Lo stato dell'arte degli studi organizzativi e manageriali. Allargare lo sguardo attraverso i...

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I Critical Management Studies (CMS) hanno focalizzato in questi anni l’attenzione sugli aspetti critici delle teorie manageriali ed organizzative, evidenziando le profonde lacune non solo esplicative, rispetto al divario tra prevedibilità dei comportamenti aziendali ottimali ed effettiva attuazione degli stessi, ma anche e soprattutto epistemologiche, rispetto a quali siano le premesse di fondo degli studi e delle pratiche manageriali ed organizzative.

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LO ‘STATO DELL’ARTE’ DEGLI STUDI ORGANIZZATIVI E MANAGERIALI: ALLARGARE LO SGUARDO ATTRAVERSO I CRITICAL MANAGEMENT STUDIES

DARIO SIMONCINI Università ‘G. D’Annunzio’ di Chieti e Pescara

[email protected]

MARINELLA DE SIMONE Scuola di Educazione all’Etica della Complessità

[email protected]

WOA 2010/TRACK 9 Critical Management Studies

XI Workshop dei Docenti e dei Ricercatori di Organizzazione Aziendale Incertezza, creatività e razionalità organizzative

Bologna, 16-18 giugno 2010

ALMA MATER STUDIORUM UNIVERSITÀ DI BOLOGNA FACOLTÀ DI ECONOMIA E ALMA GRADUATE SCHOOL

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LO “STATO DELL’ARTE” DEGLI STUDI ORGANIZZATIVI E MANAGERIALI: ALLARGARE LO SGUARDO ATTRAVERSO I CRITICAL MANAGEMENT STUDIES

Abstract - I Critical Management Studies (CMS) hanno focalizzato in questi anni l’attenzione sugli aspetti critici delle teorie manageriali ed organizzative, evidenziando le profonde lacune non solo esplicative, rispetto al divario tra prevedibilità dei comportamenti aziendali ottimali ed effettiva attuazione degli stessi, ma anche e soprattutto epistemologiche, rispetto a quali siano le premesse di fondo degli studi e delle pratiche manageriali ed organizzative. Gli assunti che affronteremo nel lavoro riguardano alcuni passaggi fondamentali nell’analisi critica dello “stato dell’arte” degli studi organizzativi e manageriali, nonché delle pratiche attuate direttamente nelle attività di impresa. Le domande che ci siamo posti, ed a cui nel nostro lavoro abbiamo cercato di fornire una prima risposta, possono essere così riassunte: Quali sono gli scopi che prevalentemente si sono prefissi sino ad oggi gli studi in ambito organizzativo e manageriale? Quali sono i presupposti ed i valori perseguiti sia nella prassi manageriale che negli studi che la concernono? I Critical Management Studies (CMS) hanno focalizzato in questi anni l’attenzione sugli aspetti critici delle teorie manageriali ed organizzative, evidenziando le profonde lacune non solo esplicative, rispetto al divario tra prevedibilità dei comportamenti aziendali ottimali ed effettiva attuazione degli stessi, ma anche e soprattutto epistemologiche, rispetto a quali siano le premesse di fondo degli studi e delle pratiche manageriali ed organizzative. La critica più radicale che questi studi stanno portando avanti riguarda proprio i fondamenti della ricerca e gli scopi che essa si prefigge, fino ad arrivare ad analizzare le pratiche manageriali e l’educazione impartita nelle business schools che contribuiscono a diffondere acriticamente teorie e prassi consolidate in ambito manageriale, trascurando le implicazioni etiche che l’agire organizzativo e manageriale comporta in un più ampio quadro sociale (Bagley, Clarkson, Power, 2006). I Critical Management Studies raccolgono attorno a sé ampi ambiti di indagine e di studi, accomunati da alcuni aspetti di base nell’approccio seguito e, soprattutto, dallo scopo che si prefiggono; essi, infatti, non si limitano a portare avanti un dibattito critico alle fondamenta della ricerca in ambito organizzativo e manageriale, e nemmeno si limitano a cercare rapide soluzioni ai problemi sollevati; questi studi hanno piuttosto come obiettivo comune quello di sovvertire e sostituire radicalmente le attuali pratiche manageriali e le attuali proposte in ambito epistemologico, introducendo nel campo di indagine ed applicativo anche aspetti del vivere sociale che sono rimasti fino ad oggi esclusi. La critica si deve perciò estendere necessariamente ai presupposti di tutta la convivenza civile delle nostre società contemporanee, e non solo a quelli esistenti nelle teorie manageriali ed organizzative, che tuttavia esse contribuiscono a mantenere ed a rafforzare. L’approccio non è solo critico o “distruttivo” come potrebbe apparire ad una prima disamina superficiale, quanto piuttosto una forma di “de-costruzione” della realtà attuale e delle sue strutture di dominio, attraverso un’analisi di quelle che sono le istituzioni sociali, le ideologie, le forme di pensiero più diffuse (Alvesson, Deetz, 2000). L’obiettivo di sovvertire le attuali strutture di dominio – tra cui le pratiche manageriali mirate al solo raggiungimento del profitto, la finanziarizzazione dell’economia, le forme patriarcali di gestione del potere – non è configurabile unicamente come “ideologia di sinistra”, pur se parte degli studi provengono certamente da una connotazione politica di questo tipo, ma anche e soprattutto come il desiderio, se non addirittura la necessità sociale, di migliorare le condizioni di vita in tutti gli ambienti umani, aziende comprese. L’allargamento di prospettiva che ne deriva consente di introdurre nell’analisi i differenti stakeholders che sono coinvolti nell’agire delle organizzazioni, aziendali e non; non solo i dipendenti e gli azionisti, ma anche i clienti, i cittadini e tutti coloro che risentono degli effetti

