Lo spazio nell’economia e nella teoria...

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107 Post - n°3 - Spazio - Lo spazio nell’economia e nella teoria economica - testo di Bruno Bonizzi immagini di Scott Cambell - Abstract Come ogni scienza sociale anche l’economia ha un suo modo di dise- gnare gli spazi. Sulla base dello schema proposto da Harvey (2004) si prova ad analizzare come lo spazio è considerato all’interno della teoria economica. Particolare rilievo è dato all’impatto che ha il cre- scente uso di tecniche statistiche e matematiche sulla concezione spa- ziale. Interrogandosi sui limiti di questa concezione, nella seconda parte si passa ad esaminare l’espansione spaziale dell’economia ca- pitalistica. L’approccio teorico qui seguito si basa prevalentemente sui lavori di Jason Moore: si sostiene che l’economia capitalistica ha bisogno di espandere la frontiera per poter avviare il processo di accumulazione. È in questa chiave di lettura che vanno inquadra- te le rivoluzioni agricole, che hanno reso possibile la riattivazione dell’accumulazione fornendo cibo, energia e materie prime a basso costo. Si dimostra così che l’economia classica non può arrivare a simili conclusioni perché non ha mai avuto una concezione dialet- tica dello spazio, che per Harvey, invece, rappresenta il punto di partenza della sua teoria. - e concept of space in economic theory As for other social sciences, also in economics space matters. Build- ing upon Harvey’s theory (2004) the present work intends to analyze how space is considered within the economic theory. A particular focus is given on the usage of mathematical and statis- tical tools on the conception of space and their limits. Jason Moore, in his works, discusses how one capitalistic economic system needs to expand geographically in order to begin the accumulation pro- cess. According to this point of view the agricultural revolution can be considered  as a starting point of the accumulation process, in fact it resulted in cheaper supplies of food, energy and raw ma- terials. However, it must be underlined that the classic economic theory would never come to such a conclusion as it does not imply a dialectic conception of space that Harvey instead considers to be fundamental. Introduzione “Imagine two people (Octavio and Abby) with a fixed amount of resources between the two of them ‒ say, 10 liters of water and 20 hamburgers. If Abby takes 5 hamburgers and 4 liters of water, then Octavio is left with 15 hamburgers and 6 liters of water. e Edgeworth box is a rectangular diagram with Oc- tavio’s origin on one corner (represented by the O) and Abby’s origin on the opposite corner (represented by the A). e width of the box is the total amount of one good, and the height is the total amount of the other good. us, every possible division of the goods between the two people can be represented as a point in the box.” 1 Con queste parole centinaia di studenti di economia hanno fatto il loro primo incontro con la teoria dell’e- quilibrio economico generale. L’economia descritta nei modelli di base che utilizzano l’oggetto descritto, la cosiddetta scatola di Edgeworth, è un’economia puro scambio: due individui possie- dono alcune risorse di base rappresentabili come coordinate nella scatola (che di fatto è una sovrapposizione di due grafici cartesiani) e se le scambiano. Grazie a questa scatola si possono individuare le possibilità di scambio dei beni tra gli individui e si possono determinare le cosiddette allocazioni Pareto-efficienti (ossia quelle che non permettono ad uno di migliorare la pro- pria condizione senza peggiorare quella dell’altro), tra le quali si trova il cosiddetto equilibrio (l’unico insieme di prezzi e quantità in cui entrambi sono al massimo della loro felicità raggiungibile dalle dotazioni di base). Il modello rappresentato dalla scatola di Edgeworth è un utile esempio di come la teoria economica pone la questione degli spazi: si tratta della stilizzazione e mappatura di una relazione economica, pertanto della rappresentazione dello spazio in cui essa avviene. Riconoscendo come tre le fonda- mentali concezioni di spazio – quelle nel presente numero della rivista Post – ossia spazio assoluto, relativo e relazionale, quale di queste è la concezione utilizzata maggiormente dai teorici dell’economia? Si può intuire che in realtà la risposta non è così semplice, né da esempi come la scatola di Edgeworth (che rien- trano comunque, benché arcaici, nella teoria economica mainstre- am), né tanto meno se si prendono in considerazione esempi di teoria economica provenienti dal campo delle teorie alternative. 2 È senza dubbio vero, infatti, che l’acquisto di un chilo di pane avviene in un certo momento in un certo luogo preciso, ma lo

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-Lo spazio

nell’economia e nella teoria

economica-

testo di Bruno Bonizziimmagini di Scott Cambell

-Abstract

Come ogni scienza sociale anche l ’economia ha un suo modo di dise-gnare gli spazi. Sulla base dello schema proposto da Harvey (2004) si prova ad analizzare come lo spazio è considerato all ’interno della teoria economica. Particolare rilievo è dato all ’impatto che ha il cre-scente uso di tecniche statistiche e matematiche sulla concezione spa-ziale. Interrogandosi sui limiti di questa concezione, nella seconda parte si passa ad esaminare l ’espansione spaziale dell ’economia ca-pitalistica. L’approccio teorico qui seguito si basa prevalentemente sui lavori di Jason Moore: si sostiene che l ’economia capitalistica ha bisogno di espandere la frontiera per poter avviare il processo di accumulazione. È in questa chiave di lettura che vanno inquadra-te le rivoluzioni agricole, che hanno reso possibile la riattivazione dell ’accumulazione fornendo cibo, energia e materie prime a basso costo. Si dimostra così che l ’economia classica non può arrivare a simili conclusioni perché non ha mai avuto una concezione dialet-tica dello spazio, che per Harvey, invece, rappresenta il punto di partenza della sua teoria.

