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L’internazionalizzazione delle imprese italiane nel settore del mobile arredamento Facoltà di Economia Corso di laurea in Economia Aziendale Cattedra di Economia e Gestione delle imprese internazionali 1

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L’internazionalizzazione delle imprese italiane nel settore del mobile arredamento

Facoltà di EconomiaCorso di laurea in Economia Aziendale

Cattedra di Economia e Gestione delle imprese internazionali

Relatore: Chiar.mo Prof. Matteo G. Caroli Candidato: Marco Vatteroni

Correlatore: Chiar.mo Prof. Alberto Marcati

CAPITOLO I1

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1 L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE....10

1.1 CENNI INTRODUTTIVI................................................................101.2 L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE E LA GLOBALIZZAZIONE DEI MERCATI..........................................................................................12

1.2.1 Il dinamismo del mercato mondiale: un problema per le imprese. 171.2.2 Le determinanti della globalizzazione dei mercati.........................231.2.3 La nascita di nuovi concorrenti.......................................................28

1.3 IL PROCESSO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE.............311.3.1 Il processo evolutivo dell’impresa internazionalizzata...................311.3.2 Le cause del processo di internazionalizzazione............................45

1.3.2.1 Forze interne........................................................................................451.3.2.2 Forze esterne.......................................................................................54

1.3.3 Le fasi del processo di internazionalizzazione................................571.3.4 Le modalità di internazionalizzazione.............................................61

1.3.4.1 Gli accordi produttivi............................................................................651.3.4.2 L'investimento diretto estero...............................................................691.3.4.3 Le joint venture....................................................................................73

1.3.5 I modelli organizzativi.....................................................................74

CAPITOLO II2 L’ANDAMENTO DELL’ INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE ITALIANE.....................................79

2.1 CENNI STORICI.........................................................................792.2 LE IMPRESE ITALIANE.................................................................84

2.2.1 La struttura imprenditoriale...........................................................842.2.2 La specializzazione delle imprese italiane......................................892.2.3 Nazionalità e competitività delle imprese......................................96

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2.3 L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE ITALIANE.....................100

CAPITOLO III3 I DISTRETTI....................................................111

3.1 CONCETTI GENERALI................................................................1113.2 IMPRESA DISTRETTUALE, INTERNAZIONALIZZAZIONE E VANTAGGIO COMPETITIVO..................................................................................1133.3 LE STRATEGIE DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE DISTRETTUALI

1193.3.1 Il profilo delle imprese..................................................................1213.3.2 La dimensione dell’internazionalizzazione produttiva..................1223.3.3 L’ Organizzazione della supply chain............................................1243.3.4 Processi di internazionalizzazione e tecnologie di rete................1313.3.5 Gli investimenti diretti all’estero..................................................136

CAPITOLO IV4 IL SETTORE DEL MOBILE ARREDAMENTO..........138

4.1 LE CARATTERISTICHE DEL SETTORE.............................................1384.2 COMPLESSITÀ DELL’AMBIENTE COMPETITIVO.................................1444.3 I SISTEMI PRODUTTIVI LOCALI DEL LIVENZA E DEL QUARTIER DEL PIAVE

1504.3.1 Unità locali e addetti nei distretti mobilieri..................................1584.3.2 La fase della crescita estensiva....................................................1634.3.3 Caratteristiche generali delle imprese.........................................1724.3.4 Il portafoglio prodotti....................................................................1774.3.5 L’apertura internazionale dei sistemi produttivi locali..................183

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5 CONCLUSIONI.................................................190BIBLIOGRAFIA...................................................................................................................................................................................195

INTRODUZIONE

È possibile affermare che l’internazionalizzazione ha influenzato e continua a influenzare il tradizionale modello industriale “all’italiana”.

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Lo sviluppo della globalizzazione richiede alle aziende italiane uno sforzo per crescere nelle dimensioni e per migliorare l’organizzazione aziendale.Negli ultimi anni gli scenari internazionali sono cambiati; a causa della liberalizzazione di molti mercati, degli accordi nati tra paesi, della crisi economica mondiale, l’ambiente competitivo delle imprese si è ampliato in maniera rilevante.Le aziende italiane si trovano a dover fronteggiare nuove minacce derivanti da competitors stranieri, ma allo stesso tempo sono nate nuove opportunità di ampliare il proprio business, la propria dimensione, conquistando nuovi mercati e quindi internazionalizzandosi. La spina dorsale della realtà economica italiana è ancora rappresentata dalla Piccola e Media Impresa ma i mutamenti di mercato, tendenti verso la globalizzazione, fanno ritenere che ormai la piccola dimensione non sia più così “conveniente” ed occorra una crescita quantitativa e qualitativa.Oggi la concorrenza globale impone determinati standard dimensionali e organizzativi che, spesso, si rivelano proibitivi, soprattutto per le imprese italiane solitamente medio-piccole. La dimensione ridotta delle nostre aziende, considerata fino a pochi anni fa una caratteristica premiante, oggi diventa una ''criticità'' nel confronto internazionale.In passato si riteneva che la “taglia ridotta” costituisse un notevole punto di forza: le imprese di dimensioni ridotte,

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infatti, sono maggiormente flessibili e consentono di godere di una struttura basata soprattutto su costi ed oneri prevalentemente variabili, facilmente conformabili alle variazioni della domanda.Ma la limitata dimensione porta con se anche diversi svantaggi evidenziati dal confronto internazionale: la difficoltà di seguire efficacemente l’evoluzione dei mercati, la minore capacità di attrarre risorse, in particolare quelle umane ed intangibili, le basi sia tecnologiche che finanziarie insufficienti per rimanere competitive sono soltanto alcuni esempi.Proprio di fronte all’internazionalizzazione il tessuto produttivo italiano appare inadeguato ad affrontare le nuove sfide che il mercato propone. Il concetto di “piccolo”, nel contesto globale, deve essere inteso come freno alla crescita, insomma, le piccole dimensioni sono ormai insufficienti per penetrare efficacemente e convenientemente i mercati esteri.Gli imprenditori che governano le PMI, di fronte a questa situazione, devono riorientare le loro scelte strategiche, impegnandosi a salire almeno di un gradino nella scala dimensionale, per essere più competitive in Italia e all’estero. Diventa fondamentale acquisire “l’ambizione e la tensione alla crescita”, realizzabile anche attraverso la costituzione di reti di piccole e medie imprese, all’interno delle quali si mettono in comune alcune iniziative ed attività per

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affrontare insieme, ed in un modo nuovo, i mercati esteri e locali. Con le organizzazioni a rete è possibile realizzare un adeguato “gioco di squadra”, nuovo presupposto per il miglioramento del livello competitivo dell’impresa e per la riduzione del rischio complessivo. Quello che è importante rilevare a questo proposito è l’ostacolo culturale.L’imprenditore che oggi si trova alla guida di una PMI deve acquisire una mentalità diversa, una cultura d’impresa diversa, sia a livello di management, sia a livello imprenditoriale, in quanto attualmente una PMI, da sola, difficilmente può affrontare le ingenti spese richieste per l’internazionalizzazione, soprattutto in relazione ai notevoli livelli di costi che si determinano con l’attività di espansione sui mercati esteri. La globalizzazione dei mercati comporta due ordini di problemi per la piccola e media impresa: i costi produttivi, problema al quale l’imprenditore può far fronte salvaguardando la propria tecnologia e quindi la qualità, sviluppando le competenze e le abilità di riduzione continua dei costi, ed il problema della commercializzazione, valorizzazione e posizionamento dell’offerta aziendale. E’ forse questo il problema cruciale giacché molti imprenditori di piccole dimensioni investono maggiormente nella produzione, trascurando le attività di marketing, commercializzazione e valorizzazione dell’offerta aziendale

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che rappresentano, invece, fondamentali punti di forza nel sempre più difficile confronto internazionale.A tale proposito, le Associazioni di categoria stanno facendo molto, fornendo ad esempio informazioni sui mercati esteri o nella costituzione di consorzi all’esportazione. Si assiste tuttavia ancora spesso, ad un ostinato individualismo, tanto che gli imprenditori italiani si considerano più come “concorrenti”, che come “collaboratori”. La possibilità di pervenire alla realizzazione di dimensioni d’impresa competitive attraverso accordi, partnership, alleanze e fusioni sembra ancora difficile (a causa, com’è stato precisato sopra, di “resistenze” di carattere culturale) anche se il ricorso a strutture organizzative integrate e a reti diventa sempre più una necessità imprescindibile per imprese che, pur essendo qualificate nell’attività di progettazione e produzione, devono ora sviluppare competenze ed iniziative strategiche di commercializzazione e vendita nel mercato globale, effettuando investimenti strutturali e sistemici difficili da realizzare, soprattutto per le PMI.I tentativi fino ad oggi attuati nella direzione della crescita dimensionale delle PMI italiane conducono a far ritenere che la realizzazione di questo obiettivo possa attuarsi attraverso diverse forme di internazionalizzazione. Prendendo come settore specifico di riferimento quello del mobile-arredamento, si può analizzare il tipico esempio di PMI italiana manifatturiera.

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La produzione in questo settore è per la maggior parte organizzata in distretti, e i punti di forza delle imprese sono l’elevata flessibilità, il design, apprezzato in tutto il mondo, e il fatto di essere Made in Italy.Non bisogna però pensare solo a difendere queste forme di vantaggio competitivo. Le imprese infatti dovrebbero cercare di focalizzare le loro strategie anche su altri aspetti, proprio come la crescita dimensionale e l’internazionalizzazione del proprio business.E riguardo a ció che si riscontrano i maggiori problemi per le imprese italiane nel confronto con quelle straniere, problemi causati da lacune manageriali, organizzative, finanziarie, che rendono gli imprenditori incerti sulla scelta di progetti di investimento di crescita aziendale basati sull’ internazionalizzazione. Anche lo Stato si è accorto da tempo delle difficoltà delle nostre imprese nel confronto internazionale, e ha preso in esame la situazione per cercare delle soluzioni che aiutino a colmare queste lacune, tramite azioni di “supporto all’internazionalizzazione”.Se saranno attuati determinati processi possiamo aspettarci una ripresa delle nostre imprese.

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CAPITOLO I

1 L’internazionalizzazione delle imprese

1.1 Cenni introduttivi

Il gran parlare che si fa di economia globale e di globalizzazione lascia pochi dubbi sul fatto che tutti i comportamenti e i problemi economici siano profondamente influenzati da questa tendenza. Tuttavia, proprio il moltiplicarsi dei riferimenti alla globalità ha finito per rendere confuso il significato di questa parola.Sappiamo di vivere in un mondo che è sempre più globale; ma non sappiamo bene quali siano le conseguenze di questo fatto. O meglio, capita che ciascuno di noi abbia in mente conseguenze diverse e spesso contrastanti.C’è bisogno dunque di una chiarificazione sui diversi significati che possono essere assegnati al termine “globale”. Prima di tutto, in negativo, bisogna dire che “globale” non è un altro modo di dire “internazionale”. Tra i due termini va fissata una demarcazione che segna poi anche la discontinuità che è intervenuta tra due epoche diverse: il fordismo e il post fordismo.La globalizzazione richiesta dall’economia attuale è cosa diversa dall’internazionalizzazione: infatti, mentre quest’ultima rappresenta l’espansione su scala mondiale

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della singola impresa, quasi fosse un prolungamento internazionale della grande impresa fordista, la globalizzazione significa sviluppo della divisione transnazionale del lavoro tra più imprese, e dunque loro trasformazione in entità multi-territoriali interconnesse in reti sovranazionali.

La globalizzazione dell’economia internazionale consiste perciò nell’evoluzione delle microstrutture economiche verso una composizione oligopolistica di grandi multinazionali e di aziende con reti strutturali, che implicano significativi cambiamenti nel concetto di competizione. La tradizionale idea di competizione nazionale legata alla capacità dell’economia nazionale di generare flussi correnti positivi o, alternativamente, alla capacità di assorbire risorse esterne solo in minima parte, è ormai superata. La dimensione sovranazionale dell’attività economica si è accompagnata all’aumentata circolazione dei capitali, soprattutto in Europa(UE), e alla globalizzazione dei mercati che si è determinata a seguito degli importanti fenomeni di cambiamento tecnologico. Inoltre globalizzazione ed internazionalizzazione dei mercati descrivono un contesto economico e finanziario in cui il tradizionale legame tra l’impresa, in particolare la grande impresa, e la nazione di appartenenza tendono a perdere importanza, mentre diventa decisivo l’insieme dei mercati e delle localizzazioni produttive dell’impresa.

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Mercati integrati in ampie aree regionali sui quali finisce per essere investito larga parte del risparmio che si è formato nella medesima area, grandi gruppi organizzati in maniera reticolare, un sistema di piccole-medie imprese che in larga misura finisce per far riferimento ai grandi gruppi sia attraverso accordi che rapporti di subfornitura, definiscono un panorama in cui la nozione di competitività-paese viene posta in discussione o va quantomeno ridefinita.Questo perché, anche per le piccole realtà economiche, la globalizzazione non permette scollamenti o ripensamenti, pena il pagamento di un prezzo altissimo in termini di emarginazione e sudditanza rispetto ai poli più attenti e integrati con la logica delle società più avanzate e aperte al mercato. Dalla globalizzazione non ci si può soltanto difendere poiché essa è la strada attraverso cui sta emergendo un nuovo modo di produrre e di competere. Proteggersi da essa significherebbe ritardare il contatto dell’economia nazionale con la sperimentazione delle forme post fordiste di produzione e di concorrenza.

1.2 L’Internazionalizzazione delle imprese e la globalizzazione dei mercati

Il processo d’integrazione tra le economie della maggior parte del mondo che si è sviluppato soprattutto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, ha determinato un

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notevole avvicinamento ed una minore caratterizzazione delle aree geopolitiche del sistema economico mondiale, col risultato del progressivo annullarsi dei confini e delle distinzioni tra i singoli sistemi nazionali, oggi strettamente interconnessi sul piano economico e sociale.Le differenze culturali si vanno progressivamente riducendo ed i modelli locali di consumo si diffondono, stimolando un processo di imitazione che sfocia in una maggiore uniformità culturale e di comportamento, e per effetto del medesimo processo, la maggiore uniformità si accompagna peraltro alla maggiore varietà locale delle caratteristiche della domanda (globalizzazione).Da tutto ciò emerge un contesto di mercato complesso caratterizzato dalla molteplicità e dalla compresenza di forme distinte, in cui i confini geo-politici assumono un ruolo sempre meno utile ai fini della spiegazione delle differenze.Tra le determinanti di tale processo, un ruolo centrale può essere assegnato allo sviluppo internazionale delle imprese e al trasferimento oltre i confini domestici di beni e servizi, capitali, risorse, tecnologie, informazioni e dati. Non a caso sempre più rilevante è il numero delle imprese con una crescente e significativa presenza nei mercati internazionali, e sempre più variegate appaiono, peraltro, le forme da loro assunte.L’origine del processo di globalizzazione appartiene assolutamente alla storia economica contemporanea, trovando le proprie radici nello sviluppo delle attività

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internazionali verificatosi nel secondo decennio successivo alla fine dell’ultimo conflitto mondiale, allorché si assistette al passaggio dalla tradizionale forma di commercio internazionale del (periodo fordista1) costituita da transazioni tra imprese indipendenti appartenenti a paesi diversi, all’internazionalizzazione delle attività componenti la catena del valore delle imprese (periodo post-fordista). Il passaggio all’investimento diretto all’estero (IDE) ha dato appunto origine al fenomeno delle imprese multinazionali determinando, col passare del tempo, l’accelerazione dello sviluppo di altre modalità di internazionalizzazione quali le forme di cooperazione pubblica e privata a livello internazionale e l’ampliamento della tipologia di attività aziendali e dei settori coinvolti nel processo di internazionalizzazione.In questa ottica, si potrebbe affermare che le imprese hanno acquisito una visione ed un orizzonte “globali” nel tentativo di integrare mercati, risorse e attività su scala mondiale. In ciò risiede il principale orientamento degli ultimi decenni. Gli anni recenti sono caratterizzati da un processo di globalizzazione e d’integrazione che tende a diffondersi in misura crescente tra tutti i paesi, in tutte le attività

1 L’internazionalizzazione fordista riguardava un gruppo ristretto (un’Elite) di imprese e investiva una parte specifica di attività, svolta appunto all’estero (Grandinetti e Rullani 1994). Erano internazionali le maggiori imprese, il cui gigantismo debordava quasi ‘naturalmente’ dai confini nazionali, o le imprese collegate al potere transnazionale esercitato dai maggiori stati (in primis gli Stati Uniti, ma anche vecchie potenze coloniali come Gran Bretagna e Francia) (Vaccà e Rullani 1983). Le altre imprese operavano saldamente ancorate - quanto a produzione, personale, management, capitale azionario e di credito – ai confini nazionali, e praticavano i mercati transnazionali solo per le forniture (materie prime, tecnologie, macchine) e per le vendite (esportazioni).

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economiche e tra tutte le imprese, anche quelle di minori dimensioni.Questa fase oggi interessa molte imprese appartenenti a diversi settori, le quali viste le condizioni favorevoli che si sono andate creando, hanno deciso di fare un passo decisivo verso l’ internazionalizzazione.Le condizioni favorevoli si sono create anche grazie all’evoluzione degli scenari internazionali dovuta ad una serie di eventi che negli ultimi anni hanno portato forti cambiamenti nell’economia mondiale: anni di grandi evoluzioni, che hanno assistito all’unificazione europea e alla creazione del mercato unico europeo, alla nascita del WTO (1994), al passaggio dalla lira all’ euro, e poi alla crisi del mercato mondiale che ha portato all’emergere di nuovi attori e nuovi mercati: dalla Cina all’India, senza dimenticare la Russia o il Sud America. In conseguenza a questi cambiamenti le imprese si sono trovate ad affrontare nuove situazioni, e a dover proporre nuove strategie per cercare di conquistare posizioni nell’arena competitiva globale. L’internazionalizzazione è per l’impresa una strategia di crescita2 caratterizzata dal fatto di gestire in maniera permanente attività di natura economica (commerciale e/o produttiva) in due o più paesi (M.Caroli, Globalizzazione e

2 Le strategie di crescita a differenza delle strategie competitive puntano ad allargare l’ambito di azione dell’impresa. Essa potrà espandersi nel mercato domestico diversificando la sua attività in altri settori o rafforzando la propria posizione nel suo business originario tramite l’integrazione verticale a monte o a valle della filiera produttiva, oppure può attuare una diversificazione geografica (cioè internazionalizzarsi), sviluppando una posizione competitiva in nuovi territori. Naturalmente questi tre possibili sentieri di crescita non sì auto-escludono (Wolf, 1977).

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localizzazione dell’impresa internazionalizzata, 2003,Franco Angeli).È giusto chiedersi perché le imprese sono portate ad internazionalizzarsi.Di solito l’avvio del processo d’internazionalizzazione di molte imprese coincide con la saturazione del mercato domestico e l’intensificazione della competizione tra prodotti nazionali dovuta anche all’entrata dei prodotti esteri, oppure con la nascita di condizioni di mercato favorevoli.La scelta dell’internazionalizzazione, se talvolta è determinata dal caso e vissuta come un’opportunità di breve periodo, molto più frequentemente rappresenta una necessità per quelle imprese che, in possesso di competenze distintive, vedono restringersi i mercati interni e sono indotte ad ampliare il ventaglio geografico dei mercati per garantirsi lo spazio vitale necessario per continuare a essere competitive. L’ingresso di imprese straniere molto competitive, nei mercati locali, ha profondamente modificato la loro situazione concorrenziale costringendole a rivedere i propri piani strategici. A fronte di questa ipercompetitività che si è venuta a creare, molti imprenditori si sono trovati di fronte ad un bivio evolutivo che poteva portare alla marginalità o alla crescita tramite l’internazionalizzazione, ed hanno “scelto” questa ultima strada. Le motivazioni che conducono molti imprenditori a spingersi verso l’esterno non sono quindi ascrivibili solo ad un mero intento speculativo di breve

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periodo, basato sullo sfruttamento di specifiche situazioni locali ma, al contrario, sono sostenute da un orizzonte temporale ampio(L/p).

1.2.1 Il dinamismo del mercato mondiale: un problema per le imprese

I cambiamenti nella mappa politica, economica e socioculturale mondiale si verificano ad una velocità sempre maggiore e quasi incontrollabile, determinando un significativo ampliamento del divario tra le economie più ricche e quelle più povere.In questo momento, dal punto di vista macroeconomico il trend più evidente è rappresentato dalla diminuzione dei tassi di crescita dei paesi della Triade (Europa, Nord America, Giappone), ormai stabilmente inferiori all’aumento di produttività contrapposta all’espansione dei cosiddetti paesi emergenti, dove spicca la Cina. In circa trenta anni, i paesi dell’Asia orientale hanno guadagnato oltre 16 punti percentuali sul prodotto interno mondiale, a scapito soprattutto dei paesi occidentali industrializzati e di quelli appartenenti all’ex blocco sovietico.

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1. USA 10.8812.Giappone 4.3263.Germania 2.4004.GB 1.7495. Francia 1.7476. Italia 1.4657. Cina 1.4098. Spagna 8369. Canada 83410. Messico 62611. SudKorea60512. India 59813. Austarlia 51814. Olanda 51115. Brasile 49216. Russia 43317. Svizzera 30918. Belgio 30219. Svezia 30120. Austria 25121. Turchia 23822.Norvegia 22223.Danimarca21224. Polonia 21025.Indonesia 20826.Arabia S. 18827. Grecia 17328.Finlandia 162

29.SudAfrica 16030.HongKong 15931.Portogallo14932. Irlanda 14933.Tailandia 14334. Iran 13735.Argentina13036. Israele 10437.Malaysia10338.Singapore9139.Rep.Ceca 8540.Venezuela8541. Ungheria 8342. Egitto 8243. Filippine 8144.Colombia 7845.NuovaZelanda7646. Cile 7247.EmiratiArabi Uniti 7148. Pakistan 6949.PuertoRico 6850. Algeria 6651. Peru 6152. Romania 6053. Bangladesh 5254. Nigeria 5055. Ucraina 5056. Marocco 4457. Vietnam 39

58. Kuwait 3559.Slovacchia3260.Kazakhistan3061. Croazia 2862. Ecuador 2763. Slovenia 2664.Lussemburgo 2665. Guatemala 2566. Tunisia 2467. Siria 2268. Oman 2069. Bulgaria 2070. S&M 20 71. Libia 2072. Libano 1973. Sri Lanka 1974. Lituania 1875. Sudan 1876. Bielorussia 1777. Costa Rica 1778. Qatar 1779.RDominicana1680. El Salvador 1481. Kenya 1482.Costad’Av.1483. Angola 1384. Panama 1385. Camerun 1286. Cipro 11

87. Uruguay 1188. Yemen 1189. Islanda 1090.Trinidad&Tobago 1091.Uzbekistan1092. Tanzania 1093.Giordania 1094. Lettonia 1095. Estonia 896.Zimbabwe 8

Tabella 1.1. Incidenza sul PIL mondiale dei principali paesi (valori in miliardi di $ USA,Ocse2004)

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Le imprese che vendono sui mercati mondiali devono affrontare, come hanno già fatto nel corso degli anni novanta, diversi problemi di carattere economico e finanziario che possono essere ricondotti principalmente ai seguenti:

1) Sviluppo economico più lento rispetto ai decenni precedenti:

Dopo la forte espansione dei paesi industrializzati tra il 1950 e il 1973, lo sviluppo negli anni ottanta, seppur più lento, è stato costantemente in crescita nonostante una serie di difficoltà che hanno riguardato soprattutto le economie occidentali (saturazione di alcuni mercati, rallentamento nella crescita della produttività, lento processo di adeguamento delle strutture industriali alle nuove condizioni dell’economia internazionale, limiti nella capacità di fronteggiare l’inflazione, aumento dei tassi d’interesse e quindi del costo del capitale). Anche grazie al significativo calo dei prezzi delle materie prime e in particolare del petrolio, nel 1990 la tendenza è bruscamente cambiata. L’alternarsi di fasi di stagnazione e di ripresa è culminato alla fine del decennio con la gravissima crisi economica, finanziaria e politica che ha colpito l’Argentina nel 1999 (circostanza che suscitò concrete paure sulla possibilità di un “effetto domino” che avrebbe esteso la crisi anche agli altri paesi dell’America Latina, già in difficoltà). Anche il nuovo millennio non è affatto cominciato sotto i migliori auspici

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e gli incubi di recessione sono diventati realtà con il grave attacco terroristico che ha colpito gli Stati Uniti nel settembre 2001; il riflesso negativo di quanto accaduto negli USA si è ripercosso sull’intera economia mondiale, col risultato di trascinare in particolare i paesi occidentali industrializzati in una fase recessiva -secondo alcuni economisti si tratta o si è trattato solo di una “leggera recessione”- sottolineata anche dal crollo di autentici colossi industriali del mercato mondiale, basti ricordare il caso Enron e Worldcom negli Stati Uniti, o situazioni a noi più note quali i crack Cirio e Parmalat. Secondo le previsioni d’ordine qualitativo operate dall’Hudson Institute, l’attuale decennio sarà caratterizzato da alcuni aspetti come l’aumento della concorrenza tra i prodotti per effetto dell’urbanizzazione e il cambiamento nelle priorità d’acquisto dei consumatori, la ricerca di più elevati standard di sicurezza sociale, il rafforzamento dell’idea che il “futuro sarà probabilmente peggiore del passato” e di movimenti d’opinione contrari al progresso tecnologico e allo stesso sviluppo economico che tra le varie conseguenze potrebbero produrre il rallentamento dello sviluppo economico.

2) Concorrenza più intensa sui mercati mondiali, con nuovi protagonisti e nuove strategie:

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Nel corso degli anni settanta sui mercati mondiali si sono affacciati paesi di recente industrializzazione come Corea del Sud, Taiwan, India, Singapore e Hong Kong, i quali hanno sottratto ai vecchi protagonisti (Gran Bretagna, Francia, Germania, Stati Uniti, Giappone e, su scala minore, Italia) quote di mercato inizialmente nei settori a basso costo del lavoro e poi nei settori a tecnologia medio/alta. Contemporaneamente il pesante aumento dei prezzi delle materie prime ha portato alla ribalta i paesi ricchi di risorse naturali tra i quali vanno ricordati Algeria, Arabia Saudita, Brasile, Malaysia e Indonesia. Gli anni novanta e il periodo attuale si caratterizzano per la nuova forte espansione dei NICS (New Industrial Countries) e soprattutto per il nuovo ruolo assunto nell’economia mondiale dalla Cina. Volendo approfondire ulteriormente questo rapido esame sui protagonisti attuali e futuri del mercato mondiale, si può ricorrere a una distinzione basata sul “fattore chiave” di un settore industriale che può alternativamente essere o la disponibilità di forti capitali, o un basso costo del lavoro rispetto ai concorrenti, o la tecnologia:

A) Capitali Nei settori a forte intensità di capitale (automobili, cantieri navali, acciaio, chimica) i protagonisti continueranno ad essere alcuni paesi industrializzati che dispongono di un importante mercato interno nel quale costruire rilevanti economie di scala che consentono loro

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di presentarsi sui mercati mondiali con prodotti e prezzi competitivi. La loro posizione sarà tuttavia insidiata da alcuni paesi in via di sviluppo che hanno settori ormai in grado di competere senza troppi problemi con quelli dei paesi più avanzati.

B) Lavoro Nei settori a forte intensità di lavoro la vulnerabilità dei paesi industrializzati e soprattutto dell’Europa è già elevata ed è destinata ad aumentare ulteriormente. In produzioni dove le componenti principali sono materie prime, disponibilità di tecnologie e costo del lavoro, l’industria occidentale ha poche possibilità di difesa,e se la quota del costo del lavoro sul totale dei costi di produzione è molto alta, i paesi a bassi salari, come i paesi in via di sviluppo o i NICS, hanno un vantaggio difficilmente eguagliabile.

C) TecnologieNei settori che fanno perno sul livello tecnologico(computer,telecomunicazioni) la supremazia statunitense sarà insidiata sempre più dal Giappone e in parte minore dall’Europa. Nonostante una parte di queste produzioni sia già fisicamente realizzata nei NICS, i mercati mondiali continueranno ad essere dominati dai paesi più industrializzati sia in termini d’offerta che di domanda.

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1.2.2 Le determinanti della globalizzazione dei mercati

I maggiori contributi all’espansione e allo sviluppo dell’economia e delle varie attività internazionali possono ricondursi ai seguenti fattori: 1) sviluppo e diffusione della tecnologia2) crescente interdipendenza delle economie nazionali 3) sviluppo di nuovi mezzi di comunicazione e di trasporto4) riduzione delle barriere istituzionali alla mobilità internazionale Tali fattori possono essere analizzati singolarmente:

1) Lo sviluppo tecnologico:

La determinante che ha maggiormente inciso sul processo di internazionalizzazione delle attività delle imprese e dell’economia, può essere identificata nello sviluppo e nella diffusione delle conoscenze tecnologiche; lo sviluppo tecnologico è diventato un fenomeno indiscutibilmente transnazionale e interaziendale, sottratto all’uso esclusivo di un singolo paese o operatore.E’ ormai evidente che il sapere scientifico e informativo è una risorsa che si forma e si acquisisce non più all’interno della singola impresa ma a livello d’economia globale. Lo sviluppo della scienza prospetta un ampio ventaglio di alternative tecnologiche tra le quali scegliere; è il

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pluralismo tecnologico che consente di individuare con maggiore facilità e certezza le soluzioni più appropriate alle esigenze e alle risorse delle imprese ed ai vantaggi comparati dei vari paesi. L’accesso diretto ad un ampio patrimonio tecnologico ed il suo rapido apprendimento, tramite il trasferimento e lo scambio internazionale delle conoscenze, permette anche alle imprese più piccole di modernizzarsi e internazionalizzarsi senza dover sottostare agli standard organizzativi e tecnologici della grande scala. Pluralismo e pervasività della cultura scientifica e tecnologica sono quindi alla base della grande capacità di penetrazione dei processi di internazionalizzazione a tutti i livelli dell’economia.

2) La crescente interdipendenza delle economie nazionali:

Lo sviluppo economico degli ultimi decenni ha determinato una maggiore convergenza nella sfera dei bisogni tra i paesi industrializzati, riscontrabile nella domanda e nell’offerta di prodotti, tecnologie e processi produttivi globali. Nelle diverse regioni del mondo sono spesso ricercati gli stessi beni e servizi e la condizione di maggiore omogeneità della domanda rendono i mercati nazionali più attraenti ed accessibili alla concorrenza internazionale. Il risultato è stato l’eliminazione dei tradizionali rapporti centro-periferia, secondo cui i paesi in via di sviluppo

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rifornivano i paesi industrializzati di beni primari in cambio di prodotti finiti.Da un punto di vista politico, inoltre, si deve segnalare una progressiva riduzione del potere di rappresentanza e dei margini di discrezionalità per l’intervento nell’economia degli stati nazionali; il progressivo trasferimento dei poteri a livello sovranazionale tende a spostare il baricentro politico verso organizzazioni di tipo continentale. La capacità dello Stato di rappresentare gli interessi nazionali si specializza in campi di competenza regionale, mentre a livello generale i vari governi possono solo agire come “gruppi di interesse” all’interno del livello istituzionale superiore.

