non si è ancora imposta sul 

mercato italiano. La stampa italiana copre piuttosto le mostre che si svolgono a Palazzo Fortuny e racconta 

la storia dell’eclettico Mariano ma non abbiamo visto, nella stampa specializzata, dei servizi dedicati ai 

tessuti. La cosa è stata dovuta più che altro a una mancanza di rapporti con il territorio: ora che si è creato 

questo nucleo di management centrato a Venezia, è più facile entrare in contatto con le reti locali. In 

particolare, Fortuny è entrata naturalmente in contatto con il mondo degli albergatori e dei tour operator 

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locali. Un effetto di questi contatti è l’inclusione della fabbrica tra le mete degli itinerari organizzati: esiste 

un “itinerario Fortuny” che va dal Palazzo alla Giudecca; un altro effetto è stato l’inserzione di una 

pubblicità di Fortuny in un opuscolo distribuito negli alberghi veneziani di lusso (sopra le tre stelle), 

L’ospite di Venezia. Si tratta di una fotografia a tutta pagina che rappresenta l’edificio della fabbrica di notte 

visto dal canale della Giudecca. Il pay‐off recita “Fortuny: the original name, the original factory, the 

original fabrics”. Come nel caso delle etichette, viene enfatizzato il carattere di originalità e autenticità 

della fabbrica, senza sottolinearne il valore aggiunto. Lo scopo della strategia pubblicitaria non è rilevabile 

solo nel messaggio: la scelta di inserire questa pubblicità in un opuscolo distribuito solo in alberghi di 

lusso dimostra la scelta di puntare al turista che pernotta a Venezia e che ha una possibilità di spesa 

abbastanza elevata. Il target è uno straniero che ama molto la città e che si spinge nei suoi angoli più 

reconditi, e che, pernottando in città, ha anche la possibilità di accesso alla città la notte. Questo turista ha 

sicuramente interesse e fascinazione per un “Made in Venice” di alta qualità. 

Venetia Studium, come Fortuny, è piuttosto restia a svolgere campagne pubblicitarie, preferendo invece 

articoli e redazionali: ne ha ideate un paio negli anni Novanta dedicate unicamente alle proprie lampade. 

In una di queste immagini pubblicitarie, distribuite in qualche giornale di nicchia come AD, sullo sfondo 

di un tessuto damascato rosso e oro, pendono sei lampade “cesendello”, di cui una illuminata. 

L’ambientazione è dannunziana, e il rimando ai tempi d’oro dell’estetismo è segnalato anche dalla 

headline: “Venezia ‘900: luce di seta”. Gli ingredienti ci sono tutti: il tessuto e la lampada si sintetizzano in 

un sincretismo multisensoriale, la luce diventa morbida, il tessuto luminoso, in un luogo e in un tempo in 

cui la voluttà di vivere era tema dominante della letteratura e dell’arte (ma non delle avanguardie). 

Usando le tipologie di pubblicità ideate da Jean‐Marie Floch (1995) è chiaro che ci troviamo di fronte a una 

valorizzazione utopica, una pubblicità enfatica che prova ad ammantare l’oggetto di un alone di mistero e 

di esotismo, collocandolo in situazioni tutt’altro che abituali e quotidiane. La versione internazionale di 

questa campagna pubblicitaria “Silk Light” raffigura una stanza in cui i muri sono ricoperti di tendaggi ma 

piena di oggetti: a illuminarla un altro cesendello. Fanno da cornice frammenti di lampada ingrandita. 

Ci troviamo quindi in una situazione di mezzo, tra il genere mitico e il sostanziale: le lampade che fanno 

da cornice fungono infatti da catalogo in cui vengono mostrate da vicino le caratteristiche del prodotto. La 

pubblicità di Venetia Studium fa perno sulle qualità evocatrici di Venezia, utilizzate tante volte nel 

discorso pubblicitario. L’ambientazione veneziana contribuisce a dotare di fascino e di esotismo 

qualunque narrazione. Solo che, nel caso di Venetia Studium, l’ambientazione è motivata dall’effettivo 

radicamento sul territorio; in altri casi (Mulino Bianco, Citroen) è del tutto arbitraria. 

La diffusione dell’immagine di Venetia Studium in repotage e redazionali di riviste specializzate è molto 

vasta. Le lampade Venetia Studium appaiono in servizi di Architectural Digest (versione italiana e 

versione internazionale), Bravacasa, Marieclaire, Elle Decor, The New York Times Review. La politica 

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riguardo alla comunicazione è molto più ampia di quella di Fortuny: segno di un diverso tipo di 

ragionamento di mercato che mira alla produzione di grandi numeri e all’espansione. Fortuny invece mira 

a mantenere le stesse dimensioni, lo stesso fatturato e, soprattutto, e questo è il fondamento del suo 

discorso, la stessa qualità. 

La comunicazione Fortuny è mirata ai singoli arredatori, che sono conosciuti uno per uno e ai quali è 

sempre destinata un’accoglienza calda e amichevole alle feste e alle inaugurazioni dell’azienda. Ai tempi 

della direzione della contessa Elsie Mac Neill Lee Gozzi, la signora spediva ogni anno per Natale ai suoi 

principali clienti cartoncini di auguri. I cartoncini erano “brandizzati” con il marchio di Fortuny, ma vi era 

presente soprattutto l’elemento veneziano, vista la presenza del leone e delle fotografie rappresentanti 

l’architettura della casa della contessa (la Palazzina Gozzi). La contessa faceva stampare anche un numero 

limitato di piccoli depliant che mostravano i disegni delle stoffe e ne raccontavano brevemente l’origine e 

le influenze. La comunicazione oggi non è molto cambiata: singoli estimatori e arredatori sono coccolati 

dall’azienda che spesso organizza occasioni d’incontro. Se ne trovano tracce su vari blog di arredatori su 

internet, sempre entusiasti dell’esperienza veneziana e affascinati dai tessuti di Fortuny. Per citarne un 

paio: 

