Linguistica applicata

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Linguistica applicata Semantica e pragmatica in prospettiva interculturale Parte decima – La dimensione pragmatica nell’acquisizione di lingue seconde; bilinguismo e biculturalismo

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Linguistica applicataSemantica e pragmatica in prospettiva interculturale

Parte decima – La dimensione pragmatica nell’acquisizione di lingue seconde; bilinguismo e biculturalismo

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Premessa: un modello di cultura

Cultura

Lingua

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Un modello di cultura

• Lingua e cultura: elementi comuni

• non-natura (né lingua né cultura fanno parte della nostra eredità biologica)parte della nostra eredità biologica)

• conoscenza (entrambe sono il prodotto dell’apprendimento)

• comunicazione (cultura e lingua come sistemi di segni)

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Cultura “senza” lingua

• espressioni artistiche

• manufatti culturali

• gesti (prossemica)

• sistemi di valori

• …

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In antropologia…Cultura:

• Sistemi di norme e di credenze esplicite, elaborati in modi più o meno formalizzati .

• Costumi e abitudini acquisite da esseri umani per il • Costumi e abitudini acquisite da esseri umani per il semplice fatto di vivere in determinate comunità, comprese quindi le azioni ordinarie della vita quotidiana.

• Artefatti delle attività umane, dalle opere d’arte vere e proprie agli oggetti di uso quotidiano e tutto quanto fa riferimento alla cultura materiale, al sapere necessario per vivere.

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In antropologia…

Cultura:

• è appresa e non è riducibile alla dimensione biologica dell’uomo;

• rappresenta la totalità dell’ambiente sociale e fisico • rappresenta la totalità dell’ambiente sociale e fisico che è opera dell’uomo;

• è condivisa all’interno di un gruppo o di una società;

• è distribuita in maniera omogenea all’interno di tali gruppi o società.

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Quale nozione di cultura in pragmatica interculturale?Speakers sharing a native language and its underlying cultural assumptions can exploit their language and manipulate the politeness system to serve their needs or do ‘relational work’. Most non-native speakers, however, will never achieve the cultural competence allowing them to use the language as creatively or manipulatively as native speakers do. In intercultural encounters, where speakers bring speakers do. In intercultural encounters, where speakers bring divergent cultural assumptions to the conversation, knowledge of the broad features characterising the interlocutors’ culture can be exceedingly valuable. These broad features of language usage and the way they differ across cultures are the object of study in cross-cultural pragmatics. Regrettably, most cross-cultural studies do not go beyond describing the differences in performing a particular speech act in the contrasted languages, and few attempt to interpret the data in terms of cultural values. The insights into the respective cultures gained from cross-cultural pragmatic research are, therefore, largely restricted to the studied speech acts (Eva Ogiermann 2009)

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Il modello di Hofstede

� Necessità di modelli comprensivi del concetto di cultura

Un modello di cultura particolarmente adottato in pragmatica interculturale è quello di Hofstede. Secondo Hofstede, la cultura non è osservabile direttamente. Quello che possiamo osservare direttamente sono le sue che possiamo osservare direttamente sono le sue manifestazioni nei comportamenti e nelle pratiche di vita. Al centro della nozione di cultura stanno i valori , ossia le tendenze generali a preferire uno stato di cose su un altro. I valori di norma formano dei sistemi di valori, all’interno dei quali non sempre tutto è armonico. Nemmeno i valori sono osservabili in quanto tali, ma solo nel momento in cui vengono messi in atto in pratiche culturali.

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Il modello di Hofstede

Le pratiche sono le manifestazioni visibili della cultura:

• Rituali : attività collettive tecnicamente inutili per raggiungere gli obiettivi desiderati, ma necessarie per legare l’individuo alla collettività (ad es., matrimonio, cerimonie religiose, ecc.).religiose, ecc.).

• Eroi : personaggi, reali o immaginari, che posseggono caratteristiche considerate come desiderabili all’interno di una cultura.

