Linguaggio e alterità in Emmanuel Lévinas

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Julia Ponzio

Linguaggio e alterità in Emmanuel Lévinas 1. Il problema del linguaggio si presenta nel pensiero di Lévinas come questione

del rapporto fra parola ed essere. Dall’analisi di questo rapporto Lévinas fa emergere la proposta di una rifondazione del problema del linguaggio a partire dalla questione dell’alterità e dunque la proposta di una rifondazione ‘etica’ del problema del linguaggio.

La questione del linguaggio ha un ruolo assolutamente centrale all’interno dell’intera opera di Lévinas, cioè non viene affrontata come questione marginale ma percorre dall’interno la struttura del pensiero levinasiano: il linguaggio è punto cardine del passaggio dall’esistenza all’esistente, è punto cardine della costituzione dell’essere come totalità, punto cardine del passaggio dalla totalità all’altrimenti che essere.

In De l’existence à l’existant, l’emersione del linguaggio segna il punto in cui essere ed ente, o come dice Lévinas per ragioni di ‘eufonia’ esistenza e esistente si sfaldano. L’esistenza separata dell’esistente, l’essere in generale è quello che Lévinas definisce il y a. Esso, dice LÉVINAS (1947: 50), è ciò che rimane se immaginiamo il ritorno al nulla di tutte le cose e tutti gli esseri viventi, esso è l’«anonimato essenziale», spazio oscuro dove niente è distinguibile, dove nulla può separarsi da nulla «rientrando in sé», in cui nulla può riferirsi a nulla «situandosi» (LÉVINAS 1947: 51). Il momento di rottura dell’esistenza, del puro esistere che procede, della ‘verbalità’ dell’il y a, è quello in cui, senza un motivo, senza una causa, senza provenire da niente e meno che mai dall’esistenza stessa, sorge un ‘presente’. Il presente è l’apparizione di un’interiorità ‘posizionata’ nell’esistenza, che a partire da questa posizione la domina, ‘nominandola’. Il sorgere imprevisto del presente è l’ipostasi, il momento in cui la verbalità dell’esistenza può essere controllata dall’interiorità che la nomina mediante sostantivi. Attraverso l’ipostasi l’essere anonimo, l’esistenza pura, diviene l’esistenza di qualcuno.

All’interno del testo del 1947, l’apparizione del ‘nome’, del ‘sostantivo’ è legato tanto alla possibilità della oggettività quanto a quella della soggettività. Parlando dell’insonnia come ‘situazione limite’ che può avvicinarci all’idea di un’esistere senza esistente, di un essere senza ente, Lévinas dice:

L’insonnia ci pone quindi in una situazione in cui la rottura con la categoria di sostantivo non comporta solo la sparizione di ogni oggetto, ma anche l’estinzione del soggetto. (LÈVINAS 1947: 61). L’esistente che sorge nell’esistenza anonima nominandola si separa dall’essere

dominandolo, esercitando su di esso un controllo: l’essere ‘nominato’ dall’esistente diviene l’essere dell’esistente. Il linguaggio, la possibilità di nominazione dell’essere, di bloccare l’essere attraverso un sostantivo si pone, in questa prima fase del pensiero di Lévinas, come elemento determinante del passaggio dall’esistenza all’esistente.

L’interiorità separata è dunque ciò che, attraverso il sostantivo, ha già rotto il legame con l’il y a, con l’esistenza senza mondo. Il linguaggio sembra dunque, nella produzione levinasiana precedente a Totalité et Infini, legato all’interiorità, in quanto sua condizione e suo momento di definizione. In questa situazione, l’irruzione dell’altro è ciò che determina l’apertura dell’interiorità, lo

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sgretolamento del linguaggio attraverso cui l’interiorità domina il mondo. L’altro, che si configura, sostanzialmente come l’amato nella relazione d’amore, è all’interno del testo del 1947 ciò che è impossibile nominare, ciò che mette in crisi la capacità del soggetto di dominare l’essere nominandolo. L’altro sembra arrivare dall’esterno rispetto alla capacità di nominazione dell’altro e metterla in crisi.

A partire invece dagli scritti degli anni cinquanta, l’altro non si configura più solo come l’amato nella relazione d’amore. L’altro è anche e contemporaneamente il ‘terzo’, l’escluso dalla relazione intima dell’entre nous. L’ingerenza del terzo nell’intimità del «fra noi» si trova trattata con estrema chiarezza nella parte della seconda sezione di Totalité e Infini intitolata ‘La dimora’.