 

http://brookegiannetti.typepad.com/velvet_and_linen/ 

http://grantkgibson.blogspot.com/2009/06/fun‐at‐fortuny.html 

http://frenchessence.blogspot.com/2009/02/on‐my‐way‐to‐fortuny‐factory.html 

http://www.huffingtonpost.com/kathryn‐ireland/design‐leadership‐summit_b_557403.html 

 

5.5 Posizionamento di rete

 

Mettendo il nome Fortuny in un motore di ricerca, la prima voce dell’elenco risultante è 

www.fortunyshop.com, è categorizzata come annuncio pubblicitario; la seconda è www.fortuny.com . Il 

primo link pubblicitario appartiene a Venetia Studium che vende on line lampade e accessori e detiene il 

dominio www.fortuny.it che facilmente può essere confuso con l’altro sito, www.fortuny.com , 

appartenente all’azienda Tessuti Artistici Fortuny. Fino a poco più di un anno fa, tutte le voci principali 

che risultavano dalla ricerca erano relative a Venetia Studium, e già nei link elencati attraverso google, il 

nome Fortuny era accompagnato dalla ® commerciale, a indicare la detenzione del marchio, mentre non 

appare per l’altra azienda. La confusione tra le due aziende è totale: su Ideat, giornale francese dedicato 

all’arredamento, un redazionale parla di Fortuny e del suo museo e poi indica in un box laterale dove 

comprare i veri tessuti e oggetti Fortuny: si riferisce alle sciarpe, alle lampade e agli arazzi di Venetia 

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Studium ma dà l’indirizzo web di Fortuny Giudecca. Sovrapposizioni e confusioni di questo genere sono 

all’ordine del giorno. 

Il sito www.fortuny.com si apre con un’animazione flash che riproduce l’apposizione di una firma. Il 

corsivo della firma è segnale di una temporalità continua e progressiva (Burgio, 2007), un “farsi” del 

marchio nella linearità del tempo storico, un’indicazione del tempo presente. La firma è tracciata in rosso 

su sfondo fotografico in bianco e nero: la foto raffigura rotoli di tessuti sovrapposti l’uno sull’altro. Passata 

l’introduzione, la pagina si apre su uno slide‐show a colori: la prima immagine è quella di un’applicazione 

sull’i‐phone che permette di sfogliare tutta il campionario dei tessuti Fortuny scegliendone colore, stile o 

modello del disegno. Le altre diapositive raffigurano rotoli di stoffa della nuova collezione del 2010. Il 

testo a sinistra richiama l’attenzione sull’invenzione dell’applicazione per i‐phone, sull’apertura dei nuovi 

show‐room a Venezia in primavera e a New York in autunno, e sul lancio della nuova collezione. 

Le notizie della prima pagina web sono quindi tutte improntate sull’innovazione relativa a prodotti, 

tecnologie e spazi di vendita ed esposizione. 

Il primo link è dedicato non a caso al “lascito” di Fortuny: si racconta la vita di Mariano, la storia della 

fabbrica, del museo, dell’impronta lasciata nella moda dai vestiti e dai tessuti prodotti e la storia della 

fabbrica Fortuny dalla morte del maestro ai nostri giorni. 

Il secondo link permette l’accesso al catalogo della nuova collezione. Come nella pubblicizzata 

applicazione per i‐phone, si possono selezionare i tessuti adottando criteri di colore, disegno e stile. 

Possono essere visionati applicazioni sull’arredo e designer che hanno preso in carica la finitura dei nuovi 

disegni (Barry Dixon e Jeffrey Bilhuber). Un breve testo riguardante i due designer segnala l’avvenuta 

“sanzione fantasmatica” di cui abbiamo parlato precedentemente: “Fortuny would like to acknowledge 

those who have enhanced the beauty and timelessness of our fabrics through inspirational design”. 

Considerando che per la nuova collezione sono stati utilizzati disegni mai realizzati di Mariano Fortuny, 

viene da chiedersi se ci sia un motivo per cui lui li abbia scartati. In ogni caso, i nuovi pattern sono 

estremamente moderni ed eleganti. Sono mostrati i nuovi prodotti, tra cui le lampade, ma una frase 

avverte: “These are not Fortuny brand lamps”. Il marchio Fortuny per le lampade appartiene a Venetia 

Studium. Una linea che ha invece fatto aumentare le vendite è quella della cartoleria e dell’oggettistica: 

piccoli quaderni rilegati con stoffa Fortuny e cuscini di elegante fattura. Un settore del sito è dedicato alle 

notizie e alla rassegna stampa. Abbiamo già indicato precedentemente quali siano le riviste che coprono 

l’immaginario Fortuny. 

Quello che risulta dal sito è un forte desiderio di innovazione da parte dell’azienda. Prima di tutto il sito 

non esisteva fino a poco tempo fa e già la decisione di andare on_line dimostra una nuova attenzione al 

circuito mediatico contemporaneo. La semplicità e l’esaustività del sito mostrano un’attenzione 

all’usability design e l’importanza centrale è data ai tessuti e ai prodotti: già attraverso internet, si possono 

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studiare uno per uno i modelli di disegni che appaiono sulle stoffe. Certo la visione dal vivo è tutta 

un’altra cosa, ma il sito web permette sicuramente un primo orientamento. 