-The concept of space in economic theory

As for other social sciences, also in economics space matters. Build-ing upon Harvey’s theory (2004) the present work intends to analyze how space is considered  within the economic theory. A particular focus is given on the usage of mathematical and statis-tical tools on the conception of space and their limits. Jason Moore, in his works, discusses how one capitalistic economic system needs to expand geographically in order to begin the accumulation pro-cess. According to this point of view the agricultural revolution can be considered  as a starting point of the accumulation process, in fact it resulted in cheaper supplies of food, energy and raw ma-terials. However, it must be underlined that the classic economic theory would never come to such a conclusion as it does not imply a dialectic conception of space that Harvey instead considers to be fundamental.

Introduzione“Imagine two people (Octavio and Abby) with a fixed amount of resources between the two of them ‒ say, 10 liters of water and 20 hamburgers. If Abby takes 5 hamburgers and 4 liters of water, then Octavio is left with 15 hamburgers and 6 liters of water. The Edgeworth box is a rectangular diagram with Oc-tavio’s origin on one corner (represented by the O) and Abby’s origin on the opposite corner (represented by the A). The width of the box is the total amount of one good, and the height is the total amount of the other good. Thus, every possible division of the goods between the two people can be represented as a point in the box.”1 Con queste parole centinaia di studenti di economia hanno fatto il loro primo incontro con la teoria dell’e-quilibrio economico generale. L’economia descritta nei modelli di base che utilizzano l’oggetto descritto, la cosiddetta scatola di Edgeworth, è un’economia puro scambio: due individui possie-dono alcune risorse di base rappresentabili come coordinate nella scatola (che di fatto è una sovrapposizione di due grafici cartesiani) e se le scambiano. Grazie a questa scatola si possono individuare le possibilità di scambio dei beni tra gli individui e si possono determinare le cosiddette allocazioni Pareto-efficienti (ossia quelle che non permettono ad uno di migliorare la pro-pria condizione senza peggiorare quella dell’altro), tra le quali si trova il cosiddetto equilibrio (l’unico insieme di prezzi e quantità in cui entrambi sono al massimo della loro felicità raggiungibile dalle dotazioni di base). Il modello rappresentato dalla scatola di Edgeworth è un utile esempio di come la teoria economica pone la questione degli spazi: si tratta della stilizzazione e mappatura di una relazione economica, pertanto della rappresentazione dello spazio in cui essa avviene. Riconoscendo come tre le fonda-mentali concezioni di spazio – quelle nel presente numero della rivista Post – ossia spazio assoluto, relativo e relazionale, quale di queste è la concezione utilizzata maggiormente dai teorici dell’economia? Si può intuire che in realtà la risposta non è così semplice, né da esempi come la scatola di Edgeworth (che rien-trano comunque, benché arcaici, nella teoria economica mainstre-am), né tanto meno se si prendono in considerazione esempi di teoria economica provenienti dal campo delle teorie alternative.2 È senza dubbio vero, infatti, che l’acquisto di un chilo di pane avviene in un certo momento in un certo luogo preciso, ma lo

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tipicamente gli Stati. È per questo che l’origine della macro-economia è tradizionalmente riposta nella fondamentale opera keynesiana.L’opera di Keynes, reinterpretata in termini matematici dall’e-conomista John Hicks, apre la fase della cosiddetta sintesi neo-classica, la teoria economica dell’età d’oro keynesiana (1943-1973 circa): sembrava che ogni cosa, con l’inserimento di elementi keynesiani (o per meglio dire adattamenti della sua opera alla teoria economica preesistente), fosse stata spiegata, che si potes-sero evitare le crisi e altri avvenimenti spiacevoli come la disoc-cupazione.La crisi economica degli anni ’70 mise nuovamente in difficoltà la teoria economica, le teorie monetariste di Friedman presero così molto piede: esse riducevano di molto il ruolo dello Stato nell’e-conomia e ponevano la Banca Centrale come unico vero istitu-to pubblico in grado – e in dovere – di intervenire, contenendo l’inflazione ed espandendo costantemente la moneta in linea con la crescita naturale della produzione (Brancaccio 2009).5La fase che ne segue è comunemente chiamata neoliberismo (ne-oliberalism in inglese6) ed arriva fino alla crisi dei giorni nostri. Non è compito di una disamina breve sulla concezione dello spazio economico definire i tratti del neoliberismo, né stabilire come si evolverà la teoria economica, ora che probabilmente è in atto un’altra crisi strutturale del capitalismo. Di certo si può dire che per ora, nonostante la crisi, la teoria economica sembra essere poco propensa a cambiamenti radicali.

1.2. Lo spazio nella teoriaDopo aver ricordato brevemente l’evoluzione della teoria eco-nomica, si possono qui richiamarne i tratti fondamentali che possono esserci utili per la definizione dei suoi spazi. Azzardo questi punti: 1) la teoria economica deve essere il più possibile generale e schematica; 2) per essere generale la teoria economica deve essere formalmente rigorosa ed espressa il più possibile in forma matematica o grafica; 3) eventuali discordanze con la realtà devono indurre ad un ripensamento del modello, in cui devono essere introdotti gli elementi di imperfezione, sempre sotto forma rigorosamente formalizzata.7 Dati questi punti, bi-sogna cercare di capire quale è la tipologia di spazio più adatta a definirla. Prendiamo come esempio la scatola di Edgeworth, di

