L'Italia e la storia della conservazione preventiva di Simon Lambert

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Il seguente articolo è stato pubblicato per la prima volta sulla rivista on-line CeROArt: Référence électronique Simon Lambert, « Italy and the history of preventive conservation », CeROArt [En ligne] , 6 | 2010, mis en ligne le 18 novembre 2010, Consulté le 30 mars 2011. URL : http://ceroart.revues.org/1707 L'Italia e la storia della conservazione preventiva SIMON LAMBERT Riassunto L'Italia è un punto di riferimento per il settore del restauro e della conservazione in tutto il mondo, ma deve ancora fare un salto definitivo verso la conservazione preventiva. Questo articolo esamina alcuni dei motivi che spiegano il perché, nella speranza che questo possa essere utile anche ad altri paesi. Dopo un breve sguardo alla storia della conservazione preventiva dall'antichità alla Seconda Guerra Mondiale, vengono trattate due iniziative italiane, raramente discusse: la Commissione Franceschini (1964) e il Piano pilota per la conservazione programmata dei beni culturali dell’Umbria (1976). Introduzione La conservazione preventiva comprende "tutte le misure e azioni volte ad evitare e ridurre al minimo il futuro deterioramento o la perdita"(ICOM-CC 2008; traduzione dell’autore). Contrariamente ai trattamenti di conservazione che riguardano singoli oggetti, la conservazione preventiva si concentra su intere collezioni e il loro ambiente circostante. Al di là di prescrizioni tecniche inerenti il clima, la luce e la manipolazione, la conservazione preventiva è un approccio concettuale alla conservazione (Caple 1994) che implica un cambiamento di mentalità, da come a perché le cose dovrebbero essere conservate (de Guichen 1995). Che cosa determina questo cambiamento e perché a un paese come l'Italia, così orgoglioso del proprio patrimonio storico-artistico, manca attualmente una strategia per la protezione del patrimonio culturale, che abbracci una visione globale a lungo termine? Questo articolo esamina due momenti chiave nella storia recente in cui si sono presentate occasioni in Italia per integrare la conservazione preventiva nella politica di dei beni culturali masenza esiti concreti, ossia la Commissione Franceschini (1964) e il Piano pilota per la conservazione programmata dei beni culturali dell’Umbria (1976). Al fine d inserire questi tentativi in un contesto storic, viene fornito un breve panorama dello sviluppo della conservazione preventiva. Tali tentativi falliti in Italia possono essere istruttivi per altri paesi, che cercano di sensibilizzare l'opinione pubblica riguardo l'importanza di una pianificazione lungimirante per la tutela dei beni culturali e di un’ allocazione efficace delle risorse.

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Dal Numero 6 di Novantarerosso la versione integrale tradotta in italiano dell'articolo del Dott. Lambert, collaboratore dell'ICCROM.

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Il seguente articolo è stato pubblicato per la prima volta sulla rivista on-line CeROArt:

Référence électronique

Simon Lambert, « Italy and the history of preventive conservation », CeROArt [En ligne] , 6 | 2010, mis en ligne le 18 novembre 2010, Consulté le 30 mars 2011.

URL : http://ceroart.revues.org/1707

L'Italia e la storia della conservazione preventiva

SIMON LAMBERT

Riassunto

L'Italia è un punto di riferimento per il settore del restauro e della conservazione in tutto il mondo, ma deve ancora fare un salto definitivo verso la conservazione preventiva. Questo articolo esamina alcuni dei motivi che spiegano il perché, nella speranza che questo possa essere utile anche ad altri paesi. Dopo un breve sguardo alla storia della conservazione preventiva dall'antichità alla Seconda Guerra Mondiale, vengono trattate due iniziative italiane, raramente discusse: la Commissione Franceschini (1964) e il Piano pilota per la conservazione programmata dei beni culturali dell’Umbria (1976).

