LO JUS PRIMAE NOCTIS LA FILASTROCCA IL MONASTERO DI SAN NICOLA DI ... - Il fIlo di ARACNE · 2019....

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Anno III - N° 2, marzo-aprile 2008 Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino “Athena” - Galatina Anno III - N° 2, marzo-aprile 2008 - Autoriz. Trib. di Lecce n.931 del 19 giugno 2006 - Distribuzione gratuita LO JUS PRIMAE NOCTIS LA FILASTROCCA IL MONASTERO DI SAN NICOLA DI CÀSOLE I DRAMMATICI FATTI DI “CRISTO RISORTO” ANTONIO MELE/MELANTON

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Anno III - N° 2, marzo-aprile 2008

Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino “Athena” - Galatina

AnnoIII-N°2,marzo-aprile2008-Autoriz.Trib.diLeccen.931del19giugno2006-Distribuzionegratuita

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C’era una volta...LO “JUS PRIMAE NOCTIS”di Emilio RUBINO 4

Una finestra sul passatoI FRATI MINORI DAL 1494 AL 1580di Pietro CONGEDO 7

Abbazie, chiese e conventiIL MONASTERO DI SAN NICOLA DI CÀSOLEdi Alessandro CAPONE 10

Terra nosciaLA FILASTROCCAdi Piero VINSPER 14

Novecento salentinoI FATTI DI “CRISTO RISORTO”di Mauro DE SICA 16

Historia nostra10 AGOSTO 1480 - “IL SACCO DI OTRANTO”di Valentina VANTAGGIATO 18

Ritagli di storia I PROFUGHI EBREI A S. MARIA AL BAGNOdi Paolo PISACANE 20

Personaggi salentiniANTONIO MELE/MELANTONdi Rino DUMA 23

Freschi di stampa 26

Sul filo della memoriaLA LICENZA DI SCUOLA MEDIAdi Pippi ONESIMO 27

Racconti SalentiniIO E PAOLOdi Gianluca VIRGILIO 29

SOMMARIO

INDIFFERENTE TESTIMONE

Sradicare le radici della vitadal morbido letto di cellulee imparare a sentire l’Infinitogrande e non raggiunto da noi.Sovvertire delle cose il terminecon l’origine della loro presa escoprire semplice l’abbracciopartecipe del giorno.

Smagliare le reti per ricucirlee aprire le foglie del cuoreper affondare inutili meteorititirando a sé lune importanti.Costruire con mattoni antichistrade del domani e chiamare vitala somma di tale continuità.

E tutto chiudere nel buiodi un cassetto mai aperto,indifferente testimone del tempo.

Maria Rita BozzettiGalatina

COPERTINA: Galatina - Chiesa Matrice SS. Pietro e Paolo

Redazione Il filo di Aracne

Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina, edito dal Circolo Cittadino “Athena”,Corso Porta Luce, 69 - Galatina (Le). Tel. 0836.568220 - Mail: [email protected] del Tribunale di Lecce n. 931 del 19 giugno 2006. Distribuzione gratuita.Direttore responsabile: Rossano MarraDirettore: Rino Duma Collaborazione artistica: Melanton - Segretario: Salvatore ChiffiMarketing: Piero Duma, Tommaso Turco - Distribuzione: Giuseppe De MatteisRedazione: Tonio Carcagnì, Mariateresa Merico, Maurizio Nocera, Pippi Onesimo, Piero Vinsper, Gianluca VirgilioImpaginazione e grafica: Salvatore ChiffiStampa: Editrice Salentina - Via Ippolito De Maria,35 - 73013 Galatina73013 Galatina.

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Il filo di Aracnemarzo-aprile20084

C’ERA UNA VOLTA...

Il “diritto della prima notte”, secondo il quale la novella sposa doveva “donarsi” al baronedel paese, giuridicamente non è mai esistito, ma di fatto è stato largamente praticato, per

alcuni secoli e sotto forme diverse, in ogni angolo d’Europa, Salento compreso.

di Emilio Rubino

olto probabilmente questo strano e licenzioso di-ritto (?) nacque dall’errata interpretazione di unaltro diritto, quello del Maritagium, che consiste-

va nel riscatto pagato al barone per compensare un anticodiritto sugli sponsali. In realtà si trattava di una tassa cheil padre della sposa doveva versare al signore per ottenereil permesso di dare una dote alla figlia. Un diritto, quindi,che gravava sui beni e non sulle persone.

Un altro elemento che contribuì a creare molta confusio-ne fu il tributo che i novelli sposi erano tenuti a pagare al-la Chiesa per poter consumare il matrimonio nella primanotte di nozze (da cui lo jus primae noctis), invece di trascor-rerla castamente sulla scorta dell’esempio biblico di Tobia.Per evitare il precetto religioso, infatti, molte coppie (da-narose) preferivano pagare al sa-cerdote una consistente sommadi denaro in cambio di una spe-ciale benedizione che le avrebbeaffrancate dal grave… peccato.

Ben presto al sacerdote si af-fiancarono i vari feudatari che,sovvertendo unilateralmenteogni antica regola, pretesero digodere la primizia della vergini-tà di tutte le spose (belle e piacen-ti) del loro territorio. Il futuromarito si trovava di fronte a duepossibilità: quella di riscattare la propria moglie dagli abusisessuali del signorotto, versandogli mezza marca d’argento,oppure quella di accettare, “capite demisso et orborto collo”, lavergognosa e intollerabile vessazione.

Davanti a tale diffusa prepotenza non mancarono casi dirivolta popolana contro i nobili, i quali riuscivano a seda-re sul nascere ogni tentativo d’insurrezione, potendo con-tare su un nutrito e fedele manipolo di sgherri.

Vi era un altro più importante motivo che suggeriva aivillani di piegare la testa e subire ogni prevaricazione delloro dominus, dal quale dipendevano per ogni aspetto del-la vita quotidiana. Infatti, la casa in cui abitavano, o megliola catapecchia, era di proprietà del signore, così come qua-si tutte le attrezzature agricole. I sudditi dovevano lavora-re per diverse ore al giorno sui terreni baronali in cambiodi una modestissima paga e di misere granaglie, a stentosufficienti ad alimentare la numerosa famiglia. Inoltre il ba-rone accordava loro il permesso di attingere acqua dalle ci-sterne padronali, di far legna nei boschi (soltanto il minimoindispensabile), di spigolare nei campi e di raccogliere gliultimi grappoletti d’uva, le olive marce sfuggite alla rac-colta o qualche frutto ormai sfatto. In pratica i villani era-

no legati mani e piedi perl’intera vita ai loro padroni, iquali, al sorgere della minimadisubbidienza, sospendevanotemporaneamente le concessio-ni o le revocavano sine die, nelcaso di grave insubordinazione.

Anche i pochi “intellettuali”del tempo dovevano rigare drit-ti ed accettare supinamente ognidecisione che veniva dall’alto.Guai a dir male dei loro signorio a tramandare per iscritto epi-

sodi relativi alla pratica dello jus primae noctis o di altri so-prusi: sarebbero stati cacciati immediatamente fuori dalcontado.

Su tutti, ricordiamo il caso a noi vicino del neritino G. B.Tafuri, il quale, per paura di esporsi a gravi ritorsioni, tac-que volutamente sugli inqualificabili crimini e prepotenzedel suo signore. Infatti, egli non fa alcuna menzione neisuoi numerosi scritti dell’eccidio degli ecclesiastici neritini

Preparazione della sposa

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e dei tanti omicidi perpetrati dal sanguinario Guercio diPuglia nel 1647.

Pertanto le vaghe notizie sullo jus primae noctis e su altrimisfatti ci sono pervenute non da documenti scritti, bensìda racconti popolari.

Anche i conti di Nardò pare praticassero un tal diritto e loproverebbe il torrione angolare ad est del castello degli Ac-quaviva, da sempre denominato la “torre ti lu ‘nnamuratu”,nella quale, come narra un’antica leggenda, fu rinchiuso amarcire per il resto dei suoi giorni un giovane neritino, che,per non cedere la propria sposa al malevolo conte, si trave-stì da donna pugnalandolo mortalmente, allorquando il no-bile tentava di mettergli le mani addosso per abusarne.

Le modalità con cui i signorotti facevano conoscere allenovelle spose le loro perfide intenzioni sono avvolte in unalone di mistero, anche perché sono poche le testimonian-ze e gli scritti specifici. Ma è facile intuire la dinamica delmisfatto. Qualche giorno prima del matrimonio alcuniemissari riferivano al padre della sposa o al futuro maritole pretese del signore. Tutto ciò scatenava l’immediata in-dignazione e il rifiuto categorico della donna. Probabil-mente, dopo un’iniziale ma breve reazione, seguiva unsofferto conciliabolo tra i familiari (forse i maschi della ca-sa), i quali, dopo aver soppesato attentamente la situazio-ne, finivano con il convincere la donna ad accettare leavance del signore per salvare il futuro all’intera famigliaed eventualmente godere di qualche ulteriore piccolo pri-vilegio. A lei non rimaneva altro che rassegnarsi e concede-re la sua verginità alle bramosie sessuali del signore padrone.Umiliata e violentata nel corpo e nell’anima, la donna por-tava dentro di sé il marchio indelebile della vergogna.

Un altro esempio eclatante è narrato da Antonio Amato,il quale, avvalendosi di alcune noti-zie tramandate da padre in figlio, inun suo libro1 scrive che “il rituale pre-vedeva che il giorno del matrimonio ilbarone inviasse alla novella sposa unamela su cui era inciso un cerchio trafit-to da una freccia, segno inequivocabiledelle intenzioni dello spregevole indivi-duo”, il quale – aggiungiamo noi – siprendeva anche il lusso di dileggiareripetutamente il nome della donna da-vanti a tutti, familiari compresi.

Si racconta, inoltre, come a Novo-li il famigerato barone Mattei facesse uso, vantandosene,di questa infame pratica. All’indomani di ogni incontroamoroso avuto con la vittima di turno, il malvagio signo-rotto faceva sventolare sulla torre del suo castello di PozzoNuovo una bandiera bianca, nel caso avesse trovato ancoraillibata la sua vittima, una bandiera rossa se invece la po-veretta fosse stata trovata già deflorata. Gli eccessi di que-sto turpe barone finirono, però, con il provocare unacruenta sollevazione popolare, nel corso della quale il feu-datario rimase ucciso e il suo malfamato castello raso com-pletamente al suolo.

Coll’avvicinarsi dei tempi moderni le masse popolari co-minciarono ad acquistare una nuova mentalità e maggio-re dignità, cosicché lo jus primae noctis iniziò a vacillare, per

poi scomparire definitivamente. Ma i feudatari, non poten-do più usufruire dei piaceri carnali delle novelle spose, tra-sformarono l’antica e perversa pratica in una tassa specialesul matrimonio, chiamata “diritto della cunnatica” o anche“ragione delle femmine quando si maritano”.

A tale tassa fa esplicito riferimento un ignoto scrittore inuna sua lettera , datata 22 aprile 1737 e conservata nell’Ar-chivio di Stato di Napoli, il quale, parlando degli abusi deibaroni di Veglie, precisa che “ogni sabato debba il vassallo co-

niugato contribuire al barone un determinato pagamento per es-sersi giaciuto in letto con la propria moglie in quella settimana,il quale pagamento, attrassandosi (attardandosi) di un sabato,nell’altro se ne deve poi sodisfare la multa di maggior somma”.

Tale diritto era valutato in quattro carlini all’anno. Il ba-rone di Torrepaduli, in quel di Ruffano, ha continuato adesigere la tassa sino a tutto il 1750 .

Poi, grazie all’abolizione del sistema feudale (12 agosto1806) fu spazzata definitivamentel’ignominiosa impalcatura su cuiprosperavano prevaricazioni, turpi-tudini, sofferenze ma anche atti divera barbarie da parte dei feudatari.

Oggi, meno male, si respiraun’aria nuova, diversa. La donna hafinalmente rotto le catene della sot-tomissione al “fiero maschio”, haconquistato una posizione socialegratificante e non più umiliante,svolge compiti e mansioni di pri-m’ordine. Ma non è tutto. La donna

deve ancora affrancarsi da se stessa, cioè da quell’antico re-taggio che si porta ancora dentro e che le ostacola il nor-male processo evolutivo della propria personalità.Purtroppo, in questi ultimi cinquant’anni, si è essenzial-mente impegnata ad apparire donna (è sin troppo facile),ma poco ha fatto per diventare donna (è molto difficile).

Gli uomini (quelli veri) non hanno bisogno di donne difacciata, di figure imbellettate e profumate, frivole e fasci-nose, bensì di donne colte, intraprendenti, vivaci, libere daogni condizionamento sociale e, tutt’al più, un po’… mi-steriose e seducenti. ●_______________NOTE1Il libro in questione è “C’era una volta… Castrignano de’ Greci”.