Dal sito un link permette di accedere al blog di Fortuny, gestito da Mickey and Maury Riad ed altri: è una 

gestione più informale delle notizie e delle informazioni. Se dobbiamo rimproverare qualcosa al sito di 

Fortuny, e probabilmente alla sua comunicazione, è di non mettere in mostra le applicazioni dei suoi 

tessuti negli hotel e nelle case private dei suoi acquirenti. Solo sul blog, troviamo l’informazione che Philip 

Johnson aveva utilizzato il tessuto piumette in rosa e oro per coprire le pareti di casa sua. Solo attraverso 

una navigazione casuale abbiamo ammirato la casa di Rush Limbaugh, giornalista conservatore, che aveva 

fatto tappezzare le sue stanze di tessuti Fortuny (non tutto però, a nostro parere, è di buon gusto in questo 

appartamento newyorkese con magnifica vista sullo skyline). E solo attraverso un’approfondita 

conoscenza della vita di Fortuny, sappiamo che con i suoi tessuti fu decorato il museo Carnavalet e di 

Parigi e il museo di Capodimonte a Napoli. Inoltre molte case veneziane e soprattutto molti alberghi, 

continuano a utilizzare per l’arredo i tessuti Fortuny. Da un articolo pubblicato sul Gazzettino, veniamo 

informati sul fatto che Matt Damon, Denzel Washington e Elton John (che,del resto, possiede una casa in 

Giudecca) hanno arredato i loro interni con tessuti Fortuny. Un’altra pecca è la rassegna stampa: manca 

l’analisi capillare delle riviste del settore, o la digitalizzazione degli articoli dei quotidiani, anche quelli 

riguardanti il museo, che sicuramente gioverebbero alla fabbrica stessa.   

I concorrenti non fanno questo errore, se di errore si può parlare: Venetia Studium sul suo sito espone una 

sezione “progetti” dove vengono mostrate le sue lampade nel contesto di hotel e ristoranti, dal Cipriani a 

Venezia allo Sheraton di Dubai. Espandendo il confronto anche ad altri classici creatori di stoffe veneziane 

come Rubelli, il suo sito ha tutta una sezione dedicata ai contratti con i grossi clienti, come gli hotel, le navi 

e i progetti speciali: scopriamo così che Rubelli (oggi sotto il marchio Donghia) ha prodotto tessuti per il 

Mulino Stucky hotel Hilton di Venezia, il museo Albertina a Vienna, lounge e suite delle navi Costa. 

Sarebbe insomma interessante che più attenzione fosse data ai testimonial, perché circolasse 

l’informazione sugli stili di vita di coloro che hanno scelto il marchio Fortuny. è chiaro che chi frequenta le 

case dei VIP viene a conoscenza del marchio, ma è davvero un abbassamento di livello insopportabile 

raccontare le storie di chi ha deciso di vivere in stile Fortuny a un pubblico di estimatori interessati?  

 

5.6 Sinergie tra azienda e museo

 

Il target group degli arredatori, seguiti uno per uno personalmente da Fortuny, si incontra periodicamente 

in eventi di settori come il Design Leadership Summit. L’ultima edizione è stata ospitata da Venezia. 

Fortuny ha colto l’occasione per inaugurare lo showroom veneziano e per presentare la nuova collezione 

di disegni per tessuto. Nel grande giardino prospiciente il canale che separa la fabbrica dal Mulino Stucky, 

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intorno alla splendida piscina degli anni Quaranta, si sono tenuti cocktail e cene. Gli arredatori hanno 

anche partecipato a incontri organizzati presso Palazzo Fortuny tra cui una conferenza di quell’Axel 

Vervoordt, collezionista e mercante d’arte, le cui analogie con Mariano Fortuny abbiamo già esaminato. È 

in questa occasione, il Design Leadership Summit del 2010, che si è manifestata per la prima volta la 

sinergia tra museo e azienda; le due istituzioni hanno infatti offerto congiuntamente l’uso dei loro spazi 

per un’iniziativa internazionale di promozione culturale e commerciale. La sinergia tra museo e azienda è 

stata sancita nello stesso periodo dalla collaborazione riguardante la progettazione dei nuovi motivi da 

stampare sui tessuti: la Fortuny SPA aveva infatti discusso con il museo della possibilità di utilizzare 

materiali d’archivio per realizzare disegni progettati ma mai stampati da Mariano Fortuny. E’ così che 

sono stati realizzati nuovi motivi come Onda e Papiro in diversi colori. Parte dei guadagni derivante dalla 

stampa di questi nuovi pattern è stata devoluta al Museo. La collaborazione tra le due istituzioni è stata 

dunque sancita da uno scambio economico‐produttivo. 

Il legame tra le due istituzioni è garantito ‐ banalmente – da un effetto ripetizione che il nome suscita: la 

fama di una accresce quella dell’altra. I rapporti tra un museo e un’azienda che abbiano lo stesso nome 

sono di solito di due tipi: o il museo è un’appendice comunicativa dell’azienda e le fornisce materiale 

storico‐culturale per legittimarla ed esporne la biografia (è il caso dei musei d’azienda); oppure l’azienda 

investe i propri capitali in un museo e s’impegna in una forma di mecenatismo (è il caso della Fondazione). 

Museo e azienda Fortuny hanno un legame storico ben preciso, essendo la fabbrica (oggi azienda) nata 

come prolungamento produttivo del laboratorio (oggi museo) durante la vita di Fortuny. Oggi sono del 

tutto autonome l’uno dall’altra, ma la loro collaborazione può produrre benefici per entrambe. Per 

l’azienda, il museo è una fonte inesauribile di capitale culturale e artistico; per il museo, l’azienda è utile 

non solo perché è sempre in grado di rifornire di arredi e materiale, ma anche perché dà continuità alle 

attività svolte da Fortuny ed evidenzia il lato produttivo di contenuti altrimenti musealizzati e a rischio 

obsolescenza. Azienda e museo potrebbero essere in partnership per la promozione delle arti. Una prima 

collaborazione istituzionale si avrà nell’estate del 2011, quando gli spazi esterni della fabbrica ospiteranno 

un evento collaterale della Biennale sostenuto da Palazzo Fortuny. Una forma di collaborazione si è già 

avuta per la messa in scena dell’opera della compagnia Anagoor: Palazzo Fortuny ha offerto lo spazio; 

l’azienda i tessuti per la realizzazione degli scenari. 