La dimora, dice LÉVINAS (1961: 173), rompe la totalità dell’elemento, essa è la costituzione dell’interiorità, al contempo possesso delle cose e distanziamento da esse. Il possesso delle cose che tuttavia, al tempo stesso, distanzia da esse è la rappresentazione: essa è «rappresentazione come una determinazione dell’Altro da parte del Medesimo, senza che, per questo, il Medesimo sia determinato dall’Altro». Ma il possesso delle cose, il possesso immediato non implica, di per se stesso, la separazione. Esso non è il presupposto della dimora da cui posso rappresentare le cose distanziandole e aggiornandole: la presenza silenziosa del femminile è il presupposto della separazione nella dimora, il presupposto dell’interiorità.

In Totalité et Infini il femminile, l’amato non è più l’altro per eccellenza: l’Altro è il femminile che mi accoglie nell’intimità silenziosa della dimora, ma anche il terzo che contesta, accusandomi, la mia posizione e il mio possesso. Questa messa in questione dell’io che il terzo rappresenta è la rottura del silenzio che regna nell’intimità del «fra noi», essa è linguaggio. Lévinas scrive: «Definiamo linguaggio la messa in questione dell’io coestensiva alla manifestazione d’Altri nel volto». (LÉVINAS 1961: 174). Il terzo, rompendo senza preavviso e senza attendere l’intimità silenziosa della dimora, reclama giustizia, la sua accusa domanda una giustificazione. Il linguaggio nasce in rapporto al terzo, esso è la possibilità della generalizzazione del mondo che, al tempo stesso, mi permette di donare, di mettere in comune, di liberarmi dal possesso, e di giustificarlo, di mostrarne la legittimità:

Il linguaggio non esteriorizza una visione preesistente in me —esso mette in comune un mondo fino ad allora mio. Il linguaggio effettua l’entrata delle cose in un etere nuovo in cui esse ricevono un nome e diventano concetti […]. (LÉVINAS 1961: 177). Il linguaggio, generalizzazione che il terzo rivendica rompendo il silenzio

dell’intimità della dimora, è al contempo dono e apologia. Esso è sia messa in sia comune del mondo, apertura, sia chiusura nella giustificazione della propria posizione. Esso è tanto comunicazione, dono del mondo, quanto inscrizione della Storia che giustifica la mia libertà, la mia interiorità ingiustificata, il mio possesso ingiustificato del mondo.

2. Quello che ci interessa mettere in evidenza nel passaggio dagli esordi della

riflessione di Lévinas in Dall’esistenza all’esistente a Totalità e infinito è il fatto che mentre nel testo del 1947 il linguaggio era il momento della fuoriuscita della interiorità dall’essere, nel testo del 1961 il linguaggio diventa anche il momento di costituzione dell’essere come totalità in cui l’interiorità si disperde. Questo scarto è determinato dal fatto che l’essere da cui risulta necessario evadere negli scritti

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levinasiani degli anni Cinquanta non è più quello che coincide con l’esistenza ma è il Neutro nel quale il non-io viene annullato e posseduto. Bisogna allora distinguere da una parte, allora, l’essere come esistenza pura, come il y a e quindi la sua autonomia che non si lascia ridurre a ragione, l’essere prima di ogni nominazione a cui non si può che essere esposti, e dall’altra, l’essere come Neutro, che è la riduzione stessa del non-io, della presenza pura, la possibilità del suo controllo.

Il Neutro a cui ricorre la filosofia dello Stesso — dice Lévinas è ciò che consente di prendere possesso del non-io, di acquisire su di esso potere. L’essere come neutro «è fosforescenza e luce» (LÉVINAS 1949: 194). e in questo si distingue dalla dimensione ‘notturna’ dell’il y a. L’essere come neutro è ciò che, attraverso il linguaggio, «risplende come significato» (LÉVINAS 1972: 48).

L’essere heideggeriano, che risplende come significato, l’essere come neutro non è statico, poiché intelligenza e intelligibile non sono due mondi separati come nella filosofia di Platone: la storia, le culture sono vie d’accesso all’intelligibile. Intelligenza e intelligibile sono connessi attraverso il linguaggio. Linguaggio, essere, storia, sono dunque tenuti insieme nell’idea dell’essere come neutro, dell’essere heideggeriano.