Vestizione della sposa

Il barone rivendica lo “Jus”

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l duca di Calabria Alfonso d’Aragona, figlio primo-genito di Ferdinando I e di Isabella Chiaromonte,succedette al padre sul trono di Napoli nel genna-

io 1494 col nome di Alfonso II. Egli si era sempre dimostra-to valoroso uomo d’armi (aveva anche lottato con successocontro i Turchi a Otranto nel 1480-‘81), ma nello stesso tem-po si era rivelato politico poco accorto e molto impruden-te, infatti a causa sua erano aumentate le discordie esistentinel Regno e le inimicizie con altri Principati italiani. Tutta-via ebbe grande ammirazione e benevolenza per i monacidella Congregazione di S. Maria di Monte Oliveto. A talproposito lo storico Pietro Giannone nella sua “Storia Civi-le” lo descrive addirittura “…affezionatissimo all’Ordine oli-vetano che straordinariamente arricchì ”. Ma per fare ciò eglinon faceva altro che togliere ricchi monasteri ad altri Ordi-ni religiosi per donarli agli Olivetani. Volendo conceder lo-ro anche il Complesso cateriniano dovette, però, procederecon cautela e per gradi a causa delle caratteristiche assi-stenziali dello stesso. Perciò prima cercò di ottenere da pa-pa Alessandro VI una bolla, in virtù della quale i benidell’Ospedale orsiniano dovevano essere uniti al Conven-to S. Caterina e fatti amministrare non da laici, ma “senzadolo e senza frode” da religiosi di un Ordine possidente. Suc-cessivamente fece in modo che i Frati Minori Osservanti ri-nunciassero a Chiesa e Convento. Infatti, mentre era incorso a Napoli il Capitolo provinciale di detti Frati, fececonvenire il loro Vicario Generale e quello Provinciale di-nanzi al notaio della curia arcivescovile, perché fossero in-formati che il Re era convinto che i Frati Minori, essendovotati alla povertà, non potessero più dimorare nel Con-vento di S. Caterina e gestirne il patrimonio, perciò inten-deva sostituirli con religiosi possidenti.

Il 4 maggio 1494 i Francescani rinunciarono a Chiesa eConvento S. Caterina “per secondare lo zelo di Alfonso II”, edodici giorni dopo, cioè il 16 dello stesso mese, il legatopontificio a Napoli, cardinale Giovanni Borgia, nipote dipapa Alessandro VI, dispose la concessione a favore degliOlivetani dell’intero Complesso cateriniano con un docu-mento, in cui ebbe cura, però, d’inserire una clausola, conla quale s’imponeva ai monaci l’osservanza della “hospita-litas” nei riguardi dei poveri da assistere e degli ammala-ti da curare nel nosocomio di S. Caterina.

La presa di possesso degli Olivetani, avvenuta il 28 lu-glio 1494, fu fortemente contestata dai galatinesi, che da unlato perdevano l’assistenza spirituale dei Frati Minori, dicui avevano goduto per più di un secolo, dall’altro la loroUniversità veniva privata della partecipazione alla gestio-

ne dell’Ospedale, ottenuta da Ferdinando I nel 1487.Alfonso II abdicò il

23 gennaio 1495 a fa-vore del figlio Ferdi-nando II (dettoFerrandino), che unmese dopo (cioè il 22febbraio 1495) dovet-te lasciare Napoli,scacciato dal re diFrancia Carlo VIII,per poi tornarvi nelsuccessivo mese di lu-glio, cioè dopo la bat-taglia di Fornovo (6luglio 1495), quandoil sovrano francese la-sciò l’Italia per rientrare in patria.

Pertanto rimase senza risposta un ricorso presentato a Car-lo VIII (nel breve periodo in cui lo stesso era stato sul trono diNapoli) dai Frati Minori Osservanti, che avevano chiesto dipoter rientrare nel Convento S. Caterina di Galatina, dal qua-le sostenevano essere stati scacciati in virtù di una bolla surret-tizia (cioè di un documento papale, nel quale erano occultatiintenzionalmente particolari rilevanti), che re Alfonso II ave-va a suo tempo ottenuto da Alessandro VI.

Ferdinando II morì senza figli a 36 anni il 7 ottobre 1496 egli succedette il proprio zio, cioè il fratello di Alfonso II, colnome di Federico III, il quale perdette il trono nel 1504 in se-guito alla guerra franco-spagnola, finita con la vittoria diFerdinando il Cattolico, re d’Aragona e marito di Isabella diCastiglia, e quindi con la fine dell’indipendenza dell’anticoRegno di Napoli, il quale divenne una Provincia Spagnola etale rimase per più di due secoli, governato da Vicerè.

Intanto i monaci di Monte Oliveto nel 1504 venivano con-fermati nel possesso del Complesso cateriniano sia dal So-vrano spagnolo che da papa Giulio II, eletto nel 1503.

Nel 1506 lo stesso Giulio II, contraddicendo se stesso, or-dinò all’Arcivescovo di Otranto di cedere l’ospedale e il re-lativo patrimonio a un tal Bellanzio de Ungariis, forse suodomestico. Perché ciò non avvenisse gli Olivetani da un la-to rivolsero suppliche al Pontefice perché recedesse dallasua decisione, dall’altro richiesero l’intervento di Ferdinan-do il Cattolico, ma nello stesso tempo trattarono diretta-mente col de Ungariis, compensandolo con una grossasomma di denaro.

Nel gennaio 1507, proprio mentre era in corso la verten-

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I Frati MinoriI Frati Minorinel Convento di Santa Caterina di Galatina

dal 1494 al 1580

di Pietro Congedo

UNA FINESTRA SUL PASSATO

Fra’ Pietro Colonna

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za tra gli Olivetani e il de Ungariis, il frate minorita galati-nese Pietro Colonna1, detto il Galatino, fece omaggio al reFerdinando il Cattolico della sua opera “De optimo princi-pe” con la seguente dedica: “Prego dunque che la tua maestàsi degni di accettare il mio piccolo dono con volto benevolo (co-me è tua abitudine) e che consideri affidati alla tua benevolenzame, il mio Ordine, del quale si sa che sei molto devoto, la stessa(mia) patria e tutto questo regno” (traduzione dal latino).

Non è da escludere che con tale omaggio il Galatino ab-bia voluto richiamare la benevola attenzione del Sovranospagnolo sui problemi della Comunità francescana, cheaveva perduto il convento di S. Caterina, nel quale essaaveva dimorato per più di un secolo. Comunque è certoche qualche mese dopo, in maniera inaspettata, ma senzadubbio d’intesa col pontefice Giulio II e col re Ferdinando,entrò in scena il cardinale Giovanni Antonio di S. Giorgio,vescovo di Frascati, detto il cardinale Alessandrino, il qua-le riuscì a mettere d’accordo gli Olivetani con i Francesca-ni. Infatti, con atto notarile del 1° giugno 1507, fra lerispettive Congregazioni, fu convenuto quanto segue:

- gli Olivetani cedevano ai Frati Minori Osservanti lachiesa e il convento di S. Caterina, con tutti gli arredi e lesuppellettili in essi esistenti, insieme al giardino denomina-to “Parco” (ma comunemente detto “Barco”), posto all’ester-no delle mura del paese;

- i Frati Minori Osservanti rinunziavano ad ogni diritto epretesa sull’Ospedale orsiniano e a tutti i privilegi ad essoconcessi da sovrani e da pontefici; inoltre cedevano per treanni ai monaci olivetani le case dette del principe e s’impe-

gnavano a non rimuovere dal 1° altare della navata destrala statua di S. Benedetto, che gli Olivetani avevano fattoscolpire dal galatinese Nicolò Ferrando.

Il successivo 4luglio questa in-tesa fra i dueOrdini monasti-ci, detta ufficial-mente “concor-dia”, fu appro-vata e confer-mata da papaGiulio II con ap-posita bolla. Ciònonostante gliOlivetani, rima-sti senza chiesae senza conven-to, cominciaro-no subito aspendere per lacostruzione diuna propria Ab-bazia le risorsep a t r i m o n i a l idell’Ospedale,mentre i Frati Minori furono rispettosi della “concordia”,anche se può sembrare che essi, considerando quasi unaprovocazione l’obbligo di non rimuovere la suddetta sta-tua di S. Benedetto, abbiano tempestivamente contrappo-sto ad essa nel 1° altare della navata sinistra del tempioorsiniano un gruppo scultoreo, nel quale si notano S. Cate-rina ed un guerriero cinquecentesco con la testa coronata(Alfonso II d’Aragona ?), che cadendo va a finire ai piedi esotto la ruota del martirio della Santa alessandrina.

L’Università di S. Pietro in Galatina 1564 ricorse ai giudi-ci della R. Camera della Sommaria per accusare gli Olive-tani che, mentre spendevano a loro piacimento i proventidestinati all’Ospedale, non rispettavano l’obbligo di cura-re gli ammalati e di prestare assistenza ai poveri e negava-no ai Francescani il contributo annuo necessario perl’esercizio e la manutenzione della Chiesa di S. Caterina, laquale rischiava di andare in rovina; infatti il campanile eracrollato da parecchi anni, ma non era stato ricostruito. Nel-la vertenza s’inserirono nel 1566 i Frati Minori Osservanti,i quali per sostenere il proprio diritto al contributo sud-detto, assegnato loro da Raimondo del Balzo Orsini, pre-sentarono al R. Collaterale Consiglio le copie deidocumenti probatori possedute.

Ma l’avvocato di parte avversa, poiché una di dette copiepresentava un’abrasione, riuscì a protrarre l’istruttoria,chiedendo la pergamena originale, che non era facile rinve-nire. Con questo e con altri cavilli simili, l’intero processofinì insabbiato e non fu ripreso neppure quando il sacer-dote galatinese Francesco Maria Vernaleone ne informò iPadri del Concilio di Trento con la sua “Oratio dicenda inAecumenico Concilio Tridentino contra Monacos Montis Olive-ti de S. Pietro in Galatina”.

Papa Leone X, successore di Giulio II, nel 1516 con il breve

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Galatina - Chiesa di Santa CaterinaStatua della Santa

Galatina - Chiesa di Santa CaterinaStatua di San Benedetto

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“Romanorum Pontificem” indisse il Capitolo Generalissimo Ro-mano dell’Ordine Minoritico, che decise la separazione deiFrati Minori Osservanti dai Frati Conventuali, la quale fu ese-cutiva con la bolla “Ite vos” (29 maggio 1517).

L’ultimo ministro della “Provincia Apuliae” (che sin dal1514 era intitolata a S. Nicolò) nell’ultima fase unitaria del-l’Ordine dei Frati Minori fu Pietro Colonna ‘Galatino’, ilquale fu poi eletto Ministro provinciale dei Minori Osser-vanti per il triennio 1536-1539.

Durante il XVI secolo la Regolare Osservanza Puglieseespresse la propria maturità organizzativa e l’urgenza del-la restaurazione della spiritualità francescana, nel pieno ri-spetto dei decreti emanati dal Concilio di Trento, con varidocumenti, tra cui gli importanti “Statuti Provinciali dei Fra-ti Minori Osservanti della Provincia di S. Nicolò”, approvatinel XX Capitolo Provinciale, convocato nel 1585 da fra Lo-renzo Mongiò2 da Galatina, il quale era al termine del suoprovincialato iniziato nel 1581. Detto Capitolo fu tenuto adAndria, sotto la presidenza del Ministro Generale fra Fran-cesco Gonzaga, che sin dal 1579 era impegnato nella realiz-zazione di un programma tendente a riportare l’Ordine deiFrati Minori Osservanti alla spiritualità delle origini, me-diante il rigoroso rispetto dei voti di povertà, castità e ob-bedienza.

Gli Statuti Provinciali Pugliesi furono fortemente in-fluenzati dalla “forma mentis” rigorista del Gonzaga, infat-ti in ordine alla povertà contengono ammonizioni come leseguenti:

- “…cerca di denaro non si farà in modo alcuno per li nostri

conventi, né da frati o terziarij, né da altre persone…”;- “…si proibisce indispensabilmente ogni sorte di panno alto e

si concede ogni sorte di panni bassi per vestirsi in questa Pro-vincia…”;

- le celle dei Frati si arredino “…delle cose necessarie” e

quelle riservate ai Ministri provinciali siano sistemate“…semplicemente senza curiosità e pompa…”.

I Francescani della Regolare Osservanza riscossero sem-pre pieno consenso e grande riconoscenza da parte dei ga-latinesi, come è dimostrato sia dalle entusiasticheaccoglienze rese ai Ministri Generali fra Luigi Pozzo (29aprile 1566) e fra Francesco Gonzaga (23 dicembre 1580),sia dal costante sostegno delle loro richieste tendenti ad ot-tenere dagli Olivetani il contributo annuo per l’esercizio ela manutenzione di chiesa e convento. ●

____________NOTE

1 Pietro Colonna (1460 ca. – 1540 ca. ) nacque da umile famiglia a S. Pietroin Galatina, perciò fu detto “il Galatino”. Indossò giovanissimo l’abito deiFrati Minori Osservanti e, avendo dimostrato notevole intelligenza, ecce-zionale capacità nello studio e sincera vocazione religiosa, i suoi superio-ri gli fecero completare gli studi a Roma, dove poi trascorse buona partedella sua vita. Ebbe una profonda conoscenza del latino e del greco, stu-diò alcune lingue orientali e in particolare l’ebraico. Entrato nel noverodei più famosi umanisti dell’epoca, fu molto stimato come teologo, filoso-fo ed esegeta, ebbe rapporti con pontefici e cardinali, e corrispondenzacon re ed imperatori. Scrisse numerose opere, fra cui il famoso “De Arca-nis Catholicae Veritatis”, del quale una copia è conservata nella Bibliote-ca Comunale P. Siciliani di Galatina. 2 Lorenzo Mongiò (1551 – 1632 ), nato a Galatina, dopo avere intrapresogli studi umanistici, aveva deciso di prendere l’abito dei Cappuccini, mapoi entrò nell’Ordine dei Frati Minori Osservanti, su suggerimento delproprio cugino fra Clemente Mongiò. Questi era stato eletto due volte(nel 1563 e nel 1577) Ministro provinciale di detto Ordine e alla sua mor-te (1588) fu seppellito in S. Caterina, nella parete sinistra del presbiterio(v. foto del sarcofago). Fra Lorenzo Mongiò, dopo esser stato anche luiper due periodi Ministro provinciale (a partire rispettivamente dal 1581e dal 1594), fu per due anni Amministratore dei Pontificali dell’Arcive-scovo di Salisburgo e successivamente ebbe per sei anni analogo incaricopresso l’Arcivescovado di Valenza. Fu poi per otto anni Arcivescovo diLanciano e nel 1617 fu trasferito nella diocesi di Pozzuoli, che governò fi-no al 1630. Il suo mausoleo, donato dai fedeli puteolani, è nella ChiesaMatrice di Galatina (v. foto).