Introduzione

La conservazione preventiva comprende "tutte le misure e azioni volte ad evitare e ridurre al minimo il futuro deterioramento o la perdita"(ICOM-CC 2008; traduzione dell’autore). Contrariamente ai trattamenti di conservazione che riguardano singoli oggetti, la conservazione preventiva si concentra su intere collezioni e il loro ambiente circostante. Al di là di prescrizioni tecniche inerenti il clima, la luce e la manipolazione, la conservazione preventiva è un approccio concettuale alla conservazione (Caple 1994) che implica un cambiamento di mentalità, da come a perché le cose dovrebbero essere conservate (de Guichen 1995). Che cosa determina questo cambiamento e perché a un paese come l'Italia, così orgoglioso del proprio patrimonio storico-artistico, manca attualmente una strategia per la protezione del patrimonio culturale, che abbracci una visione globale a lungo termine?

Questo articolo esamina due momenti chiave nella storia recente in cui si sono presentate occasioni in Italia per integrare la conservazione preventiva nella politica di dei beni culturali masenza esiti concreti, ossia la Commissione Franceschini (1964) e il Piano pilota per la conservazione programmata dei beni culturali dell’Umbria (1976). Al fine d inserire questi tentativi in un contesto storic, viene fornito un breve panorama dello sviluppo della conservazione preventiva. Tali tentativi falliti in Italia possono essere istruttivi per altri paesi, che cercano di sensibilizzare l'opinione pubblica riguardo l'importanza di una pianificazione lungimirante per la tutela dei beni culturali e di un’ allocazione efficace delle risorse.

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Rintracciare le origini della conservazione preventiva

La volontà di ridurre al minimo il deterioramento e la perdita dei beni culturali è universale. Questo sentimento permea attraverso molti trattati europei dell'antichità, del Medioevo e del Rinascimento. L'approfondita codificazione di tecniche artistiche ed istruzioni per la manutenzione delle opere d’arte indicano che queste società davano valore alla loro produzione artistica contemporanea ed avevano grande cura nel garantire che tale patrimonio fosse stato trasmesso ai posteri. Nel corso dei millenni, esiste una continuità impressionante di prescrizioni per la protezione di edifici, sculture e dipinti da fuoco, insetti, microrganismi, terremoti, acqua piovana e umidità eccessiva (Cagiano de Azevedo 1952; Koller 1994).

Diversi esempi provenienti da tutto il XVII secolo rivelano anche una preoccupazione per la tutela dei beni culturali dal passato da ulteriori danni. I progetti di conservazione degli affreschi di Raffaello a Roma, così ben documentati (1659 e 1702), includevano per esempio misure preventive per bloccare le infiltrazioni di acqua, ridurre l'accumulo di polvere e limitare i copisti dal macchiare le pitture con le loro carte da ricalco intrise di olio (Zanardi 2007).

Alcuni restauratori mostrano anche una consapevolezza del danno potenziale causato dagli interventi stessi. Quasi un secolo dopo, Pietro Edwards, Direttore al restauro delle Pubbliche Pitture di Venezia e del Rialto, avverte gli operatori e gli ispettori di limitare gli interventi eccessivamente invasivi (Edwards 1777) e sostiene la messa in opera di regimi di prevenzione mirati alla conservazione di collezioni ntere (Edwards 1798).

Un esempio remoto di conservazione preventiva, applicato alle collezioni, viene documentato in Museographia, la guida alle gallerie, musei e le biblioteche d'Europa, scritta dallo studioso e mercante di Amburgo Caspar F. Neickel. Nella guida, l'autore fornisce istruzioni sull’evitare problemi di umidità esponendo gli oggetti in stanze orientate a sud-ovest, sull’importanza di assicurare un monitoraggio costante degli insetti nelle biblioteche e sulla prevenzioen dei danni alle opere esposte mediante un'attenta progettazione dell’area espositiva (Neickel 1727, 378, 247). Egli elenca anche 25 regole di comportamento per i visitatori, che ricordano le moderne guidelines per la conservazione delle collezioni museali; queste includono istruzioni per la manipolazione degli oggetti e per la prevenzione dal furto (Neickel 1727, 401-403).