Una mostra come quella tenutasi da Aprile a Luglio 2010 (“La seta e il velluto”) ha messo in evidenza il 

rapporto tra azienda e produzione: la mostra esibiva abiti provenienti dalla collezione dei proprietari di 

Fortuny Inc. di New York (la famiglia Riad) e ripercorreva la storia della produzione di questa fabbrica, 

dallo spostamento dell’officina da palazzo Pesaro degli Orfei alla Giudecca fino alla fine della produzione 

di abiti come il Delphos negli anni Cinquanta. Accanto a pezzi vintage appartenuti a dame dell’alta 

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borghesia americana, altri capi sono direttamente forniti dall’azienda con indicazione del luogo di 

fabbricazione per chi volesse saperne di più. 

Inoltre, esiste nel museo uno spazio dedicato alla vendita: il bookshop, gestito da Skira. Vi sono esposti 

oggetti di marche appartenenti al design contemporaneo; molti pezzi sono di fabbricazione veneziana, dai 

vasi di Venini ai gioielli di Davide Penso; altri appartengono al design internazionale, dall’oggettistica di 

Gaetano Pesce ai contenitori in latta di Nussha Japanware. Tra tutti questi oggetti, dentro un piccolo 

armadio sono sistemati agende e notebook foderate di tessuto Fortuny. Attraverso l’introduzione di questi 

articoli nel negozio del museo, l’azienda trova non solo un punto di distribuzione della sua merce, ma un 

punto di comunicazione e diffusione dei valori del marchio. Le etichette ingrandite quasi in forma di 

manifesto esplicitano l’originalità degli articoli e ribadiscono il legame unico che la marca ha con il museo. 

È una forma discreta ed elegante di merchandising, che mostra un’azione di apertura al mercato da parte 

della fabbrica con una selezione attenta dei compratori: soltanto coloro che entrano nel museo, e quindi 

sono incuriositi o conoscono già la vita e le opere di Fortuny, sono degni dell’acquisizione di un oggetto da 

lui firmato. Gli articoli Fortuny presentati al museo utilizzano lo spazio non come spazio di vendita ma 

come spazio espositivo, si appropriano di una legittimazione che la sola presenza dentro il museo 

attribuisce loro.  

 

5.7. Distribuzione e showroom

Il bookshop del museo è oggi l’unico punto di distribuzione dei prodotti Fortuny nel centro di Venezia. 

L’unico luogo dove è possibile vedere e comprare prodotti a marchio Fortuny è la fabbrica. Eppure, 

anche adesso che è aperta al pubblico e ha una nuova gestione in loco, un informale sondaggio tra la 

popolazione veneziana mostra che per la maggior parte dei residenti la fabbrica è o chiusa, o 

inaccessibile, e, agli occhi dei più, l’unica attività legata a Mariano Fortuny sono il Museo e i prodotti di 

Venetia Studium, che invece vanta una rete di negozi in centro storico. Il negozio degli eredi Trois, in 

campo San Maurizio, che aveva l’esclusiva di vendita al dettaglio delle stoffe Fortuny, e che quindi 

permetteva la circolazione del marchio e dei prodotti nella città storica, ha smesso dal 2002 di trattare 

Fortuny, per decisione della casa madre stessa. Da qui la necessità di manifestare in qualche modo la 

presenza veneziana della fabbrica Fortuny e di curarne l’immagine. Da una parte continua a vigere il 

divieto di visita alla fabbrica Fortuny, in cui le modalità di produzione e le tecnologie utilizzate sono 

coperte da un segreto che sfocia ormai nel mistero e nella leggenda. Dall’altra però questa inaccessibilità, 

protetta dagli stessi artigiani che vantano di possedere competenze uniche e non comunicabili, è stata 

attenuata dalla apertura di un accogliente showroom, dove i clienti sono ricevuti in un ambiente arredato 

con tessuti Fortuny e oggetti facenti parte della collezione dell’azienda. Il nuovo showroom, aperto 

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dall’inverno di quest’anno, rientra dunque nella nuova politica d’impresa, che ha puntato su Venezia 

come nuova sede gestionale e non più soltanto produttiva. 

La nostra ipotesi progettuale che la crisi si affronti con un nuovo investimento sull’immagine, è stata 

dunque già stata cavalcata da Fortuny SPA, che sta cercando di restituire al suo marchio la caratteristica 

fondamentale dei suoi prodotti, la “venezianità”, puntando appunto sulla ri‐centralizzazione anche a 

livello geografico dell’impresa. Se è vero infatti che il marchio ha sempre avuto una proprietà 

internazionale – banalmente, lo stesso Fortuny era spagnolo, e sua moglie francese – è anche vero che quel 

tipo di internazionalità raffinata, amante dell’Oriente e del Rinascimento, collezionista, è da radicarsi 

proprio a Venezia, la cui caratteristica principale è quella di essere luogo di scambio e crogiolo di culture. Il 

“locale”, a Venezia, coincide con una connotazione positiva del termine “globale”.  L’apertura al pubblico 

dello showroom, inoltre, è supportata e agevolata anche dalla riqualificazione nell’ultimo decennio di tutta 

l’area in cui si trova, cioè la zona Ovest della Giudecca. Per quanto la Giudecca sia un quartiere isolato e 

non collegato tramite ponti al nucleo centrale di Venezia, l’area ha acquisito una nuova centralità e 

maggiore afflusso turistico a causa dell’apertura dell’Hilton nel vecchio Mulino Stucky, cui è seguita 

l’apertura di una filiale del Cipriani, l’Harry’s Dolci, nella stessa area; mostre d’arte e padiglioni della 

Biennale sono stati ospitati nella ex birreria Dreher e nell’ex monastero di San Cosma e Damiano e il nuovo 

quartiere dello Junghans, progettato dall’architetto milanese Cino Zucchi, ha favorito la residenzialità di 

nuovi nuclei familiari e attira continuamente architetti e amanti di architettura contemporanea in visita. 