3) Lo sviluppo di nuovi mezzi di comunicazione e di trasporto:

Le innovazioni tecnologiche nel campo dei trasporti e delle telecomunicazioni hanno definitivamente ridotto la distanza tra i diversi paesi. Il miglioramento dei sistemi di trasporto non ha soltanto determinato un aumento della velocità di trasferimento delle merci, ma ne ha anche notevolmente ridotto il costo, rendendo più accessibile lo sbocco o l’approvvigionamento di risorse e prodotti finiti a livello internazionale. Tuttavia, l’elemento che negli ultimi anni appare trainante ai fini dell’internazionalizzazione non è tanto la riduzione dei costi di trasporto, quanto la forte riduzione dei costi di comunicazione resa possibile dallo sviluppo dell’information technology. Dal 1990 ad oggi, la rete

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globale di computer, televisori e telefoni ha aumentato la sua capacità di trasporto di informazioni di oltre un milione di volte. In questo quadro è inevitabile non ricordare il fenomeno della diffusione di internet, che ha letteralmente messo a disposizione e alla portata di tutti un sistema di comunicazione globale di enorme efficacia e potenzialità.

4) La riduzione delle barriere istituzionali alla mobilità internazionale:

Sono stati numerosi gli accordi internazionali sottoscritti dai vari paesi a partire dalla fine del dell’ultimo conflitto mondiale, intesi a ridurre le barriere istituzionali sorte per proteggere le economie nazionali a limitazione del libero scambio delle merci. Nella riduzione delle tariffe e nella regolamentazione del commercio internazionale un ruolo fondamentale è stato svolto in passato dal GATT(General Agreement on Tariffs and Trade) e oggi dal WTO (World Trade Organization). Gli accordi riguardanti, la riduzione delle barriere artificiali e la creazione di mercati sovranazionali possono assumere molteplici forme, e inproposito si possono distinguere:● le organizzazioni regionali per lo sviluppo: accordo tra più governi per partecipare alla realizzazione di progetti di natura anche infrastrutturale ( come la costruzione di impianti) che favoriscano settori e attività di base, impegnandosi sia a partecipare al finanziamento sia a ad

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acquistare parte dell’output proveniente dalle opere realizzate;● le aree di libero scambio: accordo tra i paesi per l’eliminazione o la riduzione delle barriere (tariffarie e non) che ostacolano il libero scambio di merci. A differenza di quanto accade nei mercati comuni, i paesi che formano le aree di libero scambio non sono caratterizzati da barriere esterne agli scambi e da dazi doganali identici e non consentono la libera circolazione di lavoro e capitali;● le unioni doganali: la caratteristica saliente è sia la riduzione o l’eliminazione delle barriere interne (tratto tipico del libero scambio), sia la presenza di tariffe esterne comuni sui prodotti importati dai paesi terzi. Tuttavia non è consentita la libera circolazione di lavoro e capitali (peculiarità dei mercati comuni);● i mercati comuni: sono costituiti da paesi che, oltre agli accordi tariffari tipici di un’unione doganale, beneficiano anche della libera circolazione interna di servizi (lavoro compreso) e capitali. Gli accordi possono ulteriormente prevedere un percorso che porti ad un’effettiva integrazione politica: è infatti possibile l’adozione di piani comuni di natura fiscale, monetaria, di politica sociale o di difesa militare;● le unioni politiche: lo scopo è quello di assicurare il miglior raggiungimento possibile degli obiettivi economici inizialmente determinati sulla base dei vari accordi multinazionali.

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Le unioni politiche costituiscono a tutti gli effetti una comunità sovranazionale di stati indipendenti.1.2.3 La nascita di nuovi concorrenti

I mercati hanno subito, e stanno subendo, dei cambiamenti nei loro scenari dal punto di vista delle dimensioni e degli attori che ne fanno parte proprio a causa delle determinanti viste prima. Le imprese locali, abituate a competere e a confrontarsi nel proprio settore con prodotti nazionali, hanno assistito all’entrata di aziende straniere nel loro mercato. Il contesto competitivo in cui si muovono le imprese sta rapidamente cambiando, e il nuovo emerge da tanti inequivocabili segnali: è sempre più difficile tenere le quote di mercato, anche accettando margini di profitto decrescenti, per non perdere clienti. Entrano in campo nuovi concorrenti, che hanno caratteristiche e potenzialità diverse da quelle dei concorrenti tradizionali, a cui le imprese locali sono abituate. Allo stesso tempo, si affacciano sui mercati nuovi potenziali clienti e nuovi potenziali fornitori, che sono però raggiungibili solo facendo investimenti impegnativi e mettendo in conto tempi non brevi per stabilire un efficace contatto. In conseguenza c’è stato un aumento della competitività dei settori, e l’evoluzione degli scenari ha portato delle modifiche nella struttura degli stessi, e conseguentemente delle difficoltà nell’inquadramento dei nuovi raggruppamenti strategici che si sono venuti a creare all’interno degli stessi.

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Le famose 5 forze competitive di Porter 3descrivono un settore nelle sue generalità, ma l’ambiente competitivo rilevante per l’impresa è costituito dagli attori che fanno parte del suo stesso “raggruppamento strategico”4(M.Caroli, Economia e estione delle imprese,2003,McGraw-Hill). Con l’entrata di nuovi competitors all’interno dei vari settori, sapere veramente quali imprese fanno parte di un raggruppamento strategico è diventato più complesso, perché è aumentato il numero di prodotti presenti sul mercato.Il contesto competitivo è cambiato per diverse ragioni; prima di tutto, le grandi imprese, grazie alla globalizzazione, sono in grado di utilizzare, direttamente o indirettamente, le grandi riserve di fattori a basso costo che sono disponibili nei paesi emergenti. La domanda internazionale di subfornitura di componenti, e materiali a basso costo, si rivolge sempre più altrove. D’altra parte, l’offerta di flessibilità e varietà non è più “monopolio” di un limitato gruppo di incursori, nel quadro di una ben regolata produzione di massa. Oggi, diventano sempre più rari i mercati, anche di nicchia, che sono al riparo dalla concorrenza: anche i grandi produttori, infatti, puntano alle piccole serie, ai prodotti di qualità, alla moltiplicazione dei modelli, alla personalizzazione del servizio reso al cliente. E, soprattutto, nascono ogni giorno nuovi agguerriti competitors, capaci di copiare,

3 Le 5 forze di Porter sono: l’intensità della concorrenza nel settore, la minaccia di nuovi entranti nel settore, la competizione indiretta esercitata da beni o servizi aventi la stessa funzione d’uso, il potere contrattuale dei fornitori, il poter contrattuale degli acquirenti. Per completare la descrizione dell’ambiente competitivo bisogna aggiungerne 2: l’intensità e il segno di alcuni stakeholders esterni, il grado di integrazione con le imprese complementari rispetto alla domanda finale.4 Cioè gruppi di imprese che all’interno dello stesso settore adottano strategie simili, disponendo di un simile patrimonio di risorse.

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imitare, innovare e soprattutto di mettere “al lavoro” il proprio specifico retroterra nazionale, facendo leva sulle risorse materiali, sociali e politiche della società di appartenenza.La loro presenza cambia la natura del gioco competitivo. Ci sono nuovi paesi, che irrompono sulla scena usando un costo del lavoro, livelli di tolleranza ambientale, fattori di apertura o chiusura agli investimenti internazionali che sono propri del contesto di appartenenza. Questi nuovi aspetti stanno sicuramente incidendo sulle scelte strategiche di molte imprese locali, le quali visto il nascere di nuove minacce provenienti dall’estero, devono attuare strategie competitive nuove. E’ con queste variabili che dobbiamo imparare a fare i conti. All’orizzonte, si profila una nuova geopolitica su scala mondiale: una presenza minacciosa e incombente, che deve essere capita nei suoi diversi aspetti e protagonisti, se si vuole essere capaci di coglierne anche gli aspetti favorevoli, le opportunità che, nonostante tutto, contiene.

1.3 Il processo di internazionalizzazione delle imprese

Lo studio del processo d’ internazionalizzazione attraverso cui l’impresa sviluppa la sua posizione nel mercato estero prevede un iter logico, che parte

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dall’analisi delle cause che la spingono a internazionalizzarsi, per arrivare allo studio delle fasi di tale processo, ed alle modalità di entrata nel nuovo mercato. Con questa analisi vengono alla luce tutte le strade perseguite dalle imprese, e le differenze che le caratterizzano, anche all’interno dello stesso settore. Le cause, e le diverse modalità di entrata nel mercato estero analizzate, aiutano ad avere un quadro generale più chiaro sullo stato delle imprese italiane ed estere che hanno deciso di intraprendere questa modalità di crescita.

1.3.1 Il processo evolutivo dell’impresa internazionalizzata

Essendo l’impresa un’entità in continuo divenire, la sua natura internazionale non può che essere interpretata in chiave evoluzionistica, come il risultato di un processo. Di conseguenza, l’internazionalizzazione rappresenta l’esito di un progressivo sviluppo oltre-confine della presenza operativa dell’impresa, capace di stimolare cambiamenti nell’impianto strategico-organizzativo aziendale, nonché nella sua posizione competitiva. In conclusione, l’espansione estera si articola in una sequenza di orientamenti, cui corrispondono diverse configurazioni strategico-organizzative. Un approccio metodologico di chiaro stampo dinamico è rintracciabile nel product life cycle di Vernon (1966,

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1979), un modello che stabilisce una peculiare corrispondenza tra fase del ciclo di vita del prodotto e modalità di presenza estera dell’impresa. In sostanza, operando in aree geografiche caratterizzate da differenti tassi di sviluppo della domanda, l’impresa può sfruttare il diverso valore attribuito a un prodotto, a una tecnologia o a un impianto nei vari Paesi, allungandone il ciclo di vita. Quando un operatore entra per primo in un mercato, beneficia, per un certo periodo, di una posizione monopolistica, destinata a venire meno solo con il progressivo ingresso di nuovi produttori (followers) in tale mercato. Naturalmente il leader originario, potrà reagire in tre modi: 1) provocando una guerra dei prezzi;2) esportando la propria produzione in eccesso;3) ricorrendo a innovazioni di prodotto e/o di processo;Nella fase introduttiva del ciclo di vita (del prodotto, della tecnologia o dell’impianto), l’attività produttiva è localizzata dove si trova il mercato da servire e dove contemporaneamente è disponibile la tecnologia necessaria ai processi produttivi. In una situazione simile, l’impresa è sostanzialmente domestica, e le eventuali esportazioni in altre aree, rispondono esclusivamente ad una logica di sfruttamento delle economie di produzione e di massimizzazione della capacità produttiva. Naturalmente, una volta conquistato il mercato interno, l’impresa comincia a produrre per quei mercati esteri la

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cui domanda si dimostri simile a quella domestica; il prodotto, oltre ad essere esportato, comincia anche a essere realizzato direttamente nei mercati di destinazione, ma solo qualora essi garantiscano appropriate tecniche produttive. Quindi, nella fase espansiva del ciclo, la strategia di esportazione diviene centrale per l’impresa, e quest’ultima guarderà a Paesi via via più lontani e meno sviluppati, quali vaste sacche di domanda insoddisfatta. Talvolta però, alcune imperfezioni di mercato, aggravano i costi della attività di esportazione (dazi, contingentamenti, sussidi dei paesi esteri alle proprie imprese), spingendo il produttore-esportatore a ricorrere ad un investimento produttivo, onde realizzare parte della propria produzione direttamente all’estero, e sfruttare eventualmente i differenziali nei costi dei fattori. Tipicamente ciò accade nella fase di maturità del ciclo di vita del prodotto, quando cioè i mercati originari sono saturi, la domanda diviene maggiormente sensibile al prezzo e l’offerta è standardizzata. Al verificarsi di tali condizioni, altri operatori riusciranno ad entrare nel mercato, instaurando nello stesso una forte competizione di prezzo. Per risultare vincenti, le imprese dovranno necessariamente intervenire sui costi, andando a realizzare i propri processi produttivi laddove sia possibile beneficiare di notevoli risparmi.L’impresa procede allora a ricreare nelle nuove aree di attività le condizioni precedentemente verificatesi nel mercato domestico (vale a dire una situazione di

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monopolio e lo sfruttamento delle economie di produzione)5. Nella fase di declino, la produzione di un certo output (così come l’utilizzo di un impianto o di una tecnologia) si localizza definitivamente nei paesi di più recente ingresso, dove la domanda aggregata è in fasi di sviluppo meno avanzate. Le vecchie produzioni continueranno ad essere realizzate nei nuovi mercati, a partire dai quali lentamente si riproporrà, verso ulteriori nuove aree, la transizione esportazione-investimenti produttivi, precedentemente illustrata. Al contrario, nel mercato domestico, l’impresa produrrà esclusivamente prodotti nuovi e maggiormente competitivi. Infatti, i cash flow generati dalle unità produttive presenti in tali aree geografiche, saranno parzialmente reinvestiti nel mercato domestico onde realizzare innovazioni di prodotto, di processo, di materiali, con cui acquisire nuovi vantaggi competitivi. Vernon concludeva che le attività estere dell’impresa evolvono coerentemente con il ciclo di vita del prodotto, e subiscono in tale processo una ricollocazione geografica: il prodotto divenuto obsoleto nel mercato domestico, non cessa di esistere, ma continua ad essere utilmente prodotto per altri mercati esteri e in altri mercati esteri,

5 Secondo Vernon, le imprese sono disposte a creare una sussidiaria in una nuova area geografica, sopportandone costi e incertezze, soltanto qualora percepiscano di possedere un vantaggio monopolistico. L’Autore ritiene che nella maggior parte dei casi tale vantaggio risieda nella capacità innovativa dell’impresa e che la principale spinta all’innovazione provenga dalle minacce e dalle promesse del mercato (Vernon, 1979). In particolare, nel suo secondo intervento, egli accusava i managers di miopia, poiché spesso essi si limitano a considerare le opportunità e i bisogni dei soli mercati più vicini a quello domestico, concentrando in quest’ultimo le fasi di sviluppo delle innovazioni, fino alla produzione pilota e alla prima commercializzazione. In questo modo, la domanda proveniente da altre aree deve essere soddisfatta dall’unità produttiva esistente, attraverso esportazioni o accordi di licensing; la creazione di una sussidiaria estera richiede invece un preventivo paragone tra costi marginali della produzione domestica per l’estero (comprensivi delle spese di trasporto e delle eventuali tariffe doganali) e costo complessivo della produzione oltre confine, tenuto conto anche di eventuali minacce esterne alla rendita monopolistica dell’impresa.

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caratterizzati da un minore tasso di sviluppo della domanda; eventualmente tale prodotto potrà essere reimportato nel mercato di origine, per soddisfare6

residue sacche di domanda locale. La storia e la realtà economica ci insegnano che nel corso del loro sviluppo, i paesi abbandonano le produzioni più semplici e a più alto contenuto di manodopera, lasciandole ai Paesi emergenti la cui forza lavoro è si meno costosa, ma spesso anche meno preparata. Ciò avviene perché lo sviluppo spinge al rialzo i salari, incrementa il know-how, le competenze e la dotazione di capitale, spingendo i Paesi a concentrarsi su produzioni più sofisticate e differenziate (processo di rilocalizzazione delle produzioni).L’intensità e al velocità di questo processo dipendono da:1) l’andamento dei costi del lavoro comparati 2) l’evoluzione relativa della produttività3) le variazioni nelle barriere al movimento di beni, servizi e capitali fra i Paesi.Se tale ricollocazione avviene in maniera graduale, sollecita al contempo aggiustamenti, riconversioni e nuovi sviluppi, ma non crea problemi gravi. Quando invece vengono superate certe soglie di rapidità, nascono

6 Nel 1979 Vernon riconsiderò la sua teoria, alla luce di due fenomeni: la diffusione delle strutture reticolari e i cambiamenti nell’ambiente esteso (nascita di forti comunità economiche sovranazionali e attenuarsi dei differenziali di reddito a livello internazionale). Secondo l’Autore, infatti, il ciclo di vita internazionale del prodotto non spiegare a pieno la situazione in cui erano venuti a trovarsi diversi PVS. Questi ultimi erano tagliati fuori del processo di convergenza internazionale nei livelli di reddito, nelle dimensioni dei mercati e nei costi dei fattori produttivi, che aveva coinvolto i Paesi industrializzati; inoltre, nonostante le multinazionali avessero creato delle reti produttive globali, le sussidiarie localizzate nelle economie in via di sviluppo, continuavano a dover acquisire prodotti, semilavorati e innovazioni da altre unità operanti in mercati più ampi, ricchi e sofisticati. Tuttavia, alcuni PVS (Brasile, Messico, India, Corea) crescevano chiaramente a tassi superiori e mostravano un’autonoma capacità innovativa, con cui rispondere alle specifiche condizioni economiche interne. Una volta realizzato questo adattamento locale dei prodotti/processi, queste sussidiarie generalmente intraprendevano un proprio ciclo di esportazione e eventualmente di investimento diretto estero (internazionalizzazione di secondo grado).

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tensioni sociali, disoccupazione e impoverimento del tessuto produttivo domestico.Un’interpretazione dinamica dell’internazionalizzazione è anche quella proposta da Perlmutter (1969), il quale parla di una “tortuosa evoluzione delle multinazionali”, il cui andamento può essere letto attraverso i differenti orientamenti al mercato estero7. In sostanza, la presenza oltre confine risulta organizzata in funzione dell’importanza che tali mercati acquisiscono nella strategia complessiva dell’impresa. In siffatto processo evoluzionistico, Perlmutter rintracciava quattro momenti e dunque quattro atteggiamenti principali:Approccio etnocentrico (tipico delle fasi iniziali): l’impresa è ancora fortemente legata al Paese di origine, i mercati esteri sono percepiti e gestiti come una estensione fisica di quello domestico. Il risultato è una forma di internazionalizzazione debole, spinta da esigenze congiunturali, e in quanto tali, transuenti. Le interdipendenze sono organizzate in maniera sequenziale, la conoscenza e il potere di iniziativa risultano accentrati presso la casa madre, mentre i compiti più operativi sono demandati alle unità periferiche. Approccio policentrico: l’enfasi si sposta dal mercato domestico a quelli di destinazione attraverso un vero e

7 Perlmutter ritiene che i parametri tradizionali (nazionalità della proprietà o del management, percentuale di investimenti realizzati all’estero, presenza strutturale in un certo numero di aree geografiche) non riescano da soli a misurare correttamente il grado di multinazionalità di un’impresa. Ciò che conta realmente è “...the way executives think about doing business around the world; the orientation toward foreign people, resources and ideas, in headquarters and subsidiaries, and in host and home environments, becomes crucial in estimating the multinationality of a firm... ”; Perlmutter H. V. (1969), The Tortuous Evolution of the Multinational Corporation, Columbia Journal of World Business, january-febrauary, pp.8-18.

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proprio decentramento decisionale, all’interno del quale la casa madre si limita a controllare e gestire il portafoglio di aree-mercato. I mercati esteri diventano entità distinte, dotate di proprie unità organizzative, collegate all’headquarter prevalentemente tramite flussi di risorse finanziarie. Mano a mano che la proprietà del capitale si diffonde all’estero e che l’origine geografica del management si differenzia, queste imprese non si identificano più con un solo Paese. Approccio regiocentrico: sfruttando fenomeni di internazionalizzazione dei comportamenti di consumo, l’impresa individua delle macroregioni sopranazionali, ove sviluppare una offerta sostanzialmente standardizzata, idonea a massimizzare tanto la soddisfazione del consumatore quanto le esigenze di efficienza dell’impresa. Ovviamente, per sfruttare eventuali sinergie, si rendono necessari dei momenti di contatto e di scambio tra le sussidiarie operanti nei territori della macroarea: ciò spinge a creare, in ogni macroregione, una sub-headquarter, quale entità di raccordo tra le sussidiarie locali e gli orientamenti strategici della casa madre. Approccio geocentrico: l’espansione delle macroregioni di cui sopra, trasforma le singole aree geografiche in semplici componenti di un unico sistema globale. L’impresa acquisisce una vocazione mondiale, l’offerta risulterà standardizzata a livello mondiale, e l’intenso coordinamento tra casa madre e sussidiarie, priverà queste ultime di autonomia gestionale e decisionale. I

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loro compiti diventano instabili e complicati, poiché strumentali, subordinati o comunque interconnessi con le funzioni di altre unità. Le interdipendenze tra il centro e le singole sussidiarie, così come quelle tra le sussidiarie stesse sono individuate e sfruttate in condizioni di reciprocità. Naturalmente questi quattro approcci devono essere intesi quali possibili tappe dell’evoluzione internazionale dell’impresa, non legate da nessi eziologici e suscettibili di presentarsi contemporaneamente nelle diverse aree geografiche e di business.Di conseguenza, ogni impresa caratterizzata da una articolazione internazionale della catena del valore dovrà individuare il proprio mix8 tra profilo etnocentrico, policentrico e geocentrico9. Sicuramente quest’ultimo tende a prevalere, favorito dall’ampliarsi dei mercati mondiali, dalla nascita di comunità economico-politiche sovranazionali, dalla possibilità di acquisire conoscenze manageriali e tecnologiche in diversi Paesi, dalla globalizzazione dei modelli di consumo e dalle innovazioni nei sistemi di trasporto e telecomunicazione; tuttavia tale tendenza è frenata dalla scarsa conoscenza, talvolta dalla diffidenza dei managers nei confronti di alcuni mercati esteri, da insormontabili differenze linguistiche e culturali,

8 Tale mix dipenderà dai vantaggi e dagli svantaggi relativi dei diversi approcci: quello etnocentrico garantisce il massimo controllo, forti flussi di informazioni e conoscenza dal centro alla periferia, semplicità organizzativa, tuttavia è affetto da una scarsa flessibilità di risposta agli stimoli ambientali e da minori opportunità di innovazione; l’approccio policentrico si caratterizza negativamente per duplicazioni, rischio di eccessivo localismo e di mancata valorizzazione dell’esperienza maturata nel Paese di origine, ma al contempo consente di sfruttare al massimo le opportunità esistenti nei mercati locali, massimizzando la soddisfazione dei consumatori e l’adattamento dei prodotti, beneficiando anche di incentivi governativi; infine i costi del profilo geocentrico sono essenzialmente legati alle spese di comunicazione e trasporto, e alla crescente burocrazia interna all’impresa, mentre i benefici risiedono essenzialmente nella possibilità di utilizzare le risorse migliori disponibili a livello mondiale, di fissare comuni obiettivi condivisi su scala globale e di massimizzare gli standards qualitativi dei propri prodotti e servizi.9 Consideriamo l’approccio regiocentrico come un approccio geocentrico in fieri.

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da tendenze nazionalistiche rilevate nella potenziale controllata estera, e così via. Un altro contributo teorico di matrice dinamica è quello dell’internationalization process model, legato alla scuola svedese di Uppsala e alla figura di Aharoni. Questi definiva l’internazionalizzazione “un processo emergente, avente natura incrementale”10.La scuola di Uppsala ipotizza un ciclo di acquisizione di esperienza e di impegno, nel corso della crescita internazionale dell’impresa, e la sua internazionalizzazione deriverà in definitiva da un processo lento e continuo di formazione di conoscenza11, attraverso cui gli investitori esteri riescono a superare la considerevole incertezza da cui sono affette le loro decisioni di espansione estera. Tale incertezza è direttamente proporzionle all’inesperienza degli attori, o meglio a dei veri e propri gap di conoscenza (Johanson, Widersheim-Paul, 1975). La gradualità del processo dipende dal fatto che i problemi e le opportunità offerte dall’espansione oltre i confini del proprio Paese di origine si presentano man mano che l’impresa pone in essere le operazioni estere, sviluppando le competenze necessarie e attribuendo a tali operazioni importanza strategica crescente (Caroli, 2000).Introducendo i concetti di psychic distance e di establishment chain, il modello del processo di internazionalizzazione ordina in sequenza temporale le

10 Aharoni Y. (1966), The Foreign Investment Decision Process, Harvard Unversity, Graduate School of Business Administration, Boston.11Una volta entrata in un mercato, l’impresa acquisisce continuamente nuove conoscenze circa le caratteristiche dello stesso; tale maggior conoscenza e esperienza si traduce in un crescente impegno imprenditoriale nell’area in questione (più la si conosce più può essere stimolante e /o profittevole continuare a investirvi o entrare in aree ulteriori).

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fasi seguite dagli operatori nella scelta dei Paesi esteri in cui insediarsi e della particolare modalità di internazionalizzazione delle attività.A monte del processo si pone la decisione riguardo l’area geografica in cui entrare, tenendo conto della cosiddetta psychic distance. Quest’ultima non si esaurisce nella mera valutazione della distanza geo-fisica tra due punti, regioni o territori, al contrario indica la similarità in termini di contesto ambientale e competitivo tra due Paesi.12 Una volta scelta l’area-obiettivo e superata la fase di ingresso nel nuovo mercato, la posizione dell’impresa evolverà attraverso i diversi livelli della establishment chain, maturando in ciascuno di essi un superiore grado di conoscenza e di impegno verso il mercato e la strategia estera.Come anticipato poco prima, nella teoria della crescita internazionale dell’impresa le decisioni di espansione degli investitori esteri sono fortemente incerte, poiché affette da un duplice gap di conoscenza: tale incertezza riguarda il funzionamento e il contesto istituzionale dei singoli mercati nazionali, nonché il modus operandi in ambienti non familiari. La conoscenza maturerà da processi di learning-by-doing, e il sentiero di espansione dell’impresa disegnerà un processo cumulativo,

12 La psychic distance dipende dalle differenze linguistiche e culturali, dai diversi modelli e livelli di sviluppo industriale e di educazione, dal particolare sistema politico adottato. Sicuramente essa si modifica nel tempo ed è, salvo eccezioni, positivamente correlata alla distanza geografica tra le aree considerate ( es. l’Australia è “percepita” vicina all’Inghilterra nonostante la lontananza fisica). Di solito, le imprese prive di una consolidata esperienza estera, guardano in primo luogo ai mercati vicini, ritenuti controllabili in maniera agevole e diretta, e sicuramente più simili a quello domestico in termini di preferenze, modelli di consumo e di business. La crescente apertura internazionale consentirà loro di espandere i propri orizzonti di attività, aumentando la distanza tra mercati di approvvigionamento e di sbocco, sedi produttive e centri strategico-decisionali. In sostanza, al crescere delle conoscenze, le routine di selezione includono una più ampia gamma di alternative relative ad aree culturalmente più distanti, per le quali il rischio soggettivo di asimmetrie informative è venuto decrescendo.Luostarinen R. (1980), Internationalization of the Firm, Helsinky, The Helsinky School of Economics.

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caratterizzato da informazione crescente e esperienza (Mariotti e Piscitello, 1994). In sostanza l’establishment chain delinea le principali attività poste in essere dalle imprese parallelamente al grado di sviluppo delle loro conoscenze sul mercato estero e Johanson e Widersheim-Paul distinguono al suo interno:1) attività di esportazione svolta in maniera irregolare;2) attività di esportazione svolta attraverso intermediari indipendenti;3) creazione di sales subsidiaries all’estero13;4) creazione di subsidiaries di produzione e/o di assemblaggio all’estero.14

Il coinvolgimento graduale dell’impresa nel mercato estero avverrà grazie ad un processo di apprendimento e sedimentazione, conseguente all’acquisizione e alla ritenzione di informazioni circa il nuovo ambiente competitivo. Più tale conoscenza aumenterà più l’impresa sarà spinta investire in quel mercato o a entrare in ulteriori nuove aree.Il sistema organizzativo aziendale, passando attraverso le fasi della establishment chain, matura conoscenza e commitment nei confronti del mercato estero, e attraverso questo processo di accumulazione effettua la transizione alla fase successiva del suo processo di apertura internazionale. Ovviamente tali passaggi saranno tanto più rapidi quanto più il contesto ambientale

13 Sono delle filiali commerciali prive di rilievo strategico, cui sono demandate le attività di marketing e vendite, e quelle di assistenza tecnica. L’impresa complessivamente considerata si limita a sfruttare firm-specific asset controllati dalla casa madre. 14 Le sussidiarie assumono in primis decisioni strategiche circa la definizione dei volumi di produzione o le caratteristiche dei prodotti (eventuali adattamenti locali).

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(lingua, tipo di cultura, livello di istruzione, sistemi politici) e quello competitivo (sviluppo industriale) del Paese di destinazione saranno “vicini” o simili, a quelli del Paese di origine.In conclusione, il processo di internazionalizzazione coinvolge in primo luogo paesi culturalmente vicini, e successivamente con l’accumularsi di conoscenze e competenze, si estende anche a quelli più lontani, secondo un approccio step-by-step, finalizzato a ridurre il rischio e i sunk costs dell’espansione in contesti non familiari, attraverso l’impiego crescente di risorse cui corrispondono le varie fasi della estalishment chain.Passando attraverso i diversi momenti del processo di internazionalizzazione, alcune dimensioni aziendali subiscono delle modifiche più o meno incisive:La strategia competitiva dovrà perseguire l’ottenimento di un vantaggio competitivo, attraverso una presenza commerciale e/o produttiva all’estero. I processi di business saranno organizzati su scala sovralocale, la catena del valore sarà localizzata su scala internazionale (naturalmente le varie attività saranno poi reintegrate soprattutto tramite la ICT).La conoscenza maturata all’estero, consentirà all’impresa di sfruttare le opportunità e le specificità di più Paesi, e tutte le sussidiarie beneficeranno del trasferimento di conoscenze nella rete interna.L’organizzazione delle relazioni interne dovrà essere tale da massimizzare i trasferimenti di informazioni e conoscenza, garantendo al contempo la corretta

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implementazione dell’orientamento strategico della corporate, mentre. le relazioni esterne tra le sussidiarie e gli attori locali (soprattutto i governi) dovranno essere gestite e sviluppate in modo da ottimizzare i vincoli e le opportunità, derivanti dalla presenza nell’area.I mercati esteri sono intesi come contenitori di risorse, e l’impresa sceglie di entrarvi in funzione dell’apprendimento che può trarre da essi. D’altra parte il commitment, inteso quale impegno, radicamento, ammontare degli investimenti effettuati dall’impresa nell’area, sarà funzione crescente delle conoscenze che l’impresa percepisce di poter trarre da tale contesto e dalle relazioni con gli attori locali.A questo punto il circolo si chiude e si autoalimenta: col progredire della presenza internazionale crescono il commitment, la conoscenza e le relazioni dell’impresa con il mercato estero e con i suoi attori di riferimento; allo stesso tempo quanto più l’impresa conosce il mercato tanto più si radica nello stesso, sviluppando fitte relazioni con gli attori locali. Tuttavia, il limite dell’internationalization process model risiede nella sua natura essenzialmente deterministica e sequenziale che, pur consentendogli di individuare tutti i possibili stadi dell’espansione estera di un’impresa, stabilisce una precisa relazione tra stadio del processo di internazionalizzazione e configurazione dell’impresa15, escludendo che essa possa differenziare la propria

15 Il modello individua in maniera univoca il modello strategico-organizzativo appropriato per ciascun gruppo di relazioni e conoscenze che l’impresa gestisce nelle differenti fasi del suo sviluppo internazionale.

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internazionalizzazione in relazione alle caratteristiche interne, all’orientamento strategico o alle specifiche interazioni che stabilisce con l’ambiente di riferimento. Ricercare le cause dell’internazionalizzazione significa individuare una serie di spinte, interne e esterne, legate alle risorse e competenze di cui l’impresa dispone. Ecco perché a seconda delle caratteristiche del mercato o del business di riferimento, delle conoscenze detenute dall’impresa o in base alle sue precedenti esperienze internazionali, alcune fasi della establishment chain potranno essere saltate o richiedere tempi diversi16.

