Lo scandalo delle miniere...In caso di mancato recapito, restituire all’ufficio di P.T. ROMA...

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DOSSIER Corridoi umanitari dall’Etiopia PANORAMA La pace scritta dai siriani PRIMO PIANO Venezuela, siamo tutti milionari In caso di mancato recapito, restituire all’ufficio di P.T. ROMA ROMANINA previo addebito Rivista della Fondazione Missio • Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 Aut. GIPA/ C / RM • Euro 2,50 MAROCCO Lo scandalo delle miniere 4 MENSILE DI INFORMAZIONE E AZIONE MISSIONARIA ANNO XXXII APRILE 2018

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DOSSIERCorridoi umanitaridall’Etiopia

PANORAMALa pacescritta dai siriani

PRIMO PIANOVenezuela,siamo tutti milionari

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Rivista della Fondazione Missio • Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 Aut. GIPA/ C / RM • Euro 2,50

MAROCCO

Lo scandalodelle miniere

4M E N S I L E D I I N F O R M A Z I O N E E A Z I O N E M I S S I O N A R I A

ANNO XXXII

APRILE2018

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V iviamo in tempi confusi e gat-topardeschi. Tempi difficili dainterpretare, in cui è fondamen-

tale l’apporto costruttivo delle animebelle, degli spiriti liberi e pensanti delcalibro di papa Francesco. E nel nostropiccolo, come redazione missionaria, cisentiamo anche noi chiamati in causa,avvertendo, attraverso il filo direttocon voi lettori, il bisogno di una culturacapace di ridare slancio ai grandi ideali,alla sfera valoriale, accompagnata daun lessico nuovo. E sì, perché le parolecontano e non possono essere svuotatedi senso e di significato.In questi anni, il mercato, il business, ilmaterialismo pratico e l’ideologia libe-rista hanno contaminato il nostro mododi pensare e di agire, senza peraltroche molti se ne rendessero conto. Questoin sostanza significa che oggi, alla provadei fatti, non ci sono più i cittadini, mai consumatori; non più i diritti deipopoli, ma bisogni da soddisfare a se-conda delle circostanze e delle conve-nienze; non più partecipazione, ma of-ferta politica; non più lavoratori, mamercato del lavoro; non più stranieripoveri, ma migranti economici. Da unlato viene invocata la protezione stataledi pezzi importanti del capitale finan-ziario e industriale, ma dall’altro i la-voratori subordinati vengono in granparte lasciati a sé stessi, in balia delleforze del mercato. Anche il vasto areo-pago dello sport è stato contagiato daldio denaro, col risultato che per giocare

a pallone occorrono gli sponsor, i dirittitelevisivi e gli acquisti del calciomercato.Siamo di fronte a quello che i grandieconomisti definiscono “liberismo asim-metrico”, premuroso verso il capitale epressoché indifferente ai destini del la-voro e soprattutto dei cittadini, dellepersone create ad immagine e somi-glianza di Dio.Questa deriva delle parole trova inoltreun infelice riscontro – è il caso di sot-tolinearlo - anche in riferimento all’in-dirizzo che stiamo imprimendo alle no-stre relazioni con gli altri popoli. Oggiil trend prevalente è incentrato suiconfini, sulle paure e sullo spirito diostilità nei confronti dello straniero. Lacrisi migratoria riflette questo disagioe rimanda ad una contraddizione storicache per noi europei risale a cavallo trail XVIII e il XIX secolo. In quel periodo siaffermavano con forza i valori del-l’universalismo e dell’inclusione, sullabase del fatto che tutti gli uomini na-scono liberi e uguali. Il Parlamento bri-tannico, ad esempio, il 25 marzo 1807,approvò lo Slave trade act, control’ignobile tratta dello schiavismo. Manello stesso periodo, proprio in rispostaa questi valori, si affermò, in Europa,anche l’idea di nazione. Non è un casoche il filosofo tedesco Fichte tenne isuoi Discorsi alla nazione tedesca pro-prio nei primi anni dell’Ottocento: perla prima volta fu formulato a chiarelettere il concetto di nazione, e non

EDITORIALE

di GIULIO [email protected]

(Segue a pag. 2)

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L’attesa dellapovera gente

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Indice

EDITORIALE

1 _ L’attesa della povera gente di Giulio Albanese

PRIMO PIANO

4 _ L’inflazione selvaggia sferza il Paese In Venezuela siamo

tutti milionari di Paolo Manzo

ATTUALITÀ

8 _ Il dittatore nordcoreanodopo le Olimpiadi invernali

Medaglia d’oro alla diplomazia di Miela Fagiolo D’Attilia

11 _ I BRICS e l’Africa Nuovi mondi crescono di Paolo Raimondi

FOCUS14 _ Energie rinnovabili

La scommessadell’Africa

di Roberto Bàrbera

L’INCHIESTA18 _ Sacche di povertà nelle periferie del Marocco

Il far west di Jerada,miniere illegali

e morte di Ilaria De Bonis

SCATTI DAL MONDO

22 _ Scandalo Siria

Un paradigma capovolto A cura di Emanuela Picchierini Testo di Riccardo Cristiano

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fu certo l’ultima. Da allora, la contraddizionetra universalismo da una parte e nazione dal-l’altra ha assunto forme diverse. Una con-traddizione che vige ancora oggi al puntotale che l’Unione Europea, sebbene si reggasul principio di favorire la solidarietà tra lenazioni, alla prova dei fatti, è sempre piùostaggio delle spinte identitarie, dei naziona-lismi e dei populismi.Detto questo, viene spontaneo domandarsi sesia possibile, effettivamente, tracciare unaRoad Map, vale a dire un percorso risolutivo.La risposta è affermativa anche se poi èevidente che il modus operandi, cioè l’agireconcreto, dipenderà dall’impegno condiviso eda una decisa assunzione di responsabilità. Sitratta di accrescere, come auspicato ripetu-tamente da papa Francesco, la capacità diosmosi, di empatia, di connessione umanacon la sofferenza e le speranze della gente, esoprattutto dei poveri. A questo propositosovviene L’attesa della povera gente di GiorgioLa Pira che bene farebbe il paio con la pellicoladi Ken Loach, The Spirit of ‘45 (2013), che do-cumenta le speranze del popolo inglese allafine della Seconda guerra mondiale. Comenel libro di La Pira, così nel film di Ken Loach,si vede che la politica, come affezione allaRes publica (Bene comune), vince quando sainterpretare la domanda che viene dal basso,dalla periferia, dagli ultimi. Un messaggio dirisurrezione che non può essere disatteso.

(Segue da pag.1)

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PANORAMA

26 _ Profughi protagonisti di una pro-posta dal basso

La pace scritta dai siriani di Chiara PellicciDOSSIER

29 _ Corridoi umanitari dall’Etiopia Con gli occhi degli altri di Giulia Pigliucci e Miela Fagiolo D’Attilia

MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

37 _ Intervista a monsignor Dal Toso, presidente delle POM

Missione, la storia si rinnova di Miela Fagiolo D’Attilia

40 _ Ricordando don Tonino Bello

Dai segni del potere alpotere dei segni

di Antonio Cataldi

43 _ Beata in terra di Somalia

Leonella è sempre tranoi

di Miela Fagiolo D’Attilia

45 _ Diritti Umani Nel 70esimo anniversario della Dichiarazione Universale

Il dramma taciuto di Stefano Femminis46 _ L’altra edicola Guerra all’ultimo dazio Gli africani che sfidano Trump di Ilaria De Bonis

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OSSERVATORI

DONNE IN FRONTIERA PAG. 6

Bina e l’agricoltura al femminiledi Miela Fagiolo D’Attilia

ASIA PAG. 7

Corea del Nord, denutriti e dimenticatidi Francesca Lancini

MEDIO ORIENTE PAG. 17

Iran: Rouhani è un moderato?di Ilaria De Bonis

GOOD NEWS PAG. 21

La lezione di nonna Irmadi Chiara Pellicci

49 _ Posta dei missionari A scuola con père Manzotti a cura di Chiara Pellicci

RUBRICHE52 _ Ciak dal mondo OMICIDIO AL CAIRO Nel labirinto della corruzione di Miela Fagiolo D’Attilia54 _ Libri Un incontro che cambia la vita di Chiara Anguissola

Francesco, leader profetico di Chiara Anguissola

55 _ Musica PARK JIHA Quieti coreane di Franz Coriasco

VITA DI MISSIO

56 _ Convegno nazionale Missio Ragazzi Farsi megafoni di missionarietà di Chiara Pellicci58 _ Padova accoglie il Convegno nazionale dei seminaristi La missione è molta… e grida di Gaetano Borgo61 _ Missio Giovani L’estate con Missio Giovani di Marzia Cofano

MISSIONARIAMENTE

62 _ Intenzione di preghiera Per una società solidale di Mario Bandera

63 _ Inserto PUM In Africa Dio si trova più a suo agio di Gaetano Borgo

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PRIMO PIANO L’inflazione selvaggia sferza il Paese

altra che non sia il bolivar, il cui valorereale, oggi, è praticamente pari a zero.«In Venezuela siamo tutti milionari»spiega con ironia Vittorio, un oriundoitaliano emigrato a Caracas negli anniSettanta, quando il Paese era consideratoil più stabile dell’America Latina (l’ultimadittatura, a differenza di quasi tutti glialtri della regione, era stata quella rove-sciata nel 1958), oltre ad essere sopran-nominato il “Venezuela saudita” per le

A cinque anni dalla morte de “ElComandante”, l’ex presidenteHugo Chávez il 5 marzo 2013, il

Venezuela è irriconoscibile, sotto tutti ipunti di vista, a cominciare da quelloeconomico. Se nel 2012, infatti, il Pildel Paese sudamericano era aumentatodel 5,6%, nel 2017 è crollato addiritturadel 14% in appena 12 mesi, un recordnegativo. Per non parlare dell’inflazione,di gran lunga la maggiore del mondo,che al momento in cui andiamo instampa ha superato il 3mila% e, secondole previsioni di tutti gli istituti indipendentipiù prestigiosi, dovrebbe chiudere il 2018,

se va bene, con un +13mila% e, se vamale, con un esorbitante +30mila%.Tradotto in pratica significa la distruzionedel potere di acquisto degli stipendi deilavoratori dipendenti e – in un regimedi prezzi e cambio controllati, come èdal 2003 quello venezuelano – la chiusuradi qualsiasi attività privata in proprioche non abbia accesso ad una valutastraniera di riferimento solida, sia essa ildollaro, l’euro o, comunque, qualsiasi

di PAOLO [email protected]

Quello che un tempo era chiamato il“Venezuela saudita” per le sue risorsepetrolifere, è ridotto ad un Paese sfibratodalla fame e dal regime chavista di NicolasMaduro. La voce della Chiesa venezuelanasi alza con forza in difesa del popolo provatoda ingiustizie e povertà, mentre le elezionisono state rimandate al mese di maggio.

In Venezuelasiamo tutti In Venezuelasiamo tuttimilionari

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sue enormi riserve petrolifere, ancoraoggi le maggiori del globo. Il problemaè che un milione di bolivar al cambioreale - ovvero a quello nero che poi “fai prezzi” delle poche merci che si trovanoancora nei negozi - equivale a poco piùdi tre euro.

CRISI UMANITARIAInsomma, calcolando che la maggiorparte dei venezuelani guadagna in mediacirca un milione di bolivar al mese, ilpotere d’acquisto di tutti gli introiti diuna famiglia è sufficiente ad acquistare,sì e no, un uovo al giorno. Impossibilenon patire la fame e questo spiegaperché oggi la crisi umanitaria, al nettodelle bombe, qui sia peggiore persino diquella siriana. Almeno sul fronte ali-mentare e sanitario, come dimostra l’EN-COVI, una ricerca condotta dalle treprincipali Università del Venezuela – laCentral, la Católica Andrés Bello e la Si-món Bolívar – su un campione di 6.168persone.Da questa ricerca “bilancia alla mano”,emerge inequivocabilmente come nel2017 i due terzi dei venezuelani (il 64,2%a voler essere pignoli) abbiano persomediamente 11 chili di peso. Che salgonoalmeno a 19 considerando anche l’anno2016. Un disastro spiegato dalla crescita

Roger, un ex ingegnere con tanto dimaster che, a causa delle sue idee – si èsempre rifiutato di votare per il Partitosocialista unito del Venezuela fondatoda Chávez e oggi guidato dal presidenteNicolás Maduro – prima è stato mob-bizzato e spostato in PDVSA, la compagniastatale petrolifera di Caracas e, poi, li-cenziato senza giusta causa.Da un anno Roger è in Italia, dove lavorain provincia di Udine come operaio. Èfuggito come altri quattro milioni disuoi connazionali ridotti alla fame chehanno dato vita a quella che, oramai, ènota a tutti come la “diaspora venezue-lana”. Un grave problema per le nazioniconfinanti come Brasile e, soprattuttoColombia, che ha già chiesto ed ottenutoaiuti emergenziali all’Onu per gestire ilflusso di questi migranti. Roger è origi-nario della regione di Zulia e spera cheil Natale 2017 sia stato il primo edultimo che ha passato lontano dalla fa-miglia. Anche se per lui «il problema èche con i soldi che mando là sopravviveanche la suocera, troppo anziana pertrasferirsi dopo una vita trascorsa in Ve-nezuela, e mia moglie non vuole ab-bandonare la madre in questa situazio-ne».E se dopo l’ultima ondata di sequestri,ordinata lo scorso autunno da Ma-

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esponenziale della povertà che, a diffe-renza di quando c’era Chávez, colpisceormai l’87% della popolazione, mentreil 61% delle persone va a dormire senzacenare ed assumendo proteine soloquando a passargliele è lo Stato tramitele cosiddette “casse Clap”, gli scatolonidi cibo importato da Messico e Colombiache, però, non sono mai distribuiti a chine ha più bisogno ogni 15 giorni, comeinvece sarebbe necessario.

LE RIMESSE DEGLI EMIGRATI«Se non fosse per i 100 euro di contributoche mando ogni mese via Western Union,mia moglie e mio figlio sarebbero giàmorti di fame». Ha le lacrime agli occhi,mentre parla con Popoli e Missione, »

Nicolás Maduro, presidente del Venezuela.

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PRIMO PIANO

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L’ economista indiana Bina Agarawal èriuscita a compiere rivoluzioni importanti

per le donne del suo Paese. E non solo. Do-cente di Economia dello sviluppo e dell’am-biente all’Università di Manchester, è autricedi importanti studi sull’agricoltura del domani(“A field of one’s own gender and landrigth in South Asia”, 1994). Classe 1951,Bina ha collezionato numerosi premi inter-nazionali e recentemente è stata nominataAccademica dei Lincei per «avere messo indiscussione i fondamenti tradizionali del-l’economia e delle scienze sociali attraversouna innovativa prospettiva di genere e peravere accresciuto la visibilità e l’empowermentdelle donne in ambito rurale nel Sud delmondo».Spiega l’economista: «Oggi la maggioranzadegli agricoltori sono proprietari di piccoliterreni, mediamente di appena due ettaril’uno. Vanno aiutati a prosperare perchésono loro a dover sfamare il pianeta.Inoltre, specialmente in Africa, ma nonsolo, una crescente percentuale di questipiccoli agricoltori sono donne. E queste fat-torie a gestione femminile hanno limitatoaccesso alle risorse necessarie per mitigaregli effetti del cambiamento climatico, nelcampo dell’irrigazione, delle tecnologie edell’accesso ai mercati». Il più delle voltenelle aree rurali le donne lavorano la terraper la loro famiglia o alle dipendenze diqualcuno, ma raramente sono proprietariedi appezzamenti di terreni. Bina si è impe-gnata per molti anni in una battaglia legi-slativa per riconoscere il diritto alla proprie-tà della terra delle donne indiane per com-battere la diseguaglianza di genere. Nel2005 ha guidato una Campagna per modi-ficare la legge di successione in modo daconsentire l’ereditarietà della terra anchealle donne in India. E oggi uomini e donnehanno gli stessi diritti di proprietà. Con isuoi studi ha dimostrato che la parità digenere è importante per la gestione di alcu-ni asset, come la terra che è di primariaimportanza in un’economia agraria.

di Miela Fagiolo D’Attilia

BINA E L’AGRICOLTURAAL FEMMINILE

OSSERVATORIO

DONNE INFRONTIERA

petrolio più che dimezzatosi tra 2012e 2017 e che garantisce il 95% delleentrate di Caracas.A preoccupare quanto la mancanza dicibo e medicine che ha già provocatocentinaia di morti da inizio 2018 perdenutrizione e malattie considerate ba-nali nel resto del mondo - soprattuttotra neonati ed anziani – è la derivadittatoriale del regime venezuelano ap-parsa chiara a partire dallo scorso anno.A inizio 2017 infatti, alla guida dellaCorte Suprema di Giustizia, Maduro hamesso un ex agente dei servizi segretipluriomicida poi riciclatosi come av-vocato, Maikel Moreno, che a finemarzo 2017 ha esautorato illegalmentedi ogni potere il Parlamento, la cuiunica colpa era quella di non essere amaggioranza chavista. Un atto che hacausato proteste di massa con annessarepressione e l’uccisione di oltre 140persone soprattutto giovani, da partedelle milizie governative. A luglio delloscorso anno, una votazione denunciatacome illegale tanto dalla CeV come daSmartmatic (l’azienda che sino ad alloraforniva le urne elettroniche a Caracas),sostituiva al Parlamento una Costituentecomunista, sul modello cubano conmembri solo del Psuv, il partito di Ma-duro. Infine, lo stesso delfino di Chávezintroduceva la “legge dell’odio”, unostrumento ad hoc per perseguitarequalsivoglia oppositore, come dimostratodal boom di prigionieri politici di oggi(234) rispetto agli “appena” 13 dell’eraChávez.

duro contro i panettieri, manca persinoil pane, non deve stupire che da iniziofebbraio 2018 molti preti che celebranomessa in Venezuela non abbiano piùneanche le ostie e il vino per l’eucaristia.«Da mesi abbiamo inoltrato una richiestaper comperare la farina di grano ne-cessaria a produrre le ostie» si sfogaLuis Enrique Rojas Ruiz, vescovo ausiliaredell’arcidiocesi di Mérida, città di 350milaabitanti con 13 parrocchie tutte a seccodella materia prima per celebrare unamessa. «Però farina di grano non cen’è, o per lo meno non per noi, anchese di tanto in tanto ci dicono che siamoin lista d’attesa», continua il vescovospiegando che, del problema, è stataallertata anche la Conferenza episcopaledel Venezuela (CeV). Il problema, infatti,non è nuovo ma, negli ultimi mesi, si èaggravato, colpendo oramai tutto ilPaese. «Siamo stati costretti a scrivereuna lettera ai vescovi di Cucuta (cittàcolombiana che dista 250 chilometrida Mérida, ndr) per chiedere se possonoaiutarci», aggiunge sconsolato monsignorRojas Ruiz.

DERIVA DITTATORIALERispetto all’era Chávez che, non a caso,ancora oggi è ricordato positivamentedal 50-60% dei venezuelani rimasti inpatria (a differenza di Maduro che adetta di tutti i sondaggi gode di unappoggio di appena il 22%, massimo25%), oggi non è solo l’economia adessere crollata. Il collasso riguarda tuttoil Paese, anche a causa del prezzo del

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L a nuova carestia che sta affamando duenordcoreani su cinque è la crisi meno trat-

tata dai media internazionali. A denunciarlo,già lo scorso gennaio, è stato un rapporto diCare International, intitolato “Soffrire in silenzio”.Lo studio riporta che quasi un terzo dellemadri in attesa e che dovrebbe allattare, eoltre 200mila bambini nordcoreani, soffronodi malnutrizione acuta. Tali numeri dovrebberoallarmare la comunità internazionale, ma inItalia – per esempio – non sono stati citati danessun media nazionale. In Gran Bretagna, arilanciare il tragico monitoraggio è stato TheGuardian, in un articolo di Rebecca Ratcliffeche scrive: «Mentre gli insulti reciproci fraDonald Trump e Kim Jong-un dominano ititoli dei giornali, la scarsità severa di cibo inCorea del Nord ha ricevuto poca attenzione».A seguire, le carestie più ignorate dai mediasarebbero quelle di Eritrea e Burundi.I Giochi Olimpici invernali in Corea del Sudsono stati un momento cruciale per ricucire lerelazioni con il regime nordcoreano. Il presidentesudcoreano Moon Jae-in, pacifista e progressista,ha riportato al centro la diplomazia, dopomesi di provocazioni pericolose dell’ammini-strazione Trump che potrebbero portare auna guerra nucleare con effetto domino nellaregione Asia-Pacifico. E proprio una diplomaziadella riconciliazione, secondo diversi analisti,sarebbe benefica per la popolazione nordco-reana, che per il 70% dipende dalle razioni dicibo fornite dal regime. Per alcuni esperti,come la professoressa Rosella Idéo, le sanzionicontro Pyongyang hanno danneggiato sola-mente i civili, mentre l’élite al potere si arricchiscea dismisura. L’isolamento della Corea del Nordnon aiuta i suoi 25 milioni di abitanti. L’accessoa giornalisti indipendenti e le organizzazionidella società civile sono vietati. Poche agenzieumanitarie possono operare nel Paese. Fraqueste l’Unicef, che a febbraio scorso parlavadi 60mila bambini malnutriti, ma per Care In-ternational la carestia starebbe colpendo moltepiù persone. Già negli anni Novanta una primacarestia causò tre milioni di morti.

di Francesca Lancini

COREA DEL NORD,DENUTRITI EDIMENTICATI

OSSERVATORIO

ASIA

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Se a ciò si aggiunge l’impossibilità daparte dei leader e dei principali partitiall’opposizione di candidarsi alle pros-sime elezioni presidenziali, anticipateda dicembre scorso (anche in questocaso in modo anticostituzionale dalConsiglio elettorale su ordine espressodi Maduro) al prossimo 20 maggio,ben si capisce perché la CeV sia statacostretta ad intervenire il 12 gennaioscorso, con un comunicato molto chiaroe dettagliato in difesa della democraziae di un popolo sempre più allo stremo.Purtroppo all’invito dei vescovi a «cam-biare le politiche che hanno fatto au-mentare la povertà e la sofferenza delpopolo», mettendolo «in una posizionedi totale dipendenza dallo Stato», Ma-duro ha risposto in modo volgare, de-finendo i sacerdoti cattolici «Satanacon abito talare».

LA VOCE DEI VESCOVIIn realtà, il vero problema per il presi-dente è che ormai la Chiesa è rimastal’ultima istituzione che ha il coraggiodi opporglisi. Per questo la CeV haemesso, il 16 gennaio scorso, un se-condo comunicato denunciando il ten-tativo per «criminalizzare ogni mani-festazione contro il governo, favorendola diffusione di qualsiasi menzogna especulazione, il cui effetto è consolidareil controllo assoluto su ogni attività,oltre a provocare paura ed autocen-sura».La denuncia contro i vescovi, continuala CeV, «è l’ennesima prova che lalegge contro l’odio introdotta di recenteè stata concepita per essere applicatacontro chiunque osi criticare il governoe le sue azioni».«Vogliono ridurci al silenzio ma nonpossono impedire che la Chiesa denunciche il popolo di Dio qui soffre la fame,non possono impedire di farci dire almondo che oggi qui la gente sopravvivesolo mangiando i resti del cibo chetrova nell’immondizia». Parola del co-raggioso arcivescovo di Barquisimeto,monsignor López Castillo.