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“intrusivi, oppressivi, ecologicamente distruttivi e anti-sociali” delle pratiche portate avanti soprattutto dalle grandi corporations private e pubbliche (Willmott, 2008). I CMS mostrano un profondo scetticismo riguardo alla difendibilità morale ed alla sostenibilità ecologica delle forme prevalenti organizzative e di management (Adler, Forbes, Willmott, 2007). Si tratta sicuramente di un approccio “eterodosso” per non dire “eretico” rispetto ai pilastri considerati fondamentali dal pensiero organizzativo più tradizionale. Gli assunti che affronteremo nel prosieguo del lavoro riguardano alcuni passaggi fondamentali nell’analisi critica dello “stato dell’arte” degli studi organizzativi e manageriali, nonché delle pratiche attuate direttamente nelle attività di impresa. Le domande che ci siamo posti ed a cui nel nostro lavoro abbiamo cercato di fornire una prima risposta, possono essere così riassunte:

• Prima domanda: quali sono gli scopi che prevalentemente si sono prefissi sino ad oggi gli studi in ambito organizzativo e manageriale? Attraverso alcuni spunti di riflessione proposti dai CMS, definiti come “Anti-performativity” (Fournier, Grey, 2000), analizzeremo come l’approccio di studi seguito sia stato fino ad oggi rivolto quasi esclusivamente a fornire strumenti utili al management, in un’ottica di performance aziendale fondata su efficienza ed efficacia dell’agire manageriale, e come questo ne abbia limitato fortemente l’attività non solo di analisi dell’esistente, ma anche e soprattutto propositiva di nuovi modi di intendere l’agire manageriale.

• Seconda domanda: quali sono i presupposti ed i valori perseguiti sia nella prassi manageriale che negli studi che la concernono? Si tratta di definire gli aspetti paradigmatici su cui si fonda sia l’approccio epistemologico alle organizzazioni, ovvero il metodo di indagine seguito, sia l’approccio ontologico su cosa sia da definirsi come “realtà” cui fare riferimento abitualmente, e che viene definito nei CMS come “Critical Reflexivity” (Willmott, 2008).

SCOPI DEGLI STUDI IN AMBITO ORGANIZZATIVO E MANAGERIALE Negli studi organizzativi e manageriali i riferimenti principali sono incentrati su aspetti giudicati “naturali” dell’agire umano nelle relazioni sociali, soprattutto in quelle coinvolte con aspetti di tipo economico. Tali aspetti riguardano l’assunto fondamentale su ciò che è “economico” – massimo risultato con il minimo sforzo – e su ciò che è “razionale” ; in altri termini, su quali siano le spinte che definiscono l’agire umano nelle sue relazioni sociali. Massimizzare l’output e minimizzare l’input, in un’ottica meramente strumentale ed individuale – senza alcuna riflessione sugli effetti globali del proprio agire personale – è ciò che viene definito nei CMS come “performativity”. Ciò ha portato ad escludere, come “eretiche”, tutte quelle teorie che avrebbero potuto allargare la visione ad ambiti più vasti ed alternativi a quelli dominanti fondati ancora su presupposti di tipo fordista e post-fordista, poiché non offrivano adeguati strumenti utili per il management e, soprattutto, perché mettevano in crisi le basi concettuali su cui poggiavano le pratiche in uso e la responsabilità delle scelte effettuate. La mancata riflessione sugli effetti più ampi che tali aspetti “naturali” comportano a livello di comunità, non solo sociale ma persino economica, ha generato e sta generando gravi disagi, evidenti nella crisi economica e finanziaria sempre più acuta di questi anni, nonché negli aspetti più generali del vivere sociale e ambientale. Gli studi organizzativi si sono prevalentemente focalizzati sul management come fosse un’attività meramente tecnica, e sull’organizzazione come strumento per la realizzazione degli obiettivi aziendali. Per riprendere una definizione di organizzazione fornita da Mintzberg: “L’organizzazione può essere definita semplicemente come il complesso delle modalità secondo le quali viene effettuata la divisione del lavoro in compiti distinti e quindi viene realizzato il coordinamento fra tali compiti” (Mintzberg, 1985). Ciò ha consentito di adeguarsi alle richieste del management, senza alcuna capacità sia critica che propositiva, correndo dietro al principio di ricercare gli strumenti necessari a facilitare le attività manageriali. Ne è conseguita una focalizzazione quasi esclusiva sui