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Pietro Congedo

Galatina - Chiesa MatriceMausoleo di Fra’ Lorenzo Mongiò

Galatina - Chiesa di Santa CaterinaTomba di Fra’ Clemente Mongiò

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l monastero di San Nicola di Casole, nei pressi diOtranto, fu fondato nel 1098-1099 per volontà delnormanno Boemondo I, principe di Taranto e di

Antiochia. In breve tempo divenne uno dei più importan-ti monasteri dell’Italia meridionale e un prestigioso centroculturale. Sotto la guida del colto abate Nettario (1219-1235) si sviluppò un circolo poetico la cui produzione testi-monia una notevole vivacità letteraria. A Casole, chedoveva possedere anche una grande biblioteca, furono co-piati parecchi manoscritti ora conservati in numerose bi-blioteche italiane e straniere.

Tuttavia la parabola del monastero, che rappresentavaun punto di raccordo tra Oriente e Occidente, si interrup-pe bruscamente alla fine del XV secolo. L’esercito turco,guidato da Achmet Pascià, si presentò alle porte della cit-tà sul finire del luglio 1480: Otranto fu espugnata l’11 ago-sto e in quello stesso giorno fu trucidato il vescovo StefanoPendinelli con tutti i fedeli che assistevano alla celebrazio-ne in cattedrale. La furia non risparmiò cose e uomini – èben noto il sacrificio degli 800 martiri –, in città e nella cam-pagna circostante, compreso il monastero di Casole. Il Lag-getto nella sua Storia (1537) riferisce che, durante laoccupazione, i Turchi si erano fortificati nella città e aveva-no trasformato l’abbazia, che ben si prestava per la posi-zione geografica (sul monte Idro), in una sorta di posto diguardia con scuderia e magazzino dell’esercito, da qui par-tivano per depredare i casali vicini.

Esiste una tradizione, testimoniata da Francesco MariaDe Aste, vescovo di Otranto (1690-1719), secondo cui soloun monaco casolano si sarebbe salvato dalla strage, fug-gendo dalla città idruntina, dove sarebbe ritornato l’annosuccessivo al seguito del duca Alfonso d’Aragona che ri-conquistò Otranto. Il monaco sopravvissuto, che ha datolo spunto per un recente romanzo (R. Gorgoni, Lo scriba di

Casole, Besa 2004) avrebbe scritto tre opere: sulla storia delmonastero, sull’assedio di Otranto e un panegirico in ono-re dei martiri, tutte perdute.

Il primo riferimento al monastero distrutto si legge nelLiber de situ Iapygiae di Antonio de Ferrariis, detto il Gala-teo (1444-1517), il quale esercitò la professione di medico invarie città, tra cui Napoli, dove acquistò rinomanza tale dadiventare assiduo frequentatore della Corte e membro del-la famosa Accademia Pontaniana. Nel 1481 il Galateo par-

tecipò alla riconquista di Otranto da parte degli Aragonesi.La sua opera, composta tra il 1512 e il 1513, quindi circa

un trentennio dopo l’attacco turco, è una descrizione dellapenisola salentina. Ecco il passo in cui l’autore dà uno spac-cato della storia e dell’attività del monastero: «Dopo il por-ticciolo, a una distanza di un miglio e mezzo, viene uncenobio dedicato a San Nicola, dove risiedevano i monaci

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Cisterna sormontata da un puteale ricavato forse da un altare

ABBAZIE, CHIESE E CONVENTI

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del grande Basilio […] Chiunque volesse dedicarsi alle let-tere greche riceveva da loro, senza alcuna ricompensa, lamaggior partedel vitto, un pre-cettore e un al-loggio. In talmodo la culturagreca, che perdeogni giorno ter-reno, ne traevasostegno. Ai tem-pi dei miei proa-vi, quando an-cora esisteval’Aula costanti-nopolitana, visoggiornò il filo-sofo Nicola daOtranto, del qua-le il monasteroconservava nu-merosi libri dilogica e di filoso-fia, redatti prima del passaggio dei Turchi. Egli, dopo chefu eletto abate del monastero e fu soprannominato Niceta,fu spesso inviato dal sommo pontefice presso l’imperato-re e viceversa, allorché fra l’uno e l’altro sorgeva una con-troversia in materia di ortodossia o su altri soggetti […]Senza badare a spese allestì in questo cenobio una biblio-teca di ogni genere di libri che gli riuscì di trovare in tuttala Grecia. Di essi il maggior numero è andato perduto perla negligenza dei Latini e per la caduta di interesse verso lelettere greche, mentre una quota non piccola è stata trasfe-rita a Roma, presso il cardinale Bessarione [1400-1472], eda lì a Venezia. La parte restante è stata spazzata via dalleguerre portate dai Turchi, i quali devastarono il monaste-ro».

Da queste parole emerge come Casole fosse davvero uncentro culturale di primo livello e come i monaci che untempo – significativo l’imperfetto – lo frequentavano rive-stirono incarichi diplomatici assai delicati. Il Galateo pur-troppo non ci dà una descrizione delle condizioni in cuiversava il monastero; di certo, però, se ne ricava l’idea delcompleto abbandono e l’assenza di qualsiasi iniziativa diricostruzione.

L’abbandono del monastero continuò fino al 1527, annoin cui Clemente VII (1523-1534) emanò la bolla Ad apostoli-cae dignitatis, con la quale concedeva privilegi ad Otrantoper riparare i danni causati dai Turchi e consigliava che al-meno una terza parte dei frutti dell’abbazia di Casole, «de-gna della più grande venerazione» e «distrutta etrasformata in stalla per animali», venisse utilizzata per ri-parare la chiesa stessa. L’appello del pontefice fu ascoltato,come dimostra la testimonianza di Pietro Antonio De Ca-pua, arcivescovo di Otranto (1536-1579), che il 18 settembre1538, visitando la chiesa, poté ascoltare messa e incontrarel’abate e alcuni monaci; questi, però, non erano più greci,ma latini e di rito latino.

Datato al 25 aprile 1665 è l’inventario analitico di tutti i

beni del monastero redatto dal notaio Carlo Pasanisi. Que-sto documento preziosissimo, conservato presso l’archivio

di Stato di Lecce,oltre a darci unelenco dettagliatodi tutti i possedi-menti del monaste-ro, ci offre ancheuna minuziosa de-scrizione del com-plesso: la chiesa,corredata di tutto ilnecessario per uncorretto funziona-mento, si affacciasu un vasto cortileinterno. Due cap-pellani celebrano lamessa. Lungo il la-to sinistro del corti-le c’era una “La-mia”, cioè una casadi campagna rusti-

ca con tetto a volta, per la quale si accedeva a una salettacon cucina e cinque celle quasi distrutte. Vi era una casadetta “lo molino” e nei pressi un antico forno detto “lo mo-lino vecchio”. In quello stesso luogo si trovavano dei localiormai in rovina che raccoglievano molte pietre antiche. Neipressi della chiesa c’erano ancora delle “curtes” con pecoree capre. Sul lato destro vi erano altri edifici decadenti, ungiardinetto al fianco della chiesa al quale si accedeva dauna porticina della chiesa stessa e, infine, una cisternasconnessa e mal funzionante. La descrizione del notaio èdi fondamentale importanza sia perché ci consente di ave-re un quadro realistico della struttura, non molto diversadall’attuale, sia perché testimonia lo stato di rovina in cuiil complesso versava; se nella chiesa si svolgeva l’attività li-turgica, il caseggiato aveva assunto una funzione affattodiversa: l’abbazia di San Nicola di Casole era a tutti gli ef-

fetti diventata una masseria, qual è tuttora.Non è qui possibile ripercorrere tutte le altre testimo-

nianze sulla storia di Casole distrutta. Ricordiamo solo da

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Esili tracce degli affreschi

Rovine della zona absidale e lato destro della chiesa

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ultima quella di Cosi-mo De Giorgi (1842-1922), il quale tenne lacattedra di Storia Na-turale presso la ScuolaTecnica-Normale diLecce, dove iniziò lasua attività di studiodell’ambiente salenti-no sotto i punti di vi-sta più svariati. Irisultati della sua in-tensa attività sonocontenuti in moltiscritti, tra i quali i duevolumi dal titolo LaProvincia di Lecce, checostituiscono un sin-golare compendio dei suoi interessi scientifici e delle suequalità umane. Proprio nel secondo volume di quest’ope-ra (1888) egli fornisce un ritratto dettagliato del monasterodella chiesa di Casole: «La facciata della chiesa fu in parterinnovata un paio di secoli fa e non serba alcun vestigiodell’antico. L’interno è ad una nave, divisa in due compar-timenti trasversali con due piani diversi nel pavimento.Nel punto di divisione si vede un arco ogivale sovrappostoa due fasci di colonne alte ed esili che si sfioccano forman-do i cordoni della volta nel compartimento posteriore. L’an-teriore corrisponde al tempo della facciata. Quelle colonnepolistile, addossate alle due pareti volte a Nord e a Sud, so-no uno dei pochi esempi dell’architettura gotica in Terrad’Otranto. L’abside antica è stata anche trasformata in unsemiesagono irregolare e il vuoto di essa è occupato da unaltare barocco del Seicento. Di questo tempo è pure l’An-nunziata, dipinto nel fondo della Abside […] L’interno eratutto decorato di pitture di santi con iscrizioni greche sul-le pareti. Oggi resta ancora un San Nicola di grandi pro-porzioni […], ma ha perduto la faccia per lo scrostamentoavvenuto nell’intonaco. Ai due lati vi sono due figure, rap-presentanti i due Santi Medici […] nella parete volta a Suddel primo compartimento. In quella volta a Nord si vedeun San Leonardo […] questa pittura di carattere del tuttodiverso da quelle sopra accennate, è più recente, e deve ri-ferirsi senza dubbio ad uno dei tanti restauri […] Indi se-gue la pittura non antica, rappresentante S. Basilio […]siede dinanzi a un tavolo, ed è vestito di paramenti sacri al-la greca, e sopra un cartello si legge: S. Basili […] La chiesaè in uno stato miserevole, perché ridotta a deposito di fie-no e di attrezzi rustici; sicché quelle pitture fra non moltoscompariranno, e dell’antico Cenobio non resterà altro cheil nome. Tal sorte ha di già subito l’Abbazia e se ne vedo-no appena le tracce fra le nuove costruzioni della fattoria».

La profezia di C. De Giorgi si è avverata: la chiesa è com-pletamente distrutta, tranne che per un lato ancora in pie-di. Il crollo deve essere avvenuto probabilmente nei primidecenni del Novecento, come attesta un’anziana nata a Ca-sole. Il complesso architettonico è oggi noto come masseria“Santu Nicola” e i locali sono adibiti a deposito di attrezzio a stalle per il bestiame. Entrando dalla parte dell’antico

accesso dell’abbazia, chesi trova all’opposto del-l’ingresso attualmenteprincipale, ci si trova inun cortile, al centro delquale vi è una cisterna,sormontata da un putea-le, ricavato forse da un al-tare. Proprio di fronte sipossono ammirare le ro-vine della chiesa . Fortu-natamente il lato sinistro,su cui si osservano anco-ra esilissime tracce di af-freschi, è rimasto in piedigrazie al sostegno dellacostruzione adiacente,mentre la zona absidale e

il lato destro sono andati pressoché distrutti. Della gloria diCasole rimane dunque ben poco, ma un restauro diligentepotrebbe contribuire a preservare le attuali vestigia e resti-tuire informazioni assai importanti per la cultura salentinae per la comunità scientifica. ●

Vista del lato sinistro della chiesa

Alessandro Capone

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Una tradizione orale

Un motivo degli adulti per istruire, a volte, i bambini divertendoli

di Piero Vinspera parola filastrocca deriva dal termine popolare to-scano filastròccola; si comprendono sotto questo no-me canzonette e formule cadenzate, recitate dai

bambini o dagli adulti per quietare, addormentare e istrui-re, divertendo, i ragazzi.

Sono ordinariamente un’accozzaglia di sillabe, di parole,di frasi, che talvolta riproducono indefinitivamente lo stes-so motivo; idee, parole e frasi che si seguono accostate dalcaso più che dal nesso logico.

Il metro è breve, assonanzato o rimato, con ritmo celere.Vi predomina il gioco delle rime, che sono per lo più a cop-pia o al mezzo, e quello delle riprese della parola, che necostituiscono la principale risorsa.

Genere affidato alla tradizione orale, è stato coltivato dadiversi poeti, come il Burchiello, L. Leporeo, F. Redi, O.Guerrini.

Totorotò signor Tommasut’have piaciuto ‘u pane e lu casu?

La cipuddhra nu tti piace?Totorotò signor Tommasu

Questo vale per i bambini schifiltosi nei cibi: mangia-no certe cose altre no; non perché abbiano una certa pre-dilezione per le une ma perché non hanno maiassaggiato le altre.

Lu casu ti fete a llu nasula ricotta nunn è cottalu sieru è de li cani

nun c’è nienti pe lli cristianiEd ecco che il genitore prende la palla al balzo e am-

monisce: il formaggio ti puzza, la ricotta non è cotta, ilsiero è per i cani, non c’è niente per le persone. Perciòadàttati a ciò che passa il convento e mangia quello cheti si porge innanzi.