L’inflazione selvaggia sferza il Paese

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ATTUALITÀ

sottile dei contatti diplomatici: usciti discena gli atleti, tocca ora alle delegazionicontinuare la delicata partita per i colloquiin vista dell’incontro tra il dittatore nor-dcoreano Kim Jong-un e gli Usa. Dopo ilviaggio a Pyongyang del 5 marzo scorsodi Chung Eui-yong, consigliere sudcoreanoper la sicurezza nazionale, ricevuto per-sonalmente da Kim, è iniziato quello chegli analisti di politica internazionale chia-

di MIELA FAGIOLOD’ATTILIA

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mano “il valzer diplomatico”. Malgradol’ imposizione di nuove sanzioni americanecontro la Corea del Nord, il presidentesudcoreano Moon Jae-in si è impegnatoin una mediazione che in prima battutasembra aver dato risultati positivi, dopole prime dichiarazioni di disponibilità diKim Jong-un a fermare il programmanucleare, conditio sine qua non perl’apertura all’incontro col presidente ame-ricano Donald Trump. Malgrado l’ottimi-smo seguito a tali dichiarazioni, gli spazidi trattativa sono stretti e legati agliaccordi politico - economici di cui sistanno occupando le cancellerie coreanee americane. Dopo avere sfilato sotto lastessa bandiera in apertura dei Giochiinvernali il 9 febbraio scorso, Corea delNord e del Sud sono rientrate nei ranghi,con il Sud alleato degli Usa, impegnatonella mediazione con gli americani che

Q uelli che la storia ricorda giàcome “i Giochi della pace” hannoaperto un processo tutto in salita.

Dopo le medaglie e la festa globalizzatadi PyonChang, Corea del Sud e del Nordcontinuano a “pattinare” sul ghiaccio

MedagliaMedagliad’oro alladiplomazia

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Chol e la figlia di Donald Trump, Ivanka,mentre poco più avanti il presidente sud-coreano Moon Jae-In scambiava compostisorrisi orientali con Kim Yo-jong, sorellaed emissaria del dittatore nordcoreanoKim Jong-un. Strette di mano incrociatee grandi effetti speciali nello stadio contutti gli atleti che sfilavano senza bandiere,confusi in un’unica massa festante. Du-rante i Giochi i rappresentanti cinesihanno tenuto un basso profilo, con LiuYandong, inviata del “presidente a vita”Xi Jimping, che ha incontrato il presidentesudcoreano all’indomani della chiusuradei Giochi per rafforzare il legame tra idue Paesi e raccogliere il mandato per leprossime Olimpiadi invernali a Pechinonel 2022. Contemporaneamente KimJong-un lanciava la carta diplomatica diaprire un dialogo con gli Stati Uniti,malgrado le nuove sanzioni unilaterali diTrump per tagliare i finanziamenti alprogramma missilistico nucleare.

LA STRATEGIA DI KIM JONG-UNCiò non toglie che nel medagliere degliori conquistati a PyeongChang, un trofeoè sicuramente il più grande di tutti glialtri. È la “medaglia alla diplomazia”vinta sul campo dall’eclettico dittatoreKim Jong-un, che alle Olimpiadi d’invernoha dato prova di grande abilità politica,imponendo le sue regole del gioco (è ilcaso di dire) anche agli Stati Uniti e allealtre potenze straniere. Dopo una esca-lation nucleare che ha tenuto il »

Tutto accade intorno a quel 38esimo paralleloche dalla fine della Seconda guerra mondialedivide la Penisola coreana in un Nord e un Sud.I Giochi olimpici di PyeongChang sono stati ilprimo segnale di disgelo nei rapporti tra le dueCoree, frenando l’escalation di tensione con gliStati Uniti per il programma nucleare deldittatore Kim Jong-un. Ma ora cosa accadrà?

Gli atleti della Coreadel Nord e dellaCorea del Suddurante lacerimonia dichiusura dei GiochiOlimpici Invernali diPyeongChang.

Il dittatore nordcoreano dopo le Olimpiadi invernali

occhi del mondo sono puntati sull’an-nunciato incontro di maggio tra Kim eTrump.

L’ENTUSIASMO DEI GIOCHIEppure poche settimane prima, tuttosembrava aprire scenari diversi. «Ispireretetutti noi a vivere insieme in pace earmonia, malgrado le differenze che ab-biamo». Le parole di Thomas Bach, presi-dente del Comité International olympique(Cio), in apertura delle Olimpiadi invernalisono risuonate come un mantra durantele due settimane di competizioni. L’appello

non era ovviamente rivolto solo agliatleti ma alle due Coree e ai contendentidella partita della pace, Stati Uniti, Russiae Cina. Quindici giorni dopo, ecco in tri-buna durante la cerimonia di chiusura, ildiscusso generale nordcoreano Kim Yong

hanno già fissato la data delle consueteesercitazioni militari congiunte, rimandateproprio a causa delle Olimpiadi di Pye-ongChang. E mentre il segretario di Statoamericano Rex Tillerson è stato sostituitoda Mike Pompeo (direttore della Cia) gli

Il leader nordcoreano KimJong-un stringe la mano aChung Eui-yong, capodella delegazione inviatadal presidente della Coreadel Sud a PyeongChang.

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L’ENIGMATICA KIM JO-JONGA PyeongChang la sorella minore diKim Jong-un è diventata testimonialdel disgelo con Seul. Per la prima voltadalla fine della guerra tra le due Coree,un membro della famiglia dei Kim – di-nastia conosciuta come “la linea delmonte Paektu” – si reca in visita al Sud.Trentenne determinata, gode della fiduciadel fratello, in verità non troppo tenerocon i parenti (la morte del fratello KimJong-nam ucciso un anno fa col gasnervino all’aeroporto di Kuala Lumpurresta avvolta dal mistero), è stata accoltacome un capo di Stato. Negli ultimidue anni Jo-jong ha conosciuto unarapida ascesa nell’apparato burocraticonordcoreano. Nominata nell’ottobre2017 membro dell’Ufficio politico delPartito del lavoro, già dirigente del Di-partimento di propaganda del partitounico, ha svolto con zelo il suo compitodi girare il Paese per istruire il popolo ediffondere i programmi del fratello. Orala giovane donna, della cui vita privatanon si sa nulla, è tornata nel grigio lowprofile di “socia della ditta di famiglia”all’ombra dell’istrionico fratello. Chesenza dubbio non esiterà a rimetterlain scena qualora fosse necessario mo-strare ancora al mondo il volto sorridentedi un regime che affama il suo popolo(vedi Osservatorio Asia, pag. 7). Sempreche invece non ci tocchi di vedere nuovilanci di missili con parate oceaniche egenerali schierati ad ala intorno al dit-tatore.Kim Jong-un è un abile giocatore, capacedi spiazzare l’avversario con un bluff ocon una mossa a sorpresa. Sempre conlo stesso sorriso sulla faccia (sua o forsedi uno dei tanti sosia, corredo del regimedi ogni dittatore che si rispetti). Russiae Cina, principali partner economici diPyongyang, stanno a guardare: l’im-portante è non fermare gli accordi e ilgiro di affari che ha permesso al dittatoredi Pyongyang di fare della Corea delNord una potenza nucleare che si pre-senta al mondo tra i Paesi dotati di ar-senali atomici.

ATTUALITÀIl dittatore nordcoreano dopo

le Olimpiadi invernali

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la riapertura di un certo numero didossier sugli aiuti umanitari. Il periododi calma si è protratto dall’inizio deiGiochi fino al termine delle Paraolimpiadiinvernali il 18 marzo scorso, dato che néWashington né Pyongyang hanno alcuninteresse a mettere in pericolo la Coreadel Sud, al centro di equilibri da ridefinire.In altre parole, dopo le dimostrazioni diforza degli ultimi due anni, la posizionedella Corea del Nord si è rinforzata: ri-conosciuta come potenza nucleare, oracerca di spostare l’asse delle relazionicon gli Stati Uniti (e non solo) ponendosisu un piano paritario.L’amministrazione Trump ha mandatomessaggi contradditori in merito alleaperture al dialogo. Il presidente ameri-cano insiste perché Kim Jong-un rinuncial programma nucleare e proprio suquesto si giocheranno le prossime mossedella partita a scacchi tra i due Paesi. Unnuovo picco di tensioni potrebbe verificarsiproprio in occasione delle operazioni mi-litari congiunte Usa - Corea del Sud.Kim Jong-un avrebbe una scusa per riar-mare i suoi missili a lunga gittata, madovrà scegliere se questo varrà la rinunciaall’immagine conquistata a PyeongChang.

mondo col fiato sospeso e irrigidito leposizioni del presidente Trump.In precedenza la Corea del Nord avevaeffettuato tre lanci nucleari e più di 40lanci missilistici (dall’inizio del 2016) chehanno avuto come conseguenza l’impo-sizione al Paese di durissime sanzioni in-ternazionali e una crescita delle tensioniin tutto l’Estremo Oriente. Di qui la ne-cessità nordcoreana di far scendere latensione, tentando una offensiva, questavolta diplomatica, verso gli Stati Uniti.Ma come giustificare lo stop delle pro-vocazioni nucleari senza dare alla popo-lazione e alla comunità internazionalel’impressione di piegare la schiena davantiall’imperialismo americano? Kim Jong-un ha deciso di orientare gli sforzi didialogo verso la vicina Corea del Suddesiderosa di stabilità ai confini e nellaregione, per garantire il successo deiGiochi di PyeongChang. L’intuizione si èdimostrata azzeccata e, annunciando lapartecipazione dei suoi atleti, la Coreadel Nord ha dato prova di buona volontàverso i «fratelli e sorelle della Corea delSud». Ma ha ottenuto anche la sospen-sione delle esercitazioni militari congiuntedella Corea del Sud con gli americani e

Kim Jo-Jong, sorella minore di Kim Jong-un e MoonJae-in, presidente della Corea del Sud, assistono adun concerto a Seul lo scorso febbraio.

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I BRICS e l’Africa

IBRICS rappresentano il 40% dellapopolazione del pianeta e il 25%del Pil mondiale. Mentre l’economia

occidentale arranca da 10 anni, nellostesso periodo il loro Pil aggregato ècresciuto del 179% e i loro scambi com-merciali sono aumentati del 94%. Ognu-no dei membri dell’alleanza ha una suagrande particolarità. La Cina è il primoesportatore mondiale e nel 2020 di-venterà la prima economia del globo. IlBrasile è l’«azienda agricola più grandedel mondo». La Russia, come noto, èricchissima di petrolio e gas. L’India èdiventata la “centrale” della tecnologia

Nuovi mondicresconoNuovi mondi

di PAOLO [email protected]

informatica. Il Sudafrica è la miniera ditutte le risorse: le sue materie primesono oggi stimate intorno a 2,5 trilionidi dollari. Ma la loro principale ricchezzaovviamente sta in una popolazione dicirca tre miliardi di cittadini, in mag-gioranza giovani. Di fatto, dopo lagrande crisi del 2007-8, i BRICS sonostati la sola locomotiva dell’economiache ha evitato il tracollo dell’intero si-stema produttivo e finanziario globale.E di conseguenza hanno trainato anchele economie del cosiddetto Sud delmondo. Ciò, anche e nonostante glistessi BRICS debbano affrontare in casaloro crescenti difficoltà a livello politicoed economico. Come evidenziano, inparticolare, le crisi di governo in

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L’impatto della crescitadell’alleanza dei PaesiBRICS (Brasile, Russia,India, Cina e Sudafrica)sugli altri emergenti e suquelli più poveri è statoindubbiamente anchepositivo sia sul pianoeconomico che su quellodella futura governance

politico-istituzionaleinternazionale. In Europa,invece, si vorrebbesottostimare questiprocessi. Mentre la Storiacontinua il suo corso.»

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Il Lago Ciad, al centro di un progettodella società di costruzioni PowerChina.

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ATTUALITÀ

Brasile e in Sudafrica e l’isolamento in-ternazionale della Russia. Si tratta quindidi un processo con luci e ombre. Ma,sulla bilancia della storia, l’alleanzaBRICS e il loro rapporto con il resto delmondo rappresentano una grande novitàche ha messo in discussione i rapportidi potere, consolidatisi nei passati 70anni e il dominio, spesso di stamponeocoloniale, del cosiddetto Occidente.

IL PESO ECONOMICO E POLITICODEI BRICSLa cartina di tornasole per i BRICS è ilrapporto che sapranno mettere in campocon l’Africa. L’Africa è vista da tutticome il serbatoio di cibo, di energia edi acqua, cui attingere a costi più con-venienti possibili. È qui che si vedrà inmodo trasparente e chiaro se essi sonoportatori di nuovi valori etici, di giustiziasociale e di principi di sviluppo condivisooppure se cadranno nella tentazione di

imporre nuove forme, forse più soft, dicolonialismo economico. Ciò vale pertutti, in particolare per la Cina che ma-nifesta un eccezionale attivismo nelcontinente africano e altrove nel mon-do.Per il momento il loro orientamento èdi assumere il ruolo di “fratelli maggiori”che proteggono i Paesi più deboli. È sulterreno della ridefinizione della gover-nance globale che i BRICS possono dareun sostegno importante a tutti i Paesipoveri e a quelli emergenti. Si tratta diridefinire gli equilibri di potere all’internodelle Nazioni Unite e delle grandi isti-tuzioni economiche internazionali, comeil Fondo monetario internazionale (Fmi).È di recente la decisione, posticipatacontinuamente dalle potenze econo-miche occidentali, in primis gli Usa, dirivedere la suddivisione delle quote delFondo. Adesso la Cina, che fino a pocotempo fa “pesava” nel Fmi quanto il

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I BRICS e l’Africa

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Paesi del Sud del mondo sta nella rea-lizzazione di grandi infrastrutture, ne-cessarie per la modernizzazione dei si-stemi economici e sociali di vasti territori.Il più importante tra questi grandi pro-getti è la Nuova Via della Seta, la Beltand Road Initiative, che potrebbe coin-volgere oltre 60 Paesi asiatici ed europei,oltre ad una forma di estensione ancheall’intero continente africano. Si trattadi grandi linee di trasporti ferroviari estradali e di comunicazione, lungo lequali costruire e modernizzare centriurbani e aree di sviluppo agroindustriale.È un processo che, se approcciato inmodo razionale e condiviso, potrebbeportare vaste aree del mondo ed enormimasse di popolazione fuori dalle sacchedel sottosviluppo.Al riguardo è importante la partecipazionecinese nella costruzione della linea fer-roviaria che dovrebbe attraversare l’interaAfrica, collegando la costa dell’OceanoIndiano con quella del Pacifico. Ancorpiù importante potrebbe essere la rea-lizzazione del progetto concernente ilLago Ciad. Si tratta di collegarlo, con uncanale lungo 2.400 chilometri, al fiumeCongo per portare acqua dolce, realiz-zando così il vecchio progetto “Transaqua”proposto oltre 45 anni fa dall’impresaitaliana Bonifica del gruppo IRI. Oggi ilgigante cinese delle costruzioni, Power-China, ne discute con la Commissionedegli Stati del Bacino del Lago Ciad e inparticolare con la Nigeria. In un momentoin cui tanto si parla di cambiamenti cli-matici, di avanzamento del deserto, dimancanza d’acqua, di grandi migrazionicollegate al sottosviluppo, un tale pro-getto sarebbe di portata strategica etraccerebbe un percorso virtuoso da se-guire anche altrove.Per l’intero 2018 la presidenza dei BRICSsarà nelle mani del Sudafrica. Potrebbeessere la grande occasione per metterealla prova le loro intenzioni innovativedi sviluppo nel continente africano, chene ha tanto bisogno e che rappresentalo spartiacque morale del futuro del-l’umanità.

architettura della governance globaledominante è obsoleta, per cui «esploranonuovi modelli di sviluppo più equo».Sul fronte monetario e commerciale, iBRICS contestano apertamente le de-cisioni delle banche centrali delle co-siddette economie avanzate, poichéesse «hanno risposto alla crisi solo conazioni di politica monetaria non con-venzionale, che hanno aumentato laliquidità mondiale», senza affrontare levere sfide dello sviluppo e del sottosvi-luppo.Essi hanno anche iniziato a realizzarele transazioni commerciali, interne allaloro alleanza, nelle rispettive monetenazionali. Tutto ciò potrebbe portare aun progressivo sganciamento dal dominiostorico del dollaro, creando le condizioniper costruire in un futuro prossimo unnuovo sistema monetario internazionalebasato su un paniere di monete. Ovvia-mente andrebbe anche a beneficio dellasovranità dei Paesi più poveri e debolidel pianeta. Infatti, è in corso un grandelavoro per arrivare a un progressivo al-largamento dell’alleanza, coinvolgendo

altre nazioni a forte crescitaeconomica come l’Indonesia, ilMessico, la Nigeria, la Turchia,la Corea del Sud, il Vietnam.Anche nel loro ultimo summitdi settembre 2017 a Xiamen, inCina, si è passati al “Brics Plus”,coinvolgendo i capi dei governidi Messico, Egitto, Thailandia,Tagikistan e Guinea che hannopartecipato al “Dialogo dei Paesiemergenti e in via di sviluppo”.Si è posto l’accento sull’inten-zione di scambiare le miglioriesperienze di sviluppo e d’inte-grazione infrastrutturale e fi-nanziaria con i Paesi emergentiper correggere gli attuali ingiustisquilibri tra il Nord e il Sud delmondo.

LA NUOVA VIA DELLA SETAUn secondo impulso positivo deiBRICS nei confronti degli altri

Belgio, potrà avere una rappresentanzaun po’ più misurata al suo reale pesoeconomico.Inoltre, dopo il summit di Durban, inSudafrica, del 2013 è stata costruitauna Nuova Banca di Sviluppo per fi-nanziare grandi infrastrutture e altriprogetti in tutti i Paesi in via di sviluppo.Essa può contare subito su un capitaledi base versato di 50 miliardi di dollari,che aumenterà fino a raggiungere i 100miliardi. È un ente indipendente e sgan-ciato dalle vecchie logiche, dalle influenzee dai controlli del Fmi e della BancaMondiale. È stato anche creato un Fondodi Riserva, il Contingent Reserve Ar-rangement, di 100 miliardi di dollari dausare in situazioni di emergenza e chedovrebbe garantire la stabilità finanziariadei BRICS e delle altre economie emer-genti contro le speculazioni sulle com-modity e contro gli effetti recessivi dellacrisi globale.

ARRIVANO I BRICS PLUSNella logica di un mondo multilateralee multipolare essi affermano che l’attuale

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FOCUS Energie rinnovabili

G ianpiero Suetta è un sognatoredi Savona, ha 80 anni, nella suavita ha fatto sempre l’ingegnere

ed ama profondamente l’Africa. «Invecedi aiutare le popolazioni inviando pannellifotovoltaici per la produzione dell’energiasolare, si spediscono i componenti per illoro montaggio e dopo, una volta in-trodotti nel forno dell’autoclave mobile,

attraverso un processo di fusione e tra-sformazione del componente Eva (evi-nilacetato), il pannello fotovoltaico èpronto all’uso» spiega Suetta, che hainventato il macchinario e lo ha portatonella Repubblica Centrafricana per co-struire un’autoclave mobile didatticaper la produzione fotovoltaica.Si prevede che dopo un periodo di for-mazione per il personale in loco saràpossibile costruire 10 pannelli al giornonel primo periodo, per arrivare a 20

quando l’équipe sarà totalmente rodata.Intanto nella Solar Technology Group,con sede nel complesso di San Giacomo(una ex chiesa e convento ristrutturatidella città ligure) in stretto contattocon l’Università di Genova, si continua asperimentare l’evoluzione del progettoe da tutto il mondo arrivano ricercatorie scienziati per aggiornare le conoscenzenel campo. L’Africa sta vivendo un pro-fondo processo di modernizzazione e dicrescita commerciale ed industriale. Tut-

La scommessa

di ROBERTO BÀ[email protected]

dell’Africa

Il continente africano è al centro di un big

business sulle ricerche e i progetti per ilfotovoltaico e l’eolico, che nei prossimi 25 annirichiederanno investimenti per più di 140miliardi di dollari. Nel processo dimodernizzazione e di crescita commerciale edindustriale di molti Paesi africani, l’energia è laprima necessità per un effettivo sviluppo.

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sono colossali, ma anche il rischio diuna nuova colonizzazione è altissimo.Gran parte degli investimenti, le tecno-logie utili per la costruzione degli impianti,il know how per la progettazione ed itecnici specializzati necessari non sonoafricani. Per questo è molto serio il pe-ricolo di vedere ancora una volta il Suddel mondo rimanere terra di conquistadel Nord. Anche le decisioni strategichein campo energetico non sono del tuttodefinite. L’Agenzia internazionale per

l’energia (Iea) ha incrociato le previsionidel fabbisogno con le analisi realizzatedai protagonisti del mercato ed ha pre-visto per l’Africa sub-sahariana, l’arearitenuta più promettente per capacitàdi crescita, investimenti per circa 110miliardi di dollari fino al 2040, con unaumento di velocità molto alto dopo il2030. Perno di questo big business do-vrebbero essere le nuove rinnovabili,ovvero il fotovoltaico e l’eolico, che neiprossimi 25 anni richiederanno investi-menti per più di 140 miliardi di dollari.A queste cifre, considerato il gran numerodi fiumi e laghi, si debbono aggiungerealtri 208 miliardi di dollari per l’energiaidroelettrica.

SOLE, VENTO, ACQUAUn altro studio, condotto dal BerkeleyLab e pubblicato sulla rivista Proceedingsof the National Academy of Sciences,ha indicato che, sebbene l’uso di fontifossili e idroelettriche sia «una strategiamigliore», è importante valutare anchela competitività dell’eolico e del solare.Secondo questi esperti l’ostruzionismoche spesso ha segnato le infrastruttureenergetiche legate alle fonti alternativepartiva dai costi eccessivi e da una di-pendenza troppo marcata di queste ul-time con le condizioni climatiche. L’Africapossiede aree con vento e sole in ab-bondanza ed i ricercatori del BerkeleyLab hanno fatto notare che in moltiPaesi di quel continente le energie eolicae solare avrebbero un potenziale note-volmente superiore alla domanda dienergia elettrica prevista per il 2030.Le infinite risorse fossili dell’Africa conl’idroelettrico sarebbero allora l’opzionepiù facile, ma non la migliore in terminiassoluti. Se carbone e petrolio sono in-quinanti, secondo gli scienziati del Ber-keley Lab, l’energia idroelettrica restaancora la risorsa principale e quella piùconnessa al territorio, ma l’aumento delcosto degli impianti, e soprattutto lacrescente siccità dovuta ai mutamenticlimatici, stanno rendendo questa fontemeno attrattiva rispetto al passato. »

Lampioni a energiaelettrica prodotta da pannelli solari nellacittadina di Agadez, Niger.

tavia, c’è una questione da affrontareprima di ogni altra: in quel continentevive il 13% della popolazione mondiale,ma si utilizza solo il 4% dell’energia delpianeta. In parole semplici vuol dire cheper rendere concreto lo sviluppo, il nododa sciogliere fin da oggi è quello dell’elet-tricità.Vincere questa scommessa è vitale, cosìc’è chi ha già cominciato a preparare lestrategie necessarie per sfruttare lagrande opportunità. I capitali in ballo

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FOCUSFOCUS

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In ogni caso c’è una condizione indis-pensabile per rispondere alla domandadi energia: qualunque decisione dovràpassare per una normalizzazione deirapporti politici tra i diversi Stati, perchéla chiave del successo di qualunquepiano sarà nella interconnessione dellereti distributive dei diversi Paesi; edinoltre l’ubicazione degli impianti dovràessere lì dove esistono le migliori condi-zioni ambientali per costruirli. Senzapace, quindi, qualunque idea di svilupposarà irrealizzabile.