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concetti di “efficacia” e di “efficienza” tali da escludere altri aspetti che potevano essere in contrasto con tali concetti, ma ugualmente e forse maggiormente importanti e necessari per il benessere sociale. Si è perso così di vista anche l’aspetto educativo legato alle scuole di management, che comporta un ampliamento degli spazi di conoscenza anche agli effetti sociali, politici ed etici dell’agire manageriale, restringendolo quasi esclusivamente all’analisi degli skills necessari e degli strumenti utili al perseguimento degli obiettivi strettamente aziendali (French, Grey, 1996). La domanda principale diviene quindi: gli studi organizzativi e manageriali devono offrire adeguati strumenti per il raggiungimento degli obiettivi di management, o vi è bisogno piuttosto di capire ex-ante che cosa può servire e, soprattutto, per che cosa può servire? Poiché gli studi organizzativi, a nostro avviso, non dovrebbero riguardare tanto gli strumenti, quanto piuttosto la progettualità di un possibile schema organizzativo avente un contesto più ampio dell’aspetto meramente gestionale legato alla quotidianità, offrendo anche proposte alternative a quelle già esistenti ed operanti sul mercato, essi hanno completamente decentrato il focus dei loro studi ed hanno perso la capacità critica di ciò che stava avvenendo ed in qualche modo anche la capacità propositiva di nuove possibilità di azione manageriale. Stiamo parlando così di livelli completamente diversi; se dobbiamo svilire un approccio che è di tipo teorico per la comprensione della realtà, se non addirittura di co-generazione della realtà, con un approccio di tipo strumentale, rientriamo di necessità in un paradigma di tipo utilitaristico, quello tuttora dominate in tutti i campi sociali. Se si vuole uscire da un paradigma utilitaristico è ovvio che non si può più essere alla costante ricerca dell’ultima proposta di leadership e del miglior modello da proporre alle aziende, sperando con ciò di ottenere riconoscimento e maggiore facilità nelle pubblicazioni sulle riviste specializzate. E' evidente che in gioco vi sono tematiche molto profonde, e non solo i semplici risultati di ricerche di dati; l'interpretazione che ciascun studioso dà degli studi effettuati e la direzione che questi prendono è in relazione con i presupposti che egli ha nell'affrontare le proprie ricerche (Finlay, 2003). Tali presupposti risultano ben intrecciati e coerenti tra loro, creando una rete concettuale all'interno della quale le modalità sociali di gestione del potere possono trovare un’adeguata giustificazione. Illudersi che gli studi manageriali siano utili ad uno sviluppo neutrale della conoscenza in ambito manageriale per la realizzazione degli obiettivi che le aziende si pongono è non solo limitante, ma persino fuorviante (Alvesson, Willmott, 1992). Da molti studiosi ed in campi diversi di riflessione viene fatto rilevare come organizzazione e gestione del potere siano strettamente interrelati ed interdipendenti; ne deriva di necessità che ritenere le organizzazioni “trasparenti” rispetto a ……. diviene a sua volta di necessità una scelta politica e di gestione del potere (Clegg, Courpasson, Phillips, 2006; Hillman, 2002). Tanto è che i CMS intendono mettere in discussione proprio ciò che viene dato per scontato (“taken-for-granted”); si usa la scienza classica ed i suoi strumenti per non dover toccare i presupposti e le convinzioni di fondo del proprio approccio di studio, che non vengono così messi in discussione e si offrono le pratiche che derivano dalle conoscenze scientifiche già esistenti e, come tali, incontestabili. Le teorie organizzative rimangono così “trasparenti” rispetto a ciò che descrivono e cercano di spiegare, dando così per scontato entrambi gli assunti: che la realtà – ovvero il mondo delle organizzazioni - che si osserva sia data, e che la funzione della ricerca e degli ambiti educativi in cui si esplica sia al servizio di tale realtà. Come ricordano Taskin e Willmott, si sono proposti prevalentemente studi “per” il management, piuttosto che studi “del” management (Taskin, Willmott, 2008). Attualmente, nell’ambito delle produzioni e delle prestazioni di beni e servizi è dominante l’adesione ad un paradigma riduzionistico, fondato sulla prevalenza dell’approccio logico-razionale alla spiegazione delle motivazioni del comportamento delle persone. L’uomo ottimizza le proprie scelte di utilità assecondando la sua naturale intenzione individualista; tale intenzione si focalizza sulla soddisfazione dell’interesse personale e non su quello della relazione che emerge dall’integrazione dei bisogni delle parti coinvolte. Secondo questo approccio, lo scambio di mercato