I proprietari e gestori di Fortuny Inc. hanno deciso di aprirsi al pubblico soltanto quando hanno temuto 

che la concorrenza potesse offuscarne del tutto il marchio. Lo showroom ha aperto quattro anni fa, di fronte 

all’avanzata e al successo sempre maggiore di Venetia Studium, che, detenendo il marchio Fortuny per le 

lampade e il Delphos per i vestiti, rischiava di restare l’unica depositaria apparente del marchio. D’altra 

parte la cessazione dei rapporti con l’unico fornitore di Fortuny in città, ha reso indispensabile un nuovo 

punto di distribuzione. Quest’anno lo showroom è stato rinnovato, diventando un luogo piacevole e 

rilassante dove si vive in perfetto stile Fortuny. Il design dell’interno è stato curato da Barry Dixon. 

Abbiamo abbozzato un’analisi semiotica dello spazio dello showroom, distinguendo piano 

dell’espressione e piano del contenuto. Sul piano dell’espressione abbiamo distinto le componenti 

eidetiche, cromatiche e topologiche dello spazio,e il rapporto tra interno ed esterno: legato a questa 

opposizione il modo in cui lo spazio richiama e coinvolge lo spettatore esterno, il suo appello enunciativo, 

e il modo in cui l’autore si iscrive dentro il testo. 

Allo spazio interno si accede attraverso una porta che affaccia su un ingresso ai lati del quali si sviluppano 

due grandi stanze. In ingresso su un tavolino rotondo (coperto da tessuto Fortuny, ovviamente) è poggiato 

un mappamondo settecentesco. Il pavimento alla veneziana, di colore rossiccio in tutto il resto del negozio, 

presenta un’inserzione circolare proprio intorno al tavolino sui toni dell’azzurro e del verde acqua. Sopra il 

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tavolo pende il lampadario composto con rui veneziani creato in collaborazione con Vistosi (vedi par. 3.1). 

Gli elementi circolari ritornano nel resto dello spazio, facendone una componente eidetica fondamentale: a 

sinistra tre poltrone sono sistemate intorno a un pouf di pelle circolare che funge da piano d’appoggio; 

sotto il pouf un tappeto di forma circolare copre il pavimento. Tutti questi elementi sono borchiati con 

degli elementi rotondi. Nello spazio a destra una grande sfera di pietra poggia sul pavimento. La 

circolarità riecheggia nella grande lampada a riflessione da terra Fortuny (oggi Pallucco) e nell’altra 

lampada da scrivania. Al livello dei cromatismi e delle luminosità, la suddivisione dello spazio in due ali è 

netta: a sinistra rispetto all’entrata lo spazio è chiaro e luminoso, i tendaggi e la stoffa che copre le pareti 

hanno i toni del verde‐azzurro luminoso e le poltrone sono rivestite dei colori dell’oro e dell’acqua. Le due 

grandi finestre fanno entrare la luce del sole e della laguna e il suono è quello delle barche di passaggio. Le 

lampade in esposizione, una serie di Madrazo dalla base in vetro di Murano colorato e il cappello conico in 

tessuto Fortuny, illuminano ulteriormente lo spazio e lo accendono di vivaci cromatismi. 

Nell’ala destra rispetto all’entrata, i toni sono quelli del rosso mattone e la luce è bassa e artificiale, soffusa 

e omogenea perché proveniente dalle alogene di Fortuny. Una grande tenda aperta divide i due spazi: ha 

due facciate di colore diverso, corrispondenti ai colori delle due aree: una parte è verde‐azzurra, l’altra 

rossa e oro. Le poltrone dell’area destra sono rivestite di tessuto di colore rosa. Le pareti della stanza sono 

ricoperte di rotoli di stoffa di diverso colore e pattern e di espositori di pezzi di stoffa distesi. Al centro c’è 

un grande tavolo da lavoro in legno con un metro per tagliare le stoffe. 

Lo spazio ha quindi al suo interno elementi di continuità e di discontinuità: a creare continuità sono le 

rime plastiche dovute al ritorno continuo della forma circolare e la predominanza dei tessuti; a creare 

discontinuità sono invece luce e colori. Una rilettura di questa discontinuità sul piano del contenuto fa 

emergere una differenza di funzioni tra un’area e l’altra. L’area a sinistra dell’entrata è la zona‐giorno, 

zona destinata alla convivialità (poltrone in cerchio), alla lettura (riviste e cataloghi sono in esposizione) e 

al godimento estetico (vista dalle finestre ed esposizione di lampade e cuscini); l’area a destra invece è una 

zona di lavoro: il tavolo, il metro e la presenza di un’addetta alla vendita, alle spedizioni e alle pubbliche 

relazioni, che passa dal computer al telefono, ci segnalano la situazione “da ufficio”. Molto spesso su quel 

tavolo troviamo degli artigiani al lavoro, che tagliano pezzi di stoffa o compongono cataloghi. 

La presenza di forme circolari e avvolgenti mira a coinvolgere il visitatore, che si trova circondato da 

elementi morbidi e senza spigoli. La preminenza dei colori azzurro/verde/argento richiama il colore della 

laguna all’esterno e proietta la luce dell’acqua nell’ambiente interno, come succede a Palazzo Fortuny 

quando video‐artisti proiettano immagini acquatiche. 