PROGETTI PER LE FONTI ALTERNATIVERanjit Deshmukh, uno degli analisti, hadetto: «Di solito chi sviluppa i progettidegli impianti sceglie siti dove i costisiano minimi o la velocità del vento mi-gliore, ma in realtà non sono queste lelocazioni più idonee». Può essere cheinvece i luoghi più indicati siano quellivicini alle città, in modo da ridurre il ri-schio indotto da reti di trasporto dell’ener-gia eccessivamente estese. Con l’evolversidelle tecnologie negli ultimi dieci anni,gli impianti basati sulle rinnovabili co-stano molto meno e queste fonti d’ener-gia sono diventate un’alternativa conve-niente. Tutto fa capire come il volumeimmenso di capitali in arrivo in Africanon esclude la possibilità concreta chela grande marea di denaro produca unotsunami. Perché da una parte c’è la do-manda di energia per gli africani edall’altra l’interesse da parte dei grandiinvestitori europei, cinesi ed americania produrre nel continente per portarealtrove l’elettricità.Numerose sono le iniziative in corso.Res4Med è un’associazione che raccoglie31 leader internazionali, tra cui investitoricome Enel Green Power e Italgen, rea-lizzatori come Enerray e Enertronica, ilgestore della rete nazionale Terna, as-sociazioni di categoria come ElettricitàFutura, consulenti come PwC ePoyry,società di ingegneria come Cesi e D’Ap-

polonia, eccellenze accademiche comeil Politecnico di Milano e quello di Torino,l’Università Bocconi e Enea, la FondazioneEnel. Il piano di questa specie di consorzioè quello di mettere in piedi un programmabilanciato di soluzioni innovative, tracui progetti di larga scala, generazionedistribuita e interventi per fortificare lereti di trasmissione.

ENERGIA DAL DESERTO?Per chi detiene capitali e tecnologie èfondamentale che l’establishment afri-cano collabori. A quali condizioni? Primadi tutto accettando il know how deinetwork mondiali nel settore dell’energiae poi delle imprese specializzate nellerinnovabili perché quelle sono le fontipiù economiche, facili e veloci da inte-grare nel sistema rispetto alle fontifossili. Fotovoltaico, eolico e idroelettricosono importantissimi per la difesa dell’am-biente, ma anche rendono improduttivii giacimenti fossili, penalizzando i Paesiche possiedono le materie prime. Sicomprende allora come sia difficiletrovare un equilibrio che metta al riparol’Africa da speculazioni e ingerenze po-litiche pesanti. In passato, con la spintadecisiva della Germania e col coinvolgi-mento dell’Europa, si ipotizzò un piano,detto Desertec, che voleva sfruttare l’im-menso deserto del Sahara per produrreenergia elettrica per mezzo di impiantifotovoltaici. Il destinatario principale

Inaugurazione di un nuovo sito di produzionedi energia fotovoltaica a Bokhol, Senegal.

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dell’operazione sarebbe stato in granparte il Vecchio Continente e non l’Africa.La crisi finanziaria, la conseguente di-minuzione della domanda di energia el’instabilità politica seguita alle cosiddettePrimavere arabe portarono il tutto suun binario morto.Se Desertec si è dissolto nel nulla, l’ideadi utilizzare il Sahara per produrre elet-tricità ha resistito ed è stata adottatadalla State Grid Corporation of China,che però ha allargato il campo di azioneoriginario. I cinesi vogliono inserire gliimpianti africani in un sistema globaledi produzione energetica con lo scopodi raggiungere tre miliardi di personeche oggi nel mondo hanno accesso dis-continuo all’elettricità. Grazie a nuovetecnologie che lo permettono, a Pechinopensano di costruire una rete di distri-buzione planetaria che colleghi i parchisolari del deserto africano con quellieolici dell’Artico e dell’Antartide. L’obiet-tivo finale è centrato sul 2050, quandouna immensa ragnatela di connessioni,stando ai piani, dovrà distribuire il 90%dell’elettricità necessaria e prodotta confonti rinnovabili nei cinque continentiper un investimento complessivo di50mila miliardi di dollari nei prossimi30 anni.

LA LONGA MANUS CINESESi comprende come il ruolo strategicodell’Africa sia centrale per l’azienda

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Cammelli sfilano davanti al parco eolico di Ashegodanella regione settentrionale del Tigray, in Etiopia.

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Energie rinnovabili

cinese e come il progetto dia a Pechinoun ruolo non solo economico, ma politicodi dimensioni inimmaginabili. Gli inter-rogativi a questo punto sono molti: chigestirà gli impianti? Quale sarà il ruolodei governi interessati in questo fan-tascientifico programma? Quanta energiaresterà in Africa e quanta sarà dirottataaltrove? Il continente africano oggi èancora in ritardo nello sviluppo, mentrei governi dei singoli Paesi sono spessocomposti da personaggi corrotti o sub-alterni ai dictat delle grandi impreseglobalizzate. Questi fattori sono rilevantiper valutare le ricadute positive sulcontinente in generale e sui singoli Statiin particolare.

I diritti civili in Iran sono sempre piùviolati. La presidenza del “moderato”

Hassan Rouhani non garantisce affatto ilrispetto della libertà delle persone e glistandard minimi di giustizia sociale. Questoè un Paese “castigato” e sottoposto al ri-spetto maniacale di una legge (intrisa disharia) durissima, che prevede anni di car-cere e la pena di morte per reati anchenon penali. E non è solo questione di veloo non velo per le donne. Sebbene la con-danna a due anni per chi ha osato toglierselo«incoraggiando – secondo il giudice – lacorruzione attraverso la rimozione dell’hijabin pubblico», la dica lunga sul pericolo checorrono le donne. È una questione di de-cenza, di diritto. Di giustizia generale. Peruomini, donne, giovani, artisti, intellettuali.Sono le libertà civili di tutte le categorie arischio censura. Parlano i dati e i rapportidi monitoraggio delle ong e dell’Onu. So-prattutto quelli divulgati da Amnesty Inter-national. «Le autorità avvalorano una di-scriminazione pervasiva riguardo le opinionipolitiche, le credenze religiose, la condizioneetnica, le disabilità, l’orientamento sessuale,l’identità di genere». Tutti sono nel mirino,nessuno escluso. Perché tutte le dittaturesono discriminatorie. Eppure la comunitàinternazionale non sembra allarmata piùdi tanto. Talvolta si alzano voci di sdegnoper la condizione delle donne, questo sì.Come a voler ribadire una superiorità cul-turale e religiosa dell’Occidente nei confrontidi un Medio Oriente sessista, assimilato atorto ad altri medio orienti. La realtà è chequesto Iran somiglia molto a quello di Ah-madinejad dal punto di vista dei diritti. Maall’epoca faceva più paura perché egoisti-camente vedevamo un pericolo per noistessi: quello nucleare. Pericolo che nonc’è mai stato allora e che non c’è neancheadesso. Il pericolo invece resta per la societàcivile iraniana. Allora come adesso.

di Ilaria De Bonis

IRAN:ROUHANI È UN MODERATO?

OSSERVATORIO

MEDIO ORIENTELa Banca Mondiale ha calcolato che lametà delle imprese africane ha problemidi crescita a causa della fragilità degliimpianti di distribuzione di elettricità.Quasi il 48% delle aziende è costrettoad utilizzare un proprio generatore per-ché i fornitori ufficiali sono inaffidabili,mentre le interruzioni di energia (inmedia due ore al giorno) procuranoperdite del 4% sui fatturati annui.Nonostante questi limiti strutturali, trail 2012 ed il 2017 gran parte dell’Africasub-sahariana è cresciuta più di moltiPaesi del Nord del mondo, con unamedia del 5-6%. Al di sopra delle stime,poi, hanno realizzato performance in-teressanti il Mozambico col 6%, lo Zam-bia col 6,2%, l’ Etiopia col 6,3%, l’Angolacol 6,5% e la Tanzania col 6,9%.La Banca africana di sviluppo, dal cantosuo, ha valutato che entro il 2030 metàdella popolazione del continente si saràconcentrata nelle città e entro il 2040almeno sei Paesi vedranno il proprio Pilpro capite oltrepassare 10mila dollari,un salto di qualità eccezionale. Chiari escuri di uno scenario in continuo mu-tamento e in qualche modo non deltutto rassicurante, sulla base dell’espe-rienza del passato e del presente.

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L’INCHIESTA Sacche di povertà nelle periferie del Marocco

Il far west di Jerada,miniere illegali e morteIl far west di Jerada,miniere illegali e morte

farlo. Sono la prova dell’esistenza di due(o forse tre) Marocco differenti: quellocentrale e cittadino, turistico e ancorairrorato di finanziamenti occidentali, equello periferico e desertico del Nord eNord-est. La costa bella e povera delNord non somiglia affatto alle cittàcostiere dell’Ovest coloniale come Casa-blanca, o alle attrazioni turistiche sfavillantie abusate come Marrakesh. La regionesemidesertica di Jerada non pare neanchefar parte dello stesso Paese sponsorizzatodai regnanti come la “perla del NordAfrica”, ricca di nuovi investimenti e pro-getti infrastrutturali.

I TUNNEL DELLA MORTEJeune Afrique e Le Monde hanno co-minciato a parlare del “movimento delleminiere” da quando, a fine dicembrescorso, due fratelli sono rimasti incastratinelle cavità della terra e sono morti.

L’hanno chiamato l’«Hirak di Je-rada»: è il movimento di protestapopolare nella zona delle miniere

clandestine nel Nord-est del Maroccodesertificato (Jerada, appunto). Dove iminatori muoiono come mosche mentreestraggono illegalmente il carbone daisiti abbandonati. Privi di qualsiasi tutelae di una benché minima protezione fisica,

di ILARIA DE [email protected]

Le crepe sociali nel regno di Mohammed VIsono sempre più marcate: le regioni poveredel Nord e del Nord-est non si tengono più.A Jerada i minatori hanno dato il via anuove proteste. Chiedono un lavoro, dignitàe sicurezza.

si affannano a cercare il minerale neroper rivenderlo alle società concessionarie.Il nome Hirak, dato alla protesta chevede protagonista la gente comune, è inassonanza con quello di lotta organizzatadai pescatori poveri del Rif berbero, daqualche anno in forte polemica col go-verno di Saad Eddine. Queste due regioni(Jerada e Rif) in effetti sono la crepa nelmuro del regno di Mohammed VI, chevorrebbe pure intervenire per arginare ilmalcontento, ma non sa proprio come

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possibilità di impiego meno pericolose epiù remunerative. Il re Mohammed, pe-raltro ancora molto amato nel Paese,considerato una specie di autorità religiosa(non c’è ristorante, albergo, locale di Ca-sablanca o Marrakesh che non espongala sua foto nell’atrio), cerca di rassicurareil popolo ma non ci riesce. Più le protestesi fanno numerose e visibili, più scatta ilpugno di ferro: il Marocco è pur sempreun Paese autoritario, sebbene il re abbiasempre addolcito i ribelli promettendoriforme. E quando in strada la gente ètanta ed arrabbiata, non mancano ran-dellate e carcere.

IL BASTONE E LA CAROTAÈ accaduto a Mustapha Dainane e aAmine Mkallech, due leader del movi-mento di protesta di Jerada arrestati il10 marzo scorso. Le autorità si sono af-frettate a chiarire che gli arresti nonsono collegati alle proteste dell’Hirak »

Avevano 23 e 30 anni. «Houcine et Je-douane sono deceduti in seguito ad unincidente nelle gallerie – scrive Le Monde- Il doppio decesso ha causato collera eturbamento a Jerada», dove la gente èscesa in strada a manifestare. A marzoscorso poi è morto un altro minatore:Fethi Kettari, rimasto fulminato dai cavielettrici.Ma come si può morire in miniera nelXXI secolo in un Paese che si vantad’essere la prima economia del NordAfrica? Il fatto è che queste non sonovere e proprie miniere: le società minerarieche hanno ottenuto il permesso di sfrut-tamento del sottosuolo dopo la chiusuradella compagnia di Stato Charbonnagedu Maroc, nel 1998, non hanno maicreato un vero e proprio bacino industriale.«Si sono limitate a comprare il carboneestratto illegalmente dai minatori su loroconcessione, senza stipendiarli in alcunmodo», spiega il quotidiano La Libre.L’estrazione del carbone è lasciata allalibera iniziativa dei singoli, senza attrez-zature, senza protezione, senza indennizzoin caso di incidente. È il far west delleminiere clandestine. La storia però è piùlunga e più complessa di così e fa partedel processo di privatizzazione e deindu-strializzazione del Paese. Come moltealtre ex colonie francesi, anche il Marocconon ha retto al passaggio di consegne.Negli anni Venti del 1900 la zona diJerada con 43mila abitanti si era sviluppatamolto grazie allo sfruttamento del car-bone: di mezzo c’erano i francesi, con laCharbonnages du Maroc che poi è statanazionalizzata negli anni Settanta.

GLI ANNI D’ORO DEL CARBONETra il 1927 e il 1998 la Società delcarbone è la maggiore industria estrattivadel Paese e dà lavoro a novemila persone.Nel 1998 entra in crisi e viene liquidata:nel 2001 non esiste più. Viene abbando-nata. Il Marocco diventa sempre più unPaese dove non si produce ma si costruisce:hotel, centri commerciali, case. Un Paese

che vuole fare commercio ma non haindustrie. I minatori non riescono a ri-convertirsi in altro e continuano adestrarre minerali senza essere stipendiati.La ricerca del carbone è un po’ come lacorsa all’oro: non lo si trova da un giornoall’altro. I minatori si devono organizzaretentando la fortuna. «Ci ritroviamo indue o tre e decidiamo di scavare utiliz-zando un martello e un piccone», raccontauno di loro che vuole rimanere anonimoa Les Observateurs. «Scendiamo ad unaprofondità che va da cinque a 70 metrie di norma ci mettiamo non meno di unanno e mezzo per trovare del carbone edunque terminare la creazione dei pozzi».Tutta questa fase preventiva di esplora-zione e perforazione del sottosuolo nonè remunerativa: «Non vediamo soldifinché non estraiamo carbone» raccontanogli operai. Per mesi e mesi quindi nonguadagnano nulla. E una volta iniziato atrovare il carbone, i guadagni sono moltovariabili: una giornata di lavoro puòfruttare dieci euro o anche nulla.Ma il peggio deve ancora arrivare: itunnel, le gallerie, i pozzi, la profonditàdei buchi, sono potenzialmente pericolosi:se capita un incidente si muore. In 20anni sono morte 18 persone, ma il numeroè aumentato negli ultimi sei mesi: da di-cembre dello scorso anno ad oggi sonomorte tre persone. Adesso i minatorichiedono al governo di Saad Eddineun’alternativa economica. Cercano altre

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L’INCHIESTA

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di Jerada, ma che i due sono stati fermatiper aver ostacolato il traffico in città.Ma è chiaro che il tentativo è quello diarginare la ribellione per evitare che sicrei un altro polo anti-governativo comequello del Rif. Allo stesso tempo il recontinua a promettere la riforma di «unmodello economico ormai obsoleto»,come lui stesso l’ha definito. Assicurache il Marocco ha bisogno di uno sviluppointegrato e che i giovani sono il verocapitale del Paese. Sta di fatto che ilnumero dei giovani disoccupati invececontinua a crescere. E che il modello disviluppo promosso di Mohammed ripetelo schema fallimentare delle grandiopere: molto fumo e poco arrosto. Comel’ultima perla in cantiere: Marchica.L’Economist ne parla come del «primodi sette eco-resort progettati per lacosta del Nord e fa parte di un pro-gramma decennale per sviluppare il tu-rismo».In effetti Mohammed punta tutto sulturismo: ma bastano le mega-infrastrut-ture e le città extralusso finanziate daicinesi per poter dire che promuoverànuova occupazione reale, creando puntipercentuali di Pil? E siamo sicuri che ilpopolo non chieda anche altro? Nel Rifla gente vuole ospedali, case e servizi. Ilsindacalista Abdessamad Habbachi hareso noto che «le misure proposte dalgoverno hanno dei lati positivi ma restanoglobalmente insoddisfacenti». E così ilgap tra grandi città ed entroterra siallarga e il Marocco continua a spaccarsiin due. Le crepe del muro di Mohammedsono talmente evidenti che non può piùnasconderlo agli occhi del mondo: imedia francofoni registrano ogni movi-mento, ogni sussulto delle proteste dalbasso. La disoccupazione e la povertàgenerano nuove ondate di migrazione:quelle verso l’Europa, alla ricerca di unsogno e di una vita migliore, alla ricercadi un’America da cartolina che dall’altraparte del Mediterraneo in realtà non c’èmai stata.

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N el momento in cui questa rivista va in stampa,forse “nonna Irma” (che abbiamo imparato a

conoscere a fine febbraio scorso, quando la suafoto all’aeroporto di Venezia, in partenza per unamissione in Kenya, ha fatto il giro del web) sarà giàrientrata a casa.A 93 anni l’anziana signora di Noventa Vicentinaha deciso di andare a conoscere i bambini dell’or-fanotrofio africano che sostiene da anni e si è fattaaccompagnare dalla figlia, per un viaggio di tresettimane. La notizia è stata diffusa dalla nipote,Elisa Coltro, tramite un post su Facebook diventatovirale.I dettagli del fatto – che non poteva che divenireoggetto della nostra rubrica Goodnews – sononoti. Ciò che non è stato descritto con quelladovizia di particolari che a prima vista ci è sembrataindispensabile (tanto da andarne alla ricerca, perscoprirne di più) è il nome della missione, latipologia dei missionari (diocesani o congregazio-nali?), la provenienza ecclesiale di Francesca Fontanae Giannino Dal Santo, i «volontari da dieci anni inKenya – scrive la nipote su un altro post - che nel2008 hanno conosciuto, “adottato” e amato la mianonnina e che ora sono con lei».La curiosità di capirne di più ci ha fatto iniziare unapiccola ricerca: i tanti media che hanno rilanciatola notizia parlano di «missionari vicentini» ma dalladiocesi di Vicenza sappiamo che in Kenya nonsono presenti fidei donum provenienti dalla cittàveneta. Mentre la ricerca per identificare di qualemissione si trattasse procedeva tra verifiche e in-terviste, la domanda ci è sorta spontanea: «Macosa importa? C’è proprio bisogno di trovare la“targa” di questa missione? L’appartenenza a questao quella diocesi o congregazione fa la differenza?».La risposta è arrivata da Irma, con il suo esempio:questi dettagli non sono niente di fronte al suogesto esplosivo di andare a vedere con i propriocchi e a toccare con le proprie mani i bambiniafricani che da anni porta nel cuore. Chiunquesiano i missionari protagonisti di questa vicenda,qualunque sia la loro provenienza o appartenenzaecclesiale, non lo vogliamo più sapere: ciò checonta è che fedeli cattolici di buona volontà, laici esacerdoti insieme, di ogni età, stanno seminandodignità e amore dove ce n’è bisogno. E questo cibasta. Grazie, “nonna Irma”: ci hai insegnato l’es-senziale!

di Chiara Pellicci

LA LEZIONE DINONNA IRMA

OSSERVATORIO

GOODNEWS

Sacche di povertà nelle periferie del Marocco

L’“Hirak di Jerada”, ilmovimento di protestapopolare sorto nella zonadelle miniere clandestine,sfila per le vie della città.

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che non era la dialettica classica del buono contro il cattivoquella che ci avrebbe consentito di capire.Abituati a ragionare in termini di buono contro cattivo, quindiamico e nemico, non abbiamo capito il conflitto siriano daquando è finita la fase lineare, lo scontro tra la feroce repressioneoperata dal regime e le manifestazioni di piazza, pacifiche,pluraliste e non violente, che si ostinavano a chiedere libertà edignità. Da allora non abbiamo più potuto capire perché dal 2012quel conflitto ha seguito la logica del deserto, a noi sconosciuta,

L’idea disgustosa dei nuovi attacchi chimici ha accompagnatola Siria nel suo ottavo anno di conflitto. Impossibile pensare

alla Pasqua siriana se non come Pasqua nell’inferno di un conflittoche non abbiamo capito. Chi già all’inizio ha provato ad aprirci gliocchi sulla natura di questa devastante carneficina è stato ungrande italiano, padre Paolo Dall’Oglio, avvertendoci per tempo

S C A T T I D A L M O N D O

Un paradigma capovolto

A cura di EMANUELA [email protected]

Testo di RICCARDO CRISTIANOspecchiere@gmail com

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SCANDALO SIRIA

per la quale chi non sa cavalcare due cavalli è destinato a perire.Ecco allora che il grande equivoco, regime contro terroristidell’Isis, ci ha portato sulla strada scelta dal regime, l’unicacapace di salvarlo. Questa logica è di casa in Siria dal 1970, daquando gli Assad sono al potere. Il capovolgimento della realtà èora la strategia di una propaganda che in assenza di testimoniarriva ad attribuire ai “caschi bianchi”, il corpo di volontari chesoccorrono la popolazione civile sotto le macerie dei bombardamenti,la paternità e responsabilità di quelle distruzioni.

Ma quella del capovolgimento della realtà nella sua rappresentazioneè la storia moderna della Siria. Un regime costruito anche conl’ausilio del gerarca nazista Alois Brunner, ospitato fino alla finedei suoi giorni, è stato presentato come “socialista”, un regimecostruito su base clanica e settaria è stato presentato come“laico”, un regime basato sull’esproprio delle ricchezze nazionali,tanto che la rendita petrolifera non figura nel bilancio ufficialedello Stato e un parente del presidente, Rami Makhlouf, è piùricco del famosissimo principe-magnate saudita, Walid bin Talal,è stato presentato come anti-capitalista. Solo così si può capirecome mai la storia del conflitto, radicalmente cambiata dopo l’in-gresso sul teatro siro-iracheno del mostro Isis, non possa essereletta come vorrebbe il regime, cioè in uno scontro tra il regime el’Isis, ma in un modo molto più complesso, e in questa complessitàalle origine dell’Isis non si può che scorgere la connivenza.Bisogna tornare al 2005 per trovare un bandolo di questaconnivenza che ha letteralmente salvato il regime, visto che primadella comparsa dell’Isis il destino del regime sembrava segnato.Ma già nel 2005, anno in cui il regime siriano avrebbe ordinato alpotente alleato libanese Hezbollah di eliminare l’ex premier libaneseRafiq Hariri per mantenere la colonizzazione del Libano e togliereai sunniti la loro leadership moderata, uno dei pilastri del regimevenne trasferito dal teatro libanese a quello iracheno. Si tratta diuna figura di spicco del complesso mondo degli apparati disicurezza siriani, Ali Mamlouk. In quel periodo questo esponentedella vecchia guardia fedelissima ad Assad padre fu incarico disoprassedere ai viaggi di molti “jihadisti” siriani verso l’Iraq, ov-viamente in funzione anti-americana e per evitare che gli statunitensidopo l’Iraq potessero prendere di mira la Siria. Impantanarli inIraq era fondamentale per il regime e i jihadisti erano l’armamigliore. L’invasione dell’Iraq era cominciata da due anni e leRatline predisposte dal regime siriano avrebbero facilitato l’afflussodi combattenti e jihadisti da tutto il mondo arabo-islamico.Mamlouk coordinava il reclutamento a partire dalle carceri siriane,aggiungendo che alcune stime indicano che in quegli anni ilgoverno siriano abbia inviato in Iraq a sostenere la “resistenza”irachena migliaia di jihadisti. Poi molti nuovi jihadisti hannoriempito di nuovo i lager siriani, ma quei centri di detenzione nelnuovo scenario post 2011 servivano per liberarsi dei giovani, de-mocratici e non violenti: meglio liberare i primi e sostituirli con isecondi. E così è stato, grazie alla strana amnistia, o decretosvuota carceri, del 2012. Di lì a non molto tempo cominciò unaguerra strana, quella tra Isis e regime siriano, una guerra chequasi mai ha visto i due nemici combattersi apertamente, comedimostra anche la storia della cooperazione diretta nella gestionedel principale campo petrolifero e di raffinazione del petrolio, finitoin territorio dell’Isis ma gestito da una società siriana registrata aMosca. E che in epoca Isis ha seguitato a lavorare sotto i nuovipadroni, pagandoli profumatamente.Ancor più strana è stata la conclusione di alcune battaglie, »

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come quella di Arsal, dove i jihadisti dell’Isis, dopo aver com-battuto con l’esercito libanese per anni, hanno trattato la resacon Hezbollah e sono stati da loro riaccompagnati, con i lorofamiliari, in confortevoli autobus, chissà dove. Altre battagliesi sono concluse con analoga, surreale cortesia verso glisconfitti.Ma tutto questo non ci ha consentito di capovolgere unracconto capovolto, quello della storia di un regime e di unconflitto che ha raso al suolo tantissime città, abbattute sulleteste dei loro abitanti, convincendoci che erano stati lorostessi a farlo, contro sé stessi.Tutto questo è accaduto in una terra cruciale per tutto il Medi-

terraneo, crocevia di popoli, storie, culture e tragedie: la Siria,cuore di quel levante nel quale tante pagine della civiltà delvivere insieme sono state scritte. A partire da questa terracruciale il regime siriano ha ricreato e capovolto anche ilracconto biblico dell’Esodo, della fuga dall’Egitto. Un interopopolo è stato questa volta costretto a fuggire, ma la storia ca-povolta dei motivi della sua fuga ha fatto della nuova TerraPromessa, l’Europa, una Terra Impaurita e ostile ai fuggiaschi,perché in Europa invece che loro abbiamo ascoltato lapropaganda del Faraone.Quanto ai cristiani di Siria, che chiamiamo cristiani d’Oriente,sappiamo che avevano una bella cittadina, Maalula, dove

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SCANDALO SIRIA

ancora si parla la lingua di Gesù, l’aramaico. Strano modo diparlare del cristianesimo siriano, visto che già nel secondosecolo la lettera a Diogneto, autentico tesoro di tutto il cristia-nesimo, dice: «I cristiani né per regione, né per voce, né percostumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, nonabitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, néconducono un genere di vita speciale. La loro dottrina non ènella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi ade-riscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri.Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato,e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nelresto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indub-

biamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma comeforestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono di-staccati come stranieri».Proprio di tutto questo ci aveva avvertito padre Paolo Dall’Oglio,spiegandoci: «L’uso per remot control del jihadismo qaedistada parte del regime siriano in Iraq e in Libano è noto edimostrato. Quando e quanto gli spezzoni takfiriti fondamentalistisiano sfuggiti al controllo del regime e si siano mossi sullabase di un’agenda del tutto autonoma non è dato di saperecon esattezza. Lo stesso si può dire delle organizzazionicriminali, soprattutto dedite al contrabbando, protette e promosseda questo o quel gerarca». Pasqua ci impone di riflettere.

