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Corso di Laurea in Comunicazione Interculturale Linguistica Applicata – A.A. 2011-2012: Semantica e pragmatica in prospettiva interculturale Parte seconda L’ipotesi Sapir-Whorf: critiche e applicazioni

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Corso di Laurea in Comunicazione Interculturale

Linguistica Applicata – A.A. 2011-2012: Semantica e pragmatica in prospettiva interculturale

Parte seconda

L’ipotesi Sapir-Whorf: critiche e applicazioni

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4. Punti di vista critici sull’ipotesi Sapir -Whorf

B. Berlin and P. Kay (1969), Basic Color Terms, Berkeley, University of California Press --- studio sul lessico dei colori in un campione di 78 lingue.

Esistono restrizioni universali:

(i) su come le lingue codificano e organizzano i termini che indicano i colori e

(ii) su come le lingue cambiano nel corso del tempo, ag-giungendo nel loro lessico nuovi termini che indicano i colori.

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Esistenza di 11 categorie percettive universali (black, white, red, gre-en, yellow, blue, brown, purple, pink, orange, grey), cioè dei punti foca-li dello spettro dei colori particolarmente “favoriti” nella codifica lin-guistica, disposti nella seguente gerarchia implicazionale: white, black < red < green, yellow < blue < brown < purple, pink, orange, grey � “x < y”significa che y implica x, cioè che x è presente in ogni lingua in cui è presente y e anche in lingue in cui y non è presente; la stessa scala implicazionale può essere interpretata dal punto di vista diacro-nico, nel senso che lingue con sistemi ridotti di termini dei colori pos-sono acquisire nuovi termini seguendo la gerarchia da sinistra a destra. � Le regolarità riscontrate nel lessico dei colori mostrano, secondo Berlin e Kay, che l’affermazione di Whorf per cui ogni lingua impone la propria struttura semantica sulla realtà esterna non è valida.

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Berlin & Kay rivestono un ruolo importante nella storia del relativismo linguistico per avere sostenuto l’esistenza di una tendenza naturale a “dare dei nomi”ad alcuni colori piuttosto che ad altri. Que-sta tendenza, a loro avviso, metterebbe in crisi la nozione della natura arbitraria dei segni linguistici di Saussure. Se lingue tra loro non imparentate ge-neticamente tendono a dare dei nomi agli stessi pun-ti focali dello spettro dei colori, devono esistere dei principi extralinguistici e indipendenti dalla lin-gua che regolano la cognizione e la percezione umana.

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� Critiche al lavoro di Berlin e Kay: (i) Berlin e Kay hanno frainteso la formulazione del

principio del relativismo linguistico di Whorf; (ii) l’importanza della categorizzazione linguistica

non si vede nell’organizzazione del lessico, ma nell’esecuzione di task specifici in ambiente spe-rimentale. Chiunque, pur parlando una lingua con pochi termini per i colori, è in grado di percepire visivamente i diversi colori; la lingua, però, lo in-dirizzerà verso forme di categorizzazione della realtà determinate dall’ampiezza del lessico dei colori.

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(iii) il metodo utilizzato per raccogliere i nomi dei colori da Berlin e Kay è inadeguato al compito che i due si prefig-gono: mostrare ai soggetti analizzati lo spettro dei colori e chiedere loro di dare il nome ad alcuni colori rischia di far-ci perdere di vista altri aspetti, fortemente culture-specific, del lessico dei colori; non è detto, ad esempio, che i termi-ni dei colori formino un sistema specifico e coeso: in ha-nunóo, una lingua delle Filippine, esistono dei termini che si riferiscono ai concetti white, black, green e red. Gli stes-si termini significano anche, rispettivamente, “brillante”, “oscuro”, “umido” e “secco”. In altre parole, il sistema dei termini di colore in questa lingua è, più propriamente, un sistema di classificazione di entità naturali, e identificare i quattro termini come “termini di colori” rischia di farci perdere di vista la loro peculiarità.