questo sovrappiù, ossia dal suo reinvestimento per aumentare ulteriormente la produzione. È pertanto molto chiaro ai clas-sici la storicità del capitalismo, la sua novità rispetto ai sistemi economici precedenti, dunque la necessità di dover introdurre analisi e strumenti nuovi per il suo studio. Anche gli studi eco-nomici di Marx rientrano nel filone dei classici, tuttavia la sua è una Critica dell’economia politica: l’intento è infatti di spiega-re l’origine del sovrappiù capitalistico, lo fa con la sua teoria del valore-lavoro.Qualcosa però a fine ‘800 cambia, con l’avvento dei cosiddetti marginalisti, appartiene a questo tipo di analisi la scatola di Ed-geworth della citazione iniziale. Pur mantenendo alcuni presup-posti filosofici precedenti – in un certo senso ricalcando Smith sulla questione della mano invisibile (motivo per cui la teoria economica che ha le sue radici nel marginalismo è chiamata an-che neoclassica) – i marginalisti si distanziano molto dai classici, in particolare in base ai loro principi di individualismo metodo-logico, completamente opposti alle precedenti analisi, che erano invece tipicamente di classe (anche se a questo concetto solo Marx ha dato una definizione e una valenza così importante). La teoria economica diventa uno studio di preferenze individuali, dotazioni iniziali e scelte di fattori produttivi, che ottimizzate raggiungono un equilibrio sul mercato. Ogni individuo è – per lo meno nei modelli di base – isolato e razionale, indipenden-temente dalla realtà storica, ha delle preferenze e si relaziona economicamente con altri individui solo in termini di scambi formalmente paritari. Fondamentale a tal fine è l’espressione di tutto questo in forma aritmomorfica: la correttezza formale e la rappresentabilità matematica e grafica della realtà sono alla base della ricerca economica dei marginalisti.3Le idee dei marginalisti presero molto piede, vennero sviluppate e ampliate, ma non erano – e non sono – in grado di spiegare le crisi; quando questa si manifesta in tutta la sua potenza alla fine degli anni ‘20, la teoria economica neoclassica sembra vacil-lare. È in questo contesto che si spiega la fondamentale opera di Keynes: La teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936). La dimensione analitica del libretto di Keynes4 è totalmente diversa da quella in voga ai suoi tempi: Keynes, infatti, non condivide l’impostazione dell’individualismo meto-dologico, ma analizza l’economia a partire dai grandi aggregati,

studio dell’economia nel suo complesso è tipicamente uno stu-dio di una dinamica continua nel tempo e multidimensionale nello spazio. Possiamo studiare una singola transazione, o un bilancio annuale di un’impresa, o un trend triennale di uno Stato sotto un certo Governo, o l’intera storia economica del mon-do: si allarga e cresce così sia la dimensione spaziale, sia quella temporale. Come la teoria economica rappresenta tutto questo? Da un altro punto di vista, possiamo pensare agli spazi delle re-lazioni economiche. Una tendenza decisamente attuale in questo periodo di globalizzazione, difficilmente contestabile, è che essi paiano ingrandirsi. Il volume delle attività economiche è infatti in costante aumento, nonostante i ricorrenti periodi di crisi, e il loro peso all’interno delle relazioni sociali è indubbiamente sempre maggiore. Quale tipologia concettuale di spazio è più adatta a catturare questo fenomeno? Nella prima sezione sarà trattata la rappresentazione degli spazi nel campo della teoria economica, richiamandone l’evoluzione storica e discutendone nello specifico le metodologie (caratterizzate da un crescente uso di tecniche matematiche e statistiche) secondo le categorie spaziali proposte. Nella seconda sezione verrà trattata la que-stione dell’espansione economica, discutendone le caratteristiche spaziali e le interpretazioni che le teorie economiche concor-renti provano a darvi.

1. Lo spazio nella teoria economica1.1. Storia del pensiero economicoPoiché l’analisi spaziale dipende anche dalla dimensione stori-co-temporale (in particolare se non ci limitiamo alla concezione di spazio assoluto), è senza dubbio utile inquadrare le concezioni spaziali della teoria economica in chiave storica.L’economia politica è una disciplina relativamente giovane, co-munemente la si fa partire da Adam Smith, quindi dalla se-conda metà del XVIII secolo. Essa nasce in concomitanza alla nascita di un sistema economico nuovo, quello di tipo capitali-stico. Il concetto cardine per tutti quelli che sono comunemente chiamati economisti classici (compresi i fisiocratici, che in realtà non ne sono comunemente inseriti) è quello di surplus, ossia la quantità di prodotto in eccesso che risulta dopo un processo produttivo, reintegrati i fattori di produzione (Lunghini 1996). L’economia capitalistica è caratterizzata dall’accumulazione di