L’essere, in quanto Neutro, è l’essere che si irradia, si stende, si dipana come comprensione, comprendendo in questo suo irradiarsi anche la dimensione ‘notturna’ dell’esistenza, dell’assoluta presenza dell’il y a che, di per sé, senza ‘prospettiva’ e senza continuità non può stendersi, spiegarsi, e rimane chiuso nella propria oscurità compatta. L’essere come neutro, non è più quello che coincide con l’esistenza, ma quello che dell’esistenza realizza il dominio, ottenendone una visione d’assieme, una «visione panoramica» (LÉVINAS 1961: 302) ed eliminandone, così, l’indipendenza.

La critica levinasiana a questa idea dell’essere in cui il linguaggio è implicato, non è puramente teorica: Lévinas non nega l’essere heideggeriano, l’idea del linguaggio come ciò attraverso cui nella storia l’essere riluce, ma descrive in esso un’apertura verso l’infinito del volto come ciò che ‘giustifica’ la totalità, la Storia e la stessa filosofia del Neutro, facendole apparire non come prodotti di una storia che ‘ha girato male’, ma come ‘aperture’ della stessa espressione del volto. All’origine del linguaggio come ciò che fa rilucere l’essere tutto insieme, come ciò che consente una visione panoramica dell’essere, c’è, dice Lévinas, l’incontro con Altri, l’incontro con il volto. La manifestazione dell’altro, dice Lévinas in Totalità e infinito, consiste nel «dirsi a noi indipendentemente da qualsiasi posizione che potremmo avere preso nei suoi confonti, nell’esprimersi». Il volto, dice Lévinas, parla, «la manifestazione del volto è già discorso» (LÉVINAS 1961: 64). L’altro è colui che precede la mia Sinngebung, si presenta significando, avendo un senso proprio e, dice Lévinas, «presentarsi significando è parlare». Il significato, dunque, dice Lévinas in Totalità e infinito, «è per eccellenza la presenza dell’interiorità. Il discorso non è semplicemente una modificazione dell’intuizione (o del pensiero) ma una relazione originaria con l’essere esterno». Ritrovare il discorso all’origine dell’essere panoramico in cui il linguaggio fa rilucere il significato vuol dire, dice Lévinas, ammettere la possibilità di fondare il pensiero sul discorso. Il linguaggio diventa quindi non solo ciò attraverso cui l’essere s’illumina, ma anche ciò che dall’esterno lo origina. La primità del discorso rispetto al pensiero è la primità dell’etica rispetto all’ontologia. Il linguaggio presuppone l’originalità del volto, il linguaggio, dice Lévinas, presuppone l’espressione del volto. L’espressione del volto è l’originaria messa in questione della interiorità, del suo possesso del mondo, della sua ‘posizione’.

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Non è la mediazione del segno, dice Lévinas, che fa il significato ma è il significato (il cui fatto originario è il faccia a faccia) a rendere possibile la funzione del segno. (LÉVINAS 1961: 211, tr. leggermente modificata). Parlando, Altri significa l’Infinito, fa segno verso ciò che non entra nella totalità

e la precede, fa cioè segno verso l’assoluta responsabilità per altri. Ritrovare la responsabilità assoluta per altri, la bontà come instaurazione e giustificazione della totalità, significa trovare un momento che da essa rimane fuori. Significa ritrovare l’espressione del volto come ciò alla cui esposizione l’interiorità non può porre rimedio, come ciò che non può divenire possesso dell’interiorità, e che, quindi, non può assumere né come suo presente, né, di conseguenza, come suo passato di cui conserva memoria. La responsabilità assoluta per altri rifiuta assolutamente di farsi giustificare, di passare per il presente dell’interiorità in maniera che essa possa assumerla, ed allo stesso tempo, giustifica la totalità stessa.

Trovando altrove che in sé la propria origine e la propria giustificazione, la totalità, l’essere che il linguaggio illumina si apre verso altro dall’essere come neutro, si apre verso all’esteriorità, alla trascendenza del volto che parla, irriducibile ed inappropriabile da parte di un soggetto. La totalità si apre verso l’infinità dell’espressione che la precede e la origina. La presenza viva del discorso con altri, rinvia all’anteriorità mai vissuta e mai assunta dell’assoluta responsabilità per altri.