1.3.2 Le cause del processo di internazionalizzazione Forze interne

Le cause che spingono l’impresa a ricercare l’espansione della propria attività produttiva e commerciale in aree geografiche estere possono essere ordinati in due categorie: fattori «interni», connessi allo sviluppo delle risorse interne e della posizione competitiva; fattori «esterni», connessi all’adeguamento o allo sfruttamento degli stimoli provenienti dall’ambiente rilevante.L’effetto generato da questi due ordini di fattori dipende dalle condizioni del sistema aziendale in cui esse agiscono; in particolare dalle risorse e competenze che

16 Da parte sua, l’establishment chain è suscettibile di modificazioni e/o di salti nell’articolazione e nel susseguirsi dei suoi stadi; in generale ciò avviene in presenza di modalità di entrata di tipo acquisitivo, consolidata esperienza internazionale, ridotte dimensioni del Paese di destinazione, tali da impedire l’implementazione di tutti gli step.

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esso ha a disposizione e della sua configurazione organizzativa.I fattori connessi allo sviluppo della posizione competitiva enfatizzano, l’origine interna all’impresa del processo di internazionalizzazione che viene attivato da specifiche scelte prese dai dirigenti aziendali.Il secondo gruppo di fattori riguarda invece le spinte che hanno origine esterna, e che derivano quindi dai vincoli o dalle opportunità che le condizioni ambientali pongono all’impresa.Peraltro l’evoluzione dello scenario competitivo in molti settori è tale che, la scelta per l’internazionalizzazione diventa una condizione quasi necessaria per la sopravvivenza.Il processo di internazionalizzazione è, quindi, il risultato di una combinazione di cause che investe entrambe le categorie viste.Le condizioni interne dell’impresa, espresse dall’assetto organizzativo, dall’orientamento strategico e dalle conoscenze accumulate, spingono l’impresa a un certo tipo di espansione estera.Una volta che l’impresa si stanzia in una nuova area geografica, acquisisce risorse e conoscenze che determinano un cambiamento interno, con il rafforzamento della posizione competitiva e la nascita di nuove spinte per la crescita a aziendale.Quindi, nel processo di internazionalizzazione delle imprese le spinte interne ed esterne non possono che coesistere.

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L’impatto dei fattori dipende dalle condizioni interne dell’impresa, cioè dalle risorse e competenze disponibili, dall’esperienza maturata e dagli equilibri organizzativi che caratterizzano l’azienda.Quindi l’impresa deve disporre di risorse tangibili e intangibili, e competenze adatte a gestire la presenza nel mercato estero, soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo, e lo sfruttamento del vantaggio competitivo di cui dispone, anche in aree estere (fattori interni).Oppure può andare alla ricerca di competenze di cui non dispone, e ricercarle in nuove aree geografiche (fattori esterni). Non si ritiene corretto stabilire alcuna relazione deterministica tra dimensione delle attività dell’impresa e orientamento strategico della stessa verso l’internazionalizzazione; tuttavia, l’impresa che raggiunge una buona posizione competitiva ed ha una forte crescita dimensionale, e quindi di fatturato, raggiunge dei livelli di risorse e competenze che le permettono di affrontare nuove alternative di crescita; tra queste l’internazionalizzazione è una delle principali. I fattori interni di spinta verso i mercato esteri sono quelli su cui è posta una maggiore enfasi, anche perché il processo di espansione all’estero è la manifestazione delle caratteristiche dell’impresa dal punto di vista organizzativo, strategico, e di creazione delle conoscenze.Inoltre le risorse disponibili e la configurazione organizzativa dell’azienda hanno anche rilievo sul peso

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delle spinte esterne all’internazionalizzazione, influenzando il modo con cui l’impresa percepisce e interpreta i segnali provenienti dall’esterno. Infatti le competenze, le risorse disponibili, e la configurazione organizzativa dell’impresa condizionano il tipo di risposta che essa è in grado di dare agli stimoli ambientali; risposta che può andare verso l’avvio del processo d’internazionalizzazione, verso il ripiegamento nel mercato locale, o addirittura può portare all’abbandono del settore.Le forze interne alla base del processo d’internazionalizzazione sono di tre tipi:1) L’acquisizione di vantaggi competitivi intrinseci nella presenza internazionale2) Lo sfruttamento in nuove aree geografiche di vantaggi competitivi detenuti nel mercato originario3) La ricerca nelle aree estere di condizioni che possono tradursi in elementi di vantaggio competitivo.

1) L’espansione estera come fonte intrinseca di vantaggio competitivo:Questa strategia fa riferimento al paradigma «eclettico», secondo cui l’internazionalizzazione permette all’impresa di ridurre, attraverso la gestione di attività internazionali, i costi transazionali e migliorare la propria posizione competitiva rispetto ai concorrenti locali.L’approccio eclettico individua tre categorie di vantaggi:Gli atout derivanti dalla sola natura dell’impresa; la quale può disporre di risorse e vantaggi competitivi rilevanti sui

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mercati internazionali, come la riduzione dei costi di transazione, grazie ad una struttura organizzativa internazionale più efficiente dello scambio sul mercato.I vantaggi nel trasferire i propri fattori di forza, come la tecnologia, alle unità operative del gruppo invece che ad imprese etere.La localizzazione dell’impresa a livello globale, che permette di ridurre alcune categorie di costo, come quelli tansazionali e produttivi. L’impresa infatti ha convenienza nel sostituire il mercato per determinate transazioni, con l’integrazione a livello internazionale che risulta più efficiente.Dalla teoria espressa nel paradigma eclettico possiamo derivare le tre spinte fondamentali alla realizzazione dell’ IDE( investimento diretto estero):- Investimenti market seeking, effettuati per raggiungere nuovi mercati. - Investimenti low cost seeekig, effettuati per ottenere una riduzione dei costi di produzione.- Investimenti natural resource seeking, effettuati per acquisire i fattori produttivi ad un costo più basso.Oltre ai benefici di natura transazionale, l’espansione dell’impresa risulta fonte di vantaggio competitivo, perché:- Determina alcune condizioni di arbitraggio, come l’abbattimento dell’ onere fiscale attraverso il meccanismo dei prezzi di «trasferimento», tramite il quale vengono spostate porzioni di reddito nell’area geografica dove la tassazione sulle imprese è minore.

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Altra condizione è l’ottimizzazione del reperimento delle risorse finanziarie, attraverso la presenza diretta in diversi mercati finanziari. Altra forma di arbitraggio deriva dalla teoria del ciclo di vita del prodotto di Vernon, infatti l’impresa operando in diverse aree geografiche,con un diverso tasso di sviluppo della domanda, può sfruttare il diverso valore che la domanda nei vari paesi attribuisce al prodotto, allungandone il ciclo di vita. Questa opportunità non riguarda solo i prodotti ma anche la tecnologia, e gli impianti utilizzati nei processi produttivi.- Fornisce all’impresa alcune leve competitive, come la diversificazione del portafoglio di business aree geografiche dell’impresa, che riduce il rischio complessivo.Ma ci sono anche altre leve strategicamente importanti, come il fatto che l’azienda, operando in diversi contesti geografici dispone di una base da cui maturare nuove conoscenze (asset intangibile) sicuramente più ampia di quella dei semplici concorrenti nazionali.Un’altra leva molto sfruttata è quella della strategia di comunicazione, semplicemente per il fatto che l’immagine dell’impresa internazionale gode di un vantaggio rispetto a quella nazionale.Il fatto di essere presente in più mercati garantisce dei vantaggi si marketing consistenti: una maggiore riconoscibilità del prodotto e della marca da parte del consumatore, l’aumento delle occasioni in cui il consumatore è spinto a provare il prodotto, ed il

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rafforzamento della possibilità di fidelizzare il cliente, perché il prodotto è rese disponibile ovunque si trovi.L’accrescimento del potere economico ed extra economico costituisce un’altra leva, che deriva dalla presenza internazionale dell’impresa e influenza il confronto competitivo sui mercati nazionali.Infatti le imprese che operano a livello internazionale possono formare degli accordi collusivi con gli altri leader del settore, che limitano il corretto svolgimento dell’attività economica. Questa politica collusiva penalizza direttamente le aziende a dimensione locale.Un altro vantaggio che l’impresa può trarre dalla presenza internazionale è dato dall’effetto made-in, cioè nel fatto che l’area geografica in cui viene costruito il prodotto influenza in modo consistente le sue caratteristiche, e la percezione che ne ha il consumatore.Il fatto che le attività di produzione siano svolte in un’ area geografica che gode di una buona reputazione e tradizione, aumenta la percezione positiva che il consumatore ha di quel prodotto. L’impresa quindi può sfruttare l’effetto made-in, collocando la propria attività di ricerca o produzione nell’area geografica che gode della migliore immagine per quanto riguarda le componenti critiche del prodotto; nel caso in cui tale effetto è principalmente connesso a fattori d’immagine, occorre anche enfatizzare l’origine nazionale della produzione. Facendo leva sull’effetto made-in positivo l’impresa gode di un vantaggio

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competitivo, inimitabile dagli operatori di dimensione locale.

2) L’espansione estera come strategia per sfruttare i vantaggi disponibili: Lo sfruttamento in nuove aree geografiche dei vantaggi competitivi detenuti nel proprio territorio d’origine, costituisce la seconda spinte all’internazionalizzazione.Si tratta di sfruttare i propri vantaggi in termini di competenze, imprenditorialità, accesso ai capitali e via dicendo.Lo sviluppo della presenza internazionale può essere dovuto anche alla volontà di rafforzare il proprio vantaggio competitivo detenuto nel territorio d’origine, per esempio attraverso la minimizzazione dei costi, tramite le economie di produzione.L’impresa mantiene la concentrazione della struttura produttiva, ricerca una presenza di mercato in diverse aree geografiche, cosi da aumentare il livello delle vendite e, quindi, della propria dimensione produttiva.Le risorse e gli elementi di vantaggio competitivo trasferiti sono prevalentemente di carattere intangibile, e all’interno di un gruppo si configurano come un «bene pubblico», risultando trasferibili ad un costo contenuto.La possibilità di sfruttare i vantaggi detenuti nel mercato originario in nuove aree geografiche è caratterizzata da un’ elevata incertezza, poiché dipende da come si manifesta «l’effetto prisma».

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Questo effetto è causa di una deformazione del giudizio e delle percezioni da parte dei consumatori, causato dalle diverse caratteristiche ambientali, che influiscono sulla posizione competitiva dell’impresa. L’effetto prisma risulta potenzialmente maggiore per vantaggi legati alla differenziazione dell’offerta, piuttosto cha alla riduzione dei costi.La possibilità di estendere un vantaggio detenuto nel mercato locale in altre aree geografiche è una spinta all’internazionalizzazione, che va comunque presa con le dovute precauzioni, analizzando il contesto in cui si è deciso di operare, e valutando gli elementi di forza su cui è basata questa strategia in relazione alle caratteristiche del mercato, della concorrenza e degli attori presenti nelle nuove aree geografiche.

3) L’espansione estera come modalità di ricerca di nuovi vantaggi disponibili:La terza specie di spinta interna è costituita dalla ricerca di nuove fonti di vantaggio competitivo efficaci per rafforzare la posizione dell’impresa sia nel suo mercato di origine, sia nel contesto internazionale in cui eventualmente si trova ad operare.Di solito questa motivazione nasce nelle fasi più avanzate del processo di internazionalizzazione, perché questa spinta implica infatti che l’impresa concepisca la propria strategia competitiva nella prospettiva internazionale, e disponga quindi di una sofisticata capacità di analisi e valutazione dello scenario internazionale.

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Inoltre la ricerca di nuovi vantaggi competitivi spinge l’impresa a collocare prevalentemente all’estero le attività di ricerca e di produzione, o a stabilire relazioni commerciali con fornitori esteri.Il vantaggio competitivo che l’impresa può raggiungere in un’area geografica estera, è dato dalla possibilità di svolgere in modo più efficace ed efficiente una determinata attività in quell’area rispetto a quanto sarebbe possibile fare nel proprio paese d’origine.La possibilità dipende dal rilievo dei fattori di attrattività dell’area considerata e dalla concreta capacità dell’impresa di appropriarsi del vantaggio competitivo che deriva da tali fattori.

Forze esterne

L’adeguamento o lo sfruttamento delle condizioni ambientali costituisce il secondo gruppo di forze che possono dar vita al processo di internazionalizzazione dell’impresa. Si distinguono tre fattori in particolare:1) L’internazionalizzazione del mercato, della concorrenza e dell’ambiente rilevante;2) Il miglioramento delle condizioni e la diminuzione dei costi relativi alle comunicazione ed ai trasporti tra diverse aree geografiche;3) La saturazione del mercato locale.

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Il primo di questi fattori consiste nel superamento dei tradizionali confini geografici.Da un lato un mercato geografico è sempre meno protetto dall’entrata di operatori originariamente localizzati in altri contesti; dall’altro, è sempre meno complicato per il consumatore esprimere la propria domanda in mercati collocati in aree diverse da quella di appartenenza.In una situazione del genere, la capacità di saper operare in contesti geografici diversi diventa una condizione indispensabile.E questa condizione vale anche nel caso in cui il mercato locale è diventato saturo, infatti il saper operare in altre aree geografiche sostituisce altre strategie attuate nel mercato locale (acquisizione di una posizione di leadership nel settore, diversificazione). La spinta verso l’internazionalizzazione in questo caso dipende da tre situazioni: 1) L’intensità della concorrenza nel mercato locale e la capacità dell’impresa di raggiungere la posizione di leader.2) La «trasferibilità» delle risorse e competenze disponibili in un’altra area di business.3) La «trasferibilità» delle risorse e competenze disponibili in un’altra area geografica.Lo sviluppo della presenza estera può essere considerata come una spinta esterna data dai concorrenti, che possono diventare delle minacce, nel caso in cui compiano il primo passo verso l’internazionalizzazione.

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Si attua così una reazione competitiva nei confronti di un concorrente che ha già attuato una strategia di espansione estera, o che sta per attuarla alterando così gli equilibri di mercato.Il band-wagon effect 17(effetto trascinamento) è un’ipotesi imitativa, dove troviamo un first mover che ha attuato per primo la strategia di espansione estera e quindi può acquisire i vantaggi competitivi; e dei follower che seguono questa strategia decidendo di operare all’estero per non lasciare al primo tutti i vantaggi. Un altro tipo di strategia di internazionalizzazione dovuta ad una reazione è quella del cosiddetto «exchange of threat18», dove un ‘impresa che vede l’entrata, nel suo mercato locale, di un nuovoconcorrente straniero decide di entrare nel mercato dello stesso per rispondere alla minaccia che gli è stata portata. Per quanto riguarda la seconda spinta esterna, assistiamo ad un sempre più intenso sviluppo dei sistemi di comunicazione e di trasporto, ed a una costante diminuzione dei loro costi, tanto da ridurre gli investimenti necessari per l’espansione in aree estere. Questo determina un aumento della competitività in ciascun mercato locale e funge da spinta per le imprese verso il superamento delle barriere di natura geografica.

1.3.3 Le fasi del processo di internazionalizzazione

17 Aharoni 199618 Graham (1978)

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Nell'analisi degli elementi che caratterizzano la natura dell'impresa internazionalizzata sono stati discussi i modelli che interpretano il fenomeno dell'internazionalizzazione come un processo che avviene in diversi stadi, ad ognuno dei quali l'impresa assume uno specifico tipo di configurazione. Tali approcci, pur risultando criticabili a causa della loro impostazione sostanzialmente deterministica, contengono alcuni elementi d'interesse concettuale.In particolare, essi sottolineano il carattere dinamico dell' espansione estera, determinata da cause e decisioni che mutano con la stessa evoluzione dell'impresa.Già Saraceno osservava come l'impresa internazionale non deve essere intesa come un «archetipo», ma piuttosto come il risultato in continuo divenire di un percorso evolutivo. Su questa linea si esprime anche Rispoli (1994) quando afferma che «per internazionalizzazione delle imprese, può intendersi infatti un processo che, a partire da un rapporto relativamente semplice ma sistematico delle imprese con i mercati esteri (come quello generato da flussi esportativi non occasionali), porta via via verso forme di investimento all' estero e comunque verso lo sviluppo di relazioni competitive, transattive e collaborative con altre aziende di produzione e di servizi, pubbliche e private, in diversi paesi».Questo paragrafo ha l'obiettivo di focalizzare i passaggi logici che l'impresa attraversa nel corso della sua evoluzione internazionale e nei quali assume, in funzione

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delle specifiche condizioni del processo, una certa configurazione strategica ed organizzativa.Dal modo in cui l'azienda gestisce le proprie operazioni estere, si può identificare lo stadio del processo di internazionalizzazione coinvolto. Le fasi in cui, in condizioni normali, è possibile dividere il processo d'internazionalizzazione delle imprese sono: 1) Fase di entrata nel mercato estero: l’impresa individua l’area che le interessa, gli obiettivi che vuole raggiungere attraverso la presenza in tale area e i mezzi per realizzare i suddetti obiettivi; analizza le risorse che possiede e individua come e dove dotarsi di quelle mancanti.2) Fase di assestamento della presenza sul mercato estero: l’impresa matura nuove routine e competenze attraverso le quali stabilizzare gli effetti della nuova dimensione geografica, e eventualmente modifica la propria struttura organizzativa e la strategia competitiva. 3)Fase di sviluppo della posizione competitiva nei mercati esteri: l’area estera cresce di importanza nell’economia e nell’orientamento strategico dell’impresa, per cui nascono e si arricchiscono le relazioni con gli stakeholders locali (rete esterna), ma contemporaneamente si inizia a guardare a altre aree di possibile espansione commerciale e/o produttiva.4) Fase di razionalizzazione della posizione internazionale: l’insediamento simultaneo in diverse aree geografiche e di mercato porta a organizzare la catena del valore a livello globale, ottimizzando la struttura dei costi, sfruttando al massimo sia i vantaggi competitivi

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acquisiti nelle varie aree che le interdipendenze tra le catene del valore di business differenti. Ovviamente sarà necessario definire l’architettura dei rapporti tra la corporate e le varie sussidiarie (rete interna).In ciascuna di queste fasi, l'impresa matura un livello più avanzato di competenze utili per gestire le operazioni estere. Si ripropone sul piano internazionale la centralità dell’ «azione imprenditoriale» che alterna la stabilizzazione della struttura per far fronte ad un determinato contesto, all’azione di cambiamento della stessa per migliorare il rapporto con l’ambiente esterno.In ogni instante della sua storia l’impresa internazionalizzata si trova in una delle quattro fasi indicate; è però anche probabile che essa si collochi contemporaneamente in diversi stadi, a causa del verificarsi di due circostanze piuttosto frequenti. In primo luogo, se l’impresa è impegnata in settori differenti, è probabile che l'evoluzione internazionale che essa segue in ciascuno di questi stadi abbia ritmi temporali diversi. Ad esempio, l'azienda può essere impegnata nella razionalizzazione della propria posizione internazionale per quanto riguarda un certo business e in un'altra area di affari operare per assestare la posizione competitiva in un nuovo mercato geografico.In secondo luogo, poiché l'espansione internazionale procede naturalmente in maniera il incrementale, è probabile che mentre l'impresa è già impegnata nella

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razionalizzazione della complessiva posizione internazionale, si possa contemporaneamente trovare impegnata a gestire l' espansione in una nuova area geografica. È implicito che la natura e l'intensità dell'internazionalizzazione dell' azienda sono delineate dalle caratteristiche dello stadio più avanzato in cui questa si trova; tuttavia, il fatto di essere coinvolta in uno stesso momento in diversi stadi del processo, comporta che l’impresa debba affrontare in maniera simultanea problematiche differenti, valorizzando le competenze maturate da quelle unità del gruppo che sono più avanzate nel processo di evoluzione internazionale.Le quattro fasi in cui si articola il processo di internazionalizzazione mettono in evidenza come, contrariamente a quanto si tende comunemente a ritenere, la sua dinamica non consiste solo nella progressiva espansione della presenza operativa dell’impresa in nuove aree geografiche. L’espansione nel mercato estero in senso stretto descrive, infatti, semplicemente il primo stadio del processo d’ internazionalizzazione; questo prosegue però con attività che non necessariamente comportano l’ampliamento dell’ estensione geografica delle attività dell’azienda. Inoltre quale che sia la modalità operativa scelta per entrare nella nuova area (esportazione, JV, accordi e partnership, investimenti commerciali, IDE…), sicuramente l’internazionalizzazione conosce delle fasi

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specifiche (le 4 fasi), attraverso cui ogni impresa passa, onde accumulare le dovute conoscenze e competenze.

1.3.4 Le modalità di internazionalizzazione

L’internazionalizzazione può essere suddivisa in attiva e passiva, ed è studiata sia a livello aggregato sia a livello di impresa.L’internazionalizzazione attiva a livello aggregato, riguarda le imprese di un determinato paese che decidono di entrare in aree geografiche estere, mentre l’internazionalizzazione passiva avviene ogni volta che uno stato diventa meta di investimenti esteri.Per quanto riguarda la singola impresa invece si parla di internazionalizzazione passiva quando sono operatori economici stranieri (tipicamente buyers, importatori, distributori...) che vengono a ricercare il suo prodotto che presenta condizioni a loro convenienti. Esiste anche la figura dell’esportatore, del paese di origine ma esterno all'azienda, che si assume il rischio di collocazione della merce sui mercati esteri.Questa forma dunque sarà utile per l'impresa qualora si verifichino dei surplus produttivi temporanei o nel caso in cui non abbia le risorse sufficienti per il processo attivo. Questa è infatti la tipica forma di internazionalizzazione delle PMI, che fino ad ora hanno guardato poco allo sbocco estero sia per la carenza di risorse che per la mancanza di un informazione adeguata e che solo negli

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ultimi anni si sono spinte oltre confine più per necessità che per altro. Si parlerà invece di internazionalizzazione attiva, quando l’impresa è in grado di stanziarsi all’estero almeno per quanto riguarda la fase distributiva della propria attività economica ed è promotrice dei propri prodotti.L’impresa può decidere di entrare nei mercati esteri secondo modalità differenti, scegliendo tra IDE, accordi o trasferimenti contrattuali di risorse (licensing, franchising, contratti di produzione e contratti di gestione, joint ventures19), esportazioni dirette o indirette. Le Nuove Forme di Internazionalizzazione (NFI) vengono definite, per la prima volta, da Oman C. come Nuove Forme di Investimento all'estero. Il termine "nuove" è in contrapposizione alla forma classica di esportazione e di investimento diretto estero (IDE). A partire dagli anni '80, si sono evoluti nuovi generi di collaborazione tra imprese che rappresentano sempre più il modo di "crescere" di un'impresa, attraverso la collaborazione esterna, piuttosto che la crescita interna. Le nuove forme organizzative sostituiscono la tradizionale dicotomia williamsoniana tra make(IDE) or buy(export). Il make together è oggi la nuova forma organizzativa industriale al tempo stesso più efficiente ed efficace per affrontare la crescente dinamica dei mercati. Le modalità di internazionalizzazione possono essere classificate da un punto di vista giuridico a seconda che

19Sono le cosiddette nuove forme di internazionalizzazione, fondate sul principio del partenariato, degli accordi commerciali e della collaborazione.

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siano basate su equity agreement, che implica una partecipazione azionaria al capitale(pertecipazioni di minoranza, consorzi, joint venture), o accordi non equity, cioè che non comportano investimenti in quote azionarie di imprese ma comportano un accordo contrattuale tra imprese per lo svolgimento di attività in comune o per particolari forme di assistenza tecnico-produttiva (accordi commerciali e produttivi, acquisto/cessione di licenze, ecc.).La teoria economica classica statunitense degli anni ‘50-‘70, annoverava tra le forme di internazionalizzazione i processi di delocalizzazione della produzione, recentemente definiti di “rilocalizzazione o frammentazione internazionale della produzione” (Baldone, 2002; Jones e Kierskowski, 1997). In realtà la delocalizzazione internazionale può avvenire tramite processi di integrazione orizzontale e verticale. Nel primo caso, si tende a replicare in diversi contesti geografici la struttura produttiva della casa madre, attraverso investimenti diretti esteri (IDE), spesso avendo come principale finalità quella di guadagnare un migliore accesso ai mercati locali. Nel secondo caso, invece, il processo produttivo originariamente realizzato dalla casa madre viene frammentato e dislocato, mediante rapporti di subcontratto o di subfornitura (international subcontracting), in ambiti geografici separati, spesso perché essi offrono le migliori condizioni di costo per la loro realizzazione (Schiattarella, 1999; Viesti, 2002).

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Nella scelta della modalità di internazionalizzazione è necessario considerare vari fattori:a) i benefici attesi nel breve e nel lungo periodob) i costi di attuazione e di gestionec) la tipologia delle attività svolte all'estero e il livello di controllo che si intende esercitare su di essed) il livello desiderato di reversibilità delle scelte e) il livello di rischio prospettato dal paese ospite f) la capacità dell'impresa di sfruttare le proprie leve competitive (valorizzare i punti di forza e sopperire ai punti di debolezza)

Figura 1.2. Modalità di internazionalizzazione e grado di controlloGli accordi produttivi

Sono molto utilizzati per delocalizzare produzioni ad elevata intensità di lavoro e tecnicamente semplici in paesi con costo del lavoro e/o delle materie prime significativamente inferiori:Si sviluppano secondo le seguenti tipologie:

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1) Subfornitura e accordi in conto terzi Definizione UE: si ha quando un'impresa commissiona a un'altra impresa (subfornitore) la fornitura di merci o servizi che la prima utilizzerà per propri scopi commerciali, spesso, ma non sempre, incorporando questi prodotti o servizi in un bene complesso.Vi sono varie tipologie di accordi di subfornitura: Si possono delegare al partner estero solo le attività a maggiore intensità di lavoro (eventualmente anche semplicemente specifiche lavorazioni), con modesti trasferimenti di tecnologia)Si può trasferire al subfornitore la tecnologia, il know-how e tutto ciò che è necessario per la produzione (progetti, stampi, macchine, manuali, ecc.). Oppure la produzione può essere interamente delegata al subfornitore Il committente inoltre può appaltare la fornitura di beni o servizi che non intende o non è in grado di produrre in proprio e che devono essere incorporati in un bene complesso(spesso si tratta di componenti o sub-sistemi progettati in collaborazione).

I vantaggi sono:a) Limitato impegno di risorse da parte del commitenteb) Possibilità di ridurre i costi diretti di produzionec) Ideale per componenti o semilavorati standard quando non vi sono stringenti vincoli di tempoGli svantaggi sono:

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a) Esposizione a possibili comportamenti opportunistici sui prezzi e sulle consegne da parte dei fornitorib) Non agevole controllo della qualità della produzione estera

2) Il Traffico di Perfezionamento Passivo (TPP)

È uno speciale regime doganale di cui possono usufruire i paesi UE per decentrare fasi di lavorazione di un bene all'estero e reimportare il prodotto ottenuto senza pagare dazi (Reg. UE n. 2913/92), e prevede che il terzista lavori secondo standard produttivi determinati dal committente e su semilavorati e materie prime di proprietà del committente (il che fornisce al committente una garanzia di qualità sul prodotto), i dazi si pagano solo sul valore aggiunto prodotto all'estero (incluse spese di carico, trasporto e assicurazione) e non sull'intero valore del prodotto reimportato. Inoltre sono semplificate le procedure doganali (possibilità di viaggiare a carico sigillato) ma comunque richiede un’ autorizzazione preventiva.I settori maggiormente interessati sono: tessile-abbigliamento, calzature, meccanica, elettronica.

I vantaggi sono: a) Possibilità di delocalizzare specifiche fasi produttive ad elevata intensità di lavorob) Pagamento di dazi solo sul valore aggiunto all'estero

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c) Garanzia di qualità per l'utilizzo di materie prime del committented) Semplificazione delle procedure doganali e) Riduzione del fabbisogno finanziario delle consociate estere di natura esclusivamente produttivaGli svantaggi sono:a) Esposizione a possibili comportamenti opportunistici della controparteb) Non agevole controllo della qualità della produzione esterac) Richiede un'autorizzazione preventivad) Non consente di vendere i prodotti sul mercato estero

3) Gli accordi di trasferimento di tecnologie e know-how

L’oggetto del trasferimento è una tecnologia proprietaria, specifica e qualificata, spesso brevettata in diversi paesi.Si tratta in genere di attività intangibili che costituiscono l'insieme di informazioni e conoscenze necessarie per la fabbricazione di un prodotto o di un insieme di prodotti:1) Contratti di licenza e di cessione di brevetto2) Contratti di cessione di know-how3) Contratti di cessione di insegnamento tecnico4) Contratti di vendita di impianti "chiavi in mano"5) Contratti di licenza incrociata (cross licensing)

I vantaggi sono:a) Possibilità di trarre profitto da tecnologie relativamente obsolete

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b) Possibilità di produrre prodotti vendibili nei PVS con costi di produzione inferiori a quelli internic) Possibilità di aumentare le vendite di ricambi e accessorid) Possibilità di creare teste di ponte per la conquista di nuovi mercatiGli svantaggi sono:a) Mancanza di contatto diretto con il mercato esterob) Significativo impegno di risorse tecnichec) Possibili difficoltà nelle fasi di trasferimento tecnologico (formazione e assistenza tecnica)d) Rischio di dissipare il knowhow proprietario

L'investimento diretto estero

È la modalità più strutturata per l'espansione internazionale e ovviamente anche quella più impegnativa in termini di risorse finanziarie e manageriali.Si esplica attraverso una grande varietà di soluzioni, che derivano dalla combinazione di tre fondamentali scelte riguardanti rispettivamente:1) La natura, la tipologia e il valore strategico delle attività svolte dall’ unità estera

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2) La presenza o meno di partner3) La specifica modalità di insediamento (acquisizione o investimento greenfield)

1) L’investimento diretto estero commerciale

La presenza diretta di natura commerciale può assumere diverseforme:Ufficio di rappresentanza: centro direzionale-operativo con il compito di acquisire informazioni sul mercato estero e di sviluppare rapporti con il mercato stesso.Punto vendita: strategia realizzabile da imprese che producono beni di consumo con un forte marchio commerciale.Filiale commerciale: si pone come interfaccia tra l'impresa e i suoi clienti e può svolgere oltre alle funzioni commerciali, amministrative e di assistenza tecnica pre e post-vendita anche funzioni logistiche (magazzino, spedizioni e trasporti).

2) L'investimento diretto estero produttivo per penetrare il mercato locale Ricordiamo che le situazioni in cui l'IDE produttivo costituisce un presupposto indispensabile per la penetrazione del mercato target quando vi sono di barriere tariffarie e non tariffarie che ostacolano le esportazioni.

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Inoltre quando assume rilievo l'effetto made-in (le caratteristiche reali o percepite del prodotto sono influenzate dal focus produttivo).Quando l'internazionalizzazione dell'impresa è determinata dalla necessità di seguire uno o più clienti-chiave cui è legata da rapporti consolidati di fornitura secondo una logica just in time.Quando la partecipazione al capitale di rischio dell'impresa estera è condizione necessaria per concludere importanti accordi di vendita di impianti "chiavi in mano" e/o di cessione di know-how.

3) L'investimento diretto estero produttivo per accedere a competenze e know-how

L'accesso a competenze specialistiche e know-how tecnologico su scala internazionale rende spesso necessario il ricorso a IDE anziché ad accordi di licenza.In particolare, l'IDE rappresenta la modalità di accesso più efficiente quando la tecnologia è all'avanguardia o di non facile schematizzazione, perché tacita, non formalizzata, non incorporata in brevetti, macchine ed impianti e invece incorporata nel personale o nelle organizzazioni attraverso l'accumulo pluriennale di esperienza.