• Simboli: parole, gesti, figure e oggetti i cui significati spesso complessi sono riconosciuti com tali solo da chi condivide la stessa cultura (Coca Cola, slogan politici, volto di Che Guevara, ecc.).

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Il modello di Hofstede

Rituali

Eroi

Rituali, eroi e simboli si dispongono in ordine decrescente di stabilità (i più stabili sono i rituali, i meno stabili i simboli)

Simboli

i meno stabili i simboli) e crescente di “trasferibilità” (i più facilmente trasferibili sono i simboli, i meno facilmente trasferibili i rituali)

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Il modello di Hofstede

Hofstede ha analizzato un database ampio di interviste fatte a impiegati della IBM tra il 1967 e il 1973, coprendo più di 70 paesi. Il risultato del suo lavoro è stato il riconoscimento di 5 dimensioni lungo le quali si dispongono le culture dei paesi studiati.

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Il modello di Hofstede

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Il modello di Hofstede

• PDI (Power Distance Indexo Indice di distanza dal potere): indice che misura quanto i membri meno potenti di un’organizzazione siano disposti a accettare che nella loro organizzazione il potere sia distribuito in maniera diseguale.

• UAI (Uncertainty Avoidance Indexo Indice di evitamento • UAI (Uncertainty Avoidance Indexo Indice di evitamento dell’incertezza): indice che misura “to what extent a culture programs its members to feel either uncomfortable or comfortable in unstructured situations…Uncertainty avoiding cultures try to minimize the possibility of such situations by strict laws and rules, safety and security measures, and on the philosophical and religious level by a belief in absolute Truth; ‘there can only be one Truth and we have it’”

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Il modello di Hofstede

• Mascolinità (o maschilità): questa dimensione “ refers to the distribution of roles between the genders which is another fundamental issue for any society to which a range of solutions are found. The IBM studies revealed that (a) women’s values differ IBM studies revealed that (a) women’s values differ less among societies than men’s values; (b) men’s values from one country to another contain a dimension from very assertive and competitive and maximally different from women’s values on the one side, to modest and caring and similar to women’s values on the other”

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Il modello di Hofstede

• Individualismo vs. collettivismo: questa dimensione indica “the degree to which individuals are integrated into groups. On the individualist side we find societies in which the ties between individuals are loose: everyone is expected to look individuals are loose: everyone is expected to look after him/herself and his/her immediate family. On the collectivist side, we find societies in which people from birth onwards are integrated into strong, cohesive in-groups, often extended families (with uncles, aunts and grandparents) which continue protecting them in exchange for unquestioning loyalty”

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Il modello di Hofstede

• Orientamento temporale a breve o a lungo termine: questa dimensione tiene conto di quanto a lungo una cultura “programma” i propri membri ad accettare il differimento della gratificazione dei propri bisogni materiali, sociali gratificazione dei propri bisogni materiali, sociali ed economici: “Values associated with Long Term Orientation are thrift and perseverance; values associated with Short Term Orientation are respect for tradition, fulfilling social obligations, and protecting one’s ‘face’”.

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Il modello di Hofstede• I paesi con l’indice più alto di individualismo sono gli USA (91 punti) e l’Australia, quelli con l’indice più basso Ecuador e Guatemala (6 punti). L’Italia ottiene 76 punti a fronte di una media di 53.

Individualismo� il confronto è più “normale” della ricerca di armoniaricerca di armonia

i matrimoni sono basati sull’amore e non concordati

l’iniziativa individuale viene incoraggiata anziché scoraggiata

si sottolinea l’attrazione del divertimento piuttosto che del dovere

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Analisi della cultura: i rischi…

• Pregiudizio etnocentrico: una cultura non ha criteri assoluti per giudicare un’altra superiore o inferiore; è importante essere consapevoli dei limiti connessi alla propria cultura quando si analizzano connessi alla propria cultura quando si analizzano culture “altre”.

• Stereotipi: quando si sono individuate delle caratteristiche di una cultura è necessario evitare di attribuire indiscriminatamente a tutti gli appartenenti a quella cultura le medesime caratteristiche.