Lo spazio dello showroom è in forte discontinuità rispetto all’esterno: non ci sono vetrine, ma due finestre 

alte, da cui è facile vedere l’esterno dall’interno, ma non viceversa; inoltre per entrare è necessario passare 

per due porte, che sono entrambe chiuse. La prima, quella che dà sulla fondamenta, è un grande cancello 

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nero in ferro, sempre chiuso, accanto al quale un’insegna informa della presenza della fabbrica Fortuny. 

per entrare bisogna dunque suonare. Una volta dentro, ci si trova in un corridoio esterno alla fine del quale 

una catena impedisce di andare oltre. A sinistra una porta a vetro, rigorosamente chiusa, fa da accesso allo 

showroom. Lo spazio non è dunque invitante e amichevole per un avventore che capiti lì per caso. Diventa 

però confortevole se si è preso appuntamento e se si viene accompagnati da qualcuno dello staff. Non 

dimentichiamo inoltre che ci troviamo su un’isola, la Giudecca, all’interno di una città che è essa stessa 

isola. Un sistema di impedimenti concentrici rende quindi estremamente difficile l’accesso allo spazio 

interno. Come visto inoltre nello showroom non ci sono commesse e addetti alla vendita che ci accolgono 

cercando in tutti i modi di rispondere alle nostre domande da compratori, ma solo persone che lavorano. 

Lo showroom appare allora insieme come spazio privato e luogo di lavoro, o piuttosto come luogo di 

messa in scena di queste due cose (perché il vero spazio privato è casa propria, e il vero luogo di lavoro si 

trova al primo piano della fabbrica, non la piano terra): sicuramente è luogo di rappresentazione delle 

condizioni di vita del “tipo” Fortuny: esteta e lavoratore; artista e tecnico. La presenza di giornali e 

cataloghi nella zona‐giorno la fa diventare uno spazio di lettura e conoscenza. In questo luogo 

multifunzionale che permette la conversazione, il lavoro e lo studio, esposizione e vendita sono solo due 

funzioni in più, tra l’altro non del tutto separabili. Infatti non è immediatamente chiaro cosa sia in vendita 

e cosa no: alcuni oggetti – lampade, cuscini e quaderni soprattutto ‐ portano indicato il prezzo; ma la 

maggior parte della merce è solo in esposizione. Il punto vendita offre un’intera esperienza sensoriale che 

va oltre all’idea stessa del servizio al cliente, e il consumo viene mescolato con l’esperienza. La merce 

diventa souvenir di un’esperienza. Come nel museo, si circola, si guarda e si ammira, ma il museo, 

paradossalmente, è il luogo centrale, aperto, pubblico, mentre lo showroom è defilato, chiuso e segreto. 

L’accesso ai veri luoghi di produzione al primo piano è, ricordiamolo, vietato. 

 

A differenza di Fortuny, Venetia Studium ha puntato sin dall’inizio alla grande distribuzione, creando una 

rete di punti vendita che si situa sui percorsi più battuti del turismo di Venezia: il suo negozio più grande 

si trova infatti in Calle XXII Marzo, via centrale dello shopping veneziano, costellata dei punti vendita 

delle griffe italiane più ambite dai turisti, da Gucci a Tod’s, da Fendi ad Anna Molinari; l’altro punto 

vendita si trova vicino Rialto, in una strettoia in cui il passaggio è d’obbligo per un turista che vada 

dall’Accademia a Rialto. Da segnalare l’apertura qualche anno fa di un punto vendita in aeroporto (chiuso 

dopo cinque anni di attività), e l’apertura recentissima di un negozio dentro l’Hotel Cipriani alla Giudecca. 

Venetia Studium ha anche una vetrina dietro il teatro alla Fenice. La produzione e commercializzazione di 

lampade, accessori di abbigliamento e di arredamento, si rivolge a un cliente che compra il singolo 

oggetto, dal costo che si mantiene sulla fascia medio‐alta ma accessibile. I punti vendita di Venetia 

Studium sono oltre che dei punti di distribuzione di souvenir chic e non dozzinali, dei luoghi di diffusione 

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del marchio. Molto spesso il cliente compra prima una lampada e poi, avendo apprezzato lo stile del 

singolo pezzo, decide di arredare anche il resto dello spazio nello stesso stile. I piccoli pezzi servono come 

apripista dei grandi ordini. La clientela dei negozi resta quindi prevalentemente straniera, appartenente a 

un turismo non di massa. Essendoci stato negli ultimi due anni un calo del turismo d’origine anglo‐

americana, che era la nazionalità della maggior parte dei compratori, c’è stato conseguentemente anche un 

calo nelle vendite. C’è stato anche un calo delle esportazioni: il boom avuto negli ultimi anni dovuto 

all’apertura del mercato degli Emirati Arabi ha avuto anch’esso un arresto. Gli ordini provenienti da questi 

paesi sono infatti di grande scala e caratterizzati dall’arredamento di alberghi di lusso e yacht.  Il turismo 

resta comunque una forma d’esportazione al dettaglio: tramite lo spostamento degli acquirenti, il bene 

circola e fa conoscere nel mondo il marchio stesso. Non sono le merci a muoversi ma le persone, 

esercitando così una forma di promozione indiretta. 

I negozi di Venetia Studium sono, come abbiamo già visto, diffusi capillarmente nel territorio veneziano. 