4) L'investimento diretto estero produttivo per sfruttare vantaggi assoluti di costo

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Il ricorso all'IDE anziché a forme "leggere" di internazionalizzazione per accedere a fattori della produzione è vantaggioso quando vi è un significativo trade-off tra riduzione dei costi e altri fattori critici, quali sicurezza negli approvvigionamenti, qualità del prodotto, tempi di consegna, livello di servizio.Quando alle motivazioni resource seeking si combinano motivazioni market seeking nei confronti del paese nel quale viene sviluppata l'iniziativa o dell'area regionale in cui si colloca. Quando vi è esigenza di garantire lo sviluppo e la protezione delle competenze sviluppate internamente all'impresa, che potrebbero altrimenti correre seri pericoli di dispersione, in caso di affidamento della produzione a terzi.

I vantaggi dell’investimento produttivo sono:a) Possibilità di adattare i prodotti alle esigenze del mercato locale e di garantire un più elevato livello di servizio b) Maggiore integrazione con risorse e competenze dei mercati target (grazie all'impiego di personale formato localmente)c) Stretto controllo su produzione, brevetti, know-how e tecnologie, marketing mix, rete distributivad) In alcuni casi, possibilità di usufruire di vantaggi fiscali

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e) Possibilità grazie al radicamento sul mercato di acquisire una immagine di impresa "locale"f) Possibilità di accedere a tecnologie avanzate e di assimilare know-how e best practicesg) Possibilità di implementare strategie globali per consolidare i vantaggi competitiviGli svantaggi dell'investimento produttivo:a) Elevata irreversibilità e costi irrecuperabilib) Necessità di conoscere normative societarie, fiscali, del lavoro, e altro del paese estero c) Difficoltà di integrazione organizzativa tra casa-madre e succursale esterad) Carenza di strutture e servizi adeguati in paesi emergenti o in via di sviluppo

Le joint venture

Si tratta qui di una modalità ”in parte nuova”, applicata sempre di più, avvicinandosi particolarmente all’estremo degli investimenti diretti pur assumendo in parte caratteristiche simili ad altre modalità indirette o meno coinvolgenti. Fanno ricorso a questa modalità le imprese che hanno come obiettivo una stabile presenza all’estero quando è l’unica possibilità per il superamento di barriere all’entrata in un paese oppure se l’azienda ha carenza di alcune risorse o competenze chiavi. E giunto tempo di specificare in cosa consiste concretamente. Fare una joint

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venture20, implica la costituzione di una nuova unità societaria a tempo determinato, per il raggiungimento di un certo scopo. In confronto con le modalità fondate sul aggregazione interaziendale, la joint venture si caratterizza per un coinvolgimento finanziario più stabile (ma non necessariamente più elevato), e un maggior impegno a livello operativo quando si prevede lo svolgimento di alcune attività assieme al partner.Nascono dunque problemi intorno alla definizione del peso proprietario dei partners, sulla definizione dei modelli di gestione. Bisognerà prima di avventarsi capire anche la capacità del partner di sostenere nel tempo gli investimenti ed il suo interessamento nello sfruttamento delle sinergie e nella condivisione delle risorse utili al conseguimento degli obiettivi comuni. Questa modalità potrebbe essere rischiosa per le imprese di minori dimensioni in quanto richiede a volte un assorbimento delle risorse manageriali per tempi lunghi.

1.3.5 I modelli organizzativi

La fisionomia organizzativa dell'impresa è stata approfondita anche da Bartlett e Ghoshal (1987, 1989), con particolare riguardo ai meccanismi di coordinamento tra i due autori hanno identificato i quattro tipi di impresa internazionalizzata: impresa multinazionale; impresa internazionale; impresa globale e impresa transnazionale.

20 Definiamo joint venture, l’impresa congiunta, giuridicamente autonoma, nata dall’accordo fra due o più imprese indipendenti,che ne detengono congiuntamente la proprietà e mettono in comune risorse materiali e immateriali, al fine di svolgere attività economiche definite ma non occasionali e di raggiungere obiettivi comuni “ ( Balcet,1990 ).

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Il modello multinazionale, che riprende l'idea di impresa con orientamento policentrico proposta da Perlmutter(1969), è strutturata nella forma di «federazione decentrata».In essa le sussidiarie operano ciascuna nella propria area di competenza in maniera autonoma dalla corporate e indipendente dalle altre unità del gruppo; le conoscenze maturate da ciascuna sussidiaria hanno scarsa diffusione all’interno del gruppo e il controllo esercitato dalla casa madre è di tipo esclusivamente finanziario.Nel caso di impresa internazionale, le risorse e le competenze fondamentali di tutto il gruppo sono concentrate presso la casa madre che definisce e gestisce la strategia a livello mondiale.Le attività del ciclo produttivo, dalla ricerca fino all’assemblaggio sono generalmente concentrate presso la corporate, mentre le sussidiarie locali gestiscono lo sviluppo del mercato, grazie alla maturazione di competenze relative al marketing del prodotto e soprattutto alla gestione dei canali di vendite. Il flusso di risorse è unidirezionale e procede dalla corporate alle unità locali, le quali agiscono in gran parte dei casi essenzialmente come veicoli di distribuzione nei vari mercati.La terza tipologia definita da Bartlett e Ghoshal è l’impresa globale, questo modello è caratterizzato dallo stretto coordinamento delle attività della catena del valore, normalmente esercitato dalla corporate.

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Le attività delle diverse unità operative all’estero sono organizzate in funzione della strategia globale stabilita dalla casa madre, e in particolare, dal massimo grado possibile di standardizzazione dell’offerta.I compiti e le condizioni di sviluppo delle sussidiarie sono fortemente dipendenti dalle decisioni prese dall’unità centrale. Pur nell’ambito di una forte centralizzazione di gestione questo modello costituisce una svolta rispetto ai precedenti, visto che è caratterizzato dall’idea di coordinamento tra attività realizzate in diversi paesi.Prima di Bartlett e Ghoshal, Porter (1986, 28-37) aveva identificato le caratteristiche dell’impresa globale, facendo riferimento alla configurazione geografica delle attività della catena del valore e al loro grado di coordinamento.Secondo Porter l’impresa globale 21concentra la realizzazione delle diverse attività produttive in una o pochissime aree geografiche; al tempo stesso, le unità estere sono fortemente coordinate a livello internazionale dal quartier generale. L’offerta dell’impresa globale nei singoli mercati è fortemente standardizzata.In questo modello di impresa internazionalizzata, le strutture operative dislocate nei vari paesi tendono quindi ad essere specializzate in determinate funzioni e ad operare per tutto il gruppo internazionale secondo programmi e processi coordinati.

21 Il modello concettualmente opposto è quello che Porter chiama di impresa «country centered",caratterizzata dal fatto che ciascuna sussidiaria organizza nella propria area geografica tutte ogran parte delle attività della catena del valore, operando in maniera essenzialmente autonoma dallealtre sussidiarie(multinazionale).

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Il modello di impresa globale ha successo quando i benefici della concentrazione geografica delle attività e della standardizzazione sono maggiori dei costi del coordinamento tra le stesse attività e degli svantaggi della non considerazione delle diversità locali(Kobrin,1991).Per motivi diversi, le architetture organizzative descritte risultano non completamente adeguate per affrontare nel modo migliore gli stimoli competitivi esistenti nei mercati internazionali. Il modello transnazionale 22costituisce la risposta alla crescente complessità dell'ambiente competitivo internazionale, in particolare all' esigenza di cogliere contemporaneamente le opportunità offerte dall'integrazione globale e la necessità di soddisfare le specificità dei diversi contesti ambientali.Questo tipo di impresa, infatti, si caratterizza per avere un approccio flessibile all'integrazione del business a livello globale. Essa individua e sfrutta ogni opportunità di convergenza internazionale nella realizzazione delle attività del valore come nell'attuazione delle strategie competitive. Questo orientamento viene, però, perseguito in modo differenziato nelle diverse aree di business e nei diversi contesti geografici, al fine di tenere conto della diversa

22 Fratocchi(1996, 41) evidenzia come il modello di impresa transnazionale costituisca una specificazione della più ampia architettura organizzativa di tipo «N-form» proposta con riferimento alle aziende internazionalizzate da Nohria, Gulati e Ghoshal (1994). Elemento caratterizzante di questa forma organizzativa è il fatto di essere basata su una rete di relazioni che si sviluppa a tre livelli: le relazioni tra la casa madre e ciascuna sussidiaria, quelle tra le diverse sussidiarie,quelle infine tra ogni unità della rete e i soggetti appartenenti al contesto locale in cui essa è inserita. Questo tipo di architettura affonda le sue radici nel pensiero di Crozier e Friedberg(1980);' i quali interpretano l'organizzazione come una rete di relazioni tra attori che cercano di massimizzare il proprio interesse individuale, pur nell'ambito di un sistema di regole e di un insieme di risorse e vincoli generali. La rete di relazioni vive quindi in una continua tensione tra la frammentazione derivante dal manifestarsi dei diversi interessi individuali e la coesione verso cui spinge l'insieme delle regole e la stessa necessità di sopravvivenza dell'organizzazione.

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intensità con cui si esprimono le spinte verso l'adattamento locale. L'impresa transnazionale cerca infatti la massima integrazione con i soggetti che costituiscono l'ambiente locale di riferimento nei vari paesi esteri. La qualità di tale integrazione non si riflette solo sulle opportunità di successo della consociata direttamente coinvolta in quell' area, ma anche su tutto il gruppo internazionale.Questo modello presenta, dunque, elementi di novità radicali rispetto aicontenuti delle precedenti forme, di impresa internazionalizzata. In primo luogo, è superata l'idea di un unico perno (la corporate) attorno al quale ruotano numerosi soggetti collegati funzionalmente (le sussidiarie), ma collocati in posizione invariabilmente subalterna. Nell'impresa transnazionale le decisioni strategiche sono condivise tra tutte le unità che ne fanno parte; in alcuni casi, esse vengono prese da quella sussidiaria che sul tema oggetto della decisione si trova in una posizione di preminenza anche rispetto alla corporate.Il secondo motivo di novità del modello transnazionale consiste nel fatto che in esso viene incoraggiata l'accumulazione di conoscenza e di competenza presso le diverse sussidiarie; l'innovazione non viene realizzata necessariamente presso la casa madre, ma può nascere presso qualsiasi unità operativa locale. Perché questa opportunità si traduca in vantaggio competitivo per tutta l'impresa, vengono attivati adeguati meccanismi di

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trasferimento interno delle informazioni e delle conoscenze. Il flusso di risorse e competenze diventa multidirezionale, dalla corporate alle sussidiarie ma anche da queste alla casa madre e da una sussidiaria alle altre.L’impresa transnazionale è costituita da una «rete integrata»(Bartlett-Ghosal, 1990) che riesce al tempo stesso a diffondere presso i singoli nodi, rappresentati dalle sussidiarie e dalla corporate, gli elementi di standardizzazione e a recepire dagli stessi nodi stimoli specifici dalle diverse aree geografiche.

CAPITOLO II

2 L’andamento dell’ internazionalizzazione delle imprese italiane

2.1 Cenni storici

L'economia italiana nasce e si sviluppa trainata dalle piccole e medie imprese23. La piccola dimensione delle imprese italiane è un dato storico, sottolineato nelle primi indagini sulla struttura industriale, subito dopo il

23 Per la Comunità Europea la divisione delle imprese per dimensione è strutturata in questo modo: Grandi-oltre 250 addetti-,Medie-tra 249 e 10 addetti-,Piccole-sotto i 10 addetti-.

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conseguimento dell'unità nazionale, e nelle inchieste dell'Assemblea costituente. Queste caratteristiche si sono accentuate a partire dagli anni settanta, sotto la spinta della de-verticalizzazione avviata dalle grandi imprese, in risposta alle tensioni inflazionistiche e sindacali. La capacità di innovare le produzioni, la flessibilità nei processi produttivi, la cooperazione all'interno dei distretti, il successo nelle strategie di esportazione, l'immancabile svalutazione del cambio fino al 1998, la prosecuzione di una tradizione italiana di operosità e artigianato sono tra le cause dell'affermazione delle piccole e medie imprese. Vi sono comunque altri fattori che hanno portato alla loro prevalenza, in primo luogo ha influito il ritardo con il quale il paese è arrivato all'unificazione nazionale e la prevalenza di una dimensione spesso comunale, o addirittura sub-comunale, nell'organizzazione delle attività sociali ed economiche. L'importanza delle "piccole patrie comunali" in Italia spiegherebbe il peso delle piccole imprese rispetto a paesi, come la Germania, arrivati anch'essi tardi all'unificazione nazionale. Becattini ha ricordato come molte delle correnti produzioni ed esportazioni italiane dei distretti, si colleghino a un'antica "tradizione che celebra la cultura del fare - soprattutto del fare bene le cose che accompagnano la vita quotidiana dei ricchi e dei potenti".

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In secondo luogo, la legislazione ha favorito l'impresa artigiana e cooperativa, ad esempio attraverso agevolazioni fiscali, che in Italia assumono un forte peso nei confronti internazionali. È vero che negli anni settanta e ottanta ci sono stati forti trasferimenti pubblici alle grandi imprese pubbliche in crisi. Questi trasferimenti rispondevano comunque alle difficoltà di bilancio delle grandi imprese e non facevano venire meno i vantaggi fiscali e di regolamentazione delle piccole imprese. Lo Stato italiano ha spesso introdotto incentivi e vincoli per far crescere, da un lato, e influenzare, dall'altro, le grandi imprese; le piccole imprese sono state invece escluse dall'azione istituzionale, ma non ne hanno sopportati i costi, in termini di maggiori controlli e regolamentazioni cui la grande impresa è sottoposta. La capacità delle piccole imprese di creare occupazione e ricchezza si è accompagnata a forme di evasione fiscale e di elusione di regolamentazioni, tollerate dalla classe politiche per obiettivi di consenso elettorale. Sin dal primo dopoguerra la classe politica ha favorito la costruzione di un capitalismo piccolo borghese. “Lo Stato interviene a favorire e consolidare la piccola proprietà e la piccola azienda, soprattutto per difendere questa zona libera contro le tendenze al monopolio della grande industria”(De Gasperi 1946). Del resto, anche oggi gli economisti di sinistra sono nettamente divisi in due fazioni: da una parte, gli esaltatori dei distretti, della piccola dimensione, con una critica dell'idea della prevalenza sempre e comunque dei rendimenti di scala

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crescenti; dall'altra, gli scettici verso le piccole imprese e gli stessi distretti, cupamente pessimisti sulle sorti dell'economia italiana. Il ruolo economico della famiglia, l'avversione del pensiero cattolico alla grande impresa, la struttura produttiva del paese rimasta a forte vocazione agricola fino agli anni quaranta, hanno avuto un ruolo fondamentale nel rallentamento del processo di crescita delle imprese. Un fattore decisivo, e ampiamente studiato, di freno della crescita delle dimensioni delle imprese italiane si è spesso rivelato la volontà della famiglia di non perdere il controllo della proprietà. Una letteratura sterminata ha insistito sulle difficoltà che le famiglie proprietarie esprimono talvolta nella gestione delle imprese, soprattutto nei momenti di discontinuità tecnologica e di cambiamento generazionale. I contrasti tra i membri della famiglia Gucci hanno distrutto l'impresa; è bene comunque ricordare che le famiglie di origine esercitano ancora un'influenza - in forme diverse - tra il 35% e il 45 % delle prime 500 imprese americane quotate (si va dalla Hewlett-Packard alla Coca-Cola, dalla Dell Computer a Microsoft).L'individualismo italiano conduce a mettersi in proprio e a iniziare nuove attività, ma si ferma lì: le imprese non crescono, anche perché vedono con diffidenza la quotazione in Borsa. Una ricerca McKinsey ha mostrato che oltre un terzo delle più grandi imprese italiane presenti nella classifica Fortune del 1990 è scomparso dalla classifica nel 1999: quasi tutte le imprese italiane

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sparite dalla classifica del 1990 erano non quotate, mentre le imprese quotate nel 1990 sono ancora quasi tutte presenti nella classifica del 2000.Sappiamo che l'ingresso in Borsa di una azienda fornisce un segnale di qualità nei rapporti con intermediari finanziatori, fornitori, clienti e dipendenti; consente di raccogliere fondi da destinare ad acquisizioni; può migliorare il grado di leverage; può offrire opportunità di sviluppo internazionale, grazie alla maggiore visibilità.Inoltre l'incidenza del piccolo commercio al dettaglio, ovvero, il peso ancora ridotto, rispetto all'estero, della grande distribuzione, ha contribuito al prevalere dei piccoli esercizi commerciali.

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Una parte significativa delle piccole imprese italiane sono negozi, bar e ristoranti. Più precisamente, in Italia su circa 4 milioni di imprese attive nell'industria e nei servizi, oltre 1,2 milioni operano nel commercio; di queste 700.000 operano nel commercio al dettaglio. In altre parole, un'impresa su tre è attiva nel commercio e un'impresa su cinque nel commercio al dettaglio. La quota sul prodotto interno lordo del valore aggiunto del commercio, nonchè del commercio e dei pubblici servizi, è in Italia più alta che in Francia, Germania e Regno Unito. Lo stesso è vero per il peso degli occupati nel commercio sull'occupazione totale. Al contrario, in Italia, rispetto ai paesi considerati, è minore la quota degli occupati dipendenti che lavorano nel commercio (sia rispetto agli occupati dipendenti totali sia rispetto al totale dei dipendenti nel commercio): l'occupazione commerciale è costituita in prevalenza da lavoratori autonomi.Infine i vincoli istituzionali potrebbero contribuire a spiegare la prevalenza della piccola dimensione. Rispetto al diritto del lavoro, potrebbe essere che la presenza di alcune soglie rilevanti che implicano l'applicazione di norme più stringenti scoraggino la crescita. Molte imprese si aggirano intorno (in particolare appena sotto) alla soglia dei 15 addetti oltre ai quali viene applicato lo statuto dei lavoratori. Il diritto societario vigente dal 1942 e in corso di riforma, potrebbe non aver rappresentato uno strumento adeguato, soprattutto per le piccole e medie imprese, per l'insufficiente differenziazione dei tipi societari (la disciplina della società a responsabilità

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limitata era modellata su quella della società per azioni) e per lo scarso spazio attribuito all'autonomia statutaria, anche nelle imprese con assetto proprietario molto concentrato. Il diritto fallimentare, con un attitudine fortemente sanzionatoria nei confronti del debitore, anche nei casi di sola "sfortuna", potrebbe avere scoraggiato l'assunzione del rischio nell'attività imprenditoriale, oltre che aver reso più costoso il credito per effetto delle inefficienze e dell'eccessiva durata delle procedure, che implicano basse percentuali di recupero per i creditori.

2.2 Le imprese italiane 2.2.1 La struttura imprenditoriale

Secondo i dati forniti dall’ 8° Censimento generale dell’industria e dei servizi redatto dall’ISTAT in Italia ci sono: 4.083.966 imprese, 15.580 istituzioni della pubblica amministrazione e 235.232 istituzioni nonprofit (Tabella 2.1). L’insieme di queste unità si articola sul territorio in poco più di 4 milioni e 755 mila unità locali, che danno origine a 19 milioni e 411 mila posti di lavoro (addetti indipendenti e dipendenti). Rispetto al Censimento del 1991 si registra un aumento di 883 mila unità locali, risultante dalla crescita delle unità locali delle imprese (di oltre 769 mila) e delle istituzioni nonprofit (circa 144 mila) e da una diminuzione

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delle unità locali delle istituzioni pubbliche (di circa 30 mila).

Tabella 2.1- Imprese, istituzioni, unità locali e addetti alle unità locali per settore di attività - Censimenti 2001 e 1991,differenze in valore assoluto 2001-1991 e variazioni percentuali 2001/1991(dati ISTAT)

In termini di addetti, nel decennio 1991-2001 (Tabella 2.1) si registra una crescita di oltre 1,4 milioni di posti di lavoro (+8,0 %), di cui 1 milione e 139 mila nelle imprese (+7,8 %), 85 mila nelle istituzioni pubbliche (+2,7 %) e 211 mila nelle istituzioni nonprofit (+75,8 %).

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Tabella 2.2- Imprese, addetti e numero medio di addetti per impresa per

classe di addetti e settore di attività economica (dati ISTAT Censimento 2001).

Nel sistema delle imprese italiane è sempre rilevante la quota di imprese a carattere artigiano, esse rappresentano quasi un terzo delle imprese attive in Italia (esattamente il 30,7 percento), occupano il 20,7 % degli addetti alle imprese e sono in aumento, rispetto al 1991, sia come imprese (+15,6 %) sia come addetti (+9,1%). L’analisi delle imprese per forma giuridica (Tabella 2.3) consente di quantificare le imprese individuali,

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distinguendo quelle dei lavoratori autonomi (2,2 milioni) da quelle dei liberi professionisti (470 mila); le società di persone pari a 825 mila, in aumento del 33,6 % rispetto al 1991, le società a responsabilità limitata, pari a 492 mila, più che raddoppiate rispetto al 1991 (+118,9 %), e quelle per azioni pari a 40 mila, aumentate del 26,9 % nel decennio. Si contano, infine, circa 48 mila società cooperative (+38,9 % sempre rispetto al 1991) e 13 mila imprese con altra forma (di cui 10 mila consorzi).

Tabella 2.3 - Imprese e addetti indipendenti e dipendenti per forma giuridica - Censimento 2001 e variazioni(dati ISTAT)

Pe quanto riguarda la struttura dimensionale, il Censimento 2001 registra rispetto al Censimento precedente una diminuzione del numero medio di addetti per impresa (da 4,4 a 3,8 addetti), la quale va però analizzata per singole classi dimensionali (Figura 2.1).

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Figura 2.1 Composizione percentuale degli addetti alle imprese per classe

di addetti (dati ISTAT Censimenti 2001 e 1991)

Il contributo maggiore a questa riduzione è dato dal sempre più elevato numero di imprese con un solo addetto (liberi professionisti, consulenti, lavoratori autonomi, ecc.). Mentre, nelle classi da 20 a 249 addetti (cioè nel segmento delle piccole e medie imprese), si riscontra un incremento della dimensione media, che passa da 46,3 a 48,0 addetti per impresa.Le grandi imprese (oltre 250 addetti), infine, registrano un notevole aumentate di numero, da 2.890 a 3.272, cui non corrisponde un aumento del numero di addetti, che è rimasto praticamente immutato (da 3,15 a 3,17 milioni). Di conseguenza, la dimensione media di queste imprese passa dai 1.088 addetti del 1991 ai 970 del 2001.

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2.2.2 La specializzazione delle imprese italiane

I principali indicatori macro-economici mostrano che il nostro Paese sta attraversando una fase di stagnazione economica, nonostante i primi tenui segnali che in alcune regioni e su alcuni mercati (soprattutto extra-europei) si cominciano a cogliere. Si percepisce con chiarezza la crisi di alcune grandi imprese. Ciò che non si vede attraverso le statistiche tradizionali e gli andamenti delle singole tipologie di impresa è la dinamica interna al nostro tessuto produttivo, che va invece analizzato e interpretato come un sistema integrato. Innanzitutto c’è la riorganizzazione in atto nel sistema produttivo italiano. Una riorganizzazione che sta conducendo le imprese più grandi a ridurre le proprie dimensioni, attraverso scorpori e scissioni in unità aziendali specializzate e flessibili. E che, al contempo, vede un rafforzamento della fascia delle medie imprese, che crescono di numero, di fatturato, di proiezione sui mercati internazionali. Questo modello di sviluppo originale, particolarmente adatto alle produzioni di qualità destinate a segmenti di mercato di fascia media o alta piuttosto che a prodotti di massa, ha la sua carta vincente nella flessibilità.Essa viene ottenuta non attraverso economie di scala interne all'impresa, bensì grazie a economie di scala "di sistema", legate alla capacità di collegamento con altre aziende. Importane è anche il fenomeno della crescita delle società di capitali. Dalla metà degli anni Novanta, il saldo

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delle nascite e cessazioni d'impresa più elevato è quello delle società di capitali: esse rappresentavano nel 1995 il 15,4% dello stock complessivo, mentre a fine 2003 ne costituiscono il 20,6%, superando così la soglia del milione di unità.Queste imprese rappresentano il 60% del valore aggiunto ed il 78% del fatturato italiano e, anche grazie alla loro crescita numerica, hanno generato un fatturato aggiuntivo di 540milioni di euro tra il 1997 e il 2003, con un incremento pari al 42,7% in termini nominali.Negli ultimi 5 anni, le società di capitale non sono solo numericamente cresciute ma si sono anche rafforzate sotto il profilo patrimoniale. Se nel 1998 il patrimonio medio aziendale era di 947mila euro, a fine 2003 esso ha raggiunto il milione e 507mila euro, con una crescita pari al 66,1%.Circa la metà di questo incremento è data da variazioni del capitale sociale, mentre un quarto deriva dagli utili realizzati. Questi utili sono stati in gran parte reinvestiti. Infatti, emerge con chiarezza dai bilanci la crescita degli investimenti in macchinari e impianti (+23,5%) e soprattutto in partecipazioni azionarie in altre imprese (dai 388mila euro del 1997 a oltre 997mila euro del 2002, ossia il +157%). Le grandi imprese con oltre 250 milioni di euro di fatturato aumentano: dalle 443 del 1997 si passa alle 567 del 2003. Si riduce però la loro dimensione media (-0,6%) per effetto anche dei processi di decentramento o per le scissioni societarie. Anche le medie aziende (50-250

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milioni di euro di fatturato) aumentano numericamente (nel 1997 erano poco più di 2.200, mentre nel 2003 sono divenute 3.400). Si accresce inoltre il loro peso sul fatturato totale delle società e aumenta la dimensione media (+3,3%).Infine, la fascia delle piccole imprese (fino a 50 milioni di euro) si arricchisce di nuove aziende (da oltre 440mila nel 1997 divengono circa 570mila). Queste incrementano il fatturato medio, ma diminuiscono l'incidenza sul fatturato complessivo. Gli andamenti del fatturato evidenziano, poi, la progressiva terziarizzazione dell'economia.L'incidenza complessiva del comparto manifatturiero, infatti, è diminuita nel periodo del 7,1% a favore delle società che operano negli altri settori (industria mineraria, energetica, costruzioni, agricoltura e servizi). Da rilevare inoltre che Centro e Nord-Est sono le aree che hanno registrato i maggiori incrementi del fatturato per azienda e dell'incidenza relativa sul fatturato globale. In queste ripartizioni, il giro d'affari medio è cresciuto rispettivamente del +24,6% e del +10,6%, mentre il peso percentuale di ciascuna area sul totale nazionale è aumentato di 1,9 e di 1 punto percentuale. Meno brillanti le dinamiche del Nord-Ovest (+9,1%) e del Mezzogiorno (+4,2%), che vedono così diminuire la propria incidenza sul fatturato complessivo rispettivamente di 2,9 e di 0,1 punti. L'altra modalità attraverso la quale la struttura imprenditoriale italiana sta rimodellando la sua

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organizzazione per essere più competitiva è quella legata alla diffusione dei gruppi di impresa.L'analisi condotta mostra che un numero crescente di società di capitali sta scegliendo di svilupparsi instaurando e rafforzando legami con altre imprese, non aumentando di dimensione. Questa logica ha portato alla creazione di oltre 66mila gruppi di impresa, attraverso i quali operano 157mila imprese controllate. Le aziende in gruppo generano circa il 32% del valore aggiunto italiano e danno lavoro a 5milioni di addetti (il 31,9% degli occupati totali). Possiamo tracciare una una mappa dei gruppi d'impresa:all'interno di questi 66mila gruppi si riconoscono tre categorie: oltre 23000 sono aggregazioni che hanno come capogruppo una società italiana; più di 33000 sono gruppi con a capo una persona fisica; quasi 10000 sono gruppi aventi come capogruppo una società estera.La diffusione maggiore delle capogruppo si ha nel Nord-Ovest (42% del totale), dove sono, allo stesso tempo, più presenti le aziende controllate da imprese estere (circa 15.500, 9mila delle quali in Piemonte e Lombardia). Nel Mezzogiorno, invece, il fenomeno appare meno diffuso, sia in termini di gruppi (circa 8.200, il 12,5% del totale), sia in termini di imprese coinvolte (le controllate non superano le 20.000 unità, con un'incidenza del 12% sul totale). A livello settoriale l'incidenza maggiore delle imprese in gruppo si registra nella produzione di energia (32,5%), nella chimica (23,2%) e nell'estrazione di minerali

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(17,2%). Un buon 26%, però, si deve alle imprese dei settori tradizionali del Made in Italy (alimentare, sistema moda, meccanica e arredamento), dove operano complessivamente oltre 24.500 imprese (dati-Centro studi Unioncamere, Sintesi rapporto Italia 2004, 10 maggio 2004).Le imprese italiane crescono in filiera e le grandi imprese soccombono, visto che si scorporano in più unità, si scindono in aziende di dimensioni più contenute, si specializzano in produzioni di qualità, fanno rete all’interno di una filiera distrettuale, tendono sempre più a "fare gruppo".In sintesi la grande azienda si riorganizza cedendo il passo all’impresa di medie dimensioni. È questo il sentiero imboccato negli ultimi anni dal sistema produttivo italiano.Il sistema produttivo italiano gode di estrema vivacità, il cui punto di forza negli ultimi cinque anni è stato incarnato da un milione di società di capitali che ha prodotto il 60% del valore aggiunto e il 78% del fatturato nazionale ed ha incrementato sensibilmente il proprio patrimonio reinvestendo gli utili al proprio interno.Il tessuto imprenditoriale tenta innanzitutto la carta del rafforzamento. Non a caso, come detto sopra il saldo di natimortalità più elevato a partire dal ’99 è appannaggio delle società di capitali: un’impresa italiana su cinque ha scelto questa forma giuridica. Inoltre esse non solo sono cresciute numericamente ed hanno generato un fatturato aggiuntivo di 540 milioni di

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euro fra il ’97 e il 2003, ma si sono anche irrobustite dal punto di vista patrimoniale. Se nel ’97 il patrimonio medio aziendale era di 847mila euro, a fine 2002 esso ha raggiunto il milione e 407mila euro. Dall’analisi dei bilanci emerge inoltre che la metà di questo incremento è data da variazioni del capitale sociale, mentre un quarto deriva dagli utili realizzati. Utili peraltro in gran parte reinvestiti in macchinari e impianti e soprattutto in partecipazioni azionarie in altre imprese.Il trend più originale è la propensione dell’impresa a svilupparsi non tanto dal punto di vista dimensionale quanto instaurando nuovi legami o rafforzando quelli preesistenti con altre imprese. In questa logica sono stati creati gli oltre 66mila gruppi di impresa, attraverso i quali operano 157mila aziende controllate. «Assistiamo quindi a una crescita — commenta Sangalli— che dispiega i suoi effetti in maniera meno evidente, perché è distribuita su un numero maggiore di soggetti, e non emerge in termini statistici osservando il solo incremento del giro d’affari di ciascuna società di capitale».