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prevede che la reciprocità tra due o più persone si manifesti attraverso il compimento di un atto simmetrico di valori contrattualizzati mediante un corrispettivo monetario. L’intenzione individualista, anche quando è tesa a soddisfare un mix di utilità, può manifestarsi solo in una condizione di sicurezza e controllo dello scambio, perché altrimenti le controparti dovrebbero confrontarsi sull’imprevedibilità del risultato dello scambio, assumere la consapevolezza di essere in relazione e, circostanza di non poco conto, accettare l’idea che non esiste un mercato efficiente o una mano invisibile che aggiusta ogni cosa ponendo al di fuori della persona la responsabilità della dinamica sociale degli eventi. Tant’è che forme ibride di coordinamento si accavallano nell’esperienza di tutti i giorni per far sì che le relazioni organizzative possano mantenersi idealmente ancorate alle idee deterministiche di scambio, competizione ed equilibrio. La sicurezza ed il controllo degli scambi tra le persone sono stati fino ad oggi garantiti mediante l’esclusiva considerazione materiale del bene scambiato, l’oggettivizzazione numeraria dell’equivalenza dei beni, la teorizzazione dell’equilibrio generale dei sistemi produttivi. Il modello di coordinamento del mercato conduce, per definizione, a situazioni di conflitto tra interessi contrapposti, se non nel caso in cui viga nella realtà effettiva l’ipotesi del tutto irreale costituita dalla presenza di una “mano invisibile” che porti tutto in ordine ed in equilibrio. In mancanza di ciò, diviene necessario prevedere forme di regolazione esterna e di un controllo pubblico che, se da un lato agevola la protezione di interessi sociali più generali, dall’altro limita ed ostacola il libero esplicarsi della volontà strettamente economica del mondo degli affari, inficiandone spesso la competitività (Mercurio, 2006). Nell’ambito di una visione utilitaristica, la persona determina il suo scopo per soddisfare un bisogno individualista di ricchezza; a tal fine, gli scopi promossi dagli altri vengono considerati dei meri strumenti per il perseguimento del proprio esclusivo benessere materiale. Se lo scopo “altro” è tale da agevolare il perseguimento del proprio scopo allora va sostenuto e utilizzato come mezzo; altrimenti va combattuto o tutt’al più ignorato sempre che non intralci la realizzazione del proprio progetto. Questa modalità di determinazione e perseguimento dello scopo da parte della persona esclude per definizione qualsiasi possibilità di avere a che fare con la felicità, perché si è felici solo se si è sinceramente in relazione “con l’altro” (Bruni, 2006). L’attaccamento delle organizzazioni, per rispecchiamento del sistema economico e produttivo, all’idea che le relazioni possano essere trattate come un congegno che, allorquando ben oleato, agisce autonomamente non ha però, almeno fino ad oggi, consentito di assumere una diversa visione del ruolo affidato ai meccanismi istituzionali che ne possono controllare la dinamica, considerando le risorse delle persone alla stregua di un bene naturalmente scarso. La conoscenza, e quindi la cultura, in questo ambito diviene uno strumento “forte” per la realizzazione degli obiettivi prefissati dal management, attraverso l’adeguamento delle risorse umane a quelli che sono definiti “i valori” dell’organizzazione, ed il riconoscimento, nonché il coinvolgimento, delle stesse alla “mission” ed alla “vision” aziendale. Mentre, per un verso, si è accresciuta nella pratica organizzativa e manageriale - tanto da divenire elemento di centralità nelle politiche di sviluppo delle risorse umane - l’attenzione alle singole persone e con essa l’attività di integrazione delle diversità dei saperi, per l’altro perdura un approccio separativo, caratterizzato dalla necessità di comparare, a parità di disponibilità, le singole risorse secondo una performance personale di business. Questo ancoraggio manageriale ed imprenditoriale all’idea che la conoscenza è il risultato di una somma di informazioni più o meno elaborate ed archiviate nel cervello della persona – a qualunque titolo definita, fosse anche un know how inconsapevole - non ha consentito a molte delle organizzazioni contemporanee di aprirsi a nuove possibilità interpretative della conoscenza, come quella, ad esempio, che considera la conoscenza quale processo di emergenza relazionale piuttosto che come sapere accumulato ed archiviato nella persona e, come tale, trasferibile agli altri componenti dell’organizzazione, al pari di una merce. In questo caso, la preoccupazione del management è quella di trovare il modo migliore per possedere la conoscenza più avanzata per poi trasferirla agli altri componenti dell’organizzazione;