Quandu lu ciucciu facia lu cocucu llu culu fiatava lu focucu lli piedi stumpava lu salecu lla cuda scupava le scale

cu lla lingua llavava ‘a bbadellaviva lu ciucciu de Ciciriniella

Simpatico quest’asino che, oltre a svolgere la mansionedi cuoco, si prodiga a mantenere viva la fiamma soffiandocon il fondoschiena sul fuoco. E non solo: ce la mette tuttaa rendere fino il sale pestandolo con gli zoccoli; mantienepulita la scala scopandola con la coda; pulisce i rami lec-candoli con la lingua. Veramente giudizioso quest’asino! Ese tutti quanti quegli altri asini che sguazzano nelle man-giatoie del potere si comportassero in questa maniera, chici guadagnerebbe? Di certo non loro in quanto asini, ma lealtre persone che asini non sono.

Comunque questo Ciciriniella doveva essere un perso-naggio molto noto al popolo se si canta ancora

Ciciriniella tenia nu canemozzacava le cristiane

mozzacava le caruse bbelleviva lu cane de Ciciriniella

A volte accadeva che i genitori, per far divertire i bambi-ni, li prendevano, li mettevano a sedere a cavalcioni sulleproprie ginocchia e dicevano

Sotta carrozza de miu cumparehave nu vecchiu ca sape sunaresape sunare lu vintiquatthruuna doi tthre e quatthru

Mi rumpisti lu menzu piattumi lu ccatti finu finu

schiatta e crepa malandhrinuLu menzu piattu è il piatto mezzano. In tempi remoti le fa-

miglie povere non possedevano i tipi di piatti esistenti aigiorni d’oggi. Ci si adattava a mangiare tutti nello stessopiatto, sia in quello grande sia in quello menzanu. Anzi lemamme, per abituare i piccoli a prendere il cibo con il cuc-

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terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia

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chiaio o con la forchetta dal piatto, intonavano questa can-tilena: piattu crande, piattu menzanu vota l’occhi e fai cusì, mo-strando loro come dovevano fare.

Mani manizzi mani manizzivene lu tata e nduce lu zzizzie llu mente susu ‘lla bbancavene la muscia e ssi lu rranca

isti isti de casa miaSi prendevano le mani dei bambini e, recitando la filastroc-ca, si facevano, alternativamente, delle carezze sul proprioviso e su quello del ragazzo. Giunti all’isti isti de casa mia(via via da casa mia!) riferito alla gatta, si spingeva il fan-ciullo all’indietro e lo si solleticava, suscitando le sue so-nore risate.

Oppi oppi cavallucciusciamu a Lecce cu llu papà

ni ccattamu nu bbeddhru ciucciuoppi oppi cavallucciu

Muovendo le ginocchia in senso sussultorio si dà la sen-sazione al bambino che stia cavalcando: in breve tempo sigiungerà a Lecce, si comprerà un asino e poi in fretta si ri-tornerà a casa.

Totu totallazzumpa ‘a palla

zzumpa ‘u pallone‘u Totu miu

ede nu mmaccarroneTenendo il bambino per le manine, lo si fa saltellare simu-lando il rimbalzo della palla o del pallone e poi si finisce coldirgli che è uno stupido per certi suoi movimenti scomposti.

Zzumpa zzumpettaMaria Lisabbettalu pede tisu tisu

e sciamu ‘n paravisuSaltella, Maria Elisabetta, come una saltatrice, con i pie-

di dritti dritti e così andremo in paradiso. E già; in paradi-so si va in punta di piedi, senza far rumore, leggeri, mondida tutti i peccati terreni.

Era ‘na fiata ‘na muscia nchiatase bbinchiau de simulatase bbinchiau de simulone

o cc’è bbeddhru ‘stu maloneC’era una volta una gatta con la pancia gonfia, ben roton-

detta, si era saziata di semolata, si era saziata di semolone.Quant’è bello questo mellone. Il mellone, naturalmente, erala pancia del bambino, la quale, alla fine del verso, venivaaccarezzata e solleticata più volte.

Era ‘na vota ‘na malotaca facia ci cchiù vota, ci cchiù votavo’ tti lu dicu ‘n’addhra vota?

C’era una volta uno scarafaggio che andava camminan-do su e giù, avanti e indietro, alla ricerca di qualcosa. Vuoiche te la racconti un’altra volta? A questa domanda il ra-gazzo annuiva sempre; di conseguenza la filastrocca veni-va ripetuta tante volte sino alla noia.

Chiovi chiovil’acqua de li vovi

l’acqua de li geddhrini bbagnamu li piediceddhri

Quando nel periodo estivo cessava l’acquazzone ed unapioggerellina fine e sottile scendeva giù, potevi vedere frot-te di bambini uscire dalle loro case e sguazzare nelle poz-zanghere pestando l’acqua con violenza. Tutti insiemecantavano: “Piovi, piovi! L’acqua è buona per i buoi e pergli uccelli; noi intanto ci bagniamo i piedini”. Badate beneche l’ultimo verso poteva essere cambiato a seconda dellaloro inventiva. Se stavano mangiando un grappolo d’uva:ni mangiamu ‘st’acianieddhri, oppure: mòrenu i mìnchia e i po-varieddhri, ecc.

Invece, durante le sere d’estate, quando la luna campaniscia-va, cioè splendeva alta, nel cielo, sentivi i ragazzini cantare

Luna lunamènami ‘na cuddhruramenamila cotta cotta

mi la mangiu cu lla ricottaCuddhrura è la focaccia, la ciambellina di pane, da non con-

fondere con la cuddhrura pasquale, che è fatta di pasta frolla.Ebbene, i ragazzini, con gli occhi rivolti alla luna, la pre-

gavano che buttasse loro dal cielo una focaccina ben cotta,che poi, beata ingenuità ed illusione!, avrebbero mangiatocon la ricotta.

La signura ttappata ‘n culuve alla chiesa e nnu tthrova pazzulutorna a casa e nnu tthrova pane

la signura more de famePuò sembrare una filastrocca irriverente nei confronti di

chi da nobile e ricco è caduto a bbàscia furtuna. Questa no-bildonna, trasandata e infagottata nel vestito, si reca inchiesa e non trova un posto su cui sedersi; ritorna a casa enon ha un tozzo di pane da mettere sotto i denti e quindimuore di fame.

Ma il popolo qui si esprime in senso bonario, senza cat-tiveria alcuna; basti pensare a quel vecchio adagio è mmè-ju nu riccu a ‘mpovarire ca nu pòvaru a ‘rricchire.

Intelligenti pauca! ●

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terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia

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l primo quindicennio del secolo scorso fu segnato inItalia da un continuo susseguirsi di eventi dramma-tici e violenti tra le classi operaie e contadine da una

parte e gli industriali, i feudatari e i lati-fondisti dall’altra. I primi, sulla scia delfervore liberale e repubblicano che si re-spirava in tutta Europa, rivendicavano ildiritto a condurre una vita più dignitosae dagli aspetti più umani, mentre i secon-di cercavano a tutti i costi di mantenereintatti gli antichi privilegi ed interessi.

Nel Settentrione d’Italia gli operai, po-tendo contare su un’efficace organizza-zione sindacale, lottarono a lungo e allafine ottennero sostanziali miglioramentieconomici, mentre nel Meridione i conta-dini, slegati e disorganizzati, continuarono a subire mal-trattamenti e sopraffazioni da parte dei signorotti locali. LaQuestione Meridionale, invece di stemperarsi, andava aggra-vandosi ulteriormente.

In tutto il Salento accaddero veementi contestazioni e

drammatiche rivolte di contadini contro i ricchi proprieta-ri terrieri. Le ragioni della protesta erano motivate dai sa-lari molto bassi e dall’estenuante giornata di lavoro, cheandava di “sole in sole”. E’ facile immaginare che d’estatequesta povera gente era costretta a lavorare anche tredici-quattordici ore al giorno in cambio di una misera paga chenon superava i novanta centesimi di lira per gli uomini e icinquanta per le donne.

Nell’inverno del 1903 il clima nel Salento fu molto piovo-so e freddo da non consentire per diversi giorni neanche illavoro indispensabile nei campi. Nel breve volgere di un

mese, intere masse di uomini, donne, vecchi e bambini ini-ziarono a patire la fame.

A Galatina il sindaco Mario Micheli, per ovviare alladrammatica situazione, decise di assegna-re alle famiglie più disagiate un sussidiogiornaliero e del pane. Il provvidenzialeintervento, però, non poteva protrarsi alungo, in quanto il consistente esborsoquotidiano era insostenibile per le già mi-sere casse comunali. Pertanto il primo cit-tadino riuscì a convincere i ricchiproprietari galatinesi ad assumere per al-cune giornate di lavoro i contadini biso-gnosi. Stoltamente il dott. Michelicommise il grave errore di sospendere,con effetto immediato, la distribuzione

del pane e del sostegno economico. Mai decisione fu cosìinopportuna ed osteggiata. Nel giro di poche ore, al gridodi “pane e lavoro”, una folla di oltre tremila persone si radu-nò, con fare minaccioso e risoluto, nei pressi del munici-pio. Ben presto furono danneggiati alcuni portoni emandati in frantumi molti vetri dell’edificio scolastico1.

Avendo intuito la gravità dell’errore commesso, il sinda-co intervenne immediatamente rassicurando la folla che lesussistenze sarebbero state ripristinate nel breve volgere dipoche ore.

La miccia, purtroppo, era stata ormai innescata. Infattialcuni facinorosi si erano nel frattempo spostati in direzio-ne dell’Ufficio Postale e della Stazione Ferroviaria. Anchequi furono rotti vetri, fanali dell’illuminazione pubblica erovinate alcune strutture esteriori dei caseggiati. La furiadevastatrice non accennava a fermarsi. Furono tagliati an-che i fili del telegrafo in modo da isolare la città. Fortuna-tamente pochi attimi primi del sabotaggio, la telegrafista,signora Filomena Saccomanno, fece appena in tempo adinformare i carabinieri di Lecce della grave sommossa inatto. Subito dopo l’impiegata fu aggredita da alcuni esagi-tati che la colpirono ripetutamente al capo con una pietra,provocandole una copiosa perdita di sangue.

Ricevuti i viveri, i dimostranti sciolsero l’assembramen-to e si avviarono alle rispettive case. Nel primo pomeriggiogiunse da Lecce un nutrito drappello di carabinieri a ca-vallo e di guardie civiche in difesa della città e delle istitu-zioni. Anche da Nardò arrivarono altri rinforzi.

Il delegato di Pubblica Sicurezza, Uff. Girolamo Caputi,potendo ora contare su un rilevante numero di militari, de-cise, inopportunamente e sciaguratamente, di annullare ilconcerto bandistico2 previsto per la sera. Era il giorno di

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NOVECENTO SALENTINO

I DRAMMATICI FATTI DII DRAMMATICI FATTI DI“CRISTO RISORTO”“CRISTO RISORTO”

Galatina - Via dell’Orologio agli inizi del ‘900

di Mauro De Sica

Il 19-20 aprile 1903 esplodeva a Galatina una cruenta sommossa

di contadini, ai quali era stato negato il pane,

il sussidio giornaliero ed il tradizionale

concerto bandistico

Agli inizi del ‘900 molte famiglie salentine vivevano in un stato di estrema indigenza

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Cristo Risorto e quella manifestazione musicale era attesada tempo.

L’intenzione dell’inesperto ufficiale era quella di nonconsentire, dopo i gravi fatti della mattinata, un ulteriorericompattamento della folla.

In breve tempo la notizia dell’annullamento della festaserale rimbalzò di casa in casa, suscitando in ogni galatine-se rabbia e disappunto. Furono in molti a riversarsi per lestrade e a chiedere a gran voce che si organizzasse il tantoatteso concerto bandistico. Alle quattro pomeridiane, nel-la piazzetta dell’Orologio, erano presenti oltre cinquemilapersone che rumoreggiavano paurosamente e si accalcava-no intorno alle vie laterali.

Il delegato di P. S. Caputi, per nulla intimorito dalle urlaassordanti dei dimostranti, ordinò ai propri militari di te-nersi pronti ad un’eventuale carica. Pur tuttavia, prima dipassare ai fatti, l’ufficiale intimò alla folla di sciogliere l’as-sembramento, precisando che la festa di Cristo Risorto, an-nullata per motivi di ordine pubblico, sarebbe statarecuperata in altra data.

Apriti cielo! Il tono della contestazione salì paurosamen-te, tanto che ben presto assunse i connotati di un’insurre-zione incontrollabile. L’ufficiale intimò per l’ultima volta aidimostranti di sgombrare le strade, ma ricevette, in tuttarisposta, una bordata di fischi e il lancio di qualche pietra.

Dopo tre squilli di tromba, fu dato l’ordine di caricare lafolla a “sciabola piatta3”, sparando preventivamente in ariaalcuni colpi intimidatori per favorire la dispersione dei ma-nifestanti, i quali, intrappolati nelle strade laterali, strette edintasate sino all’inverosimile, risposero alla carica lanciandopietre e quant’altro capi-tasse nelle loro mani.

Si scatenò una vera epropria guerriglia urba-na senza esclusione dicolpi. Le forze dell’ordi-ne più volte caricaronola folla ormai inferocitaed esasperata, ma pun-tualmente i rivoltosi ri-sposero con massiccicontrattacchi, offen-dendo con mazze, palet-ti, forconi e lanciando incontinuazione pietre edoggetti contundenti.