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Lingua, cultura e identità

Che cos’è l’identità? Su quali tipi di identità la lingua può fornirci informazioni?

• Identità fisica (tipo fisico a cui apparteniamo)

• Identità psicologica (estroversi o introversi, • Identità psicologica (estroversi o introversi, ansiosi o calmi, taciturni o loquaci, ecc.)

• Identità geografica (luogo da cui proveniamo)

• Identità etnica (fedeltà al gruppo etnico al quale apparteniamo; diversa dall’identità geografica in scenari di migrazione)

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Lingua, cultura e identità

• Identità nazionale

• Identità sociale (appartenenza a caste o a gruppi socio-economici)socio-economici)

• Identità contestuale (indica dove si è al momento dello scambio linguistico)

• Identità stilistica (quanto di più individuale e personale c’è nell’uso linguistico di ciascuno di noi)

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Lingua, cultura e identità

� L’identità è spesso multipla : tutti abbiamo identità multiple per il semplice fatto che abbiamo tratti diversi e che nella vita interpretiamo ruoli diversi

� L’identità è una dimensione essenziale anche � L’identità è una dimensione essenziale anche nell’acquisizione di una seconda lingua: “what is ofcentral interest to researchers of second languageidentity is that the very articulation of power, identity, and resistance is expressed in and through language. Language is thus more than a system of signs; it issocial practicein which experiences are organized and identities negotiated” (B. Norton)

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Bilinguismo e biculturalismo

Si è bilingui quando si usano due o più varietà linguistiche indipendentemente da:linguistiche indipendentemente da:

• il grado di competenza;

• la frequenza d’uso;

• la distanza strutturale.

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Bilinguismo e biculturalismo

Situazione italiana: il bilinguismo è estremamente diffuso per vari motivi:

• vitalità dei dialetti;• vitalità dei dialetti;

• presenza (storica) di minoranze alloglotte;

• insegnamento di lingue straniere a scuola;

• insediamento di comunità immigrate e formazione di nuove comunità alloglotte.

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Dimensioni del bilinguismo

• Circostanze di apprendimento delle due lingue

• Uso delle due lingue

• Competenza nelle due lingue

• Organizzazione cognitiva delle due lingue

• Grado di attivazione delle due lingue

• Identità che le due lingue comportano

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Dimensioni del bilinguismo

• Circostanze di apprendimento delle due lingue

� Bilinguismo infantile

� Bilinguismo adulto

� Bilinguismo isolato

� Bilinguismo collettivo

� Bilinguismo additivo/sottrattivo

� Bilinguismo strumentale/integrativo

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Dimensioni del bilinguismo

Bilinguismo isolato/collettivo

Si parla di bilinguismo isolato quando un individuo è andato a vivere in un luogo dove si parla la L2 da è andato a vivere in un luogo dove si parla la L2 da solo o con la famiglia, e continua a utilizzare la L1 solo e strettamente all’interno di questo nucleo ristretto; si parla di bilinguismo collettivo quando il bilinguismo coinvolge un’intera comunità come risultato di una migrazione di massa.

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Dimensioni del bilinguismo

Bilinguismo additivo/sottrattivo

Si parla di bilinguismo additivo quando l’acquisizione di L2 arricchisce il repertorio l’acquisizione di L2 arricchisce il repertorio linguistico dell’individuo (ad es., corsi di lingua all’estero); il bilinguismo è sottrattivo quando l’acquisizione di L2 va a scapito della L1 (tipico caso: bambini immigrati che “disimparano” la L1 per mancanza di istruzione in L1, per mancanza di stimoli in casa o nell’ambiente di socializzazione, o per vergogna).

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Dimensioni del bilinguismo

Bilinguismo strumentale/integrativo

Si parla di bilinguismo strumentale quando il desiderio di imparare è motivato solo da scopi utilitaristici. Si parla di bilinguismo integrativo quando la L2 si impara per poter immergersi nella cultura della L2 ed entrare a far parte del gruppo dei parlanti della L2.