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oppure di trovare il modo migliore per rendere esplicita la conoscenza inconsapevole della persona, in modo tale da renderla oggetto di conoscenza codificata da trasferire agli altri membri dell’organizzazione. Uno dei presupposti fondanti il paradigma determinista è che la conoscenza viene “creata” dalla persona e che tale creazione si realizza attraverso l’esplicitazione di una conoscenza che è per lo più già posseduta dalla persona. Dunque, creare conoscenza significa adoperarsi per “staccare” la conoscenza dalla persona, per separare, isolare e codificare il know how personale, e farlo divenire un sapere della comunità. Molto è stato scritto sulla conoscenza e molte sono le definizioni che ne sono state date; in particolare, è agevole rintracciare negli studi riguardanti le organizzazioni ed il knowledge management una descrizione – esplicita od implicita - della conoscenza come un bene avente natura immateriale. Partendo da tale assunto, è facile poi farne discendere tutta una serie di altri presupposti che ne definiscono il campo di azione e di analisi. Trattandosi di un bene, avrà una propria utilità, che può essere soggetta a valutazione e stima; avendo natura immateriale, è separata dalla persona che può averla generata; essendo separata dalla persona, gode di una propria esistenza; godendo di una propria esistenza, essa è avulsa dal contesto ed è pertanto trasferibile. Come noto, ancora oggi, la conoscenza viene considerata da molti manager e da molti imprenditori come un possibile oggetto di scambio; si ritiene vincente il possesso del know how semplicemente per il fatto di averlo potuto acquisire in modo esclusivo, in particolare quando lo stesso non si manifesta attraverso una tecnologia quanto, piuttosto, attraverso il saper fare incorpato in una persona. In questa prospettiva, se è vero che la persona possiede in modo esclusivo la conoscenza, è anche vero che la persona può essere comprata ed utilizzata alla stregua di un qualsiasi altro bene, alla stregua di una qualsiasi altra risorsa. E così ci si è dimenticati che il solo knowledge non è sufficiente a decretare la sua fortuna; perché è tale nel suo contesto, nelle sue relazioni con l’altro, nelle sue espressioni di “contagio” dell’ambiente, nella sua necessità di essere partecipato dalla rete sociale che lo promuove e che lo sostiene (Nicolini, Gherardi, Yanow, 2003). In tal modo le concettualizzazioni si ampliano, generando sovrapposizioni e generalizzazioni che, paradossalmente, tendono ad allontanare sempre più il concetto di conoscenza dall’esperienza del “fare” per avvicinarsi sempre più al principio metafisico del “creare”. L’espressione della conoscenza come oggetto, come bene trasferibile, ci appare pertanto molto riduttiva, così come molto riduttivo ci appare l’uso del termine anglosassone di knowledge per esprimere una molteplicità di concetti spesso assai diversi tra loro. Il knowledge si manifesta come know how solo quando viene contestualizzato nelle relazioni tra le persone, nelle sue espressioni di “contagio” dell’ambiente, nella sua necessità di essere partecipato dalla rete sociale che lo promuove e che lo sostiene. La più recente letteratura sul tema della “gestione della conoscenza” risulta carente soprattutto nell’aspetto epistemologico relativo alla definizione stessa del conoscere; quale è il significato da attribuire alla conoscenza? La conoscenza è un oggetto o un bene immateriale? La conoscenza appartiene ad una persona o è un bene collettivo? Si può parlare di “gestione della conoscenza” come se si parlasse, ad esempio, di gestione delle scorte? In altri termini: la conoscenza è una risorsa o un generatore di risorse?

PRESUPPOSTI PARADIGMATICI E VALORI ESPRESSI DAGLI STUDI E DALLA PRASSI MANAGERIALE

Chiedersi quali siano gli scopi della ricerca comporta di necessità chiedersi quali siano i valori (o la mancanza di valori) che ne definiscono il campo di azione. In sostanza, ci si sta chiedendo quali siano i presupposti fondanti la ricerca stessa e gli approcci che essa segue, in relazione alla loro applicabilità in ambito manageriale. E’ richiesta ciò che Willmott definisce come “critical reflexivity”, riferendosi con ciò alla capacità di riconoscere l’ineludibile parzialità di tutti i presupposti conoscitivi e le fondamenta su cui essi posano riguardo al management ed all’organizzazione, nonché alla consapevolezza di come essi siano pervasivi all’interno di discipline consolidate, protocolli metodologici, prassi e tradizioni esistenti.

