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AVA McCARTHY L’INFILTRATA

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AVA McCARTHY

L’INFILTRATA

I Edizione 2011

© 2011 - EDIZIONI PIEMME Spa20145 Milano - Via Tiziano, [email protected] - www.edizpiemme.it

Titolo originale: The Insider© Ava McCarthy 2009All rights reserved.

Traduzione di Roberta Maresca / Grandi & Associati

Questo romanzo è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni dell’autore o hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione e sono quindi utilizzati in modo fi ttizio. Qualsiasi analogia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è puramente casuale.

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Harry stava per fare qualcosa che avrebbe potuto spedirla in prigione. Non era insolito, visto il campo in cui lavora-va, ma le faceva ugualmente sudare le mani.

Mise via il caffè e fi ssò la porta a vetri dell’edifi cio dal-l’altra parte della strada. Le lacrimavano gli occhi per la luce abbagliante di aprile. La prima volta che aveva tentato un’impresa simile era stato sedici anni prima, quando ne aveva solo tredici e per un pelo non era stata arrestata. Stavolta era diverso. Stavolta l’avrebbe passata liscia.

La porta dall’altra parte della strada si spalancò e lei si drizzò di colpo sulla sedia. Era solo il corriere in motoci-cletta che usciva. Era stato l’unico visitatore negli ultimi venti minuti. Harry si spostò sulla rigida seduta di allumi-nio, certa che sul fondoschiena le sarebbero rimaste inci-se delle strisce simili alle stecche di una veneziana.

«Prende altro?»Il gestore del caffè se ne stava davanti a lei, tarchiato

come un bulldog, con le braccia incrociate su un grem-biule pieno di macchie. Il messaggio era chiaro. Era il momento del pranzo e lei stava occupando il tavolo sul marciapiede da quasi un’ora. Era il caso di andarsene.

«Sì.» Gli rivolse il sorriso più seducente che riuscì a sfoderare. «Dell’acqua frizzante, grazie.»

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Quello posò in malo modo la tazza e il piattino su un vassoio e se ne tornò dentro con un’andatura dinocco-lata. La porta dall’altra parte della strada si spalancò di nuovo e ne uscì un gruppetto di cinque ragazze, tutte con la stessa divisa blu e verde. Si incamminarono lungo il marciapiede, passandosi un’unica sigaretta: la succhia-vano come sommozzatori che si dividono l’ultima bom-bola d’aria. Harry scrutò i loro volti. Erano tutte troppo giovani.

Si appoggiò allo schienale e tirò giù la gamba accaval-lata. Le formicolavano le cosce sotto il completo blu e sentiva i primi crampi ai piedi. Quella mattina era stata combattuta fra un paio di semplici scarpe basse e quel-le con i tacchi a rocchetto e le fi bbie dorate, ma come sempre non aveva saputo resistere agli oggetti scintillanti. Sperava solo di non dover tentare una fuga nei successivi quarantacinque minuti.

Harry ascoltò il rumore metallico dei fusti di birra che venivano scaricati in un vicoletto lì vicino. Dalla porta del pub arrivava l’odore di birra stantia, un odore di muffa simile a quello della frutta marcia. Un autobus si fermò dondolando proprio davanti a lei e le coprì la visuale.

Merda, avrebbe dovuto notare la fermata dell’autobus prima di sedersi. Il motore vibrava, mentre i passeggeri si riversavano fuori uno per uno. L’aria tremolava per le esa-lazioni calde del diesel, l’autobus e l’edifi cio retrostante ondeggiavano come un miraggio. Harry tamburellò con le dita sul tavolo.

Gesù, c’era tutta Dublino su quell’autobus?Cercò di scorgere il palazzo di uffi ci attraverso i fi ne-

strini impolverati, ma riuscì a intravedere solo la parte su-periore della porta. Quando si aprì di nuovo, la luce del sole si rifl etté sul metallo del telaio, ma Harry non riuscì a vedere chi fosse uscito.