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Dimensioni del bilinguismo

Uso delle due lingue

Quale delle due lingue si usa:

-- con chi

-- parlando di cosa

-- a quale scopo

-- quando

-- dove

-- perché

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Dimensioni del bilinguismo

Uso delle due lingueUso delle due lingue

Le persone bilingui non alternano le proprie lingue indiscriminatamente ma le riservano per parlare con persone diverse, oppure con le stesse persone di argomenti diversi, oppure per parlare con le stesse persone dello stesso argomento ma per uno scopo diverso.

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Dimensioni del bilinguismo

Organizzazione cognitiva

Distinzione (proposta da Weinreich) tra bilinguismo coordinato e bilinguismo composito. Nel primo caso, a due significanti corrispondono due significati (da intendersi sulla scorta di Saussure come due “rappresentazioni concettuali”) diversi. Nel secondo caso, a due significanti corrisponde la stessa “rappresentazione concettuale”. Nel primo caso le lingue sono più indipendenti l’una dall’altra.

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Dimensioni del bilinguismo

Attivazione

Si distingue un’attivazione monolingue, quando il bilingue utilizza una sola delle sue due lingue e bilingue utilizza una sola delle sue due lingue e un’attivazione bilinguequando il bilingue alterna le sue due lingue nella stessa conversazione. Gli studi di sociolinguistica hanno però mostrato che anche nel caso di conversazioni perfettamente bilingui è altamente improbabile che non ci sia una lingua base.

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Dimensioni del bilinguismo

Identità

Il solo fatto di imparare un lingua – ad esempio passivamente, sui banchi di scuola, senza alcuna occasione di praticarla al di fuori dell’ambito scolastico – non di praticarla al di fuori dell’ambito scolastico – non comporta automaticamente un cambiamento di identità.

� Due estremi:

a) Il bambino italiano che impara l’inglese alle scuole elementari

b) Il bambino immigrato che impara l’italiano

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Dimensioni del bilinguismo

Identità

Il bambino italiano che impara l’inglese (o qualsiasi altra lingua straniera) alle scuole qualsiasi altra lingua straniera) alle scuole elementari avrà sicuramente poche occasioni di esercitare questa lingua. La sua acquisizione della L2 comporterà verosimilmente un grado di competenza linguistica progressivamente crescente ma uno scarso livello di acquisizione della competenza comunicativa (e nessun cambiamento di identità)

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Dimensioni del bilinguismo

Identità

Il bambino immigrato che impara l’italiano (o qualsiasi altra lingua) in una scuola italiana qualsiasi altra lingua) in una scuola italiana svilupperà verosimilmente un bilinguismo di tipo integrativo, che lo spingerà all’assimilazione di una nuova identità. Se poi il suo bilinguismo è di tipo sottrattivo, la progressione nelle competenze comunicative in L2 comporterà una perdita o un ridimensionamento dell’identità connessa con la L1.

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Un’identità biculturale è possibile?

La domanda essenziale che dobbiamo porci quando esaminiamo il fenomeno del bilinguismo è se il bilinguismo implichi (e se sì, in che termini) un’identità biculturale .

A questo riguardo, l’ipotesi più diffusa è che il biculturalismo è possibile, ma riguarda gli strati più esterni del modello di cultura di Hofstede (rituali, eroi e simboli). Si parlerà dunque di biculturalismo per indicare la partecipazione alle manifestazioni di due culture.

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Un’identità biculturale è possibile?

In questo senso è anche possibile avere un’identità biculturale, se la partecipazione alle manifestazioni di una cultura C2 è frequente e routinizzata.

Se invece si intende biculturalismo come Se invece si intende biculturalismo come l’ adesione ai valori della cultura C2 senza abbandonare i valori della cultura C1, probabilmente si dovrà concludere che l’identità biculturale è molto difficile o impossibile, o è possibile solo quando le due culture in questione sono molto vicine e simili tra loro.

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Un’identità biculturale è possibile?

Un esempio:

--- ritualità dei saluti in inglese australiano e in wolof

Inglese australiano: saluti utilizzati per creare un’impressione di uguaglianza tra i due interlocutori, in un’impressione di uguaglianza tra i due interlocutori, in sintonia con l’ideologia dominante di quel paese.