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Ci sono voluti due anni di lavoroperché un gruppo di profughi sirianiassistiti dai volontari di OperazioneColomba, corpo nonviolento della

Comunità Papa Giovanni XXIII(Apg23), arrivasse alla stesuradefinitiva di una vera e propria

“Proposta di Pace per la Siria”. Ildocumento, assoluta novità nel

panorama internazionale, in circa10 mesi è stato promosso in varie

sedi istituzionali dai giovani diApg23 e rappresenta tutt’oggi il

tentativo di ridare dignità aiprofughi siriani, che rivendicano unruolo da protagonisti nelle decisioni

per il futuro del loro Paese.

La pacescritta daisirianiN ormalmente le proposte e gli accordi di pace sono appannaggio di di-

plomatici e capi delle nazioni, secondo criteri che tengono conto diinteressi specifici e si basano su dinamiche do ut des.Non è così per la più lunga e drammatica guerra dei nostri giorni, iniziatanel 2011 e ancora in corso – a dispetto di tregue e parziali vittorie – chesi combatte alle porte dell’Europa, in uno dei Paesi più strategici del Me-dio Oriente.Di fronte al fallimento della diplomazia internazionale - nonostante le riso-luzioni Onu, gli interventi diretti delle più grandi potenze mondiali e i vari con-sessi convocati dai diversi attori di questo infinito dramma del Terzo millen-nio - i profughi siriani hanno deciso di far sentire la loro voce. E così, aiu-tati dai volontari di Operazione Colomba, corpo nonviolento della Comuni-tà Papa Giovanni XXIII (Apg23), hanno redatto una vera e propria “Propo-sta di Pace per la Siria”: un modo per ritrovare il proprio futuro, perso in annidi fughe e privazioni, e un tentativo di rivendicare un ruolo centrale nella ri-soluzione di un conflitto interminabile. Ma anche, e soprattutto, un’occasio-ne per amplificare la voce inascoltata dei tanti civili che vogliono la fine del-la guerra, la ricostruzione di una Siria giusta e senza violenza, la possibili-tà di tornare a casa.

OPERAZIONE COLOMBA E I SUOI VOLONTARIIl progetto vede come protagonisti i profughi siriani, fuggiti dalle loro casee rifugiatisi nei campi di accoglienza in Libano, e come coadiutori i volon-tari di Operazione Colomba, corpo nonviolento della Comunità Papa Giovan-

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ni XXIII. L’Apg23 è un’associazione catto-lica internazionale, fondata nel 1968 da donOreste Benzi e da allora impegnata in variPaesi del mondo per contrastare emargi-nazione, ingiustizie e povertà. Tanti giova-ni volontari dell’associazione trascorronomesi della loro vita (a volte anche anni) inzone difficili del pianeta, vivendo stabilmen-

te con le comunità loca-li, 24 ore su 24: condivi-dono con loro le precariecondizioni quotidiane e ipericoli di chi abita inzone di conflitto. Propriocome accade da quattroanni in Libano nel cam-po profughi di Tel Abbas,a cinque chilometri dalconfine con la Siria.La loro è una presenzanonviolenta, neutrale, in-ternazionale: una garan-zia per i profughi stessi,più volte minacciati da al-cuni cittadini del luogo,

ma anche per i libanesi che, impauriti dal-la presenza dell’Isis nel territorio, vedonoin ogni siriano un potenziale terrorista. «Vi-vendo al campo – spiegano i volontari diOperazione Colomba - dimostriamo che iprofughi non rappresentano un pericolo».Inoltre lo sguardo di occhi occidentali èspesso un deterrente all’uso della violen-

za, da qualsiasi parte provenga.Nel campo profughi di Tel Abbas sono pre-senti circa 250 siriani (di cui la metà bam-bini) che vivono in una cinquantina di ten-de, cioè in baracche di 25 metri quadratia distanza di meno di un metro l’una dal-l’altra. Sebbene l’affitto sia più basso rispet-to a quello di una stanza o di un garage, pervivere al campo i profughi devono pagarel’uso della terra, anche per una semplicebaracca.I volontari internazionali, oltre a condivide-re la quotidianità con i profughi, assicura-no un sostegno nei bisogni più immedia-ti, un tramite con le realtà istituzionali e leong presenti sul territorio, occasioni di in-contro con la comunità libanese ospitan-te. Inoltre Operazione Colomba è partnerdi diversi enti religiosi e della società civi-le coinvolti nel progetto dei Corridoi Uma-nitari: la presenza sul campo, infatti, per-mette ai volontari di segnalare le personemaggiormente in difficoltà e di dare loro lapossibilità di arrivare in Europa in sicurez-za e legalità. »

Il campo profughi di Tel Abbas, Libano.

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LA PROPOSTA DI PACE DAL BASSOChi vive nei campi profughi racconta storiee drammi personali dei mesi interminabilipassati sotto le bombe. E tutti ripetono di es-sere fuggiti dalla guerra in Siria per non do-ver essere obbligati a combattere o essereuccisi. Tutti, cioè, pur di non imbracciare armie cedere alla violenza, hanno preferitoscappare. È anche per questo che i volon-tari di Operazione Colomba hanno fatto di tut-to per farsi portavoce delle richieste dei ri-fugiati, poi trasformate in una vera e propria“Proposta di Pace per la Siria” scritta diecimesi fa ma oggi più attuale che mai, da pro-muovere a livello internazionale, anche nel-le opportune sedi istituzionali come parla-menti nazionali, Nazioni Unite, Unione Eu-ropea. «È importante dare voce a chi, purdi non uccidere, è scappato, ha lasciato lasua casa, il suo lavoro, ha perso tutto. A li-vello internazionale – commenta un volon-tario - non possiamo continuare a dare ascol-to solo a chi uccide, a chi usa la violenza».Nel documento scritto dai siriani che vivo-no nel Nord del Libano si legge: «Nel nostroPaese ci sono centinaia di gruppi militari che,con la sola legittimità data loro dall’uso del-la violenza e dal potere di uccidere, ci han-no cacciato dalle nostre case. Veniamo an-

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cora uccisi, costretti a combattere, a vive-re nel terrore, a fuggire, veniamo umiliati eoffesi. Ai tavoli delle trattative siedono solocoloro che hanno interessi economici e po-litici sulla Siria. A noi, vere vittime della guer-ra e veri amanti della Siria, l’unico diritto cheè lasciato è quello di scegliere come mori-re in silenzio. Ma noi, nel rumore assordan-te delle armi, rivendichiamo il diritto di far sen-tire la nostra voce».La “Proposta di Pace per la Siria” entra poinello specifico con richieste concrete: chevengano create zone umanitarie, ovvero ter-ritori che scelgono la neutralità rispetto al con-flitto, sottoposti a protezione internaziona-le, in cui non abbiano accesso attori arma-ti; che si fermino immediatamente i bombar-damenti, che si blocchi il rifornimento di armie che le armi già presenti vengano elimina-te; che si ponga fine all’attuale assedio del-le città in modo che gli abitanti, senza ciboné medicine, siano assistiti immediata-mente e posti in sicurezza; che siano assi-stite le vittime e sostenuto chi le soccorre;che siano liberati i prigionieri politici, ricer-cati i rapiti e i dispersi; che siano soccorsie assistiti anche in futuro i feriti e i disabilidi guerra; che si combatta ogni forma di ter-rorismo ed estremismo, ma che questo

smetta di essere un massacro di civili inno-centi e disarmati, che oltretutto alimenta ilterrorismo stesso; che si raggiunga una so-luzione politica e che ai negoziati siano rap-presentati i civili che hanno rifiutato laguerra, e non coloro che hanno distrutto estanno distruggendo la Siria; che venga crea-to un governo di consenso nazionale cherappresenti tutti i siriani nelle loro diversitàe ne rispetti la dignità e i diritti.

SUBITO UNA ZONA UMANITARIAMentre la comunità internazionale registrale ennesime violenze nella zona di Gouthaorientale, i volontari di Operazione Colom-ba rilanciano con forza la prima delle richie-ste elencate nella “Proposta di Pace” dei si-riani ed entrano nello specifico. Chiedono,cioè, la creazione immediata di una zonaumanitaria su una specifica fascia di terra(che va a Nord da Qusayr a Yabroud, a Suddal confine libanese, a Ovest dal confine cheprecede le autostrade di Damasco e daHoms a Est), sotto protezione internaziona-le. Perché proprio quest’area? «Perché trail 60 e il 70% dei rifugiati siriani in Libano –spiegano i volontari di Operazione Colom-ba a Redattore Sociale, che ha rilanciato illoro appello - proviene proprio da lì e le loroterre ora sono disabitate. Ma i siriani non pos-sono tornare nelle loro terre, che sono sot-to l’autorità del regime di Damasco, perchéverrebbero di nuovo incarcerati o costrettia combattere. Questo ritorno è l’ultima so-luzione possibile perché possano ricrearsiuna vita accettabile e crescere i propri figliin un posto sicuro. La creazione di una zonasicura abitata da civili, in quest’area parti-colare, porterebbe al ristabilimento di rela-zioni sociali, commerciali e umanitarie tra iresidenti di tale area e la popolazione liba-nese abitante sul confine. Permetterebbe direstituire la fiducia e l’integrazione sociale cheintercorrevano tra le due popolazioni primadella rivoluzione siriana, risolvendo le osti-lità nate dopo le operazioni militari. Inoltre,la creazione di quest’area limiterebbe sen-sibilmente la migrazione dei siriani in Euro-pa e la loro fuga dalla Siria». Ci auguriamoche la comunità internazionale prenda sul se-rio l’appello degli eroi siriani che finora nonhanno avuto voce, perché pur di non diven-tare assassini, hanno deciso di abbandona-re il proprio Paese, perdendo tutto in cam-bio della loro integrità.

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CORRIDOI UMANITARI DALL’ETIOPIA

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SONO ARRIVATI DALL’ETIOPIA ALL’AEROPORTO DI FIUMICINO IL 27 FEBBRAIOSCORSO 113 PROFUGHI PROVENIENTI DA DIVERSI PAESI DEL CORNO D’AFRICA.SALVI GRAZIE AI CORRIDOI UMANITARI PROMOSSI DAL PROTOCOLLO D’INTESACON LO STATO ITALIANO DALLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA E LACOMUNITÀ DI SANT’EGIDIO. IN QUESTE PAGINE LA TESTIMONIANZA DI GIULIAPIGLIUCCI, UFFICIO STAMPA DI FOCSIV, CHE HA ACCOMPAGNATO I PROFUGHIDA UNA SPONDA ALL’ALTRA DEL MEDITERRANEO.

Con gli occhidegli altri

di Giulia Pigliucci - [email protected] Fagiolo D’Attilia - [email protected]

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S e le valigie potessero raccontare cosa sia con-tenuto al loro interno, ci direbbero che oltre gli

indumenti, le scarpe, lo spazzolino da denti, il cibodella propria terra, sono riposti i sogni e le speranzedel proprietario. In quelle in partenza lo scorsofine febbraio da Addis Abeba, in mano alle 113persone del corridoio umanitario organizzato daCaritas Italiana, Comunità di SantʼEgidio e GandhiCharity, il posto più importante era sicuramenteoccupato dal desiderio di costruire qualcosa di di-verso per sé e la propria famiglia. I partenti eranodonne, uomini, bambini e ragazzi in arrivo daicampi profughi presenti in Etiopia e nella capitale,Addis Abeba.Nel Paese oltre ai 102 milioni di etiopi, secondo idati pubblicati dallʼAlto Commissariato delle NazioniUnite per i Rifugiati (UNHCR) lo scorso ottobre, vi-vono 883mila rifugiati provenienti per la maggior

parte dalla guerra civile del Sud Sudan; a seguire,i rifugiati sono, in ordine di quantità, eritrei, somali,sudanesi e yemeniti. Per la maggior parte sono si-stemati in 26 campi presenti in sei regioni delPaese, seguiti dallʼAgenzia governativa per i rifugiati(ARRA).LʼEtiopia è la nazione dellʼAfrica subsahariana conil Pil che oscilla tra +6% e +8,7%, ben al di sopradei tassi medi registrati attualmente in questa areadel continente africano. Purtroppo cʼè anche unlivello di disoccupazione molto alto e una povertàche coinvolge il 30% della popolazione. Per 10milioni di persone, infatti, la fame è una costantequotidiana, spesso legata alle cicliche carestieche si susseguono in alcune regioni. Per altri versi,il dato demografico indica che il Paese è in crescitaesponenziale, tanto da far prevedere che entro il2050, si arriverà a circa 250 milioni di abitanti.

Addis Abeba, la Casa dei partentiper il Corridoio Umanitario.

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popolazioni maggioritarie delle regioni dellʼOromiae Amhara. Qui le forze governative, negli ultimidue anni, hanno ucciso 300 persone, reprimendole manifestazioni di piazza. Le proteste eranostate suscitate a causa di questioni socio-econo-miche e di contestazioni sui confini, ma soprattuttoper contrastare lʼegemonia economica e politicadel Paese gestita dalla minoranza tigrina.

Ondate di rifugiatiIl Paese è blindato, internet spesso è bloccato,nella capitale le derrate alimentari arrivano afatica mentre i prezzi salgono a dismisura, sicerca di dissuadere le persone a spostarsi dallacittà e i militari sono ovunque.Secondo lʼarcivescovo cattolico di Addis Abeba,Berhaneyesus Demerew Souraphiel, (nellʼintervistarilasciata a Patrizia Caiffa di Agensir), se si vuoleportare lʼEtiopia ad essere un unico Paesemoderno, capace di inserirsi come parte attivadel quadro internazionale, si deve affrontare laquestione della pacifica convivenza tra le diverseetnie. Le vere sfide, infatti, sono per prima cosacostruire la pace tra i diversi gruppi etnici, condizionenecessaria se si vogliono affrontare questioni fon-damentali come la disoccupazione giovanile, losviluppo delle piccole imprese, il commercio clan-destino di armi e di esseri umani.A queste difficoltà si aggiunge il numero in costanteaumento dei rifugiati, tra le 70 e le 100 per- »

Contraddizioni dʼEtiopiaAddis Abeba è una metro-poli di quasi tre milioni diabitanti, ma se si calcolalʼarea dellʼinterland e deglislum, dove sopravvivonogli sfollati interni e gli urbanrefugees, il computo arrivaintorno ai 10 milioni di per-sone. Indubbiamente, lacapitale è lʼemblema delletante contraddizioni chevive questo Paese: da unlato si vuole dare lʼimpres-sione di una metropoli mo-derna ed emergente, rea-lizzata in parte con i fondimade in China, con unametropolitana di ultima ge-nerazione costruita da po-chi anni, moderni palazzoniin cemento tirati su nellʼul-timo decennio (e tanti sche-letri di quelli ancora in co-struzione), strade soprae-levate per snellire il trafficocaotico; dallʼaltro apparedovunque la povertà vis-suta dai più, visibile anchenel centro cittadino, dovesono sistemate le tantebaracche di legno e lamie-ra. In queste abitazioni fa-tiscenti molti vivono e han-no botteghe in cui si com-

merciano qualche tessera telefonica, bibite, generialimentari. Contraddizioni di una città dove, mal-grado il divieto di fare elemosina, a terra nellapolvere ci sono tanti poveri postulanti, e dove,nonostante il governo abbia sistemato in alloggioltre 10mila bambini di strada, non è raro incontrareminori in cerca di cibo, soldi, colla da sniffare.Tuttavia, ci sono uomini come Yemane Wolde-marian Berhe, fondatore dellʼAssociazione El Sha-dai, “Dio è onnipotente”, che in 30 anni ne hatirati fuori dalla strada settemila che oggi lavorano,e 16 di loro solo nel 2017 si sono laureati.Da febbraio scorso lʼEtiopia è attraversata dauna grave crisi politica che ha portato alle dimissionidel primo ministro Hailemariam Desalegn, im-possibilitato a proseguire il programma di riformenecessarie per un assetto più democratico delPaese e a lavorare alla riappacificazione con le

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vita diversa da quella lasciata alle spalle.ARRA sta sviluppando un programma di integra-zione di questi uomini, donne e minori nel tessutosociale del Paese. Sta infatti procedendo a dareloro il permesso di trovare un lavoro dignitoso aldi fuori dei campi, a frequentare le scuole superiorie lʼuniversità, consentendo di spostarsi facilmentenel Paese senza complessi permessi e senzaperdere il sussidio mensile. Entro il 2020, dʼaccordo

sone al giorno, che dallʼEritrea e dal Sud Sudanattraversano il confine dei Paesi di origine, ri-schiando la propria vita dopo giorni di camminocon scarpe di plastica o di fortuna. Molti sono iminori non accompagnati terrorizzati sul futuroche li attende. Tutti vengono intercettati dai fun-zionari di ARRA che li portano nei centri di smi-stamento, per poi condurli dopo lʼidentificazione,ai campi dove potranno iniziare a pensare ad una

I corridoi umanitari costituiscono una best practice di straor-dinario valore che si aggiunge ad altri strumenti volti al mi-

glioramento della gestione dei flussi migratori come nel casodei programmi di resettlement implementati dalle NazioniUnite e condotti in accordo con quegli Stati che si rendono di-sponibili ad accogliere rifugiati sui propri territori. In questo

quadro, anche per rispondere alle tanti morti nel Mediterraneo,nel novembre 2017 è stato firmato un protocollo tra lo Statoitaliano e la Conferenza Episcopale Italiana (CEI) - che opera at-traverso Caritas Italiana e Fondazione Migrantes - e la Comunitàdi Sant’Egidio per il trasferimento dall’Etiopia di 500 persone indue anni. Si tratta soprattutto di Eritrei, Somali e Sudsudanesiche vivono nei campi profughi del Paese africano.Ma come funzionano e quali prospettive di ampliamentopossono avere i corridoi umanitari? Ne abbiamo parlato conOliviero Forti, responsabile dell’Ufficio Politiche Migratorie eProtezione Internazionale di Caritas italiana, di ritorno da unviaggio nei campi etiopi, che spiega: «L’obiettivo è quello dipromuovere l’apertura di canali legali e sicuri di ingresso, apartire dalle esperienze internazionali già consolidate di reset-tlement, di corridoi ed evacuazioni umanitarie. Di fronte allamole di persone in difficoltà, di queste tre piste di intervento,certamente la più importante in termini di numeri è quella delresettlement poiché dispone di risorse significative e di un im-portante apparato organizzativo gestito dalle Nazioni Unite. Icorridoi umanitari, invece, essendo un’iniziativa del privatosociale possono riguardare numeri più limitati di beneficiari ma

Attraverso i corridoicambia la vita

CHI PARTE E CHI ACCOGLIE

IN QUESTA INTERVISTA OLIVIERO FORTI, RESPONSABILEUFFICIO IMMIGRAZIONE DI CARITAS ITALIANA, SPIEGACOME FUNZIONA IL PROGRAMMA DEI CORRIDOI UMA-NITARI E IN QUALI PROSPETTIVE SI PUÒ LAVORARE PERAFFRONTARE LE POLITICHE MIGRATORIE.

di Miela Fagiolo D’[email protected]

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zione di tanti uomini e donne in cerca di un futuropossibile.