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� Anche in italiano il “sistema” non è coeso dal punto di vista gram-maticale e semantico: i color terms a sinistra nella gerarchia sono agget-tivi declinabili il cui significato primario è quello di indicare un colore; i termini più a destra (marrone, rosa, viola) sono utilizzati come aggettivi ma sono invariabili (una sedia viola, un tavolo viola) e il loro significa-to originario rimanda a entità del mondo naturale (fiori, frutti). • “despite its comparative orientation, it [Berlin & Kay’s study] actually washed

out linguistic differences and suggested that languages merely ‘reflect’ or ‘map’ reality […] If we look broadly across a wide array of languages, we would con-clude that the real linguistic regularity is that terms with color-relevant mean-ing routinely seem to combine these meanings with plant and animal referents or with other textural and light qualities […]“An approach that carries an ar-ray of color stimuli around the world and asks people for the words that effec-tively discriminate among them (and do nothing else) will wash out all these linguistic patterns” (John A. Lucy, The scope of linguistic relativity, in J. J. Gumperz & S. C. Levinson (eds.), Rethinking Linguistic Relativity, Cambridge University Press, 1996, pp. 46-47)

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5. I fondamenti empirici dell’ipotesi Sapir-Whorf: li-miti e prospettive

--- Nonostante l’ampio dibattito che l’ipotesi Sapir-Whorf ha suscitato nella linguistica novecentesca, soltanto negli ultimi due decenni del 19° secolo si è provato a validarla e delimitarla attraverso esperimenti psicolinguistici.

--- John A. Lucy: un’agenda per la ricerca empirica sull’ipotesi del relativismo linguistico, basata su alcuni punti metodologici chiari.

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“We can abstract the requirements for an improved ap-proach to research on the cognitive implications of struc-tural diversity among languages. Such research […] should deal with a significant language variable such as one or more central grammatical categories rather than a relatively minor vocabulary set. It should assess the cogni-tive performance of individual speakers aside from expli-citly verbal contexts and try to establish that any cognitive patterns that are detected also characterize everyday be-havior outside of the assessment situation” (John A. Lucy, ibidem, p. 48)

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John A. Lucy (1992), Grammatical categories and cognition. A case study of the linguistic relativity hypothesis. Cambridge: Cambridge University Press.

--- Studio comparato del sistema di marche nominali di numero dell’inglese e del maya. Dal punto di vista funzionale, questo dominio grammaticale serve a fare ri-ferimento alla quantità di un dato ente o oggetto all’interno di una predicazione; dal punto di vista formale, la categoria del numero può essere marcata attraverso la flessione, la concordanza, l’aggiunta di un numerale o di un aggettivo di quanti-tà all’interno di un sintagma nominale.

--- Prende in esame, in piena continuità con lo spirito di Whorf, un sottosistema grammaticale anziché una porzione del lessico.

--- Mostra che le differenze che caratterizzano i due sottosistemi hanno rilevanza cognitiva, e orientano i parlanti di inglese e maya a comportamenti non-linguistici diversi.

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Il sistema di marcatura del numero in inglese

--- Plurali “lessicali” (nomi singolari che designano una molteplicità di soggetti: herd, flock, people): la loro pluralità inerente è a volte segnalata dall’accordo (people are angry).

--- Plurale come categoria flessiva: suffisso –s. Dal punto di vista concettuale, la marca di plurale dei nomi può designare o (i) una plu-ralità di entità simili (pens, cats) o (ii) una pluralità di tipi diversi (wines). In termini grammaticali, il plurale è marcato, il singolare è non-marcato.

--- Singularia tantum: termini che non hanno un plurale (heat, zinc).

--- Plurali irregolari : ox/oxen, criterion/criteria, broche/brethren (ma anche brothers)

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--- Modificatori del sintagma nominale che implicano la nozione di singolarità/pluralità: determinatori (a/an, every, any, those, these), quantificatori (many, few, two, three, four, first, second, next, ano-ther, other, ecc.).

--- Distinzione countable/uncountable: I hate cookies vs. I hate wine (nozionalmente designa una pluralità, anche se non è marcato

come plurale; ≠ I hate some/a (specific) wine).

--- Marcatura del numero attraverso l’accordo verbale: solo nel presente indicativo dei verbi regolari.

--- Marcatura del numero attraverso i pronomi: he/him vs. they/them.

--- Modificatori frasali della quantità : a cup of wine; a slice of cake; two quarts of lemonade.

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Il sistema di marcatura del numero in maya yucateco

--- La marcatura del numero non è obbligatoria.