Spinse rumorosamente la sedia all’indietro e corse per

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qualche metro lungo la strada, fi nché non ebbe di nuovo una buona visuale dell’entrata. Il marciapiede era deserto.

Harry controllò l’orologio. Si stava facendo tardi, ma non poteva arrischiarsi a compiere la mossa successiva. Non ancora.

L’autobus mandò il motore su di giri e si infi lò di nuo-vo nel traffi co. Harry strinse i pugni, mentre aspettava che si allontanasse. Quando ebbe la visuale libera, individuò una donna a metà della strada, che camminava con passo deciso nella direzione opposta a quella delle ragazze. Era più vecchia di loro, sulla cinquantina forse, ed era sola. Si fermò sul bordo del marciapiede per attraversare e si voltò a guardare la strada.

Harry rilassò le dita. Le ciocche bionde erano una no-vità, ma per il resto la donna sembrava identica alla foto-grafi a del sito web.

Aspettò che scomparisse. Quindi lanciò qualche mo-neta sul tavolo e attraversò.

Era più fresco e silenzioso dall’altra parte della porta a vetri. Harry si diresse a grandi passi verso la receptio-nist, e mentre si avvicinava studiò l’ambiente circostante. Contro una parete c’era un tavolino basso con sopra delle riviste di economia. C’era una grossa porta a due battenti alla sua sinistra, e un’altra alla sua destra. La sua unica via di fuga, se mai ne avesse avuto bisogno, era la porta da cui era entrata.

Harry scelse un altro sorriso dal suo repertorio, la smor-fi a di una donna d’affari nervosa, senza neanche un minuto da perdere.

«Salve, sono Catalina Diego» disse alla ragazza dietro la scrivania. «Sono qui per incontrare Sandra Nagle.»

La ragazza mantenne lo sguardo fi sso sullo schermo del computer che aveva davanti. «È appena andata a pranzo.»

«Ma ho un appuntamento con lei alle dodici e mezzo.»

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La ragazza mordicchiò l’estremità di una matita e alzò le spalle. Un po’ dell’appiccicoso pasticcio di lucidalabbra rosa che aveva intorno alla bocca era fi nito sulla matita.

Harry si sporse in avanti sopra la scrivania. «Sono qui per tenere il corso di formazione per l’helpdesk. Quanto starà via?»

La ragazza alzò di nuovo le spalle e cliccò con il mou-se sul computer. Harry avrebbe voluto strapparglielo di mano e usarlo per bacchettarla sulle nocche.

«Be’, non posso stare qui a gingillarmi» disse Harry. «Dovrò cominciare senza di lei.»

Si girò verso la porta alla sua sinistra, come se sapesse dove andare. La receptionist si alzò dalla sedia e sbatté la matita sulla scrivania.

«Purtroppo non posso farla entrare senza l’autorizza-zione della signora Nagle.»

«Senta...» Harry si voltò e guardò con gli occhi soc-chiusi il cartellino di riconoscimento della ragazza «...Me-lanie, ci è voluto un mese per organizzare questo corso. Se ora me ne vado, passerà un altro mese prima che torni. Vuole che spieghi io a Sandra perché non ho potuto co-minciare?»

Harry trattenne il fi ato e si preparò al peggio. Se qual-cuno avesse fatto il prepotente con lei in quel modo sa-rebbe scoppiato il fi nimondo. Invece Melanie si limitò a battere le palpebre e a sprofondare di nuovo nella sedia. Harry non la biasimava. Aveva parlato per la prima volta con Sandra Nagle quella mattina, quando aveva telefo-nato alla banca fi ngendosi una cliente che voleva pre-sentare un reclamo. Aveva trovato nome e foto sul sito aziendale, nella sezione in cui si vantavano di avere un servizio di assistenza clienti impareggiabile. Dopo due minuti di conversazione, Harry aveva classifi cato la don-na come una vera stronza, e a quanto pareva Melanie era d’accordo con lei.