3. Il rapporto fra essere e parola finisce con sostituire all’interno del pensiero di

Lévinas il rapporto fra essere ed ente del pensiero heideggeriano. Marion fa notare giustamente in un suo saggio come nella produzione levinasiana successiva a Totalità e infinito, si istituisca una nuova differenza, una differenza di ‘secondo grado’ rispetto a quella fra essere ed ente o, che è lo stesso, di esistenza ed esistente: si tratta della differenza, dice Marion fra da una parte la differenza ontologica, e dall’altra, il Dire. Attraverso il concetto di ‘essenza’, che si definisce in Altrimenti che essere il linguaggio come ciò che illumina l’essere come totalità e lo fa significare, non è più solo il momento in cui il soggetto prende coscienza del proprio vivere. Il vivere stesso, quello che all’interno della filosofia di Husserl è il tempo interno della coscienza per il quale non ci sono nomi è, dice Lévinas in Autrement qu’être già detto: il linguaggio è già dentro la coscienza interna del tempo, il vivere passivo. Il linguaggio, dice Lévinas, non è solo il Nome attraverso il quale si costituisce l’interiorità, ma anche il verbo, in cui già si comprende la sensazione vissuta. La temporalità della coscienza, la temporalità passiva che conserva il passato sotto forma di ritenzione è già racconto, modificazione del medesimo: la vita della coscienza è già essenza, modificazione dell’identità.

L’esistenza, la verbalità dell’esistere, già prima che venga nominata e posseduta da una coscienza, già prima di venire detta, una volta ‘vissuta’, è ‘già detta’:

Analizzando il sensibile nell’ambiguità della durata e dell’identità —che è l’ambiguità del verbo e del nome che risplende nel Detto— lo abbiamo trovato già detto. (LÉVINAS 1974: 46). Tra l’essenza e il detto, la verbalità dell’essere e la sua nominazione, fra

l’esistenza e l’esistente non vi è più un salto. La vita vissuta può essere nominata e posseduta perché, in quanto modificazione dell’identico è già il detto che determina un mondo. Essere ed ente, verbo e nome, vita e coscienza si convertono gli uni

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negli altri senza alcun salto, perché sono sin dall’inizio ‘possesso’ e ‘posizione’ in un mondo.

L’essere e l’ente, l’esistenza e l’esistente, il verbo ed il nome acquisiscono così quell’intima complicità che non consente alla ‘vita’ prima della coscienza, al tempo vissuto per cui non esisterebbero nomi, di essere un’alternativa al detto. L’esistenza, la verbalità della vita, è già chiusura nell’essere, già chiusura nel linguaggio in cui l’essere risplende, già chiusura nel linguaggio come già Detto in cui il dire si solidifica. Già nell’essere verbale ed impersonale, qualcosa viene detta e posseduta, assunta, come già sempre aspettata: già nell’essere verbale c’é attività e intenzionalità. L’essere e l’ente, rispettivamente modificazione nell’identità ed ipostasi dell’identità, entrambi già possesso ingiustificato del mondo, per questa loro originaria complicità sono ‘convertibili’ l’uno nell’altro: l’essere verbale porta già in sé la propria convertibilità in un nome.

Annullato lo spazio della differenza ontologica, fra essere ed ente, l’unico spazio possibile rimane quello fra l’essere e la parola, fra il linguaggio in cui l’essere risplende e il linguaggio come espressione del volto, fra, quindi, il detto e il dire. La differenza fra il dire e il detto, punto centrale di Altrimenti che essere è la differenza fra la differenza ontologica stessa in cui anche l’essere al di sotto dell’ente si è trovato già detto, e il dire come esposizione ad altri.

La possibilità di evasione dall’essere è resa possibile quindi dal passaggio dalla differenza ontologica alla differenza di secondo grado fra essere e parola. Così, a partire dagli scritti immediatamente successivi a Totalité et Infini, l’attenzione levinasiana si sposta dalla presenza viva del volto nel faccia a faccia, a ciò a cui questa presenza rimanda ed alle modalità di questo rimandare. Al di là del volto e della totalità che esso giustifica, si apre un movimento senza ritorno, verso ciò a partire da cui il rapporto stesso fra il volto e la totalità è possibile. Il volto giustifica la totalità e, al contempo, significa l’al di là da cui proviene.