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no un andamento economico – poniamo – analogo, eppure è chiaro che i risultati, anche solo intuitivamente, li consideriamo diversi: la loro diversità è appunto relazionale. Gli spazi adibiti a coltivazioni possono effettivamente essere assolutamente gli stessi: le tecnologie, i guadagni e i costi economici possibili, la produttività del lavoro, ovvero tutte le variabili relative dal pun-to di vista dell’investimento, potrebbero essere analoghe. Diverso è tuttavia lo spazio relazionale tra persone che viene a crearsi: in un caso si tratta di una cooperazione al fine dell’au-toconsumo (o quanto meno, del consumo della comunità di ap-partenenza), nell’altro si tratta di un rapporto di lavoro salariato. Un uguale andamento economico di queste due aziende può dare quindi luogo a considerazione molto diverse. L’interpre-tazione dei dati ci porta quindi ad aperture verso le concezioni spaziali relazionali e relative. L’analisi dei dati mantiene mag-giormente quella “tensione dialettica” (Harvey 2004) presente nel rapporto tra le varie concezioni spaziali.Si tratta tuttavia di un’apertura dal forte carattere soggettivo, poiché non si tratta di uno spazio che è già di per sé presente nella teoria dello studio dei dati (che si caratterizza al contrario per un formalismo rigoroso di stampo prettamente matema-tico), ma di uno spazio che è affidato all’interpretazione, uno spazio che può quindi essere negato. Ci può infatti essere chi confina i dati nello spazio assoluto, dando loro una valenza og-gettiva e non discutibile.La predominanza dello spazio assoluto rimane pertanto gene-ralmente una caratteristica della teoria economica contemporanea. Questo fatto rende possibile il mantenimento di un rigore formale maggiore, è una delle ragioni grazie alla quale l’eco-nomia mantiene un profilo scientifico comune: i corsi univer-sitari di economia sono simili ovunque, così come la ricerca scientifica è suddivisa in aree di interesse più o meno uguali in tutto il mondo. Al di là delle questioni epistemologiche, il punto cruciale è capire se la riduzione della concezione spaziale nella teoria riduce o meno la comprensione che la teoria ha della realtà. Ad esempio, poiché il mercato non è quadrato e non è sempre fisicamente predefinito, l’approssimazione fornitaci dal-la scatola di Edgeworth è qualcosa che ci aiuta a capire meglio o ci preclude la comprensione, questo perché elimina particolari essenziali? Lasciamo da parte per ora questa domanda.

difficile (e costoso) usare un campione ‘assolutamente casuale’. Si usano perciò campioni ‘rappresentativi’, cioè ricostruiti in base a categorie demografiche.” (Livraghi 2009). È facilmente comprensibile come questa scelta, di fatto soggettiva, possa cre-are facilmente distorsioni fin dalla fase di raccolta dei dati. Le maggiori possibilità di errore si hanno tuttavia nell’elaborazione e nell’interpretazione dei dati. In statistica vale infatti il noto caso della legge dei due polli, il cui senso può essere ricavato an-che dalla provocatoria frase “l’uomo medio ha una mammella e un testicolo”: la tendenza ad appiattire la realtà eliminando le differenze può essere molto pericolosa, l’essere medio con una mammella ed un testicolo può essere significativo sul piano sta-tistico, ma naturalmente non ha alcuna utilità per l’analisi del mondo reale. Prendiamo come esempio, più nello specifico, uno dei modelli econometrici più semplici: la regressione lineare sempli-ce. Essa correla due variabili aleatorie – e nei casi concreti due serie di dati – costruendo la retta che meglio approssima la loro relazione, stimando i parametri che la definiscono. Ammesso – invero un po’ irrealisticamente – che la raccolta dei dati sia stata fatta in base ad un vero campionamento casuale, il punto fondamentale è capire l’eventuale direzione della correlazione: nonostante il modello preveda una variabile dipendente e una indipendente, infatti, la correlazione non implica necessaria-mente che una sia causa dell’altra. Capire questa direzione, se esiste, è compito dell’interpretazione dei dati stessi. La lettura dell’eventuale rapporto di causalità dipende dunque dalla prospettiva di chi interpreta i dati, in altre parole dal si-stema di riferimento. Tanto meglio riusciamo a interpretarla se consideriamo che la dimensione temporale (la quarta dimen-sione tipica dello spazio relativo) può essere un’efficace co-ordinata aggiuntiva per i dati stessi. Sapere il dove sono stati presi i dati è importante, ma è anche molto importante capire il quando: dunque il contesto storico-geografico. Queste consi-derazioni ci potrebbero indurre a considerare gli spazi dei dati come spazi relativi. Ma interpretare i dati significa anche legge-re i rapporti sociali che sottostanno ai dati stessi, conducendoci così allo spazio relazionale. Prendiamo ad esempio alcuni dati sull’andamento economico di due aziende vitivinicole in uno stesso arco di tempo, una cooperativa e una sede locale di una multinazionale che produce prodotti alimentari. I dati ci dan-

cui sopra. Secondo la definizione di Harvey (2004) lo spazio as-soluto è “uno spazio fisso [...] generalmente rappresentato come una griglia preesistente immobile suscettibile di una misura standardizzata e calcolabile”. Sembra l’esatta definizione della scatola di Edgeworth: spazi prefissati in cui avvengono gli scam-bi – misurabili – ai cui punti nello spazio corrispondono varie allocazioni specifiche. Sempre Harvey ci dice che lo spazio assoluto “socialmente è lo spazio della proprietà privata”, presupposto fondante della scatola stessa e di tutta la teoria dell’equilibrio economico genera-le. Prendiamo un altro esempio più generico dalla macroecono-mia, la domanda aggregata: nel caso più semplice8 è la somma di investimenti, consumi e spesa pubblica. Il contesto spaziale in cui si muove è dunque quello di uno stato-nazione preciso e delimitato, i cui confini sono delineati. Da questi due casi, pur molto semplici, parrebbe che la concezione dello spazio che si ha nel campo della teoria economica sia di quello assoluto. La formalizzazione matematica rafforza questa impressione: la matematica è, per sua natura, astrazione. Per quanto i presupposti di una teoria possano essere realistici, la logica e la misurabilità matematica rimangono un’astrazione che è tanto più grande e visibile nelle scienze sociali. Gli spazi matematici, almeno quelli della matematica utilizzata in econo-mia, sono spazi assoluti.9 Abbiamo così individuato la posizione di gran parte degli spazi della teoria economica all’interno della matrice proposta da Harvey: lo spazio assoluto sembra dominare la teoria economica.La cosa è invece un po’ meno pacifica di quanto sembri. Pren-diamo un altro esempio da una branca dell’economia molto importante negli ultimi tempi: l’econometria. L’analisi econo-metrica prende le mosse dalla statistica, ci si trova così in uno dei passaggi più importanti che sussistono tra realtà e teoria: la raccolta e l’elaborazione dei dati. Ora, i dati sono etimologi-camente qualcosa di esternamente prefissato, non contestabile, perché appunto dato. La raccolta dei dati tuttavia pone dei pro-blemi di ordine pratico: è tecnicamente impossibile calcolare i parametri reali d’intere popolazioni, si usa pertanto il sistema del campionamento, ossia si prende un numero prefissato – e appositamente calcolato – di variabili aleatorie (generalmente di persone) assolutamente casuali e indipendenti. Tuttavia “è