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Melanie deglutì e spinse sulla scrivania il registro dei visitatori. «Okay, ma prima deve riempire questo. Il nome e la data qui, la fi rma qui.»

Harry sentì un leggero fremito alla bocca dello stoma-co mentre scriveva in fretta i dati. Melanie le porse un tesserino di riconoscimento e le indicò la porta alla sua sinistra.

«Di là. Le apro io.»Harry la ringraziò e si diede mentalmente il cinque. Si

ricordò di come suo padre le desse sempre il cinque ogni volta che i suoi bluff a poker andavano a buon fi ne. «Non c’è niente come l’eccitazione di vincere senza avere niente in mano» le diceva sempre, strizzandole l’occhio.

E lei non aveva davvero in mano niente. Si agganciò il tesserino al bavero della giacca e si avviò verso la porta. La chiusura di sicurezza scattò e una luce verde lampeg-giò sul pannello alla parete. Raddrizzò le spalle e aprì con una spinta la pesante porta. Era dentro.

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Leon Ritch non aveva notizie del Profeta da più di otto anni, e aveva pregato Dio di non fargliene avere mai più. Si grattò la barba ispida di due giorni e rilesse l’e-mail.

Magari era una bufala. Dopotutto, chiunque poteva fi rmarsi «Il Profeta». Controllò l’indirizzo del mitten-te. Era diverso dall’ultima volta, ma altrettanto oscuro: [email protected]. Pensò di provare a rintrac-ciarlo, ma sapeva che non sarebbe servito a nulla. L’ultimo indirizzo del Profeta aveva portato a un sistema di re-mai-ling anonimo. Un vicolo cieco. Chiunque fosse, sapeva come tenere nascosta la propria identità.

Oltre a lui, soltanto tre persone sapevano del Profeta. Una era in prigione e un’altra era morta. Restava solo Ralph.

Leon compose un numero che non usava da un pezzo. «Sono io» disse.«Scusi, chi parla?»Leon sentiva il brusio di voci maschili in sottofondo.

Probabilmente Ralph era in riunione con i pezzi grossi della banca, a sgomitare per avere abbastanza spazio al party aziendale. Era un mondo in cui un tempo anche lui aveva sguazzato.

«Non fare il coglione, Ralphy.»Le risate degli uomini gli scrosciarono nell’orecchio, e

poi divennero sempre più deboli fi nché non ci fu solo un

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vuoto echeggiante. Ralphy-Boy doveva essersi trasferito nel bagno degli uomini.

«Comodo adesso?» chiese Leon.«Che diavolo stai facendo?»«Faccio solo un saluto ai vecchi amici. Pare che sia la

giornata delle chiamate dal passato.»«Di cosa stai parlando? Ti ho detto di non chiamarmi.»«Sì, sì, lo so. Senti, Ralphy-Boy, sei vicino al tuo uffi -

cio?»«Sono nel mezzo di una riunione del consiglio e non...»«Bene. Sto per inviare un’e-mail al tuo indirizzo perso-

nale. Vai a leggerla.»«Che cosa? Sei fuori di testa?»«Fallo e basta. Ti richiamo fra cinque minuti.»Leon riagganciò e tornò al suo computer. Aprì di nuo-

vo l’e-mail e la inoltrò all’indirizzo privato di Ralph. Girò la sedia verso la fi nestra e guardò le campane per

la raccolta del vetro e i bidoni dell’immondizia che fi an-cheggiavano il piccolo parcheggio dietro il suo uffi cio. Dritto davanti a lui c’era il sudicio muro posteriore della rosticceria cinese del quartiere, la Tigre d’Oro. Un nome di classe per uno squallido attentato alla salute.