--- I nomi possono essere marcati come plurali con l’aggiunta del suffis-so -ó’ob’: pèek’ (cane) � pèek’ó’ob’ (cani). Il suffisso non è obbligato-rio: anche utilizzando il nome privo di suffisso ci si può riferire a una molteplicità di referenti! Una frase come yàan pèek’ tè’elo’ [is dog o-ver_there] può significare sia ‘laggiù c’è un cane’ che ‘laggiù ci sono dei cani’.

--- Molteplici casi di “ambiguità”:

’u-pèek’ [his-dog] � ‘his dog’, ‘his dogs’, ‘their dog’, ‘their dogs’

’u-pèek’-ó’ob’ [his-dog-PL] � ‘his dog’, ‘his dogs’, ‘their dog’, ‘their dogs’

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--- Esistenza di plurali irregolari: il suffisso –al si applica soprattutto a gruppi di entità; pal ‘child’ � palal ‘chil-dren, group of children, offspring’.

--- Nelle espressioni numerali, la struttura del sintagma è la seguente: numerale + classificatore + nome. I classi-ficatori sono elementi obbligatori che classificano il refe-rente prevalentemente sulla base della forma.

Esempi:

Inglese: two turkeys

Maya yucateco: ká’a-túul ’úulum (two-classifier turkey)

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--- La costruzione “numerale ‘one’ + classificatore + nome” è spesso u-tilizzata all’inizio di una narrazione quando si introduce un nuovo refe-rente (funzione simile a quella dell’articolo indefinito in inglese).

--- La costruzione “numerale + classificatore” può essere utilizzata co-me equivalente di un pronome: ¢íit ten ’um-p’éeh ‘give me one’; a dif-ferenza dell’inglese, la presenza del classificatore ci informa sulla natu-ra dell’entità sottintesa (in questo caso un oggetto tridimensionale: p’éeh è una variante di p’éel).

--- La marcatura del numero sul verbo è opzionale tanto quanto quella sul nome.

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--- Forte tendenza a marcare il numero solo per i referenti animati (uomini, animali). I referenti inanimati discreti (ad es. shovel) e non-discreti (ad es. mud) difficilmente formano il plurale in maya. La di-stinzione non riflette però una distinzione non-linguistica tra entità animate vs. inanimate, ma è assolutamente arbitraria (nomi con refe-renti animati come insect difficilmente formano il plurale, e nomi con referenti inanimati come truck compaiono spesso al plurale).

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Ipotesi sui correlati cognitivi delle differenze grammaticali tra inglese e maya yucateco

1) Ipotesi cognitiva generale, formulata così da Lucy (p. 91): “The general expectation is that language influences of the sort to be dis-cussed here do not affect a speaker’s potential ability to see a refe-rent at all or in a certain way, but rather affect a speaker’s habitual dispositions towards, or ways of responding to, a referent.”

2) I parlanti inglesi sono più sensibili dei parlanti maya al numero degli oggetti di riferimento.

3) I parlanti inglesi devono prestare attenzione al numero degli og-getti di riferimento per una quantità maggiore di entità extra-linguistiche;

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4) se il comportamento linguistico ha dei correlati in altre attivi-tà non-linguistiche, dovremmo essere in grado di individuare, nella vita quotidiana dei due gruppi di parlanti, dei riflessi della diversa “sensibilità” al numero dei referenti;

5) le entità inanimate sono i referenti per i quali inglese e maya differiscono maggiormente. Mentre in inglese un termine come banana ha per default un riferimento singolare (designa cioè un oggetto singolo con una forma ben precisa), il termine maya hà’as non ha un riferimento singolare e designa piuttosto una “sostanza” o un “materiale”, specificato poi dal classificatore. Questo comportamento diverso delle due lingue dovrebbe corri-spondere a una maggiore sensibilità alle “sostanze” e ai “mate-riali” da parte dei parlanti maya.

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In quali attività non -linguistiche si possono individua-re gli effetti della diversità linguistica?

Lucy individua quattro attività cognitive che possono es-sere influenzate dalla diversità linguistica: l’interpre-tazione, cioè l’applicazione di schemi percettivi e cogni-tivi all’esperienza; la memoria, cioè la capacità di ricor-dare l’informazione ricevuta; la manipolazione, cioè la creazione di nuove categorie e di legami tra categorie sul-la base del ragionamento; e la capacità decisionale, cioè la capacità di prendere decisioni sulla base del ragiona-mento categoriale.