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2. L’espansione spaziale dell’economiaPassiamo ad esaminare il problema da un altro punto di vista, se vogliamo, più empirico. Osservando le relazioni economiche senza preconcetti, che idea possiamo farci della sua natura spa-ziale? Una prima possibile risposta è che i confini delle relazioni e delle attività economiche non siano fissi, ma in perenne muta-mento. Dandoci una prospettiva storica, potremmo aggiungere che tendenzialmente mutano in crescendo, in altre parole che l’economia pare espandersi. Pochi infatti potrebbero negare che esista ciò che viene chiamato comunemente crescita, ossia l’au-mento del volume delle attività economiche. Ma qual è la di-mensione materiale di questa espansione? Possiamo rispondere a questa domanda partendo dal metodo di misurazione della crescita: la crescita infatti è misurata come aumento del prodotto interno lordo (PIL), ovvero la somma del valore di tutte le merci prodotte. Questa definizione ci dice che l’espansione dell’eco-nomia è in buona sostanza misurabile come un’espansione della quantità di merci prodotte dalle imprese.Se l’espansione dell’economia pare essere una caratteristica difficilmente negabile degli ultimi due secoli, allora l’aumento della produzione è in un certo senso caratteristica chiave del modo di produzione di questo periodo. Allo stesso modo Marx (2008) dice: “La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una ‘immane raccolta di merci’.”.L’economia di tipo capitalistico è dunque contraddistinta dal processo di accumulazione. È questo un concetto di base con-diviso sia dagli economisti critici, sia dal mainstream. Comin-ciando dai primi, possiamo fare riferimento agli schemi di ripro-duzione marxiani, per i quali l’accumulazione è originata dalla parte del plusvalore utilizzato per investire, tendenza imperati-va per il capitalista: “lo sviluppo della produzione capitalistica rende necessario un aumento continuo del capitale investito in un’impresa industriale, la concorrenza impone a ogni capitalista individuale le leggi immanenti del modo di produzione capita-listico come leggi coercitive esterne. Lo costringe ad espandere continuamente il suo capitale per mantenerlo, ed egli lo può espandere soltanto per mezzo dell’accumulazione progressiva.” (ibid.).Come si evince dagli schemi di riproduzione stessi, non c’è, tut-

Lo spazio nell ’economia e nella teoria economica

In apertura:Scott CambellDirty deedsbills, 2010intaglio laser su monete da un dollaro US, 7 x 15,5 cmCourtesy: The Flat - Massimo Carasi,Milano. © Scott Campbell

Sopra:Scott CambellRosebills, 2008intaglio laser su monete da un dollaro US, 7 x 15,5 cmCourtesy: The Flat - Massimo Carasi, Milano. © Scott Campbell

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tavia, nessuna ragione per la quale tale accumulazione debba avvenire in modo equilibrato: l’equilibrio è possibile, ma si tratta di un caso. Comunque, “quando la produzione si è espansa oltre la possibilità di una realizzazione profittevole” (Fine e Saad-Filho 2010), la crisi esplode e – se non contrastata – genera svalutazione sia del capitale che del lavoro: bancarotta, riserve di merci invendute, disoccupazione di massa o anche vera e pro-pria distruzione fisica (merci bruciate e lavoratori che muoiono di fame), specie se accompagnata da guerre (Harvey 2001).Esistono tuttavia delle possibilità per il capitale di poter riav-viare il processo di accumulazione evitando le nefaste conseguen-ze della svalutazione: una di queste è il cosiddetto spatial fix di Harvey (1982). Tale concetto, secondo la tipologia di svaluta-zione, assume diverse forme: l’esportazione di interi processi di produzione e lavoro in altre regioni per sfuggire ad una crisi locale, l’apertura di nuovi mercati stranieri per le merci in caso di domanda interna insufficiente, la ricollocazione di nuovi sedi produttive in zone con grande manodopera a basso costo (in caso di offerta di lavoro interna insufficiente o costosa e orga-nizzata in sindacati). Grazie all’espansione nello spazio, la crisi è – anche se spesso solo in parte – evitata e il processo di accumu-lazione continua. Uno dei grandi meriti di questa teoria, oltre ad aiutare la nostra comprensione delle crisi, è la spiegazione di come l’economia capitalistica non si espanda solo nel tem-po ma anche nello spazio: ogni regione “sotto la minaccia della svalutazione […] cerca di utilizzarne altri per alleviare i suoi problemi interni” (ibid.). In questo modo dunque Harvey spie-ga, collegando la sua teoria con l’intero corpus teorico marxiano, come l’insieme delle relazioni capitalistiche si sia progressiva-mente espanso. È possibile espandere ulteriormente la portata di questa teoria attraverso il lavoro di Moore (2001, 2009 e 2010). Il punto di partenza è la considerazione di Marx per la quale “supposto che le altre circostanze restino invariate, il saggio del profitto decresce o aumenta in ragione inversa del prezzo della materia prima”, mentre “quanto più sviluppata è la produzione capitalistica, tan-to più grande è la relativa sovrapproduzione di macchinario e di altro capitale fisso, tanto più frequente la relativa sottoproduzione di materie prime vegetali e animali” (Marx 2008). Pertanto “una costante priorità del capitalismo è quella di far calare il prezzo