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Un aspetto fondamentale riguarda perciò i riferimenti paradigmatici degli studi manageriali ed organizzativi, ossia i presupposti che hanno guidato la ricerca e gli studi per più di mezzo secolo. Tali riferimenti non sono ovviamente de-contestualizzati, ma pertengono direttamente all’ambito culturale all’interno del quale ci si sta muovendo, dando per scontate convinzioni che trovano diffusione attraverso l’uso del linguaggio, soprattutto metaforico, le emozioni su cui esse si fondano ed i comportamenti che ne derivano. La cultura che si manifesta in una collettività rappresenta il processo di organizzazione delle idee che circolano tra gli uomini, ed è proprio attraverso tale processo di adesione ad un medesimo paradigma culturale dominante che essi possono riconoscersi come membri di una stessa comunità (Kuhn, 1969). Il radicamento di una comunità in un paradigma dominante genera una condizione di potere della cultura sulle persone che appartengono alla comunità; un potere delle idee che conferisce uno stile univoco alla comunità (Morin, 2002; Morin, 2008). Nonostante ognuno di noi partecipi alla sua emergenza ed alla sua formazione, spesso non siamo consapevoli che il paradigma culturale governa le nostre azioni e viceversa, in un contesto di auto-rinforzo reciproco. Nel cercare gli strumenti, gli studi manageriali hanno tratto le proprie fondamenta dai concetti base delle scienze economiche, le quali, a loro volta, hanno assunto le stesse regole di indagine che governano le cosiddette scienze dure, soprattutto la fisica classica. Ciò ha comportato un’assunzione di base su cosa sia da considerarsi come “realtà” e, soprattutto, su quali siano le sue leggi di funzionamento, in un contesto perciò avulso da qualsiasi tipo di valutazione valoriale. Come ricordano Bruni e Zamagni in maniera critica: “L’economista, qua scienziato, non può compromettersi con i giudizi di valore o con un qualche punto di vista. Motivazioni e fini dell’azione sarebbero insondabili dalla ragione scientifica, la quale nulla avrebbe da dire su di essi” (Bruni, Zamagni, 2004). Essi definiscono tale approccio al proprio campo di studi come “ascetismo scientifico”, riprendendo la definizione data da Jonas (Jonas, 1990). Lo stesso tipo di “ascetismo” lo riscontriamo ampiamente negli studi organizzativi e manageriali, nei quali la valutazione delle scelte effettuate nel mondo del business - sia come struttura organizzativa che come effetti sugli altri stakeholders coinvolti – rimane tradizionalmente esclusa dai propri obiettivi principali di ricerca, puntando piuttosto su forme di tecnicismo e di coordinamento e controllo secondo gli stessi fini di competitività proposti dalla prassi manageriale. Il tecnicismo risulta pertanto una scelta “comoda”, che consente di mantenere viva la dicotomia tra “fatto” e “valore”, su cui si fonda ancora la nostra cultura non solo economica, ma sociale. Non solo gli studi manageriali, ma anche la maggior parte degli studi focalizzati sulle organizzazioni – come l’economia, la psicologia sociale, la sociologia – hanno fatto riferimento alle premesse epistemologiche ed ontologiche delle scienze fisiche, rendendole di fatto universali ed indiscutibili. Tali premesse sono ciò che, abitualmente, viene definito come “positivismo” o “riduzionismo” e gli strumenti di indagine che vengono applicati in tale contesto vengono definiti come “metodo scientifico” (Adler, Forbes, Willmott, 2007). Ciò decreta, in modo inequivocabile ed incontestabile, la separazione dell'oggetto, inteso come realtà degna di osservazione e di quantificazione, dal soggetto che, invece, viene ritenuto un elemento di disturbo e di incertezza. La realtà deve essere studiata come qualcosa di esterno all'osservatore, il quale deve impegnarsi ad interferire il meno possibile con l'osservazione stessa. Tale metodo consente all’uomo di poter conoscere qualunque cosa, passo dopo passo, con la semplicità e la facilità del ragionamento deduttivo, sempre purché se ne rispetti l'ordine e la verità intrinseca. Tale approccio all'osservazione del mondo viene comunemente definito come “meccanicismo” proprio per il modello meccanico applicato ad ogni forma di indagine: dalla fisica e dall'astronomia, da cui ebbe origine, esso si allarga ad ogni altro campo di studi, tra cui, ovviamente, anche le scienze sociali. La tendenza a separare, al fine di studiare nel dettaglio uno specifico fenomeno, ha condotto alla specializzazione dei saperi, riducendo così l'ambito di indagine di ciascuno di essi esclusivamente al proprio campo specifico. Conoscere vuol dire descrivere gli oggetti considerati in modo separato da chi li osserva; ciò ha decretato la sterilità dell'approccio scientifico, il quale nel suo indagare non si pone alcun tipo di problema etico, poiché