Il modello d’impresa vincente, tende insomma sempre di più a coincidere con quello delle società di media grandezza. Le circa 3.700 imprese medie (quelle con fatturato tra i 13 e i 260 milioni di euro e un numero di dipendenti tra i 50 e i 499) rappresentano appena l’1,3%

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del valore aggiunto del settore ma sono in continua crescita: l’aumento del capitale investito medio per azienda, al netto dell’inflazione, è pari al +6 %. Positiva è sia la dinamica del fatturato (+29,7%) che quella relativa all’occupazione (+12,1% dalla metà alla fine degli anni ’90. Su questa egregia performance (assai migliore di quella della grande industria) influisce principalmente il forte orientamento all’estero: un terzo delle vendite è legato alle esportazioni, con una crescita pari al +36,4 %. Un’efficienza che si evince anche dal rendimento del capitale: il Roi delle medie imprese risulta più elevato di ben 4,3 punti rispetto alle aziende di grandi dimensioni. Numeri di tutto rispetto, che spiegano perché il Made in Italy può sperare in un futuro migliore nonostante la competizione internazionale si faccia sempre più aggressiva.I dati sulla composizione del valore aggiunto confermano che le imprese italiane sono, rispetto alle aziende europee, specializzate nei prodotti tessili, dell'abbigliamento, del cuoio, delle calzature, dei mobili, del vetro, nonché nei servizi del commercio, degli alberghi e dei pubblici servizi. Si tratta di beni per i quali la scala di produzione è generalmente non elevata (settori tradizionali24); ciò contribuisce a spiegare la prevalenza nel nostro paese delle imprese di piccole e medie dimensioni, ma non ne è l'unica spiegazione: anche tenendo conto della

24 Pavitt distingue 4 tipi di settori: settori tradizionali ( supplier denominated ),settori ad elevata diversificazione dell’offerta ( specialized suppliers ), settori con un elevata incidenza delle spese di ricercae sviluppo ( science based), settori ad elevata economie di scala ( scale intensive ).

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specializzazione settoriale, le dimensioni delle imprese italiane sono inferiori a quelle degli altri paesi. Secondo i dati del Censimento del 2001(Tabella 2.1), in Italia, il 46,5 % degli occupati lavora in imprese con meno di 10 addetti, contro una media europea del 27 %. Anche se la riduzione delle dimensioni medie d'impresa è un fenomeno comune ad altri paesi, in Italia il processo appare più intenso: meno del 20 % degli occupati italiani lavora in imprese con più di 500 addetti, contro il 30 % medio europeo.

2.2.3 Nazionalità e competitività delle imprese

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Le caratteristiche del paese di provenienza rivestono un ruolo importante nell’internazionalizzazione dell’impresa e nella formulazione delle sue strategie. Le aziende che hanno uno sviluppo in un paesi poveri di materie prime (come l’Italia o il Giappone) sono per esempio portatrici, indipendentemente dall’attività svolta, di una cultura aperta allo scambio internazionale. Ci sono anche le aziende, operanti in paesi con dimensioni troppo ridotte (Olanda) per assicurare uno sviluppo significativo, che si caratterizzano da un forte orientamento internazionale e sin dall’origine sono abituate a ragionare sui bisogni dei mercati sopranazionali. Analizzando le imprese, sarebbe un errore non considerare anche gli elementi più intangibili che determinano l’immagine,la configurazione e le caratteristiche di un paese. Sono elementi come : la cultura, la religione e i credo di un certo paese, da considerarsi quasi indispensabili per capire il comportamento delle imprese di quel paese e prevedere le loro reazioni di fronte ad un aggressione eventuale del loro mercato. Ma questo non è sufficiente a spiegare da solo la realtà economica di un paese la competitività in un determinato settore e certi comportamenti aziendali. Il quadro causale andrebbe completato considerando anche le caratteristiche del sistema economico di provenienza delle imprese. Se le prospettive sono favorevoli ed esistono concreti presupposti per far fruttare l’azienda in quel paese, è presumibile che si inneschino dei circoli virtuosi capaci di migliorare sia i risultati delle aziende 25(a

25 Come afferma Hughes (in Webster-Dunning,1990),al conseguimento di risultati positivi da parte delle aziende di un paese contribuisce anche la situazione dell’economia di quel paese.

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livello microeconomico) sia i risultati dell’economia nel suo complesso (a livello macroeconomico). Il conseguimento di buoni risultati a livello macroeconomico permette alle imprese di avere più fiducia nella crescita della domanda, nell’accesso alle risorse finanziarie e nella possibilità di effettuare investimenti. Conseguentemente saranno pronte ad effettuare un livello più elevato di investimenti di fronte ad una minore incertezza. Sono proprio questi investimenti che contribuiranno alla messa a punto di innovazioni che sono la fonte dei vantaggi competitivi (determinanti nella crescita aziendale). A sua volta la crescita aziendale rafforza i risultati del paese di appartenenza e produce nuove risorse da poter destinare a nuovi investimenti innescando una serie di reazioni a catena positive a tutti i livelli. Se invece ci appoggiamo alle teorie messe a punto da Porter o Dunning ci rendiamo conto che la capacità di sviluppare vantaggi competitivi dipende in larga parte dalle condizioni dei sistemi competitivi in cui esse si sono sviluppate.Sulla base di queste teorie, la possibilità per l’impresa di conseguire risultati positivi sui mercati internazionali è strettamente dipendente dalle caratteristiche dei sistemi competitivi a livello nazionale. L’attività esercitata sul mercato domestico dovrebbe servire all’impresa per acquisire e sviluppare le competenze necessarie per potersi presentare ai concorrenti stranieri.Questa visione penalizza dunque le aziende che godono di condizioni interne favorevoli come il basso costo del

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lavoro, finanziamenti agevolati, barriere tariffarie…In effetti questo tipo di aziende rischiano di trovarsi spiazzate nel corso del tempo e con il cambiare degli eventi (potremmo prendere come esempio il sistema bancario italiano, entrato in crisi quando sono cascate le barriere protettrici del sistema). Riassumendo, possiamo concludere che ci sono dei punti incontornabili per lo sviluppo di vantaggi competitivi nazionali. In primo luogo l’impresa deve tenere conto delle caratteristiche della domanda nazionale.Spesso nel paese considerato emergono bisogni o segmenti di clientela che non hanno ancora importanza in altri paesi ma lo diverranno con il tempo. Un altro esempio sono le mode che si affermano in anticipo oppure i modelli di consumo destinati a diffondersi altrove. Poi abbiamo le caratteristiche della concorrenza nazionale con la sua struttura e le sue strategie.Di fatti, dal confronto con concorrenti nazionali nascono spesso vantaggi competitivi che potranno essere sviluppati con successo all’estero. Infine, la conoscenza delle caratteristiche dei settori contigui è per l’impresa fonte di adeguamento ai comportamenti internazionali e di stimolo per la creazione di vantaggi competitivi.

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2.3 L’internazionalizzazione delle imprese italiane

L’allargamento dell’ UE a 25 stati nel 2004, dopo l’entrta in vigore della moneta unica nel 2002 e l’ avvio dell'area dell'euro all'inizio del 1999, ha riacceso la discussione, mai spentasi, sulle prospettive dell'industria italiana. Sono diffuse preoccupazioni sulla capacità di tenuta delle imprese del nostro paese, ora che è scomparsa la difesa rappresentata dalla valuta nazionale. Questi timori derivano, tra l'altro, dalle dimensioni e dal grado di internazionalizzazione delle imprese nazionali, bassi nel confronto con altri paesi industriali.Molti osservatori sottolineano i rischi di marginalizzazione che l'Italia corre a causa della polverizzazione della struttura produttiva e di un modello di specializzazione sempre più disomogeneo rispetto a quello degli altri paesi industriali.Un'assunzione di fondo di questa nota è l'esistenza di una correlazione positiva tra dimensioni delle imprese - per fatturato, per dimensioni del bilancio o per altre misure dell'attività aziendale - e presenza internazionale, misurata sulla base di indicatori diversi (ad esempio, peso delle multinazionali e degli investimenti diretti all'estero). Questo non sta a significare che grande è bello e piccolo è brutto, una teoria che non ha fondamento scientifico ed

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è in contrasto con le performance reddituali osservate in Italia. L'opinione che si vuole sostenere è che un nucleo - che sicuramente sarà ristretto in Italia - di grandi imprese può essere all'origine di esternalità positive per il resto del sistema industriale. Un paese come l’Italia con imprese relativamente piccole e poco internazionalizzate nel confronto con altre nazioni deve continuare a interrogarsi - senza allarmismi, ma anche senza ottimismi superficiali - sul proprio futuro, in un contesto esterno dove l'integrazione dei mercati mondiali si manterrà probabilmente in futuro.Se si cerca di capire la realtà del sistema economico italiano, emerge che la forza competitiva di molte piccole e medie aziende italiane operanti all’estero è da ricondursi al fatto che sono nate e poi cresciute in settori estremamente competitivi, caratterizzati da un elevato grado di frammentazione. Il settore è dunque popolato da un elevato numero di aziende di dimensioni minori, flessibili, creative, pronte ad adattarsi efficacemente ad ogni minimo cambiamento ambientale. Possiamo citare ad esempio, le aziende del settore calzaturiero, quelle operanti nel settore tessile-abbigliamento, del mobile arredamento e nell’oreficeria. Non a caso si tratta di settori nei quali è possibile individuare dei poli (i cosiddetti distretti) in cui sono concentrate molte aziende, in una determinata zona geografica,tutte operanti in concorrenza tra loro sugli stessi segmenti di mercato.

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Se ci appoggiamo sugli esempi precedenti per allargare il quadro, rendendolo più generale, osserviamo che l’Italia si caratterizza da una buona posizione competitiva a livello internazionale. Per comprendere più a fondo i punti di forza e di debolezza dell’ Italia nei rapporti con l’estero è necessario analizzare i settori ed i prodotti che hanno maggiormente contribuito al commercio con l’estero. Per fare questo, utilizzeremmo la classificazione utilizzata da Pavitt che distingue tra settori tradizionali (supplier denominated),settori ad elevata diversificazione dell’offerta (specialized suppliers), settori con un elevata incidenza delle spese di ricerca e sviluppo (science based), settori ad elevata economie di scala (scale intensive).

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Figura 2.2 Interscambio commerciale dell'Italia (valori in milioni di euro) Quote di mercato dell'Italia su export e import mondiale (a prezzi correnti.)

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I settori tradizionali (tessile – abbigliamento,pelli- cuoio, calzature, ceramica, mobile - arredamento…) hanno portato un elevato contributo e questo è andato crescendo nel tempo. La posizione italiana è in questi settori particolarmente favorevole, ma in questo periodo sta subendo aggressioni da parte dei paesi extracomunitari e in particolare dalle aziende provenienti dai nuovi paesi industrializzati ( Hong Kong, Corea del Sud, Singapore,Taiwan ). I settori ad elevata diversificazione dell’ offerta (elettrodomestici,macchine per l’industria, apparecchi elettrici..) hanno anche loro dato un contributo significativo ( con una lieve tendenza alla crescita ) al saldo della bilancia commerciale italiana. I risultati conseguiti dalle aziende italiane all’estero hanno mostrato una maggiore omogeneità con quanto avvenuto negli altri paesi della UE.La Germania spicca per la sua forte posizione competitiva che è andata consolidandosi nel tempo.La tendenza al peggioramento, con un contributo negativo, è stata registrata nei settori ad elevata incidenza delle spese in ricerca e sviluppo: (telecomunicazioni, macchine per elaborare dati, meccanica di precisione…) questo fatto, potrebbe essere considerato particolarmente grave se si considera l’ importanza ricoperta da questi settori dove si producono innovazioni, trasferibili orizzontalmente ad altri settori, che rappresentano l’ avanguardia delle industrie di un paese.

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I settori ad elevate economie di scala ( chimica,autoveicoli..) che inizialmente contribuivano positivamente al saldo della bilancia commerciale italiana, hanno nella seconda metà degli anni ’80 registrato un inversione di tendenza (venendo a contribuire negativamente). Anche in questo caso la posizione italiana si è deteriorata più di quella di altri paesi europei.Questo modello di specializzazione ha sollevato non poche preoccupazioni in un quadro internazionale in cui i prodotti ad alta tecnologia sono passati, nel giri di 15 anni ( dal 1980 al 1995 ), dal 19% al 29% del totale degli scambi mondiali.C’è tuttavia, da osservare che i comparti dove prevale la specializzazione delle Pmi italiane, generalmente a più basso valore aggiunto, hanno visto crescere la domanda mondiale a ritmi particolarmente sostenuti.Ciò si è verificato nonostante l’accresciuta concorrenzialità dei paesi di nuova industrializzazione, a testimonianza dell’elevato grado di efficienza raggiunto dallo specifico modello delle Pmi italiane. In sostanza, il sistema delle Pmi,sia pure con i limiti di specializzazione che conosciamo, continua a presentare opportunità importanti di affermazione e sviluppo nella nuova fase dell’euro e della globalizzazione, ma alla condizione di rafforzare e sviluppare tutti i fattori che convergono verso la massima efficienza del sistema nel suo insieme. Al tempo stesso non si può trascurare i limiti del modello tradizionale di specializzazione per un paese che non

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voglia rassegnarsi a occupare i gradini più bassi nella scala del progresso tecnologico.L’incidenza dei prodotti high-tech sulle esportazioni totali di manufatti dell’Italia si attesta su una quota intorno al 15 % di fronte al 24 della media dell’Unione Europea, al 22 della Germania,al 28 della Francia e al 37 % del Regno Unito.Il ritardo dell’Italia è evidente e tocca tutto il sistema.Se si considera che negli Stati Uniti è proprio una parte delle Pmi a esercitare un ruolo propulsivo nei processi di innovazione tecnologica a ridosso dei grandi centri di ricerca. Non può non essere sottolineato il ruolo che le Pmi, se adeguatamente sostenute da esplicite misure di contesto, possono svolgere nel processo di innovazione e crescita in rapporto all’intero sistema paese. A tutte queste considerazioni di natura quantitativa ne dovremmo aggiungere una a proposito delle modalità preferite dalle aziende italiane per lo svolgimento delle attività sui mercati esteri. Nel analisi della posizione italiana rispetto ad altri paesi non possiamo ignorare il divario esistente in termini di investimenti diretti all’ estero (IDE).Nel tempo le aziende italiane hanno sempre mostrato un profilo più mercantile che industriale, preferendo esportare prodotti piuttosto che impiantare unità produttive all’estero (anche se nella seconda metà degli anni ’80 si è rilevato un incremento).E dunque fondamentale sottolineare, come un basso livello di investimenti diretti all’ estero sia sintomo di un

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internazionalizzazione incompleta da parte delle imprese italiane.Sono molte le imprese sul percorso dell’internazionalizzazione, ed è particolarmente vero per le imprese di dimensioni minori, ma sono poche quelle che hanno completato tale processo. Una possibile spiegazione, che riguarda soprattutto le piccole e medie imprese, sono le motivazioni “ negative “ che spingono molte aziende ad operare all’estero: come le dimensioni troppo ridotte del mercato locale, la concorrenza troppo forte e la perdita di competitività nel mercato italiano, oppure la necessità di smaltire temporanee eccedenze di produzione.Le imprese spinte da queste motivazioni non sono disponibili ad investire in misura massiccia sui mercati esteri, perché spesso rispondono con l’esportazione ai problemi congiunturali o perché affrontano l’internazionalizzazione partendo da una situazione di crisi o carenza di risorse.Nella metà degli anni Novanta quasi il 60% delle imprese manifatturiere italiane ha internazionalizzato la propria attività. Le strategie più semplici, finalizzate ad azioni commerciali ma non produttive, sono prevalse su quelle più complesse di internazionalizzazione dell’attività produttiva; oltre il 56 % delle imprese ha esportato il propri prodotti, circa un quinto ha avviato forme di collaborazione commerciale, mentre rispettivamente il 4,3 % e l’ 1,3 % ha fatto ricorso a forme di collaborazioni tecnica e a investimenti diretti produttivi.

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La percentuale di imprese che ha internazionalizzato senza ricorrere alle esportazioni è molto bassa, alta è invece la percentuale di quelle che si sono limitate ad esportare. Quasi la totalità delle imprese che stringono accordi di collaborazione commerciale all’estero continua ad esportare. Decisamente sostituti sono le collaborazioni tecniche e gli investimenti diretti produttivi; risulta inoltre che buona parte delle imprese che hanno adottato entrambi queste forme sono completamente internazionalizzate, ossia hanno anche stretto accordi di collaborazione commerciale e effettuato esportazioni dall’Italia. L’evoluzione delle strategie di internazionalizzazione nel corso degli Novanta ha visto aumentare il peso delle forme più semplici a scapito di quelle più complesse.Le difficoltà strutturali che l'Italia sta affrontando negli ultimi tre anni di congiuntura economica hanno messo sul banco degli imputati il modello italiano di sviluppo industriale fatto di piccole imprese e distretti industriali. Le critiche sono note: la piccola e media impresa non è competitiva in uno scenario globale perché spende troppo poco in innovazione e, soprattutto, perché non riesce a stabilizzare una propria presenza a livello internazionale.Si tratta di osservazioni in parte condivisibili: dopo anni di elogi, uno sguardo meno indulgente sui limiti del nostro capitalismo industriale è utile. Bisogna prendere atto, anche se con un qualche ritardo, della necessità di urgenti interventi di modernizzazione. In parte, però,

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queste critiche suonano ingiuste. Non tanto perché ingrate rispetto a un modello che, oltre a renderci ricchi, ci ha anche reso famosi; quanto piuttosto perché questo stesso modello di sviluppo ha cambiato pelle. Perché le piccole e medie imprese non sono poi tutte uguali e perché alcune di queste hanno avviato un processo di trasformazione su scala internazionale.

Sul fronte della presenza commerciale, una quota crescente delle nostre PMI ha deciso di consolidare strutture proprie, dalle filiali alle reti di franchising, per governare in modo più preciso il rapporto con il consumatore finale. Per quanto riguarda l'internazionalizzazione produttiva, la PMI si è data da fare senza replicare le strategie tipiche della grande impresa (attiva principalmente attraverso i cosiddetti investimenti diretti all'estero - IDE), puntando principalmente a consolidare una rete di fornitori strategici e di subfornitori su scala internazionale.Oggi poco meno del 30% delle aziende leader dei distretti ha già internazionalizzato la propria rete di fornitura oltre i confini nazionali: alcune aree come il Nord Est hanno accelerato i tempi puntando principalmente sui paesi dell'Est Europa come approdo per lavorazioni labour intensive. Altri distretti, in particolare nel centro Italia hanno mantenuto un radicamento geografico più marcato, senza rinunciare tuttavia a aperture importanti. I dati a disposizione ci dicono che il rapporto con i paesi asiatici, nel corso degli ultimi cinque anni, è stato sottostimato per importanza: la geografia di riferimento

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delle nostre imprese deve essere allargata rapidamente per cogliere opportunità di mercato così come a livello produttivo. Da questa fase di sperimentazione tende ad emergere un nuovo modello di impresa, forse meno "italiano", nel senso di caratteristico del nostro specifico contesto nazionale, ma decisamente più competitivo. E' un modello che possiamo definire di impresa a "rete aperta", un modello capace di aprire i propri confini relazionali con i propri fornitori così come con la propria rete distributiva, senza perdere quello stile di management che ha caratterizzato molte delle nostre imprese distrettuali.Queste reti estese, ramificate in continenti diversi, hanno caratteristiche non dissimili dai modelli di impresa americani.Le dimensioni medie dei nostri campioni locali (25-50 milioni di euro) rimangono di gran lunga inferiori a quelle di realtà omologhe all'estero, ma la struttura e il modello gestionale non sono poi così diversi.Va sottolineato come il processo di internazionalizzazione, di per sé, non sia sinonimo di risultati economici positivi. Molte imprese che hanno avviato la costruzione di reti distributive all'estero hanno iniziato questo percorso alla fine degli anni '90, quando il cambio euro/dollaro era particolarmente favorevole. Con un cambio come quello attuale le ipotesi di vendita sono state fortemente ridimensionate così come sono stati compressi i margini di guadagno.

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CAPITOLO III

3 I Distretti

3.1 Concetti generali

La ricerca sui temi dell’internazionalizzazione dei distretti industriali e della piccola e media impresa italiana ha consentito di sviluppare nel corso dell’ultimo decennio un corpus teorico articolato e coerente. Gli studi sul tema hanno messo a fuoco due distinti livelli di indagine. Il primo è legato al territorio e alle dinamiche evolutive dei distretti rispetto all’internazionalizzazione dei processi economici e pone il problema della sostenibilità dei sistemi locali di sviluppo nell’ambito di un’economia sempre più globale (e.g. Corò, Grandinetti, 1999; Corò, Rullani, 1998; Grandinetti, Rullani, 1996; Amin, 1993; Brusco, 1994). Il secondo analizza il problema dal punto di vista dell’impresa, a partire da un’analisi di limiti e potenzialità delle piccole e medie imprese rispetto a percorsi di crescita internazionale tradizionalmente riservati alle imprese di grandi dimensioni (e.g. Vaccà,

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1995, 2001; Varaldo, Ferrucci, 1997; Caroli, Lipparini, 2002).L’avvio di strategie di delocalizzazione produttiva nei paesi dell’Est spinge a riconsiderare il contesto internazionale alla luce di nuove dinamiche sia a livello territoriale che di impresa. Con la caduta del muro di Berlino e con l’inizio di un nuovo processo di integrazione europea, la piccola e media impresa italiana ha aperto un nuovo capitolo sull’internazionalizzazione con forti implicazioni sulle reti di fornitura e sulla riorganizzazione dei processi produttivi. Oltre che dal punto di vista distributivo e commerciale, la piccola e media impresa ha incominciato ad internazionalizzare la sua dimensione produttiva, portando attività ad alta intensità di lavoro in paesi contraddistinti da abbondanza di manodopera e costi limitati. Per analizzare il fenomeno in particolare, si tratta di capire in che modo le categorie utilizzate fino ad oggi per rappresentare le dinamiche di tipo tradizionale, l’internazionalizzazione mercantile, rappresentano strumenti efficaci per l’analisi dell’internazionalizzazione produttiva (Onida, 2001). Si tratta di capire, inoltre, in che misura i processi in atto trasformano l’orizzonte competitivo delle imprese e rinnovano le sfide a cui è chiamato il sistema territoriale nel suo complesso (Porter, 1998).I dati raccolti mettono in evidenza come la delocalizzazione costituisca parte integrante di un processo più generale e articolato di internazionalizzazione produttiva. I dati, inoltre,

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confermano una preferenza della PMI nell’utilizzo di strumenti contrattuali rispetto agli investimenti diretti all’estero, strumento usuale dell’internazionalizzazione produttiva delle grandi imprese. Il trend di apertura delle catene del valore delle imprese distrettuali non evidenzia dinamiche particolari di accelerazione anche se, tuttavia, esso appare come irreversibile.

3.2 Impresa distrettuale, internazionalizzazione e vantaggio competitivo

L’attenzione per i processi di delocalizzazione produttiva attivati con intensità crescente nel corso degli ultimi tempi ha enfatizzato la capacità delle piccole e medie imprese distrettuali di sapersi confrontare con lo scenario internazionale non solo sul versante commerciale (export), ma soprattutto nella sfera produttiva. La lettura consolidata dei distretti industriali li ha descritti come sistemi di PMI chiusi, in grado di interfacciarsi con l’esterno unicamente attraverso le fasi finali della catena del valore, attraverso soggetti imprenditoriali deputati a gestire il rapporto con i mercati finali (Becattini, 1987). La crescente proiezione internazionale delle PMI distrettuali relativamente alle fasi produttive a monte ha dimostrato invece la dinamicità strategicareale di alcune imprese dei distretti italiani ed una possibilità di apertura concreta del sistema distrettuale. Allo stesso tempo questo fenomeno ha sottolineato i potenziali rischi di una dissoluzione dei distretti industriali (Onida, Viesti, Falzoni, 1992), nel momento in cui faceva

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emergere un trasferimento di risorse e competenze di natura manifatturiera, tradizionalmente riconosciute come fonti principali della capacità innovativa dei distretti, all’esterno dei sistemi locali.Per quanto di estrema attualità e rilevanza, il problema della delocalizzazione deve essere tuttavia ricondotto all’interno di un ragionamento più generale che riguarda l’internazionalizzazione dei sistemi produttivi locali e delle PMI (Nardin, 1994; Rullani, 1995, 1997). La delocalizzazione rappresenta solo una delle molteplici versioni attraverso cui si può esplicitare il processo di riorganizzazione in chiave internazionale dei processi economici d’impresa. Non si tratta unicamente di selezionare nuovi ambitilocalizzativi in vista di un maggiore guadagno di efficienza a livello produttivo, quanto di ripensare le forme di organizzazione della divisione del lavoro a scala transnazionale.Nel modello imprenditoriale anglosassone la rilocalizzazione di attività operative, di processi produttivi non è un evento traumatico. Questo è dimostrato dal fatto stesso che per l’economia americana la delocalizzazione è una tendenza ormai consolidata (Levitt, 1983; Bartlett, Ghoshal, 1989). La scarsa difficoltà a trasferire in maniera dinamica attività d’impresa tra contesti geografici differenti è dovuta al modello organizzativotipico della grande impresa (Di Bernardo, Rullani, 1990; Antonelli, 1999). La corporation americana ha sempre

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mantenuto una chiara separazione tra funzioni di progettazione e funzioni di produzione, tra ideazione, design, organizzazione del prodotto e sua effettiva realizzazione. Attraverso una separazione tra momento dell’innovazione e successiva industrializzazione del sapere generato a partire da strutture appositamente predisposte (uffici di R&S), la grande impresa è stata in grado di ottenere significativi successi economici sfruttando imponenti economie di scala (economie di replicazione della conoscenza).Questa separazione fa sì che, una volta raggiunta la stabilizzazione nelle fasi di produzione così come di presidio dei mercati relativamente al prodotto, la delocalizzazione costituisca un passo naturale nelle scelte strategiche d’impresa, alla ricerca delle condizioni di maggiore efficienza (bassi costi del lavoro). L’enorme sforzo (e i maggiori costi) della grande impresa si concentra in particolare nelle prime fasi di ideazione, progettazione, test e sviluppo del prodotto (sunk costs), appositamente pianificate e governate in modo tendenzialmente indipendente rispetto alle successive fasi di produzione e commercializzazione (Di Bernardo, Rullani, 1990). Mentre leattività a maggior valore aggiunto, sono concentrate nel Paese di riferimento (USA), al contrario le attività operative o meramente esecutive seguono scelte dinamiche di localizzazione, saldamente controllate a partire da un sistema organizzativo e di supervisione gerarchica appositamente predisposto (Dunning, 1981;

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Grandinetti, Rullani, 1996; Bartlett, Ghoshal, 1989; Zanfei, 2000). Tutto ciò diventa ancora più semplice nel momento in cui la delocalizzazione viene supportata da tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in grado di potenziare e migliorare il governo e il coordinamento delle attività a distanza.Molto più problematico è il rapporto fra le attività ad elevato valore aggiunto (la“testa”) e le attività operative (le “braccia”) nella piccola e media impresa distrettuale.

Nella tradizione industriale italiana il sapere pratico proprio del processo manifatturiero è parte costituiva del valore aggiunto prodotto dall’impresa (Becattini, 1989). Il dominio di competenze in ambito manifatturiero ha rappresentato la leva del successo delle piccole e medie imprese rispetto a settori considerati maturi (Made in Italy), facendo crescere le imprese distrettuali attraverso un’attenzione e una focalizzazione sul prodotto, nonché per mezzo di percorsi innovativi a carattere incrementale.In particolare, il saper fare e la strategia della PMI emergono come due elementi tra loro strettamente interrelati. Un binomio che ripercorre spesso la storia e l’esperienza del fondatore d’impresa, che aveva avviato negli scorsi decenni nuove iniziativeimprenditoriali a partire da un solido sistema di saperi appreso attraverso processi di learning by doing (imprese come spin-off di altre imprese distrettuali). Soprattutto, la definizione della strategia aziendale non è, nella maggior parte dei casi, un processo chiaramente deliberato, frutto

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di attività e procedure formalizzate. È piuttosto il risultato di dinamiche emergenti, che nascono dall’esperienza pratica, da intuizioni, da relazioni,opportunità di mercato, in cui la pratica, l’effettiva e concreta conoscenza del prodotto e del processo di realizzazione hanno un ruolo centrale (Mintzberg, Waters, 1985). Lo stesso vantaggio competitivo dei distretti industriali nasce da competenze manifatturiere piuttosto che commerciali o strategiche.

Per un’impresa distrettuale è quindi molto più complesso avviare una separazione tra la “testa” dell’impresa e le “braccia”, nel momento in cui la generazione del valore aggiunto si sovrappone con il processo di esecuzione dei processi produttivi così come con il luogo in cui queste attività si esplicitano: la fabbrica e le persone che vi operano. La fabbrica non è un semplice luogo di produzione, ma diventa un laboratorio permanente di sperimentazione e apprendimento. Stando così le cose, diventa legittimo dubitare dell’utilità da parte delle piccole e medie imprese distrettuali di trasferire stabilimenti e processi produttivi all’estero, che possono essere vissuti (o possono diventare) come una perdita fondamentale dei luoghi di creazione di valore. Di più, in questo scenario, la delocalizzazione potrebbe, oltre che indebolire le imprese distrettuali, avvantaggiare gli imprenditori esteri, facendoli diventare potenziali concorrenti.

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La delocalizzazione, in negativo, diventa un processo di trasferimento di modelli e pratiche produttive che rappresentano in realtà trasferimenti di conoscenze e saperi fondativi dei propri vantaggi competitivi, innescando un possibile inasprimento della competizione.Se tuttavia si considera la delocalizzazione di alcune attività come processo irreversibile, anche se per ora non grave, diventa allora fondamentale identificare una nuova divisione del lavoro internazionale che tenga conto delle specificità locali, sia italiane (in questo caso) che estere. Se la pratica è un momento centrale del processo di innovazione (Brown, Duguid, 2001), è necessario selezionare con attenzione le attività, le produzioni che devono essere mantenute e coltivate a livello locale, così come quelle che possono essere utilmente trasferite in contesti in cui trovano un terreno fertile di sviluppo. In un’ottica di crescita economica globale, è necessario cioè capire quale può essere il percorso capace di favorire lo sviluppo e la specializzazione dei paesi a più recente industrializzazione (Est Europa, per esempio), in modo coerente con le dinamiche di crescita e valorizzazione del patrimonio di competenze e conoscenze dell’impresa distrettuale italiana (Becattini, 1998; Anastasia, Corò, 1996; Camuffo, Romano, Vinelli, 2001).In questo scenario di evoluzione, il cambiamento di prospettiva nella lettura dei percorsi di delocalizzazione e riorganizzazione in chiave internazionale della catena del valore comporta due ordini di implicazioni, una di tipo strategico ed una di carattere operativo.

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La prima implicazione consiste, a livello di scelte strategiche d’impresa, ma anche di organizzazione attuale e futura del territorio, nel decidere le modalità e le forme di divisione del lavoro, attraverso l’individuazione delle specializzazioni e quindi delle aree e delle risorse su cui investire a livello locale e le risorse da valorizzare all’estero.Una seconda implicazione è di ordine manageriale: l’estensione delle reti, l’allungamento del sistema del valore oltre il sistema locale richiede un investimento deciso in coordinamento e quindi in competenze relazionali. La trasformazione (potenziale prossima) del modello di impresa distrettuale da sede di competenze e saperi produttivi competitivi (fabbrica) a punto di una rete distribuita di operatori specializzati oltre il contesto locale tende a trasformare in modo radicale il ruolo del management, soprattutto con riferimento alle imprese leader. Le imprese non potranno trarre pienamente vantaggio da un processo di revisione della divisione internazionale del lavoro se non saranno in grado di costruire rapporti basati sulla fiducia reciproca, di investire in strumenti di comunicazione per gestire lo scambio di informazioni e merci, di costruire nuovi linguaggi, che permettano di sostenere il modello su cui si è costruita la competitività delle imprese del distretto anche a scala transnazionale (Micelli, DiMaria, 2000; Chiarvesio, Di Maria, Micelli, 2001).

