Lo Stato Moderno
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LEZIONE STATO MODERNO 1
Filosofia politica 2011-12
Parte Prima: Il cantiere storico2
Il periodo storico che si colloca fra il XIV ed il XVII secolo presenta, seppur con
delle continuità nelle forme di organizzazione del potere, delle vicende estremamente
complesse e variegate. Definiti spesso come una fase di transizione, questi secoli
sembrano quasi scomparire fra i due pilastri sovrastanti del medioevo e dell’età
moderna. Caratteristica peculiare di questa fase storica, che condiziona in modo non
indifferente ogni percorso di ricerca che voglia muoversi al suo interno, è l’evidente
resistenza ad ogni tentativo di ricondurne i processi ad unità e uniformità.
L’ età cetuale sembra giocare agli occhi dello storico un effetto particolare:
processi e tendenze che da lontano sembrano mostrare ritmi e caratteristiche comuni,
si frantumano appena l’analisi sposta il fuoco su situazioni più particolari,
rimandando un’immagine che difficilmente riesce a ricondurre in un quadro comune
specificità territoriali e temporali. Pur tuttavia all’interno di questa eterogeneità si
consumano delle trasformazioni comuni allo spazio politico europeo, soprattutto
continentale, che saranno cruciali per la genesi della dimensione politica moderna.
Nell’analisi della società di antico regime è possibile fare emergere alcune
direttrici di fondo: la rottura della base imperiale-religiosa del rapporto feudale e la
crisi del suo modello politico gerarchico e bilaterale, da un lato, e il superamento
della dimensione naturale dell’economia, dall’altro. Questi due processi assumono
1 Questo testo costituisce un materiale interno e ad uso esclusivo al corso di Filosofia Politica, che sfugge alle norme redazionali correnti per le pubblicazioni ma è redatto sulla base di materiali editi, dunque si diffida da qualunque altro impiego. 2 Tratto da Serena Marcenò, Biopolitica e sovranità. Concetti e pratiche di governo alle soglie
della modernità, Milano, Mimesis 2012.
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evidenza nella trasformazione della proprietà fondiaria verso la dimensione signorile,
e nel progressivo sviluppo di nuove attività produttive e commerciali.
La cornice di queste trasformazioni è la società cetuale. Ceto, nella definizione che
prendiamo da Pierangelo Schiera,
«è l’insieme delle persone che godono, per la comune condizione in cui si
trovano, della medesima posizione in ordine ai diritti e ai doveri politici; e che, per il
fatto di goderne insieme, elaborano e praticano forme di gestione della loro posizione
che sono appunto comunitarie o perlomeno rappresentative».
Nella dimensione cetuale l’obbligazione politica assume un carattere collettivo, a
partire dalla casa che costituisce, anche a livello antropologico, la forma primigenia
della sua organizzazione, fino alle forme più complesse della signoria o della
corporazione. La struttura comunitaria della società cetuale fa sì che al suo interno i
rapporti politici si articolino su due piani: il primo, a livello del singolo gruppo, il
secondo, nei rapporti fra gruppi diversi, dando luogo ad una struttura policentrica che
frantuma e dissemina la mediazione politica, limitando il ricorso ad istanze superiori
ed esterne.
Il policentrismo della società cetuale, che assume tutta la sua vividezza se lo
confrontiamo con la progressiva concentrazione dei poteri della statualità moderna,
genera alcuni aspetti significativi che riguardano il rapporto fra la sfera pubblica e la
sfera privata e l’inconsistenza di una differenziazione/contrapposizione fra Stato e
società.
Le condizioni storiche che portarono alla nascita della società cetuale vanno
ricercate nella stabilizzazione di alcune istituzioni, e di certe forme comuni, che si
delineano nell’Europa occidentale tra l’XI ed il XII secolo: il sistema cittadino, le
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corporazioni, la cavalleria, le università e le magistrature, che assumono in questo
periodo delle caratteristiche che rimarranno fondamentali per la cultura europea.
La pace esterna, dovuta alla fine delle invasioni, e la relativa stanzialità dei popoli,
crearono le condizioni per lo sviluppo di una organizzazione sociale nelle forme di un
sistema corporativo a base locale e regionale, in cui confluirono tradizioni di
derivazione romana, germanica e slava. La società per ceti dell'alto medioevo
sorgerebbe quindi da un «ethos paneuropeo» che ha una doppia radice nella ricezione
giuridica germanica e nell'ordinamento ecclesiastico.
Dal punto di vista giuridico questa società poggia sul principio di privilegio che sta
alla base della concezione del diritto medievale, cui corrispondono i concetti di
honor, status e libertas. Questi servono a determinare la posizione del singolo nel
sistema giuridico, e rivelano una concezione del diritto positivo come espressione di
un diritto naturale eterno, nonché l’idea della sua inviolabilità e della sua priorità di
fronte alla forza.
Da sottolineare è naturalmente il modello che la Chiesa fornì all’età cetuale, sia dal
punto di vista dell’organizzazione politica e giuridica, sia dal punto di vista culturale.
La cultura religiosa non diede il proprio contributo solo in termini strettamente
confessionali, ma contribuì alla legittimazione di un concetto di ordine gerarchico che
si basava sulla subordinazione dell’ordine mondano a quello divino e naturale, e sulla
limitatezza ed imperfezione di ogni azione umana che solo iscrivendosi all’interno di
questa gerarchia poteva essere considerata giusta e, per ciò stesso, legittima.
Comunemente la storiografia individua, tra il XII ed il XIII secolo, un passaggio
fra la società cetuale ed il cosiddetto Stato per ceti, che acquisterebbe consistenza nel
corso del ‘300.
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Non utilizzerò qui la definizione di Stato per ceti perché la società cetuale non
conosce una struttura statale in senso stretto, ed è preferibile descriverla, dal punto di
vista storico-concettuale, partendo dal suo elemento più peculiare di indifferenza fra
la società e lo Stato. Da accogliere è viceversa l’individuazione di una cesura nel
corso del XIV secolo, quando l’organizzazione politica dei ceti comincia ad
interagire con un’organizzazione politica di tipo monarchico, e proprio grazie a
questo dualismo, e all’interno di questo dualismo, è possibile assistere alla genesi
delle strutture statuali moderne.
Il dualismo tra principe e ceti può essere considerato come uno dei caratteri
fondamentali della formazione dello Stato moderno in Europa, la cui prima
configurazione diventerebbe visibile proprio nel momento in cui, accanto
all’elemento antichissimo dell’autorità regia, emerge, come correlativo della
monarchia, l’elemento cetuale. È quando i ceti acquisiscono forza, e diventano
complementari alle monarchie, che diventa possibile una prima configurazione
moderna dello Stato, dal momento che il potere monarchico non avrebbe mai potuto
da solo attrarre a sé tutti i poteri sovrani disgregati dalla feudalizzazione.
Questo fenomeno, tipico dell’Europa occidentale, ha una periodizzazione
complessa che si differenzia a seconda delle regioni interessate, tuttavia, nonostante il
suo accentuato particolarismo, è comunque possibile rintracciare al suo interno delle
continuità e delle caratteristiche comuni. Tutti gli Stati europei che sono passati
attraverso la feudalizzazione e poi all’unificazione monarchica, hanno conosciuto una
fase cetuale ed hanno avuto assemblee politiche di ceti – Etats, Cortes, Landtage –
all’interno delle quali si sono consumati conflitti che hanno dato vita ad
«accomodamenti contrattuali» tra le due istanze, definite come contratti di signoria
(La Magna Charta (1215), la Bolla d’oro (1222), i Privilegi aragonesi del 1283 e
del 1287, la Joueuse Entrée (1356), il Trattato di Tübingen (1514), sono tutti accordi
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che nell’Europa medievale sancirono su «base pattizia, il regime degli obblighi e dei
privilegi, delle prestazioni dovute e delle franchigie garantite).
La diffusione, i contenuti, la durata della validità di questi contratti di signoria ci
porta a considerare il dualismo principe/ceti come una forma specifica dello Stato
della prima età moderna. Non solo dunque la manifestazione di contese politiche e di
potere, o semplici compromessi, ma l’espressione di una condotta dualistica dei
poteri.
In questo senso il dualismo fra principe e ceti, fra il XIV ed il XVII secolo, non va
descritto tanto in termini di conflitto, quanto in quelli di un coordinamento attraverso
il quale poté realizzarsi un'attività sufficiente e ordinata dello Stato. Nessuno dei due
elementi, infatti, avrebbe potuto svolgere autonomamente le funzioni statali, e grazie
alla loro azione comune lo Stato fu in grado di acquisire forza e stabilità. Il dualismo
principe-ceti diventa così non solo la forma politica dello Stato nascente, ma la
condizione stessa per la sua genesi, e soltanto fra Cinque e Seicento sarà superato da
altre forme di organizzazione ed esercizio del potere, in un processo che potrà dirsi
concluso solo con la Rivoluzione francese.
Pur riconoscendo la consistenza di questo dualismo, molte sono le posizioni
storiografiche che, viceversa, ne accentuano gli elementi conflittuali contrapponendo,
nella costituzione della statualità moderna, un processo di «concentrazione del
potere» ad uno di «partecipazione al potere». In questo senso, l'elemento dualistico
che genera la dimensione moderna dello Stato, viene recuperato per segnare la
consistenza di forme ancora non-statali. In tal senso si può parlare di Stato «solo
quando la soluzione monistica nell'organizzazione del potere politico si presenta con
un rilievo e una dimensione autonoma rispetto alla società». Una trasformazione che
si realizzerebbe intorno alla figura del re e del suo Consiglio, grazie alla quale il
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sovrano non sarà più un superior feudale, vertice della gerarchia dei vassalli, ma
un'entità superiore che gestisce autonomamente il proprio potere.
Queste in breve le posizioni all’interno del dibattito storiografico. La lettura che
vorrei qui avanzare coglie elementi comuni in entrambi i filoni storiografici.
L’espansione territoriale degli Stati, a partire dal XIV secolo, favorì la partecipazione
dei ceti ad un’azione comune con il principe, resa necessaria dal governo di una
dimensione spaziale e funzionale dello Stato sempre crescente ed eccedente rispetto
alla ripartizione delle prerogative, e delle effettive capacità di governo, tradizionali.