Corridoio umanitarioUn progetto ambizioso che passa anche attraversoil corridoio umanitario con lʼItalia, reso possibiledallʼaccordo siglato nel 2017, tra il governo italiano,la Conferenza episcopale italiana, finanziatricedellʼintero programma con i fondi dellʼ

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con il governo, si prevede di smantellare i campiprofughi del Paese per un programma di integra-zione effettivo.Con la firma dellʼaccordo, la Repubblica FederaleDemocratica dʼEtiopia mostra una presa di posi-zione in controtendenza rispetto ad altri Paesi,favorendo un modello di risposta ai flussi migratoriin grado di contrastare il traffico di esseri umani,assumendosi lʼonere dellʼospitalità e dellʼintegra-

non per questo la qualità dell’intervento è minore».Trovare la porta aperta di una via legale e sicura d’ingresso èper un rifugiato la migliore delle soluzioni possibili all’odisseadi una migrazione spesso fatta di tante tappe e di pericolosi in-cidenti: dal rischio di cadere nelle mani dei trafficanti di esseriumani, dalle violenze e le estorsioni in campi che sono prigioni,fino a perdere la vita lungo la traversata in mare. «Per chi ècostretto a lasciare la propria terra – dice Forti - la speranza èche un Paese anche molto distante (come, ad esempio, fannoda tempo Usa e Australia) sia disposto all’accoglienza, checomincia dalle garanzie del viaggio sicuro. E’ una prassi che daanni viene portata avanti dalle Nazioni Unite, in accordo con igoverni, attraverso l’Alto Commissariato per i rifugiati (UNHCR).L’esperienza italiana dei corridoi umanitari ha una formulanuova: l’attività che viene svolta è la stessa del resettlement maè totalmente autofinanziata, è l’organizzazione promotrice chepaga tutto il programma, dal viaggio fino all’accoglienza inItalia; non c’è un intervento diretto da parte delle NazioniUnite, né da parte di altre istituzioni. Come previsto dalprotocollo firmato con il governo italiano, quindi, tutta l’orga-nizzazione e i costi del corridoio umanitario sono in capo ai

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promotori e in questo caso alla CEI. Tra gli aspetti su cui ilGoverno ha chiesto la massima attenzione ai promotori delcorridoio ci sono i movimenti secondari per cui si chiede espli-citamente di evitare che i beneficiari che entrano in Italia poilascino il nostro Paese per andare altrove. L’ingresso in Italia,infatti, avviene attraverso l’articolo 25 del Codice visti, cheprevede il rilascio di visti a territorialità limitata, validi solo per il

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Paese in cui vengono emessi e non per altri. In sostanza, vale ilcriterio per cui ogni Paese fa delle scelte che poi si deve giocarenel proprio territorio».La CEI si è impegnata per i corridoi umanitari dall’Etiopiaattraverso il sostegno operativo di Caritas Italiana che si occupa«della selezione in loco; poi, una volta arrivati in Italia, ciattiviamo per garantire a tutti l’accoglienza secondo il modello“Protetto. Rifugiato a casa mia” (vedi Popoli e Missione digennaio 2017, ndr)», spiega ancora Forti. Ma parlando dipolitiche migratorie a livello nazionale e internazionale la praticadei corridoi umanitari «potrà diventare un sistema solo nel mo-mento in cui vedrà le istituzione essere parte attiva del processoattraverso adeguati fondi necessari per la cogestione di questiprogrammi, sulla falsa riga della private sponsorship sperimentatain Canada e in Gran Bretagna. Diversamente, il rischio è quellodi innescare un processo di deresponsabilizzazione. Solo in

questo modo potremo garantire la tenuta di quel meccanismodi sussidiarietà su cui stiamo costruendo un sistema di accoglienzanel quale il rapporto Stato – Terzo settore è strategico. Ad ognimodo uno dei punti di forza dei corridoi umanitari non è tantoe solo quello di dare accoglienza ma di aumentarne la qualitàattraverso il coinvolgimento delle comunità locali che si stannomisurando con una sfida che riguarda tutti. L’obiettivo di questoprogramma è quello di sensibilizzare le coscienze». Parlando dicultura dell’accoglienza e di solidarietà, bisogna ricordare lacampagna CEI “Liberi di partire, liberi di restare” che vede im-pegnati gli organismi pastorali Caritas, Missio e Migrantes. «Unmodo serio per affrontare il tema dell’immigrazione è anchequello di prevedere investimenti nei Paesi di partenza e ditransito, evitando di continuare con palliativi episodici. Ma so-prattutto formando l’opinione pubblica ad un concetto piùampio di solidarietà».

Rifugiati nel campo di Mai Aini,nella regione del Tigray.

“8x1000”, e la Comunità di SantʼEgidio, una col-laborazione grazie a cui sarà possibile portarecomplessivamente entro il 2018, nel nostro Paese500 rifugiati provenienti da Eritrea, Sud Sudan eSomalia. A questo programma partecipano e col-laborano lʼAmbasciata italiana di Addis Abeba,UHNCR ed altri enti, organismi di volontariato econgregazioni religiose etiopi.Protagonista della realizzazione in Etiopia diquesto corridoio è lʼassociazione Gandhi Charitypresieduta da Alganesc Fessaha. Una donnaeritrea da 40 anni in Italia, da 18 anni impegnatanel salvare la vita e nellʼaccompagnare in Etiopiai tanti eritrei, e non solo. Ne ha salvati più di10mila bloccati nelle carceri egiziane, nel desertodel Sinai, nei centri di detenzione libici, o cadutinelle mani dei trafficanti di uomini.Nel campo di Mai Aini, a più di unʼora dallacittadina di Shire nella regione del Tigray, sioccupa delle condizioni di vita dei rifugiati, si pre-

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occupa dei diabetici, di 850 bambini con unʼetàcompresa tra i due e i cinque anni, ai qualiassicura tutti i giorni a mezzogiorno un pastonutriente. Ha organizzato anche dei corsi di for-mazione di sartoria e di estetista e ha sistemato50 donne vulnerabili in altrettante case protette.Gli anziani, consapevoli di non poter più sperarein una vita fuori e lontana dal campo, le sonoprofondamente grati e riconoscenti dellʼattenzionetanto da chiamarla «la figlia di un leone e di unaleonessa». Anche allʼesterno del campo nellapiccola cittadina di Shire, Alganesc è aiutata daunʼamica eritrea sposata ad un etiope. Pressodi lei in più di unʼoccasione sono passati eaccolti i più fragili, quelli che ritornavano allavita dopo aver conosciuto lʼinferno della malvagitàdi uomini senza anima.

I rifugiati dei campi e di cittàA Gambela, la cittadina al confine con il Sud Su-dan, i campi sono occupati per la maggior partedai Nuer fuggiti dalla guerra civile contro i Dinka.Hanno camminato per settimane, molti sonomorti durante questo esodo, altri si sono perduti,oppure nella fuga hanno preso altre direzioni.Non è raro il caso in cui alcuni, soprattuttominori, siano oggi in Uganda o Kenya mentre laloro famiglia è sistemata nel Sud dellʼEtiopia.Dopo anni di guerra e stragi, la gente, ospite diquesti campi, è nervosa, facilmente suscettibile,e non sono rari gli episodi violenti. Tutti sonostanchi di dover stringere la cintura per il pococibo, 13 chili di grano e 10 di riso per nucleo fa-miliare: si mangia solo dal lunedì al venerdì, »

Il campo profughi di Gambela, cittadinaetiopica al confine con il Sud Sudan.Il campo profughi di Gambela, cittadinaetiopica al confine con il Sud Sudan.

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gli altri due giorni si racimola qualche foglia,radice o poco altro e per i più piccoli la malnutrizioneè una patologia endemica.Ad Addis Abeba i rifugiati urbani si confondonotra i tanti poveri, molti sono giovani desiderosi diun futuro diverso dal dover aspettare che il tempotrascorra, senza poter costruire un domani. Alcunifrequentano il convento di clausura di SantaChiara, gestito da due suore Clarisse cappuccine:qui alcuni giovani eritrei, presenti nella capitale,condividono con loro il pane, il tè e la preghiera.Suor Akberet, eritrea da 26 anni in Etiopia dopola fuga dalla guerra tra Etiopia ed Eritrea, racco-manda a questi giovani - pur comprendendoneprofondamente le ragioni - di non partire, di ricor-darsi dei rischi di questo lungo viaggio. È stancadi dover piangere con le madri le morti nel deserto,nelle acque del Mediterraneo in balìa dei com-mercianti di uomini. Akberet ancora si struggeper due suoi nipoti scomparsi da anni durantequesto esodo della speranza.

Giulia Pigliucci

Il domani è realeU na grande casa provvisoria, in affitto ad Addis Abeba, prima di

cambiare vita. Una casa vera dopo anni trascorsi in sistemazioni difortuna o in una baracca oppure in una piccola stanza di mattoniall’interno del campo rifugiati. Questa casa è l’ultima tappa di unviaggio partito troppi anni addietro. Ma qui ci sono certezze: cibo,sicurezza, acqua, ma soprattutto la consapevolezza che ci si lasceràdietro le spalle tutto questo. Lontano da qui, lontano dall’Africa.Vivono su due piani in 62, di cui 20 bambini, parte dei 113 in partenzaper Roma per poi essere accolti e seguiti, come fossero in famiglia, da18 Caritas diocesane in alcune regioni italiane che hanno aderito alprogetto “Protetto. Rifugiato a casa mia”.Sono arrivati circa un mese fa dal Nord e dal Sud dell’Etiopia, affrontandoun non semplice viaggio in pullman che ha attraversato mezzo Paese,in un momento di gravi tensioni sociali per l’Etiopia. Nella capitalehanno svolto ulteriori colloqui, oltre ai due iniziali necessari dopo laloro segnalazione da parte di UNHCR ed alcune organizzazioni ed enti,anche religiosi, presenti nel Paese etiopico. Hanno seguito una serie diprocedure burocratiche che permettessero loro di uscire dall’Etiopia,un visto a territorialità limitata secondo l’articolo 25 del Codice diSchengen, insieme a molte visite sanitarie. Qualcuno ha rischiato dinon partire a causa di una cicatrice lasciata da una pallottola, scambiataper una grave patologia.Hanno tutti firmato un patto di rimanere in Italia almeno un anno, seusciranno dai confini perderanno la protezione umanitaria di cuigodono diventando illegali a tutti gli effetti. Durante questi mesidovranno integrarsi: dovranno imparare l’italiano, i minori dovrannoandare a scuola e riceveranno cure sanitarie gratuite. Non è statopromesso loro un lavoro, difficile da trovare anche per gli italiani, ma èd’obbligo rendersi autonomi e crearsi una nuova vita. Sanno che inItalia ci sono delle persone che li aspettano, molti di questi hannomandato loro le fotografie ed i video nei quali si presentano eraccontano la casa, il Comune dove abiteranno.Ognuno di loro ha dietro le spalle anni difficili trascorsi senza undomani, storie di paura, di fughe, di guerre, di violenze, di detenzioni,di torture e di sogni infranti. All’aeroporto sono tutti vestiti con gli abitibuoni della festa, li aspettano per salutarli i parenti, gli amici ed i vicinidi casa, tutti consapevoli che questa potrebbe essere l’ultima volta chepossono abbracciarsi. A bordo dell’aereo sono tutti insieme, molti sonoemozionati e quasi tutti impauriti quando il veicolo si stacca da terra.Qualcuno cerca di capire dal finestrino dove si sia, forse non può nonpensare che laggiù nel deserto, che si sta sorvolando comodamente abordo dell’aereo, ci sono molti uomini, donne e minori che stanno cer-cando di trovare il modo di arrivare in Europa.L’arrivo in una Roma ancora imbiancata della neve caduta il giornoprima, la sistemazione in un hangar per i controlli con la Poliziascientifica, i palloncini colorati e la scoperta per alcuni bambini dellebolle di sapone, fanno trascorrere le prime sei ore italiane.I bambini dicono “W l’Italia”, entrando come un fiume nello spazioadibito per la conferenza stampa con il Segretario della CEI, monsignorNunzio Galantino, il viceministro Mario Giro, il presidente della Comunitàdi Sant’Egidio Marco Impagliazzo e Alganesc Fessaha presidente diGandhi Charity.Poi finalmente l’incontro e l’abbraccio di chi li attende per accompagnarliverso la nuova casa. G.P.

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Q uello che noi intendiamo co-munemente col termine missioneha oggi diversi volti. E il carisma

delle Pontificie Opere Missionarie POMva oggi riletto alla luce delle trasformazionistoriche, sociali e geopolitiche che hannocambiato il volto del mondo. Ma non ilrespiro della Chiesa universale, chiamataall’evangelizzazione a 360 gradi. Ce neparla monsignor Giampietro Dal Toso,arcivescovo titolare di Foraziana, recen-temente nominato Segretario aggiuntodella Congregazione per l’evangelizzazionedei popoli e presidente delle POM. Lo in-contriamo nella sede della Congregazionein piazza di Spagna per una intervistache ci ha rilasciato per i lettori di Popolie Missione.

Monsignor Dal Toso, come possiamoorientarci guardando oggi alla bussoladella missione?«Oggi la missione ha una pluralità diaspetti. Ha quello classico della missioad gentes che permane in tutta la suavalidità, perché ci sono almeno cinquemiliardi di persone che ancora non co-noscono il Vangelo. Ci sono poi nuovesituazioni che richiedono una presenzamissionaria, come ad esempio sulla fron-tiera delle migrazioni. C’è la missione perle generazioni più giovani, per alcunedelle quali Gesù è una persona quasisconosciuta. Comunque l’azione dellaChiesa in ogni dove è per sua naturamissionaria, o forse più propriamente,evangelizzatrice. C’è quindi una pluralitàdi significati del termine missione cheindica innanzitutto che siamo chiamatia svolgerla con discernimento perchéogni situazione ha bisogno di essere va-lutata, e infine che dobbiamo attrezzarciai diversi tipi di missione».

Alla fine è sempre vero il fatto che cre-diamo di sapere cos’è la missione ma itempi ci impongono letture diverse »

Intervista a monsignor Dal Toso, presidente delle POM

In questa intervista monsignor Giampietro DalToso, arcivescovo titolare di Foraziana, Segretarioaggiunto della Congregazione perl’evangelizzazione dei popoli e Presidente dellePOM, affronta i temi più attuali della missione dellaChiesa universale nei confronti di tutti gli uomini acui portare l’annuncio della buona novella.

di MIELA FAGIOLOD’ATTILIA

[email protected]

Missione, la storia si rinnova

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«Penso ci siano ragioni sia intra ecclesialiche extra ecclesiali. Vorrei soffermarmisulle prime dicendo con Giovanni PaoloII che la crisi della missione è in realtàuna crisi della fede: nella misura in cuinoi cristiani non abbiamo sentito l’urgenzadella fede, abbiamo anche perso la vogliadi comunicarla. Papa Francesco invece cidice: “Guardate che la fede è una cosacosì importante che dovete farvene mes-saggeri anche fuori”. E non dimentichiamomai che la fede si rafforza donandola,com’è detto nella Redemptoris Missio».

Tanti religiosi, religiose, laici vivono infrontiera accanto a popoli provati dapovertà, guerre, calamità, condividendosofferenze e speranze della gente. Unascelta di vita radicale, certo non facile.Forse è anche per questo che si registraun calo delle vocazioni missionarie?«Il missionario è fondamentale perchédà un esempio di vita che vale più dimille parole. Anche se il modello classicodel missionario sta venendo meno nelleChiese di antica cristianità, abbiamomolte vocazioni che vengono dalle giovaniChiese che, non dimentichiamolo, si aiu-tano anche l’una con l’altra. È arrivato ilmomento di aprire gli occhi sulle nuove

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MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

e nuove. Portare il Vangelo a chi nonconosce Gesù Cristo: come farsi capire?È anche un problema di linguaggi?«Siamo tutti missionari in virtù del bat-tesimo, questa è una consapevolezza checi unisce. Quando un cristiano si scopremissionario, inventa la sua forma percomunicare quello che ha dentro. Mipiace molto vedere quante forme dievangelizzazione si sono sviluppate inquesti ultimi 10 anni attraverso i media,internet soprattutto. Questo vuol direche quando c’è una sensibilità missionariapoi le forme per comunicarla si trovano.Sono molto grato a papa Francescoperché con l’Evangelii Gaudium ci ha ri-portato all’essenza di una Chiesa missio-naria, in uscita, che in qualche modonon si accontenta di se stessa. In que-st’ottica missionaria, papa Francesco siinscrive in una lunga tradizione: bastipensare al decreto conciliare Ad gentes,a Paolo VI con l’Evangelii Nuntiandi, allaRedemptoris Missio di san Giovanni PaoloII, alla attenzione missionaria di BenedettoXVI che ha fatto importanti discorsi sultema nei suoi viaggi in Africa».

Quali sono le ragioni alla radice delcalo di attenzione missionaria?

forme di missione che esistono già. Peresempio anche di missioni laicali, conlaici e laiche che si mettono al serviziodel Vangelo ma anche coppie, famiglieche partono e tornano con figli nati inmissione».

Quindi più che di un calo di tensionemissionaria dovremmo parlare di uncambiamento a cui non riusciamo ancoraa dare definizione?«Comunque dobbiamo tener conto deinumeri: siamo passati da 24mila missionariitaliani del 1990 a meno di 10mila dioggi. Si tratta di fenomeni complessi. Afronte dei numeri in discesa, ci sononuove forme di missione che stannoemergendo di cui dobbiamo tenere conto.Guardando all’aumento delle vocazionidal Sud del mondo, dobbiamo averemolta gratitudine per le tante generazionidi operai del Vangelo che, in epoche pas-sate, hanno affrontato sacrifici e sforziper fare dei miracoli che oggi sono sottoi nostri occhi. Nel periodo in cui ero Se-gretario del Pontifico Consiglio “CorUnum”, sono stato in Senegal, pressol’abbazia benedettina fondata dai fratifrancesi intorno agli anni Trenta del secoloscorso. Vicino alla chiesa ho visto le tombedei missionari ed erano tutti giovani mortiintorno ai 30 anni. Vuol dire che partivanoda casa sapendo che avrebbero dato fisi-camente la vita. Ci sono pagine di storiadella Chiesa che non dobbiamo dimenti-care. Se oggi vediamo Chiese africane,asiatiche, latinoamericane in alcuni casi,che stanno rinvigorendo, crescendo sempredi più, dobbiamo dire grazie a questimissionari e missionarie che partivanoinnamorati della missione una volta perla vita e non tornavano più. Il lorosacrificio ci insegna che nessuna faticadavanti a Dio è persa».

Dove vede oggi questi uomini e donneche coraggiosamente testimoniano ilVangelo, magari nel silenzio o dove a

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dell’importanza della missione; dall’altra,come espressione di questa attenzione,convogliare il sostegno anche economicoalla missione. Non si tratta di un fun-draising fine a se stesso ma dell’espressionedell’attenzione alla missione che com-prende anche l’offerta come segno con-creto di qualcosa di più grande. L’intuizionedella Jaricot vale molto anche oggi e lePOM a questo vogliono rispondere. Speroanche che nel mio incarico mi sia possibilealimentare questa doppia finalità dellePOM: le Opere non sono solo una que-stione dei territori di missione ma sonoespressione della Chiesa universale e dun-que di tutte le Chiese, perché tutte leChiese hanno bisogno di sviluppare laconsapevolezza missionaria e di contri-buire, anche nel piccolo, con la loro of-ferta».

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Il Palazzo diPropaganda Fide,

sede dellaCongregazione perl’evangelizzazionedei popoli e dellePontificie Opere

Missionarie.

volte non possono nemmeno indossarel’abito religioso?«Ci sono missionari che vivono in situazioniestreme, in condizioni così delicate chenon si possono nemmeno menzionare.Però ci sono, e in loro è incarnata la di-sponibilità a dare la vita. Certo si trattadi vocazioni speciali che non possonoessere di tutti. Al di là delle situazionispecifiche, quello che ci deve dare speranzaè che nonostante tutto, ci sono personedisposte a mollare tutto per essere mis-sionari e dare una testimonianza fortedi amore di Dio ai loro fratelli. Non dob-biamo pensare che la grazia di Dio nonoperi su di noi e per questo c’è genteche risponde».

Guardando ai carismi dei fondatori ealle attuali emergenze storiche e geo-politiche, come è possibile attualizzarei carismi delle quattro Opere? Non

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Intervista a monsignor Dal Toso, presidente delle POM

pensa che per l’impostazione che ab-biamo dato alla missione, più che l’at-tenzione ai numeri valga la qualitàdella fede?«Il grande carisma delle Pontificie OpereMissionarie nasce con le figure dei fon-datori. Con una intuizione semplice emoderna, Paolina Jaricot ha cominciatonel 1817 a riunirsi con altre persone perpregare per il fratello missionario in Cina.La pratica si è diffusa di casa in casa,con la stessa intenzione per tutti i mis-sionari e con la consapevolezza che oltrealla preghiera c’era anche necessità didare loro supporto materiale. È nata cosìl’Opera della Propagazione della Fedenel 1822 ma ancora oggi le POM hannomantenuto il grande compito iniziale:da una parte stimolare la comunità cri-stiana alla preghiera, alla consapevolezza

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MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

cuno che mi stava ascoltando sul serio,interessato a ciò che gli dicevo, sebbenefosse la prima volta che ci incontravamo.Percepivo un'attenzione non di circo-stanza legata al suo ruolo o alla suafama, già allora di rilievo. Così purenotai i suoi simboli episcopali: il crocifissopettorale in legno d'ulivo legato ad

S in dal primo incontro con donTonino nel palazzo vescovile diMolfetta, una mattina di sole del

lontano settembre 1988, ebbi la nettasensazione di trovarmi davanti a qual-

una semplice corda gialla e l'anello nu-ziale di sua mamma leggermente mo-dificato. Uno stile essenziale, coltivatoben prima della sua nomina a vescovodi Molfetta il 30 ottobre 1982, pressochéinedito nel panorama ecclesiastico ita-liano di quegli anni, e non solo. Lascelta di questi umili segni, con la loropotenza evocativa, aveva fatto breccianei cuori di molti cosiddetti “lontani”,come nel caso dell'allora presidentedella Repubblica, Sandro Pertini. Il pre-sidente, ricevendo quello strano vescovoal Quirinale, rimase così colpito dal suocrocifisso pettorale che a un certopunto del colloquio, don Tonino glielolasciò in dono. Un modo singolarissimo

di ANTONIO [email protected]

Dai segniDai segnidel potere alpotere dei segni

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Ma quando era a casa veniva a pranzocon noi, suoi ospiti residenti nell'epi-scopio: alcuni ragazzi seminaristi, i duesacerdoti loro formatori ed io. Mangia-vamo ad un unico tavolo con lui alcentro. L'occasione del pasto era sempreun bel momento di condivisione in cuidon Tonino scambiava con noi esperienzee riflessioni, ci informava di iniziative acui aveva partecipato o doveva parte-cipare, oppure si ispirava alle nostrechiacchierate per qualche suo discorsoo scritto.

LA PARTITA IN CORTILEMa non mancavano momenti in cuidon Tonino manifestava grande amarezzasu fatti incresciosi, specie se provocatida persone di Chiesa. Un giorno miguardò con quel suo volto espressivo esi lasciò andare ad espressioni dialettalisalentine, visto che eravamo conterranei.Veniva criticato da politici per il suopacifismo, ad esempio contrario al-l'espansione militare americana in Puglia;ma anche da uomini di Chiesa perchénon accettava facili tornaconti e difesecorporativiste, come quando fu “rim-proverato” da alcuni alti papaveri perchési era permesso di rinunciare ad unacospicua eredità donata alla diocesi, inquanto i familiari del defunto avevanointenzione di fare causa alla curia. Elui, memore delle parole di Gesù, avevarinunciato in favore dei parenti del do-natore, perché convinto che la diocesinon poteva e non doveva fronteggiareuna guerra legale per accaparrarsi l'ere-dità, seppure legittimamente donata.Suo parametro di confronto e giudizioera sempre il Vangelo, non seguiva altrelogiche, fossero pure “a fin di bene”.A fine pranzo dal refettorio raggiunge-vamo tutti insieme il lungo corridoioche costeggiava un atrio interno. Eral'occasione per i seminaristi di coinvol-gere il vescovo in qualche tiro al pallone,e lui acconsentiva volentieri e con alle-gria, e con agilità ed eleganza si

clericale” esteriore e fine a se stessa,ma perché la percepiva lontana dalpensiero di Gesù.

SEMPLICEMENTE DON TONINONel salutarlo quella mattina di settembregli dissi: «Buon giorno, eccellenza», chelui corresse in: «Semplicemente donTonino». Ero andato a chiedergli se po-teva ospitarmi per qualche tempo, es-sendo allora io un “giovane in discer-nimento vocazionale”, visto che ero inricerca della mia strada. E lui senzatroppe parole, mi disse che sarei statoil benvenuto e che potevo trasferirminel palazzo vescovile quando volevo.Finito il colloquio prese giacca e agendae scendemmo le scale del palazzo, con-tinuando a scambiare qualche battuta.Usciti dal portone, ci avviammo versoalcune auto parcheggiate davanti almolo del porto di Molfetta e mi chiesese potevo dare una spinta alla sua auto,una vecchia Fiat Ritmo blu, che da solanon si avviava. Meravigliato della ri-chiesta, gli risposi subito di sì. Ci salu-tammo con un “Arrivederci a presto”:si sedette al posto di guida, io iniziai aspingere l'auto, che riuscì a partire solodopo diversi scoppiettii. Una volta chela Ritmo scomparve lungo il molo delporto vari interrogativi si affollarononella mia mente: dove aveva studiato?Chi aveva curato la sua formazione sa-cerdotale? Certo, avevo già letto alcunedelle sue “Lettere alla città”, ma sin daquei primi momenti don Tonino misembrò un alieno, anzi di più: un uomolibero da schemi e da etichette, unuomo conquistato da Gesù Cristo.Nei due mesi in cui rimasi suo ospitespesso era fuori, in giro per la diocesi onei più diversi posti d'Italia in qualitàdi presidente nazionale di Pax Christi.Partiva e tornava, spesso in treno, negliorari più disparati del giorno e dellanotte, in un continuo susseguirsi diimpegni che lo attendevano ben al dilà della sua pur non piccola diocesi.