delle materie prime, espandendo contemporaneamente il vo-lume materiale della produzione delle merci” (Moore 2009). È per questo che, storicamente, i periodi di grande espansione sono sempre stati accompagnati da rivoluzioni agricole, ossia da uno sviluppo tecnologico accompagnato da espansioni spaziali tali da produrre un’ondata di cibo, energia e materie prime a basso costo.Le risorse non sono però infinite, per sostenere l’accumulazione è necessario intensificarne progressivamente lo sfruttamento (os-sia aumentare la produttività) per “ottenere di più da di meno nel breve medio-periodo. Ma ottenere di più da di meno non signi-fica ottenere qualcosa dal niente” (ibid.): l’espansione spaziale ri-mane ancora una volta l’unica possibile soluzione del problema.Si ha così un’applicazione del concetto di spatial fix rispetto alla questione ecologica: l’accumulazione del capitale è legata al doppio processo di espansione spaziale e di capitalizzazione della natura. L’espansione spaziale conosce tuttavia dei limiti, poiché lo spazio assoluto del mondo è incontestabilmente limitato, sia in senso orizzontale (nuovi continenti da occupare), sia in senso verticale (nuove risorse naturali da poter sfruttare): “Oggi ri-mangono senza dubbio spazi relativamente non condizionati dalla violenza della merce. Ma il loro peso relativo nel sistema-mondo è incomparabilmente minore oggi […].” (Moore 2010). Una conclusione malthusiana? Non proprio. Ciò che viene det-to, infatti, non è che la sopravvivenza dell’umanità sia natural-mente minacciata dalla mancanza di nuovi spazi, ma che tale mancanza segna i limiti relativi di relazioni sociali specifiche dell’umanità in un certo periodo storico: “I limiti storici […] del primo capitalismo furono raggiunti a metà del XVIII secolo; si trattò di limiti storico-ecologici all’accumulazione del capitale […] non [di] limiti assoluti.” (Moore 2009). In sostanza, ripren-dendo il filo centrale della nostra discussione, si trattò di limiti spaziali relazionali. È in questo senso che va interpretato il con-cetto di capitalismo come sistema ecologico oltre che economico (Moore 2001), ossia come “complesso di relazioni sociali che determinano anche il rapporto natura-società” (Moore 2010). Le condizioni di riproduzione sociale del capitalismo passano dunque anche attraverso il modo in cui la natura è organizzata e prodotta.10

Gli spazi del capitalismo come sistema ecologico sono dunque

storicamente determinati, ogni fase storica in cui si manifesta è un differente regime ecologico, i cui limiti sono da ricercare all’in-terno delle relazioni sociali che lo costituiscono. Per superare questi limiti tali spazi vanno rivoluzionati: “Ogni invenzione epocale ha anche segnato una radicale rivoluzione nell’organiz-zazione dello spazio globale e non solo nelle tecniche di pro-duzione, […] il ‘motore a vapore’, ad esempio, era impensabile senza […] le miniere di carbone […] e l’espansione coniale di insediamenti bianchi nel XIX secolo.” (ibid.); una rivoluzione degli spazi relativi e relazionali. L’espansione spaziale ha anche il suo aspetto assoluto: è inne-gabile infatti che gli esseri umani siano notevolmente nume-ricamente aumentati (di circa sei volte negli ultimi duecento anni) – fisicamente occupando più spazio – e che gli spatial fix abbiano ingrandito la parte di terra occupata dagli uomini. In fin dei conti, le merci occupano uno spazio materiale oltre che relazionale.Ancora una volta l’espansione spaziale dell’economia è dunque difficilmente confinabile in una sola delle definizioni di spazio, ma mantiene la già citata tensione dialettica.Potrebbe la teoria economica mainstream raggiungere conclusio-ni simili? La condivisione dell’idea che l’espansione contraddi-stingua l’economia degli ultimi duecento anni è mostrata dalla grande enfasi posta sulle varie teorie della crescita. Esse manten-gono naturalmente tutti i tratti tipici che abbiamo delineato nella prima sezione, ossia una grande formalizzazione concet-tuale espressa principalmente sotto forma di formule matema-tiche. Uno dei presupposti su cui si basano queste teorie (com-presa la nuova teoria della crescita) è la funzione di produzione neoclassica:Y = f(K, L), ossia il prodotto (Y) è una certa funzione positiva del capitale (K) e del lavoro (L). Gli apporti dei due fattori di input11 sono determinati da coefficienti specifici. In sostanza, la produ-zione è una questione tecnica in cui i vari fattori contribuiscono in maniera diversa secondo la tecnologia utilizzata. Il progresso tecnologico è dunque la chiave della crescita: “in un’economia con progresso tecnologico […], la produzione cresce nel tem-po […] al tasso [del] progresso tecnologico” (Blanchard 2009). Non a caso, anche la questione dello sfruttamento delle risorse è spiegata in questi termini: tecnologie migliori utilizzeranno