Sulla base di questo rapporto, e all’interno del dualismo cetuale, si andrà
progressivamente articolando una tensione fra supremazia ed autonomia, alla quale
concorsero diversi fattori che ricadono all’interno di tre sfere: quella del diritto,
quella della fiscalità e quella della giustizia. La soluzione del dualismo cetuale, alla
fine di questo processo secolare, si configurerà più nei termini di un superamento che
in quelli della supremazia, della vittoria, di uno dei due elementi all’interno del
conflitto.
A cavallo del XIV secolo una serie di trasformazioni diedero vita a nuovi rapporti,
tra individui e gruppi sociali, non più regolabili sulla base esclusiva delle antiche
consuetudini di tipo medievale. L’incremento demografico, una diversa
concentrazione della popolazione nei nuclei urbani, la nascita o il rifiorire delle città,
crearono un’alternativa alla forma tipica dell’insediamento umano medievale della
corte e del monastero, e segnarono la nascita di nuovi bisogni, materiali e spirituali.
Questi movimenti misero in crisi gli apparati delle monarchie feudali, individuandone
i limiti e preparandone la trasformazione.
Uno degli elementi di novità più significativi per le nuove forme di organizzazione
del potere, è la nascita degli studia generalia, le nuove università, istituzioni
prettamente urbane che cominciano a sostituire cenobi e monasteri come centri di
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elaborazione del sapere. La nascita delle università nel tardo medioevo, fra il 1150 ed
il 1250, costituisce l’incubazione di tutta una serie di istituzioni e di saperi –
soprattutto giuridici – determinanti nella costituzione delle prime forme della
statualità moderna.
All'interno delle nuove realtà politiche territoriali, una delle resistenze principali
alla costituzione di ordinamenti accentrati, e quindi all'affermazione di un potere
preminente dell’elemento principesco, venne in larga parte dalle caratteristiche della
loro formazione storica. L’accentuato particolarismo interno, sorto dalla
sovrapposizione di diversi ordinamenti giuridici di tipo personale o territoriale,
derivava dal fatto che nel corso dei secoli, feudi, città e territori erano entrati a far
parte del dominio di un principe in modi e a condizioni differenti, conservando la
propria specifica situazione giuridica.
A questo particolarismo interno faceva riscontro una molteplicità delle fonti di
diritto, che derivava dall'insieme degli ordinamenti giuridici di origine diversa: statuti
comunali, consuetudini locali, prime forme della legislazione principesca, diritto
feudale, diritto mercantile, cui bisogna aggiungere il diritto comune e la sua
interpretazione.
L’ordine giuridico medievale, caratterizzato dal suo pluralismo, si fondava su una
nozione di ordo, l’ordo iuris, che aveva funzionato come «tessuto legante» all’interno
del sistema di autonomie – che ne costituivano l’aspetto peculiare – e che
mantenevano al suo interno le proprie diversità. Non dobbiamo dunque immaginare il
pluralismo giuridico come la frantumazione di un ordine unitario, ma, piuttosto, come
un ordine che è l’esito delle sue sfaccettature interne. Solo di fronte ai mutamenti che
cominciano a delinearsi a partire dal Trecento, quest’ordine comincerà a sgretolarsi,
ma si tratterà di un processo lento che, fra le trasformazioni del tempo, sarà l’ultimo a
manifestarsi.
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La legislazione dei principi trovò grosse difficoltà ad inserirsi fra il diritto comune
e i diritti particolari, soprattutto quando, lasciando da parte la propria tradizionale
funzione di legittimazione a franchigie, autonomie e privilegi locali e personali,
cercava di imporre norme generali in contrasto con il particolarismo giuridico.
Per tutta l’età cetuale, come sostiene W. Näf, i contratti di signoria funzionarono
come luogo della composizione per fissare «in termini giuridico-statali ciò che vi era
di politicamente valido e controverso», fra il principe da un lato ed i ceti, quali
rappresentanti del paese, dall’altro. La tensione fra principe e ceti si giocherà tutta sui
confini da tracciare fra diritti diversi, e gli argini da porre alla legittimità della
produzione di nuovi diritti. I ceti, infatti, non solo cercarono di difendere gli ambiti
dei propri diritti, ma aspirarono anche a partecipare alla formazione del nuovo diritto,
attraverso una posizione di divieto e di controllo nei confronti del principe, tutte le
volte che questi tentava di violare la sfera delle loro prerogative.
Le funzioni di difesa e di controllo si esercitarono soprattutto attraverso la
concessione delle imposte e delle prestazioni e sulle questioni dinastiche. Nella
successione al trono il prevalere del principio ereditario, di fronte a quello elettivo, ha
costituito il luogo del rafforzamento della monarchia rispetto alle istanze dei ceti. Le
regole di successione, se da una parte costituirono a lungo un elemento di
conflittualità, dall’altra facilitarono il processo di stabilizzazione dell'istituzione
monarchica e la sua legittimazione ed identificazione con il regno. I contratti di
signoria contenevano spesso prescrizioni che impedivano o regolavano divisioni per
successioni dinastiche, cessioni o alienazioni di territorio e di popolazione, che
cominciarono a segnare, seppur in modo embrionale, una politica con dimensioni
statuali più che cetuali.
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Come ho già accennato, non concordo pienamente con una interpretazione che
vede il passaggio da una dimensione cetuale ad una statuale come esito di un
allargamento e di una tensione fra le rispettive sfere di giurisdizione. Da un lato mi
sembra infatti che l’azione politica dei ceti mirasse a conservare posizioni acquisite
ed ambiti di autonomia che si percepivano minacciati, dall’altro, perché il dualismo
principe/ceti ha prodotto una dimensione nuova dello spazio politico stesso, facendo
emergere nuovi oggetti per il governo dei quali era indispensabile la partecipazione
finanziaria e legislativa dei corpi sociali organizzati.
I corpi rappresentativi – assemblee, diete imperiali, curie feudali – esistevano
anche in epoche più antiche, ciò che mutò fu il tentativo di costituire organi
giurisdizionali e amministrativi autonomi. Il primo a mostrare una cesura è l’ambito
dell’autodifesa. La faida costituiva un elemento di fondo dell’età medievale e
contemplava il ricorso alla forza delle armi sia all’interno che all’esterno. La
persistenza della faida, come commistione fra forza e diritto, nel corso del XIV
secolo entrerà in un rapporto di concorrenza con i tentativi di delineare una
giurisdizione che avesse un’effettività coercitiva e un funzionamento continuo, e che
cominciò ad organizzarsi a partire dalla creazione di una polizia interna.
Naturalmente questi obiettivi saranno raggiunti nella loro completezza molti secoli
dopo, tuttavia il XIV secolo mostra il declino della forza individuale a favore di un
potere con istanze giurisdizionali che si svilupperanno grazie ad un ambito territoriale
definito e stabile, e ad un’organizzazione giudiziaria e amministrativa diffusa, a
partire da una configurazione territoriale/istituzionale dello Stato. Il signore cercherà
di affermare, di fronte alla forza individuale, un potere giurisdizionale e darà vita ad
un’organizzazione amministrativa e giudiziaria centrale, da lui direttamente
dipendente, con diramazioni periferiche e locali, ma che ancora per tutta l’età cetuale
rimarrà limitata ai vincoli di dipendenza diretta e lascerà «libero spazio a poteri locali
di diritto autonomi, nobiliari, ecclesiastici o corporativi».
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Nonostante tutti questi limiti la costituzione dell’amministrazione centrale e locale
del principe segnerà un mutamento di funzione. Se infatti nelle forme antiche di
rappresentanza giudiziaria e militare «aveva prevalso l’azione comunitaria», adesso
la prestazione del consilium ed auxilium, cioè delle prestazioni militari e fiscali, viene
contrattata in una misura che tiene conto della necessità del principe, e sarà proprio la
misura di questa necessità a scardinare progressivamente l’autonomia cetuale.
Con l’avvio di un’organizzazione amministrativa e giudiziaria locale lo Stato
territoriale dette inizio ad «una restrizione, uno svuotamento, una paralisi dei poteri
locali» ai quali esso si contrappose con la concorrenza di poteri locali propri. Bisogna
notare però che il processo di accentramento delle funzioni fiscali, amministrative e
burocratiche, fino alla fine del Settecento, non si realizzò tanto attraverso la
sostituzione delle istituzioni precedenti quanto piuttosto attraverso una lenta
sovrapposizione delle nuove istituzioni, direttamente dipendenti dal potere
monarchico, sui poteri locali preesistenti, nel tentativo di giungere ad una loro
progressiva esautorazione.
A questo proposito va sicuramente ricordato anche il ruolo che le nuove esigenze
militari e diplomatiche ebbero nel processo di centralizzazione delle monarchie e
l’importanza, sottolineata da tutti gli storici, della creazione degli eserciti permanenti,
sganciati dai vincoli feudali, e della creazione di una struttura amministrativa e
finanziaria capace di assicurarne il mantenimento.
Il processo che matura nei secoli compresi fra Tre e Cinquecento può essere
descritto come l’esito di un doppio movimento. Il primo, verso l’esterno, per
l’emancipazione dalle strutture feudali sovranazionali dell’Impero e del Papato, il
secondo, verso l’interno, per il ridimensionamento progressivo delle strutture cetuali.
Un movimento che darà vita ad una duplice giustificazione del potere sovrano come
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garanzia del mantenimento dell'ordine all’interno dello Stato e della sua sicurezza
contro ogni attacco dall’esterno dello Stato.
Dal punto di vista giuridico questo passaggio, avviato all’inizio del Cinquecento
dalla polemica sugli interpreti medievali, segnerà la fine del pluralismo giuridico
medievale e condurrà al monismo giuridico dello Stato moderno.
Molti dei difetti e dei limiti della giurisprudenza derivavano, secondo gli umanisti,
dai difetti della compilazione di Giustiniano, che, priva di una rigorosa unità logica,
si prestava bene al lavoro di interpretazione e di sistematizzazione dei Glossatori e
dei Commentatori. L'antitribonianismo costituì uno dei filoni della polemica contro
l'età di mezzo, ma al di là delle critiche tecniche alla giurisprudenza classica, alla
base di questi discorsi stava l'esigenza fondamentale di restituire il diritto romano alla
sua dimensione storica per poter avviare la formazione dei diritti nazionali.