In seguito a questi casi sporadici, un corpo coeso di conoscenze noto come housekeeping (it. “manutenzione delle case”) emerse nel XVI secolo in Inghilterra. Le pratiche di housekeeping, che consistevano in direttive per la manutenzione e la gestione del personale in case di proprietà, venivano tramandate in diari, manuali, lettere e dipinti. Queste linee guida includevano raccomandazioni per il controllo dell’umidità, del calore, luce, degli insetti, della polvere e per la prevenzione dei danni causati da abrasioni (Abey-Koch 2006).

La tutela dei beni culturali si è spesso materializzata in attività programmate che comprendono sia un regolare monitoraggio che manutenzione. Una coscienza della necessità di prevenire il deterioramento costante e cumulativo dei beni culturali esiste quindi da migliaia di anni.

La guerra e la minaccia dei rischi

Sebbene il concetto di prevenzione continua fosse probabilmente già radicato nella pratica quotidiana, fu la perdita totale o la paura di perdita totale, a risvegliare la necessità di innescare attività di conservazione preventiva più strutturate. La progressiva integrazione dei metodi di analisi

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scientifica nel settore dei beni culturali fornì anche nuovi approcci per coloro che erano incaricati alla protezione delle collezioni.

Il settore della conservazione del restauro è ormai consapevole delle misure di sicurezza e dell’evacuazione delle raccolte museali del British Museum (Caygill 1992) e della National Gallery (Saunders 1992) effettuate nei mesi precedenti i raid aerei della Prima Guerra Mondiale (Figura 1).

Figura 1 Oggetti dal British Museum nella metropolitana di Londra

In seguito ai danni conservativi causati da un improprio stoccaggio delle collezioni del British Museum, venne fondato il laboratorio scientifico all’interno del museo. Questo episodio contribuì alla migrazione progressiva della scienza nel mondo dei musei (Plenderleith 1978). Lentamente, la prevenzione e lo studio dei meccanismi di deterioramento sono stati aggiunti alle tradizionali attività dei laboratori di restauro (Plenderleith e Philippot 1960).

Durante la Seconda Guerra Mondiale, l'uso di raid aerei fu intensificato, mentre i beni culturali vennero saccheggiati e depredati intenzionalmente. Come le minacce cambiavano così le collezioni del British Museum furono spostate più volte (Plenderleith 1978; Caygill 1992).

Presso la National Gallery, il personale aveva ricevuto un addestramento alle emergenze particolari, permettendo così alle intere collezioni di essere evacuate solo tre giorni prima della dichiarazione di guerra (Sauders 1992). I lavori furono successivamente spostati in ambienti con clima controllato: i sotterranei di alcune cave di ardesia del Galles (Figura 2) (Rawlins 1946).

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Figura 2 Dipinti custoditi nella cava di Manod in Galles

In Italia, un’operazione poco nota, ma di proporzioni considerevoli, fu condotta per proteggere il patrimonio culturale mobile ed immobile sotto la guida del Ministro della Pubblica Istruzione Bottai del regime fascista. Quando scoppiò la guerra, fu detto che la maggior parte dei beni culturali dell'Italia era stata resa "invulnerabile" ai danni (Lazzari 1942, vi.).

Figura 3 Protezione della Colonna Antonina a Roma

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Figura 4 Protezione dell'Ara Pacis a Roma

In tutta la penisola, edifici storici e monumenti furono protetti strutturalmente con impalcature, muri di sostegno, contrafforti e pilastri. Le superfici decorate furono coperte con sacchi di sabbia ed altri sistemi per gli elementi più fragili (Figure 3-4) (Lazzari 1942). L’Istituto Centrale del Restauro (ICR), fondato a Roma nel 1939, creò un Consiglio Tecnico incaricato di verificare l’idoneità delle condizioni ambientali delle opere d'arte durante la guerra (Lazzari 1942). Opere mobili dai più importanti centri artistici furono trasferite in centinaia di depositi, lontani da ogni obiettivo militare (Lambert 2008).