Dopo tre ore di cruentabattaglia, rimasero perterra i corpi esanimi ditre rivoltosi. Inoltre sicontarono settanta feriti, alcuni dei quali riportarono meno-mazioni irreversibili, e centinaia di contusi da entrambe leparti. Nei giorni successivi furono tratti in arresto ben ven-tinove dimostranti con le gravi accuse di sommossa popo-lare, danneggiamento di strutture pubbliche e private,reiterato rifiuto di sciogliere l’assembramento ed uso di ar-mi improprie contro la forza pubblica.

Il presidente del Tribunale, dott. Francesco De Luca, aconclusione del lungo dibattimento, ebbe parole di com-

prensione nei confronti di quei poveri uomini che, in pian-to ed in catene, avevano a lungo supplicato clemenza e ma-gnanimità. Fu poi estremamente importante latestimonianza resa in favore dei rivoltosi da parte dell’on.leAntonio Vallone e di suo fratello dott. Vito, personalitàmolto stimate e degne della massima fiducia.

Dopo la lettura delle singole sentenze, che nei casi piùgravi non superarono i tre mesi di prigione, il presidenteDe Luca rimproverò aspramente i responsabili delle forzedell’ordine per essere stati sin troppo impulsivi e violentinei confronti dei dimostranti. Stando, infatti, alle numero-se testimonianze, essi avevano manifestato soltanto per ot-tenere un po’ di pane ed il concerto bandistico.

Si chiuse nel migliore dei modi la drammatica vicendaper i ventinove arrestati. Coloro, invece, che ricevettero po-chi onori e riconoscimenti furono le tre vittime. Di loro,conserviamo solo qualche vaga notizia: 1) Angelo Gorgo-ne, ucciso da un colpo di fucile; 2) Oronzo Lisi, morto dis-sanguato per un fendente in testa; 3) Giuseppe Masciullo,che ricevette una pistolettata e morì successivamente. Ailoro familiari fu assegnato soltanto un modesto contributoper qualche mese.

Noi, invece, a distanza di oltre un secolo, sentiamo il do-vere di ricordarli con deferenza perché misero a repenta-glio la propria vita per ottenerne una più decente.Lottarono per rivendicare i diritti umani essenziali e peri-rono in nome della libertà che, a quei tempi, era di esclusi-va spettanza di pochi, mentre ai tanti era negata ogni cosa,perfino la speranza di vivere in un mondo migliore. ●_____________NOTE

1...molti vetri dell’edificio – La struttura scolastica era ubicata tra Palaz-zo Orsini e la Basilica di Santa Caterina. Per maggiori dettagli, si consul-ti il libro di Francesco Tundo “Storia delle rivolte contadine ed operaie nelSalento ai primi del ‘900” – pag. 113 e segg.2…di annullare il concerto bandistico – Si tenga conto che a quei tempil’unico svago per i cittadini era rappresentato dai festeggiamenti in ono-re dei SS. Pietro e Paolo e di Cristo Risorto. La povera gente partecipavaa questi importanti eventi anche con la febbre addosso. Era l’unico modoper ripagarla di un anno d’intenso e duro lavoro. Perdere un momento delgenere, significava trascorrere buona parte dell’anno con poca voglia escarso interesse. Il famoso detto di Giovenale “panem et circenses” era an-cora valido.3 A sciabola piatta – Cioè in modo tale che la sciabola, colpendo il dimo-strante, gli procurasse solo una contusione e non un taglio.

marzo-aprile 2008 Il filo di Aracne17

On. Antonio Vallone

In questa piazzetta si doveva tenere il concerto bandistico

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18 Il filo di Aracnemarzo-aprile2008

HISTORIA NOSTRA

10 agosto 1480IL SACCO DI OTRANTO

Il destino di una città legato alle incursioni degli ottomani lungo la costa salentina. Il destinodi ottocento uomini che hanno fatto della loro vita un esempio per la futura progenie

di Valentina Vantaggiato

tranto, oggi, è una cittadina tranquilla che si ergelungo la costa adriatica della nostra penisola, fra ilverde della macchia mediterranea e il blu del mare

cristallino. Molti la conoscono come “Porta d’Oriente”, per-ché si affaccia sulle mi-steriose terre dilevante, dove vivonopopolazioni che, conmistici costumi e fareleggiadro e affascinan-te, ipnotizzano, dasempre, tutti coloroche le osservano dalontano o che si recanoin quei luoghi per am-mirarne la bellezza.

Ma la bellezza nonpuò essere solo este-riore, deve trapelaredall’animo di ogni in-dividuo, deve traspa-rire dalle sue parole,dalle sue azioni, datutto il suo essere. La bellezza è qualcosa di incredibilmen-te effimero, che crolla come un castello di carte al primoalitare di vento. Sono altri i valori che non svaniscono, qua-li il rispetto per gli altri, l’attaccamento a ciò che si ama, lafermezza nei propri ideali e la capacità di portarli avanti,sempre e comunque, qualsiasi cosa accada.

“A ciascun uomo nella vita capita almeno un’ora in cui dareprova di sé; viene sempre, per tutti. A noi l’hanno portata i tur-chi”. Così, Maria Corti, linguista e scrittrice milanese, esor-disce nella premessa del suo libro “L’ora di tutti”, nel qualeracconta la vicenda dello sbarco del popolo ottomano adOtranto, nel lontano 1480. Questo triste episodio, segnòprofondamente la vita di molti uomini e il loro destino.

Sotto la guida di Maometto II, che aspirava alla conqui-sta del Mediterraneo, colmo di desiderio di grandezza, iturchi cominciarono quella che fu una delle più grandi im-prese di colonizzazione della storia dell’est. Dopo la cadu-ta di Costantinopoli, l’assedio di Rodi e la conquista dellaGrecia, dell’Albania e delle isole Ioniche, questa potenza,divenuta una forte compagine, partendo dal porto albane-se di Valona, si spinse verso l’Italia con il preciso scopo diattaccare l’Occidente cristiano e fondare l’Impero Ottoma-no sulle macerie del precedente Bizantino.

Il leader turco, per realizzare il suo colossale sogno, eraintenzionato ad indebolire la forza del Regno di Napoli,

governato da re Ferrante d’Aragona. Per fare ciò, dovevaindividuare la testa di ponte ideale da cui, poi, contava diespandere il proprio dominio e iniziare l’opera di scristia-nizzazione dell’Italia. Questo crudele sovrano, realizzò cheil punto di partenza sarebbe stato il Salento, e più precisa-mente Otranto, che in quegli anni era “un centro prestigiosoma debolmente difeso”, come scrisse Donato Moro. Infatti, lapolitica del re del regno più a sud d’Italia, sottovalutava lapotenza orientale, legata com’era ad un centralismo Medi-terraneo occidentale.

La spedizione, guidata da Gedik Achmet Pascià, pote-va contare sulla forza di 18.000 uomini e di numeroseimbarcazioni, equipaggiate accuratamente e dotate disofisticate armi.

Il 28 luglio del 1480, in una calda giornata estiva, alle pri-me luci dell’alba, mentre molti ancora dormivano sereninei propri letti, ignari che la loro sorte sarebbe, da quel mo-mento in poi, cambiata, la linea dell’orizzonte, a largo diOtranto, apparve punteggiata da una miriade di galeoniche, minacciosi, si avvicinavano sempre più alla costa.

Gli otrantini, dapprima convinti che si trattasse di unadelle tante incursio-ni da parte dei cor-sari che, da sempre,attaccavano le po-polazioni costiere incerca di bottino, do-vettero presto ricre-dersi e cercarono diorganizzare la pro-pria difesa comemeglio poterono,anche se le speranzedi vittoria eranopressoché nulle. Gliaiuti mandati dal-l’esterno erano po-chissimi, visto chere Ferdinando rite-neva improbabileun attacco in questacittadina, e gli abi-tanti del borgo do-vettero riunire tutte le loro forze per far fronte a questainattesa situazione. Ma, pur mettendoci tutta la buona vo-lontà, la difesa poté contare su circa 1.200 uomini armati ma-le che, paragonati alla moltitudine nemica, di certo nonbastavano.

La conquista di Otranto

Gedik Achmet Pascià

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marzo-aprile 2008 Il filo di Aracne19

L’armata turca sbarcò in un tratto di costa che si estende-va da Porto Badisco a Roca, approfittando dei numerosiporticcioli di cui il litorale era ricco. Man mano che gli ot-tomani avanzavano verso Otranto, ef-fettuavano violente scorrerie,catturando uomini e donne, che invia-vano nel porto albanese dal quale era-no partiti. Miasmi di distruzione e dimorte aleggiavano nell’aria, giungen-do fino al cuore del Salento e portan-do cattivi presagi.

Il cerchio cominciava a restringersie la minaccia diventava sempre piùincombente per gli abitanti di questasfortunata cittadina, che cercavano intutti i modi di difendere ciò che era lo-ro e che tanto amavano, anche a costodi rimetterci la vita. Ed effettivamen-te fu così.

Alcuni giorni dopo lo sbarco degliuomini dell’est, iniziò l’assedio adOtranto. Furono giorni durissimi e,anche se gli animi cominciavano a sco-raggiarsi, i salentini continuarono im-perterriti a lottare.

Achmet, da parte sua, non si aspet-tava di trovare una resistenza così agguerrita. Era, infatti,convinto di poter conquistare Otranto per via diplomati-ca. Ma, i valorosi uomini del sud, morbosamente attaccatialle proprie radici e al re, non si tirarono indietro davantial pericolo.

Durante la crudele battaglia, gli attacchi si susseguivanoininterrotti, ma gli otrantini resistevano ancora. Non era-no, questi, uomini. Erano eroi. E lo furono fino alla fine.

Il 10 agosto è una data che i salentini ricordano con pro-fondo rammarico. Dopo un’ulteriore e violenta incursionedei turchi alla città ormai stremata, questo coraggioso po-polo dovette arrendersi e accettare l’amara sconfitta.

Gli ottomani entrarono nel borgo, razziando barbara-mente tutto ciò che incontrarono. La storia ci riporta allamente la crudeltà impiegata dagli orientali nell’espugnarela cittadina.

Ma la malvagità più grande fu quando essi imposeroai salentini di rinnegare la propria religione per abbrac-ciare il credo islamico. O la conversione, o la morte. E inquesto gli otrantini furono davvero eroi e rimasero allastoria come tali.

Non si abbassarono alle richieste di una civiltà che di ci-vile non aveva nulla. Continuarono a difendere le proprieidee e i propri valori, pagando a duro prezzo la loro scelta.

Sul colle della Minerva, dove oggi si erge una chiesa co-struita in loro memoria, il 14 agosto, ottocento uomini ven-nero decapitati senza pietà e privati della vita terrena, manon di quella “celeste”. Morirono con onore per preserva-re la loro fede. Morirono per il loro Dio e per non tradire sestessi. Morirono ma rinacquero in un mondo migliore, do-ve non c’è posto per la guerra e per coloro che la fanno.

Gli Ottocento Martiri di Otranto servirono da esempio amolti. Dopo un processo iniziato nel 1539, papa ClementeXIV, nel 1771, li dichiarò “Beati”, affinché la memoria del-

la loro fede non andasse perduta. Quella fede che si ha inun Dio benigno e amorevole verso i suoi figli, spesse voltepersi nell’oblio della vita. Un Dio misericordioso che ha sal-

vato quelle anime perché gli sono rimastefedeli nella buona e nella cattiva sorte.Anime che Lui ha voluto con sé e allequali ha donato la “Salvezza Eterna”.

Quando la triste notizia giunse a re Fer-dinando, egli si diede da fare, anche secon un certo ritardo, per allontanare iturchi da Otranto. Chiese aiuto ad Alfon-so, duca di Calabria, al pugliese GiulioAntonio Acquaviva e al Papa, che non glinegarono il loro appoggio.

Un esercito moderno e agguerrito par-tì alla volta della cittadina salentina e, nelsettembre del 1481, sconfisse definitiva-mente i turchi che, spodestati, batteronoin ritirata.

Successivamente, il sovrano del Regnodi Napoli provvide a rafforzare le cittàsalentine con massicci castelli e robustemura. Inoltre, fece costruire 58 torri ine-spugnabili lungo il litorale. In lui, si erafatta strada la consapevolezza che la dife-sa del lembo salentino costituiva la salva-

guardia del regno meridionale. Già una volta aveva agito conleggerezza, e per questo molte persone avevano perso la vita.

In occasione del V centenario del sacrificio degli ottocen-to, il 5 ottobre del1980 papa Gio-vanni Paolo IIgiunse ad Otrantodove celebrò unaMessa solenne,nella cui omeliapronunciò: “Il Martirio è unagrande prova del-l’uomo, la provadella dignità del-l’uomo al cospettodi Dio stesso”.

Sono del parereche niente accadeper caso. Ogni ge-sto, ogni respiro,ogni azione faparte di un dise-gno. Sono sicurache ogni uomo vaincontro al suodestino. Un desti-no che ha già la

sua storia e una storia che è intessuta da tanti destini. Ilmio, il vostro e il loro. Quello degli Ottocento eroi che han-no fatto di un piccolo paese, un grande paese. Di un picco-lo esercito, una grande compagine sorretta dall’amore perla propria religione e per la propria terra. Dall’amore perun Dio che, infine, li ha salvati. ●

Otranto - La Cappella dei Martiri

Il Martirio

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SANTA MARIA AL BAGNO - 1944/1947SANTA MARIA AL BAGNO - 1944/1947

I PROFUGHI EBREII PROFUGHI EBREI

There is a small corner on the nap barely visible now, butat that time for some of us it was the center of the univer-se. It was then as now called Santa Maria Dei Bagni (C'è

un piccolo angolo della carta geografica appena visibileadesso, ma in quel periodo per alcuni di noi esso era il cen-tro dell'universo. Era chiamato allora come oggi Santa Ma-ria al Bagno).