Ricordando don Tonino Bello

di intendere il Vangelo, appreso sin daltempo vissuto in famiglia e tra la suagente, gli umili contadini del Salentoagricolo e mistico di una volta. Daquesta profonda condivisione quotidianacon la gente del popolo, intessuta dipreghiera e contemplazione, diventatouomo di Chiesa aveva sentito la necessitàdi operare una frattura con quella sim-bologia del potere ecclesiastico che sitramandava da secoli e secoli, fattaanche di merletti, porpore, oro e gioielli,di titoli come “eminenza reverendissima”,“monsignore” ed “eccellenza” e relativiinchini e baciamano, che lui sentiva dinon poter adottare per sé. E questonon per una specie di nuova “estetica

Un vescovo speciale cheviveva secondo la legge delVangelo ed era sempre adisposizione del popolo diDio. A 25 anni dalla suamorte, chi lo ha conosciutoracconta l’amicizia con donTonino Bello nella suaMolfetta, e nella semplicepienezza di ogni suo gesto.

»

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ma tutta quella gente che aspettava eil telefono che squillava lo impedirono.Quella fu l'ultima volta che ci vedemmo,anche se lui mi disse che potevo tornarequando volevo.

finalmente il mio turno ci salutammo,lo ringraziai e lui ringraziò me: «Ma dicosa mi ringrazia don Tonino?» gli chiesi.«Di essere stato mio ospite» mi rispose.Avrei voluto attardarmi ancora a parlargli,

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MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀRicordando

don Tonino Bello

smarcava correndo, o fa-cendo palleggi su un piede.Il pomeriggio i seminaristilo dedicavano allo studio inuna sala comune, dove cia-scuno aveva un suo tavolo,e quando don Tonino era incasa passava a salutarli sof-fermandosi presso ciascunoper qualche momento, e avoce bassa per non distur-bare gli altri si informavasu come procedessero glistudi. Era sempre molto ri-spettoso dei percorsi esi-stenziali di quei ragazzi, maiforzature nel “convincerli”della vocazione sacerdota-le.I miei due mesi a Molfettagiunsero presto al termine,e un giorno di novembre mirecai nell'ufficio di don To-nino per ringraziarlo del-l'ospitalità. L'ufficio era pre-ceduto da alcune stanze,tutte piene di gente in attesadi parlare col vescovo. Nonc’era nessuno che facesseda “filtro”: chi apriva la portao rispondeva al citofono oal telefono era sempre donTonino. C'erano nomadi, di-soccupati, persone visibil-mente sofferenti per qual-cosa, anziani, tutta gente“del popolo”. Don Toninoandava e veniva da unastanza all'altra, con passoveloce e con delle carte inmano, rispondeva personal-mente alle loro richieste, oal telefono che squillava confrequenza. Non si avvaleva,almeno in quel periodo, della collabo-razione di un prete come segretarioperché gli sembrava di sprecarlo nel te-nerlo presso di lui, preferiva impiegarlonelle necessità della diocesi. Quando fu

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Beata in terra di Somalia

AMogadiscio era amica di tutti:famiglie e mamme che sapevanodi poter affidare con fiducia i

loro bambini alle cure di quella donnaaccogliente. Suor Leonella Sgorbati, ealcune consorelle della Consolata ge-stivano da anni il piccolo ospedale dipediatria annesso all’orfanotrofio SosChildren’s Village nella capitale somala.Qui la missionaria è stata uccisa il 17settembre 2006, martire in odium fidei,come è stato riconosciuto durante lacausa di beatificazione iniziata nel 2013e ora giunta alla conclusione.La missionaria, nata a Gazzola (Pi) nel1940, sarà infatti beatificata il prossimo

Sarà beatificata il mese prossimo suor LeonellaSgorbati, uccisa in odium fidei nel settembre 2006 aMogadiscio. Una delle tante vittime in un Paeseprovato dalla guerra civile, dalla siccità e dalladivisione interna, sotto la nuova presidenza diMohamed Abdullahi Mohamed Farmajio.

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26 maggio nella cattedrale di Piacenzaper ricordare il coraggio e la fedeltàalla missione in terra somala. Un Paeselogorato da decenni di guerra civile, incui uomini e donne di Dio sono diventatimartiri in nome del Vangelo. Ricordia-moli. Monsignor Salvatore Colombo,primo e ultimo vescovo di Mogadiscio,fu ucciso il 9 luglio 1989 con un solo

colpo sparato al cuore, davanti alla cat-tedrale, poi rasa al suolo. Due annidopo (8 febbraio 1991) è la volta delfrancescano padre Piero Turati, accol-tellato a 72 anni a Gelib, dove avevaun lebbrosario e un orfanotrofio. Il 22ottobre 1995 viene assassinata la dot-toressa Graziella Fumagalli, 51 anni, in-viata da Caritas italiana a dirigere lastruttura ospedaliera di Merca, pren-dendo il posto di un’altra grande figuradella missione in Somalia, Annalena To-nelli. Della dottoressa forlivese, uccisacon un colpo alla testa nel vicino So-maliland il 4 ottobre 2003 secondo icanoni della classica esecuzione somala,restano numerosi scritti e un esempiodi dedizione al Vangelo tra i nomadimusulmani che molto ha da insegnare.

SUOR LEONELLA DEI SOMALIRosa Maria Sgorbati era entrata nel-l’ordine delle suore Missionarie dellaConsolata a Sanfrè in provincia di Cuneocol nome di Leonella, e dopo la forma-zione sanitaria in Inghilterra, era partitanel 1972 per il Consolata Hospital Ma-thari vicino a Nairobi. Qui aveva »

di MIELA FAGIOLOD’ATTILIA

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Leonella èsempre tra noi

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iniziato nel 1983 gli studi superiori discienze infermieristiche e nel 1985 eradiventata tutor della scuola per infer-mieri del Nkubu Hospital di Meru. Nel1993 si era trasferita in Somalia comesuperiora generale delle Missionariedella Consolata del Kenya dove, dopola fine della dittatura di Siad Barre,non c’erano più scuole per la formazionedel personale sanitario. Nel 2002 riescefinalmente ad aprire la scuola per in-fermieri presso Sos Children’s Villagedi Mogadiscio da cui nel 2006, esconodiplomate 34 infermiere professioniste.Suor Leonella parte per l’Italia percercare altro personale per la scuola,ma al rientro in Kenya ha difficoltà colvisto per la Somalia, dove sapeva beneche la sua vita era in pericolo. Rientratanella capitale somala il 13 settembre2006, viene uccisa infatti 17 settem-bre.

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MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ Beata in terra di Somalia

petendo: «Perdono, per-dono, perdono».Ad ascoltare queste pa-role pronunciate in unsoffio, c’era suor MarziaFeurra, vittima lei stessadi un rapimento nel set-tembre 1998 da cui furilasciata due giornidopo, per la pressionedelle donne di Mogadi-scio, molto affezionatealla piccola comunitàdelle missionarie. Dicesuor Marzia: «Siamosempre state aiutate eprotette dalla gente diMogadiscio. Ogni tanto,nei periodi più turbolentiarrivavano delle personedel posto che ci avver-tivano di abbandonarele attività e in cinqueminuti eravamo già lon-tane. In altre situazionidi crisi ci dicevano in-

vece di stare tranquille perché nonc’erano rischi reali per noi».Monsignor Giorgio Bertin, vescovo diGibuti e amministratore apostolico diMogadiscio, ha seguito tutto l’iter delprocesso di beatificazione. All’indomanidella sua morte, la ricordava così: «Mipiaceva scherzare con suor Leonella. Ledicevo che aveva un cuore molto piùgrande della sua mole. Ed era così: no-nostante avesse alcuni problemi di salute,era decisa a continuare la sua opera diaiuto al popolo somalo». Oggi sottolineal’importanza della testimonianza di suorLeonella, riconoscendo che «il sacrificiodi questa suora come di tante altre per-sone ha servito i poveri non facendosemplicemente l’elemosina ma cercandodi preparare delle classi di infermieriche possano prendere in mano la situa-zione della sanità in un Paese tantoprovato».

VITA E MORTE A MOGADISCIOIn quella calda giornata d’inizio autunnofuori dai cancelli dell’ospedale c’è lasolita fila di donne e bambini venutianche da molto lontano per trovarecure e medicine. Nel Sos Children’s Vil-lage suor Leonella viveva senza uscirequasi mai. Infatti l’agguato è avvenutoproprio all’ingresso dell’ospedale dovefaceva la guardia Mohamed, un padredi famiglia che non ha esitato a buttarsiavanti a lei per fare scudo col suo corpoai colpi di proiettili. Gli assassini in fugahanno lasciato a terra due corpi crivellatidi colpi in mezzo ad una pozza rossa, incui sangue cristiano e musulmano eranomescolati insieme. Quasi un segno chesolo nel dialogo tra le due religioni sipuò trovare la via per la pace. Leonella,che all’indomani della sua morte è stataricordata da Benedetto XVI come «arti-giana di pace» è morta dissanguata ri-

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DIRITTI UMANINel 70esimo anniversario

della Dichiarazione Universale

L i hanno aspettati fuori dallamessa domenicale, in molte chiesedella capitale e dei centri princi-

pali. Per tutti quelli che uscivano, po-tenziali manifestanti in una serie dimarce antigovernative promosse perdomenica 25 febbraio scorso da un’or-ganizzazione vicina alla Chiesa cattolica,le forze dell’ordine hanno riservato lostesso trattamento: lacrimogeni, man-ganellate, in alcuni casi proiettili adaltezza d’uomo. Inevitabilmente, ci sonostati anche morti, e molti feriti gravi.Succede anche questo nella RepubblicaDemocratica del Congo (RDC), proba-bilmente il luogo del mondo in cuioggi, proprio nell’anno che celebra il70esimo della Dichiarazione Universaledei Diritti dell’uomo, questi diritti sonopiù che mai calpestati e dimenticati. Iltutto nella sostanziale indifferenza del-l’opinione pubblica occidentale (alzi lamano chi, nella lunga e litigiosa cam-

strato circa 800 cosiddetti “incidenti diprotezione”, ovvero uccisioni, rapimentie stupri. Al momento, sono oltre 630milale persone sfollate dal Tanganyika al-l’interno del Paese, che si aggiungonoai milioni in fuga da altre regioni, inparticolare nel Grande Kasai.Quello a cui stiamo assistendo è, inrealtà, un tragico mosaico di vari conflittiinterni a una nazione grande otto voltel’Italia. La miccia - come noto - è statala decisione del presidente Joseph Kabila,arrivato alla conclusione del secondomandato, di restare comunque al potere,violando la Costituzione e l’impegnoda lui stesso preso a fine 2016. Macome spesso avviene nei conflitti africani,si mischiano componenti politiche edetniche, motivazioni locali e interessiinternazionali.Così, da ormai due anni le atrocità nonsi contano e vanno ben oltre le normali,si fa per dire, violenze di ogni conflitto:eccidi di massa, decapitazioni, donneincinte sventrate, bambini fucilati omutilati, civili bruciati vivi. Anche laChiesa cattolica è stata colpita dura-mente, con chiese e altre proprietà di-strutte, numerose intimidazioni e ten-tativi di diffamazione, soprattutto consacerdoti, religiosi e religiose, catechistie operatori pastorali uccisi. Fatti chenon hanno intimorito i vescovi congolesiche in un comunicato hanno denunciato:«La presenza di assalitori che seminanola morte e la desolazione fa pensare al-l’esecuzione di un piano di occupazionee di balcanizzazione: a chi giova la de-stabilizzazione del Paese?».

Stefano Femminis

[email protected]

pagna elettorale italiana, ha sentitopronunciare, anche solo una volta, ilnome di questo Paese africano). Perquesto, sebbene Popoli e Missione nonabbia mai mancato di colmare questo“buco nero” dell’informazione, dedi-chiamo anche questo spazio alla gravecrisi in corso nel Paese africano.Oltre all’episodio citato - in Italia rac-contato solo da Avvenire - l’allarmepiù recente è arrivato a metà febbraioscorso dall’Alto Commissario delle Na-zioni Unite per i Rifugiati (UNHCR).«Un disastro umanitario di dimensionistraordinarie sta per colpire il Sud-estdella Repubblica Democratica del Congo,mentre la provincia del Tanganyikasprofonda ulteriormente nella violenza,innescando fughe di massa e violazionidei diritti», ha affermato il portavoceAndrej Mahecic. Solo nelle prime duesettimane di febbraio e solo nella pro-vincia citata, lo stesso UNHCR ha regi-

Il dramma taciuto

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L’altra

Q uando i Paesi dell’Africa si uniscono per imporre qual-che barriera commerciale in più, con l’unico scopo didifendere se stessi, Donald Trump va su tutte le fu-

rie. Gli Stati Uniti invece possono unilateralmente decidere cheè arrivato il momento di imporre dazi doganali sull’acciaio esull’alluminio, e il mondo (Europa e Asia soprattutto) deve in-cassare in silenzio. C’è qualcosa di estremamente iniquo nel-la politica commerciale americana. Questo lo si era capito già

edicola

di ILARIA DE [email protected]

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LA NOTIZIA

UGANDA, RWANDA E TANZANIAHANNO DECISO A FEBBRAIO SCORSODI METTERE SOTTO EMBARGOALCUNE MERCI IMPORTATE DAGLISTATI UNITI: SI TRATTA DEGLI ABITIUSATI. LA MISURA HA PROVOCATORITORSIONI DA PARTE AMERICANA.EPPURE DONALD TRUMP STARICORRENDO AD UN PROTEZIONISMOCON I DAZI SULL’ACCIAIO, A DIR POCOANACRONISTICO. COME ANDRÀ A FINIRE?

GLI AFRICANI CHESFIDANO TRUMP

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da un po’. Ma stavolta The Donald ha davvero toccato il fon-do. Lo scrivono AllAfrica, ma anche l’Agence d’informationd’Afrique Centrale e poi Jeune Afrique. Nonché Africa News.La questione è questa: Uganda, Rwanda e Tanzania avrebbe-ro deciso a gennaio scorso di mettere un freno all’import divestiti usati (provenienti per lo più dagli Stati Uniti) per in-coraggiare la produzione interna di abiti. I giornali locali spie-gano che i tre Stati africani orientali, invasi da tessuti ed abi-ti di seconda mano vorrebbero “proteggere” la loro economiafragile - soprattutto le traballanti industrie tessili ruandesi eugandesi di cotone e tessuti sintetici - applicando qualche bar-

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Guerra all’ultimo dazio

riera e qualche dazio in più. Apriti cielo! Il presidente ameri-cano non gradisce e addirittura minaccia sanzioni.«Il rappresentante al Commercio – scrive Africa News – ha an-nunciato di voler rivedere i benefici commerciali concessi aRwanda, Tanzania e Uganda all’interno dell’African Growth andOpportunity Act (AGOA), in seguito alle limitazioni poste al-l’import di abiti usati». Le minacce hanno già sortito qualche effetto: il Kenya, cheall’inizio sembrava sostenere i tre fratelli africani, spiega l’Agen-ce d’information d’Afrique Centrale, s’è ritirato dalla batta-glia. Uganda, Tanzania e Rwanda vanno avanti da soli.L’analisi di AllAfrica a firma di Aisha Bahadur è molto detta-gliata nel racconto del background commerciale. «La libera-lizzazione tariffaria assieme alle politiche di aggiustamentostrutturale in Africa hanno creato settori economici basati suuna crescita dipendente dall’investimento estero. La conseguen-za è una crescita guidata dall’export nel settore dei tessili, ilche non ha certo aiutato l’industria interna», dice AllAfrica.L’AGOA inoltre ha creato una dipendenza completa dei lavo-ratori del tessile dal mercato americano. A questo punto, col-piti dalla globalizzazione, gli africani si sono ritrovati più po-veri e impantanati che mai. Tanto che rialzare la testa è qua-si impossibile. Appena qualcuno ci prova (e ci riesce), ecco larandellata. A spingere affinché i tre Paesi dell’Est africano ri-tirino la loro politica protezionista sono le lobby americanedell’usato: la Secondary Materials and Recycled Textiles As-sociation (SMART), che è naturalmente vicina a Trump. Lo slo-gan “America first” della Casa Bianca nel concreto significamolte cose deleterie per tutti gli altri. Più che uno slogan èuna minaccia: prima vengono gli Stati Uniti, le loro esigenzee le loro protezioni, poi semmai, tutti gli altri a cascata. Ma in un mondo oramai globale e liberista (sul quale peral-tro è stata sempre l’America a spingere, capofila assoluta diuna globalizzazione spietata), le chiusure di Trump suonanoanacronistiche. E onestamente anche fuori dalla realtà e dal-le regole dettate proprio da Washignton. Tanto che il Guar-dian ad esempio mette in guardia sul fatto che la politica pro-tezionista, con i dazi sull’acciaio e altre restrizioni, si può tra-sformare in una vera e propria guerra commerciale. D’altra par-te Donald è uno che alle guerre (e alle paci) vere preferisce quel-le fatte di accordi e disaccordi commerciali. La forza del dol-laro conta più delle bombe in questa America qui. Non che poiil presidente disprezzi le bombe e i fucili veri, tutt’altro. Tra lepossibili vittime delle guerre commerciali c’è anche il Suda-frica che trema al solo pensiero: l’African review fa sape- »

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L’altra edicolaGuerra all’ultimo dazio

si metta di buzzo buono a fare il verso a Trump. In un bel pez-zo intitolato “Guerre commerciali? L’Africa è sempre stata vit-tima per anni”, il Guardian con le parole di Afua Hirsch scri-ve che «ciò di cui avrebbe bisogno l’Africa, come un mio ami-co è orgoglioso di affermare, è un Trump africano: un leaderdell’Africa first che non sia timoroso di trattare male il restodel mondo». «Il protezionismo – prosegue – è stato spesso as-sociato (e perciò criticato) alle politiche dei Paesi più poveri.È ciò che fanno Sierra Leone, Zimbabwe e Iran ed è perciò cheessi sono annoverati tra i meno competitivi al mondo. Ed è daloro, che adesso, Trump trae ispirazione». Il mondo sembra es-sersi capovolto, le sorprese di The Donald sono infinite. La spe-ranza dei suoi rivali commerciali è che il neoprotezionismo ame-ricano gli si ripercuota contro: è possibile che Trump si ritro-vi a dover subire gli effetti deleteri di diverse porte sbattutein faccia da tutti quei Paesi maltrattati che gli renderanno panper focaccia.

re che Johannesburg sta valutando gli effetti di eventuali ta-riffe americane sull’acciaio dal momento che ne esporta unabuona quantità negli Usa: l’1,4% delle importazioni america-ne viene dal Sudafrica. Ma anche da Canada e Brasile. A far-ne le spese comunque sarà soprattutto la Cina: i recenti daziamericani sono un attacco diretto a Pechino, che da parte suaavverte: «Non ci saranno vincitori, questa politica fa solo per-denti», come riporta il Guardian. Il ministro al commercio cinese, Zhong Shan, è ben determi-nato a reagire, colpendo il carbone americano. In una corsaall’ultimo dazio a risentirne sarà il libero mercato. Tra i Paesitarget del protezionismo americano ci sono anche la Corea delSud, il Giappone e l’India. Il problema adesso è che a vincerein un mondo senza regole (dove le regole le detta il Paese cheha il potere di deterrenza maggiore) sono come sempre i piùricchi e i più prepotenti. L’impressione è che ancora una vol-ta l’Africa sarà costretta a battere in ritirata. A meno che non

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narietà, esprime un atto di solidarietàche ha travalicato mari, montagne econtinenti. Un atto che ha visto la ge-nerosità della gente di Novellara e dellaBassa, promotrice di uno stupefacente“atto d’amore”.Immaginate l’impatto quando ci siamotrovati alla presenza di 2.600 bambinie bambine (tutti con la divisa – blu ebianca – della scuola primaria “pèreTonino Manzotti”), che con la graziadella loro età, la musicalità e la gestualitàtipiche di quel popolo africano, impre-ziosite da un innato e strabiliante sorriso,

I l gran cuore degli uomini e delledonne della Bassa Padana ha risuo-nato con gioia il 29 gennaio scorso.

A Panzi, bidonville di Bukavu, metropolicongolese ai confini con il Rwanda, inquella giornata è stato ufficialmenteinaugurato un complesso scolastico in-titolato a père Tonino Manzotti (vedibox a pag.50).L’evento, nella sua semplice straordi-

Posta dei missionari

sono stati i protagonisti di un eventospeciale. Erano i bambini e le bambineche già frequentano o che frequente-ranno una scuola bella, ma non sfarzosa,accogliente e non discriminante, fattaa loro misura e pensata per le loro ne-cessità d’apprendimento.Don Tonino Manzotti, tuttora ri- »

a cura diCHIARA PELLICCI

[email protected]

A scuola conpère Manzotti

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MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

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I l 25 febbraio 1933 don Antonino Manzotti nasce a Brescello di Reggio Emilia.Di famiglia contadina, entra giovanissimo in Seminario a Guastalla (RE). È

ordinato sacerdote e svolge il suo apostolato a Novellara, come curato. Ma lasua vocazione è missionaria e chiede di entrare nella famiglia religiosa deiSaveriani. Nel 1963 è già in Burundi e poi in Congo dove, con qualche piccolaparentesi, svolge la sua missione per oltre 50 anni.Ha girato la Repubblica Democratica del Congo in lungo e in largo. Ha raggiuntoa piedi ogni posto. Non si è mai tirato indietro per «glorificare il suo Dio a pienemani», come era solito dire.Era amatissimo dalla gente: ne abbiamo avuto tante e svariate conferme neiviaggi che abbiamo fatto negli ultimi anni per la realizzazione della scuoladedicata a lui. Tutti lo ricordano con affetto vero. Era un gran confessore.Ha compiuto atti di vero eroismo. Il più noto, a metà degli anni Sessanta, èquando - prigioniero assieme a tanti religiosi e religiose nella casa del vescovodi Uvira, occupata dai ribelli mulelisti che attuarono una feroce rivolta – si feceavanti quando questi pretendevano di eseguire la fucilazione di un religioso, incambio di un riscatto e altre concessioni dagli occidentali. Don Tonino disse cheera pronto al sacrificio, se questo era il volere di Dio. Per fortuna tutti venneroliberati prima dell’inizio delle esecuzioni.È morto a Parma, nella casa madre dei Saveriani, il 19 marzo 2014.

S.C.