Le vetrine occupano tutta la parete del negozio e le composizioni di prodotti esposte sono caratterizzate da 

un’estetica dell’accumulazione e dell’abbondanza. Vi si vede una giustapposizione di oggetti incongruenti 

al modo del gabinetto del collezionista: candelabri, statue di mori, vasi, anfore da cui escono sciarpe di seta 

come fiumi colorati, e su cui pendono lampade e cesendelli, tutte accese e messe in serie. Se ci focalizziamo 

sul negozio centrale di Venetia Studium, che è quello di Calle XXII Marzo, vediamo che lo spazio è diviso 

in due parti: il piano terra è lo spazio della vendita, ed è caratterizzato da una scaffalatura a tutta parete 

dove appaiono tutte le sciarpe piegate e ordinate per colore; un’altra zona è dedicata all’esposizione delle 

borse e degli oggetti di vestiario; le lampade pendono dal soffitto ad altezze variabili. Il secondo piano è 

invece la simulazione di uno spazio privato, con arazzi, cuscini e mobili antichi. Sui manichini sono appesi 

degli abiti Delphos. Ci sono dei libri e degli spazi dove sedersi. Come nel caso dello showroom di Fortuny, 

c’è uno spazio di simulazione di una forma di vita, soltanto che questo spazio sembra più un’imitazione di 

Palazzo Fortuny che non una sua rivisitazione in chiave moderna. Inoltre non dimentichiamo che i tessuti 

sono prodotti da Venetia Studium stessa e non sono originali Fortuny. 

Mettendo a confronto i due spazi, entrambi mettono in scena una forma di vita, fondata sullo stile Fortuny, 

soltanto che in un caso questa scena è un’imitazione degli scenari affascinanti del museo fatti di tappeti 

arazzi, luci e mobili antichi; nell’altro caso è una riedizione in forme moderne dello stile Fortuny, 

attraverso la sua materia prima originale – i tessuti. I due spazi sono entrambi divisi in due parti: una parte 

ha la funzione in entrambi i casi di mettere in scena una forma di vita; l’altra parte invece è uno spazio di 

vendita nel caso di venetia Studium, e uno spazio di lavoro nel caso di Fortuny. 

La differenza sostanziale è però nel rapporto con il pubblico che si genera: Venetia Studium invita il 

pubblico a entrare e a comprare i suoi oggetti attraverso il dispositivo della vetrina, che è un agente di 

esposizione e richiamo in forma architettonica. La vetrina, per la sua trasparenza, fa vedere e annulla la 

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divisione spaziale creata dalla parete. Tra l’altro insegue il suo cliente, punteggiando i percorsi più battuti 

della città con la sua presenza. La gestione dello spazio di Fortuny invece dimostra una ritrazione in una 

posizione più che isolata, che allontana il possibile acquirente con una parete di mattoni; non lo invita 

certo a entrare con la sua grande porta in ferro chiusa. Con la sua gestione dello spazio, Fortuny sembra 

dire “Se mi vuoi, cercami” contro ogni forma di volgarizzazione della marca. 

Siamo nel campo del lusso, e da certe altezze non si scende, né si deve scendere. 

 

5. Il segreto e il labirinto

 

Abbiamo visto come sia d’uso, nelle industrie del lusso, nascondere il processo di produzione industriale e 

mettere in mostra invece la prima fase del lavoro di produzione, quello artigianale, legato alla manifattura 

dei prototipi o dei pezzi unici. Tutto questo fa passare nel consumatore il messaggio di un “fare artistico” 

derivante dal contatto diretto tra l’uomo e la materia. 

Nel caso di Fortuny,anche la produzione artigianale è negata allo sguardo degli avventori. La produzione 

è legata a un segreto e le tecniche e le macchine adatte a realizzare i tessuti di Fortuny sono tenute 

rigorosamente riservate. Ci sono solo quattro artigiani che conoscono i segreti – dagli ingredienti tutti 

naturali usati per stampare le stoffe (colle e pigmenti) al metodo di fabbricazione – e ognuno di questi 

quattro artigiani controlla il lavoro degli altri, che eseguono il compito senza conoscere il segreto che è alla 

base; pare anche che il segreto si tramandi esclusivamente da artigiano ad artigiano senza passare per la 

dirigenza. Viste queste premesse, risulta chiaro che gli unici a poter fare e a saper fare autentici tessuti 

Fortuny sono i dipendenti della fabbrica della Giudecca e nessun altro. Nella fabbrica, tutto è come era 

novant’anni fa. Qualche raro avventore che è riuscito a vederla, o a farsela raccontare bene, sostiene che 

esistono ancora lo stesso macinino per polverizzare lo zinco e gli stessi enormi stendini in legno per 

asciugare pezze lunghe 120 metri (Stefanato, 2009). Mentre ogni fabbrica moderna è dotata di essiccatore, 

Fortuny adotta un processo naturale di asciugatura che può durare fino a quattro giorni, e il cui risultato 

cambia a seconda dell’umidità e della temperatura dell’aria. Per questo i pezzi sono unici: basta che 

cambino le condizioni climatiche e il colore del tessuto sarà più o meno brillante, più o meno saturo. 

La segretezza mostra già come siamo lontani dalle regole standard del marketing del lusso, secondo cui 

bisogna rendere pubblico il momento della produzione per mostrare l’abilità dei propri artigiani, ma 

nascondere il processo industriale. L’oggetto Fortuny non ha bisogno neanche di questa dimostrazione di 

abilità e anzi fa della segretezza una strategia. C’è un alone di magia e di leggenda nell’atto stesso della 

produzione, che funziona molto bene per trasmettere l’immagine del marchio. La curiosità e la 

fascinazione per il prodotto aumentano, e la sua inimitabilità intrinseca ne accresce il valore. Il segreto è un 

classico modo per difendere un marchio dalle imitazioni: basti pensare alla Coca Cola che sulla sua ricetta 

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segreta ha costruito un mito. Il segreto era una strategia basilare dello stesso Mariano Fortuny che si è 

portato nella tomba la tecnica per fare delle pieghe perfette nel suo celebre abito plissettato (Delphos). Oggi 

Venetia Studium ripara i vecchi abiti Delphos: che, attraverso la riparazione dei vecchi abiti, cerchino di 

carpirne il segreto, è altamente probabile. 