Un giovane cinese con una salopette bianca uscì ar-rancando dalla porta sul retro e gettò un sacco di chissà quale schifezza nel bidone dell’immondizia sotto la fi ne-stra di Leon. Lui arricciò il naso per la puzza di aglio e sentì una morsa allo stomaco. Era lo stesso odore disgu-stoso che emanavano quasi tutti i negozianti della zona e che riempiva il minuscolo uffi cio di Leon ogni volta che si presentavano da lui con la contabilità. La sua ulcera si fece sentire.

«Leon il Riccone» lo chiamava una volta la gente. Lavo-rava sedici ore al giorno e gestiva tutti gli affari importanti. Era un vero giocatore all’epoca, con milioni in banca e una moglie elegante sottobraccio. Ora i suoi vent’anni di

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matrimonio erano fi niti nel cesso, insieme alla reputazio-ne e al conto in banca.

Leon strinse forte gli occhi. Pensare al suo matrimonio gli aveva fatto venire in mente il fi glio, il che era peggio dell’ulcera. Si concentrò sul dolore lancinante alla pancia, cercando di cancellare l’immagine di Richard alla stazio-ne quella mattina. Era la prima volta che lo vedeva da quasi un anno.

Era stato sveglio tutta la notte a giocare a poker e per andare in uffi cio aveva preso il treno, pieno zeppo di pen-dolari che andavano in centro. I loro sguardi disgustati gli avevano detto quello che sapeva già: che aveva gli occhi cerchiati di rosso, che il suo alito era fetido e che i batteri sotto le sue ascelle avevano generato una vera e propria tempesta.

Alla stazione di Blackrock la sua carrozza si era ferma-ta accanto a un capannello di studenti. Aveva cominciato a fi ssarli pigramente dal fi nestrino. A un certo punto era rimasto senza fi ato. Capelli scuri, occhi rotondi, lentiggi-ni simili a chiazze di fango. Richard. I passeggeri davanti a Leon spingevano, ma lui si era fatto largo a gomitate, nel disperato tentativo di vedere il fi glio ancora per un istante. Era una spanna più alto degli altri ragazzi, facile da individuare. Era cresciuto. Leon aveva sentito il petto gonfi arsi. Il ragazzo sarebbe diventato alto come sua ma-dre, non tarchiato come lui.

Leon si era avvicinato alla porta. Il primo degli amici di Richard era salito a spintoni in carrozza, e Leon aveva ri-conosciuto lo stemma del Blackrock College sul maglione. Aveva aggrottato la fronte. Maura non gli aveva mai detto che il fi glio aveva cambiato scuola. D’altra parte era un pezzo che non si parlavano. Si era domandato chi pagasse la retta.

Richard era sulla porta. Leon stava per alzare il brac-cio, pronto ad attirare la sua attenzione. Poi aveva senti-

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to l’accento educato degli amici di Richard. Allo stesso tempo, si era reso conto di avere i vestiti maleodoranti, la giacca a vento macchiata e il volto non rasato. La sua mano aveva tentennato, sospesa a mezz’aria.

«Richard!»Il ragazzo aveva girato la testa di scatto per guardare la

banchina. Leon aveva tirato giù il braccio e aveva sbirciato fuori dal fi nestrino. Un uomo biondo, sulla quarantina, stava correndo verso il treno. Indossava un cappotto di lana scuro e aveva in mano una sacca sportiva rossa. Aveva passato la sacca a Richard e gli aveva arruffato i capelli. Leon aveva vi-sto il largo sorriso che era spuntato sul viso del fi glio, e ave-va sentito una fi tta lancinante allo stomaco, come se avesse ingoiato dei vetri rotti. Piano piano, Leon si era voltato e si era mescolato alla folla fi no a raggiungere l’altro capo della carrozza. E lì era rimasto, nascosto, fi no a quando non ave-va avuto la certezza che il fi glio se ne fosse andato.