Questo, tra l'altro, scrive l'8 marzo '98 Ottfred Weisz, oracittadino americano, che nella sua fanciullezza ha avuto lasfortuna, essendo ebreo, di vivere in Austria con la sua fa-miglia nel periodo della Shoah. Ha avuto però la fortuna,al contrario dei suoi genitori e della sorella che hanno fini-to tragicamente la loro esistenza ad Auschwitz, di essere

nascosto e pro-tetto in Italia inun orfanotrofiodi Vercelli esuccessivamen-te ricoverato nelcampo profu-ghi di SantaMaria al Bagno.

In questo pae-sello del Salentosi sentì final-

mente al sicuro e protetto, anche se ancora preso dall'ansiaper il futuro incerto che lo aspettava. Non aveva più una ca-sa dove tornare. Non aveva certamente voglia del suo paeseche l'aveva tradito mandandolo con la sua famiglia in uncampo di concentramento.

Pian piano, però, l'ansia e la paura passarono e tornò lavoglia di vivere. Imparò a nuotare ed a tuffarsi nelle acque

profonde, scoprìla bellezza delmare esplorando-ne tutte le insena-ture e gli anfrattipiù nascosti, eprovò anche lasensazione nonpiacevole di met-tere il piede su diun riccio. Nessu-no potrà mai to-gliere dal suocuore il ricordodi Santa Maria alBagno e della suagente.

Anche FinaSchotten, che inquel periodo ave-va quattordici an-ni, ed era la mag-

giore delle sorelle, arrivò in Santa Maria al Bagno, comeracconta in una bellissima lettera: "Traumatizzata e terroriz-zata, reduce, tra l'altro, da una detenzione in prigione tra prosti-tute, assassine e condannati a morte. Alle ‘Sante’ (così ancoraoggi, ritrovandoci tra amici, chiamiamo Santa Maria al Bagno,Santa Caterina e Santa Maria di Leuca) seppi cos'è la libertà, la

20 Il filo di Aracnemarzo-aprile2008

Foto ricordo di un matrimonio Fina Shotten

di Paolo Pisacane

RITAGLI DI STORIA

Anno 1944Foto di ebreial loro arrivo aSanta Maria al

Bagno

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SANTA MARIA AL BAGNO - 1944/1947SANTA MARIA AL BAGNO - 1944/1947

I PROFUGHI EBREII PROFUGHI EBREIdolcezza delle genti…" e conclude: "Quando lasciammo S. Ma-ria eravamo nuovamente persone civili e normali, pronti ad af-frontare una nuova vita. Grazie a Dio per aver creato S. MariaBagni a cui auguriamo tanta prosperità".

Non sono poche le testimonianze di questo tipo. Santa Ma-ria e la sua gente continua ad avere, a distanza di oltre cin-

quant’anni, un posto nel cuore degli ebrei che sono statiricoverati nel campo profughi dal 1944 al 1948. Sicuramenteavranno trovato qualcosa di bello per cui vale la pena di ricor-dare.

Santa Maria, negli anni precedenti la seconda guerramondiale, era una località turistica molto rinomata, una trale più frequentate dell'Italia meridionale tanto che, impor-tanti personaggi, quali Tito Schipa o Arturo Toscanini,l'hanno onorata con la loro presenza più di una volta,quando erano all'apice della fama.

Forse proprio per questo le forze alleate hanno sceltoSanta Maria per allestire il campo profughi prima per glislavi e, dal 1944, per gli ebrei, la maggior parte reduci daicampi di concentramento.

Oltre le case di Santa Maria, furono requisite le case del-le Cenate, di Santa Caterina e di Mondo Nuovo.

Gli ebrei che transitarono nel campo furono alcune mi-gliaia tra cuiDov Shilan-sky, deputa-to del parla-mento d'Is-raele (Knes-set) dal 1977al 1996 di cuifu Presidentedal 1988 al1992.

Stando airicordi dei

residenti, ma per adesso non supportati da alcun docu-mento, furono presenti anche personaggi di rilievo per ilfuturo stato d'Israele, come David Ben Gurion, all'epocaPresidente dell'Organizzazione ebraica mondiale che nel1948 guidò il popolo ebraico alla proclamazione dellostato d'Israele, di cui fu il primo Presidente e Golda Meir,Primo Ministro dal 1969.

Nel campo non mancava niente che ricordasse ai profu-ghi la loro religione e le loro tradizioni. C'era la sinagoga inpiazza, dove attualmente c'è il bar Piccadilly, la mensa edil centro di preghiera per bambini e orfani nell'attuale pa-nificio Striani, il Kibbutz (fattoria collettiva) "Elia" nellavecchia masseria "Mondonuovo".

Erano anche assicurati tutti i servizi necessari alla vita diuna comunità di tali dimensioni: ospedale, convalescenzia-rio, ufficio informazioni, collegamenti con i paesi vicini,servizio postale, sartoria, magazzini deposito di viveri, co-perte, abbigliamento, deposito di legna carbone e carbu-ranti, officina meccanica dell'autoparco e tutto ciò cheserviva alla comunità, compreso un campo di calcio al-l'Aspide.

Il comando alleato affidò l'incarico di "Major" ad un cit-tadino del luogo, Paolino Pisacane, cui era affidata la riso-luzione di molti problemi logistici e la cura dei rapporti delcomando con i cittadini residenti; per questo lavoro veniva paga-to un dollaro al giorno, oltre, naturalmente, le sigarette che nonmancavano mai, ed un po' di scatolette di carne.

Durante la loro permanenza, furono celebrati 368 matri-moni, tra cui quello di Giulia My di Santa Maria al Bagnocon Zivi Miller profugo di origine rumena che aveva per-duto moglie e figlio nei campi di concentramento ed auto-re dei murales di Santa Maria al Bagno, Stella Campa diNardò con Brand Majer profugo di origine polacca eSanta Sambati di Galatina con Brusel Jankel profugo di

origine polacca.Dei disegni sbiaditi ed ormai quasi irrimediabilmente

perduti sono tutto ciò che resta di visibile della presenzadei profughi ebrei in Santa Maria.

Eppure Zivi Miller, ebreo polacco scampato alla ferociadei nazisti, ed altri suoi amici profughi, con quei muraleshanno cercato di lasciarci la testimonianza delle loro pau-re, delle loro gioie e delle loro speranze.

La paura, nel murales principale, è la cortina di filo spi-nato che nel centro Europa li ha tenuti rinchiusi nei campidi concentramento facendogli soffrire pene inimmaginabili.

La gioia di chi, più fortunato, è scampato alla morte e siritrova a rivivere una nuova esistenza proprio nel Salentoed in Santa Maria in particolare.

La speranza di ritornare nella "Terra Promessa" al di làdel Mediterraneo dove dalla sabbia del deserto sorge il so-le di un nuovo giorno per una nuova vita. ●

marzo-aprile 2008 Il filo di Aracne21

Murales

Murales

Bambini ebrei con assistente

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na delle poche persone in grado di tracciare un det-tagliato profilo dell’armoniosa ed eclettica figura diAntonio Mele, in arte ‘Melanton’, è lo scrivente. Ci

conosciamo sin dall’età di sei-sette anni: insieme giocava-mo sul campetto della ferrovia, oppure ‘dietro alla distilleria’o tra gli alberi di pino della villetta antistante la ‘Stanzione’.

Lui riusciva bene in tutti i giochi: era bravo a giocare a‘Tuddhri’, a ‘Zacca e rresta’, a ‘Cavaddhru barone’, a ‘Uno mon-ta la luna’, a ‘Mazza e mazzarieddhru’, a ‘Monopoli’ e soprat-

tutto a pallone. Lui juventinosfegatato, io irriducibi-

le interista. Siamocresciuti in mezzo

alla strada contanti altri com-pagni. Per cari-tà, non eravamoaffatto monelli,bensì bravi fan-ciulli che tra-

scorrevano le pri-me ore pomeridia-ne e quelle serali sui

marciapiedi a rincorrersi o a divertirsi con i giochi più stra-ni e simpatici. All’epoca non vi erano automobili o camionche potessero intralciare i nostri sogni infantili, né delin-quenti o pedofili da cui stare alla larga, né tanto meno dro-ga e quant’altro di negativo s’incontra oggigiorno fuori dicasa. La strada, per noi, rappresentava un’autentica pale-stra di vita, un ambiente privo di pericoli, un luogo in cuiveniva a formarsi il nostro incerto caratteree a modellarsi intorno ai miti del momento,come Kirk Douglas, Richard Burton, BenitoLorenzi e Giampiero Boniperti per i ragazzi,e Rita Hayworth, Liz Taylor, Sofia Loren perle ragazze. Ci somigliavamo in tutto, o me-glio, quasi in tutto. Lui, a differenza degli al-tri, aveva però qualcosa in più; bastavadargli una matita, un gessetto colorato, unpezzo di carbone o tutto ciò che potesse la-sciare un segno perché realizzasse all’istan-te su un foglietto di carta, sulla lavagna o perterra una vignetta oppure un’immagine fedele di Topoli-no, Paperino e quant’altro. Con un’incredibile facilità e

spontaneità riusciva a dare forma ad ogni idea (e che idea!)che gli passasse per la mente.

Fu allora che Antonio iniziò a collaborare con la rivistaper ragazzi “Chicco riso”, con “Il Vittorioso”, “Il calcio eciclismo illustrato” ed “Hurrà Juventus”.

Dopo la licenza media, s’iscrisse al Liceo Classico “PietroColonna” e, successivamente, alla facoltà di Lettere e Filo-sofia presso l’Università Salentina di Lecce.

Nel 1969 salutò tutto e tutti per trasferirsi a Roma, dovetuttora abita, circondato dagli affetti della moglie Teresa edelle figlie Anna Lidia e Paola.

Anche se manca da quasi quarant’anni dalla sua terra,Antonio si sente salentino a tutti gli effetti e, meglio anco-ra, galatinese “verace”. Scherzando qualche tempo fa, traun piatto e l’altro nel noto ristorante “Lo Zenzero” di Càn-nole, asseriva, con un’enfasi goliardica che ancora lo con-traddistingue, di “risiedere” a Roma ma di “vivere” aGalatina. Infatti, non passa mese che non te lo ritrovi tra ipiedi a prendere, come lui usa spesso dire, “una boccata dipaesanità”. Per noi, amici di vecchia data, è un gran piace-re rivederlo perché all’improvviso è come se fossimo inve-stiti da un inspiegabile entusiasmo e da una freschezzad’altri tempi.

Ma soffermiamoci a parlare della sua brillante carrierache ha costruito piano piano nel corso di tanti anni.

Ha pubblicato la sua prima vignetta nel 1959, all’età didiciassette anni, sul settimanale romano Il calcio e ciclismo il-lustrato, collaborando poi ai periodici satirici galatinesi LaCivetta, La Taranta, Lu Presepiu, La Befana e ad altre testatelocali – come Il Nuovo Cittadino e Il Galatino – affermando-

si successivamente su mol-ti e importanti giornalinazionali e stranieri, fracui la Repubblica, Quotidia-no, il Corriere canadese, LaTribuna illustrata, DomenicaQuiz, Hurrà Juventus (do-ve, peraltro, ha disegnato afumetti la vita di “CapitanBoniperti”), Olimpico, LaDiscussione, Help!, Clown,Eureka, Il Cantagallo, Intrepi-

do, Play Test...Negli anni si è facilmente integrato nell’ambiente artisti-

marzo-aprile 2008 Il filo di Aracne23

ANTONIO MELEMELANTONUna prestigiosa carriera

all’insegna dell’umorismo e della poesia

di Rino Duma

L’U.N.E.S.C.O.

La crisi economica

PERSONAGGI SALENTINI

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co e giornalistico della Capitale. Restano fondamentali leesperienze maturate, in tempi e modi diversi, all’internodelle redazioni di tre grandi giornali: il settimanale satiri-co-umoristico Marc’Aurelio (nel 1973), il Satyricon del quo-tidiano la Repubblica (dal 1979 al 1991) e l’altra storicatestata umoristica, Il Travaso delle idee (dal 1986 al 1988).

Su invito di Renzo Arbore, nel 1979, ha anche partecipa-to in una scena del suo celebre film IlPap’occhio, con Roberto Benigni.

Nel 1982 e 1984, in collaborazionecon il Presidente dell’Associazione “IlPentagono”, Antonio Solidoro, hacontribuito al successo del PentagonoHumour di Lecce, una manifestazionebiennale di cui ancora oggi resta vivoil ricordo della spettacolare partecipa-zione di artisti e di pubblico. Come,peraltro, anche della purtroppo unicaedizione del Calandra Humour, orga-nizzata con il Comune di Tuglie nel1987.

Presente su innumerevoli libri e ca-taloghi e sui maggiori siti del circuitointernet (compreso Wikipedia) dedica-ti all’arte satirica e umoristica, ha inol-tre partecipato come disegnatore avarie trasmissioni televisive.

Per la RAI ha curato e illustrato laserie Dieci fiabe di Italo Calvino, lette dall’attrice Milena Vu-kotic, e ha collaborato poi, in diretta, al programma Giornoper Giorno, condotto da Bianca Maria Piccinino, e alla rubri-ca settimanale del TG2 Tre minuti di salute.