La critica filologica degli scritti giuridici antichi e la ricostruzione storica di alcuni
istituti del diritto romano, costituirono l'espressione di una nuova metodologia che si
distaccava da quella medievale ed operava secondo un approccio filologico alla
giurisprudenza del passato, manifestando la necessità di abbandonare le concezioni
dell’infallibilità degli antichi come modelli da accettare incondizionatamente. Cadeva
così la premessa stessa della giurisprudenza medievale, l'autorità su cui poggiavano le
interpretazioni, e la filologia diventava lo strumento principale dell'attacco contro il
metodo scolastico. Le premesse della filosofia giuridica scolastica cadevano così nel
momento stesso in cui gli istituti del diritto romano venivano riportati alla loro
dimensione storica.
La critica al metodo tradizionale divenne uno strumento proprio dei giuristi e
acquistò i caratteri di una vera e propria metodologia con tecniche specificamente
storico-giuridiche. Con l'attacco portato agli ordinamenti giuridici medievali, e la
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rottura dell'ideale universalistico del diritto, i Culti avviarono il lungo processo di
costituzione dei diritti nazionali. Questo processo si mosse essenzialmente su due
direttrici: una che rompeva la staticità del diritto romano medievale, recuperandone
solo gli istituti ancora vitali, e l’altra che operò l'ordinamento e l'unificazione degli
istituti consuetudinari e particolari formatisi nei secoli. L’esito di questo
rinnovamento sarà il passaggio al particolarismo statale moderno.
L’altro processo di trasformazione cruciale per la genesi delle strutture statuali
moderne, e delle sue peculiari forme di soggettività politico-giuridica, riguardò il
lento e progressivo distacco tra dimensione pubblica e privata, uno iato del tutto
estraneo alla dimensione cetuale.
Il termine società segna, fra XVI e XVII secolo, uno scarto concettuale importante,
indicando una rete di relazioni culturali ed economiche «esterne o prioritarie nei
confronti della politica» e collocabili su un altro piano diverso, quando non
contrapposto, a quello dello Stato.
Il concetto moderno di società rompe la tradizione di pensiero precedente, basata
sull’idea della naturalità del rapporto sociale, inaugurando una dimensione del
politico fondata sui diritti individuali. A partire dal pensiero di Hobbes si porranno le
condizioni teoriche per la contrapposizione tra pubblico e privato sulla base della
quale si giungerà alla distinzione fra società civile e Stato.
La rottura, naturalmente, non si consumò soltanto sul piano teorico della
concettualizzazione del termine, ma segnò un passaggio storico fra la fine della
società cetuale e la nascita dello Stato moderno.
Nella società cetuale pubblico e privato non costituivano delle categorie politiche,
ma, come dice P. Schiera, non nel senso che non si potessero distinguere gli atti che
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inerivano alla vita privata da quelli che inerivano ad una dimensione collettiva, bensì
nel senso che i due tipi di atti non potevano essere inscritti a due poli separati e
contrapposti, «la distinzione fra loro non era in alcun modo causa o conseguenza di
una separazione costituzionale fra l’esercizio del potere […] e la semplice
soddisfazione di bisogni individuali»3.
Se la concentrazione della forza legittima costituisce l’emblema della statualità
moderna, nella società cetuale la forza legittima è diffusa, «è dislocata […] in modo
più o meno intenso, in numerosi punti, ciascuno dei quali […] ha diretta efficacia
politica». La società cetuale, in questo senso, è una società pluralistica, dove
pluralismo indica la molteplicità delle fonti del potere e la molteplicità dei luoghi del
suo esercizio. Ordini, status e ceti esercitano legittimamente potere, in modo più o
meno coordinato o concorrente, e questo si articola a livelli e su dimensioni diverse e
specifiche, dalla casa alle assemblee rappresentative. Lo spazio politico che corre fra
la dimensione della casa e quella delle assemblee rappresentative, costituisce il luogo
in cui si iscrivono le relazioni di potere e i momenti di mediazione e composizione
all’interno dei singoli gruppi e fra gruppi diversi.
Ma se manca lo Stato in quanto titolare dell’esercizio del potere, la società non è
più definibile come l’ambito degli interessi privati, e la società per ceti, come
suggerisce Brunner, se la descrivessimo con un linguaggio moderno, dovrebbe
definirsi come societas civilis sive status.
Per la storia costituzionale precedente l’età moderna pubblico e privato non
costituiscono dunque delle categorie politiche: non c’è lo Stato, come momento
sintetico e unificante di titolarità e di esercizio del potere, ma manca anche la società,
3 P. Schiera, Società per ceti, cit., p. 900. Il termine «costituzionale» sarà impiegato qui in riferimento alla
distinzione che fa Brunner fra «“costituzione” (Verfassung) intesa in senso generale e “costituzione” (Konstitution) come costituzione dello Stato di diritto liberal-borghese», O. Brunner, Il concetto moderno di costituzione e la storia costituzionale del medioevo, in Per una nuova storia costituzionale e sociale, cit., (pp. 1-20), p. 7; cfr. anche G. Duso, Il potere, cit., p. 83.
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come sede degli interessi privati e dei rapporti ad essi inerenti, e la società per ceti è
allo stesso modo Stato e società.
Il concetto moderno di società è comprensibile soltanto in relazione al concetto
moderno di Stato, e soltanto in virtù di questa relazione i due concetti consentono una
differenziazione reciproca. Secondo Brunner la società in senso moderno «appartiene,
per sua stessa essenza, allo Stato moderno: essa è possibile solo laddove lo Stato
detiene il monopolio dell’esercizio legittimo della forza»; non una «societas civilis
sine imperio» ma al contrario una «societas civilis cum imperio» in cui Stato, popolo
e società coincidono. Nell’antica società per ceti ciò che si differenzia dalla societas
civilis e dalla sua dottrina, la politica, non è lo Stato bensì la casa, la societas
domestica e la sua dottrina, l’economica.
Affronteremo più avanti la vicenda dell’economica nell’età moderna, ma è
importante qui ribadire che l’ambito della casa, per tutta l’età cetuale, non può essere
inteso in senso privato. Se infatti il signore di casa, in quanto capofamiglia, svolgeva
una funzione che adesso definiremmo privata, questa comprendeva al suo interno
poteri di tipo giurisdizionale, amministrativo e di rappresentanza su tutte le persone
da lui dipendenti.
Nella società cetuale la societas civilis è immediatamente società politica, dal
momento che alla sua articolazione interna corrispondono funzioni di autogoverno
che rispondono a diritti e libertà specifici. Perché si consumi uno scollamento fra la
società e lo Stato dovrà emergere una nuova soggettività politica individuale in grado
«di far decadere quelle reti di socialità naturale che [la] legavano a un ordine di
rapporti precostituito e limitante per la sua mobilità. Perché i ceti, le corporazioni e le
organizzazioni di mestiere perdessero la propria priorità nel definire che cosa fosse la
società civile […] fu necessario che emergessero schemi di socializzazione
radicalmente differenti».
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Una delle soglie concettuali fra la società cetuale e la statualità moderna può essere
individuata nei mutamenti che riguardarono il modo di intendere la libertà, che
solitamente viene sintetizzata nella formula dalle libertà alla libertà. Questo
processo, dal plurale al singolare, è descritto efficacemente da Emile Lousse, che ha
indagato il senso assunto dalla libertà nei quadri giuridici, sociali e politici
dell’ancien régime, chiedendosi se quest’ultimo non avesse conosciuto «” la” libertà
(nel senso filosofico), ma solo “delle” libertà».
Iura et libertates originariamente riguardavano il complesso dei diritti posseduti
dai diversi poteri. Ma libertà, come dice Brunner, è anche un concetto spaziale e
territoriale, e in questo senso stava ad indicare l’autonomia e l’immunità che
«pertiene ad un potere signorile, individuale o comunitario e nella quale non può
incidere […] un potere signorile superiore». In questo senso libere o autonome sono
la signoria terriera e giudiziaria, la città, il villaggio e la casa.
La libertà nell’ancien régime è di ordine civile e politico e riguarda persone e beni,
e in questo non presenta alcuna diversità di rilievo rispetto all’accezione moderna del
concetto. È sulla titolarità della libertà, sul soggetto cui questa fa capo, che emerge
invece una differenza sostanziale. Per tutto l’ancien régime l’uomo libero ha il diritto
di essere giudicato solo dai suoi pari e secondo il suo diritto, ed ha il diritto di essere
consultato dai suoi superiori naturali per ogni decisione che lo coinvolga dal punto di
vista legislativo, fiscale, sociale e militare. Tuttavia la condizione di libero riguardava
una fascia ristretta della società: di fronte ai liberi stavano i servi (e gli schiavi), che
viceversa non godevano di alcuna libertà, né reale, né civile, né politica, né potevano
sottrarsi in alcun modo al proprio status senza il consenso del proprio dominus.
A proposito del rapporto fra libertà ed eguaglianza nel modello aristotelico, G.
Duso sostiene che il governo politico «è distinto da quello padronale e dunque dal
tipo di dominio che si ha sugli schiavi per i lavori necessari nell’ambito dell’oikos. La
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differenza del governo nei due casi è legata alla differenza di natura che c’è tra gli
uomini liberi e schiavi. È dunque la natura dell’uomo libero che richiede un diverso
tipo di governo, di diversa qualità, quella politica appunto. Tuttavia il fatto che la
politiké arché si eserciti su uomini della stessa stirpe, liberi e uguali, non comporta
che ci sia uguaglianza tra tutti i liberi. I liberi sono infatti tutti ugualmente liberi, ma
non tutti assolutamente uguali», G. Duso, La logica del potere, cit., p. 58.
L’incapacità giuridica pertanto non era propria solo di coloro che si trovano in una
condizione di servaggio e l’ancien régime ci presenta una vasta gamma di status che
riguardano persone che, anche se di origine libera, «col pretesto del bene comune
sono collocate sotto il potere (mundium) di altre persone: le figlie di ogni età, sposate
o meno, i figli di nascita illegittima o non emancipati dal potere paterno, i
maggiorenni interdetti per un qualsiasi motivo, tra i quali i lebbrosi, gli aubains
(stranieri) […], gli infedeli – non battezzati o eretici – […] i grandi condannati
politici o di diritto comune, i prigionieri di guerra, i morti civili».
Tutti i soggetti che ricadono all’interno di questo lungo elenco, dal punto di vista
giuridico, sono incapaci di disporre di se stessi, della propria persona e dei propri
beni; e l’aspetto forse più significativo dell’analisi di Lousse è di aver colto il nesso
fra capacità e libertà. Per tutto l’antico regime – egli scrive – la servitù «rientra nella
gamma delle incapacità». È la capacità, in vista del bene comune, che rende il
soggetto libero e attivo politicamente, e capacità e incapacità sono allo stesso tempo
concetti giuridici e naturali: «Una incapacità giuridica, fondata su delle incapacità
naturali, di cui la società crede di avere ragioni per diffidare».