Wolof: i saluti “riflettono” la stratificazione della società; l’interlocutore socialmente inferiore farà domande e condurrà il rituale dei saluti, mentre l’interlocutore socialmente più elevato si limiterà a un atteggiamento di passività.

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Un’identità biculturale è possibile?

Un parlante di inglese australiano potrà anche acquisire una piena competenza comunicativa dei saluti in Wolof, ma questa competenza comunicativa potrà mai significare abbandono della propria C1 e acquisizione del sistema di valori che forma la C2 (e che è sotteso al del sistema di valori che forma la C2 (e che è sotteso al rituale dei saluti in Wolof)?

� Di sicuro è possibile, ma si tratta di un fenomeno estremamente limitato, al quale sarà bene dare il nome di conversione(con lo stesso significato che questo termine ha nella sfera religiosa).

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Un’identità biculturale è possibile?

Questo non significa affatto che l’esposizione, specie se prolungata, a una C2 non provochi a lungo andare cambiamenti, anche forti, nella nostra cultura e nella nostra identità. Ma quando i valori di due culture sono in conflitto tra loro, è impossibile essere “biculturali” in conflitto tra loro, è impossibile essere “biculturali” rispetto a quei valori e bisogna scegliere. Scegliendo, non diventiamo biculturali ma creiamo una “terza” identità culturale, che chiamiamo C3 o terzo spazio, e che rappresenta una mescolanza, fortemente idiosincratica, dei valori di C1 e C2, con possibili affievolimenti di valori intensi e rafforzamenti di valori deboli dell’una o dell’altra cultura.

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Un’identità biculturale è possibile?

In questo senso si può dire che NON tutte le culture sono uguali, nel senso che chi sceglie i valori di una cultura valuta una cultura come migliore di un’altra.

Più in generale, il contatto tra due culture C1 e C2, sia Più in generale, il contatto tra due culture C1 e C2, sia quando implica semplicemente adesione a pratiche appartenenti ora a C1 ora a C2, sia quando dà luogo alla creazione di un terzo spazio C3, implica sempre un certo grado di tensione, che può essere positiva se pratiche esterne e valori sono in sintonia gli uni con gli altri (con acculturazione e bilinguismo additivo), negativa se c’è conflitto tra pratiche e valori (con deculturazione e bilinguismo sottrattivo).

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Un’identità biculturale è possibile?

Allo stesso modo si può dire che una persona bilingue avrà una personalità doppia solo se intendiamo personalità non nell’accezione di tratti psicologici permanenti di un individuo ma come psicologici permanenti di un individuo ma come alternanza di stati psicologici temporanei.

�Alternare pratiche culturali può portare a diversi stati psicologici, per cui ci si può sentire più/meno estroversi, disinibiti, assertivi, accomodanti, ecc. quando si aderisce a pratiche di una C2 (e quando si parla una L2).

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Un’identità biculturale è possibile?

Sì, come identità di transizione

� “Current research on second language identityconceives of identity as dynamic, contradictory, and constantlychangingacrosstime and space. Indeed, a constantlychangingacrosstime and space. Indeed, a recurring theme throughout much of the research isthat of ‘transition’. Many of the participants in research projects on second language identity are undergoing significant changes in their lives, whethermoving fromone country to another or fromoneinstitution to the next” (B. Norton)

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Un’identità biculturale è possibile?

Un esempio concreto:

Anna Wierzbicka, linguista dell’Australian National University (Canberra), di madrelingua polacca, sposata con un australianocon un australiano

Early in our life together, my husband objected to mytoo frequent – in his view– use of the expressionofcourse. At first, this puzzled me, but eventually itdawned on me that usingof courseas broadly as itsPolish counterpartoczywiście is normally usedwouldimply that the interlocutor has overlooked somethingobvious.

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Un’identità biculturale è possibile?