Per la Biennale di Tolentino ha fondato la collana editoria-le “L’Officina dell’Umorismo”, pubblicando vari cataloghi elibri, fra cui l’esclusivo volume dedicato nel 1994 a Felliniumorista, l’antologia 20th Century Humour (storia del Nove-

cento in 300 caricature),una fondamentale mono-grafia su Le caricature po-litiche di Giuseppe Scala-rini, autore satirico del-l’Avanti!, fra i massimidel Novecento italiano,perseguitato nel periodofascista, e un’edizione spe-ciale del celebre Pinocchio,illustrato da Franco Bruna,in collaborazione con laFondazione Collodi, su te-sto critico dell’Accademiadella Crusca.

Dal 1999 al 2005 è statoPresidente del Premio nazionale di grafica umoristica Invino veritas, organizzato dall’Associazione “Gog&Magog”,col patrocinio dell’Ente Vini-Enoteca Italiana di Siena, cu-rando insieme a Fabio Santilli una grande mostra e la pub-blicazione celebrativa – Brindisi d’Autore! – dei 70 anni difondazione dello stesso Ente.

Sempre a tema enologico, ha inoltre progettato e realiz-

zato il volumetto Il Ber Paese, edito a cura del Comune diGalatina (giugno 2003), in occasione della Convention na-zionale delle Città del Vino.

Dal Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri haavuto nel 2002 il prestigioso incarico di curare un’appro-fondita ricerca storiografica sui Carabinieri nell’Umorismo,curando poi la Rassegna d’Autore Sorridendo nei secoli, in

mostra alla XXII Biennale di Tolentino.La mostra, composta dal numero em-

blematico di 113 opere inedite e origi-nali a firma di 74 fra i massimi maestridella satira, dell’umorismo e dell’illu-strazione, è stata successivamente ri-proposta al Festival del Peperoncino diDiamante e (dal 20 luglio al 15 agosto2004) al Museo Pietro Cavoti, Palazzodella Cultura di Galatina.

Sempre di notevole interesse le nu-merose mostre personali, tenute in Ita-lia e all’estero fin dal 1973: fra le piùimportanti, quelle alle Tre giornate del fu-metto di Genova (1973), al Convegno na-zionale sull’emigrazione a Firenze (1975),alla Biennale dell’Umorismo di Tolentino(1977, 1988, 1999), all’Humourfestival diKnokke-Heist (1980), alla Porziuncola diAssisi per le celebrazioni dell’ottavocentenario della nascita di San France-

sco (1982), alla Staat-Biblioteken di Berlino (1983), alla Gal-leria “Il Canovaccio” di Roma (1986), alla Galleria SK diGalatina (1991), a Montagne ridenti, Rifugio dolomitico diFalcade (2002),al Rettorato del-l’Università Poli-tecnica delleMarche di Anco-na (2004), allaFesta del Vino aVittoria (maggio2005, dove è sta-to nominato,con Pippo Bau-do, “Ambascia-tore nel mondodel Vino Cerasuolo”), alla Galleria d’arte contemporanea “LaPietra” di Martina Franca, nell’ambito della Settimana delCabaret (agosto 2005), alla Chiesa di San Francesco di Monte-lupone per le celebrazioni in onore di Gabriele Galantara(2007).

Molte sue opere sono esposte nei Musei specializzati ededicati all’arte umoristica: da Montreal (Canada), a Knok-ke-Heist (Belgio), Gabrovo (Romania), Bonn (Germania),oltre che nel Museo della Satira a Forte dei Marmi e inquello della Caricatura a Tolentino.

Ha illustrato, fra i tanti, il libro per bambini “6 favole euna torta” (con testi di Renato Tavella), premiato al Salonedell’Umorismo di Bordighera.

Oltre che a Bordighera (dove ha vinto il “Premio Italia”nel 1968, primo di una lunga e prestigiosa serie), si è affer-

24 Il filo di Aracnemarzo-aprile2008

Homo sapiens

La TV in Italia

Lingua italiana

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mato in numerosi altri Concorsi nazionali e internazionali–Vercelli, Spotorno, Dolo, Saint Just Le Martel, Istanbul,Montreal, Tokio – ricevendo speciali riconoscimenti e ono-rificenze, come il “San Valentino d’Oro” per l’Umorismo, la“Targa d’Onore” al World Cartoon di Skopje e il “Premio delConsiglio d’Europa” a Berlino.

Nel 1997 è stato premiato con la “Targa del Presidente del-la Repubblica” per meriti culturali nella promozione e diffu-sione dell’arte umoristica.

Particolarmente significativi i due Premi ricevuti nellasua città natale: il Salentino d’Oro (Uomini insigni del Sa-lento) nel 1986, e il Premio Realtà “Una vita per il Mezzogior-no” nel 2002, entrambi in un clima popolare e festoso nellasplendida cornice di Piazza San Pietro.

E’ anche autore, fra gli altri, de La Civiltà del Sorriso (Giun-ti, Firenze 2001) e (con Fabio Santilli) de La tentazione comi-ca (ArteCo, Tolentino 2006).

Melanton è attualmente riconosciuto, in Italia, fra le per-sonalità più autorevoli nel campo della storiografia meto-dologica e iconografica di quell’Ars comica che nel nostroPaese non è ancora adeguatamente apprezzata nel suocompleto e variegato universo, e che lo storico Federico Ze-ri definì “forma essenziale di tutta l’Arte”.

Attualmente è Direttore del Centro Studi “Gabriele Galan-tara” per la Satira sociale e di costume, dopo avere svolto unalunga e intensa attività di Direttore artistico (dal 1991 al2003) alla Biennale internazionale dell’Umorismo e al Museodella Caricatura di Tolentino, promuovendo e realizzandoeventi di assoluto interesse artistico e culturale, come lagrande mostra “Smile in Style” a New York (2000).

Ideatore e organizzatore, insieme aFabio Santilli, dell’articolato progettostorico-artistico “La tentazione comica-Tre secoli di satira e caricatura tra leMarche e Roma”, con lo stesso Santilliè attualmente impegnato in una nuo-va serie di “proposizioni” sull’arteumoristica: un programma didatticoper gli Istituti scolastici del XV Mu-nicipio di Roma (con la partecipazio-ne straordinaria dell’attore NeriMarcorè), il Premio Biennale “Galanta-ra” di satira e caricatura, e il progetto“Il travaglio delle idee, 1848-1948”che, attraverso i giornali satirici e leopere di alcuni illustri artisti e carica-turisti marchigiani dell’epoca, inten-de rileggere criticamente i 100 anni distoria italiana dal Risorgimento allaCostituzione.

È stato recentemente nominato Pre-sidente della Giuria del Premio nazio-nale di Letteratura umoristica di Enna,promosso dal Rotary Club, col patro-cinio della Provincia, del Comune e dell’Università del ca-poluogo siciliano. Un incarico prestigioso, determinato daltrentennale sodalizio di amicizia e di cooperazione intel-lettuale con lo scrittore Umberto Domina (alla cui memo-ria il Premio è intitolato), che nel 1993 generò la fondazione

di UT-Contributi per un’utopia, periodico “irregolare” diumorismo – conclusosi nel 2004 col fatidico numero 100 –tuttora considerato un riferimento esemplare per i suoicontenuti di giocosa ed elegante raffinatezza stilistica.

Antonio Mele è anche poeta.L’ultimo suo volume (“A mio padre scrivo”, poesie scelte

“di terra, d’amore, di tempo”, edito da Pieraldo Editore,Roma, con una corposa e significante prefazione di Dona-to Valli) è stato presentato nel dicembre 2004, con ricono-scibile successo, al Palazzo della Cultura di Galatina. Illibro ha avuto ulteriori riconoscimenti alla “Buca di SanFrancesco” ad Arezzo nel 2005, e alla “Libreria Fiordili-bro”, ancora a Galatina, nel 2006.

In precedenza ha pubblicato “Aspetta, luna...” (Leonforte,1996), “Poesie di terra” (Arezzo, 2000), “Da un altro cielo”(Treviso, 2002), “Il tempo contadino” (Leonforte, 2003).

Nel 2002 è stato invitato dalla “Stanza Veneta di Culturae Critica” alla prestigiosa Accademiadi Ca’ dei Carraresi, a Treviso, per unseminario di poesia in suo onore.

Ha vinto il Premio “Peltuinum”, il“Premio“Leonforte”, il Premio “RaggioVerde”, il Premio “Athena” e il Premio“Rabelais” di poesia sul vino, nel qua-le è stato invitato come componentedella Giuria nella edizione del 2007.

Numerosi sono le riviste ed i gior-nali con cui ha collaborato, così comele mostre personali e collettive ed ipremi e i riconoscimenti conseguitinegli anni, ma omettiamo di riportar-li (vi assicuro che sono tanti) per que-stione di spazio.

Chiudo il lungo e, mi auguro, inte-ressante articolo congedandomi dal-l’amico Antonio alla maniera cice-roniana: “Mitto tibi navem prora pup-pique carentem”. E che il buon Diopossa regalarti gioia e salute in granquantità sino alla fine dei tuoi giorni.

Da ultimo, un consiglio agli ammi-nistratori comunali galatinesi. Credo che sia maturato iltempo per insignire Antonio Mele del prestigioso “PremioCittà di Galatina”. E’ il minimo riconoscimento che si pos-sa dare ad un uomo che rappresenta degnamente la nostracittà in Italia e nel mondo. ●

marzo-aprile 2008 Il filo di Aracne25

L’urbanizzazione selvaggia

Melanton jolly joker

Rino Duma

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26 Il filo di Aracnemarzo-aprile2008

FRANCESCO TUNDO “Storia delle rivolte Operaie e Contadine nel Salento agli inizi del ‘900”Stampa “Aluisi Slogan” – pagg. 207 – Euro 10,00

Il libro presenta un’attenta e profonda analisi storica delle drammatiche vicen-de che, durante l’età giolittiana, si verificarono in diversi Comuni del Salento eche videro intere masse di contadini, operai ed artigiani in lotta per rivendica-re “pane e lavoro” ed una vita più umana contro i forti interessi dei ricchi pro-prietari terrieri e l’indifferenza di alcune Amministrazioni Comunali.

GIANLUCA VIRGILIO“Scritti cittadini”Casa editrice “EditSantoro” – pagg. 190 – Euro 9,00

Il libro presenta una riflessione sulla vita cittadina e si propone come contri-buto per l’elaborazione di una nuova cultura collettiva, che nasca dalle realiesigenze delle persone, ne esprima il loro vivere urbano, contro ogni conce-zione esornativa ed edificante e contro gli stereotipi dominanti.

FRESCHI DI STAMPA

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raduceva, durante un afoso, pigro e sonnolen-to pomeriggio della fine di giugno del 1951, inun’aula della Media“Pascoli”, nuova di zecca,

un brevissimo passo del De bello gallico, come provad’esame, tra l’altro, di licenza di scuola media, quan-do udì un tonar di ferree canne, che lo fece sobbalzaredi botto insieme alla Commissione esaminatrice.

Si inaugurava, infatti, nella vicina piazza Cesari,l’apertura della terza edizione della Mostra Mercato, al-lestita allora nelle aule dell’Edificio Scolastico del 1°Circolo Didattico.

Mentre il dr. D’Amico (don Carminucciu, il popolaremedico che aveva fondato l’omonima Casa di Cura),che il Consiglio Comunale da pochi giorni aveva pro-clamato Sindaco (l’elezione diretta del Sindaco era, al-lora, un sogno elettorale, che doveva ancora attenderealtri quarant’anni per poter diventare effettiva con-quista democratica!) porgeva il saluto di benvenutoalle Autorità presenti, la Commissione esaminatrice pro-muoveva Chicco con licenza di iscriversi, ove avesse avuto lepossibilità economiche, alla quarta ginnasiale.

Una visita veloce a casa per informare dell’esito dell’esa-me e per avere in regalo una manciata di poche lire.

Sua madre, col volto teso e lo sguardo che nervosamen-te scrutava di tanto in tanto il lungo vialone della casa colo-nica, lo aspettava con apparente indifferenza sedutasull’uscio di casa.

Sferruzzava, incro-ciando freneticamente ledita fra i ferri e il filoche veniva su singhioz-zando da un gomitolosaltellante in fondo alpaniere, su di una ma-glia di lana per l’inver-no.

Quella ruvida e irri-tante a maniche lunghe,che si indossava impru-dentemente senza alcu-na maglietta di cotone aprotezione della pelle, laquale aveva bisogno dialcuni giorni per supe-rare la urticante aggres-

sione di prurito che procurava fastidio e insofferenza.Già imbruniva e si aiutava con la luce fioca e rossiccia del

lume a petrolio posato sul tavolo della cucina, da dove pro-iettava sulla volta a botte della stanza una tremula ombraovale, sbiadita e dai contorni giallastri.

Suo padre, poco lontano vicino a llu pilacci, era intento,ma non estraneo all’attesa, a riparare con chiodi e martel-lo qualche talaretto rotto, alla luce bianca e spettrale di unaluna compiaciuta e sorridente .

Anche Fido, seduto immobile sulle zampe posteriori alcentro del vialone con le orecchie ritte, orientate verso lastrada principale e con la coda che con ritmo cadenzato ra-mazzava la terra battuta, aspettava impaziente di corrergliincontro e ritornare poi, saltellando, al suo fianco.

Lo aspettavano tutti, a casa.E sua madre, nell’attesa, già da tempo aveva riposto nel-

la tasca del suo mantile (grembiule da cucina) quei pochirisparmi.

Era certa che Chicco avrebbe superato l’esame.A quei tempi i genitori (quasi tutti) non affollavano mai

i gradini dell’Istituto scolastico, durante lo svolgimentodelle prove d’esame, per un ammiccamento di conferma oun cenno d’intesa con l’insegnante compiacente!