Il non-libero-servo è come un «prigioniero», anche se non è necessariamente un
colpevole, è un «interdetto», la cui debolezza va protetta contro l’abuso altrui, e, allo
stesso tempo, è colui dal quale la società deve proteggere se stessa, per garantire il
bene sociale. Egli perciò deve essere posto sotto tutela ed essere privato della
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possibilità di agire autonomamente decidendo sulla propria persona dal punto di vista
civile e biologico: non può contrarre matrimonio, e quindi non può procreare
legittimamente, senza il consenso del proprio signore; è obbligato a certe prestazioni
lavorative, mentre altre gli sono precluse; gli è negata la possibilità di disporre dei
suoi beni.
La libertà è capacità, scrive Lousse, non «l’indipendenza o l’assenza di legami, ma
una capacità di impegnarsi e di non vedersi imporre da altri dei legami ai quali non si
sia acconsentito da sé»; ed è garantita, in misura minore o maggiore, in rapporto al
grado di fiducia che il soggetto è capace di stabilire con la società, e che questa a sua
volta gli riconosce in base alle sue capacità, naturali e giuridiche.
Possiamo inserire adesso un ulteriore elemento utile per la comprensione della
società della prima età moderna e, soprattutto, della soggettività politica che in essa
agisce. Nella società cetuale lo status del soggetto non è unico, nel senso che il
soggetto può partecipare contemporaneamente a status diversi. A differenza del
soggetto moderno, al quale viene riconosciuta un'unica soggettività che fa capo ai
suoi diritti, il soggetto di antico regime ha una soggettività plurima. «Il caput
giuridico – scrive ancora Lousse – è composto di molteplici branche o status distinti:
status familiae, status civitatis, status ordinis, status professionis, status religionis», e
la libertà deriva dalla capacità che l’individuo ha di agire in questi diversi spazi in
vista del bene comune.
Esso può essere libero, superiore e privilegiato, se è capace di partecipare alla
realizzazione del bene comune, o viceversa servo, inferiore, non-libero se non è
ritenuto capace di reggersi da solo e di contribuire alla realizzazione del bene
comune. «La libertà è il risultato di una somma di capacità; essa “è” questa somma.
La società di antico regime non è composta di persone eguali, bensì di queste due
categorie, che la libertà-capacità separa seguendo una linea orizzontale. I liberi sono
18
capaci di disporre di sé stessi e dei propri beni sotto la protezione della legge; i non-
liberi-incapaci vengono posti dalla stessa legge sotto l'autorità di un padre, padrone o
signore, che porta fin nell’ordine pubblico la doppia responsabilità dei loro errori e
della propria direzione».
Il soggetto agisce dunque in uno spazio sociale molteplice, e il suo accesso alla
libertà e all’azione politica è vincolato alle sue capacità naturali e, quindi, giuridiche.
Nel momento in cui la soggettività politica è riconosciuta sulla base di
un’eguaglianza e di una libertà fondate giuridicamente e limitate solo dalla legge, ed
è dunque accessibile a tutti indifferentemente, perché funziona in capo ad un soggetto
neutro ed astratto, che non è più valutato sulla base delle proprie capacità naturali,
come sarà possibile cooperare al fine del bene comune e garantire la sicurezza
all’interno dello spazio politico unico4 che comprende anche i soggetti ritenuti
incapaci per natura e pericolosi per sé e per la società che li accoglie? Come sarà
possibile neutralizzare, all’interno di questo spazio, la pericolosità e la conflittualità
del singolo?
Per provare a rispondere a questi interrogativi dobbiamo fare un altro passo avanti
e cercare di concludere la descrizione della soggettività politica pre-moderna.
Nell’antico regime capacità e libertà sono strettamente connesse e la società, che
stiamo descrivendo come spazio immediatamente politico, vede agire al suo interno
(in senso biologico, economico e politico) attori numericamente inferiori di quelli che
si muovono nello spazio sociale e politico moderno. Da un lato ci sono i capaci-
liberi-superiori, dall’altro gli incapaci-non liberi-inferiori, e la categoria dei liberi è
4 L’unicità dello spazio politico in cui agisce la soggettività politica moderna può essere descritta come il risultato di
due movimenti convergenti: da un lato, lo spazio politico è diventato unico perché raccoglie in sé tutti i soggetti, dal momento che è decaduta la distinzione fra soggetti capaci-agenti e soggetti incapaci-non-agenti; dall’altro lato è unico perché la produzione dello spazio politico moderno ha azzerato la molteplicità e la possibilità di coesistenza di spazi politici differenti.
19
ristretta ai padri di famiglia naturali e spirituali di condizione non servile, che
dominano l’ordine feudale, dominicale, comunale e corporativo.
La società cetuale è caratterizzata da un potere diffuso di cui sono titolari solo i
liberi e capaci, che lo esercitano all’interno del proprio ordine, ceto, status, e in virtù
del quale si muovono all’interno di queste gerarchie5.
L’ultimo elemento utile per concludere la nostra analisi è quello relativo alla
rappresentanza. I soggetti titolari di capacità, libertà e potere sono anche gli unici che
possono esercitare rappresentanza, sono «rappresentanti nati» come li definisce
Lousse. Gli incapaci-non liberi-inferiori sono rappresentati dal proprio superiore, e
l’esercizio della rappresentanza è esclusivo delle «persone capaci, nell’esercizio
normale della loro potestà e nel godimento della libertà».
Il signore della casa rappresenta, senza mandato, la famiglia, intesa sia come
nucleo familiare sia come lignaggio, in virtù dei «diritti che gli derivano dal suo
matrimonio o dalla sua filiazione». Per gli affari ordinari egli può farsi rappresentare,
in virtù di un mandato imperativo, da un membro della famiglia o da una persona
sottoposta alla sua potestà. Ad un livello superiore – potremmo dire pubblico – il
signore rappresenta, senza mandato, «la comunità di persone e di beni su cui esercita
un potere legittimo», e, ancora su un altro livello, i signori possono conferire un
mandato imperativo ad un proprio pari per rappresentarli in un affare specifico. La
rappresentanza nel sistema cetuale, a differenza di quella che funziona nella
dimensione moderna dello Stato, è dunque un sistema molteplice e composito, che
può essere agita da soggetti diversi in ambiti diversi e secondo modalità eterogenee.
5 «Nella nobiltà, un capo di famiglia emancipato – solitamente il capo della casa – esercita il potere familiare,
signorile, principesco, regio, imperiale. Nella borghesia, non è soltanto il potere familiare, civile e di competenza professionale che gli appartiene, egli è anche capace di elevarsi ad uffici e dignità superiori nella sua città e nella sua professione. I religiosi sono capaci di divenire ufficiali e superiori della loro comunità; i chierici di diventare sacerdoti, curati, vescovi: di ascendere, in altri termini, tutti i gradi successivi dell’ordine e della giurisdizione fino ai più eminenti», E. Lousse, È vero che c’erano solo «delle» libertà?, cit., p. 130.
20
L’azione rappresentativa può fare riferimento al territorio, al regno o alla nazione,
nel senso di nazione nobile, come rappresentanza di «capaci di partecipare
all’assemblea territoriale, esattamente come una famiglia lo è attraverso il capo di
casa e un minorenne dal tutore», dunque soggetti capaci che rappresentano, senza
mandato, soggetti incapaci. Ma può essere anche rappresentanza di elementi
indipendenti dal punto di visto giuridico, che però sono rappresentati nelle assemblee
da altri soggetti indipendenti, seppur non come conseguenza di una incapacità o di
una mancanza di autonomia dal punto di vista giuridico.
Queste forme eterogenee di rappresentanza costituiscono un’ulteriore conferma
della natura del dualismo cetuale, che non va pensato tanto in termini di lotta o
partecipazione, bensì in quelli di un coordinamento che si articola proprio attraverso i
meccanismi rappresentativi. La rappresentanza cetuale è il luogo del coordinamento,
della composizione, della ricerca di un equilibrio, sempre instabile, cioè sempre in
fieri, tra l’istituzione statale principesca e la rappresentanza territoriale corporativa,
«che ha essenzialmente in vista la tutela dei propri spazi di libertà politica e di potere
locale, ossia, in ultima analisi, la difesa di privilegi sociali». Ed è proprio all’interno
di questa funzione di composizione della rappresentanza cetuale che i ceti
contribuiscono al consolidamento e all’integrazione territoriale contribuendo in tal
modo, dal punto di vista funzionale, alla formazione dello Stato moderno.
La rappresentanza di antico regime è sì lo spazio di azione politica del corpo della
nazione, ma questo stesso corpo è concepito in modo assolutamente differente da
quello che fonda il concetto moderno di sovranità. La rappresentanza può essere
esercitata solo da alcuni soggetti e si presenta in molteplici forme, perché diversi
sono gli ambiti rappresentabili, i tipi di mandato che contempla, e per il fatto che può
essere azionata con o senza mandato.
21
Nelle assemblee territoriali i rappresentanti «titolari di diritti uguali e oggettivi
(ossia i possessori di beni giuridicamente ammessi alla rappresentanza)» si trovano,
individualmente e collettivamente, di fronte al principe territoriale. Questo
posizionamento frontale, tipico della cetualità territoriale, diventerà sempre più
precario e conflittuale di fronte al rafforzamento dei poteri centrali e alle teorie
contrattualistiche e giusnaturalistiche dello Stato, che transiteranno la rappresentanza
da un universo discorsivo in cui questa faceva capo a soggettività differenti e
molteplici, alla rappresentatività universale dello Stato moderno, basata sul
dispositivo logico dell’uguaglianza.
Nella società cetuale la rete di relazioni fra i liberi si esprimeva attraverso i vincoli
di fedeltà che rappresentavano un vincolo giuridico. La fedeltà infatti si poteva
prestare e pretendere solo per ciò che era esigibile giuridicamente e moralmente e ad
essa si accompagnava una obbligazione corrispondente, la cui violazione, anche da
parte del superiore, avrebbe eliminato il vincolo e condotto legittimamente
all’opposizione contro il potere divenuto in tal modo illegittimo.