In the Polish confrontational style of interactionsuch an implication is perfectly acceptable, and itis fully consistent with the use of suchconversationalparticlessuchas, for example, conversationalparticlessuchas, for example, przecież (‘but obviously – can’t you see?’). In mainstreamAnglo culture, however, there is muchmore emphasis on ‘tact’, on avoiding directclashes, and there are hardly any confrontationalparticles comparable with those mentioned above…

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Un’identità biculturale è possibile?

… I had to learn to ‘calm down’, to become less sharp and less ‘blunt’, less ‘excitable’, less ‘extreme’ in my judgments, more ‘tactful’ in their expression. I had to learn the use of Anglo understatement (instead of more hyperbolic and understatement (instead of more hyperbolic and more emphatic Polish ways of speaking)… Like the Polish-American writer Eva Hoffman, I had to learn the use of English expressions such as ‘on the one hand … on the other hand’, ‘well yes’, ‘well no’, or ‘that’s true, but on the other hand…’

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Un’identità biculturale è possibile?

I had to start learning new“cultural scripts” to live by, and in the process I became aware of the old “cultural scripts” which had governed my life hitherto…Forinstance, when I was talking on the phone, fromAustralia, to mymotherin Polandwith myvoice loudAustralia, to mymotherin Polandwith myvoice loudand excited, carrying much further than is customaryin an Anglo conversation, my husband would signal tome: “Don’t shout!”. For a long time, this perplexedand confused me: to me, this ‘shouting’ and this‘excitement’ was an inherent part of my personality. Gradually, I came to realise that this very personalitywas in part culturally constituted.

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Un’identità biculturale è possibile?

The realization of the close links between one’s ways of speaking, one’s personality, and one’s cultural background raised for me the questionthat countless other immigrants are constantlyconfrontedwith: to whatextentwasit desirable, confrontedwith: to whatextentwasit desirable, or necessary, to adapt to one’s newcultural context (changing oneself in the process)?

���� Thus, I was learning newways of speaking, newpatterns of communication, newmodes ofsocial interaction… there were lapses, ofcourse!

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La competenza pragmatica e le “interlingue”

--- Come mostra la narrazione autobiografica di Anna Wierzbicka, un terreno privilegiato per affrontare gli aspetti culture-specific della pragmatica sono le interazioni in L2. Dal momento che apprendere la competenza pragmatica in una L2 è più difficile che competenza pragmatica in una L2 è più difficile che acquisire un livello avanzato di competenza grammaticale, le conversazioni tra nativi e non-nativi in una data lingua sono ricche di dati sulle differenze nella gestione di aspetti come la cortesia e la faccia in culture diverse. Queste differenze possono talvolta portare a fraintendimenti e “incidenti” conversazionali.

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Una disciplina di confine: la pragmatica dell’interlingua

Pragmatica dell’interlingua (Interlanguage pragmatics):pragmatics):

“the study of nonnative speakers’ use and acquisition of linguistic action patterns in a second language (L2)” (Kasper & Blum-Kulka 1993)

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Una disciplina di confine: la pragmatica dell’interlingua

Ma non solo…

Yet tying interlanguage pragmatics to nonnative speakers, or language learners, may narrow its scope too restrictively. Speakers fully competent in two languages may create an intercultural style of speaking that is both related to and distinct from the styles prevalent in the two substrata, both related to and distinct from the styles prevalent in the two substrata, a style on which they rely regardless of the language being used. The intercultural style hypothesis is supported by many studies of cross-cultural communication, notably interactional sociolinguistics and research into the pragmatic behavior of immigrant populations across generations. Hence, it appears useful to include under ILP the study of intercultural styles brought about through language contact, the conditions for their emergence and change, the relationship to their substrata, and their communicative effectiveness (Kasper & Blum-Kulka 1993).

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La pragmatica dell’interlingua: dalla dimensione

“aneddotica” alla dimensione sistemica

--- Lo studio della pragmatica delle interlingue nasce dall’osservazione dei casi frequenti di impassecomunicativi tra nativi e non-nativi e tra parlanti di madrelingue diverse che interagiscono tra loro in una lingua straniera per tutti i partecipanti alla conversazione.lingua straniera per tutti i partecipanti alla conversazione.