E comunque i genitori di Chicco non lo fecero mai.Forse lo avrebbero fatto se avessero saputo come farlo, o

se avessero conosciuto qualcuno a cui rivolgersi, o se aves-sero avuto le possibilità economiche per ripagare un favo-re ricevuto.

Nella scuola e nella vita, infatti, nessun favore può rima-nere non ricambiato, perché in un modo o nell’altro va co-munque ricompensato: “ci nu paca a llinu, paca a llana” (chinon paga con il lino, paga con la lana), ripeteva spesso suanonna.

Ed è proprio così, perché, altrimenti, il favore ricevuto sitrasforma in un inconfessato e sordo risentimento.

La loro partecipazione alla vita scolastica si limitava sol-tanto a controfirmare la pagella col risultato trimestrale, a

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SUL FILO DELLA MEMORIA

I racconti della “Vadea”

La licenza di scuola mediaLa licenza di scuola mediadi Pippi Onesimo

Foto di Giovanni O

nesimo

Il vialone

Foto di Giovanni Onesimo

Galatina - Scuola Media “Giovanni Pascoli”

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scorrere attentamente i voti posti accanto allematerie di insegnamento e a sottolineare conun diplomatico rimprovero, qualche cinque inmatematica, che rompeva la sufficiente armoniadegli altri voti.

Chicco aveva bisogno certamente di qualchelezione di ripetizione in matematica, ma le con-dizioni economiche della sua famiglia non glie-lo consentivano.

Infatti era più facile per i suoi genitori farquadrare il cerchio, che il bilancio familiare!

Nemmeno quando venivano pubblicati gliscrutini finali sulla bacheca, i suoi genitori fa-cevano una capatina a Scuola, perché si fidava-no ciecamente di Chicco e si accontentavanodelle notizie che riferiva loro con dovizia accu-rata di particolari.

Degli incontri scuola-famiglia nemmeno aparlare!

Chicco avrebbe gradito che almeno una vol-ta l’anno, in occasione della pubblicazione degliscrutini, fossero venuti a Scuola.

Di questo se ne dolse e ne soffrì in silenzio, anche se com-prendeva il loro schivo, naturale, riservato imbarazzo.

Uscire da casa in grande uniforme era per loro più impe-gnativo della solennità della liturgia di una Messa cantata,ma anche un grande impiccio e una notevole sofferenza .

Dovevano affrontare una particolare, accurata e solennelavatura: cioè fare il bagno delle grandi occasioni.

Suo padre si lavava all’aria aperta an carzunette (mutan-dine di tela confezionate artigianalmente a casa da sua ma-dre) e a torso nudo nel pilacci, di fronte alla ramesa, con unpezzo di sapone rettangolare, quello fatto in casa, duro eresistente di color camomilla e dall’odore di soda caustica.

Sua madre si arrangiava nel piccolo bagno di casa, postoaccanto alla camera da letto.

Poi vestivano l’abito nuovo, dall’odore di naftalina: l’uni-co per tutte le occasioni che conservavano, custodito gelo-samente nell’armadio, come una reliquia.

Calzare le scarpe poi, quelle scomode scarpe semprenuove col loro fastidioso scricchiolio, perché usate solo perla Messa o per il funerale o per la cresima o per il battesi-mo, era l’ultima sofferta incombenza per quei poveri pie-di.

Infatti, in campagna, si camminava scazzati (scalzi) pertutta l’estate con la pelle della pianta dei piedi che diventa-va dura comu lu solu (cuoio), mentre d’inverno si usavanocomodissimi gambali di gomma o scarpe vecchie e dimes-se.

Ma la preoccupazione maggiore, che diventava quasiuna angoscia, era quella di rischiare l’incontro con i geni-tori di compagni di scuola che non conoscevano e con iquali la buona creanza imponeva di scambiare qualche pa-rola e magari sorbirsi le vave scolastiche (bave, millante-rie, autoesaltazione) odiose, indigeste e noiose per gentesemplice, solare e trasparente.

I genitori di Chicco, abituati sempre a dire pane al pane evino al vino, come erano e come sono tuttora i nostri conta-dini, male avrebbero sopportato quelle sceneggiate, spe-cialmente suo padre, che di diplomazia e di prudenza, avolte, aveva pericolosamente poca!

Non ci metteva molto a mandare qualcuno a quel... paese.Per questo, in fondo in fondo, preferiva, come sempre,

che... avessero ragione loro! ●

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Galatina - La casa di cura “D’Amico”

Pippi Onesimo

Foto di Giovanni O

nesimo

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i salutò distrattamente e si incamminò lungo lastrada che lo portava a casa, mentre continuavo aguardarlo da lontano come per capire meglio il sen-

so della mia risoluzione. Aveva un modo dinoccolato dicamminare, oltre il ciglio della strada, alla destra dei pali del-la pubblica illuminazione, incurante delle pozzanghere ches’aprivano nel terreno non asfaltato del sobborgo cittadino.

Quel pomeriggio era caduta una pioggia battente. Io ePaolo avevamo rivisto le bozze del volantino,che l’indomani avremmo diffuso in occasionedello sciopero studentesco. Ce ne stavamo incamera mia, in attesa che spiovesse. Ma io sen-tivo che Paolo mi taceva qualcosa, perché nel suosguardo era insorta una certa diffidenza nei mieiconfronti, che mi faceva supporre in lui chissàquale pensiero inespresso. All’improvviso, vin-cendo la sua diffidenza, mi disse:

- Col volantino e con lo sciopero non otterre-mo un bel niente, dobbiamo almeno romperei vetri della scuola.

Paolo aveva pronunciato quelle parole conuna freddezza e con una determinazione cheveramente mi stupirono e mi spaventarono. Ioallora credevo di conoscerlo bene, perché cifrequentavamo fin dai tempi della scuola me-dia: imitavamo i più grandi, gli studenti poli-ticizzati delle scuole superiori e gliuniversitari, con la serietà di chi gioca a farel’uomo adulto. Da non poco tempo, dunque,io parlavo di rivoluzione con Paolo, ma l’ideadi commettere qualche violenza non mi eramai venuta in mente. Paolo mi stava propo-nendo di passare dalle parole ai fatti. Rifiutai.

Rifiutai e basta, perché non me la sentivo ditirar pietre a niente e a nessuno, perché avevopaura, e glielo dissi. Fu allora che Paolo ebbeuno strano ghigno:

- Tu non farai nessuna rivoluzione, e finirai col diventa-re un bravo borghese come tuo padre, come tanti altri.

Giuro che ancora oggi, a distanza di trent’anni, quando ciripenso, quelle parole mi indispettiscono quasi quanto al-lora, forse perché borghese sono diventato davvero, ho unafamiglia, dei figli, e lavoro per me e per loro; ed in effettinon ho mai fatto alcuna rivoluzione. Ma forse non è questoil senso che davamo allora alle parole borghese e rivoluzione.

Si dirà che quella di Paolo era una facile profezia, ma ionon lo credo, dal momento che a sedici anni non è per nul-la facile pensare a come si diventerà a quaranta.

Spiovve. Paolo andò via, nel modo che ho detto, con quelsuo passo svogliato e incauto, negligente e azzardato a untempo, entrando nelle pozzanghere e camminando alla de-stra dei pali della pubblica illuminazione, sporcandosi ebagnandosi le scarpe con grande noncuranza. Il cielo era

ancora carico di nubi ne-re e di lì a poco avrebbericominciato a piovere.Da quel giorno i mieirapporti con Paolo si in-tiepidirono fino a cessarequasi del tutto.

Qualche anno dopo loandai a trovare a casa. Fuquando tra gli amici siseppe che dopo il liceoPaolo non si sarebbeiscritto all'università. Eglisi rifiutava di parlare conchiunque e non uscivapiù da casa. Si diceva cheavesse l’esaurimento ner-voso.

Sua madre mi fece en-trare, accogliendomi conun breve sorriso, come sein me vedesse incarnataun’ultima speranza. Maquesto l’avrei capito solodopo. Nell’ingresso dellacasa popolare una fiocaluce penetrava da una fi-nestrella di plexiglas che

s’apriva nel mezzo del soffitto. La madre disse piangendoche non sapeva più come comportarsi con suo figlio, chese ne stava tutto il giorno in camera, non leggeva, non stu-diava, non ascoltava nemmeno la sua musica preferita, nonfaceva nulla, neppure usciva per prendere una boccatad’aria o per procurarsi il cibo. Lei glielo doveva portare incamera, perché non morisse di fame; Paolo metteva solo inordine la sua stanza, rifaceva il letto e spolverava i mobilie gli oggetti in continuazione, disse la madre, e ne usciva

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RACCONTI SALENTINI

Io e Paolo

di Gianluca Virgilio

Disegno di Luisa Coluccia

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solo per andare nel bagno; guardava distrattamente la te-levisione, senza scegliere i programmi, indifferentemente.

Non sapevo che dire e mi sentivo molto in imbarazzo da-vanti a quella madre così addolorata. Mi fece entrare nellastanza di Paolo e ci lasciò soli.

Mi sembra di rivederla ancor oggi, la camera di Paolo, eancor oggi ci ripenso non senza una certa inquietudine. Erastraordinariamente ordinata e pulita, il che ancor più risal-tava agli occhi del visitatore, perché in quel momento la il-luminava la luce intensa del tramonto che filtravaattraverso la cortina della tenda bianca. Se dovessi parago-nare a qualcosa quella stanza, penserei ad un ambulatorio,ad una sala operatoria sterilizzata, giacché anche un sento-re come d’ospedale si avvertiva nell’aria. Pochi libri dispo-sti con cura nei ripiani sopra il letto facevano bella mostradi sé, e nell’angolo era visibile il mobiletto dello stereo, ri-chiuso, senza un granulo di polvere che ne sporcasse il co-perchio. Il letto era stato ben rifatto, come dalla meticolosaed esperta mano di una cameriera d’albergo. Quella came-ra eccessivamente linda e pulita destava il sospetto che unambiente così asettico fosse il risultato di una cura mania-cale, non d’un normale desiderio di ordine e di pulizia.Chiunque nella stanza di Paolo si sarebbe sentito a disagioe mai avrebbe potuto usare le cose, ma solo esserne sugge-stionato e dominato.

Stava seduto su una poltrona, il collo curvo sul petto, losguardo reclino, le mani giunte tra le ginocchia: sembravaraccolto in meditazione o in preghiera. Al mio ingresso,sollevò lentamente lo sguardo, inarcando i sopraccigli lun-ghi e sottili, come destandosi da uno stato catatonico nelquale a lungo fosse giaciuto, e mi disse bruscamente:

- Che vuoi?Un po’ infastidito per l’accoglienza fredda e scortese, gli

risposi che ero lì persalutarlo, per averesue notizie, per rive-derlo prima di parti-re per l’università.

- Non voglio vede-re nessuno. Non sia-mo più bambini.

Capii allora cheinequivocabilmentePaolo mi era ostile.Mi feci forza e glichiesi il motivo per ilquale si era rinchiusoin casa e non uscivapiù.

- Non m’importa piùdi nulla.

Questa fu l’ultimafrase terribile che iogli udii pronunciare.Me la ricorderò sempre, perché anch’io ebbi modo di ripe-terla a me stesso, più e più volte, nel corso della giovinez-za, sempre dopo ognuna della mie delusioni. Ma a mequesta frase - non m'importa più di nulla - , avrebbe dato laforza di sopravvivere, di andare avanti, come fosse la for-

mula magica capace di salvarmi da qualche pericolo e met-termi in guardia contro ogni inganno dell’esistenza; se nonaltro perché dalla constatazione della morte del mondofantastico che mi ero creato e in cui avevo creduto, mi sa-rebbe derivata la curiosità di sapere come sarebbe andataa finire, quale piega avrebbe preso la mia vita, e il propo-sito di raccontare tutto ciò a chi avesse voluto ascoltarmi;senza avere intenzione di stupire, ma come un testimoneche ripete la verità dei fatti accaduti, e finalmente se ne li-bera e non ci pensa più. Ma quelle parole – non m’importapiù di nulla - Paolo le intendeva in un altro modo, in un mo-do perverso e masochistico: egli infatti salvava e abbellivale cose intorno a lui, rendendole intangibili, e annichiliva sestesso. E mi stupivo ancora una volta che Paolo il rivoluzio-nario, che tre anni prima entrava nelle pozzanghere spor-candosi indicibilmente come un bambino, lui che senzaesitare avrebbe tirato pietre contro la scuola perché volevacambiare il mondo, ora puliva il suo ritiro fino a farlo bril-lare, e spolverava le sue cose a tal punto da renderle intoc-cabili ed inutilizzabili, rivolgendo contro di sé quellaviolenza sottile e impercettibile che sfigurava la sua giorna-ta di recluso in un’asfittica sebbene pulita e linda camera diuna casa popolare.

Paolo non andò all’università e non volle mai saperne dilavorare. Rimase nel chiuso della sua stanza, guardando latelevisione e negandosi a quanti, me compreso, suonasse-ro il campanello di casa per fargli visita. Poi un giorno,qualche anno fa, lo rividi in giro per le strade del paese, ecercai di fermalo. Ma lui insisteva irragionevolmente neldire di non conoscermi, di non avermi mai conosciuto. Lorivedo qualche volta ancora oggi, per strada, che camminacome allora, in modo dinoccolato, solo un po’ appesantitodagli anni e dall’inattività, e nella sua svogliatezza non c’èpiù nessun azzardo, ma solo un abbandono senile, unosvagato sguardo al mondo circostante, come intravisto connoncuranza nello schermo di un televisore. ●

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Gianluca Virgilio

Disegno di Luisa Coluccia

Disegno di Luisa Coluccia

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