CHI È DON TONINO MANZOTTIcordato e amato a Novellara e nellaBassa, ci ha lasciati quattro anni fa, mail segno della sua presenza non si è di-sperso, poiché infuso profondamentenei cuori e nelle menti di tante persone,uomini e donne, giovani e meno giovani.Don Manzotti («Manzotì», pronunciatoalla francese, come dicono e cantanolà) in quella zona congolese vive nelcuore di tantissimi, idealizzato, richia-mato per il suo spirito, per il suo zelo,per non essersi mai sottratto alle richiestedella gente, in particolare dei più biso-gnosi, sia in senso materiale che spiri-tuale. In tantissimi ci hanno parlato dilui, della sua forza interiore, del suoapostolato, del suo carisma, del suocuore grande, appassionato, comprensivo,amorevole.Dopo la morte di don Tonino, i gruppi

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l’abbiamo: colpe storiche e attuali, enon parliamo solo del colonialismo;parliamo anche delle multinazionali chetuttora portano a casa, a poco prezzo,ricchezze naturali delle quali il Congo,ad esempio, è ricco; parliamo, per essereespliciti, dei minerali che servono perla tecnologia informatica e digitale.Il 29 gennaio scorso è stato un momentosuggestivo: vedere le targhette in ce-ramica con il nome delle persone allacui memoria venivano dedicate, avvertirei forti ricordi che suscitava l’evento, vi-vere in prima persona l’animazione che

sempre accompagna la pre-senza dei fanciulli, leggere ilnome di don Tonino e scorgerela sua immagine campeggiareall’ingresso della scuola sonoesperienze che lasciano un se-gno indelebile.Noi del gruppo “Amici di donTonino” ringraziamo di cuorei novellaresi e gli abitanti dellaBassa che «a piene mani», comediceva il loro amico sacerdote,

hanno partecipato alla realizzazionedel complesso. Il compito che ci ha la-sciato don Tonino, quello d’amare ilprossimo, non si è certamente concluso:c’è in giro, e là in particolare, un grandebisogno di solidarietà, fratellanza, amore,al quale, nonostante i nostri limiti, cer-chiamo di rispondere con passione, im-pegno ed entusiasmo.

Sergio Calzari

e il gruppo “Amici di don Tonino”

Reggio Emilia

Posta dei missionari

Auguri pasquali dall’EtiopiaDon Giorgio Pontiggia, da 28 anni missionario salesiano aPugnido, un villaggio di ottomila abitanti a un centinaio dichilometri da Gambela (Etiopia), ci invia i suoi auguri pasquali e quellidei suoi parrocchiani. Volentieri li condividiamo con i nostri lettori.I bambini di Pugnido e dei villaggi intorno, i giovani dell’Hostel, iragazzi e le ragazze dell’Oratorio, tutta la gente della Missione, lepersone che salutiamo e ci salutano con gioia sulle strade, vi auguranocon noi una Felice e Santa Pasqua.

cattolici di Brescello, Boretto, Gualtieri,Guastalla e Novellara che a lui facevanoriferimento, si sono costituiti nel gruppo“Amici di don Tonino Manzotti” con ilcompito di coltivare gli insegnamentiricevuti e ipotizzare la realizzazione diun complesso scolastico: lo scopo èquello di offrire concretamente istru-zione, educazione e conoscenze ai bam-bini delle scuole primarie in primis, esuccessivamente a quelli delle secondarie.È nata allora l’idea del complesso sco-lastico di Panzi, curato dal punto divista progettuale dall’ingegnere FrancoVivi, d’intesa con padre Nicola Cola-suonno. Quest’ultimo, amico e confra-tello di don Tonino, a Panzi è il parrocodi una comunità che alle 6 di ognimattina riempie una chiesa di oltreduemila persone: una presenza che an-drebbe toccata con mano, in quantodebordante di entusiasmo, di caloreumano e di quella vocalità in grado di

farti sussultare, coinvolgere e di liberartida timori, tensioni, ansie.La scuola che la gente della Bassa harealizzato a Panzi è una piccola-grandecosa. Ma è anche un modo concreto diaiutare a casa loro popolazioni che al-trimenti si affaccerebbero al Mar Me-diterraneo e all’Europa. Non servonoslogan del tipo: «Cacciamoli tutti inmare». Se là la gente sopravvive a malapena, noi occidentali qualche colpa

Il tuo sorriso, o Cristo risorto,ci àlita un soffio di gioia incontenibile,perché tu vivi e ci fai rivivere.Lo Spirito, che ti fa uno con il Padre,è il dono nuziale alla tua amata, la Chiesa.Dov’è, o morte, la tua vittoria?Cantando, sospirando, piangendo,camminiamo ancora, e sempre,con accanto i nostri morti,perché viviamo in te, o Cristo risorto,per l’eternità:o Cristo, nostra Pasqua,oggi risorgiamo in te.

Don Giorgio PontiggiaPugnido (Etiopia)

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OMICIDIO AL CAIRO

NEL LABIRINTODELLA CORRUZIONE

bulanti delle stradine del Cairo. Immaginiche evocano le oscure connivenze chesottendono l’atroce delitto di Giulio Regeni,purtroppo un drammatico omicidio irrisoltoe non una finzione scenica. Nel film (comenella realtà) le mazzette di banconote sudiceraccolte da Noredin vanno ad ammucchiarsinel frigorifero vuoto di casa, e passanovelocemente di mano in mano, dallo zio-capo distretto ai colleghi, e così via. Lacorruzione è moneta corrente, in un mondoin cui non ci si può fidare di nessuno euna vita umana vale pochi spiccioli.Questo è il ritratto di una megalopoli di9,5 milioni di abitanti, in cui i potenti sicredono al di sopra delle leggi e i poverivengono usati per la manovalanza sporcae poi eliminati quando diventano scomo-di. Come nel caso di Salwa (interpretatada Mari Malek), la cameriera sudanese,clandestina come altri immigrati africani,che lavora ad ore presso l’Hotel Hiltondove il caso vuole che sia testimonedell’omicidio della bella cantante Lalena.Solo lei conosce il volto dell’assassinoche in realtà è solo un sicario armato dauna rete di complicità inconfessabili.

realizzato un thriller politico avvincente,grazie ad una coproduzione franco-tede-sco-svedese. È difficile immaginare un in-vestimento egiziano su un’opera di denunciasocio-politica così attenta ai fatti storici,dai grandi eventi legati alle Primavere arabeall’episodio di cronaca realmente accadutonel 2008. Allora un facoltoso imprenditoree politico vicino al presidente, si era rivelatocolpevole dell’omicidio di una cantante li-banese di cui era innamorato. Vincitore

del Gran premio della Giuriadel Sundance Festival 2017,il film è stato girato solo inparte (e molto velocemente)al Cairo, a causa di ostacoli“burocratici” che hanno fattospostare le riprese a Casa-blanca in Marocco. Il pro-tagonista è Noredin Mustafa(il bravissimo attore libaneseFares Fares, con una siga-retta perennemente accesatra le labbra), un poliziottocorrotto come tanti che fala ronda per ritirare il pizzoda negozianti e venditori am-

N ell’Egitto alle soglie delle rivolte dipiazza Al Tahrir (iniziate il 25 gennaio

2011), l’omicidio di una cantante in ungrande albergo della capitale, getta unosquarcio di luce sul torbido mondo del po-tere corrotto del regime del presidenteHosni Mubarak. È lo scenario storico chefa da sfondo al film “Omicidio al Cairo”(titolo originale “The Nile Hilton incident”)di Tarik Saleh, il regista e produttore tele-visivo svedese di origine egiziana che ha

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Al momento dello scoppio deidisordini di piazza, i poliziotti rice-vono l’ordine di sparare sullafolla. E lo eseguono. A sottolinea-re ancora una volta, la distanzatra il ruolo di tutori della sicurezzadella gente e quello effettivo diuomini al servizio del potere.Saleh, che oltre ad essere produt-tore e regista è anche giornalista,

dice: «Il copione che terminai nel 2010finiva con una rivoluzione, cosa cheall’epoca sembrava assurda. E invece nel2011 la rivoluzione effettivamente scop-piò e all’inizio mi dissi: “Adesso le cosecambieranno, è un nuovo inizio, è il Murodi Berlino che è caduto ancora una volta”.Poi, dopo due mesi, la mia parte cinicacominciò a pensare: “No, ci sarà unvuoto, e questo vuoto sarà riempito da undiverso potere”. E allora mi apparve chia-rissimo che la vera battaglia si sarebbecombattuta fra i Fratelli Musulmani el’esercito. Quanto ai giovani che si eranoribellati e che desideravano un futurodiverso, furono derubati della loroRivoluzione».Il film è stato visto nelle sale cinemato-grafiche in Marocco, Tunisia, Libano, main Egitto è arrivato in dvd. Dopo i premiinternazionali, anche la critica ha comin-ciato ad apprezzare il film definito “nazio-nalistico”. Ma il regista è scettico:«L’Egitto è un grande Paese, ma la socie-tà è ancora troppo frammentata». E doveil potere politico e il denaro vanno a brac-cetto, la Primavera iniziata sette anni fa èancora fragile.

Miela Fagiolo D’Attilia

[email protected]

Attraverso vicoli, interni scuri, case incostruzione, in questi scenari notturni aimargini di una città in procinto di ribellar-si, Noredin, il poliziotto dal cuore aridocome da copione del più classico deinoir, si trasforma e capisce che la veritàesiste - anche se amarissima - e che stanel mondo delle vittime, dei più deboli, dichi paga anche per chi resta impunito.Rinuncia alla brillante carriera che avreb-be potuto realizzare se avesse seguito leleggi del ricatto e dell’omertà e scopre diavere una integrità morale dietro lamaschera del poliziotto senza scrupoli.Spiega l’eclettico regista Saleh: «Mentrescrivevo il copione del film, sapevo chemi sarei cacciato nei guai. Tuttavia, nep-pure nella mia immaginazione più fervida,avrei potuto prevedere quanto sarebbestata folle questa produzione. Sono moltocontento che nessuno sia morto. La fin-zione di “The Nile Hilton Incident” andavacostantemente a sbattere con la realtà.Certe volte mi sono spaventato, ma aessere onesti, questo è il motivo per cuifaccio tutto ciò, per realizzare i mieisogni. Dal mio punto di vista, il filmriguarda una città che amo. Si tratta delpassato e del futuro che si scontrano, edelle persone che restano schiacciate inquesta collisione».

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I l volume di padre Antonio Spa-daro, gesuita direttore di Civiltà

Cattolica, offre una visione a 360gradi del mondo contemporaneoe delle problematiche internazionaliai tempi del pontificato di papaFrancesco. Il papa è un leader

mondiale autorevole, capace diesercitare una forte influenza sullapolitica internazionale. Grazie alconfronto e alle riflessioni di unaventina di commentatori di geo-politica globale, si esaminano di-versi scenari, dal Mediterraneo allaCina, dal Vicino Oriente all’Africa.Il comune denominatore è la stra-tegia “rivoluzionaria” di papa Fran-

cesco che contrappone la civiltà dell’incontro all’inciviltà delloscontro. Francesco crede nel multilateralismo e ha una visionepolitica non allineata ad alcuna delle grandi potenze: ricordiamo

i suoi decisi, e spesso poco convenzionali, interventi che hannogenerato entusiasmo e stupore, ma anche numerose critiche.Il vaticanista spagnolo José Luis Narvaja, nel suo intervento,parla del carattere kerigmatico del papa e sottolinea come ilsuo impegno venga dal Vangelo e non da un’ideologia. FrancescoSisci scrive che solo ora, in Cina, la Chiesa e il papa sonoapparsi nell’orizzonte politico-culturale e hanno smesso diessere «una questione quasi esoterica per i pochi convertiti eper la minoranza». Padre Giulio Albanese nel suo articolo “Ec-

clesia in Africa” ricorda le parole di Paolo VI che già dal 1969a Kampala definiva il compito della Chiesa di essere “madre emaestra”.In occasione del primo lustro di pontificato, questo libro difacile lettura ci aiuta a capire come sta cambiando il sensodella storia: il fulcro dell’azione politica di papa Bergoglio, nelcontesto geopolitico mondiale, resta fermo nella centralità dellaparola “misericordia”. Per costruire ponti e non muri creandonuove alternative di azione, ispirate a criteri di accoglienza einclusione.

Chiara Anguissola

Don Alessandro è alla guida della suaauto, fermo ad un semaforo di Via

Cristoforo Colombo. Un giovane si avvicinadicendo: «Help me... you are a christian»tremante per il freddo, con le lacrime agliocchi; vende fazzoletti e accendini. Mentresi prepara a liquidare il ragazzo conun’elemosina, don Alessandro sente unbrivido e, grazie a quell’incontro dellaProvvidenza, nasce il percorso di aiuto eintegrazione del giovane Dullal Gosh ar-rivato a Roma dal Bangladesh nell’invernodel 2013.Il libro documenta il susseguirsi di azionidi solidarietà che hanno permesso lasvolta della sua vita. «Sono arrivato conun passaporto falso, procuratomi da miozio. Mio padre ha venduto dei terreni per

comprare il biglietto aereo», raccontaDulall, accompagnato dal sacerdote nellungo iter per regolarizzare la sua posizionein Italia. Passano mesi di tremenda attesae infine gli viene accordata la protezioneumanitaria. Il libro-testimonianza raccontal’odissea del giovane Dullal, dalla terrad’origine al viaggio in cerca di fortuna,fino all’epilogo positivo dopo varie traversie:per avere una casa, ripagare debiti, ap-prendere la lingua italiana, avere il per-messo di soggiorno e finalmente unlavoro. Tre pagine finali sono dedicate aringraziare coloro che l’hanno aiutato asuperare varie crisi ed a integrarsi: a co-minciare da don Alessandro, che gli hapermesso di cambiare vita. «Oggi – scrive- mia madre è felice. Quando penso a

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don Alessandroi miei occhipiangono digratitudine». Mac’è anche un grazie per padre Domenicoche gli ha dato una casa e lo ha fattosentire come un figlio; per mamma Ste-fania, la mamma dei migranti, che l’hafatto sentire a casa; per i volontari dellacooperativa “Sophia” che l’hanno pre-parato al test per accedere all’università.Un libro scritto a quattro mani, da CaterinaAmodio, fondatrice della cooperativa “So-phia”, e da Dullal: un prezioso strumentodi supporto adatto a percorsi integrativiper chi lavora nel volontariato tra i mi-granti.

Chiara Anguissola

Caterina Amodio

“LÀ NON MORIRAI DI FAME”DULLAL DAL BANGLADESH A ROMA

Edizioni EMI - € 14,00

Antonio SpadaroIL NUOVO MONDO DI FRANCESCOEdizioni Marsilio Nodi - € 17,00

Francesco, leader profetico

Un incontro checambia la vita

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creare un suadente mix di sonorità antiche,strettamente legate al patrimonio folkloricodella sua terra e di modernismo, nutrito,nel suo caso, dalle influenze dell’am-

bient-music, del contemporary jazz e dalminimalismo classico.Non è una musica facile quella di ParkJiha e del suo gruppo, ma è facile inna-morarsene: atmosfere sognanti, createper lo più da un solo strumento, in parti-colare il piri, che suona come una speciedi oboe ma è in realtà un doppio flauto dibambù rosso. Ma Park ama anche il sa-

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PARK JIHA

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L a Corea del Sud è da anni uno deiPaesi chiave dello scacchiere asiatico.

Una nazione in espansione nonostantela crisi economica che grava anche suisuoi colossi industriali. È la quarta potenzadell’Asia e la 15esima potenza economicadel mondo. Un Paese con un altissimolivello tecnologico e fra i migliori in quantoa livello di educazione e scolarità. Lerecenti Olimpiadi invernali di PyeongChanghanno mostrato al mondo tutto il bello ei valori positivi di una popolazione cheha il suo principale problema nella per-durante altissima tensione coi cugini delNord, il cui regime ipermuscolare –nonostante le timide aperture di questiultimi tempi – continua ad oscurare ilpresente di un popolo pacifico, operoso,ancora profondamente spirituale.La nuova scena musicale presenta talentiche cominciano poco a poco a farsi co-noscere anche al di fuori dei patri confini.E il fiore all’occhiello di questo piccolomovimento artistico è costituito da unagiovane polistrumentista, Park Jiha.Il suo percorso artistico l’ha portata a

QUIETICOREANE

enghwang, anch’esso in bambù, che so-miglia nelle sonorità a un organo a bocca,e lo yaggeum, simile al dulcimer a per-cussione occidentale. A miscelare il tutto,una vocalità a sua volta strumentale, for-temente evocativa, ora dolcemente an-gelica, ora struggente.Atmosfere eteree, fatte di poche notespesso ripetitive, che tuttavia entranopoco a poco fin nell’intimo dell’ascoltatore,generando suggestioni profonde. È un’on-da gentile e quasi spaziale, con dentro lasolennità delle sue composizioni - perfetteper far da sfondo a una meditazioneintima perché poco invasive - che alcontempo evocano panorami limpidi equasi addormentati, tipici di un’Asia rurale,lontana anni luce dalle frenesie e dal-l’ipertecnologia delle metropoli contem-poranee.Anche per questo la musica di Park Jihaappare fin dal primo ascolto balsamica equasi terapeutica anche per noi occidentali,per il suo saper creare oasi di pace nelmezzo dei trambusti e delle nostre in-quietudini post-moderne. Ecologica espirituale potremmo definirla, se fossimocostretti ad usare un altro paio d’aggettiviadatti, se non a spiegarla, almeno a farlaintuire a parole. Non che serva più ditanto, perché i suoi strumentali sono piùun’esperienza da vivere e da provareche da raccontare.A chi volesse farsene un’idea, consiglioil suo album di debutto solista, intitolatoCommunion, pubblicato in Corea nel2016, ma arrivato solo di recente suimercati occidentali.

Franz Coriasco

[email protected]

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Nella sua appassionata relazione, Anto-nella Duilio, psicoterapeuta e consacra-ta dell’Ordo Virginum della diocesi diAversa, ha chiesto agli educatori di osa-re, di diventare per i propri ragazzi «fa-cilitatori di sogni, perché più grande èla capacità di sognare, più ampio è ilcammino che può essere percorso».Certo non è facile. Non si può negareche nell’educazione alla fede oggi, piùche mai, ci sia bisogno di nuove cate-gorie, nuovi linguaggi per rendere piùefficace l’annuncio del Vangelo. Per que-sto la psicoterapeuta ha aiutato i con-vegnisti a comprendere nel profondo chisono i destinatari dell’animazione mis-sionaria e in quale realtà sociale, cultu-rale, familiare si trovano immersi ibambini di oggi.Anche don Paolo Gentili, direttore del-l’Ufficio CEI per la pastorale della fami-glia, durante l’omelia della Messa cheha presieduto, ha contribuito a delinea-

È stato un convegno fruttuoso,quello organizzato da MissioRagazzi dal 9 all’11 marzo scor-

si a Roma, che ha visto la partecipazio-ne di 60 incaricati diocesani provenien-ti da diverse regioni d’Italia. Tre giornidi approfondimenti e confronti, parten-do dallo slogan “Vivi…e #passaParola”scelto per la Giornata missionaria deiRagazzi (GMR) del 2019. Un momentodi partecipazione operativa e intensa èstato quello dei laboratori: un intero po-meriggio di confronto ed elaborazionedegli strumenti di animazione missio-naria utili per l’anno a venire, come ilsussidio annuale e le attività da vivereper concretizzare i quattro impegni delRagazzo Missionario (preghiera, condi-visione, fraternità, annuncio).Tanti i relatori che si sono succeduti.

re la preziosità del compito di educa-re, paragonando i convegnisti a cerca-tori di perle, icona del Vangelo: «Nel vo-stro anelito missionario – ha detto - sie-te cercatori di perle: custodi di bambi-

di CHIARA [email protected]

Farsi megafoni di missiI partecipanti al Convegno nazionale di Missio Ragazzi. Al centromonsignor Nunzio Galantino, Segretario generale della Cei.

Padre LuigiCantoni (Pime),missionario per16 anni in Cina.

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ni, ragazzi, adolescenti. Avete una cri-stalleria tra le mani».Centrato sul brano del Vangelo di Luca(capitolo 2, versetto 52) - «Gesù cresce-va in sapienza, età e grazia davanti a Dioe agli uomini» - l’intervento di suor Ro-berta Arcaro, missionaria delle suore

rato in questi anni – ha raccontato pa-dre Cantoni - è l’ascoltare. Arrivare in unPaese dove la lingua è lo scoglio mag-giore, ti insegna a fare questo». Il missio-nario ha spiegato che tra i cristiani in Cinala dimensione comunitaria è molto for-te: «Anche il missionario deve ascoltarela sua comunità: non è uno che arriva espiega chi è Gesù; il missionario è uno diloro, che deve ideare i programmi insie-me a loro, mangiare insieme a loro, vi-vere la comunità con loro».A concludere il convegno è intervenu-to monsignor Nunzio Galantino, Segre-tario generale della CEI. Presiedendo lamessa domenicale, si è rivolto diretta-mente ai convegnisti: «Auguro a tutti voidi riprendere il cammino di formazionee testimonianza nelle vostre realtà loca-li. Grazie per quest’ansia missionaria chediffondete nella Chiesa: una Chiesa chenon è missionaria, non è Chiesa», ha chio-sato.Don Mario Vincoli, responsabile di Mis-sio Ragazzi, ha concluso i lavori tirandole fila degli stimoli e delle proposte ela-borate nella tre-giorni. Il sacerdote haspiegato che nella programmazione pa-storale una cosa è il contenuto, un’altraè lo stile: «Missio – ha precisato - devedire a tutte le diverse realtà locali eccle-siali: “Programmatevi come volete, maimpegnatevi per una pastorale in chia-ve missionaria”», proprio quella di cui par-la papa Francesco al numero 33 del-l’Evangelii Gaudium. L’invito di donVincoli ha trovato consenso tra i parte-cipanti, consapevoli di essere chiamati arientrare nelle proprie realtà locali per di-ventare megafoni della tensione missio-naria di cui la Chiesa non può fare ameno.

Francescane Angeline, appena rientratadal Ciad, ha richiamato i presenti a riflet-tere sul loro compito di educatori allafede: «Il vostro scopo è uno solo: aiuta-

re i ragazzi a diventare adulti, cioèa saper leggere e annunciare ilVangelo. A nulla – ha conclusosuor Arcaro - valgono tutte le di-namiche di animazione proposte,se non sono nutrite dalla Parola».La missionaria, poi, è scesa nelconcreto: «Gli educatori chiama-ti ad essere maestri – ha aggiun-to - non devono considerare ilbambino come qualcuno da in-dottrinare: i ragazzi sono porta-tori di un mistero intrinseco cheè la grazia di Dio. Come educato-ri dobbiamo orientare, non mani-polare: non sono le competenzeche dobbiamo dare ai più picco-li, ma la consapevolezza dell’esse-re figli di Dio».Particolarmente appassionante èstata la testimonianza di un mis-sionario che per 16 anni ha an-nunciato il Vangelo in Hong Kong– Cina: è padre Luigi Cantoni, sa-cerdote del Pontificio IstitutoMissioni Estere, che ha vissutoproprio in quella parte di mondo

da cui quasi due secoli fa arrivavano no-tizie così terribili sulla condizione deibambini, che spinsero il vescovo di Nan-cy, monsignor Charles de Forbin-Janson,a fondare l’Opera dell’Infanzia Missiona-ria. «Un aspetto fondamentale dell’esse-re missionario ad gentes che ho impa-

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sionarietà

Convegno nazionale Missio Ragazzi

Antonella Duilio, psicoterapeuta e consacrata dell’Ordo Virginum della diocesidi Aversa, con don Mario Vincoli, responsabile di Missio Ragazzi.

I lavori a piccoli gruppi hanno impegnatoi convegnisti per un intero pomeriggio.

Monsignor Nunzio Galantino, Segretariogenerale della Cei, e don Mario Vincoli,responsabile di Missio Ragazzi.

L’assemblea deiconvegnisti in unodei tanti momentidi approfondimen-to e confronto.

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VITA DI MISSIO

P iove, ma la visita al Seminario diPadova è fissata proprio oggi. En-tro in una struttura imponente

del XVI secolo, un antico monastero a piùchiostri modulari, il tempo è proprio tra-scorso anche per queste mura. Le fotoin bianco e nero sulle pareti ricordanouna ricca storia di giovani generosi, e misegnalano il percorso per raggiungere ilpiano superiore. Mi accoglie monsignorDianin, tutt’ora insegnante di morale fa-miliare presso la Facoltà teologica del Tri-veneto, da dieci anni rettore del Semi-nario. Condivido con lui una brevechiacchierata sull’importanza del Con-vegno nazionale dei seminaristi, promos-so dalla Pontificia Unione Missionaria(Pum) a Padova dal 12 al 15 aprile.