Il tintinnio di bottiglie lo fece sobbalzare. Fuori, nel parcheggio, il giovane cinese era tornato, stavolta per sca-gliare barattoli di vetro nell’apposita campana. Leon si sfregò di nuovo il viso e tirò un respiro profondo, cercan-do di sbarazzarsi dell’acidità di stomaco. Il giorno dopo magari si sarebbe dato una ripulita. Magari sarebbe anda-to a trovare Richard.

Guardò l’orologio. Era ora di richiamare Ralphy-Boy. Si schiarì la voce e compose il numero.

«L’hai letta?» chiese appena Ralph rispose.«È uno scherzo di cattivo di gusto?» «Mi hai tolto le parole di bocca.»«Pensi che sia stato io a mandarla? Non voglio averci

niente a che fare.» Sembrava che Ralph avesse la bocca secca.

«Che c’è, Ralph? Hai paura?»«Certo che ho paura, cazzo. Ho molto da perdere io,

mentre tu non hai niente.»

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Leon strinse il telefono più forte. «È grazie a me che otto anni fa non hai perso tutto, non ce lo dimentichiamo, okay?»

Ralph sospirò. «Cosa vuoi di preciso, Leon? Altri soldi?»Bella domanda. All’inizio voleva solo assicurarsi che

non fosse stato Ralph a mandare l’e-mail, ma adesso den-tro di lui stava prendendo forma un’altra idea.

«Hai letto l’e-mail, vero?» disse Leon.«Sì, dice che ce li ha la ragazza. E allora?»«Be’, magari li rivoglio.»«Pensi che te li consegnerà così facilmente? E se si sba-

glia?»«Il Profeta non si è mai sbagliato su niente fi nora» ri-

batté Leon. «Dice che ha le prove.»«Che ti prende? Vuoi farci fi nire tutti e due in prigione?»Leon guardò di nuovo fuori dalla fi nestra. Forse aver

ricevuto notizie dal Profeta non era una cosa tanto brutta, dopotutto. Forse sarebbe stata l’occasione per tornare in pista.

«C’è un tizio che conosco» disse Leon. «L’ho usato al-tre volte. Se ne occuperà lui.»

«Non mi piace.»«Non deve piacerti, Ralphy.»Leon riagganciò sbattendo il ricevitore e guardò di

nuovo fuori. Stavolta non vide i graffi ti sui muri o i bido-ni dell’immondizia straripanti. Vide se stesso, con la bar-ba rasata e dieci chili in meno, seduto con un completo italiano a presiedere un consiglio di amministrazione. Si vide con indosso un elegante cappotto di lana, che inci-tava Richard mentre giocava a rugby nella squadra della scuola. Leon digrignò i denti e strinse i pugni.

Quella ragazza aveva qualcosa che gli apparteneva e lui lo rivoleva indietro.

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«Sheridan Bank, buonasera...»«...non compare fra le sue transazioni, signor Cooke.

Vuole che provi con un altro conto?»L’aria era pervasa dal brusio di circa trenta conversa-

zioni, per lo più voci femminili, che riempivano la stanza come il ronzio di bombi beneducati. Harry avanzò fra le scrivanie, ognuna riparata da divisori blu imbottiti, e con un orecchio ascoltò le ragazze che parlavano al telefono. Aveva anche lei un conto alla Sheridan. Forse dopo que-sta operazione avrebbe dovuto cambiare banca.

C’erano un mucchio di scrivanie vuote, ma Harry ne voleva una in fondo. Raggiunse l’estremità della stanza e si accaparrò una scrivania vuota nell’angolo. Lasciò cadere la borsa sulla sedia e aspettò che la ragazza dal viso tondo seduta alla postazione lì accanto fi nisse la sua telefonata.

«Ci scusi ancora per l’accaduto, signora Hayes. Ora devo salutarla.» La ragazza digitò qualcosa sulla tastiera e fece l’occhiolino a Harry. «Un’altra cliente insoddisfatta.»