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3.3 Le strategie di internazionalizzazione delle imprese distrettuali

l’Osservatorio TeDIS “Reti e tecnologie per la piccola e media impresa”, che da oltre quattro anni effettua uno studio sistematico della diffusione delle tecnologie di rete nei distretti industriali, ha condotto nel corso del 2002 una ricerca indirizzata ad individuare le principali strategie di internazionalizzazione produttiva emergenti nelle PMI dei sistemi di sviluppo locale. I risultati di seguito descritti rappresentano le principali evidenze dello studio e si riferiscono in particolare all’indagine quantitativa condotta sulle imprese di maggiori dimensioni (imprese leader) appartenenti ai 20 principali distretti industriali italiani operanti nei comparti tipici del Made in Italy: moda, casa-arredo, meccanica (fig. 3.1).

Figura 3.1 – I 20 principali distretti italiani

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L’interpretazione dei dati è stata supportata dall’analisi di alcuni casi aziendali di imprese distrettuali e non, operanti nei medesimi comparti. Nell ’indagine, sono state studiate 182 aziende appartenenti al sotto-universo delle 306 imprese leader dei distretti stessi. Le aziende appartengono per il 40,7% al Nord Est, il 28,0% alla Lombardia, il 18,7% all’Emilia Romagna e per il 12,6% alla Toscana.Rispetto ai comparti produttivi, il 26,4% opera nel settore meccanico, il 43,4% nel comparto moda (tessile-abbigliamento, calzatura, occhiali, concia), il 30,5% nel comparto dell’arredo-casa (mobili, vetro).

3.3.1 Il profilo delle imprese

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Le aziende analizzate hanno registrato nel 200126 un fatturato medio di 65 miliardi di lire1; poco meno del 65% dei casi ha dichiarato ricavi compresi tra i 2527 e i 10028

miliardi di lire; mediamente risultano più grandi le aziende della meccanica, più piccole quelle della moda. Si tratta di aziende che si percepiscono perlopiù come leader di mercato o comunque con una posizione di rilievo rispetto ai concorrenti. È rilevante anche notare che il 40% circa appartiene a un gruppo industriale.Dal punto di vista dell’attività, le imprese realizzano prevalentemente prodotti finiti per il mercato (56,0%) e per altre imprese di produzione (35,7%) e operano perlopiù su commessa (61,0%); solo il 17,6% delle aziende lavora a magazzino.Le aziende considerate confermano la forte proiezione internazionale di tipo commerciale ormai acquisita dai distretti industriali. Da un lato si registra che metà del fatturato aziendale è realizzato sui mercati esteri: l’export medio si attesta infatti intorno al 51% dei ricavi aziendali e metà delle aziende contattate esporta oltre metà del proprio fatturato. Dall’altro lato, metà delle aziende dichiara di avere consociate o filiali commerciali per la vendita all’estero.

3.3.2 La dimensione dell’internazionalizzazione produttiva

26 Trattandosi di un dato riferito al 2001, il fatturato è stato rilevato in Lire e non in Euro, sarebbero 33,5 ml di €.27 13 ml di €. 28 50 ml di €.

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Il 90% delle imprese considerate esternalizza almeno parte delle attività della filiera.L’analisi delle caratteristiche della supply chain e soprattutto i luoghi in cui tali attività vengono esternalizzate rivela che l’internazionalizzazione produttiva non è affatto marginale nelle strategie delle imprese, ma ha un ruolo importante coinvolgendo una quota rilevante di aziende distrettuali.L’apertura internazionale della catena del valore a monte delle imprese coinvolge infatti il 41% delle imprese analizzate.Tale apertura non avviene tuttavia solo attraverso investimenti diretti all’estero; questi costituiscono una delle componenti di un processo di internazionalizzazione molto più articolato, che trova più spesso la forma di un allungamento delle catene di fornitura, sia di tipo strategico che di lavorazione (contoterzismo). Se il 34,7% di tali aziende ha effettivamente costituito stabilimenti produttivi oltre confine, la modalità di internazionalizzazione più frequente è data dalla costituzione di relazioni di partnership con fornitori strategici, attuate dal 61,3% delle imprese che hanno rapporti produttivi con l’estero. Il 21,3% delle imprese fa inoltre ricorso a contoterzisti esteri.Complessivamente, il 15% delle aziende con internazionalizzazione produttiva ha sviluppato più di una forma di presenza all’estero.

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Questo processo di apertura è oggi più evidente nei comparti della moda e quindi della meccanica, anche se con differenze nelle modalità e nei paesi di riferimento.Viceversa, le aziende del comparto casa (soprattutto le imprese dell’arredamento) rimangono maggiormente legate al territorio.Se andiamo a considerare invece le aree principali di riferimento per l’internazionalizzazione produttiva, i paesi interessati sono l’Europa occidentale, l’Europa orientale e il Far East, con una progressiva apertura anche al Sud America.

3.3.3 L’ Organizzazione della supply chain

Il 56,6% delle imprese che esternalizza almeno parzialmente il processo produttivo fa ricorso a fornitori strategici, ovvero a fornitori con cui l’impresa ha costruito relazioni fondate sulla partnership o che comunque risultano importanti per il mantenimento del vantaggio competitivo dell’azienda o del prodotto. Mediamente la fornitura strategica costituisce metà dei costi di approvvigionamento.La rilevanza per l’azienda di questi soggetti è evidenziata dai parametri di selezioni utilizzati. La figura 3.2 riporta il valore assegnato a diverse variabili prese in

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considerazione in fase di selezione dei fornitori (su una scala da 1 a 5, con valore 1 ad indicare scarsa rilevanza, 5 alta). Si può osservare come i fattori cui viene riconosciuta primaria importanza nella scelta dei fornitori riguardino soprattutto 1)qualità e servizio logistico; abbinati, tuttavia a 2)disponibilità alla collaborazione, 3)flessibilità, 4)credibilità e 5)prezzo. Il fatto che tutte le variabili ricevano un punteggio medio-alto indica comunque l’importanza che ormai hanno assunto le relazioni di fornitura in termini di elevato standard qualitativo che devono essere in grado di garantire i fornitori stessi.

Figura 3.2 – I parametri di selezione dei fornitori strategici* Valori medi su scala 1-5 (1= bassa rilevanza; 5= alta rilevanza) (Fonte: TeDIS, 2002)

Complessivamente circa metà (51,5%) delle imprese che ricorrono a fornitori strategici dichiara di avvalersi di fornitori esteri. Mediamente, il parco-fornitori è costituito per il 37,3% da imprese localizzate nell’ambito del

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distretto, per il 18,3% da imprese localizzate in regione, per il 25,1% da imprese di altre regioni italiane rispetto alla sede dell’azienda, e per il 19,3% da aziende estere (fig. 3.3).Figura 3.3 – La distribuzione geografica dei fornitori strategiciFonte: TeDIS, 2002

Analizzando questa distribuzione per settori produttivi, si osserva che il comparto dell’arredo-casa rimane più legato al sistema locale (il 62% circa dei fornitori si trova nell’ambito dei confini distrettuali), mentre le aziende del comparto moda risultano le più internazionalizzate (il 30% circa dei fornitori è all’estero).Per quanto riguarda l’arredamento, in particolare, non si registrano comunque strategie omogenee: alcune aziende che operano nella fascia alta di mercato, da un lato non percepiscono oggi reali vantaggi legati alla riduzione dei costi di produzione e, dall’altro, ritengono ancora strategiche le competenze sviluppate in aree di specializzazione come quelle del Livenza e della Brianza. Altre aziende del medesimo comparto iniziano ora a valutare l’opportunità di costituire joint venture o

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stabilimenti all’estero, mentre nei distretti peculiari dell’arredo-legno, come quello della sedia, i processi di delocalizzazione sono in fase piuttosto avanzata. Si devono poi segnalare anche iniziative come quelle della Federlegno di Treviso, che ha avviato un progetto per la costituzione di un distretto del mobile a Uberlandia, in Brasile.I fornitori strategici esteri sono prevalentemente localizzati in Europa occidentale (69,6%); tuttavia si iniziano a registrare percentuali interessanti di localizzazione in paesi del Far East, Cina innanzitutto, (23,9%) o dell’Est Europa, nell’area balcanica enon (fig. 3.4). Alcune aziende della meccanica, per esempio, sono riuscite ad individuare sul mercato cinese imprese in grado di garantire forniture di qualità a costi minori di quelle locali (nonostante i costi logistici), relativamente a componenti strategiciconsolidati, capaci di assicurare comunque la realizzazione di economie di scala.

Figura 3.4 – La localizzazione dei fornitori strategici esteriFonte: TeDIS, 2002

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Se per le forniture strategiche possiamo dire che le imprese ormai operano su un mercato internazionale, per l’esternalizzazione delle sole lavorazioni (subfornitori conto terzi) fanno ancora leve prevalentemente sulla specializzazione e la flessibilità del sistema locale. Complessivamente il parco subfornitori aziendale è composto, in media, dal 68,4% di imprese localizzate nel distretto industriale, dal 19,1% di aziende con sede in regione, dall’8,3% di imprese localizzate in Italia e dal 4,3% di partner esteri (fig. 3. 5).Tuttavia le imprese che hanno relazioni con subfornitori esteri costituiscono il 13,4% delle imprese che dichiarano di fare ricorso a terzisti (si tratta del 76% circa delle imprese che esternalizzano la produzione).

Figura 3. 5 – La distribuzione geografica dei subfornitori conto terziFonte: TeDIS, 2002

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La localizzazione degli attuali subfornitori esteri è prevalentemente nell’Est Europa (56,2%) o nel Far East (37,5%) (fig. 3.6).

Figura 3.6 – La localizzazione dei subfornitori conto terzi esteriFonte: TeDIS, 2002

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I valori dell’internazionalizzazione delle subforniture non sono elevati, tuttavia sono stimati in crescita: secondo le valutazioni fra tre anni, infatti, la percentuale di aziende con subfornitori all’estero salirà dal 13,4% al 23,9% (fig. 3.7).Figura 3.7 – Le imprese con subfornitori conto terzi all’estero oggi e fra tre anni

Per quanto riguarda le motivazioni che portano le imprese a ricorrere a fornitori o subfornitori esteri, se risulta certa,

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nel secondo caso, la ricerca di minori costi del lavoro, non altrettanto netta è la demarcazione fra aspettative e specializzazioni di partner locali ed esteri. Il confronto fra i due evidenzia delle differenze, ma non chiare e definite polarizzazioni.Con riferimento alle forniture strategiche, si è rilevato come le imprese, indipendentemente dai parametri di valutazione utilizzati in fase di selezione, richiedano sempre e comunque il rispetto di un buon rapporto qualità-prezzo, indipendentementedalla localizzazione dei fornitori. L’unica variabile che ancora differenzia in modo netto la fornitura del sistema distrettuale è la maggiore flessibilità delle imprese, qualità che ha da sempre caratterizzato le imprese operanti nei distretti industriali e che si traduce nella capacità di interagire e rispondere rapidamente a variazioni o richieste specifiche del committente in termini di caratteristiche dell’output.Relativamente ai contoterzisti invece, si rileva che solo metà delle aziende considerate ritiene che il sistema distrettuale risulti ancora preferibile sia per la specializzazione delle imprese che per i minori costi logistici, ovvero per le maggiori competenze specifiche detenute rispetto ad imprese non appartenenti al sistema locale e per la maggiore vicinanza, che riduce sia i costi di trasporto in senso stretto che i costi della gestione complessiva del rapporto con il subfornitore.

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3.3.4 Processi di internazionalizzazione e tecnologie di rete

Un ultimo dato rilevante che emerge riguarda gli strumenti di coordinamento adottati. Da un’analisi risulta che le imprese tendono a replicare all’estero lo stesso modello comunicativo e relazionale proprio del sistema locale, dando ampio spazio agli incontri e al telefono e facendo scarso ricorso a strumenti di comunicazione più innovativi, fatta eccezione per l’ormai ampio uso della posta elettronica (figg. 3.8 e 3.9).Figura 3.8 – L’utilizzo degli strumenti di comunicazione con i fornitori strategici**Valori medi su scala 0-3 (0= uso nullo; 3= uso alto) (Fonte: TeDIS, 2002)

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Figura 3.9 – L’utilizzo degli strumenti di comunicazione con i subfornitori conto terzi**Valori medi su scala 0-3 (0= uso nullo; 3= uso alto) (Fonte: TeDIS, 2002)

Le maggiori imprese distrettuali confermano in modo sostanziale i percorsi di adozione e di utilizzo delle tecnologie di rete rilevati nel corso degli anni dall’Osservatorio TeDIS (Micelli, Di Maria, 2000; Brunetti, Micelli, Minoja, 2002) (fig. 3.10) anche con riferimento specifico ad interlocutori esterni al contesto del distretto. A fronte cioè di un processo evidente, anche se al momento solo iniziale, di riorganizzazione a scala transnazionale delle proprie relazioni produttive, le imprese dei 20 principali distretti manifestano una vistosa assenza di strumenti tecnologici a supporto del coordinamento di attività e processi distribuiti tra il contesto locale e paesi esteri. Questo scenario risulta tanto più evidente quanto più ci si confronta con la realtà delle grandi imprese multinazionali, che viceversa hanno fatto delle tecnologie di rete un fattore strategico

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fondamentale per coordinare sedi direttive e stabilimenti operativi nei diversi Paesi di localizzazione.In un quadro che, sul versante delle nuove tecnologie, ha visto la grande impresa tradizionalmente più innovativa rispetto alla PMI, le grandi organizzazioni hanno colto rapidamente le potenzialità offerte dall’ICT come infrastruttura chiave per incrementare l’efficienza dei processi e l’efficacia comunicativa interni. Le tecnologie di rete hanno permesso infatti non solo di migliorare la trasparenza ed il controllo sui processi produttivi interni (cfr. ERP – Enterprise Resource Planning), ma più in generale di riorganizzare su nuove basi il lavoro, per mezzo di piattaforme tecnologiche condivise (groupware) (Scott Morton, 1991; Sproull, Kiesler, 1991, Davenport, 1993). Questi strumenti diventano assolutamente necessari per il mantenimento della competitività di imprese di grandi dimensioni, soprattutto quando assumono la veste di multinazionali.Infatti, in assenza di soluzioni tecnologiche adeguate, il management della grande corporation non sarebbe stato in grado di assegnare in modo preciso obiettivi e attività per le diverse sedi, assicurandone uno stretto controllo rispetto alle attività pianificate e garantendone un coordinamento efficace ed efficiente a scala globale (Di Bernardo, Rullani, 1990).

Figura 3.10 – La diffusione delle tecnologie di rete

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Le tecnologie di rete non sono però unicamente dei meri strumenti di trasmissione di informazioni standard, di natura codificata, necessarie all’operatività dell’impresa (i.e. EDI, fatturazione elettronica). Al contrario, l’ICT consente alle grandi imprese di gestire processi di generazione, elaborazione e diffusione della conoscenza, all’interno di ambienti elettronici sempre più ricchi (multimedialità) e destrutturati (Di Bernardo,Rullani, Vaccà, 1986; Micelli, 2000). Mentre le PMI dei distretti hanno fatto del territorio l’infrastruttura che ha sostenuto ed alimentato processi di innovazione distribuiti e di condivisione del sapere tra le imprese, al contrario le grandi organizzazioni hanno creato attraverso l’ICT dei contesti di natura virtuale comepiattaforma di interscambio cognitivo e di sviluppo dell’innovazione, sia a livello interno sia coinvolgendo interlocutori privilegiati lungo la supply chain.I processi di internazionalizzazione produttiva che oggi vedono coinvolte le imprese dei distretti richiedono anche a queste imprese uno sforzo necessario di investimento

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per dare qualità tecnologica a delle relazioni industriali e commerciali che assumono i contorni di una rete transnazionale. Le PMI distrettuali hanno finora assunto un comportamento cauto nei confronti dell’ICT, evidenziando strategie di investimento incrementale, coerenti con il modello di organizzazione della produzione che ne ha finora decretato il successo. Rispetto alla varietà delle tecnologie e degli applicativi disponibili, le PMI hanno selezionato e privilegiato soluzioni tecnologiche a pacchetto (commodity, come l’e-mail, il sito Web o il corporate banking), rinviando l’investimento verso tecnologie a progetto, che richiedono uno sforzo maggiore di ripensamento dei processi e dell’organizzazione delle piccole e medie imprese.Tuttavia, nel nuovo scenario che le stesse imprese dei distretti stanno contribuendo a disegnare, non è possibile (e nemmeno auspicabile) immaginare una perseveranza in questa impostazione strategica nel momento in cui il territorio non rappresenta più l’unico (o il principale) ambito entro cui si costruisce la competitività dell’impresa. A fronte di una rete che si allarga oltre i confini distrettuali, vengono rimesse in gioco le stesse regole che hanno guidato i percorsi di produzione, di innovazione, di competizione delle imprese distrettuali. Questo è tanto più vero quanto più risulta difficile scindere la “testa” dalle “braccia” nelle attività d’impresa. In questo caso infatti, la possibilità di ricorrere a soluzioni tecnologiche condivise tra il locale e il contesto organizzativo estero non riguarda più

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unicamente la gestione di scambi informativi di livello inferiore (dati contabili) o intermedio (reportistica) (Camussone, 1998) – per altro risultati comunque importanti, che per ora le imprese distrettuali dimostrano di non conseguire sempre in modo pieno – ma al contrario interessa in modo specifico la dimensione strategica dell’impresa.Come è stato per le grandi imprese multinazionali, anche le PMI devono poter rinviare a infrastrutture tecnologiche a supporto della condivisione di conoscenza – a livello tecnico, commerciale, di innovazione di prodotto e via di seguito – nei casi in cui la rete d’impresa sui cui essa costruisce il proprio vantaggio competitivo superi i confini del territorio locale. Le imprese che hanno intrapreso questa direzione dimostrano di non aver perso (o negato) la loro connotazione locale, ma al contrario di aver potenziato la propria capacità competitiva in modo netto.

3.3.5 Gli investimenti diretti all’estero

A differenza della via principale all’internazionalizzazione seguita dalle grandi imprese multinazionali, gli investimenti diretti all’estero (IDE) sono attuati solo dal 14% delle aziende. I paesi selezionati si trovano preferibilmente in Est Europa, immediatamente seguiti dall’Europa occidentale (a cui possiamo aggiungere anche gli Stati Uniti) (fig 3.11).I motivi principali che portano a tali investimenti sono la possibilità di sfruttare minori costi del lavoro (68,0%) e l’opportunità di essere presenti direttamente in aree di

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potenziale espansione commerciale dell’impresa (56,0%). La prima motivazione viene sempre segnalata dalle imprese presenti in paesi dell’Est Europa o Far East, mentre la seconda, indicata comunque anche da alcune di queste ultime imprese, prevale tra chi ha fatto investimenti in paesi dell’area occidentale. Scarsa rilevanza media (16,0%) ha la vicinanza alle fonti di materia prima, motivazione che assume una certa importanza (segnalata dal 40% delle imprese) solamente nel comparto arredo-legno.

Figura 3.11 – La localizzazione degli stabilimenti produttivi esteriFonte: TeDIS, 2002

CAPITOLO IV

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4 Il settore del mobile arredamento

4.1 Le caratteristiche del settore

Partendo da un’ analisi dell' ambiente si osserva che l'industria del mobile e dell'arredamento si suddivide in vari segmenti di mercato:

- mobili per la casa e l'ufficio - cucine

- mobili per il bagno- mobili imbottiti- mobili in kit- illuminazione- altri comparti del settore

La produzione mondiale di mobili nel 2004 ammonta a 93 miliardi di dollari.Nella classifica delle nazioni leaders nella produzione, le prime sono Italia e Germania, subito dopo Usa, Giappone, Regno Unito, Francia, Svezia, Canada e le nazioni Asiatiche del pacifico.Un discorso a parte è da fare per la Cina: si stima, infatti, che entro la fine del XXI secolo diventerà il secondo produttore mondiale di mobili e quello dell'attuale Repubblica Popolare sarà uno dei cinque mercati più appetibili.I mobili canadesi giocano un ruolo significativo nel panorama internazionale: la crescita, infatti, è passata dai 700 milioni di dollari americani nel 2000 ai 1900 milioni del 2004 (fonte Federlegno).

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Le vendite mondiali di mobili ammontano a circa 80,3 miliardi di dollari americani, d'altro canto, il mercato è piuttosto eterogeneo: le preferenze dei consumatori sono molto varie per quanto riguarda stili, design, qualità e prezzo.In termini di consumi, il mercato più importante è sicuramente quello degli Usa (rappresenta il 27% del mercato), seguito da quello Giapponese (15%) e Germania (11%). Il Canada con il suo 2,3% sconta la vicinanza con il mercato statunitense.Tra i principali paesi esportatori a livello mondiale, l'Italia rappresenta il 12% dell'export internazionale con oltre 39.000 aziende produttrici prevalentemente di piccole e medie dimensioni ed organizzate in sistemi produttivi territoriali di cui circa 16.000 sono quelle orientate all'esportazione. L'export costituisce, infatti, il 45% del fatturato annuale del settore. I principali mercati di sbocco per l'Italia sono USA, Germania e Francia, essendo questi ultimi, assieme alla Spagna, anche i principali concorrenti.La maggior parte della produzione italiana di mobili si concentra nel settore dell' artigianato, nelle officine e nelle aziende familiari che come detto sopra ammontano a 39.000 e che comprendono 232.000 operai.Il maggior numero di queste aziende è di dimensioni limitate il cui personale non supera le dieci persone, e questo è uno dei fattori che ha portato alla costituzione dei distretti.

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Nati dalla fusione tra relazioni economie produttive e sociali in un territorio circoscritto, i distretti mobilieri hanno avviato processi di sviluppo economico, caratterizzati da un'intima corrispondenza tra società e apparato produttivo.L'organizzazione in distretti all'interno del sistema mobile-arredamento si è affermata come modello vincente, che si è imposto in Italia e all'estero.A livello mondiale l'industria del mobile ha dato luogo a sistemi economici locali o distretti industriali che presentano caratteristiche omogenee sia dal punto di vista dell'efficienza dei processi produttivi, sia sul piano della capacità concorrenziale chequesti cluster hanno saputo dimostrare sui mercati internazionali.I distretti mobilieri presentano modelli organizzativi assai diversi tra loro: possono essere sistemi produttivi locali molto concentrati geograficamente con prevalenza di piccole e medie imprese fortemente integrate con alti livelli di istituzionalizzazione (esistono, per esempio, enti che promuovono azioni per tutte le imprese del distretto).E' questo il caso dei distretti mobilieri italiani e di quelli in Austria, Danimarca e Filippine. In altri casi il distretto è formato semplicemente da una concentrazione di imprese su un territorio geografico a volte anche piuttosto ampio (come il Sud Carolina, negli Stati Uniti, o il Guangdong, in Cina) con un basso livello diintegrazione tra le imprese.I 44 DISTRETTI MOBILIERI:

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I distretti del mobile in Europa :-Italia: Bari e Matera (il Triangolo del salotto) , Brianza, Forli', Manzano, Padova e Verona (l'Alto Livenza e il Quartiere del Piave) , Pesaro, Tuscany, Treviso e Pordenone . -Austria: Oberosterreich-Danimarca: Salling-Francia: Lorraine, Pays de la Loire, Ile-de-France, Alsace, Aquitania-Germania: North Rhine Westphalia-Spagna: Paesi Baschi, Catalonia, Murcia, Valencia-Regno Unito: Eastem England, East Midlands, North East, North West, West Yorkshire e HumbersideI distretti del mobile nel mondo:-Australia: Melboume -Brasile: Bento Goncalves, Sao D Bento do Sul, Sao Paulo -Cina: Dongguan, Shunde, Zhongshan, Shenzhen, Guangzhou -Indonesia: Jepara -Giappone: Shizuoka e Aichi,' Okawa, Kanto e Tokyo, Hokkaide -Malesia: Muar -Nuova Zelanda: Hawke's Bay -Filippine: Cebu -Sud Africa: Western Cape-Messico: Jalisco -Stati Uniti: North Carolina, West MichiganPer ognuno degli otto distretti mobilieri italiani più importanti ci sono buone prospettive future, anche alla

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luce degli interventi pubblici e privati in atto sul territorio e delle possibilità offerte dalla legislazione vigente per la creazione di distretti interprovinciali.Le imprese dei distretti si dividono in quattro diverse tipologie: -le imprese guida, in grado di stare sul mercato e di mantenere il vantaggio competitivo -le imprese trainate, che si muovono negli spazi marginali lasciati liberi dai concorrenti, tendono a imitare i prodotti lanciati dalle imprese rivali e puntano spprattutto a perseguire vantaggi di costo -le imprese specializzate, con buona capacità rispetto ad una singola fase della produzione e legate alle imprese guida-le imprese bloccate, subfomitrici di vari committenti e quindi facilmente sostituibili.Si nota che la specializzazione completa è la caratteristica principale dell' industria dei mobili in Italia, e questa specializzazione è favorita anche dall 'utilizzo delle tecnologie più moderne nella produzione.Ogni azienda infatti o ogni singola officina è specializzata in una sola fase della produzione, ci sono quindi ditte che elaborano i disegni moderni e aggiornati adatti ai cambiamenti del gusto e del mercato, altre sono specializzate nella fabbricazione, altre ancora nella finitura, mentre alcune aziende assumono il compito della commercializzazione e del marketing.Il mercato dei mobili sullo scenario internazionale, registra un crescente grado di apertura, questa crescita

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del commercio di mobili a livello mondiale è determinata da due fattori: la progressiva apertura dei mercati e la crescita del consumo di mobili nel mondo, fenomeno che riguarda anche i paesi emergenti, dove si trovano centinaia di milioni di nuovi consumatori con livelli di spesa simili a quelli registrati nei paesi occidentali (Cina).I paesi emergenti sono quindi potenziali consumatori di mobili di fascia media e medio-alta prodotti nei paesi industrialmente evoluti (sopratutto come l' Italia).Grazie alla sua flessibilità e la sua capacità di adattarsi ai cambiamenti del mercato e le sue capacità innovative, l'industria dei mobili in Italia ha potuto realizzare la supremazia rispetto a paesi con imprese di dimensioni più grandi.I mobili italiani tendono a collocarsi nella fascia più alta di prezzo ed hanno la reputazione di essere prestigiosi e costosi, oggi si ritiene che il mobile italiano delle fasce più alte abbia mantenuto il proprio status e la propria quota di mercato, tuttavia questa nicchia di mercato è piuttosto ristretta e tende a crescere molto lentamente.Un ruolo strategico nella storia di successo delle imprese italiane sul mercato mondiale, del mobile lo ricoprono gli investimenti in "industriaI design" .I settori principali dell’ industria dei mobili in Italia sono :1- Mobili da casa 32 %2- Sedie 32 %3- Mobili da ufficio 21 %4- Mobili .da cucina 13 %5- Altri Tipi 2 %

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4.2 Complessità dell’ambiente competitivo

L’ambiente competitivo che i produttori e i distributori di beni di arredamento devono fronteggiare è caratterizzato da una crescente complessità. Il fenomeno è determinato da almeno tre cause:a. l’intensificarsi della concorrenza orizzontale nello scenario della competizione globale;b. l’evoluzione dei comportamenti di consumo e la crescente varietà/variabilità delle aspettative e delle preferenze dei consumatori;c. lo sviluppo e la diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.Esaminiamo di seguito problemi:Strategie competitive nello scenario dell’economia globale:Il prolungato andamento sfavorevole della domanda di beni di arredamento nel mercato nazionale ha certamente messo a nudo alcuni elementi di fragilità competitiva connessi all’elevatissima frammentazione dell’offerta produttiva e di quella distributivache caratterizza il settore in Italia. Si è fatta pertanto più intensa la concorrenza orizzontale tra i produttori di mobili e, allo stadio successivo, tra i distributori di mobili.Come è noto, i produttori hanno potuto bypassare la strozzatura della domanda interna attraverso le esportazioni, grazie anche alla lunga stagione dei cambi

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favorevoli. Ma questa stagione si è definitivamente conclusa e le imprese si confrontano con un duplice problema: da un lato, come evitare che una forte proiezione estera si traduca in un indebolimento della capacità di presidio del mercato nazionale; dall’altro, come rendere non volatile la presenza nei mercati esteri, ancorandola a fonti di vantaggio competitivo sostenibili nel tempo.Inoltre, il processo di globalizzazione non ha certo risparmiato il settore dell’arredamento. In particolare, la fascia bassa e medio-bassa del mercato nei paesi più importanti per l’export italiano, in primis i mercati tedesco e francese, è stata oggetto di una rapida penetrazione da parte di produzioni provenienti da paesi di recente o rinnovata industrializzazione, che hanno eroso i margini di profitto dei produttori italiani presenti in questo macrosegmento. È emersa di conseguenza la tendenza diffusaal riposizionamento nei segmenti medi e medio-alti del mercato in termini di prezzo/qualità, a fronte di una netta prevalenza in passato del basso di gamma. Questo processo è stato favorito dall’effetto di trascinamento dovuto al successo internazionale del sistema italiano della moda, il settore pioniere del made in Italy.La globalizzazione coinvolge del resto la sfera della distribuzione e, anche sotto questo profilo, assetti che potevano apparire consolidati fino a poco tempo fa oggi appaiono alquanto dinamici.

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I segnali sono ben visibili: dalla presenza nel nostro paese di un’organizzazione multinazionale di progettazione/distribuzione come Ikea (Kaufmann, Cristini, 1991; Normann, Ramirez, 1994) alla presenza emergente di beni di arredamento negli assortimenti del commercio despecializzato di grande superficie,che vede l’intervento massiccio di operatori stranieri in Italia.In effetti, nessun mercato nazionale garantisce più barriere all’ingresso insormontabili, e ciò vale sia per le attività di produzione che per quelle commerciali.L’evoluzione descritta del quadro concorrenziale ha avviato una fase di selezione competitiva, che è diventata più intensa nella seconda metà degli anni novanta. In particolare, con riferimento alle imprese di produzione, i processi evolutivi di maggiore impatto sono due.Da un lato, alcune imprese hanno imboccato in modo deciso percorsi di sviluppo caratterizzati dalla diversificazione della gamma, dall’incremento dei volumi e da una crescente proie zione internazionale della catena del valore, sia dal lato degli approvvigionamenti29

che del presidio dei mercati di sbocco, diventando in questo modo soggetti attivi della competizione globale. L’emergere di imprese o meglio di gruppi leader in alcuni dis tretti industriali del Nord-Est specializzati nella produzione di mobili segnala in modo emblematico lo sviluppo di realtà aziendali di dimensioni inedite per il

29 Diversi produttori hanno delocalizzato in varie forme gli approvvigionamenti relativi alle prime fasidella filiera produttiva nei paesi dell’Est-Europa, dove il vantaggio localizzativo deriva congiuntamentedal costo relativo del lavoro e dalla prossimità alle fonti della materia prima. Questo orientamento è statodel resto innescato dalle politiche intraprese dai governi di quei paesi, interessati a disincentivare leesportazioni di legname grezzo a favore di quelle di semilavorati.