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minori quantità di risorse naturali e questo impedirà – o rallen-terà – i nefasti effetti ambientali della produzione. L’oggetto di studio è in ogni caso un’economia singola, la quale ha un certo tasso di risparmio, una certa funzione di produzione, un certo tas-so di progresso tecnologico e un certo tasso di aumento demografi-co. Questi valori possono essere influenzati dalle decisioni di questa economia in termini di apertura allo scambio sui mercati internazionali, ma essa è l’oggetto di studio singolo ed indipen-dente, con confini precisi: uno spazio assoluto.La crescita capitalistica (in altri termini, l’accumulazione) è inol-tre vista come proseguimento naturale dell’organizzazione eco-nomica precedente: nell’Inghilterra settecentesca vi fu “arretra-mento considerevole della percentuale di ricchezza consumata” (Cattini 2006), ciò consentì risparmi da investire in nuove tec-nologie che determinarono “vistosi aumenti di produttività” (ibid.). Rivoluzione tecnologica insomma, accompagnata da risparmio e da un clima politico favorevole.È chiaro che in questo quadro non vi è nulla di simile a ciò che in letteratura critica viene chiamata accumulazione primitiva, la trasformazione sociale di contadini in lavoratori salariati senza terra, il che poté avvenire “con i mezzi disponibili nelle società pre-capitaliste” (Bernstein 2010), ossia senza ricorrere al mer-cato, nel caso inglese con le celeberrime enclosures. Nulla vi è dunque di naturale nello sviluppo del primo capitalismo12: esso è frutto dell’emergere di una classe che rivoluzionò gli spazi. Le terre inglesi non erano assolutamente cambiate, ma lo erano le relazioni sociali che ne organizzavano l’utilizzo. Di nuovo la teoria economica mostra la sua predilezione nel concepire spazi assoluti. Non esiste uno spazio relazionale del capitalismo come sistema economico globale, esiste l’economia di un certo luogo del mondo delimitato da confini precisi (ad esempio l’Inghilterra) nei quali si presentano certi fattori che portano alla crescita. Tali fattori sono quindi la causa che più o meno deterministicamente porterà allo sviluppo. L’uomo è un fattore di produzione come gli altri, con il suo lavoro e, in alcune versioni recenti, con il suo capitale umano, ovvero tutto il suo bagaglio culturale, intellettuale ed emozionale. L’aspetto relazionale dei rapporti umani non è dunque l’unità di analisi, come è invece per l’economia politica classica.

Lo spazio nell ’economia e nella teoria economica

Scott CambellHeart, 2010intaglio laser su monete da un dollaro US,63,5 x 53,3 x 2,5 cmArt Collection UniCreditCourtesy: The Flat - Massimo Carasi, Milano. © Scott Campbell

ConclusioniAlla fine della prima sezione, ci si è chiesti se l’approssimazio-ne spaziale, utilizzata nei principali modelli di teoria economi-ca, consentiva una maggiore comprensione (grazie alla logica schematica formale) oppure una minore comprensione (qua-lora questo schematismo trascurasse particolari importanti) di quanto avviene nel mondo reale. Trattando il tema dell’espan-sione dell’economia nello spazio, abbiamo visto che lo sche-matismo dei modelli si riflette nella predilezione della teoria economica per gli spazi assoluti come principio. È probabilmen-te questa una caratteristica già contenuta in sé nel principio dell’individualismo metodologico: un individuo singolo e isolato come unità di studio occupa uno spazio assoluto, poiché rap-

presenta un’entità completa di per sé. Oltre all’individuo, con le sue preferenze e le sue dotazioni, altro ruolo chiave è dato alla tecnologia, specificamente rappresentata dalla funzione di produzione neoclassica.Questi tre elementi, preferenze, dotazioni e tecnologia, sono in ul-tima analisi le basi della teoria economica mainstream per spiegare fondamentalmente tutti i fenomeni economici (Hahn 1982).Una buona sintesi dell’approccio critico è descritta invece da Brancaccio (2009): “Non soltanto il sistema economico esiste prima e indipendentemente dal singolo individuo, ma a sua volta l’individuo risulta condizionato dal sistema in virtù del ruolo e delle funzioni che si troverà a ricoprire in esso.”. Da questa semplice definizione, l’apertura ad una concezione rela-zionale dello spazio è evidente: sono principalmente le relazio-ni tra gli individui che determinano le loro scelte e preferenze.Rispondendo alla domanda lasciata da parte prima, si può dire che lo schematismo della teoria economica mainstream non è capace di cogliere questa concezione spaziale: di fatto tutti i fenomeni sono tendenzialmente ricondotti all’interno di confini spaziali assoluti. Tuttavia, come si è già visto in più esempi, gli spazi del mondo non sono né solo assoluti, né solo relativi, né solo relazionali. La negazione di questi due ultimi aspetti non può che essere un li-mite della teoria stessa. L’aderenza al principio metodologico, per il quale sono le tecniche formali matematiche a determinare la scientificità di un’analisi, rende ancor più marcato questo riduzio-nismo. L’utilizzo di queste tecniche può essere senza dubbio utile nell’affrontare i problemi, ma il solo affidamento alle stesse non è sufficiente a spiegare i fenomeni sociali. Citando Einstein, questo punto è splendidamente espresso da Lunghini (1996): “‘la difficoltà di analizzare il processo della vita non risiede nella complicazione della matematica, ma nel fatto che tale processo è troppo complesso per la matematica. Il capitalismo, come tutti gli altri sistemi economici che l’han-no preceduto e che saranno prodotti dall’evoluzione continua della società umana, è una forma di vita’. Alcuni aspetti del suo funzionamento si adattano perfettamente all’analisi matemati-ca, per altri la matematica risulta essere uno strumento troppo rigido e troppo semplice.” Nell’aspetto assoluto degli spazi l’u-tilizzo della matematica è di grande aiuto, nelle parti relative e relazionali dobbiamo affidarci ad altri metodi.