Con le esperienze delle guerre, emergeva una base di conoscenze importante per giustificare la crescente spesa per la protezione di intere collezioni, piuttosto che interventi su singoli beni. Di fronte a minacce generalizzate, catastrofiche e urgenti, l’Italia programmò ed attuò un’operazione di singolari proporzioni. Dopo la guerra, la grande sfida sarebbe stata la protezione dei beni culturali del paese contro un progressivo degrado, e contro l’abbandono e l’incuria.

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La Commissione Franceschini: una prima possibilità per Italia

Negli anni sessanta e settanta del Novecento, l'Italia ebbe diverse occasioni di adottare misure di conservazione preventiva, ma tali tentativi fallirono già in fase di attuazione. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la prosperità economica dei paesi alleati stimolò una rapida crescita, tecnologica e industriale, e l'espansione del settore edile. Grida di disapprovazione si fecero sentire a livello internazionale nel settore dei beni culturali. L'International Council of Museums (ICOM 1962, res 4; traduzione dell’autore) deliberò di proteggere il patrimonio culturale e naturale da una rapida industrializzazione e da "l'era meccanica". Analogamente l’ International Council of Monuments and Sites (ICOMOS) espresse la sua volontà di proteggere il patrimonio monumentale da uno sfrenato e disarmonico sviluppo (Gazzola 1964).

Prima della Seconda Guerra Mondiale, l'Italia era fondata su un’economia principalmente rurale e sottosviluppata. In seguito fu industrializzata rapidamente con l'afflusso di finanziamenti internazionali per la ricostruzione. Nuove infrastrutture furono sviluppate, fiorì l'industria e la popolazione cominciò a muoversi fuori dai centri storici verso le periferie di recente costruzione. In Italia questo importante cambiamento socio-economico è stato ritenuto responsabile del lento avvio di degrado urbano e ambientale (Zanardi, 1999).

In risposta alla minaccia imminente di costruzione abusiva e di speculazione edilizia, fu aperta una pubblica inchiesta nel 1964. Comunemente chiamata Commissione 'Franceschini' dal ministro che la presiedeva, questo gruppo era composto da 16 membri del parlamento e 11 esperti di storia dell'arte, archeologia, diritto e biblioteconomia. La Commissione fu incaricata della revisione della legislazione vigente, del quadro amministrativo e dei meccanismi di finanziamento per la protezione del patrimonio culturale. A seguito di un’approfondita analisi della situazione furono emesse 84 raccomandazioni. Queste furono sintetizzate in nove “raccomandazioni” per un'azione urgente, indicando chiaramente un crescente desiderio di cambiamento sociale:

- Urgenza di provvedere alla sicurezza del patrimonio culturale. - Provvedimenti d’urgenza per la difesa ambientale - Catalogazione dei Beni culturali - Restituzione di Beni a dignità artistica - Provvedimenti d’urgenza contro deturpazioni di Beni culturali - Sedi per gli organi centrali e per le istituzioni scientifiche nazionali - Provvedimenti d’urgenza per la formazione del personale scientifico e tecnico - Interventi per l’arte contemporanea - Educazione e sensibilizzazione dei cittadini al rispetto dei Beni culturali (CITVPSAAP 1967,

133-139).

L'Ufficio Centrale per il Catalogo e la Documentazione, fondato nel 1969, fu un risultato diretto della terza raccomandazione. Seguirono ulteriori due Commissioni: la 'Papaldo' I (1968) e la 'Papaldo' II (1970). Il loro scopo era quello di estrarre dalle dichiarazioni e raccomandazioni della Commissione Franceschini ciò che poteva essere trasformato in legislazione. Purtroppo, niente si materializzò di questo lavoro e le raccomandazioni non furono mai esaminate dal Parlamento (Condemi 1993).

Lo storico del restauro e la conservazione Bruno Zanardi (1999) sostiene che le Commissioni Franceschini e Papaldo furono inconcludenti per tre motivi principali. In primo luogo, la lobby di sviluppo immobiliare, saldamente ancorata all'interno del governo, ostacolò intenzionalmente

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l'attività delle commissioni. In secondo luogo, la burocrazia italiana era notoriamente lenta e inefficace. In terzo luogo, nel 1968 la priorità in Europa fu data al far fronte alle violente rivoluzioni ed alla democratizzazione delle università.