Il diritto su cui poggia la società cetuale è dunque un diritto duale, basato su una
reciprocità contrattuale fra principe e ceti. È un ordinamento posto al di sopra degli
uomini, la cui unità, come sostiene Brunner, garantisce ad entrambi i poli sfere
giuridiche proprie, autonome e soprattutto inviolabili, che spiegano la consistenza del
diritto al consilium e auxilium che le lega. Sarà infatti proprio a partire dallo
svuotamento del senso e delle funzioni del consiglio e dell’aiuto che si incrinerà il
sistema sociale e politico cetuale.
Allorché, nel processo di costituzione della statualità moderna, la signoria perderà
le sue funzioni essenziali, sulle cui basi articolava il proprio rapporto con il principe,
da un lato, e con i servi e familiari, dall’altro, i suoi diritti tradizionali verranno
percepiti «come privi di senso e opprimenti», non corrispondendovi alcuna
22
controprestazione diretta, sì da ridurre il signore ad un ruolo privilegiato senza potere
reale.
La libertà rivendicata dai moderni sarà allora una libertà singolare, individuale,
negativa, privata, che ha sancito un distacco dalle libertates plurali, «libertà-
partecipazione» degli antichi, ed ha collocato la capacità di azione politica dei
soggetti nel meccanismo esclusivo della rappresentanza politica moderna.
Il concetto di libertà ha subito dunque un mutamento sostanziale. Ai diversi diritti
e libertà si è sostituita la libertà singolare della società dei cittadini dello Stato, posti
sotto un diritto unitario e liberi in quanto sottoposti alle leggi.
Come scrive Brunner: «Un’idea di libertà quindi inscindibile da quella di
eguaglianza, nel senso di eguaglianza di diritto estesa a tutta la nazione, che
contemporaneamente si distingue da quella di eguaglianza concepita solo all’interno
del gruppo cetuale e di differenza che marcava le autonomie cetuali, determinate dai
rispettivi diritti e libertà», cui adesso si sostituiscono i «diritti degli uomini e dei
cittadini» con cui si definisce, specifica e sancisce, la sfera giuridica del singolo nei
confronti dello Stato.
Da un punto di vista storico la struttura sociale dell’antico regime sopravvivrà nelle
sue forme esteriori, pur avendo consumato al proprio interno una nuova dimensione
della soggettività politica, della libertà, della differenza e dell’eguaglianza, ed avendo
avviato il processo di separazione e scollamento fra la società e lo Stato attraverso
una nuova dislocazione delle funzioni biologiche, economiche, politiche ed
amministrative. Ceti, corporazioni, assemblee rappresentative di antico regime, come
scrive S. Chignola, si manterranno fino al 1789 come un «guscio vuoto» perché al
loro status non corrisponde più alcuna funzione, e il privilegio si è ridotto ad «un
residuo di soggettività» che si identifica in «un sistema di differenze svuotato ormai
23
di ogni ethos». Il diritto di amministrare non è più una prerogativa ed è diventato una
«funzione esercitata in nome della volontà di tutti».
Il processo di accentramento progressivo di poteri prima diffusi, comincia a
funzionare all’interno del dualismo fra l'autonomia dei ceti e la pretesa assoluta del
potere sovrano – come abbiamo visto per alcuni in termini di conflitto, per altri in
termini di collaborazione – avviando il processo di costituzione dello Stato moderno.
Questo conflitto intreccia le sue vicende con alcuni processi di trasformazione
sociale attraverso i quali nuovi meccanismi di divisione del lavoro e di esercizio del
potere subentrano ai vecchi ruoli e alle funzioni culturali, giurisdizionali ed
economiche, tradizionalmente svolte all'interno dei singoli ceti: «Il potere centrale
dello Stato cresce ed incrementa le proprie prerogative, tra antico regime e
rivoluzione, coordinandosi a questo processo di disarticolazione, frammentazione ed
isolamento interno alla costituzione per ceti, [assorbendo] progressivamente quanto la
società ha ceduto».
All’interno di questo processo, che riconosce progressivamente nuove funzioni allo
Stato, i termini del conflitto insito nel dualismo cetuale mutano, e l’esito della
tensione originaria fra principe e ceti non è la supremazia di un elemento sull'altro, né
l’allargamento di una sfera di giurisdizione a discapito di quella del proprio
antagonista, che possono al più rappresentare solo dei passaggi all’interno di un
processo epocale, ma il superamento del conflitto stesso.
L'accentramento della gestione dei poteri in alcune istituzioni, sempre più
organizzate all'interno e sempre meglio collegate verso l'esterno, genererà una
dimensione dello Stato che non può essere identificata né con i gruppi sociali che lo
amministrano né, tanto meno, con il monarca che lo governa. Il monarca è diventato
un amministratore della cosa pubblica, e la sovranità non può più essere considerata
24
come una sua prerogativa, come rivendicato da Bodin, perché è diventata la
prerogativa esclusiva dello Stato stesso.
L'allargamento progressivo delle facoltà normative dello Stato, imposte in ambiti
prima autonomi dal potere centrale, che avevano una propria autoregolamentazione
interna, coinvolgerà tutte le forze sociali esistenti: la chiesa, la feudalità, le autonomie
cittadine ed infine la monarchia stessa: «Eretto sulle rovine della pluralità di ceti,
corporazioni e poteri secondari in cui si articolava la costituzione di antico regime, il
nuovo potere dello Stato si appropria della sfera pubblica, dispiegando un’azione i cui
terminali raggiungono ogni più piccola cosa».
L’idea di centralizzazione e quella di sovranità del popolo – dice Tocqueville nel
Discorso del 21 aprile 1842 – sono nate lo stesso giorno. Ma nel momento esatto in
cui ad ogni cittadino si riconosce il diritto di partecipare al governo «esprimendo la
sua volontà, va anche crescendo a dismisura il numero delle legittime attribuzioni
dello Stato». Alla fine di questo processo la Rivoluzione si troverà a registrare un
risultato in buona parte già ottenuto.
L’uguaglianza ha prodotto la Rivoluzione, e la teoria rivoluzionaria proietterà nel
futuro qualcosa che la pratica amministrativa e costituzionale dell’antico regime e
dell’assolutismo avevano già avviato. Gli ordini e le corporazioni hanno ceduto il
proprio autogoverno al governo monarchico, l’uguaglianza ha soppiantato il
pluralismo, e il diritto si è sostituito ai diritti. «Esautorando le istituzioni corporative e
cetuali ed accentrando per via amministrativa il governo della società», la monarchia
ha portato a termine il progetto di uguaglianza inaugurato con i dispositivi concettuali
hobbesiani.
Da Hobbes in poi sarà il potere politico a rendere possibile la società e
l’uguaglianza degli individui farà astrazione delle differenze tra gli uomini, che – già
a partire da Pufendorf – cominceranno ad essere percepite, come dice G. Duso, come
25
qualcosa di «irregolare, irrazionale e causa di un ingiusto governo dell’uomo
sull’uomo». Sarà necessario allora «negare le differenze che gli uomini hanno in
relazione al loro diverso status, alla loro appartenenza ad associazioni diverse, per
eliminare il governo dell’uomo sull’uomo e dar luogo ad un potere giusto e razionale;
e ciò è possibile grazie al concetto degli individui uguali, che toglie alla base della
costruzione le differenze che […] si connotano di politicità».
Si è consumata in tal modo una cesura, da un lato la civitas, composta da persone
private, e dall’altro la dimensione pubblica, propria ed esclusiva dell’esercizio del
potere politico. Un dualismo questo fra pubblico e privato che caratterizza la
modernità politica e a partire dal quale vedremo secondo quale logica le funzioni
prima prese e assolte all’interno della continuità fra pubblico e privato – biologica,
economica e politica – abbiano trovato una nuova collocazione e una nuova
razionalità.
Parte seconda
La teologia politica come dimensione moderna del potere6
La TP è una delle dimensioni della politica modernamente intesa, nel senso che è
una delle logiche e dei dispositivi che forgiano il modo moderno di intendere e di fare
la politica. Dunque passiamo adesso da una storia del termine ad un'analisi
concettuale cioè a dire che le dottrine ed il pensiero dei singoli autori non viene inteso
come un tassello della costruzione sistematica a sé stante, la storia del pensiero
politico, bensì per il senso strutturale che i concetti assumono, per il modo in cui
funzionano all'interno di determinati contesti in cui si muovono: la filosofia politica.
6 Tratto da G. Duso, La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica, Milano,
Polimetrica 2007.
26
La storia della scienza politica moderna segna una profonda frattura nel corso del
XVII secolo, una frattura che riguarda il modo di concepire l'agire degli uomini.
Al centro della politica sta il problema dell'ordine, che non è più un ordine delle
cose che si tratta di comprendere ma un ordine delle cose che si tratta di costruire
eliminando il conflitto e realizzando una pace durevole.
Dunque alla base della frattura del '600 sta la questione dell'ordine, del conflitto e
della pace e di come gli uomini devono agire per garantire la loro realizzazione.
Primo elemento necessario a garantire la costruzione dell'ordine, che ripeto non è
più un ordine naturale ma va costruito dall'uomo artificialmente, è la costituzione di
una forza del corpo politico nel suo complesso superiore a quella di tutti gli individui
che costituiscono il corpo politico stesso, una forza tale da garantire la pace perché
tutti le sono sottomessi. Ed è sulla forma particolare e inedita di questa sottomissione
che, come vedremo, si costruisce la forma specificamente moderna del potere e
funziona il principio teologico politico per eccellenza che è quello della
rappresentanza politica moderna. Ma procediamo per gradi.
Questa idea moderna del potere teso alla costruzione di un ordine artificiale delle
cose e impegnato a fare interagire gli uomini a questo fine, comporta la necessità di
una propria giustificazione razionale, quella che si definisce legittimazione, una
legittimazione che non può più essere trovata in un'istanza superiore e trascendente,
ma che deve trovare nell'oggetto stesso del potere, l'ordine, la sua legittimità, una
questione che sarà al centro della riflessione politica a partire dal '600: perché si
governa, come si governa, perché si accetta di essere governati.
Dunque la dimensione moderna del potere nasce attraverso la genesi di questi
concetti di ordine, legittimazione, diritti, uguaglianza, libertà…attenzione però questo
27
non significa che prima della cesura della modernità questi termini, queste parole non
esistevano, basti pensare alla storia della parola democrazia che è giunta dall'antica
Grecia fino a noi, significa che questi termini pur continuando ad essere impiegati in
periodi diversi, indicano concetti e significati differenti e a volte addirittura opposti a
seconda del contesto storico e politico in cui li cogliamo.