Harry sorrise. «Chi non lo è?»«Non da queste parti.»Harry tese la mano. «Sono Catalina. Comincio a lavo-

rare qui oggi pomeriggio.»«Oh, fantastico. Io sono Nadia.» La ragazza le strinse

la mano. Aveva le unghie lunghe, color cremisi, e le dita

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grassottelle, ognuna con un anello d’argento, pollice com-preso.

Harry indicò la scrivania vuota. «Va bene se mi siedo qui?»«Certo, non la usa nessuno.»Harry si sedette e accese il computer. «Credo che non

mi abbiano ancora confi gurata sul sistema. Per caso puoi farmi entrare tu?»

Nadia esitò. «In teoria non dovrei.»“Fai la disinvolta.” «Ah, va bene. Volevo solo dare

un’altra occhiatina al sistema dell’helpdesk, prima che la signora Nagle ritorni dal pranzo.»

Nadia si mordicchiò il labbro inferiore, poi sorrise. «Perché no? Non vogliamo certo che ti trovi impreparata il primo giorno di lavoro, vero?»

Si tolse la cuffi a e la raggiunse, chinandosi per digitare username e password. Harry sentì un profumo che era un misto di Calvin Klein e menta piperita.

«Ecco fatto» disse Nadia.«Grazie, ti devo un favore.»Harry aspettò che Nadia tornasse alla sua scrivania a oc-

cuparsi di una nuova telefonata. Sistemò l’angolazione del monitor in modo tale che nessuno potesse vedere quello che stava facendo e si mise al lavoro. Premette qualche tasto, uscì dall’applicazione dell’helpdesk ed entrò nel sistema operati-vo del computer. Harry scosse la testa con un’espressione quasi sdegnata. Avrebbero dovuto proteggerlo meglio.

Ficcanasò nel computer, insinuandosi in tutti i fi le e le directory, ma era un terminale standard e non aveva alcun segreto da svelare. Cliccò con il mouse e subito ottenne un elenco di tutte le connessioni di rete:

F: \\Giove\shared G: \\Plutone\usersH: \\Marte\systemL: \\Mercurio\backupS: \\Saturno\admin

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Così andava meglio. Era il suo ingresso ai computer centrali della banca.

Harry diede una scorsa alla lista delle macchine con-nesse, cercando di ottenere l’accesso. In alcune poteva entrare direttamente e vedere tutti i fi le, ma nella maggior parte restava bloccata alle prime battute. Spulciò ancora un po’, in cerca di qualcosa da usare. E a un certo punto lo trovò: il fi le con le password di sistema. Lì dentro erano memorizzati nome utente e password di tutti gli apparte-nenti alla rete. Era la chiave per entrare nel sistema. Cliccò due volte con il mouse e cercò di aprire il fi le. Protetto.

Harry si accigliò e controllò l’ora. Il suo cuore accele-rò un tantino i battiti. Era lì già da venti minuti e aveva ancora molta strada da fare. Lasciò perdere il fi le con le password e cominciò a frugare nella rete, scavando a fon-do nel sistema di cartelle e fi utando in ogni angolo. Sapeva cosa stava cercando, doveva essere lì da qualche parte. E di sicuro c’era, nascosta in qualche unità condivisa a di-sposizione di chiunque volesse leggerla: la copia di backup non protetta del fi le con le password.

Harry sentì un formicolio alla nuca. Le succedeva sem-pre quando si introduceva abusivamente in un sistema che in teoria doveva essere sicuro. Aveva voglia di battere le mani sulla scrivania con un rullo di tamburi, ma c’erano un momento e un luogo per tutto.

Aprì il fi le di backup e diede una scorsa al contenuto. I nomi utente erano leggibili, ma le password erano tutte criptate. Harry si guardò intorno. Nadia stava chiacchie-rando con un cliente al telefono, le unghie che ticchetta-vano sulla tastiera.

Harry infi lò una mano nella tasca della giacca e tirò fuori un cd che inserì nel computer. Conteneva un programma per craccare le password, che applicò al fi le di backup. Si chinò su un manuale di informatica e fi nse di sfogliarlo mentre aspettava che il programma facesse il suo lavoro.