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Gli esperimenti di Lucy --- Per indagare i riflessi della struttura grammaticale su varie attività cognitive, Lucy utilizza vari tipi di stimoli. In particolare, prepara delle vignette in bianco e nero che ritraggono vari eventi della vita quotidiana in un villaggio maya e in cui sono presenti diverse entità animate e ina-nimate (sia discrete che non-discrete). Ognuno di questi oggetti/entità è rappresentato in alcune vignette da solo e in altre vignette assieme ad al-tre istanze dello stesso oggetto/entità.

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I task richiesti ai parlanti sono i seguenti: Task 1: viene richiesto ai parlanti di descrivere quello che vedono in una vignetta (la prima vignetta di ogni serie); Task 2: viene richiesto ai parlanti di descrivere quello che vedono in una vignetta (la prima vignetta della serie), senza averla davan-ti, sulla base della memoria a breve termine; Task 3: viene richiesto ai parlanti di giudicare tra le restanti 5 vi-gnette qual è quella più simile alla prima vignetta di ogni serie; Task 4: viene mostrata ai parlanti la prima vignetta della serie; successivamente viene richiesto loro di individuarla in mezzo alle altre, presentate in ordine sparso; Task 5: come il task 4, ma facendo trascorrere più tempo tra la vi-sione della prima vignetta e la sua individuazione nell’insieme delle vignette.

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Nella valutazione del Task 1 sono stati calcolati i seguenti valori, ai quali è stato assegnato un punteg-gio: 1) menzione esplicita del referente; 2) riferimento esplicito alla singolarità/pluralità del

referente; 3) il rapporto tra le volte in cui è indicato il numero

per un dato referente e le volte in cui il referente stesso è menzionato esplicitamente (rapporto pari a 1 se il parlante indica il numero del referente tutte le volte che lo menziona).

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--- Entrambi i gruppi si caratterizzano per la tendenza a no-minare esplicitamente i referenti animati (raccolti sotto l’etichetta generale di animals, che comprende anche i refe-renti umani); --- I parlanti inglesi tendono a nominare esplicitamente gli oggetti caratterizzati come “implements” (= contenitori) e “substances” (nella vignetta precedente: firewood) più dei parlanti maya, ma le differenze tra i due gruppi non sono sta-tisticamente significative! --- Gli oggetti che ricadono nella categoria detta implements sono tipici esemplari di oggetti inanimati ma discreti, mentre quelli che ricadono nella categoria substances sono oggetti inanimati e non discreti (e sono tipicamente uncountable).

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---Tutti i parlanti inglesi indicano esplicitamente il numero per animals e implements; la metà di loro indica il numero e la quantità per le substances; --- due terzi dei parlanti maya indica il numero per gli ani-mals, solo un terzo indica il numero per implements e sub-stances; --- le differenze tra i due gruppi sono statisticamente signifi-cative; il punto di maggiore divergenza è, come ci si attende-va, il trattamento degli oggetti di tipo implements (oggetti i-nanimati, ma discreti). --- La tendenza a nominare esplicitamente (e a numerare) gli animals, che nelle vignette non sono particolarmente promi-nenti, suggerisce una maggiore salienza percettiva di questo tipo di entità indipendentemente dalla lingua che si parla.

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Task 2: Verbal recall --- Motivazione del task: il task serve a elicitare un comportamento linguistico più simile a quello “spontaneo” o naturale dei parlanti, dal momento che è molto più frequente parlare di cose che si sono viste in passato piuttosto che di cose che si presentano davanti ai nostri occhi; secondaria-mente, il task serve a fare luce sulle strategie di memorizzazione, che si suppone siano fortemen-te dipendenti dalla struttura linguistica.

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--- Ancora una volta la tendenza a nominare e-splicitamente i referenti di tipo animals si mani-festa chiaramente; rispetto al task 1 c’è una mag-giore divergenza tra i due gruppi per i referenti di tipo implements.