L’etimologia di segreto rimanda a secretum, participio passato di secérnere, mettere da parte, separare. La 

segretezza della lavorazione ben si sposa con la segregazione della fabbrica dai circuiti del commercio 

veneziano. Elementi narrativi legati alla vita di Mariano Fortuny, posizione della fabbrica, atteggiamento 

dei lavoratori nei confronti del pubblico, fanno emergere la segretezza come tratto dominante del 

contenuto della marca Fortuny. perché non esprimerlo anche nelle altre manifestazioni della marca? 

Trasposto nella dimensione della comunicazione, la segretezza implica un paradosso. Come si fa a 

comunicare un segreto? Il modo in cui ha agito Fortuny finora, l’uso del passaparola tra gli arredatori e i 

clienti finali, non è certamente una strategia vincente. È chiaro che l’assenza di comunicazione fa in modo 

che il target resti altamente selezionato, ma, di fronte a una concorrenza che sfrutta lo stesso nome, si 

rischiano fraintendimenti e sovrapposizioni nella percezione pubblica. Bisogna quindi “comunicare il 

segreto” senza renderlo di dominio pubblico. 

Abbiamo visto che la comunicazione di Fortuny è al momento orientata a veicolare il contenuto 

dell’autenticità: il logo è una firma e quindi segnala direttamente il legame con il creatore; la pubblicità 

stampa ripete tre volte la parola “original”; le etichette costruiscono un discorso sull’autenticità. Senza 

perdere questo importante tratto del contenuto, la comunicazione Fortuny potrebbe caricare il suo 

messaggio di un altro elemento del contenuto, la segretezza e il mistero, per l’appunto, che sono fonti di 

fascino e che sono anche caratteristiche rilevabili in Palazzo Fortuny, con le sue tante stanze e 

ramificazioni. Potrebbe esprimere questo progetto di marca attraverso il marchio. Abbiamo trovato un 

antico marchio di Fortuny che, ridisegnato, sarebbe perfetto per veicolare questi valori di marca. Si tratta 

del labirinto, figura del marchio che accompagnava gli scialli Knossos a inizio secolo. Il labirinto ha tante 

valenze: prima di tutto comunica l’inaccessibilità, prima caratteristica di un bene di lusso in termini sia 

sociali che spaziali: questo tratto del contenuto si proietta sicuramente sulla manifestazione del prezzo, che 

resta molto alto, e sulla distribuzione, sempre molto controllata e di difficile accesso. Il labirinto è anche 

rappresentazione dell’andirivieni delle trame del tessuto, e rimanda quindi al prodotto‐base di Fortuny. E’ 

figura presente nella mitologia greca, tratta dal repertorio di influenze provenienti dall’antica Grecia di 

Mariano Fortuny; è inoltre il modo in cui è stato sempre chiamato il tessuto urbano di Venezia. Il labirinto 

quindi, oltre a rappresentare degli elementi tematici presenti nel discorso di marca di Fortuny, è collante 

con la storia della rappresentazione e con il contesto urbano e ambientale in cui Fortuny è iscritta. Quale 

emblema racchiude in modo più sintetico tutti questi elementi presenti nella storia di Fortuny? 

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Certo creare un marchio, un logotipo, può apparire una scesa a compromessi con la società industriale e 

dei consumi, mentre la firma può simulare ancora un rapporto con l’autore. Ma può essere anche un modo 

per sganciare la produzione dalle costrizioni di un marchio storico e per guardare avanti senza 

necessariamente dover ripetere un’attività che non funziona più, o funziona meno nel presente. Quello che 

è sicuro è che la marca, pur innovandosi e puntando molto sulla produzione di oggetti nuovi, non deve 

abbassare il suo target; deve restare nel settore del lusso, mantenere i prezzi alti – a garanzia della qualità e 

del lavoro impiegato nella produzione – e lasciare che la produzione sia limitata. Un modo per diffondere 

in modo discreto ed elegante la sua immagine, sarebbe anche quello di entrare nelle case di coloro che 

hanno arredato i propri interni con tessuti Fortuny, di esibirne il privato con servizi fotografici realizzati 

ad hoc. L’exemplum del testimonial è il modo migliore per diffondere uno stile di vita esemplare. Poiché 

Fortuny non è semplicemente un prodotto, ma una forma di vita, la messa in scena del testimonial 

garantirebbe una forma d’immedesimazione da parte del potenziale acquirente. In parte svolge questo 

compito l’allestimento di Palazzo Fortuny, ma è un arredamento troppo storicizzato per destare un 

sentimento d’immedesimazione tra utenti modernisti, mentre una commistione di buon gusto tra elementi 

del design contemporaneo e stile Fortuny potrebbe attirare l’attenzione di arredatori o di estimatori a 

caccia di idee. 

In questo modo, Fortuny può mantenere la propria posizione anche in confronto a Venetia Studium, il cui 

posizionamento risponde a una domanda del mercato diversa – prezzi medi per un target turistico di buon 

gusto; grande produzione, ma senza innovazione, di oggetti facenti parte dell’immaginario legato alla 

figura di Fortuny. 

La Tessuti Artistici Fortuny, così come Venezia, ha troppa storia e troppa bellezza per essere luogo di 

cliché sempre identici a sé stessi; deve puntare all’innovazione e alla ricerca. In questo seguirebbe le orme 

del museo, che non smette di essere teatro sperimentale di eventi, senza perdere la propria identità. Non 

tutte le mostre e le iniziative sono innovative, ma sicuramente a intervalli regolari siamo spettatori di 

eventi artistici che aprono connessioni temporali e che ci portano a ripensare e a far rivivere la storia. 

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