La presenza vivente dell’altro contemporaneo a me nel discorso, rende possibile e impone, con il suo atto di accusa, la costituzione della totalità, che uniforma, attraverso il linguaggio, il mio tempo a quello dell’altro, rendendoli comparabili. Altri rientra nell’ordine della totalità, viene compreso. Ma il volto, nella sua presenza nel faccia a faccia, rimanda a qualcosa che non è con me e con altri nella presenza, che non è contemporaneo né a me né ad altri e che tuttavia mi riguarda. Il volto significa, parlando, ciò che esso stesso non è, l’al di là da cui proviene, che è la mia assoluta responsabilità per l’altro, l’impossibilità di rimanere indifferente di fronte al volto che parla. Nel volto si apre la totalità ed al contempo la traccia della mia assoluta responsabilità per altri, responsabilità inassumibile, senza giustificazione, che è, in quanto tale, al di là dell’essere.

La significazione in cui il volto significa l’al di là, non è una linea retta che dal volto conduce all’al di là da cui esso proviene. Essa è l’irretitudine radicale della traccia, che significa senza condurre linearmente a ciò di cui è traccia. Irretitudine che rimanda ad un terzo termine, oltre la contemporaneità dell’Io e del Tu, che è sempre riconducibile ad una totalità:

Il Desiderio, o la risposta all’Enigma, o la moralità è una trama con tre personaggi: l’Io si avvicina all’infinito dirigendosi generosamente verso il Tu, ancora mio contemporaneo, ma che, nella traccia dell’Illeità, si avvicina a me presentandosi a partire da una profondità del passato, di fronte. (LÉVINAS 1974: 251). L’illeità a cui la traccia rimanda è una

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terzialità differente da quella del terzo uomo, del terzo che interrompe il faccia a faccia dell’accoglienza dell’altro uomo — che interrompe la prossimità o l’approssimarsi del prossimo — del terzo uomo attraverso il quale incomincia la giustizia. (LÉVINAS 1974: 188). Terzialità differente: mentre il terzo uomo si inserisce in una ‘descrizione’ che

stabilisce la sua ‘primità’ rispetto alla totalità, l’Illeità che mi ordina il terzo uomo non è la ‘causa’ della imprescindibilità della mia risposta, l’ordine che mi ordina altri non è prima della mia risposta, come il prodotto di un’ispirazione non è prima dell’ispirazione stessa ed, al contempo non è totale produzione del soggetto ispirato.

La corporeità in cui si rovescia la coscienza interna del tempo, in cui il fluire della temporalità della coscienza diviene senescenza, invecchiamento, è già, prima di ogni detto, significazione: essa, vulnerabilità esposta, in questa esposizione è già dire. La corporeità del soggetto è già non essere presso di sé, in primo luogo perché il corpo, vulnerabilità esposta, già dice prima di ogni intenzione, ed in secondo luogo, perché la vulnerabilità del corpo non è mai stata assunta. La corporeità del soggetto è il dire originario, l’Eccomi che è risposta all’appello prima di ogni appello, resa senza comprensione dell’ordine, obbedienza anteriore alla rappresentazione, fedeltà prima di ogni giuramento, responsabilità anteriore allo impegno che è l’altro nel medesimo, ispirazione e profetismo, l’accadere dello infinito.

È questa apertura della differenza ontologica alla differenza più originaria fra essenza e parola, che qui abbiamo voluto evidenziare, che fa emergere una concezione in cui il linguaggio è fondato sulla responsabilità a cui Altri chiama l’io parlando, facendolo risultare originariamente all'accusativo, come cattiva coscienza. L’io come soggetto, l’io al nominativo, è l’io forte di qualche giustificazione, l’io come buona coscienza, l’io che risponde all’altro e argomenta. Il significato, si sa, presuppone la sostituzione. Significare è stare al posto di. Ma Lévinas non si riferisce alla sostituzione dei segni alle cose, di un segno con un altro segno, cioè il suo interpretante, di un termine a una altro termine, ad una sostituzione che cioè presuppone già la costituzione dei significati e dei sistemi segnici. Nel dire, dice Lévinas, in cui il soggetto è all’accusativo, in cui non si tratta dell’Io ma di Me, la sostituzione è rispondere all’altro: la sostituzione in cui si fa segno, in cui si realizza la significanza, è il coinvolgimento nei confronti dell’altro come prossimo, fino all’uno per l’altro, in un rapporto di responsabilità non delegabile che rende ciascuno unico nel suo essere eletto, nel suo essere ordinato ad altri.

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