Anche se raramente menzionate, le implicazioni economiche portate da queste raccomandazioni avrebbero potuto essere notevoli, in quanto avrebbe richiesto un aumento significativo dei fondi stanziati per i beni culturali (Urbani 1977). Purtroppo, sarebbero passati diversi anni prima che l’idea di tutela globale del patrimonio fosse stata resuscitata.

Giovanni Urbani: una seconda possibilità per l’Italia

Dalla specificità alla globalità

Anche se il lavoro delle Commissioni Franceschini, Papaldo I e II fu inconcludente, ci fu una certa presa di coscienza pubblica del rapporto precario tra il patrimonio culturale e naturale. Nel 1966, le alluvioni di Firenze e Venezia furono un richiamo violento a questa fragilità (UNESCO 1967). Nello stesso anno, si verificò una frana ad Agrigento, in Sicilia, mostrando le gravi conseguenze di una sfrenata espansione urbanistica e della speculazione edilizia nella Valle dei Templi (Erbani 2006). Nei primi anni Settanta, i tempi erano maturi in Italia per riesaminare ciò che poteva essere fatto in concreto per affrontare questi problemi e prevenire danni futuri.

In un'intervista radiofonica, Giovanni Urbani, storico dell'arte, restauratore e futuro Direttore dell'ICR (1973-1983), espresse che l'essenza del problema in Italia stava nella capacità di fondere la protezione del patrimonio naturale e culturale in un unico piano (Urbani 1971). Urbani riteneva che come le opere d'arte perdevano ogni significato quando decontestualizzate dalla storia dell'arte nel suo complesso, così la tutela del patrimonio culturale doveva essere affrontata a livello globale e integrata con la protezione del patrimonio naturale.

Sebbene Urbani fosse lui stesso un restauratore qualificato, era molto scettico riguardo gli obbiettivi della sua professione. Egli osservò che, dal 1967 al 1976 la spesa pubblica sul 'restauro' (cioè interventi di natura di estetica su oggetti singoli) era decuplicata, senza alcun miglioramento riscontrabile nelle condizioni generali dei beni culturali in Italia (Urbani 1977,113).

Urbani proponeva qualcosa di radicalmente diverso dall’intervento di restauro classico, cioè la conservazione preventiva. Sosteneva che la scienza aveva un ruolo importante da svolgere nella conservazione (Urbani 1973), ma solo se fosse applicata a campioni di quantità importanti, per esempio intere raccolte, e non a singoli oggetti (Urbani 1968). Nel fondere la protezione della natura con quella dei beni culturali, e nell’orientare decisioni di conservazione in base ad indagini scientifiche, si otteneva una manifestazione concreta della sua visione integrata e globale della conservazione.

La conservazione programmata e il Piano pilota dell’Umbria

È stato affermato, anche se lo stesso vale per altri paesi, che il patrimonio culturale italiano è un caso unico per l'importanza del legame con il territorio, della sua distribuzione geografica capillare, della sua stratificazione e continuità per millenni, e per la sua presenza in quantità notevoli (Zanardi 1999; Settis 2005). Nel 1976, Urbani presentò al Ministero Italiano dei Beni Culturali il Piano pilota per la conservazione programmata dei beni culturali dell’Umbria (ICR 1976), un progetto fortemente ancorato in questa specificità.

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Una volta attuato, il Piano pilota avrebbe fornito una visione più comprensiva della vulnerabilità del patrimonio culturale mobile ed immobile, nonché del suo grado di esposizione a diversi fattori di deterioramento: geologico-sismici, meteoclimatici, inquinamento atmosferico, e spopolamento. Questo avrebbe potuto consentire al Ministero dei Beni Culturali di prendere decisioni di conservazione entro un quadro sistematico e programmatico.