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113Post - n°3 - Spazio

-Note

(1) È l’esempio che si trova attualmente cer-cando la voce Edgeworth box su Wikipedia. Traduzione italiana: “Immaginate due perso-ne, Ottavio e Abby, con un ammontare pre-fissato di risorse da dividere tra loro, diciamo 10 litri di acqua e 20 hamburgers. Se Abby prende 5 hamburgers e 4 litri d’acqua, Otta-vio avrà 15 hamburgers e 6 litri d’acqua. La scatola di Edgeworth è un diagramma ret-tangolare con il punto di origine di Ottavio in un angolo (rappresentata da O) e il punto di origine di Abby nell’angolo opposto (rap-presentato da A). La larghezza della scato-la è l’ammontare totale di un bene mentre l’altezza è l’ammontare totale dell’altro bene. Dunque ogni possibile distribuzione dei beni tra i due individui è rappresentata da un punto della scatola”.(2) Si useranno nel testo rispettivamente il ter-mine economia mainstream ed economia critica.(3) La ragione del termine marginalismo è appunto quella del ricorso continuo al calco-lo differenziale in modo da ottenere l’effetto marginale di qualcosa: ad esempio l’effetto di un’unità di lavoro in più sulla produzione di una determinata merce è il prodotto mar-ginale del lavoro.(4) Si tratta decisamente di un libro breve, seb-bene molto complesso e denso di contenuti.(5) Per questo Friedman e i suoi allievi sono stati definiti monetaristi.

-Bibliografia

Bernstein, H. (2010) Class dynamics of agrarian change, Fernwood, Winnipeg.

Blanchard, O. (2009) Macroeconomia, tr. it di F. Giavazzi e A. Amighini, Egea, Bologna.

Brancaccio, E. (2009) La crisi del pensiero unico, Franco Angeli, Milano.

Cattini, M. (2006) L’Europa verso il mercato globale, Egea, Milano.

Fine, B. e Saad-Filho, A. (2010) Marx’s capital, 5ª ed., Pluto, London.

Harvey, D. (1982) Limits to capital, Basil Blackwell, Oxford.

Harvey, D. (2001) “Globalization and the ‘spatial fix’”, in Geographische Revue, n. 2, pp. 23-30.

Harvey, D. (2004) “Space as a key word”, in Spaces of neoliberalisation: towards a theory of uneven geographical development, Hettner lectures, n. 8.

Livraghi, G. (2009) “Il pollo di Trilussa e gli inganni delle statistiche”, in L’attimo fuggente, n. 13.

Lunghini, G. (1996) Riproduzione, distribuzione e crisi, Unicopli, Milano.

Moore, J.W. (2000) “Environmental Crises and the Metabolic Rift in World-Historical Perspective”, in Organization & Environment, n.13 (2), pp. 123-158.

Moore, J.W. (2009) “Ecology and the Accumulation of Capital”, presentato a Food, Energy, and Environment, Fernand Braudel Centre, Binghamton, 9-10 October.

Moore, J.W. (2010) “The end of the road? Agricultural revolutions in the capitalist world-ecology, 1450-1510”, in Journal of Agrarian Change, n. 10 (3), pp. 389-413.

-Biografie

Bruno Bonizzi, nato a Milano nel 1989. Al momento studente iscritto al Master in Political economy of Development alla School of Oriental and African Studies, University of London. In precedenza studente di Economia e Scienze Sociali all ’Università Bocconi.I miei interessi vertono su varie tematiche releative allo sviluppo del capitalismo contemporaneo, con particolare riferimento a paesi extra-europei.

Scott Campbell è nato a New Orleans, Lousiana (1977). Vive e lavora a New York. Tra le sue mostre personali ricordiamo nel 2011 No blesse oblige, presso OHWOW, Los Angeles; 2010 If You Don’t Belong, Don’t Be Long presso OHWOW Gallery, New York, e nel 2008 Bury The Hatchet presso The Flat-Massimo Carasi, Milano. Tra le sue mostre collettive ricordiamo nel 2011 Scott Campbell / Steven Parrino / Raymond Pettibon, Marc Jancou Contemporary, New York; nel 2009 a NEW YORK MINUTE: 60 Artisti della Scena Artistica Newyorkese presso MacroFuture, Roma e nel 2008 It Ain’t Fair, a cura di Kathy Grayson e Deitch Projects, presso OHWOW Gallery, Miami, in occasione di Art Basel Miami.Scott Cambpell è rappresentato in Italia da The Flat-Massimo Carasi e in America da OHWOW Gallery.

(6) Il termine neoliberismo è a mio parere fuorviante, dato che per certi versi è stato molto poco liberista. Si veda, a tal proposito, Bellofiore (2010).(7) Un esempio su tutti sono le recenti teorie sulle asimmetrie informative di Stiglitz.(8) Nel caso cioè di un’economia chiusa, non aperta allo scambio con l’estero.(9) La matematica della teoria economica è basata principalmente sull’ottimizzazione statica e dinamica. In ultima analisi quindi sul calcolo differenziale.(10) Per produzione di natura, si intende il modo in cui la natura entra a far parte del processo di produzione capitalistico. Ossia al suo grado di mercificazione, al grado di capitalizzazione delle industrie estrattive ed agricole, etc…(11) Possono essere in realtà aggiunti altri fattori di input, come terra e svariati altri tipi di capitale (umano, sociale, naturale).(12) Tralasciamo qui volutamente il dibattito sull’argomento dell’origine del capitalismo e prendiamo come riferimento la dinamica clas-sica dell’accumulazione primitiva britannica.

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