Monsignor Dianin, ormai vive da un de-cennio il suo ministero in questo Se-minario, nell’accompagnare i giovani

di GAETANO [email protected] missione è

molta… e grida

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cumenti del Magistero, viene sottoli-neata quale dimensione fondamenta-le del vivere ecclesiale e della comu-nità: come il Seminario coltiva questaspinta alla missione?«Riconosco che si potrebbe fare moltodi più. Ci sono dimensioni della Chiesache se non sono spente, sono diventa-te un po’ scontate: l’ecumenismo, la mis-

sionarietà, l’attenzioneagli ultimi, la sensibilitàper i temi sociali e per lapolitica. Credo sia unacaratteristica dei giovanidi oggi che, a differenzadei loro coetanei dei de-cenni passati, vivono piùconcentrati su se stessi.Per fare un esempio: igiovani preferiscono ilvolontariato all’impegnopolitico, perché ci sonosubito riscontri e gratifi-cazioni. È vero che anchele nostre terre sono luo-go di missione molto piùdi ieri, ma questo

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Padova accoglie il Convegno nazionale dei seminaristi

gni ma forse anche per una certa con-centrazione nel “qui e ora” della vita eanche dell’impegno pastorale. Que-st’anno anche pensando al convegno,abbiamo fatto nostre le proposte qua-resimali del Centro missionario diocesa-no per preparare il cuore. Vorremmo nonfosse una cosa in più da fare ma unasana sveglia per la nostra fede».

La messe è molta. È il tema che Mis-sio ha scelto a livello nazionale e l’hadeclinato in occasione del Convegnocon un’accezione particolare: “La mes-se è molta… e grida!”. Come possiamointerpretare questo “grida”?«È il grido dei poveri nel nostro Mar Me-diterraneo, il grido delle guerre in Me-dio Oriente, il grido dei cristiani perse-guitati in tante parti del mondo, il gri-do che proviene dalle Chiese dove sia-mo impegnati. E poi c’è il nostro gridoche ha i tratti di una preghiera soffer-ta. Perché questo calo di vocazioniproprio ora che ce n’è più bisogno? Cosavuole dirci il Signore permettendo que-sto “silenzio vocazionale”? Abbiamobisogno di sentirlo e ascoltarlo».

La dimensione missionaria, in tutti i do-

a maturare una vita spesa per il Van-gelo. Quali sono le perle preziose chesta guadagnando?«Sono prima di tutto i seminaristi, gio-vani disponibili a rispondere positiva-mente alla chiamata del Signore. Oggisono meno di ieri e questo li rende an-cor più perle preziose. Le loro storie, i lorocammini sono per me sempre fonte distupore e di lode al Signore. Una perlapreziosa è anche la vita comunitaria equesta particolare “esperienza di Chie-sa” che è il Seminario. Da più parti si ri-tiene superata la struttura tridentina delSeminario ma anche se cambiasse l’edi-ficio, rimarrebbe la bellezza e la risorsadi un luogo dove dei giovani “stanno colSignore” per essere poi mandati».

È dal 1996 che mancava da Padoval’incontro nazionale missionario dei se-minaristi. Come si sta preparando la co-munità del Seminario?«La proposta di celebrare a Padova il con-vegno missionario è stata per me una sa-lutare provocazione e credo sarà unagrazia per tutta la comunità. Da alcunianni noto una certa fatica a far parti-re il gruppo missionario in Seminario,certamente perché sono tanti gli impe-

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VITA DI MISSIO

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una esperienza fidei donum ver-so le Chiese del Sud del mondo?«Certamente la formazione in Se-minario deve essere capace diosare e di puntare sulle risorse digenerosità che abitano il cuore deigiovani. La testimonianza dei pre-ti fidei donum è importantissimae può diventare contagiosa per inostri seminaristi. La loro presen-za in Seminario è una salutare pro-vocazione. Quando rientrano do-vrebbero mettere sempre in agen-da una celebrazione o un incon-tro con i seminaristi. E poi le diver-se esperienze di servizio e di cari-tà che sono parte delle proposte forma-tive del Seminario: lasciarsi convertire daipoveri, lasciarsi toccare dal loro grido diaiuto per uscire da ogni forma di picco-la borghesia che potrebbe inconsciamen-te nutrire la figura di prete che abita ilcuore dei seminaristi».Camminando tra le antiche mura incon-tro anche un seminarista del quinto annodi Teologia, che tra una lezione e l’altrami dedica un breve momento.

Giovanni, come state vivendo l’attesadel Convegno nazionale?«Ci lasciamo provocare dal vissuto di al-cuni missionari che hanno speso la lorovita per il Signore al servizio del Vange-lo. Abbiamo pensato di dedicare unquarto d’ora alla settimana per affida-re a Dio tutte le terre di missione. Sen-tiamo importante per noi e per il nostrocammino di futuri sacerdoti alimentarequesto spirito di apertura verso il mon-do e le sue necessità, anche se ne sen-tiamo la fatica e i limiti».

Da molti anni c’è l’appuntamento pa-storale in vista del mese missionario…«Sono 18 anni che il nostro Seminario in-veste energie per un’esperienza di annun-cio e incontro nelle parrocchie della no-

non scusa il concentrarsi sul nostro pic-colo mondo».

Parliamo dell’esperienza dei seminari-sti che da 15 anni viaggiano durantel’estate nelle missioni diocesane: ilviaggio quali piste di riflessione apree quali risvolti positivi apporta alle scel-te della loro vita?«L’esperienza estiva dei seminaristi delquinto anno li porta a visitare una del-le missioni della nostra diocesi. Viaggia-re sì, ma privilegiando lo stare e il con-dividere la quotidianità dei missionaristessi. A monte c’è questa consapevolez-za che diventare preti a Padova, potreb-be contemplare anche un impegno mis-sionario. Un’esperienza che ha due fac-ce: se da una parte porta in sé aspetti po-sitivi di apertura e di entusiasmo, dall’al-tra ho avuto l’impressione che 15 gior-ni sono una piccola cosa per inoltrarci inmodo pieno in una missione e nella suavita. Dunque siamo sempre in ricerca peraffinare la formula migliore che comple-ti questa esperienza».

Dal suo qualificato osservatorio qualipiste nuove si possono intraprendereperché questi giovani sentano le gri-da della messe e si sentano chiamati ad

stra diocesi. Una proposta che ci aiuta aformare in noi uno spirito missionarionon esclusivo ma di ogni cristiano chesente l’urgenza di portare Gesù ai fratel-li».

Partiresti per la missione? O ci sono tan-te paure da vincere?«Spesso in Seminario ci capita di parla-re di missione anche grazie alla presen-za di due seminaristi ospiti provenientidal Togo e dal Brasile. Comprendiamoperò anche la difficoltà, il timore, l’im-pegno di lasciare tante certezze che ab-biamo acquisito in Italia, rispetto all’im-prevedibilità di un cammino in una ter-ra diversa dalla nostra».Finalmente un raggio di sole irrompe trale nuvole di questo giorno uggioso, lopenso come uno spiraglio di speranza perla nostra Chiesa chiamata ad andare euscire ininterrottamente. L’augurio èche i giovani che partecipano al Conve-gno sentano il grido della messe, un gri-do che porti all’essenzialità dell’annun-cio, un grido che non può rimanere ina-scoltato, un grido che rilancia ognicuore ad un generoso scambio di fratel-lanza, un grido che attende giovani chesi compromettano… per sempre e per lamissione.

Padova accoglie il Convegnonazionale dei seminaristi

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PIETRO, PESCATOREDI GIOVANI

Cinque mete, nei cinque continenti,in cinque contesti diversi:CamerunCambogiaPapua Nuova GuineaRomaniaEcuadorPer saperne di più scrivi a [email protected] oppure chiama lo 06.66502645

D urante quest’anno pastorale, attraverso la proposta dianimazione missionaria che Missio Giovani ha pensa-

to per i giovani e gli adolescenti, è stato possibile conosce-re cinque missionari, le realtà in cui vivono e nelle quali ope-rano quotidianamente.Cinque missionari per cinque continenti.In Camerun, nella periferia sud di Douala, capitale econo-mica del Paese, padre Serge Tchatche, missionario saveria-no, si impegna nell’animazione missionaria dei giovanidella parrocchia St. Jude.In Cambogia, padre Giovanni Tulino, missionario del Pime,da tre anni vive in questo piccolo Paese del Sud-est asiati-co nel quale abitano pochissimi cristiani per cui la priorità

è proprio l’annuncio del Vange-lo e il mettersi a servizio dellaChiesa locale.Per l’Oceania, c’è padre CiroBiondi, missionario in PapuaNuova Guinea per 22 anni,che racconta la sua esperien-za in una terra “nuovissima” nel-la quale è possibile riscoprirele origini e l’innocenza dell’es-sere umano.In Romania, c’è la missione

delle suore Oblatedell’Assunzione cheda 20 anni gestisconola Casa dei bambini“Santa Maria” del vil-laggio di Barati, nellacontea di Bacau, nelNord-est dello Stato:una grande famigliache attualmente si occupa di 54 ragazzi e ragazze in diffi-coltà tra i sei e i 24 anni.E infine, per il continente americano, c’è don Matteo Mo-retti, teologo e sacerdote nell’arcidiocesi di Portoviejo, inEcuador, dove svolge attività pastorale per una parrocchiaed è vicino alle comunità che sono rimaste colpite dal vio-lento terremoto del 2016 e sono impegnate nella ricostru-zione.È proprio da questo scambio di conoscenze con i missio-nari presenti in questi cinque Paesi che nasce la possibili-tà, per questa estate e per chi ha già vissuto una o più espe-rienze in terra di missione proprio con Missio Giovani, o perchi ha seguito un percorso di formazione missionaria, di par-tire e vivere un’esperienza di missione scegliendo una di que-ste cinque realtà sopra citate.Un invito ad andare a conoscere di persona il missionarioe la realtà in cui vive, a dedicare un periodo di tempo scel-to personalmente e concordato con il missionario che ga-rantirà ospitalità. Un modo per stringere così un rapporto vero,vivendo insieme la stessa quotidianità.

Marzia Cofano

L’ESTATECON MISSIOGIOVANI

L’ESTATECON MISSIOGIOVANI

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Intenzioni

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A P R I L E

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“di MARIO [email protected]

“G iornalisti ed opinionisti che

trovano compiacente ospi-talità sui giornali, sulle rivi-

ste patinate e nei salotti televisivi del-le diverse emittenti nazionali, pubbli-che e private, con il loro pensiero pre-sentato attraverso articoli, servizigiornalistici, dossier televisivi, ecc., cer-cano di orientare l’opinione pubbli-ca italiana verso una visione della so-cietà dove «ci sono già tanti proble-mi che accollarci anche quelli che ilMare Mediterraneo scarica giornal-mente sulle nostre coste, prima o poi

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Per una societàsolidale

avrà un costo insostenibile e finirà conil mandare il Bel Paese in bancarot-ta».L’economia capitalista che domina nelmondo occidentale non aiuta certa-mente a creare una società fraterna esolidale, né tantomeno a ipotizzarla.Il richiamo sugli “scarti della società”che fece qualche tempo fa papa Fran-cesco ci stimola a guardare con occhidiversi le problematiche legate almondo economico attuale.Va detto che alcuni tentativi sono giàin atto in diverse parti del mondo percreare una gestione economica delmondo del lavoro che non classifichigli uomini in “padroni” e “lavorato-ri” secondo una visione tipica dellafine dell’Ottocento. Il fine è quello difar nascere una visione solidaristicanell’opinione pubblica, in cui tutti sisentano impegnati e responsabilizza-ti a costruire dei rapporti di lavoro, edove gli aspetti economici fra i diver-si soggetti siano sempre più a misu-ra d’uomo.Rifiutare quindi come prassi norma-le un’economia dove si escludano per-sone provenienti da altre culturegiunte in mezzo a noi alla ricerca diun lavoro che garantisca un futuro ailoro figli, significa creare un solco che

si allargherà sempre più in futuro. Colrischio di rendere molto difficile laconvivenza fra gruppi di diversaestrazione culturale, sociale, religiosa.Oggi più che mai i responsabili delpensiero e della gestione dell’econo-mia devono avere il coraggio di rifiu-tare un’economia dell’esclusione e sa-per aprire nuove strade per risponde-re alle sfide che ci attendono.I flussi migratori contemporanei co-stituiscono il più vasto movimento dipersone, se non di popoli, di tutti itempi. Di qui la “particolare preoccu-pazione” del papa «per la natura for-zosa di molti flussi migratori contem-poranei, che aumenta le sfide postealla comunità politica, alla società ci-vile e alla Chiesa e chiede di rispon-dere ancor più urgentemente a tali sfi-de in modo coordinato ed efficace».Quattro i verbi su cui, per il papa, sideve articolare la “comune risposta”a tale fenomeno: accogliere, proteg-gere, promuovere e integrare. Un in-vito a cui ogni comunità cristiana nonpuò sottrarsi.

PERCHÉ I RESPONSABILIDEL PENSIERO E DELLAGESTIONEDELL’ECONOMIAABBIANO IL CORAGGIODI RIFIUTAREUN’ECONOMIADELL’ESCLUSIONE ESAPPIANO APRIRENUOVE STRADE

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I N S E R T O P U M

che non furono pochi, perché alla finela sua avventura durò ben otto anni.

LA STORIA FINO AI NOSTRI GIORNIPer capire perché si è arrivato a tuttoquesto, riassume con alcune pennella-te un po’ larghe la recente storia loca-

le: «Dal 1481 con i primi viaggidelle caravelle portoghesi, l’Ango-la è diventata terra da conquista-re. Nei primi secoli i rapporti conil mondo locale sono idilliaci, cisono normali scambi commer-ciali, ma poi quando inizia il traf-fico degli schiavi, lo sfruttamentodella gomma e dell’avorio, s’inne-scano purtroppo grandi scom-pensi a livello sociale. Fino ad ar-rivare ai nostri giorni. Nel 1961dopo anni di oppressione colonia-le, iniziano i primi morti rivoluzio-

nari promossi dall’Unione delle popo-lazioni angolane (Upa) che sarà poiquella che darà vita alla Frente Nacio-nal de Libertacão de Angola (FNLA),uno dei tre movimenti insieme al-l’União National pela Indipendencia To-tal de Angola (UNIAO) e al Movimen-to Popular Libertacão de Angola(MPLA) che è quello che oggi di- »

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continua di “cose nuove e cose antiche”.Quanti racconti nella sua giovane etàaveva ascoltato dai missionari cherientravano! All’inizio degli anni Ot-tanta ha l’opportunità lui stesso di scri-vere nuove pagine che testimonianol’intraprendenza e l’eroicità cappucci-na, la gioia che proviene dalla messe e

dal campo. L’abnegazione e il sacrifi-cio, la temerarietà e la forza giovanilefanno superare ostacoli e tante paure.Così, senza cercarlo o volerlo, si trovaimprovvisamente a fare i conti con larealtà politica del Paese. Cade infatti inun’imboscata mentre va a celebrare eviene rapito dalla guerriglia. Frà Gabrie-le si sofferma a raccontare quei giorni

di GAETANO BORGO*[email protected]

S e al mattino presto senti un rom-bo che improvvisamente ti sve-glia, quello di certo proviene dal-

la moto di frà Gabriele Bortolami. Luinon aspetta l’alba, parte quando anco-ra le stelle sono in cielo e va incontroalle comunità più lontane della missio-ne. Semplicemente lo aspettano!Sono 35 gli anni di missione diquesto frate cappuccino e ognigiorno è così dal 1983: un faro lu-minoso che solca le strade polve-rose della missione con un solo sco-po, incontrare e annunciare.«Guarda che la missione è impe-gnativa, bisogna dare la vita, nonè fatta per andare in cerca di avven-ture». Queste parole, dette primadella partenza dal suo superioreprovinciale, lavorano dentro alsuo cuore e dirigono i primi pas-si. «L’incontro con l’Africa era finalmen-te la realizzazione piena di quello chesognavo, ero contentissimo. Scrivevoin quel tempo nel mio diario: “Gesù,mi costa vederti così, tra lacrime e san-gue; qui invece è tutta vita, tutta gio-ia”. È bellissima la missione!». I primimesi, in quella parte dell’Africa, per fràGabriele sono, infatti, una scoperta

In Africa Diosi trova piùa suo agio

Frà Gabriele Bortolami

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te, dalla vostra calligrafia mi pare di percepire tutta la vostra per-sona: non vi vedo ma vi conosco e vi amo».Da qualche anno suor Pierlaura vive nella comunità delle Missio-narie della Consolata di Venaria Reale dove le sono giunti anchegli auguri della Fondazione Missio, che dal 2005 comprende la di-rezione nazionale delle POM e dell’Opera di san Pietro Apostolo.

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tu fai, tu costruisci, tu sei grande, tuhai la jeep, il telefono, sei un missio-nario efficiente, sei un big, hai tuttii mezzi per fare evangelizzazione. In-vece lì, non avevo niente, ero privodi tutto. Potevamo solo celebrare, ave-vamo solo la Parola. Ecco gli strumen-ti più belli che ho messo in atto: la pa-zienza per poter accogliere ogni situa-zione e l’incontro, dato che scorreva-no le ore silenziosamente senza fret-ta. Mi sono trovato a riscoprirmi

rige con una certa “democrazia” il Pae-se africano».

LÌ È NATO QUALCOSA DI BELLOMi racconta con dettagli i suoi ottoanni di prigionia tra la guerriglia. Manon fu mai solo, c’erano parecchi con-fratelli e consorelle rapiti che condi-videvano quella sorte. Da questaesperienza che l’ha segnato profonda-mente, ha ricavato nel tempo delle ri-flessioni positive ed efficaci. «La cosapiù preziosa che ho avuto modo disperimentare è quella di essere statoin mezzo ai guerriglieri come missio-nario, senza mezzi. C’è sempre que-sto senso di protagonismo nella vita:

A ttorniata dall’affetto delle sue consorelle e dei parenti, il 6 marzo scorso ha gioiosamente festeggiato i suoi 100 anni

suor Pierlaura Trombetta, Missionaria della Consolata, che per ol-tre 30 anni la vissuto la sua vocazione missionaria a servizio del-la Pontificia Opera di San Pietro Apostolo nella direzione naziona-le delle Pontificie Opere Missionarie (POM) in Italia.L’Opera è una straordinaria rete di solidarietà spirituale e materia-le con le Chiese di missione, soprattutto per la formazione dei se-minaristi, dei sacerdoti, dei religiosi e delle religiose locali.Il compito di suor Pierlaura è stato quello di mantenere il contat-to con i sostenitori italiani dell’Opera, rinnovandone le motivazio-ni ideali e tenendoli informati sul cammino vocazionale dei gio-vani candidati al sacerdozio affidati alla loro preghiera ed ai lorosacrifici. Si rivolse così alle oltre diecimila persone riunite nell’Aula Nerviin Vaticano il 9 marzo 1996, in occasione dell’Udienza specialedel compianto san Giovanni Paolo II agli Amici dell’Opera di SanPietro Apostolo, provenienti da tutte le diocesi d’Italia: «Quandoarrivano le vostre lettere o i bollettini postali con le vostre offer-M

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AUGURI PER I 100 ANNI DI SUOR PIERLAURA TROMBETTA

come i primi chiamati: povero pesca-tore e basta».

ANCORA PIÙ VICINO ALL’AFRICAAscoltando frà Bortolami mi sembra diessere dentro al suo film, avvincente enostalgico allo stesso tempo, scritto aquattro mani con Dio, presenza umil-mente nascosta e incarnata come il lie-vito della massaia, grazie alla sua facciasenza paura, grazie alle sue mani vuo-

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ternità e per questo, un po’ alla volta,stiamo lasciando il passo ai nuovi fra-ti africani». Confessa, comunque, chel’Africa a volte fa fatica a crescere. So-prattutto quando imperversano que-ste forme di integralismo politico e re-

ligioso. Il fonda-mentalismo creal’individualismo diun gruppo controaltri gruppi, invecedi aprirsi alla socia-lità. «Nonostantequeste minacce pre-senti sul territorio,le risorse dell’Africasono grandissime esi vedono soprat-tutto per quanto ri-guarda il capitale

umano che andrebbe sempre più va-lorizzato. La mia speranza è che l’Eu-ropa non ingeneri più fenomeni di di-pendenza economica e politica comein passato. È arrivato il tempo di dareall’Africa più libertà».Trentacinque anni di missione hannomaturato nel francescano delle certez-ze. Per lui l’Africa è portatrice di vitanuova. «Dio in Africa, senza dubbio,si trova molto più a suo agio che in al-tri luoghi del mondo, dove c’è indivi-dualismo e una gretta ricerca solo deipropri interessi. Mentre lì è ancoraesplosiva la gioia di vita».Anche per frà Gabriele gli anni comun-que passano, ma lui non si acconten-ta di certo di una vita sedentaria, da cat-tedratico. La sua moto, infatti, è sem-pre pronta a partire. La strada rimar-rà sempre il centro della sua missionee oggi qui, fortunatamente, ha incon-trato noi.

Mi viene da chiedergli: frà Gabriele,ora, cos’è per te l’incarnazione? «È es-sere attenti alle qualità, alle forme, allemaniere di quell’umanità, dove tu seichiamato a vivere. Significa non ave-re le tue idee che esistono, probabil-mente, solo nellatua mente, ma im-parare a unirsi intutto e per tutto aquella cultura, lìdove Dio ti manda,attento a quella lin-gua locale che tudevi imparare a par-lare. Come puoi an-nunciare il Vangelose non conosci laloro lingua? Perquesto, per incar-narmi, il mio primo libro è stata lagrammatica della lingua kikongo».

LA SITUAZIONE ATTUALE: FATICHE E RISORSEDice il frate cappuccino: «In questi annila missione ha fatto passi da gigante,dai primi confratelli eroici del 1600-1700 a quelli che hanno vissuto resi-stendo tra le guerre che scoppiavano.Oggi la missione ha preso una dimen-sione completamente diversa, l’Ango-la è una provincia autonoma con 150frati. In questo passaggio storico, stia-mo sperimentando una maggiore pa-

te che hanno celebrato e battezzato fra-telli guerriglieri in totale gratuità.Un’esperienza che l’ha segnato così pro-fondamente, che rientrato negli anniNovanta frequenta l’Università di Sas-sari e si laurea in antropologia grazie al-l’invito fortuito del professor Mario At-zori, antropologo. «Sono un radioama-tore e nella notte del Natale del 1991raccontavo a un mio confratello del Ca-merun che quel giorno avevo mangia-to solo un mango, tanto avevo corsotra i villaggi senza aver avuto tempo difermarmi. Un Natale un po’ magro! Inquel mentre questo professor Atzoriascoltandoci mi chiese a bruciapelo:“Perché alla luce di questa tua lunga eimportante esperienza non fai qualchestudio più approfondito?”. Ero ben lon-tano da tale prospettiva, ma non so per-ché alla fine gli risposi di sì. È stata unachiamata ad avvicinarmi ancora di piùalla mia Africa».Frà Gabriele ritornerà, infatti, in An-gola dopo cinque anni di studio, invia-to a insegnare presso l’Università cat-tolica di Lusaka. Oggi è professore al-l’Università statale Agostinõ Neto.Certamente è iniziata un’altra missio-ne per il frate veneto: prima a percor-rere le strade polverose per raggiunge-re ogni comunità, poi gli anni di pri-gionia e ora è un apprezzatissimo in-segnante e scrittore di antropologia ematerie inerenti.

*Direttore del Centro missionariodiocesano di Padova

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