Figura 5 Mappa del Piano Pilota che mostra la distribuzione

degli eventi sismici dall'anno 0 al 1969

Come prima tappa,i dati erano stati raccolti nella regione Umbria, laddove i nuovi strumenti per la gestione dei rischi e per la formazione sarebbero poi stati messi in applicazione. Avrebbe seguito un piano per il territorio intero che tenesse conto della specificità culturale di ciascuna regione (Urbani 1976).

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In questo periodo, il termine conservazione preventiva era emerso nel settore museale (Thomson, 1971; de Guichen, com. pers.). Urbani usava invece il termine 'conservazione programmata,' presumibilmente perché lo strumento che intendeva sviluppare avrebbe aiutato a programmare attività di manutenzione ad intervalli di tempo specifici. Secondo Urbani stesso, la conservazione programmata era una "tecnica" che comprendeva "l’insieme delle misure periodiche preventive atte a mantenere quanto più possibile costante e bassa la velocità di deterioramento dei materiali antichi" (Urbani 1976, 109). Mentre il concetto di restauro preventivo di Brandi (1963) era rimasto un’astrazione teorica (Lambert 2008), la conservazione programmata di Urbani era basata su azioni concrete con risultati misurabili.

Il Piano Pilota aveva tre obiettivi principali:

• la valutazione • degli effetti di alcuni fattori di deterioramento (…) sullo stato di conservazione dei beni

culturali dell’Umbria; • la definizione delle varie tecniche di rilevamento e intervento, e dei relativi programmi

operativi, mediante cui assicurare la conservazione dei beni predetti; • la definizione della struttura e delle dimensioni di un organismo tecnico territoriale per la

regolare attuazione dei programmi di rilevamento e intervento (…). definire le tecniche da utilizzare per la documentazione e trattamenti, e istituire programmi di manutenzione del patrimonio culturale.(Urbani 1976, 105).

In una fase preliminare, i dati erano stati raccolti in Umbria per capire la composizione e la distribuzione regionale dei beni culturali e dei fattori di deterioramento selezionati. Furono create schede per la catalogazione dei vari tipi di beni, e diverse mappe regionali indicando la concentrazione e l’intensità dei fattori di deterioramento (Figura 5) (Urbani 1976).

La formazione era un elemento centrale del Piano pilota. Urbani credeva fermamente che invece di formare restauratori, l'Italia doveva formare tecnici in grado di gestire la conservazione programmata per una varietà di materiali e tipologie di beni culturali (Urbani 1977). A tal fine, manuali didattici chiamati 'DIMOS' (Corso di manutenzione di dipinti murali, mosaici e stucchi) furono pubblicati dal 1978 al 1979 (ICR 1979). In Italia, i manuali DIMOS (ora fuori stampa) sono utilizzati ancora oggi in numerosi corsi di conservazione e restauro.

In un futuro lontano, una volta la conservazione programmata integrata nelle politiche ministeriali, Urbani riteneva che all'Italia sarebbe anche servita una nuova ed innovativa legislazione per la tutela dei beni culturali. Era anche convinto che il Ministero dei Beni Culturali doveva aumentare la sua presenza territoriale, decentralizzando il proprio potere e avviando una nuova collaborazione con il Ministero dell’Ambiente, il Ministero della Pubblica Istruzione e con gli enti regionali (Zanardi 2006). Purtroppo, niente di tutto ciò fu mai attuato.

Il fallimento del Piano pilota

Nei mesi seguenti la pubblicazione del Piano pilota di Urbani, emerse una polemica di cui Perrotta (2004) fornisce un riassunto. Sembrava che l'ICR fosse stato criticato severamente per aver affidato al settore privato lavoro che sarebbe dovuto rimanere nel settore pubblico. In breve, il Piano pilota nasceva da una collaborazione con TECNECO, una filiale dell’ENI. Successive disapprovazioni arrivarono dal partito Repubblicano (allora al potere), che sosteneva che con questo suo piano Urbani cercasse di appropriarsi del ruolo della Regione. Questo creò un’agitazione considerevole all’interno

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della Soprintendenza dell’Umbria, la quale si oppose al progetto categoricamente. Roberto Abbondanza, allora ispettore regionale per i beni culturali in Umbria, dichiarò sui quotidiani nazionali che il suo ruolo era stato usurpato e che il Piano pilota doveva essere riscritto per intero. Inoltre, il partito Comunista sosteneva che Urbani volesse fare guadagnare l’ENI per la correzione dei propri errori, visto che il progetto si concentrava in parte sul degrado associato all’inquinamento industriale. Il partito Comunista affermava anche che nel promuovere la privatizzazione della gestione del patrimonio culturale, il Piano pilota era antidemocratico.