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--- Si riscontra una maggiore tendenza a indicare esplici-tamente il numero dei referenti di tipo animals nei due gruppi; questo fatto è probabilmente dovuto alla maggiore salienza percettiva di questo tipo di referenti, che è ampli-ficata dalla tipologia del task, in cui si danno informazioni che non sono immediatamente visibili. --- Il dato più importante che emerge riguardo alla memo-ria è l’effetto che Lucy chiama “anticipatorio” dei pattern grammaticali delle due lingue prese in esame: se la lingua ci chiede di marcare esplicitamente la quantità di un certo tipo di referenti, inevitabilmente siamo portati a fare più at-tenzione a questo tipo di referenti, e questi rimangono più a lungo nella nostra memoria a breve termine.

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Task 3: Non-verbal similarity judgement Obiettivo: verificare l’impatto della struttura grammaticale su un compito che prevede una risposta non-linguistica (a differenza dei Task 1 e 2). Se la nozione di “somiglianza” tra le vignette dipende dal tipo di referenti che cambiano da una vignetta all’altra (ad esempio: due vignette in cui cambia il numero degli implements o delle substances sono giudicate più simili di due vignette in cui cambia il numero degli animals), possiamo concludere che la struttura linguistica ha un’influenza su attività non-linguistiche. --- A livello procedurale, ai parlanti viene chiesto di ordinare le vignette della serie sulla base del grado di somiglianza tra ciascuna di esse e la vignetta o-riginale. Il task si svolge con tutte le vignette nel campo visivo dei soggetti allo stesso tempo. --- Sulla base della struttura grammaticale, ci si aspetterebbe che i parlanti inglesi giudichino più dissimili le vignette in cui cambia il numero di animals e implements, mentre i parlanti maya dovrebbero giudicare piuttosto simili le vignette in cui cambia il numero di implements e substances.

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--- Il risultato è importante: i parlanti dei due gruppi si comportano secondo le aspettative, e questo non è dovuto alla “incapacità” di vedere il numero degli oggetti (dal momento che i Task 1 e 2 chiedevano esplicitamente di fare attenzione alle differenze nel-la quantità dei referenti), ma allo “stile” di osserva-zione che è imposto dalla struttura grammaticale delle due lingue. Inoltre, la risposta al Task 3 è una risposta di tipo “operativo” e non “linguistico”, il che dimostra che la lingua predispone i parlanti a un certo tipo di osservazione piuttosto che a un altro.

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Task 4 & 5: Nonverbal recognition memory Obiettivo: verificare se le diverse quantità di un ogget-to influenzano il riconoscimento a breve termine della vignetta originale in mezzo alle altre. Se i parlanti si comportano diversamente per i tre tipi di oggetti le cui quantità cambiano da vignetta a vignetta, e se le diver-sità di comportamento riflettono il diverso trattamento linguistico della categoria degli implements, possiamo concludere che la struttura grammaticale influenza un task specificamente cognitivo come il riconoscimento di un’identità sulla base della memoria a breve termine.

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6. Un altro esperimento: la categorizzazione spaziale nei bambini inglesi e coreani a confronto Melissa Bowerman, 1996. “The origins of children’s spatial se-mantic categories: cognitive versus linguistic determinants”. In J. J. Gumperz & S. C. Levinson (eds.), Rethinking Linguistic Rela-tivity, Cambridge University Press, pp. 145-176. --- Do we divide up space in a particular way because of the lan-guage we learn? --- Le lingue del mondo si comportano in maniera diversa tra loro nell’organizzazione dei significati spaziali: la differenza maggio-re riguarda la categorizzazione delle situazioni extra-linguistiche.

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--- Date delle situazioni extra-linguistiche in cui due oggetti sono colloca-ti nello spazio uno in relazione all’altro, possiamo supporre o che ci siano dei concetti spaziali “universali” percettivamente salienti (in, on, down, under, ecc.) che guidano la nostra percezione dello spazio e determinano il nostro modo di parlare dello spazio, o che ciascuna lingua si comporti secondo principi idiosincratici di classificazione. --- In particolare, la psicologia classica ha sostenuto che alcuni tipi di re-lazioni spaziali siano percettivamente o cognitivamente salienti, esatta-mente come si dice che alcuni punti focali dello spettro dei colori sono più facili da percepire (e più facili da “nominare” e codificare linguisti-camente): un esempio è la dimensione verticale, che divide lo spazio in un up e un down. --- Se fosse fondata l’ipotesi dell’universalità di alcuni concetti spaziali, i bambini che apprendono a orientarsi nello spazio e a manipolare lo spazio dovrebbero manifestare una maggiore sensibilità ai presunti concetti uni-versali, e codificarli linguisticamente indipendentemente da quanto la lin-gua che stanno imparando permette loro di fare.