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esso pertiene esclusivamente al singolo individuo. La separazione tra l'aspetto misurabile e quello non misurabile delle conoscenze non si è ancora sanata; questa frattura degli studi ha causato delle lontananze disciplinari i cui effetti sono tuttora ben evidenti; siamo ancora ben lontani dal lavorare per integrare i saperi (Morin, 2000; Morin, 2001). Sono stati utilizzati nel management, nell’aspetto paradigmatico, anche a livello più inconsapevole, gli stessi presupposti della scienza positivista e meccanicista: prevedibilità, efficienza, routine, affidabilità; tutti questi concetti fanno parte del medesimo paradigma di pensiero. Nell’organizzazione tradizionale le persone che vi operano sono spesso considerate elementi di un ingranaggio che le trascende e che le confina alla funzione svolta. L'esecuzione dei compiti affidati si trasforma in una serie di comportamenti abitudinari ed attesi, la cui responsabilità spetta a chi ha elaborato lo schema organizzativo di divisione, coordinamento e controllo del lavoro. Abitualmente l'azienda viene definita come un "insieme di uomini e mezzi" avente uno scopo comune, definito dall'imprenditore, e che è abitualmente il profitto. L'idea che l'azienda sia in qualche modo equiparabile ad una macchina è sempre stata piuttosto diffusa, arrivando al suo apice con la dottrina dello Scientific Management proposta da Taylor e da tutta la scuola che ne è seguita, ed i cui effetti, nonostante le numerose critiche a questo modello, si risentono ancora oggi (Cafferata, 2007). Considerare le aziende, e le organizzazioni in generale, come delle macchine comporta necessariamente altri assunti, il primo dei quali è certamente quello di considerare le singole parti come delle componenti della macchina: gli uomini che la formano e vi partecipano e le macchine che si utilizzano fanno parte ad uguale titolo dell'organizzazione, fino a diventare, almeno per la teoria, dei beni sostituibili; e così, le persone sono pian piano diventate le cosiddette “risorse umane da gestire”. Ciò comporta anche un’assenza di responsabilità da parte delle persone che vi partecipano: è l’organizzazione che detta le regole del suo funzionamento; come si può chiedere a queste persone di dare il meglio di sé, attingendo alle proprie potenzialità ed alla propria intelligenza? Come si può chiedere a tali organizzazioni di divenire luoghi che consentano il benessere di chi vi lavora? Infine, come si può chiedere alle organizzazioni di essere pronte a cambiare rispetto ad un contesto che risulta essere in continuo mutamento in modo, oltretutto, imprevedibile? Il credere in un’organizzazione semplice e prevedibile all'interno di un ambiente semplice e prevedibile ed i cui risultati devono essere i migliori possibili, è un’illusione a cui è molto difficile rinunciare. La tentazione più immediata, a cui ancora oggi si ricorre pur in presenza di un ambiente sempre più complesso ed interrelato, è quella di procedere ad una semplificazione della realtà: esaminarne, cioè, solo alcuni aspetti, quelli che è possibile separare e porre sotto controllo, sperando che ciò possa aiutare ad ottenere dei risultati ottimali. E' evidente che un simile approccio non può che alimentare ulteriori problemi, poiché non è pronto a cambiare i propri modelli di pensiero e la propria visione del mondo, rimanendo miope di fronte ad un contesto ambientale che sta comunque cambiando, non riuscendo nemmeno più a comprenderlo. Il considerare le organizzazioni come macchine è soprattutto un modello di pensiero, da cui è molto difficile staccarsi, fondato sulla certezza dell’oggettività e sulla reificazione anche di ciò che non lo è per definizione, come le imprese; tutto ciò risponde ad uno schema mentale preciso: tenere tutto sotto controllo. Si tratta di una vera e propria "ossessione" verso il controllo, rilevando come essa si esplichi soprattutto nel tentativo continuo di eliminare qualunque incertezza per far funzionare la macchina regolarmente e con efficienza e, soprattutto, nel regolarne l'attività nonostante i conflitti che inevitabilmente si generano in tale tipo di organizzazione.