Zanardi (1999, 224), un ex-studente di Urbani presso l’ICR, ritiene che questa polemica è stata alimentata intenzionalmente dalla burocrazia ministeriale, e da sovrintendenti e professori universitari non qualificati per commentare il contenuto tecnico e scientifico del progetto. Ciò avvenne, sostiene Zanardi, perché tutti avrebbero perso il loro controllo manageriale nel momento in cui il Piano pilota fosse stato attuato.

Giorgio Torraca (2004), un caro amico e collega di Urbani, spiegava che Urbani odiava gli ostacoli, e anche se era lui stesso un funzionario pubblico, Urbani non accettò mai i principi fondamentali della pubblica amministrazione italiana. Anche se la collaborazione con TECNECO era stata inizialmente proposta ad Urbani dal Ministro social-democratico Matteotti, anche lui amico di Urbani, lavorare con la società era equivalente ad aggirare i consueti canali burocratici ed esporre il progetto ad opposizioni. Dopo una serie di controversie con il Ministero dei Beni Culturali su questa e altre questioni, alla fine, Urbani si dimise dal suo incarico di Direttore dell’ICR nel 1983.

Uno dei pochi risultati concreti del Piano pilota apparve qualche anno dopo. Il progetto per la Carta del Rischio del Patrimonio Culturale fu attivato nel 1987 sotto la direzione di Pio Baldi, un architetto dipendente dell’ICR. La Carta sviluppava uno degli aspetti del Piano pilota, cioè la mappatura della distribuzione dei beni culturali e dell’intensità dei fattori di deterioramento. Urbani, anche se non fu consultato nel progetto, lo guardava con favore:

Una tale carta (…) permette di organizzare il lavoro in rapporto a qualcosa di definito, analizzato, che impone delle scadenze. Oggi i soprintendenti non hanno nulla di tutto questo. E di manutenzione non se ne parla. Dal punto di vista tecnico da questo può nascere una politica di tutela vera e propria (Urbani 1997).

Da tempo si è detto che la Carta del Rischio sarebbe stata utilizzata come strumento per la gestione della conservazione a livello nazionale (ICR 1987, Bartoli, Palazzo e Urbisci 2003; Accardo 2004). Eppure, 20 anni dopo, queste promesse non sono ancora state mantenute a pieno.

Discussione

Come è avvenuto negli anni della Commissione Franceschini, la costruzione abusiva e la speculazione edilizia sono tuttora problemi molto attuali (Tosatti 2003; GIU 2010), i quali continuano ad avere un impatto nefasto sulla conservazione dei beni culturali in Italia (Deliperi 2010).

In un paese con una forte tradizione burocratica, spesso difficile da conciliare con le esigenze del settore privato, ci si può chiedere se il destino del Piano pilota sarebbe stato diverso se Urbani avesse messo da parte la sue convinzioni personali ed avesse agito seguendo l’iter burocratico previsto dal Ministero dei Beni Culturali. Certo, è probabile che senza il supporto di TECNECO, questo documento non avrebbe mai visto la luce.