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settore, anche attraverso l’acquisizione di altre imprese locali, con il conseguente incremento del livello di concentrazione nei distretti e più in generale nel settore (Guerra, 1998; Grandinetti, 1999; Corò, Grandinetti, 1999).In secondo luogo, diverse imprese di piccole dimensioni hanno ricercato formule competitive a più elevata sostenibilità. Alcune si sono riposizionate nella fascia alta del mercato, puntando sulla qualità dei materiali, l’innovazione di prodotto e un design avanzato. In questo modo, il vertice della piramide che rappresenta la struttura dell’offerta si è allargato30. Altre hanno sviluppato strategie di nicchia basate su prodotti

30 2Struttura che, peraltro, tende ad assomigliare sempre meno a una piramide, in quanto - come si è visto -si è anche allargata la fascia media, mentre si è venuta a restringere la base.

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concepiti per specifiche situazioni d’uso. Anche più frequente è la specializzazione nel segmento contract, dalle catene alberghiere alle navi da crociera. Altre imprese hanno maturato una competenza specifica per particolari mercati-paese. Sono emerse, infine, sporadiche ma interessanti nuove forme di cooperazione orizzontale tra piccoli produttori in campo commerciale, in alternativa ai tradizionali consorzi promossi dal soggetto pubblico per operare nel campo della promozione e della vendita. Il tratto comune delle formule indicate è il rafforzamento dei fattori che attengono all’area del prodotto-servizio: 1)qualità intrinseca e design dei prodotti, 2)offerta di varietà anche nell’ambito di gamme specializzate, 3)livello di servizio ai clienti, in termini soprattutto di affidabilità, 4)tempi di consegna, disponibilità e flessibilità nel rapporto.Complessità della domanda e competenze di marketing delle imprese:In relazione al secondo fattore di complessità, produttori e distributori si confrontano - soprattutto nel mercato nazionale - con un consumatore mediamente più maturo, più innovativo, meno decifrabile sulla base degli usuali schemi descrittivi e ancor meno dei troppi luoghi comuni diffusi nel settore dell’arredamento. Una scheda del nuovo consumatore sembra comprendere i seguenti tratti identificativi (Grandinetti, Pilotti,Zaghi, 1994):- maggiore propensione all’investimento informativo;

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- maggiore attenzione e preparazione nel riconoscere le differenze di offerta e nelvalutare il rapporto prezzo/qualità;- sensibilità alle novità non banali, quando viene decisa la spesa di nuovo impianto, di rinnovamento o di singole sostituzioni;- maggiore propensione a riconoscere valore ai servizi che integrano l’acquisto del bene materiale. - orientamento a richiedere soluzioni personalizzate, per risolvere in modo appropriato esigenze specifiche o semplicemente per differenziarsi dagli altri;- difficile assegnazione dei singoli consumatori ad un qualche segmento, a fronte dei tradizionali criteri di segmentazione della domanda;- presenza di comportamenti “anfibi” da parte di consumatori che compongono scelte di acquisto attribuibili a segmenti diversi.La complessità sul fronte della domanda è dunque elevata, ma lo stock di conoscenze di cui gli operatori del settore dispongono per trattarla appare limitata.Ad esempio, gli approcci alla segmentazione della domanda coerenti con la logica del marketing management, come la segmentazione per stili di vita o la benefit segmentation, hanno ormai un utilizzo consolidato in diversi settori31. D’altra parte, queste stesse metodologie risultano nel settore del mobile ancora poco conosciute e praticate. Infatti, sono prevalsi criteri di distinzione tra prodotti basati sul concetto di stile

31 Anzi, alcuni studiosi, consulenti e manager di marketing hanno incominciato a interrogarsi sullacapacità di tali approcci d i interpretare ancora in modo efficace la varietà reale dei consumatori.

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(classico e moderno, innanzitutto), sui contenuti di design ed altro ancora, che peraltro scontano una sorta di autoreferenzialità dei produttori nei confronti delle dimensioni che caratterizzano i contesti reali del consumo.Più in generale, la realtà dei consumatori - dalla varietà delle sue articolazioni ai comportamenti che caratterizzano il postacquisto - appare ai produttori di arredamento come un universo piuttosto indistinto. Solo negli ultimi anni le imprese più orientate al mercato hanno iniziato a colmare il ritardo. Le distorsioni percettive allo stadio della produzione si trasferiscono allo stadio a valle della distribuzione al dettaglio, traducendosi in rigidità delle leve disponibili nel punto vendita per gestire il rapportocon il consumatore.Il rafforzamento delle conoscenze e delle relazioni di marketing costituisce in effetti la principale sfida che il settore italiano dell’arredamento ha di fronte.

4.3 I sistemi produttivi locali del Livenza e del Quartier del Piave

Uno dei principali poli produttivi nazionali del settore del legno-mobilio è localizzato tra la provincia di Treviso e quella di Pordenone. L’area di specializzazione copre un vasto territorio – che comprende la Sinistra Piave nel trevigiano ed il comprensorio di Sacile nel pordenonese – all’interno del quale le imprese si concentrano soprattutto

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in due sistemi produttivi locali, posti l’uno lungo il corso del fiume Livenza, proprio a cavallo delle due province, l’altro nel Quartier del Piave. La rilevanza dell’area èquantificata dalla sua consistenza occupazionale: nel comple sso le unità locali appartenenti al settore del legno- mobilio sono oltre 2.200 ed occupano quasi 30.000 addetti. Il tessuto produttivo è composto da numerose piccole e medie imprese ma anche da vari gruppi o aziende di maggiori dimensioni.La produzione locale comprende diversi tipi di mobili per la casa, soprattutto soggiorni, camere, camerette, cucine; minore è la presenza di mobili destinati ai segmenti ufficio e contract, che comunque hanno conosciuto una maggiore diffusione in tempi recenti. Le imprese distrettuali realizzano generalmente un prodotto di fascia media, con punte verso il medio alto ed il medio basso. All’interno dei sistemi locali operano alcuni dei più importanti produttori italiani del settore mobiliero, come i gruppi Do imo e Atma, che occupano posizioni di leadership a livello nazionale e mantengono una certa visibilità anche a livello internazionale, pur non avendo marchi molto noti al grande pubblico (Lojacono, 2001).

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Alla produzione di mobili si affianca quella di componentistica (ante, cassetti, semilavorati, ecc.) che, pur appartenendo alla filiera produttiva del mobile, costituisce oramai, almeno in parte, un segmento dotato di una propria autonomia. Anche questo comparto può contare su alcune presenze di rilievo, soprattutto nella produzione di ante (3B, Mobilclan).Le analisi di settore realizzate negli anni ’90 hanno rilevato che nella prima parte di questo decennio i distretti mobilieri trevigiani e pordenonesi hanno mostrato tendenze di crescita più accentuate rispetto a quelle dei principali distretti mobilieri nazionali (Brianza, Pesarese, etc.), evidenziando performance superiori alla media sia per quanto concerne la dinamica del fatturato e la redditività che per quanto concerne l’occupazione. Nel mercato interno, pure contraddistinto da un calo dei consumi, i due sistemi locali nel complesso hanno recuperato posizioni nei confronti degli altri distretti italiani, riuscendo a guadagnare quote di mercato anche in momenti di congiuntura difficile. Nel contempo si sono affermati anche nei mercati esteri, rivelando una propensione all’esportazione superiore alla media nazionale (Csil, 1996a e 1996b).L’individuazione dei distretti del mobile: nota metodologicaPrima di proseguire nell’analisi è opportuno precisare i criteri sulla base dei quali è possibile individuare i distretti mobilieri sotto il profilo della specializzazione produttiva e dell’estensione territoriale. Nel caso in esame il settore di

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specializzazione è chiaramente identificabile nel settore del legno- mobilio, definito dai codici 20 (Industria del legno e dei prodotti in legno) e 36.1 (Fabbricazione di mobili) della classificazione Ateco delle attività economiche; la delimitazione dell’area territoriale richiede invece un ragionamento un po’ più articolato.A questo scopo è doveroso fare riferimento alle delibere adottate dalle due Regioni interessate - Veneto e Friuli-Venezia Giulia – che negli ultimi anni, in attuazione del disposto della L. 317/1991, hanno provveduto a riconoscere i distretti industriali localizzati all’interno del loro territorio. La Regione Friuli-Venezia Giulia si è mossa per prima, con due delibere del 1994 (Deliberazioni della Giunta Regionale 27 maggio1994, n. 2179 e 13 ottobre 1994, n. 4751) ed una successiva del 2000 (Deliberazione della Giunta Regionale 3 marzo 2000, n. 457), che hanno portato all’istituzione del “distretto del mobile”. I comuni appartenenti a tale distretto sono undici, tutti localizzati in provincia di Pordenone, nel comprensorio di Sacile: Azzano Decimo, Brugnera, Budoia, Caneva, Chions, Fontanafredda, Pasiano di Pordenone, Polcenigo, Prata di Pordenone, Pravisdomini, Sacile. In quest’area la specializzazione mobiliera è inequivocabile, come si evince dal fatto che ben il 56,9% degli addetti manifatturieri locali trova occupazione nel settore del legno-arredo.

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La Regione Veneto ha individuato ufficialmente i distretti solo di recente, con Deliberazione del Consiglio Regionale 22 novembre 1999, n. 79, riconoscendo il “distretto del legno e mobile della Sinistra Piave” di pertinenza della presente ricerca.Il territorio del distretto si estende in 52 comuni appartenenti ai sistemi locali del lavoro di Oderzo, Conegliano, Vittorio Veneto, Pieve di Soligo e in qualche comune limitrofo delle province di Venezia e Belluno.

Lo studio per l’individuazione dei distretti realizzato dalla Regione rileva che il distretto della Sinistra Piave risulta dalla saldatura delle due aree del Quartier del Piave e del Livenza (a sua volta confinante con il distretto pordenonese), fra cui si inseriscono i sistemi locali di Conegliano e Vittorio Veneto a struttura industriale più diversificata, con un’importante presenza della filiera metalmeccanica e dell’elettrodomestico. Nel sistema di Conegliano il peso di tale specializzazione produttiva è tale da determinare il riconoscimento di un secondo distretto, il “distretto metalmeccanico di Conegliano”, che risulta quindi contenuto all’interno del distretto mobiliero della Sinistra Piave.Un’analisi degli indici di specializzazione dei sistemi locali del lavoro inclusi nella Sinistra Piave, effettuata sulla base dell’ultimo Censimento Istat, mostra con chiarezza che nei sistemi locali di Pieve di Soligo (coincidente con l’area del Quartier del Piave) e Oderzo (su cui insiste buona parte dell’area del Livenza) la specializzazione mobiliera è forte e supera agevolmente il valo re-soglia stabilito

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dalla normativa (un livello di occupazione nell’attività manifatturiera di specializzazione superiore al 30% degli occupati manifatturieri dell’area): a Pieve di Soligo gli addetti occupati nel settore del legno-mobilio sono infatti il 36,9% del totale addetti manifatturieri, ad Oderzo il 45,5%.Al contrario nelle due aree intermedie di Vittorio Veneto e Conegliano l’indice di specializzazione del legno- mobilio è solo del 22,4% e a Conegliano, in particolare, risulta inferiore a quello del settore metalmeccanico, che è pari al 38,3%. Solo in alcuni comuni confinanti con l’area liventina gli occupati nel legno- mobilio sono presenti in misura maggiore, ovvero in percentuali superiori al 30%. Nell’area di Conegliano, quindi, ove pure sono presenti molte imprese appartenenti alla filiera del mobile, il principale settore di specializzazione è quello metalmeccanico.Le delibere delle due Regioni, se esaminate singolarmente, offrono una fotografia parziale dei distretti mobilieri: ciascuna Regione ha ovviamente legiferato solo per il territorio di propria competenza, limitandosi al massimo a rilevare la contiguità territoriale con il distretto dell’altra Regione. Per ottenere un quadro completo è quindi necessario ricomporre le due fotografie, adottando una prospettiva di osservazione sovraregionale.Un’analisi di questo tipo porta a riconoscere tra le province di Pordenone e di Treviso l’esistenza di una

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vasta area di specializzazione, estesa in Veneto nella Sinistra Piave, in Friuli-Venezia Giulia nel sacilese. All’interno di tale area è possibile riconoscere due poli nei quali la specializzazione mobiliera si fa chiaramente più forte. Il primo è quello del Quartier del Piave; il secondo è posto a cavallo delle due Regioni, lungo il corso delfiume Livenza, ed include in Veneto l’opitergino-mottense con alcuni comuni limitrofi, in Friuli il sacilese. Il polo del Livenza, pur essendo tagliato a metà dal confine regionale, è fortemente connesso dal punto di vista storico, economico e sociale, al punto da dover essere considerato come un unico sistema produttivo locale.Tra questi due poli si trovano i sistemi locali di Vittorio Veneto e Conegliano nei quali la specializzazione mobiliera, pur essendo rilevabile, tende a ridursi per lasciare spazio a quella metalmeccanica, che contraddistingue in particolare il distretto di Conegliano.Vista la, seppure lieve, soluzione di continuità rinvenibile nell’area intermedia di Conegliano e Vittorio Veneto e la stretta connessione esistente tra la parte veneta e quella friulana dell’area liventina, volendo articolare l’analisi appare preferibile nonadottare un’ottica regionale – parlando di distretto veneto della Sinistra Piave e distretto friulano del sacilese – ma piuttosto distinguere tra Quartier del Piave e Livenza. Tale opzione, peraltro, è stata adottata anche da ricerche condotte in precedenza sull’area (Guerra, 1995; Anastasia, Corò, 1996; Regione Veneto, 1994; Corò, Rullani, 1998; Progetto Europa, 2000) e risulta avvalorata

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anche da altre ragioni, in particolare dal fatto che il Livenza ed il Quartier del Piave sono i due distretti originari che, pur essendosi estesi nel corso del tempo sino quasi a congiungersi, mantengono comunque alcuni caratteri distintivi.Pertanto l’analisi, pur dando conto delle dimensioni e caratteristiche complessive dell’intera area di specializzazione, focalizzerà successivamente l’attenzione soprattutto sui sistemi produttivi del Quartier del Piave e del Livenza. Il loro territorio è stato delimitato mantenendo sostanzialmente i confini individuati in precedenti ricerche (Corò, Rullani, 1998) sulla base degli indici di specializzazione (ovviamente verificati con i dati più recenti) ed anche di qualche informazione di natura qualitativa (sistema delle relazioni tra imprese, mappe cognitive degli attori locali, etc.).Il Quartier del Piave include i comuni trevigiani del sistema locale del lavoro di Pieve di Soligo: Cison di Valmarino, Farra di Soligo, Follina, Miane, Moriago della Battaglia, Pieve di Soligo, Refrontolo, Segusino, Sernaglia della Battaglia, Valdobbiadene, Vidor.Il Livenza comprende in Veneto tutti i comuni del sistema locale di Oderzo ed alcuni comuni limitrofi delle province di Treviso e Venezia ad alta specializzazione mobiliera: Cessalto, Chiarano, Cimadolmo, Codognè, Cordignano, Fontanelle, Gaiarine, Godega di Sant’Urbano, Gorgo al Monticano, Mansuè, Meduna di Livenza, Motta di Livenza, Oderzo, Ormelle, Orsago, Ponte di Piave, Portobuffolè, Salgareda, San Polo di Piave, Annone Veneto,

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Pramaggiore. In Friuli coincide con il distretto di Sacile, così comeindividuato dalla delibera regionale.Per concludere bisogna sottolineare che la questione della delimitazione spaziale dei distretti, fatta per questioni di rigore metodologico, non deve essere assolutizzata. Infatti se si concepisce un distretto industriale come un nucleo storicamente definito e territorialmente localizzato di competenze distintive, è evidente che i suoi confini non possono essere tracciati in maniera netta, in primo luogo perché mano a mano che ci si allontana dall’inner core del sistema le localizzazioni produttive e le relazioni che le legano tendono a ridursi ed affievolirsi progressivamente e non a cessare bruscamente; in secondo luogo perché, come la teoria economica ha riconosciuto (Rullani, 1995; Corò, Grandinetti, 1999), i sistemi produttivi locali sono sistemi evolutivi, che cambiano nel corso del tempo, modificando (innovando) la propria base di competenze, il sistema di relazioni e di conseguenza anche la localizzazione sul territorio. Si pensi solamente ai processi di globalizzazione, come la delocalizzazione produttiva, che scardinano drasticamente l’immagine del distretto come sistema chiuso, autocontenuto all’interno dei propri confini territoriali, proiettando parte della catena del valore distrettuale non solo all’esterno del distretto ma addirittura in ambito internazionale.

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4.3.1 Unità locali e addetti nei distretti mobilieri

Fatte queste premesse, è possibile passare ad analizzare le dimensioni economiche dei distretti mobilieri, così come emergono dall’ultimo Censimento Istat disponibile, quello del 2001.Le dimensioni complessive dell’area specializzata sono assolutamente ragguardevo li: tra la Sinistra Piave ed il sacilese si contano 2.280 unità locali delle imprese che occupano poco meno di 30.000 addetti.All’interno di tale area, il sistema del Livenza costituisce chiaramente il polo più grande: le unità locali sono 1.389, gli addetti 20.860. La specializzazione nelle produzioni del legno- mobilio è elevata (in misura maggiore nella parte pordenonese) ed il 52,3% degli addetti manifatturieri locali è impiegato in imprese del legno-arredo. Il core del distretto è posto proprio a cavallo del fiume Livenza: nella parte friulana i comuni che concentrano il maggior numero di imprese ed addetti ed esibiscono elevatissimi indici di specializzazione, superiori al 70%, sono Prata di Pordenone, Brugnera - con oltre 100 unità locali e 2.300 addetti a testa - e Pasiano di Pordenone(102 unità, quasi 1.600 addetti). Nella parte veneta emergono i comuni di Gaiarine (101 unità, oltre 1.600 addetti), Motta di Livenza (116 unità, circa 1.480 addetti) e Mansuè (1.018 addetti).Nel complesso il 71% degli occupati dell’area liventina (14.810 persone) è dedito alla fabbricazione di mobili, mentre la rimanente quota opera nell’industria del legno.

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E’ interessante rilevare che nella parte pordenonese gli addetti delle imprese mobiliere pesano in misura maggiore (77,1%) di quelli del legno mentre in quella veneta tale quota scende al 65,6%. Il fatto che oltre un terzo degli addetti dell’opitergino-mottense lavori in imprese attive nel settore del legno segnala che in quest’area vi è una maggiore concentrazione di imprese di componentistica.Il sistema del Quartier del Piave è chiaramente più piccolo: le unità locali sono circa 400, gli addetti quasi 4.800. Anche in questo caso la specializzazione emerge senza difficoltà, pur senza raggiungere livelli da monocultura, e la percentuale di addetti dellegno-mobilio si aggira attorno al 37%. In realtà l’industria del legno-arredo si concentra soprattutto nei comuni orientali del sistema locale, che presentano indici dispecializzazione decisamente più alti, superiori al 60%: in particolare Pieve di Soligo eSernaglia della Battaglia, con circa 90 unità locali ed oltre 1.000 addetti ciascuno, e Moriago della Battaglia, con circa 780 occupati. Nel Quartier del Piave la prevalenza del settore del mobile rispetto a quello del legno appare superiore alla media, a segnalare la minore presenza di imprese di subfornitura: infatti l’83,6% degli addetti è occupato in imprese mobiliere.Un elemento che contraddistingue i sistemi locali del Livenza e del Quartier del Piave anche rispetto ad altri distretti è la maggiore dimensione delle imprese,

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indicativa del carattere industriale della produzione. La dimensione media delle aziende locali è infatti assolutamente superiore agli standard nazionali (4,2 addetti per impresa): si pensi che nel complesso dell’area specializzata è pari a 13 addetti, ovvero ad oltre il triplo diquella nazionale. Disaggregando i dati sotto il profilo territoriale si osserva che essa è particolarmente elevata nel distretto del Livenza, in particolare nella parte pordenonese, ove si arriva a 16,1 addetti per impresa, mentre nel Quartier del Piave è pari a 12addetti. Sotto il profilo settoriale risulta maggiore nel settore del mobile, ove il numero di addetti per impresa è quasi il doppio di quello delle imprese del legno (15,8 contro 8,8).Nel corso degli anni ’80 e ’90 i distretti mobilieri del Livenza e del Quartier del Piave hanno realizzato un importante processo di crescita economica, ben documentato dai dati dei censimenti economici Istat del 1981, 1991, 1996, 2001 che evidenziano un costante aumento delle unità e degli addetti locali del legno-mobilio. Focalizzando in particolare l’attenzione sugli anni ’90, si rileva che tra il 1991 ed il 1996 nel comple sso gli addetti sono cresciuti del 13,0%, le unità locali del 7,7%. L’incremento maggiore si è avuto nell’area liventina (ove gli addetti sono aumentati del 14,8%), in particolare nella parte veneta (+ 21,1%), ma anche nel Quartier del Piave la dinamica è stata positiva (+ 7,8%).

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Se si considera che nel medesimo periodo in Italia unità ed addetti del settore sono diminuiti di oltre il 4%, la vitalità dei nostri distretti emerge con estrema chiarezza. La variazione positiva dell’occupazione è stata nel complesso maggiore di quella delle unità locali, determinando un aumento delle dimensioni medie delle imprese: nel Livenza si è passati da una media di 14,4 addetti per impresa a 15, nel solighese da 11,6a 12.Per valutare le attuali dimensioni economiche dei nostri distretti, in mancanza dei dati Istat è possibile utilizzare la fonte Infocamere. I dati esposti in Tab. 4.1 mostrano che nel secondo trimestre del 2001 nel Livenza risultano attive più di 1.600 unità locali con oltre 22.000 addetti dichiarati, nel Quartier del Piave 414 unità con oltre 4.500 addetti.Sebbene il confronto con i dati Istat vada fatto con grande cautela, vista la diversità dei due tipi di fonti e la minore attendibilità di alcuni dati Infocamere (dai quali è possibileattendersi in particolare una sottostima degli addetti), i numeri indicano che la linea di tendenza degli anni precedenti non sembra essersi invertita. Nel complesso unità e addetti sono aumentati, anche se le varie aree territoriali considerate manifestano andamenti differenziati; in particolare si nota la positiva dinamica dell’area liventina veneta, che non trova riscontro nell’area solighese.Tab. 4.1 - Unità locali e addetti nei distretti mobilieri nel 2001Legno Mobile Legno-mobilio Fonte: Infocamere, 2° trimestre 2001

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4.3.2 La fase della crescita estensiva

I sistemi produttivi del Livenza e del Quartier del Piave riproducono piuttosto fedelmente i caratteri distintivi tipici dei distretti industriali, come si evince dalla ricostruzione del percorso di sviluppo che essi hanno compiuto dal dopoguerra adoggi.Lo sviluppo storico dell’industria del mobile tra le province di Treviso e Pordenone è un fenomeno relativamente recente, anche se nella zona esisteva una tradizione artigianale.All’inizio degli anni ’50 nell’area, ancora prevalentemente agricola, esisteva infatti un artigianato diffuso ma non si

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riscontrava una specializzazione particolarmente rilevante.L’industria mobiliera ha iniziato a crescere negli anni ’50 in modo piuttosto veloce, espandendosi poi negli anni ’60 (Anastasia, Corò, 1993).32

In questa prima fase la diffusione delle produzioni del mobile è avve nuta sia mediante la trasformazione di alcune falegnamerie artigiane in mobilifici industriali, sia attraverso la nascita di nuove imprese ad opera di imprenditori imitativi. L’analisi dell’origine socioeconomica degli imprenditori locali mostra che solo alcuni di loro hanno ereditato e sviluppato l’azienda artigiana avviata nel periodo prebellico dal padre o dal nonno.Nella maggior parte dei casi i fondatori delle prime imprese sono stati imprenditori di prima generazione, provenienti spesso da famiglie contadine (coltivatori diretti e mezzadri), che dopo aver lavorato per qualche tempo come dipendenti (soprattutto comeoperai) in altre aziende locali, ne sono fuoriusciti ed hanno dato vita ad una propria attività autonoma.Tra i fattori esogeni che hanno promosso lo sviluppo dell’industria mobiliera locale (e nazionale) si possono ricordare:- il forte aumento della domanda interna di mobili, trainata nel primo dopoguerra

32 Per completare il profilo storico dell’area bisogna aggiungere che nel Quartier del Piave esisteva una specializzazione nella lavorazione del giunco e nella correlata produzione di mobili in rattan, con presenze aziendali di rilievo. Negli anni seguenti tale specializzazione è venuta meno anche se alcune aziende di mobili in rattan sono presenti ancor oggi nell’area.

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dalle necessità della ricostruzione post-bellica, successivamente dalla diffusione di nuovi modelli di consumo che hanno aumentato la propensione al consumo delle famiglie nei confronti dei beni d’arredamento, caricando l’acquisto del mobile di nuovisignificati;- il progresso tecnico, che ha portato all’introduzione di nuovi materiali e di nuove tecnologie. Sotto il primo profilo il fattore determinante è stato la diffusione dei pannelli (di compensato prima, di truciolare poi), una nuova ‘materia prima’ a basso costo che poteva essere usata al posto del legno massiccio (materiale naturale il cui prezzo tendeva storicamente ad aumentare e le cui proprietà tecniche mal si prestavano alla lavorazione in serie) e lavorata secondo criteri industriali, grazie alle sue caratteristiche di omogeneità e stabilità dimensionale. L’innovazione nei materiali è avvenuta in concomitanza al progresso delle tecniche e dell’organizzazione produttiva;si può dire che la disponibilità del nuovo materiale ha nel contempo indotto e consentito il passaggio dal sistema di produzione artigianale al sistema industriale, che si èrealizzato nel corso degli anni mediante la standardizzazione dei prodotti e delle parti componenti, la meccanizzazione dei processi, la suddivisione del ciclo in fasi ed operazioni omogenee svolte da operatori diversi, l’introduzione di nuovi impianti enuove macchine, la riorganizzazione delle attività. In sostanza il nuovo ciclo di produzione del mobile ha portato gradualmente alla scomposizione delle

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lavorazioni in interventi su superfici piane (i pannelli), movimentate secondo un preciso flusso e montate solo alla fine delle lavorazioni33.Le promettenti possibilità di vendita conseguenti all’aumento della domanda e le opportunità produttive aperte dal progresso tecnico si sono accoppiate con condizioni endogene favorevoli quali la mobilitazione sociale di mercato, la presenza in ambito locale di un’offerta di lavoro flessibile e a basso costo (e quindi funzionale alle esigenze della domanda) e la possibilità di godere di alcuni ‘vantaggi’ dell’economia irregolare34.

Negli anni ’70 la catena del valore distrettuale si è modificata in seguito a due distinti processi: il decentramento produttivo e l’avvio dell’export. Il decentramento produttivo, che ha iniziato a manifestarsi sin dalla fine degli anni ’60, è stato caratterizzato dalla scomposizione del ciclo produttivo e dalla specializzazione in senso verticale delle imprese mobiliere, le quali si sono orientate a svolgere solo alcune fasi del ciclo tecnico;a monte dei mobilifici, spesso ad opera di ex dipendenti desiderosi o incentivati a mettersi in proprio, sono nate imprese specializzate nell’esecuzione di un componente, di una particolare fase o di una sola lavorazione, alle quali i mobilifici stessi hanno decentrato parte (o buona parte) della produzione, attuando una politica di disintegrazione verticale a monte dei cicli.

33 Sull’evoluzione tecnologica ed organizzativa del settore del mobile in Italia si veda Silvestrelli, 1979 e Florio, 1982.34 Sulle prime fasi dell’industrializzazione dei sistemi produttivi mobilieri si vedano anche Anastasia, 1992, Fabbro, 1992.

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Questo fenomeno ha determinato sia una ristrutturazione interna delle imprese, sia una ristrutturazione della catena del valore distrettuale, promuovendo la nascita di nuovi subsettori produttivi, la formazione di nuovi mercati di fase ed una crescente divisione del lavoro tra mobilifici e subfornitori.Ha anche contribuito alla diffusione dell’industria mobiliera nel territorio e quindi all’estensione dell’area distrettuale nelle zone circostanti, in particolare in alcuni comuni dell’opitergino- mottense e della provincia di Venezia.Nei decenni successivi il comparto della componentistica ha realizzato una graduale crescita sia di tipo quantitativo che di tipo qualitativo. Alcune imprese di subfornitura sono cresciute sotto il profilo dimensionale e si sono innovate sotto il profilo tecnologico o organizzativo sino a divenire dei produttori di fase, autonomi rispetto ai mobilifici locali. Si è registrata anche un’evoluzione delle relazioni esistenti tra mobilifici e sub fornitori; le forme di subfornitura di capacità sono state sempre più spesso affiancate o sostituite da forme di subfornitura di specialità e da relazioni di tipo più evoluto. La divisione del lavoro che si è instaurata tra mobilifici e fornitori ha costituito un importante fattore di vantaggio per le imprese locali, concorrendo ad assicurare la flessibilità e la varietà produttiva che sono risultate fondamentali per competere nei decenni successivi.Il secondo processo che ha contraddistinto questa fase è stato l’avvio dell’export.