Ma vediamo in cosa consiste questa rottura epocale che inaugura la modernità, che
inaugura il modo specificamente moderno di intendere la politica e l'agire degli
uomini.
Attenzione in questo senso la categoria di modernità non va intesa semplicemente
nella sua dimensione storica che colloca la cosiddetta Età Moderna tra il XV e il
XVIII secolo, o dalla scoperta dell'America alla Rivoluzione Francese. La nozione di
modernità va intesa come un concetto allo stesso tempo diacronico e sincronico, che
taglia cioè la dimensione lineare del tempo, inaugurando anzi una nuova dimensione
del tempo e dello spazio e delle relazioni che intercorrono tra loro, per cui possiamo
trovare diverse cronologie della modernità a seconda del contesto geografico in cui ci
muoviamo. La modernità cioè non va intesa come un tempo storico ma come un
modo di intendere la politica, le relazioni e il modo di agire degli uomini, le relazioni
di potere e in questo senso se per molti paesi occidentali la modernità, la soglia della
modernità, la frattura o la Sattelzeit della modernità può essere collocata nei secoli di
mezzo tra XV e XVII, in altri contesti, come quello coloniali ad esempio, questa
frattura va collocata in un altro contesto storico e cronologico.
Dicevamo dunque in cosa consiste questa rottura epocale che inaugura la
modernità come dimensione specifica del potere e delle relazioni tra gli uomini. La
scienza o filosofia politica moderna è un sistema di regole generali teso ad eliminare
l'irregolarità dei rapporti tra gli uomini e che mediante l'universalità e il rigore del suo
28
ragionamento costituisce una base sicura per la realizzazione dell'ordine e
l'eliminazione del conflitto.
È un modo tutto formale e giuridico di intendere il problema politico, ed è proprio
in questa formalità e giuridificazione che consiste il dispositivo teologico politico
moderno, ed è per questo motivo che questa nuova scienza non assumerà il nome
antico di Politica ma quello di Scienza del diritto naturale.
Ma in che senso il problema politico va affrontato in modo formale e giuridico? In
che senso gli elementi per la costruzione dell'ordine sono formali? Nel senso che gli
strumenti per la costruzione dell'ordine non dipendono dalla bontà o dalla giustizia
dei loro contenuti, la giustizia di ogni singola decisione, utile allo stabilimento
dell'ordine, non dipende dal contenuto in sé della decisione, ma dal modo e dalla
forma attraverso la quale la decisione è stata presa.
Dunque i contenuti di ogni singola decisione trovano giustificazione nella forma e
nel modo in cui sono stati assunti e questa forma, che ha le prerogative della certezza
e della stabilità, consiste nel fatto che la decisione politica è espressione della volontà
degli individui, la volontà che è alla base del processo di costruzione dell'autorità e
della legittimazione moderna del potere.
Dunque la formalità consiste nel fatto che il problema non è più se il governo è
buono o è giusto bensì se il potere è formalmente legittimo, dunque il governo è
buono e giusto in quanto legittimo.
Il governo degli uomini che nell'età classica era stato considerato naturale e
necessario per ogni forma di comunità (domestica o civile, dalla casa alla polis), per
cui era naturale che alcuni comandassero e altri obbedissero, e la relazione governanti
governati si basava sulla differenza che connotava i membri della comunità, su una
29
concezione oggettiva di bene comune che non dipendeva dalla volontà di chicchessia,
ma consisteva nell'ordine delle cose, l'ordine del cosmos, e che questo ordine cosmico
e oggettivo garantiva, proprio in virtù delle differenze tra gli uomini, una
modulazione gerarchica e stratificata del potere, che si articolata in sfere di
autonomia interrelate e garantite da una perenne articolazione tra governo e diritto di
resistenza.
Questo modo di intendere il potere, basato sulla differenza tra gli uomini, e sulla
relazione tra sfere autonome e ordinate gerarchicamente di potere e resistenza con la
modernità viene considerato come una forma insopportabile di dominio dei
governanti sui governati.
Mi spiego meglio. L'idea antica di Imperium si basava sui rapporti sociali reali,
sull'esistenza di un cosmos come elemento di ordine, sulla diseguaglianza e sulla
differenza degli uomini, sulla necessità della virtù come fonte del buon governo. Tutti
questi elementi vengono ribaltati dalla Scienza politica moderna e da elementi di
ordine che erano diventano cause fondamentali di disordine e di conflitto.
La nuova scienza politica afferma l'uguaglianza degli uomini e un nuovo concetto
di libertà, che consiste nel dipendere solo dalla loro volontà, nell'essere svincolati da
obblighi che dipendono dai propri poteri naturali, cioè dalla propria collocazione
all'interno di quella gerarchia di autonomie interrelate.
Il potere moderno nasce sulla base di un rapporto formale di comando e
obbedienza, che può essere instaurato solo sul fondamento logico di quei diritti di
uguaglianza e libertà che sono allo stesso momento il suo fondamento e il suo fine.
Il potere moderno è legittimo perché si basa sulla volontà di tutti gli individui,
dunque
30
1. scompare il mondo oggettivo naturale e l'ordine è artificiale, è cioè il frutto e
il prodotto dell'agire politico degli uomini;
2. si assolutizza il momento della volontà come fonte dell'agire politico degli
uomini;
3. nasce il problema della legittimità dell'agire politico degli uomini.
Questo triplo movimento dà vita alla Sovranità moderna ed è nella concezione
dell'agire politico degli uomini che vedremo funzionare i dispositivi teologici politici
della sovranità moderna.
Il potere è unico, appartiene a tutto il corpo politico ed è legittimato
dall'espressione della volontà di tutti che, come vedremo fra breve, nelle teorie
giusnaturalistiche, avviene nella forma del contratto sociale.
Ma se il potere appartiene alla totalità del corpo politico e dal momento che tutti
siamo uguali il l'esercizio del potere non può essere affidato a qualcuno sulla base
delle sue qualità o capacità, come avveniva nell'età classica in base alla virtù
(metafora del gubernator rei publicae). Dunque se tutti siamo uguali e nessuno si
distingue naturalmente dagli altri per virtù, chi dovrà governare e chi dovrà essere
governato?
Se il governare, l'esercizio del potere non può essere affidato sulla base della virtù,
perché tutti gli uomini sono uguali e ugualmente liberi, l'esercizio del potere può
avvenire solo sulla base di un'autorizzazione a farsi rappresentanti del corpo politico,
del soggetto collettivo. Ed è in questo atto di autorizzazione e rappresentanza che
Carl Schmitt ha ravvisato i fondamenti teologici politici del potere moderno.
Tuttavia il corpo politico, il soggetto collettivo che deve autorizzare i
rappresentanti a governare non è un soggetto naturale, com'era la società classica,
31
quella medievale o quella cetuale, ma è formato sulla base della volontà di tutti, cioè
è il prodotto della volontà generale. Il problema è, lo accenno qui e ci torneremo tra
poco, che un soggetto collettivo può agire solo nella forma dell'agire rappresentativo,
altrimenti se agisse direttamente non sarebbe più un soggetto collettivo ma un corpo
politico dato dall'insieme, differenziato, dei suoi membri.
Questa particolare dimensione dell'agire politico, l'agire rappresentativo comporta
una serie di conseguenze:
1. la separazione tra chi detiene il potere e chi lo esercita, nel senso
che chi detiene il potere (il corpo politico) non lo esercita e chi lo esercita (i
rappresentanti) non lo detiene;
2. la separazione tra una sfera di azione pubblica (quella politica) e
una sfera di azione privata;
3. una doppia dicotomia dell'agire che comporta una scissione che
non è solo politica ma anche antropologica.
La scienza politica moderna dunque risolve nel modo appena descritto il problema
dell'ordine, inaugurando la dimensione moderna del potere e della politica ma
facendo ciò apre tutta una serie di nuove questioni. Intanto la questione del potere
costituente: quale soggetto può costituire il potere? Quello del controllo del potere,
che per il fatto stesso di essere frutto della volontà generale del corpo politico assume
le caratteristiche di assolutezza, chiudendo ogni possibilità di resistenza legittima;
Quello della divisone dei poteri, quello del rapporto tra società politica e società
civile
Come accennato pocanzi il potere, unico, che appartiene a tutto il corpo politico, è
legittimato dall'espressione della volontà di tutti che nelle teorie giusnaturalistiche,
avviene nella forma del contratto sociale.
32
Possiamo descrivere il Giusnaturalismo a partire da alcune sue caratteristiche
peculiari che descriverò qui schematicamente:
1. Esistono norme di diritto naturale e dunque razionali, anteriori ad
ogni norma giuridica positiva, che dovrebbero costituire il modello per ogni
legge positiva;
2. laicizzazione dell'idea di stato e fondamento umano del potere
politico;
3. Riconoscimento di alcuni principi universali fuori dai quali non c'è
legge ma arbitrio;
4. Stato di Natura, costruito per via razionale, mostra il sostrato
comune di tutte le società e la condizione naturale dell'uomo.
Tranne che per Hobbes e Rousseau lo stato di natura è una forma di vita
associata nella quale vigono alcuni diritti originari: vita, libertà, proprietà cui
mancano però le garanzie di tutela. Da qui la necessità di uscire dallo stato di natura e
istituire un potere capace di garantire la convivenza civile e rendere disponibili i
diritti naturali.
A metà del secolo XVII possiamo quindi segnare una cesura epocale, una
Sattelzeit, da una forma di razionalità naturale, fondata sulla trascendenza, ad una
razionalità scientifica. In questo passaggio si consuma un altro mutamento epocale
che è quello che matura nella concezione e dunque nel modo di pensare ed agire il
CONFLITTO. Se prima il conflitto, la guerra, la faida erano forme naturali della
relazione umana adesso il conflitto è visto come la patologia dell'associazione umana
il cui scopo prioritario sarà appunto la neutralizzazione dei conflitti per dar vita ad
una società pacificata, che attenzione non è una società della pace o pacifista, ma una
società in cui la concentrazione della forza nelle mani di uno solo, lo stato, toglie
legittimità a qualunque uso della forza che non provenga dallo stato stesso. Dunque la
pace non è la fine della guerra ma la vittoria di un solo attore, lo stato appunto.
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Il conflitto si trova al centro del dispositivo centrale della modernità politica, il
contratto sociale, che è appunto lo strumento per uscire dallo stato di natura,
conflittuale o potenzialmente conflittuale e dare vita allo stato. Nel contratto sociale
infatti gli individui esprimono la propria volontà razionale per dare vita ad una
società che risolva il conflitto grazie alla creazione di un corpo politico dotato di una
forza che è maggiore di quella posseduta da ciascuno dei suoi membri.