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Anche se aneddoti personali e resoconti delle controversie aiutano a contestualizzare gli eventi che hanno portato al fallimento del Piano pilota, gli aspetti economici e morali dovrebbero essere ulteriormente sottolineati. Nel 1976, la spesa pubblica annuale per il restauro di proprietà pubbliche e private di monumenti, gallerie e siti archeologici fu di circa 35 miliardi di lire (Urbani 1977). L’attuazione del Piano pilota sarebbe costata solo circa 1,4 miliardi di lire (escluso il tempo del personale), o il 4 % di tale importo (ICR 1976). Questo solleva una questione che è centrale alla nozione stessa di conservazione preventiva. Quanto denaro era disposta ad investire la pubblica amministrazione italiana nel 1976, per prestazioni di cui avrebbero usufruito generazioni future? Al contrario del restauro, la conservazione preventiva non ha risultati visibili e adottarla richiede un significativo cambiamento di mentalità.

Recentemente, Michalski (2008, 755) ha utilizzato il concetto di tasso sociale di sconto (TSS) per indagare sul processo decisionale inerente alla conservazione. L’autore offre la seguente parafrasi per il TSS: ”l'interesse che qualcuno è disposto a pagare (...) per ottenere qualcosa adesso 'a credito'." Applicato alle due iniziative principali discusse in questo articolo, si può dire che l'Italia operava con un TSS elevato. In altre parole, nell’omettere di investire nella conservazione a lungo termine in passato, quella generazione è riuscita ad amplificare le perdite e il deterioramento dei beni culturali per cui è responsabile ora. Vale la pena notare che il Ministero per i Beni e le Attività Culturali (MiBAC) si interessa tuttora a singoli interventi di restauro con alta visibilità e commerciabilità, com’è ben visibile nella sezione “Grandi restauri” del suo sito web.

Uno dei pochi (se non l'unico) piano di conservazione nazionale attuato con successo è lo spesso citato Deltaplan nei Paesi Bassi. Invece di prendere origine da professionisti nel settore dei beni culturali, la spinta per questo piano è arrivata da una relazione del 1987 emessa dalla Corte dei Conti, che evidenziava problemi maggiori nel modo in cui i fondi pubblici venivano spesi per la conservazione delle collezioni nazionali. Per sviluppare il Deltaplan, le istituzioni interessate sono state consultate sistematicamente, istituendo un interscambio tra loro e il governo centrale (Talley 1999). Preziose lezioni possono essere tratte da questo episodio sul valore di istituire consultazioni con le parti interessate per assecondare l’introduzione della conservazione preventiva e l'importanza di fornire forti giustificazioni finanziari per favorire la sua attuazione.

Conclusione

La storia dimostra che, sebbene il concetto di conservazione preventiva e manutenzione continua fosse intrinseco a molte società, strategie di grandi dimensioni sono spesso adottate in tempi di emergenza o in seguito ai disastri, per evitare il ripetersi di errori di pianificazione. Alla fine degli anni sessanta e settanta, l'Italia sembrava essere in una posizione ideale per poter attuare una strategia nazionale di conservazione preventiva per i beni culturali, ma in entrambi i tentativi non vi è riuscita.

In Italia, le questioni inerenti ai beni culturali sono regolate dallo Stato, e la prevenzione e la manutenzione sono iscritte nel Codice dei Beni Culturali e Paesaggistici (MiBAC 2004, art. 29). Anche se le strutture per facilitare l’attuazione di una strategia nazionale per la protezione dei beni culturali sono presenti, leggi e regolamenti non hanno ancora dato luogo ad un piano d’azione concreto. Attualmente, la conservazione preventiva è senza dubbio la soluzione a lungo termine più conveniente per l'Italia, questo in particolare, visto che dal 2007 la spesa pubblica per la tutela e la promozione del patrimonio culturale in Italia è stata ridotta del 35% (MiBAC 2009, 27).

Recentemente, Roberto Cecchi, Direttore Generale del patrimonio storico artistico ed etnoantropologico del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, ha così commentato la rovina dei

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siti archeologici di Roma sul New York Times: " È necessario impostare metodi e regole. Dobbiamo iniziare a pensare al futuro, non solo rispondere quando la crisi è già in atto" (Kimmelman 2010; traduzione dell’autore). Ora, occorre un impegno formale da parte del governo centrale per avviare questo cambiamento di mentalità. Meglio tardi che mai.

BIBLIOGRAFIA

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