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--- Un bambino inglese imparerà ad usare il sintagma verbale put sth in sth per descrivere la situazione della figura a) e il sintagma verbale put sth on sth per descrivere l’azione nella figura b). Da queste due situazioni il bambino inglese è in grado di astrarre un significato generico della rela-zione spaziale codificata da in (relazione di contenimento) e un significa-to generico della relazione codificata da on (relazione di supporto), e ap-plicherà con successo gli stessi sintagmi rispettivamente per le relazioni esemplificate nelle figure c) [put in] e d) [put on]. --- Se riteniamo che le nozioni di contenimento (in) e supporto (on) siano dei primitivi semantici, dovremmo supporre che anche i bambini che im-parano altre lingue siano portati a trattare allo stesso modo le situazioni a) e c) e le situazioni b) e d). I bambini coreani, invece, non sovraestendono mai la parola che usano per le situazioni a) e b), relativamente più “fre-quenti” nella vita di tutti i giorni, alle situazioni c) e d), e imparano relati-vamente presto che esiste un verbo specifico che designa le azioni delle figure c) e d) e che possiamo tradurre come “unire insieme due cose che stanno insieme”.

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--- Sia i bambini inglesi che i bambini coreani iniziano a produrre enunciati dal significato spaziale attorno a 16-20 mesi. Gli enunciati riguardano tutti eventi piutto-sto comuni nella vita dei bambini come ad esempio l’essere presi in braccio, mettere/togliere un vestito, il cadere a terra o il salire su un oggetto --- Ciascuno di questi eventi coinvolge delle relazioni spaziali che si ritengono universali, come le relazioni di supporto e contenimento, o la dimensione verticale, ma i due gruppi di bambini si comportano diversamente, e le differenze di comportamento sono determinate dal sistema linguistico a cui sono esposti.

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--- Ad esempio, mentre i bambini inglesi sono sensibili sin dalla prima fase alla distinzione tra la nozione di supporto (on) e la no-zione di contenimento (in), i bambini coreani sono sensibili sin dall’inizio alla distinzione tra movimento spontaneo e movimento causato, specifica del lessico spaziale del coreano. --- Se una relazione spaziale come la dimensione verticale fosse co-gnitivamente più saliente di altre, potremmo aspettarci che i bambi-ni coreani, una volta appreso un verbo come ankta ‘sit down’ o anta ‘pick up and carry’ sovraestendano il significato di questi verbi per descrivere qualsiasi situazione che implichi uno spostamento sull’asse verticale. --- Gli studi di M. Bowerman mostrano invece che i bambini corea-ni non producono queste sovraestensioni, e cioè non sono sensibili alla (presunta) “salienza” percettiva dell’asse verticale, ma sono sensibili solo ed esclusivamente alle categorie spaziali della lingua che stanno imparando.

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--- Si potrebbe obiettare che i bambini, sia inglesi che coreani, semplice-mente riproducono quello che sentono, cioè utilizzano le parole (verbi, preposizioni spaziali) che trovano nell’input (la lingua degli adulti). In re-altà, sostiene M. Bowerman, i bambini utilizzano il lessico spaziale in maniera estremamente “creativa”, applicando il lessico spaziale a situa-zioni “nuove” (che vengono percepite e descritte per la prima volta) e producendo frequentemente quelli che, dal punto di vista della lingua target, sono dei veri e propri errori, e cioè sovraestensioni di verbi o pre-posizioni: in questo tipo di sovraestensioni dovremmo trovare traccia del-la presunta universalità e salienza di alcune relazioni spaziali, ma così non è. Le sovraestensioni prodotte dai bambini coreani, al contrario, riguarda-no le nozioni di tight fit e loose fit, attorno alle quali è costruito il sistema coreano: ad esempio capita frequentemente che i bambini coreani intorno ai 16-20 mesi sovraestendano i verbi kkita/ppayta (limitati nel coreano a oggetti tridimensionali) a situazioni che richiederebbero pwuthita/tteyta (limitati agli oggetti bidimensionali).