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Poteva volerci un po’. Spesso capitava usando un at-tacco a dizionario. Il programma stava esaminando tutto il dizionario, codifi cava ogni parola e cercava una corri-spondenza con le password criptate nel fi le. Dopodiché, avrebbe provato le combinazioni alfanumeriche. Alla fi ne, lei avrebbe avuto tutte le password che le servivano.

Sbirciò di nuovo l’orologio. Le venne la pelle d’oca dietro il collo e si massaggiò la nuca con le dita. Aveva circa dieci minuti prima che tornasse la responsabile, e il programma di decifrazione poteva impiegarne quindici. I tempi erano stretti. Ma in fondo era sempre così nelle effrazioni. Era questo che le rendeva così irresistibili.

Suo padre le aveva sempre detto che avrebbe fi nito col diventare una scassinatrice, sin dal giorno in cui aveva rotto con un mattone la fi nestra della cucina per entrare in casa. Era rimasta chiusa fuori dopo la scuola, ma la sola cosa a cui riusciva a pensare era la scansione delle porte che aveva avviato dal suo computer quella mattina e quel-lo che poteva aver trovato. Più tardi aveva provato a spie-garlo al padre, che camminava con la faccia incredula sui vetri rotti facendoli scricchiolare. Era certa che le avreb-be confi scato il computer, invece le aveva comprato una versione più recente del processore e le aveva regalato un mazzo di chiavi di casa tutto per lei. Agli occhi di Harry, allora undicenne, quel giorno il padre aveva guadagnato un prestigio davvero notevole.

E lei si era guadagnata un nome nuovo, perché era stato allora che il padre aveva iniziato a chiamarla Harry. Certe volte desiderava tanto avere anche lei un esotico nome spagnolo, come quello della sorella. Amaranta era alta e aveva i capelli biondo cenere. Era nata quando la madre di Harry era ancora succube del fascino mezzo irlandese e mezzo spagnolo del marito. Ma quando era nata Harry, ormai i disastri fi nanziari di suo padre li ave-vano costretti ad abbandonare la loro villa e trasferirsi

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in un’angusta casetta a schiera, e il gusto di sua madre in fatto di nomi era scemato. Harry era quella che aveva ereditato gli scuri occhi spagnoli e i riccioli nero-blua-stri del padre, ma a sua madre non aveva fatto né cal-do né freddo. Rifi utando qualsiasi cosa suonasse anche vagamente spagnola, aveva battezzato la fi glia Henriet-ta, come la propria madre, un’affettata donna del Nord dell’Inghilterra.

«Ma quando mai s’è vista una scassinatrice che si chia-ma Henrietta?» aveva dichiarato suo padre dopo l’episo-dio della fi nestra, e da allora aveva insistito per chiamarla Harry. Per lei ormai era quello il suo nome.

Harry controllò il programma di decifrazione. Aveva quasi fi nito. Diede una scorsa alla lista di password deci-frate fi no a quel momento. C’era quella di Nadia. Userna-me «nadiamc», password «diamanti». E quella di Sandra Nagle: «sandran», password «fermezza». Scosse il capo. Niente da fare. Le serviva l’account di un pezzo grosso, uno con un accesso privilegiato.

Ed eccola là, in fondo alla lista. La password dell’am-ministratore di rete: asteroid27. Agitò le punte dei piedi dentro le scarpe. Adesso era come una guardia giurata con il passe-partout dell’intero edifi cio: poteva andare dovunque. Aveva la rete in pugno.

Effettuò l’accesso con la sua nuova identità privilegiata e disabilitò immediatamente il programma di controllo della rete. Ora quello che faceva non poteva essere regi-strato nei log di audit. Era invisibile.