--- La dimensione “aneddotica”, cioè l’osservazione, più o meno episodica, di casi di impasse, o di altre “disfluenze” nella comunicazione, è utile purché si accompagni a un’operazione di sistematizzazione e modellizzazione dei vari “aneddoti” in un quadro esplicativo generale.

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La pragmatica dell’interlingua: dalla dimensione

“aneddotica” alla dimensione sistemica

Un punto di vista privilegiato: le osservazioni di un linguista (Richard Schmidt) che apprende una lingua straniera

I noted in my diary several times the difficulties I had with telephoneI noted in my diary several times the difficulties I had with telephoneconversations, especially in knowing when and how to end a conversation.I knew that with friends the closing move would be for both parties to sayciao, but I could never identify the point at which I could say it, so I wouldoften stand holding the phone waiting patiently for the other person to sayit first. Finally, during the last week of my stay, a friend came to myapartment and used my telephone to make several calls. I listenedcarefully, and noticed that in two successive calls, shortly before sayingciao, my friend said the phraseentão tá, which means no more than “so,then.”

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La pragmatica dell’interlingua: dalla dimensione

“aneddotica” alla dimensione sistemica

Un punto di vista privilegiato: le osservazioni di un linguista (Richard Schmidt) che apprende una lingua straniera

Suspecting that this might be a preclosing formula, ISuspecting that this might be a preclosing formula, Iimmediately called another friend and after a few minutes oftalk, said então tá, paused briefly and plunged ahead withciao in the same turn. It worked, and after that I had notrouble at all getting off the phone efficiently. I subsequentlyasked several native speakers how to close a telephoneconversation. None could tell me, but when 1 suggested theuse ofentão tá, they agreed that was right.

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La pragmatica dell’interlingua: dalla dimensione

“aneddotica” alla dimensione sistemica

Un punto di vista privilegiato:

On the first day of a 2-week trip to Thailand, I presented a paper at the end of the day at a national conference. After the lecture, several Thais with whom I would be working for the following several Thais with whom I would be working for the following week approached me and made some brief remarks in English (I know no Thai) and then slipped away. I found myself standing by myself much quicker than I expected, and had the unsettling feeling that my talk must have been very poorly received. I returned to my hotel feeling quite depressed about this. That evening, I looked over some materials that I had collected during the day, including an article by Sukwiwat and Fieg (1987) on greeting and leave-taking in Thai…

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La pragmatica dell’interlingua: dalla dimensione

“aneddotica” alla dimensione sistemica

Un punto di vista privilegiato:

Sukwiwat and Fieg pointed out that conversations are closed quickly in Thai but tend to be drawn gradually to a close in English, so that Americans are often taken aback by what appear to be abrupt, brusque, and sometimes rude departures. Thais, on the other hand, think that American leave-takings drag on excessively and involve unnecessary verbiage. I immediately realized that I might have misinterpreted the significance of what had happened earlier. For the remainder of my stay, I tried my best to beat the Thais at their own game by closing conversations faster than they could, for example, by suddenly announcing, “well, I’m leaving now.” I never succeeded in getting away faster than they did, but my disquiet at this aspect of Thai behavior evaporated and I suffered no discomfort from behaving in a way that would be rude by my own cultural norms.

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La pragmatica dell’interlingua: dalla dimensione

“aneddotica” alla dimensione sistemica

Un punto di vista privilegiato:

In several publications (Schmidt, 1983, 1984), I reported on a case study of a Japanese learner of English whose overall level of communicative competence was superior to his rather rudimentary control of English grammar. In looking at the development of pragmatic ability by my subject, Wes, I found that he often used hints that native speakers of English, including myself, did not realize were intended as directives. For example, once in a theater, Wes turned to me and asked me if I liked my seat. I responded that my seat was fine, not realizing at all that he was indirectly requesting that we change places. After many years of interacting with Japanese speakers of English, I think that I now recognize such hints on most occasions, but this learning process has been slow.