CONCLUSIONI: E’ POSSIBILE ASSUMERE UN NUOVO PUNTO DI VISTA? Negli ultimi decenni, tuttavia, agli occhi degli agenti economici e sociali si è presentato sempre più un mondo profondamente diverso dai modelli teorici dominanti applicati nelle organizzazioni come le aziende, dove i modelli operativi della programmazione e del controllo sono stati per lo più

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determinati secondo una procedura di ricalco delle condizioni teoriche previste per la determinazione quantitativa degli equilibri economico, finanziario e patrimoniale. E’ necessario rilevare che l'errore fondamentale che viene compiuto da coloro i quali hanno il potere di definire gli scopi dell’impresa è quello di fondare le proprie scelte sull'assunzione che l'azienda sia una impresa esclusivamente di natura economica, ponendo l'accento sull'economicità aziendale come attività di produzione di beni e servizi e non, piuttosto, sulla natura "umana" delle organizzazioni e sulle enormi possibilità che da ciò possono scaturire. In tal modo, chi decide perde paradossalmente di vista l’obiettivo della durata dell’azienda; l’orizzonte temporale potrà essere tanto più distante quanto più le persone si rendono sinceramente e creativamente disponibili a sostenere il mutamento dell'ambiente all'interno del quale operano. Considerata come obiettivo principale, l’economicità può avere un senso solo in una visione di breve se non di brevissimo periodo, cioè quella in cui il successo aziendale è misurato quantitativamente dai profitti ed in cui non si tiene in nessun conto la possibile durata dell’azienda; è ovvio che se ci si sposta ad una visione di lungo periodo questo approccio può mutare completamente. Ciò non comporta, naturalmente, che non si debba tener conto della profittabilità dell'impresa quanto, piuttosto, che il suo raggiungimento diverrà il mezzo e non lo scopo dell'attività stessa. Occorre cambiare completamente prospettiva per riuscire a pensare alle organizzazioni che durano nel tempo: le organizzazioni reificate non vivono per definizione. Solo gli esseri viventi sono in grado di mutare istante dopo istante, spesso impercettibilmente, ma incessantemente, senza che vi sia bisogno alcuno di un organizzatore esterno. Questa capacità di continuo mutamento è l'essenza stessa della vita, ed è ciò che comunemente viene inteso come capacità di apprendimento (Maturana, Varela, 1985). Ciò che rende il sapere personale fonte di arricchimento per la persona che lo incarna è la sua possibilità di agire in modo che il suo saper essere possa contaminare la comunità ed essere parte co-generatrice di conoscenza. La persona è responsabile del suo contaminare e, circolarmente, del suo apprendere, al fine di accrescere le possibilità di miglioramento della comunità. La contaminazione non ha valore se non con l’apprendimento e viceversa. Il valore non è nell’oggetto ma nella relazione tra le persone che si incontrano e che possono, se lo desiderano, partecipare ad un circolo virtuoso di co-generazione delle organizzazioni, decidendo di riconoscersi e rispettarsi reciprocamente in modo tale da stabilizzare nella comunità il predominio di un paradigma culturale fondato sul benessere relazionale (De Simone, Simoncini, 2008). Ne consegue che affrontare le tematiche organizzative con un approccio relazionale è necessario ma non sufficiente; l'analisi organizzativa deve mirare allo studio ed alla comprensione dei risultati di processo via via connessi allo svolgersi temporale e spaziale della dinamica delle relazioni, ossia allo studio ed alla comprensione del funzionamento dei sistemi dinamici complessi. Pertanto, quando nelle organizzazioni si predilige un approccio all'analisi dei comportamenti organizzativi per la gestione delle risorse umane centrato sull'individuo, sulla sua specificità e sulla sua diversità, ciò comporta che si indirizzi l'attenzione alla dinamica della persona, alle sue potenzialità ancorché inserite in un contesto organizzativo, senza però porre attenzione alcuna ad una visione della dinamica delle relazioni. Se, invece, l'organizzazione sposta il suo focus dalla dinamica dell’individuo alla dinamica delle relazioni - all'interno per esempio della relazione tra due persone, oppure in un team, in un gruppo, o in un'azienda in generale - si passa, di necessità, ad un approccio di dinamica e di manifestazione di rete, cioè al paradigma della complessità. L’organizzazione emerge dalle relazioni tra le persone e tra i loro diversi saperi; occorre un cambio del paradigma interpretativo della dinamica delle relazioni che sposti il focus degli studi organizzativi dal livello della persona al livello della relazione; non più “attori” per livelli dimensionali, ma “agenti” per livelli emergenti di identità complesse. Tuttavia, ciò non è ancora sufficiente per affermare che si è determinato un cambio di paradigma culturale rispetto a quello attuale fondato sulla separazione e sul perseguimento di interessi individualistici; per far sì che si determini un cambio di paradigma, da separativo a complesso, da individualista a relazionale, da determinista a circolare, è necessario che muti la disposizione delle intenzioni personali nel

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comportamento organizzativo, perché è attraverso il circuito intersoggettivo delle intenzioni che emerge l’organizzazione o, meglio ancora, il suo scopo effettivo.

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