Attenzione però, se nella tradizione politica precedente il contratto sottolineava la
soggettività politica delle parti contraenti, era cioè un accordo tra parti che tali
rimanevano prima e dopo il contratto, e dunque potevano stipulare il contratto,
romperlo, tradirlo e resistere legittimamente alle sue violazioni …. Con il
giusnaturalismo e il contrattualismo moderno il contratto sociale dà vita ad un
soggetto che non preesiste il contratto stesso, il popolo, la società, che nasce appunto
in virtù del contratto. Il potere è di tutto il corpo politico e ha nell'eguaglianza il
proprio fondamento e il proprio fine. Dunque è un potere irresistibile, al quale non si
può resistere perché essendo fondato sulla base della volontà razionale di tutti i
contraenti resistergli significherebbe andare contro se stessi.
Dunque il potere moderno nasce sulla base della VOLONTA' razionale di tutti e si
esplica nella forma della RAPPRESENTANZA.
In latino persona indica il travestimento di un uomo camuffato sulla scena, e dal
palcoscenico il significato di questo termine si è allargato ad indicare chiunque parli o
agisca in rappresentanza di altri. Così persona è un attore ed impersonare significa
fare la parte di, rappresentare, dare corpo alla persona di un altro o agire in suo nome.
Nel linguaggio politico la rappresentanza indica la dipendenza di colui che esercita
un potere nei confronti di coloro da cui ha ricevuto il mandato per il suo agire
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politico, dunque l'agire politico del rappresentante non trova la propria legittimazione
nel rappresentante ma in coloro i quali sono rappresentati.
In questo senso rappresentare significa dunque "stare al posto di", "agire in vece
altrui", dipendere da condizioni che altri hanno posto e non muoversi in modo
autonomo.
Questo concetto di rappresentanza era tipico dell'età cetuale, e si caratterizzava
nella figura del MANDATO IMPERATIVO. Nella dimensione moderna del potere il
concetto di rappresentanza assume invece una nuova accezione che si esplica nelle
forme del MANDATO LIBERO.
Cosa è cambiato? Se nel mandato imperativo bisognava far emergere la volontà
degli elettori, con mandato libero ciò che emerge, che prende forma, è la volontà
della nazione: il popolo è sovrano ma la volontà del popolo è quella che emerge nel
parlamento, organo a sua volta sovrano. È dunque il parlamento ad esprimere la
volontà popolare che non è né formata né determinata in precedente ma che prende
forma nell'atto della rappresentazione.
È necessario chiarire il significato e la funzione che la R. assume nel modo
moderno di intendere la politica soprattutto per fugare le confusioni che spesso la
interpretano come il rispecchiamento fedele di qualcosa che le è preesistente, in
questo caso la volontà popolare. In questo senso si tende a ritenere che in parlamento
si rappresentino le volontà degli elettori, o di gruppi di elettori, in relazione ai loro
diversi interessi o appartenenze territoriali. Ma questa visione non corrisponde con la
logica del concetto di rappresentanza, né con la pratica politica della rappresentanza,
una logica e una pratica politica che risale al XVIII secolo.
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Questo momento di nascita, che possiamo segnare con la Rivoluzione francese, è
caratterizzato dall’intento di operare una rottura nei confronti del modo precedente di
intendere la politica, nella quale si parlava di rappresentanza in relazione agli ordini:
aristocrazia, clero, borghesia, IV stato ecc, ordini e parti che formavano la società e ai
quali spettavano particolari privilegi, libertates, esigenze e bisogni, di fronte a colui
che tiene le redini del governo, il monarca.
Con le trasformazioni del modo di pensare che abbiamo fino ad ora descritto la
società politica, razionalmente intesa, e non più naturalmente formata, perché il
potere sia legittimo deve essere da tutti voluto, non è più pensabile che vengano
rappresentate volontà particolari, diverse e particolari, perché, come abbiamo visto,
gli individui sono tutti uguali e liberi e lo stato deve rendere accessibili, cioè effettivi
i diritti naturali. Siamo passati cioè dall'ambito del privilegio particolare a quello dei
diritti universali.
Il compito di coloro che sono rappresentanti, non più di uno stato o di un ceto
particolare, ma dell’unità dello Stato, nel quale i cittadini non sono da un punto di
vista politico differenziati, non sarà più quello di rispecchiare volontà parziali dei
gruppi, ma invece quello di mettere in forma, cioè di dare un contenuto determinato,
alla volontà generale, cioè a quella della totalità del corpo politico.
Viene così a cadere la figura del mandato imperativo che aveva caratterizzato la
rappresentanza nel mondo europeo e questo viene trasfigurato nella forma del
mandato libero, in cui si perde quella relazione con volontà determinate e preesistenti
alla rappresentazione che caratterizzava l’uso precedente del termine di
“rappresentanza”.
Da quando la volontà politica è quella dell’intera nazione, del popolo intero, l’atto
che istituisce i rappresentanti, non consiste più in una trasmissione di volontà politica,
ma piuttosto nella costituzione del potere politico legittimo, attraverso la fiducia
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espressa nei confronti di quegli attori politici che daranno vita all’azione e alla
volontà del corpo politico.
La rappresentanza è al centro della costruzione del corpo politico hobbesiano: il
processo di autorizzazione è un processo di costituzione dell’autorità attraverso il
quale ognuno si riconosce, dal patto in poi, come autore delle azioni dell’attore, della
persona pubblica di colui che rappresenta la parte di tale persona, il sovrano.
Il sovrano è la maschera, l’attore, l’unico attore sulla scena politica, e le sue azioni
hanno come autori gli individui che lo hanno autorizzato e che con ciò stesso
diventano sudditi. L’essere rappresentante è un elemento costitutivo del sovrano: non
si dà corpo politico se non mediante l’azione rappresentativa e questa dà forma alla
personalità dello Stato ed all’unità politica.
Solo ora e non prima della nascita dei rappresentanti si può parlare di una
determinata volontà politica. La funzione che istituisce i rappresentanti è espletata
attraverso le elezioni, che assumono un ruolo strategico. In senso proprio allora le
elezioni consistono non in una trasmissione di volontà politica, ma in una forma di
autorizzazione, di costituzione cioè dell’autorità e di legittimazione di coloro che
metteranno in atto questa autorità: gli attori politici.
Questo concetto di rappresentanza politica si incarica di dare attuazione al
fondamento della legittimazione del potere, il quale non può consistere nella
comando di qualcuno nei confronti degli altri, ma di un diritto di coazione che solo
l’intero corpo collettivo detiene nei confronti di tutti i suoi membri: “il popolo è
libero se ubbidisce alle leggi che si è dato”.
Tale espressione, dall’apparenza convincente, in realtà è complicata dal fatto che
nel termine “popolo” c'è una dualità di significati:
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1) Popolo è il soggetto collettivo che esprime la volontà sovrana attraverso quel
comando che è la legge, cioè popolo è chi fa la legge;
2) Popolo è l’insieme dei singoli cittadini che dovranno ubbidire alla legge.
Il nocciolo centrale della legittimazione del potere moderno consiste proprio
nell’identità di chi comanda e chi ubbidisce. In realtà non di identità si tratta, ma di
identificazione, e il concetto che si incarica di tale operazione è appunto quello di
rappresentanza attraverso la procedura delle elezioni.
La genesi del concetto e della sua logica si trova – paradossalmente, per il senso
comune che collega l’agire rappresentativo alla democrazia e ravvisa invece in
Hobbes l’affermazione del potere assoluto del sovrano – proprio nel pensiero
hobbesiano e nel suo tentativo di dare luogo ad una scienza politica basata su una
razionalità formale che debba valere per tutti e che si liberi da quel governo
dell’uomo sull’uomo.
Il concetto moderno di rappresentanza non solo nasce ma risulta centrale per la
scienza politica moderna, all'interno della quale svolge un ruolo strategico, ancora più
rilevante di quello di sovranità.
La costituzione della forma politica che esclude la naturalità del comando e delle
differenze tra gli uomini si basa sulla volontà razionale di tutti gli individui. Ma il
coinvolgimento della totalità degli individui come fondamento del potere può
avvenire solo a patto dell’espropriazione del loro agire politico.
Tutti sono autori delle azioni dell’attore, il rappresentante, che sia esso il sovrano o
un’assemblea, quindi tutti hanno rinunciato ad agire nel senso pubblico del termine.
D’altro canto questo meccanismo di disincarnazione colpisce lo stesso
rappresentante, che non può essere inteso come soggetto di azione, ma è solo una
persona, una maschera prestata alle azioni di cui tutti si son fatti autori. Nel momento
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stesso della sua genesi la soggettività politica è scissa, è solo il frutto di una
mediazione: persona è colui che rappresenta sulla scena e la natura della persona è di
essere rappresentativa, cioè di essere connotata dalla scissione e dalla doppiezza.
Se la rappresentanza cetuale, in virtù della soggettività politica che la sosteneva e
dei meccanismi del mandato imperativo che la caratterizzavano, poneva uno di fronte
all’altro soggetti politici che, pur nelle forme della loro interdipendenza,
mantenevano una propria autonomia politica ed antropologica, la rappresentanza
politica moderna, con Hobbes, disincarna entrambi i poli di quel dualismo e di quel
conflitto, per risolverlo non attraverso la supremazia di un elemento sull’altro, come
nella lettura tradizionale dell’assolutismo, ma fondendoli in un’unificazione del
soggetto della sovranità.
Il potere politico, nella dimensione della sovranità moderna, si fonda sulla
concentrazione e sul monopolio della forza che agisce con diritto e non come pura
coercizione, la cui legittimità riposa sul principio di un’unica volontà che si
differenzia dalle volontà dei singoli.
Perciò possiamo dire, e questo è fondamentale per la teologia politica moderna,
che la rappresentanza costituisce il segreto della sovranità. Perché mostra insieme
come sia possibile per il corpo collettivo agire in modo unitario, esprimere una
volontà e un comando che sia unico, e, prima ancora, come sia possibile che un corpo
politico si venga a costituire. Senza rappresentanza non c’è sovranità e senza
sovranità non c’è società politica. Quando si dimentica questa matrice logica della
sovranità moderna si rischia di cadere in una trappola, perché si cerca di liberarsi del
concetto di sovranità e delle sue contraddizioni attraverso una concezione che intenda
il potere come fondato dal basso.