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Attorno alla metà degli anni ’70 alcuni dei maggiori mobilifici, che sino ad allora erano cresciuti ampliando progressivamente l’area di vendita in ambito nazionale, hanno iniziato ad introdursi nei mercati esteri. Nell’elenco delle prime mete sono comparse sinda allora Germania e Francia, i due paesi che tuttora costituiscono la principale destinazione delle esportazioni locali. Lungo il percorso indicato da queste aziende pioniere negli anni successivi si sono incamminate altre imprese locali, innescando un processo che è proseguito sino ai giorni nostri con il graduale aumento della propensione all’export del distretto e la progressiva estensione dei mercati di sbocco.La fase della transizione evolutiva, tra gli anni ’80 e ’90 il sistema competitivo del settore del mobile è stato sottoposto alla pressione di diversi fattori di trasformazione che hanno costituito un articolato insieme di minacce ed opportunità: un modesto tasso di crescita della domanda interna, l’evoluzione della distribuzione (che ha avviato strategie di concentrazione e politiche di selezione dei distributori), la globalizzazione dell’economia, l’introduzione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, l’evoluzione della domanda in direzione di una maggiore varietà e variabilità. Le modificazioni intervenute nella struttura del settore hanno aumentato l’intensità di alcune delle principali forze competitive, in particolare concorrenza e potere contrattuale dei clienti; le imprese mobiliere si sono dunque trovate ad operare in uno scenario

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ambientale contraddistinto da un crescente livello di complessità.Per rispondere a tali nuove ed impegnative sfide competitive le più dinamiche imprese distrettuali hanno rinnovato la propria formula imprenditoriale e sviluppato comportamenti strategici che hanno contribuito a modificare la catena del valore distrettuale. I processi evolutivi avviati da tali imprese inducono a considerare il Livenza ed il Quartier del Piave come sistemi in evoluzione, nel senso dato al termine nel primo paragrafo di questo capitolo. Anche se alcuni di tali processi saranno analizzati in modo puntuale nei prossimi capitoli, è utile richiamare brevemente quelli più rilevanti, per offrire un quadro complessivo del percorso di transizione evolutiva in atto nei distretti.In primo luogo nell’ambito dei sistemi locali sono emerse alcune imprese leader che, attraverso operazioni di acquisizione o filiazione di altri mobilifici, hanno costituito dei gruppi di imprese.In secondo luogo diverse imprese locali hanno introdotto innovazioni in diversi processi aziendali. In produzione sono state adottate tecnologie di automazione flessibile (macchine a controllo numerico, Cad, Cad-Cam, etc.), atte ad aumentare la flessibilità produttiva, a ridurre i tempi di risposta al mercato e a contenere nel contempo i costi di produzione. Le imprese locali hanno dimostrato una buona ricettività nei confronti delle nuove tecnologie, confermando quella forte propensione all’innovazione che è un tratto caratteristico dell’imprenditoria del Nord Est, e

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sono riuscite a sfruttare il potenziale di flessibilità offerto dalle nuove soluzioni tecnologiche per produrre mobili di buona qualità, in piccole serie, a prezzi concorrenziali.Sempre in questo ambito, una seconda linea di intervento ha riguardato il passaggio da una produzione to stock ad una to order, frequentemente con l’adozione di un sistema del tipo assemble to order, che prevede la produzione per magazzino dei semilavorati e dei componenti-base dei mobili, i quali vengono poi finiti e/o assemblati dopo il ricevimento dell’ordine dal cliente.Anche i prodotti sono stati rinnovati con l’avvio di nuove politiche tra le quali si segnalano quelle volte ad aumentare la varietà offerta mediante il passaggio dalla logica dei modelli a quella dei programmi.Un terzo importante processo riguarda l’apertura della catena del valore locale all’economia globale, identificabile da diversi fenomeni:- l’evoluzione dei canali di entrata e distribuzione nei mercati occidentali con il passaggio da forme tradizionali (esportatori, agenti, etc.) ad investimenti diretti di tipo commerciale;- lo sviluppo delle esportazioni di semilavorati e componenti, grazie al quale alcune imprese di subfornitura sono riuscite ad inserirsi in reti internazionali di divisione del lavoro, tanto da divenire alcune delle più forti esportatrici distrettuali;- la delocalizzazione di parte del ciclo produttivo nei paesi a minor costo del lavoro, testimoniata dallo sviluppo delle importazioni di semilavorati o di prodotti finiti,

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dalla stesura di accordi di fornitura con imprese estere e, in qualche caso, dalla costituzione di joint venture o consociate produttive in paesi esteri.L’avvio dell’internazionalizzazione ha costituito una chiara evoluzione rispetto alle tradizionali forme di esportazione, poiché ha determinato la proiezione all’esterno del distretto di anelli intermedi della catena del valore locale. Per il momento il processo appare ai primi stadi dato che il coinvolgimento internazionale delle imprese rimane per lo più circoscritto alle funzioni di vendita, di fornitura e (in parte) di produzione.La breve ricostruzione del processo di sviluppo realizzato dai distretti mobilieri negli ultimi decenni, che è stata sin qui condotta, mostra che le imprese distrettuali (ed il sistema nel suo complesso) hanno avuto la capacità di rinnovarsi per rispondere alle modificazioni dello scenario ambientale e ri-produrre le condizioni di vantaggio competitivo.Nonostante l’evoluzione compiuta, la produzione costituisce ancora oggi l’attività centrale della catena del valore delle imprese locali e continua a svolgere un ruolo importante nella produzione del valore. Tra i fattori su cui le imprese fanno leva per sostenere la propria competitività continuano quindi a comparire l’organizzazione della produzione, l’attenzione all’innovazione tecnologica, la divisione del lavoro tra imprese, la capacità di sviluppare prodotti contraddistinti da un buon rapporto qualità/prezzo e capaci di rispondere ai bisogni vari e variabili dei consumatori.

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Altre direttrici di sviluppo, in particolare le politiche di marketing, sono state piuttosto trascurate.

4.3.3 Caratteristiche generali delle imprese

Delle 134 imprese studiate, 95 hanno sede nel distretto del Livenza, 39 nel distretto del Quartier del Piave. La maggiore numerosità delle imprese liventine è determinata dalla maggiore estensione territoriale di quel sistema produttivo e quindi dalla maggiore numerosità complessiva delle imprese localizzate al suo interno.Per quanto concerne la forma giuridica, il 56% è costituito da S.r.l., il 44% da S.p.A. (Tab. 1). Nel distretto del Livenza risultano più numerose le S.r.l (58,9%), nel Quartier del Piave le S.p.A. (51,3%).

Tabella 4.2 – Imprese per forma giuridica

Nel campione sono presenti le principali imprese ‘storiche’ tuttora attive nei due distretti, comprese nel 9,3% di aziende fondate prima del 1960 (Tab. 2). Se si prescinde da un solo caso (il Mobilificio Ortolan, costituito nel 1925) si tratta di imprese sorte nel secondo dopoguerra, che spesso hanno dato un contributo significativo alla formazione ed allo sviluppo del distretto,

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fungendo da veri e propri incubatori di conoscenze e competenze ed alimentando processi di spin off che hanno contribuito alla ‘fertilizzazione’ del territorio circostante. Tra tali aziende pioniere si possono ricordare Dall’Agnese, Presotto, Doimo, etc.L’analisi della distribuzione per classi d’età mostra però che la grande maggioranza delle aziende è nata in epoca successiva, a riprova dello sviluppo tutto sommato recente dei due sistemi produttivi locali. Infatti nei decenni successivi agli anni ’50 i processi di formazione di nuove imprese si sono intensificati, raggiungendo i valori massimi negli anni ’80 (28,7%) e ‘90 (25,6%). Tali dati indicano anche che entrambi i distretti si caratterizzano per un’elevata natalità imprenditoriale, fatto che peraltro costituisce un tratto distintivo dei distretti industriali italiani (Rullani, 1996; Corò, Rullani, 1998).Analizzando la porzione della tabella che disaggrega i dati a livello distrettuale è possibile osservare il diverso andamento di tali processi: nel distretto del Livenza le frequenze iniziano a farsi più consistenti negli anni ’60 e raggiungono la punta massima negli anni ’80. Nel Quartier del Piave, invece, le nascite aumentano in modo più percepibile un decennio più tardi, negli anni ’70, per toccare il culmine negli anni ’90.

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Tabella 4.3 – Imprese per anno di costituzione

Il campione è composto prevalentemente da imprese di piccola e media dimensione.Quasi la metà delle aziende non supera la soglia dei 50 addetti, rientrando così, in base alla definizione comunitaria, nella classe della piccola impresa. Più precisamente l’11,6% occupa meno di 20 addetti, il 37,2% tra i 20 ed i 49 addetti. L’altra metà mostra dimensioni medie: il 31,8% ha un numero di addetti compreso tra i 50 ed i 99, il 19,4% ne ha oltre 100. Solo quattro di queste ultime aziende (il 3,1% del totale) superano i 250addetti (Tab. 3).Tabella 4.4– Imprese per classe di addetti 2000

Passando alla dimensione economica e facendo riferimento al fatturato dell’anno 2000, si osserva che il 35,8% delle imprese non oltrepassa i 10 miliardi mentre

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quasi la metà dichiara un fatturato compreso tra i 10 ed i 25 miliardi. Nelle classi successive le frequenze risultano decisamente più basse e decrescenti: 8,2% tra i 25 ed i 50 miliardi, 6% tra i 50 ed i 100, solo 1,5% oltre i 100 (Tab. 4.5). Le imprese liventine hanno dimensioni lievemente superiori a quelle solighesi: nel Livenza le imprese con oltre 50 miliardi di fatturato sono il 9,5% del totale mentre nel Quartier del Piave sono solo il 2,6% e in nessun caso superano la soglia dei 100 miliardi.

Tabella 4.5 – Imprese per classe di fatturato 2000

La distribuzione per classi d’età mostra che esiste una correlazione tra dimensioni e fase del ciclo di vita dell’impresa dato che le imprese di minori dimensioni sono generalmente più giovani di quelle più grandi: infatti oltre il 40% delle imprese conmeno di 10 miliardi di fatturato è nato negli anni ’90 mentre oltre il 60% delle imprese con oltre 50 miliardi di fatturato è nato prima degli anni ’70. Le imprese della classe dimensionale intermedia sono state costituite in poco più del 50% dei casi negli anni ’70e ’80.

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Per completare la ricostruzione del profilo generale delle imprese intervistate è utile fornire qualche indicazione relativa al livello di strutturazione organizzativa delle stesse.Un indicatore sintetico utilizzabile a questo scopo è costituito dalla certificazione del sistema qualità aziendale secondo le norme della serie ISO 9001. Come è noto, per ottenere la certificazione un’impresa è tenuta a sviluppare e documentare un sistema qualità conforme alla norma, codificando le proprie politiche per la qualità, la struttura organizzativa e le principali procedure aziendali. Certo, il superamento degli assetti gestionali ed organizzativi informali di tipo familiare caratteristici della piccola impresa non è necessariamente legato alla certificazione, ma ciò non toglie che generalmente essa si accompagni ad un processo di formalizzazione e razionalizzazione organizzativa (Guerra, 1996; Compagno, 1999). Ebbene, nel nostro campione le imprese che hanno ottenuto la certificazione ISO 9001 sono un quarto del totale (24,6%) e risultano più numerose nel Quartier del Piave (35,9%) che nel Livenza (20%). La frequenza della certificazione aumenta al crescere delle dimensioni aziendali, segnalando l’esistenza di una relazione tra dimensione e strutturazione organizzativa: le imprese certificate sono la metà del totale nella classe di fatturato superiore ai 50 miliardi, il 27,6% in quella compresa tra i 10 ed i 50 miliardi, solo il 14,6% nelle imprese più piccole.

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4.3.4 Il portafoglio prodotti

L’analisi delle tipologie di prodotto offerte dalle imprese studiate consente in primo luogo di descrivere il portafoglio-prodotti a livello distrettuale. Osservando la Tab. 4.6 si evince che la produzione distrettuale è diversificata dato che include una gamma ampia e pressoché completa di prodotti per l’arredamento. Alcuni prodotti risultano però chiaramente più frequenti e pertant maggiormente caratteristici dei duedistretti. Tra questi si segna lano soprattutto i mobili per soggiorno e camere che vengono offerti rispettivamente dal 49,3% e dal 44,8% delle imprese. Altri mobili piuttosto diffusi in ambito locale sono le camerette e le cucine componibili, ciascuno deiquali viene prodotto e/o commercializzato da circa il 27% delle imprese. Seguono con frequenze minori prodotti diffusisi in tempi più recenti: i mobili per ufficio e l’imbottito (offerti ciascuno da circa un quinto delle imprese), l’arredo-bagno (11,9%) ed altri tipi di mobili come complementi, sedie, mobili particolari destinati al segmento contract (adesempio cabine per navi), etc. (6,7%).L’attuale portafoglio-prodotti dei due sistemi locali è il risultato di un processo di diversificazione che nel corso del tempo ha progressivamente ampliato la gamma produttiva, affiancando alla tradizionale offerta di mobili per la casa quella di mobili destinati ad arredare altri

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ambienti della casa (imbottito, arredo-bagno, etc.) o ambienti diversi dall’abitazione come l’ufficio.Come è noto in un distretto industriale la diversificazione produttiva può realizzarsi secondo due diverse modalità: in seguito a strategie aziendali di diversificazione attuate da imprese esistenti che ampliano la propria gamma con beni appartenenti a tipologie diverse da quella di vocazione, oppure in seguito a strategie aziendali di specializzazione realizzate da altre imprese che iniziano a produrre mobili diversi da quelli che possono essere considerati il core business del distretto. Diviene quindi interessante passare ad un’analisi a livello aziendale, in modo da descrivere la gamma produttiva offerta dalle singole imprese ed individuare le strategie di prodotto in seguito alle quali essa è stata configurata. A questo proposito i dati raccolti rivelano che il product mix delle imprese locali è composto in media da 2,07 tipologie di prodotto.Tabella 4.6 - Imprese per tipo di prodotto realizzato e/o commercializzato

Sotto tale media si celano però tipologie di imprese diverse tra loro in relazione alla struttura del portafoglio prodotti. Un’analisi più fine dei dati mostra infatti che

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quasi la metà delle imprese è chiaramente specializzata nella produzione di mobili destinati adarredare uno specifico ambiente.Tra le tipologie di prodotto che più frequentemente vengono offerte da imprese specializzate vi sono le cucine, l’arredo-bagno e l’imbottito.Il 22,4% delle imprese produce e/o commercializza congiuntamente sia mobili per la zona giorno che per la zona notte. L’offerta combinata di entrambi i tipi di mobili risulta più frequente della loro produzione distinta, anche in ragione delle sinergie produttive esistenti tra le due tipologie di prodotto.Il rimanente 30% delle imprese offre combinazioni di prodotto di vario tipo. Però solo alcune di tali imprese presentano una gamma effettivamente ampia e diversificata.Negli altri casi il livello di diversificazione è comunque contenuto (per esemplificare si può citare il caso di imprese che offrono mobili per soggiorno ed imbottiti, che fabbricano pareti attrezzate sia per abitazioni che per uffici, etc.), oppure il portafoglio prodotti è costruito secondo criteri di specializzazione più sottili (imprese specializzate nella produzione di mobili rustici o dimobili componibili atti ad arredare qualunque tipo di ambiente, etc.). Si può anche aggiungere che le innovazioni di prodotto e processo introdotte negli ultimi anni dalle imprese mediante la crescente modularità dei prodotti e l’adozione di tecnologie di

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automazione flessibile tendono ad attenuare i confini tra le ‘classiche’ tipologie di prodotto dato che rendono possibile produrre una serie di moduli-base che poi possono essere assemblati in modo estremamente vario e variabile per andare a comporre una grande varietà di mobili finiti, atti ad arredare diversi ambienti della casa, dell’ufficio, etc.Per interpretare correttamente i dati sin qui esposti è anche importante ricordare che per descrivere la gamma produttiva di ciascuna impresa si è sino ad ora fatto riferimento sia ai mobili prodotti dall’impresa stessa che a quelli solo commercializzati. In realtà nel catalogo di molte imprese non compaiono solo i mobili fabbricati all’interno ma anche alcuni prodotti acquistati all’esterno; il caso forse più tipico riguarda le sedie. Nei nostri distretti l’acquisto di prodotti finiti da altre imprese costituisce una prassi diffusa, praticata dal 67,2% delle imprese. Tali acquisti possono essere finalizzati ad aumentare l’ampiezza della gamma con l’inserimento di nuove tipologie di prodotto. Un esempio èdato dall’impresa che acquista imbottiti da integrare con i mobili per soggiorno prodotti all’interno al fine di offrire l’arredamento completo per la zona giorno. In questo caso è evidente che l’impresa persegue una strategia di specializzazione dal punto di vista produttivo, pur non apparendo specializzata da un punto di vista commerciale. Oppure gli acquisti di prodotti finiti possono essere finalizzati ad aumentare la lunghezza della gamma mediante l’inserimento di nuove linee di prodotto diverse

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da quelle esistenti, ad esempio nel caso di un’impresa di camere che produca nei propri stabilimenti camere moderne ed acquisti presso un subfornitore esterno camere classiche destinate al mercato tedesco.I dati raccolti rivelano l’esistenza di una certa relazione tra tipologia di prodotto e dimensione aziendale, correlata principalmente al diverso livello di complessità che può contraddistinguere la produzione dei vari tipi di mobili. In particolare si nota che la produzione di camere e/o soggiorni è più diffusa – ma solo in termini relativi - tra le imprese di dimensioni maggiori, in particolare tra quelle con oltre 50 miliardi di fatturato. Tra le imprese di camerette, cucine e mobili per ufficio sono un po’ più frequenti le imprese con un fatturato compreso tra i 10 ed i 50 miliardi mentre il peso percentuale delle imprese di minore dimensione aumenta nei mobili per il bagno e, in modo più lieve, negli imbottiti.L’acquisto di prodotti finiti è più utilizzato dalle imprese con oltre 10 miliardi di fatturato, oltre il 70% delle quali commercializza anche mobili prodotti da altre imprese di produzione, ma è praticato anche dal 52,1% delle imprese più piccole.

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Disaggregando i dati per distretto si osservano alcune differenze tra il distretto del Livenza e quello del Quartier del Piave. La produzione liventina risulta maggiormente focalizzata nei tradizionali prodotti di vocazione dell’area, ovvero mobili per soggiorno e camera, offerti rispettivamente dal 47,4% e dal 43,2% delle imprese, mentre nessuna delle altre tipologie di prodotto è offerta da più di un quarto delle imprese.Anche nel Quartier del Piave i mobili per soggiorno e camere sono i più diffusi (53,8% e 48,7%) ma la diversificazione produttiva a livello distrettuale è maggiore dato che anche le altre tipologie di prodotto compaiono nel catalogo di un significativonumero di imprese: il 46,2% delle aziende vende camerette, ed anche cucine, mobili per ufficio e imbottito superano quota 30%.Il diverso grado di diversificazione produttiva riscontrabile nei due sistemi locali è riconducibile principalmente alle diverse politiche perseguite a livello aziendale. Le imprese liventine offrono in media 1,80 tipologie di prodotto, dimostrando di attuare più frequentemente di quelle del solighese - il cui portafoglio è mediamente costituito da 2,74 prodotti – strategie di specializzazione. Le politiche di ampliamento della gamma delle imprese del Quartier del Piave sono realizzate anche mediante un maggior ricorso all’acquisto di prodotti finiti da altre imprese, prassi che risulta appunto più diffusa nell’area solighese (74,4%) che in quella liventina (64,2%).

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4.3.5 L’apertura internazionale dei sistemi produttivi locali

Le vendite nei mercati esteri, iniziate negli anni ’70, costituiscono una prassi ormai consolidata tra le imprese trevigiane e pordenonesi. L’attuale livello di apertura internazionale dei due sistemi produttivi locali è testimoniato dal fatto che circa il 90% delle imprese opera anche all’estero. Certo nella maggioranza dei casi (56,7%) le imprese realizzano all’estero una quota di fatturato inferiore al 20% del totale. Esiste però un 14,9% di aziende decisamente export oriented, che vende oltre confine più della metà del fatturato (Tab. 4.7).Tabella 4.7 – Imprese per incidenza dell’export sul fatturato

Il 60,0% delle imprese esportatrici ha un portafoglio-paesi piuttosto diversificato, costituito da più di 5 mercati-paese. Il 33,3% colloca i propri prodotti in un numero di

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paesi compreso tra 2 e 5, solo il 6,7% delle imprese è introdotto in un unico mercato estero (Tab.4.8).

Tabella 4.8– Imprese esportatrici per numero di mercati esteri (paesi) in cui operano

La capacità di operare nei mercati esteri appare correlata alla dimensione aziendale e superiore nelle imprese più grandi. Quelle con oltre 50 miliardi di fatturato sono sempre introdotte nei mercati esteri e nel 60% dei casi esportano una quota del fatturato superiore al 50%. Al contrario nelle piccole imprese con meno di 10 miliardi di fatturato l’export non è una prassi generalizzata – il 18,8% vende solo in Italia - ed in poco più della metà dei casi assorbe meno del 20% del fatturato.Ad ogni modo il fatto che oltre l’80% delle imprese di minori dimensioni riesca ad operare anche nei mercati esteri è comunque degno di nota poiché segnala come l’orientamento all’export non sia prerogativa solo delle imprese più grandi ma si sia oramai diffuso anche tra le piccole e medie imprese.Anche le strategie di copertura del mercato sotto il profilo geografico risultano parzialmente diverse in relazione alle dimensioni aziendali. Le imprese esportatrici con oltre 50

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miliardi di fatturato perseguono normalmente strategie di diversificazionegeografica, dimostrando di essere in grado di gestire la complessità data dall’ampliamento del relativo ambito competitivo: hanno infatti un portafoglio-paesi piuttosto ampio, generalmente costituito da più di 5 mercati-paese. Le imprese conmeno di 10 miliardi di fatturato presentano un livello di copertura del mercato chiaramente minore e attuano più frequentemente strategie di focalizzazione su uno o pochi mercati-paese.Per individuare i mercati di destinazione dell’export, nel questionario strutturato è stato chiesto alle imprese esportatrici di elencare i quattro principali mercati-paese inordine di importanza per fatturato. L’elaborazione dei dati mostra che la principale area di destinazione dei mobili locali è costituita da paesi appartenenti al continente europeo:nell’88,0% dei casi il primo paese estero è infatti uno stato europeo. Osservando la graduatoria dei primi mercati esteri riportata in Tab 4.9 si rileva che i principalipartner commerciali delle imprese distrettuali sono tuttora la Francia e la Germania, ovvero le due tradizionali mete delle esportazioni delle imprese mobiliere: esse rappresentano infatti il primo mercato di sbocco rispettivamente per il 23,1% e per il 22,2% delle imprese esportatrici.

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Scendendo nella graduatoria lo scenario cambia, assumendo un profilo più innovativo. Il dato più significativo è costituito dal terzo posto della Russia, primo mercato per il 14,5% delle imprese, mentre al quarto posto incontriamo gli Stati Uniti d’America (9,4%), unico paese extraeuropeo nell’elenco dei primi 10. Anche nelle posizioni successive – Grecia, Spagna, Svizzera, Croazia, Polonia, Austria, Belgio, Slovenia, etc. – compaiono alcuni mercati relativamente nuovi, appartenenti sia all’Europa occidentale che a quella dell’Est.Tali dati, pur non consentendo di quantificare la rilevanza in termini economici delle esportazioni dirette verso tali paesi, sono comunque sufficienti a documentare l’esistenza di un processo di diversificazione geografica dei mercati di sbocco posto inessere soprattutto negli anni ’90 dalle imprese locali. In particolare l’importanza raggiunta dai paesi dell’Europa dell’Est, soprattutto dalla Russia - che peraltro si ritrova anche nelle statistiche sul commercio estero - dimostra che le imprese locali sono state capaci di introdursi velo cemente in tali paesi, cogliendo con prontezza le opportunità offerte dalla recente apertura al commercio internazionale di tali nuovi, e potenzialmente vastissimi, mercati e riuscendo a superare le difficoltà connesse alla loro difformità rispetto ai mercati tradizionali ed alla conseguente complessità dell’attività di penetrazione. Anche il fatto che per alcune imprese gli Stati Uniti rappresentino il primo mercato di sbocco è sicuramente

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positivo, vista la lontananza geografica e culturale di tale paese.Per valutare correttamente tali dati bisogna tuttavia considerare che nei mercati ‘nuovi’ le imprese tendono ad esportare più frequentemente percentuali non molto alte del fatturato. Alcune indicazioni in questo senso si possono ricavare dall’incrocio dellaquota export con il primo mercato di destinazione, dal quale emerge che tra le imprese che indicano come primo mercato paesi dell’Europa dell’Est come la Russia e la Croazia o paesi dell’Europa Occidentale come la Grecia prevalgono quelle conpercentuali di export inferiori al 20%. Al contrario tra le imprese che segnalano mercati come la Germania o gli Stati Uniti si incontrano aziende maggiormente export oriented.Evidentemente si tratta di indicazioni indirette, dato che non esiste una correlazionenecessaria tra quota export totale e quota export nel primo paese di sbocco, che però sono suffragate anche dai casi aziendali analizzati.Il processo di diversificazione geografica dei mercati trova conferma nella seconda sezione della tabella, in cui la frequenza relativa a ciascun mercato-paese somma le imprese che lo hanno indicato tra i primi quattro mercati in ordine di importanza perfatturato. Francia, Germania e Russia si confermano ai primi tre posti: oltre il 40% delle imprese segnala tra i primi quattro paesi Francia e/o Germania, poco più di un

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terzo la Russia. Nelle posizioni successive si registrano alcuni spostamenti che modificano l’ordine della graduatoria: salgono Grecia, Croazia, Austria e Belgio mentre scendono Stati Uniti, Svizzera e Spagna.Tabella 4.9 - Imprese esportatrici per mercato estero prevalente in termini di fatturato

Ricomponendo le informazioni esposte sino ad ora, si può concludere che le imprese locali nel complesso hanno compiuto dei progressi nell’area della vendita all’estero dei prodotti, segnalati da:- l’aumento del livello di apertura internazionale sotto il profilo delle esportazioni e la diffusione dell’export non solo tra le imprese più grandi ma anche tra le imprese diminori dimensioni;- la diversificazione geografica dei mercati di sbocco, con l’avvio e\o lo sviluppo delle esportazioni anche in paesi nuovi e culturalmente lontani da quelli tradizionali.L’analisi comparata del comportamento delle imprese dei due diversi distretti evidenzia delle diversità tra il Livenza ed il Quartier del Piave, sia per quanto concerne il livello di apertura internazionale, sia per quanto concerne la composizione del portafoglio-paesi.In primo luogo le imprese liventine manifestano un orientamento all’export più marcato di quelle del solighese, quantificato dalla maggiore presenza di

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imprese esportatrici e dalla maggiore incidenza della quota export nel fatturato delle imprese.Nel Livenza le imprese che operano anche nei mercati esteri sono il 92,6% del totale mentre nel Quartier del Piave sono l’82,1%. Inoltre nel Livenza le imprese che esportano oltre la metà del fatturato sono quasi un quinto del totale mentre nel Quartierdel Piave tale percentuale scende al 5,1%.

Per quanto concerne il portafoglio-paesi le differenze non riguardano il numero dei mercati esteri quanto i principali paesi di destinazione dell’export. Osservando l’elenco dei primi mercati di sbocco si nota infatti che mentre nel Livenza la graduatoria è simile a quella totale del campione (Francia, Germania, Russia, Stati Uniti, Grecia, etc.), nel Quartier del Piave la Russia salta al primo posto, immediatamente seguita da Francia e Germania e poi da Spagna, Polonia e Slovenia.

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5 Conclusioni

Uno dei problemi attuali dei distretti è quello del passaggio da una dimensione locale ad una globale. In questo occorre essere consapevoli che la divisione del lavoro su scala globale richiede sistemi di integrazione che consentano di cooperare allo sviluppo delle conoscenze. In tal caso i vantaggi della rete globale possono sostituire quelli della contiguità territoriale tipica del distretto tradizionale.Per quanto riguarda l'iter dell'internazionalizzazione distrettuale, l'esperienza dimostra che la soluzione migliore sarebbe un'evoluzione completa e più veloce possibile. È innegabile che quanto più il processo è unitario e rapido, tanto meno sono probabili divergenze di interessi e di strategie interne al distretto che potrebbero comprometterne la funzionalità. In caso contrario, cioè con una transizione lenta, parziale e discontinua appaiono due possibili fonti di inefficienza:

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1) quella subita dalle imprese che decentrano la produzione, poiché lo farebbero senza poter contare sui tipici vantaggi distrettuali;2) quella subita dalle imprese che non decentrano la produzione, che vedono saltare, parzialmente se non anche completamente, i legami operativi con le imprese che decentrano, e che permangono in un contesto locale dove le sinergie distrettualidiventano sempre più tenui.Una ulteriore e particolare fonte di inefficienza graverebbe sui subfornitori distrettuali di imprese che internazionalizzano la produzione. Queste ultime, in tensione sui mercati internazionali a causa dei produttori a basso costo residenti nei PVS e nei NICS, normalmente reagiscono anche aumentando il contenuto qualitativo della produzione, riversando parte di questo onere sui subfornitori. Questi si adeguano con difficoltà, visto che in settori maturi come quelli distrettuali il rendimento marginale della tecnologia è decrescente. Il punto critico è che poi rischiano di veder ridotta la loro operatività a causa del decentramento produttivo del committente.Alla luce di tutto questo, il dubbio che impera riguarda gli effetti complessivi sulla rete distrettuale. Il nodo della questione sembra essere la distinzione tra core competences, che sarebbe auspicabile mantenere nella localizzazione originaria, e conoscenze e servizi che invece possono essere distribuiti nella rete globale. Questo è il

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tema fondamentale nel generale processo di decentramento produttivo internazionale.Un indagine campionaria ha infatti dimostrato che circa 1/5 delle imprese distrettuali non sarebbe ostile al trasferimento oltre confine anche del centro decisionale-strategico, cioè il "luogo aziendale" dove si pianifica e si accumula il valore aggiunto. In tale ipotesi vi sarebbe una perdita netta per il sistema economico locale, non solo per il valore aggiunto che non si formerebbero nel territorio di origine dell'impresa ma anche per lo sfaldamento del tessuto imprenditoriale.Non vi sono ancora segnali, però, che ciò attivi un processo di sfaldamento del distretto che porti alla sua scomparsa. Anche perché i timori espressi potrebbero rivelarsi infondati: non è stato infatti ancora dimostrato, o verificato sul campo, che reti distrettuali e reti globali siano antitetiche. È pur vero che l'internazionalizzazione del distretto estende la dimensione geografica delle relazioni e attenua gli effetti della contiguità spaziale, ed è altrettanto vero che l'indagine ha rivelato una crescente indifferenza verso i tipici vantaggi localizzativi, ma non v'è automatismo tra questo e la scomparsa delle economie di agglomerazione, cioè i fattori che fanno la fortuna della scala produttiva locale.Già dalla metà degli anni 90 ci si è resi conto che la dimensione globale e quella locale possono coabitare poiché esiste, per certi versi, una certo grado di complementarietà [Corò (1995)]:

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1) l'attività su scala globale si concentra su processi estesi di divisione del lavoro e su conoscenze codificabili e per questo trasferibili;2) l'attività su scala locale s'impernia invece su conoscenze contestuali non codificabili e quindi non trasferibili, utilizzabili perciò solo in loco.È quindi probabile che la dimensione internazionale non sopprima quella locale, ma più realisticamente trasformi i sistemi locali in nodi della rete globale. Anzi, la divisione del lavoro su scala globale potrebbe sostenere costi e rischi degli investimenti immateriali, che com'è noto sono funzionali alla sopravvivenza di lungo periodo dell'impresa.La domanda che ora sorge spontanea è se il successo dei distretti tradizionali possa essere riproposto anche dopo i processi di internazionalizzazione. Probabilmente lo è, e non si tratta di un ipotesi eccessivamente ottimistica. Si pensi che il loro successo si fonda sulla rinuncia alla massima integrazione verticale a favore della specializzazione, evitando le inefficienze della conseguente frammentazione mediante l'attivazione di una rete di collegamento. Per riprodurre i successi del distretto tradizionale è necessario che la trasformazione abbia luogo senza indugi, pena il decadimento competitivo di lungo termine.

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Questa trasformazione non coinvolge solo il distretto nella sua interezza, ma anche le singole unità produttive. Si profila un'impresa capace di creare valore aggiunto non massificando la produzione ma decentrandola con una continua ricerca di nuovicollegamenti tra preferenze della domanda e soluzioni tecniche. Sta prevalendo un'impresa con una nuova tipologia di flessibilità, che non trova esclusivo fondamento nella piccola dimensione ma anche in una struttura sempre più reticolare. Si diffondonoinfatti forme organizzative del tipo:1) un centro strategico, che fornisce capitali, know-how e "tutoraggio" organizzativo, con più centri operativi distaccati;2) società integrate, caratterizzate da piccole unità alla ricerca di business ideas vincenti, che non appena individuate costituiscono un nucleo strategico-operativo di dimensione consona alla concorrenza globale;3) concessione di licenze, affiliazioni commerciali, ecc.;4) accordi di subfornitura internazionale.Nel processo di trasformazione dei distretti tradizionali verso una configurazione più internazionale, occorre saper riprodurre/individuare nelle aree di destinazione i fattori di successo e limitare quelli di debolezza. Tra i primi vanno prioritariamente ricercati:1) disponibilità elevata di risorse umane e organizzative specifiche

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2) domanda intermedia, cioè interna al distretto, particolarmente sensibile al binomio tecnologia-qualità, tale da stimolare innovazioni3) forte competizione con le imprese non distrettuali, allo scopo di acquisire quante più possibili nicchie di mercato5) fitta rete di fornitori selezionati Mentre tra i secondi occorre rifuggire da:1) modesti investimenti in ricerca2) domanda intermedia sottodimensionata3) ricerca di protezione pubblica per le quote di mercato4) filiera produttiva a monte frammentata e poco qualificata.Per concludere, il decentramento sembra una via obbligata per attenuare l'incessante processo di sviluppo di tipo estensivo che sembra volersi perpetuare nei distretti.

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