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Non si può trascurare un’ultima annotazione, affinché la teoria sia comprensibile.
Quanto detto ha una sua logica rigorosa, ma solo a partire dal presupposto da cui si è
partiti. Si tratta del ruolo fondante attribuito al concetto di individuo in relazione alla
società. Il concetto di individuo, che in questo modo si pone come strategico per il
pensiero della politica, non risulta dalla realtà quale emerge nell’esperienza, ma è il
prodotto di una astrazione “scientifica”, in quanto devono essere messe da parte le
determinazioni e i legami, i rapporti in cui i singoli uomini concretamente vivono e
sono reali.
Tutto lo sviluppo della costruzione si basa su questo presupposto. Perciò, se il
concetto di rappresentanza costituisce il segreto della sovranità e dunque del modo di
pensare la politica che si è determinato nella modernità, viene ad assumere un rilievo
decisivo la nota affermazione di Hobbes secondo la quale c’è un unico modo di
pensare come una moltitudine di individui, che uno (uomo o assemblea) sia il
rappresentante. Il concetto moderno di rappresentanza è tutto ancorato alla
immaginazione politica che si basa su questi due poli: il soggetto individuale e il
soggetto collettivo (nelle costituzioni: Stato e cittadini).
Ma questo processo che legittima il potere dà luogo ad una situazione aporetica che
coinvolge il soggetto moderno, cioè l'individuo. I singoli che sono posti alla base
della costruzione teorica sono bensì soggetti della politica in quanto autori, ma
proprio per questo si trovano in realtà privati dell’azione, che solo gli attori politici
compiono. Questi ultimi per altro compiono azioni che non sono loro, ma sono
imputabili agli autori. In questa dialettica appare impossibile dare un significato forte
e strategico alla categoria della responsabilità.
Ciò permette di parlare di una forma di spoliticizzazione che va di pari passo con la
posizione del cittadino al centro della scena politica. Nelle elezioni il cittadino non è
legato alla realtà concreta che lo caratterizza: al suo sapere, ai suoi bisogni, alle sue
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competenze, alle sue relazioni, ma esprime, quando è possibile, una preferenza per
una persona, che gli è più o meno proposta o imposta. Nella scelta egli è del tutto
esposto alla fiducia, si trova nell’ambito dell’opinione e dunque in balia di chi riesce
a influenzare e determinare la sua opinione.
All’interno della democrazia rappresentativa tuttavia tale aspetto non prende il
senso del “rispecchiamento” ma piuttosto incide in quella dialettica nella quale i
rappresentanti sono eletti e per rimanere tali devono essere riconfermati, e si crea
l’opposizione tra maggioranza e minoranza. L’azione rappresentativa è sempre sotto
il giudizio degli elettori, che possono riconfermare o cambiare i loro rappresentanti.
Si manifesta così, nella forma che viene comunemente indicata come “consenso”,
quel lato rilevante per la rappresentanza nella forma politica democratica, che
consiste nel riconoscimento
Una tale modalità di pensare la presenza politica dei cittadini richiede di porre a
tema quella complicazione della concettualità classica dello Stato che si determina
mediante l’introduzione della figura del partito politico. Sono infatti i partiti a
costituire quelle organizzazioni che servono a convogliare in scelte determinate la
volontà degli elettori. Una riflessione su questo punto porterebbe alla conclusione che
i partiti politici non portano al superamento dell’aporia, ma si inseriscono in essa con
effetti spesso perversi, e, oltre a ciò, evidenziano una sfasatura tra la realtà e la
funzione legittimante costituita dalla carta costituzionale, che prevede il
rappresentante come libero da vincoli di mandato
Nella rappresentanza moderna, quale è da Schmitt concepita, solo chi esercita il
potere ha una funzione rappresentativa e dunque politica. Pensare la dimensione
politica dei cittadini appare un compito necessario, tanto più quanto più nella
rappresentanza emerge una dimensione propria della prassi dell’uomo e dello stesso
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pensiero. Ma per affrontare questo punto bisogna prima passare attraverso la
riflessione sulla teologia politica.
Carl Schmitt: teologia politica e rappresentanza
Il pensiero di Carl Schmitt è al centro di un dibattito veramente variegato, ma
sicuramente S. si colloca ad uno dei livelli più alti di comprensione della
concettualità politica moderna, dunque quello che c'è forse di veramente notevole nel
pensiero s. non è tanto la sua proposta interpretativa quanto la sua capacità di
comprensione della genesi e della crisi del pensiero politico moderno, lo jus publicum
europaeum.
Comprendere i concetti politici moderni significa interrogarli, comprenderne la
genesi, le implicazioni e le aporie, essere al di là del loro semplice detto, e della loro
funzione legittimante. S. non mantiene i concetti come presupposti, ma li interroga e
li indaga nel loro concreto funzionamento. E' un modo filosofico di pensare, se con
questo termine non intendiamo una speculazione astratta , o una concezione del
mondo, o una proposta di soluzione dei mali del mondo, ma per pensiero filosofico
intendiamo un pensiero radicale del politico, un pensiero critico.
La TP in S è ciò che ci permette di intendere cosa sia la costellazione dei concetti
politici moderni e come questi siano centrati sul binomio sovranità-rappresentazione.
Se il tentativo moderno è di intendere il politico mediante il diritto e in questo
quadro il diritto coincide con lo statuale, l'atteggiamento schmittiano è quello
dell'interrogazione della forma-stato, per andare ad un concetto di politico che spieghi
l'origine di quella forma, e che per ciò con quella forma non si identifichi. Questo non
significa dislocarsi in un altro ambito diverso da quello statale, ma trovare nella
stessa forma stato la sua propria origine.
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Per comprendere in quale modo nasce questa forma politica abbiamo ripercorso i
dati essenziali del giusnaturalismo moderno e della scienza politica moderna che
nasce con Hobbes e dei concetti politici che essa genera al centro dei quali sta il
concetto di sovranità o di potere.
Riprendiamo qui la definizione di Herrschaft di Max Weber che definiva il potere
come rapporto formale di comando obbedienza e il concetto di disciplina come
disposizione a obbedire al comando di chi esercita il potere.
Weber definisce questo rapporto formale perché l'obbedienza non dipende dai
contenuti del comando ma dipende dal fatto che il vero fondamento di legittimità del
rapporto di obbligazione politica si basa sul fatto che chi obbedisce lo fa in quanto
intende il comando di chi è autorizzato ad esprimerlo come se fosse prodotto della
propria volontà, intende cioè la volontà di chi detiene il potere politico come la
propria volontà, dunque una volontà rappresentativa.
Colui che detiene il potere lo esercita legittimamente in quanto è ritenuto come
colui che non esprime la sua propria volontà e una propria azione, ma piuttosto la
volontà e l'azione di tutto il corpo politico. Questa è la struttura dell'agire
rappresentativo nel quale tutti sono autori delle azioni che l'attore, il rappresentante
compie.
Come abbiamo visto, al centro della forma stato ci sono sovranità e
rappresentanza, il grande contributo di Schmitt sta nell'aver compreso questa logica
che sta alla base della costruzione teorica moderna e la centralità che in questa
assume l'unità politica, un corpo politico unico, una persona civile, la cui vita è altra
da quella degli singoli che sono ormai divenuti individui privati.
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Dunque il contributo di S. sta proprio nell'aver colto questo rapporto tra sovranità e
rappresentazione e unità politica
L'agire rappresentativo è performativo cioè produce forma, non dipende da una
forma ma produce una forma e la TP è ravvisata proprio all'interno del concetto
fondamentale di rappresentazione che costituisce il cuore della forma politica
moderna.
Dunque centralità della Rappresentazione e movimento formante della forma
politica, scrive Schmitt: " non c'è nessuno stato senza rappresentanza, poiché non c'è
nessuno stato senza forma di stato e alla forma spetta essenzialmente la
rappresentazione dell'unità politica."
La R. costituisce la struttura del politico così come questo si dà nello stato
moderno: rappresentare significa rendere visibile e temporaneamente presenta un
essere invisibile mediante un essere che è pubblicamente presente … l'invisibile
(l'autore rappresentato) è presupposto come assente ed è al tempo stesso reso presente
(dall'attore rappresentante).
Ma cosa significa rendere presente l'assente, se una cosa è resa presente ciò che è
reso presente non è più assente.
Ed è qui che la struttura della rappresentanza moderna contiene l'elemento
teologico proprio del politico e, nello stesso tempo, rivela la struttura teoretica che
manifesta un'aporia fondamentale nella prassi umana.
La teologia politica non è la fondazione teologica del politico, né può essere ridotta
ad un processo di secolarizzazione dai concetti teologici a quelli politici.
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Per TP si deve intendere la presenza nel politico, per il suo stesso costituirsi, di una
trascendenza, o meglio di un movimento di trascendimento della realtà empirica che è
necessario e nello stesso tempo irrisolto. Il politico non si può nemmeno costituire se
restiamo sul piano del presente empirico e infatti l'agire rappresentativo comporta il
rapporto con ciò che non è empiricamente presente.
Se ripensiamo infatti che la rappresentanza moderna non è rappresentanza di parti
o di volontà costituite, ma dell'unità del popolo e della sua volontà, capiamo in che
senso questa non è presente. La volontà del popolo non è immediatamente presente
ma lo diventa solo nell'atto della rappresentazione rimanendo tuttavia per sua natura
assente, la sua presenza cioè è nella forma dell'assenza e ciò che è presente è
l'immagine che ha preso forma mediante la rappresentanza.
In ciò consiste la struttura teologica della rappresentazione e dunque il concetto di
secolarizzazione assume un concetto assai più rilevante di quello che di solito si
ravvisa nel saggio TP. Secolarizzazione non è un passaggio dal teologico al politico,
dal trascendente al mondano, ma indica il tentativo, proprio del politico, della prassi
dell'uomo, di rendere visibile e dunque di fare entrare nel saeculum, ciò che è
trascendente, che è ideale.
La secolarizzazione non va dunque intesa come passaggio dal trascendente al
mondano ma sta ad indicare il fatto che il piano mondano della politica non può
risolversi in se stesso, ma implica concetti di origine teologica proprio in quanto non
può, nonostante tutte le sue pretese, risolversi sul piano dell'immanenza e della
mondanità, ma implica l'idea in un costante movimento di trascendimento della realtà
empirica: senza questo movimento la politica non si riesce a costituire, nemmeno
nella sua forma più laica e terrena.
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