Harry perquisì i server e si tuffò in qualsiasi fi le le sem-brasse interessante. Sgranò gli occhi davanti ad alcuni dei dati a cui ebbe accesso: livello di affi dabilità dei clienti, introiti della banca, retribuzione dei dipendenti. Poté vi-sionare le e-mail di tutti, comprese quelle del presidente.

Passò a un altro database e cercò di dare un senso ai numeri che aveva di fronte. Le dita le si pietrifi carono sul

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mouse quando si rese conto che stava osservando alcu-ne delle informazioni più confi denziali riguardo ai clienti della banca: numeri di conto, codici PIN, dati delle carte di credito, username e password. Il sogno di qualunque hacker, e non erano nemmeno criptate.

Harry fece scorrere i dati sullo schermo. Sarebbe sta-to facilissimo sgraffi gnare un po’ di soldi da quei conti. Nessuno se ne sarebbe mai accorto. Era un fantasma nel sistema, e non lasciava impronte.

«È tornata presto.»Harry lanciò uno sguardo a Nadia, che indicava con la

testa l’altro lato della stanza. Sandra Nagle era sulla porta e consultava degli appunti su un portablocco.

Merda. Doveva muoversi.Harry batté freneticamente sui tasti. Copiò l’elenco di

password craccate sul suo cd e per sicurezza ci trasferì anche i dati dei conti di alcuni clienti con i relativi PIN.

Il computer ci stava mettendo molto a eseguire la copia, e lei alzò lo sguardo per controllare Sandra Nagle. Stava attraversando la stanza e si fermava ogni quattro passi per dare un’occhiata ai vari operatori dell’helpdesk.

Harry sapeva che avrebbe dovuto concludere, sapeva che stava correndo un rischio, ma aveva ancora una cosa da fare. Manovrando il mouse, camuffò uno dei propri fi le e lo nascose in un angolino della rete. Le piaceva la-sciare sempre un biglietto da visita.

La donna avanzava lenta verso di lei, prendendo ap-punti sul blocco. Si fermò a fare qualche domanda a una ragazza seduta a pochi metri da Harry.

Harry cancellò i log degli eventi di sistema per elimina-re ogni possibilità di essere rintracciata. Riattivò il dispo-sitivo di controllo e poi alzò lo sguardo.

Sandra Nagle stava fi ssando proprio lei.Il sudore cominciò a colarle dalle ascelle. Harry sentì

il fruscio del nylon che sfregava contro il nylon mentre

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la donna si avvicinava a passo di carica. Chiuse l’accesso alla rete e visualizzò di nuovo l’applicazione dell’helpdesk proprio nel momento in cui Sandra Nagle raggiunse la sua scrivania.

La donna aveva il respiro affannato. Era così vicina che Harry poté vedere i peli chiari che aveva sul labbro supe-riore.

«Chi è lei, e che cosa crede di fare?»«È lei Sandra Nagle?» Harry si alzò e si mise rapida-

mente la borsa sulla spalla, recuperando il cd e infi lando-selo in tasca. «La stavo aspettando.»

«Che...»Harry le passò accanto sfi orandola e si incamminò a

grandi passi verso la porta, cercando di ignorare il tremo-re alle ginocchia.

«Mi hanno mandata quelli dell’IT per verifi care la sa-lute del vostro sistema» disse. «Avete gravi problemi di virus qui.»

Sandra Nagle era proprio dietro di lei. «Come...»«Non c’è bisogno che cessiate le operazioni subito, ma

nel vostro interesse mi auguro che stiate seguendo le pro-cedure anti-virus della banca.»

Il passo della donna si fece più incerto. Harry si voltò appena.

«Capisco. Senza dubbio avrete notizie dall’IT a tempo debito.»

Spinse uno dei battenti, ma la porta non si aprì. Provò con l’altro. Chiuso.

«Un attimo, chi ha detto di essere?» Sandra Nagle la stava raggiungendo con passo pesante.

“Cazzo.”Harry individuò l’apriporta sulla parete. Lo premette

e sentì uno scatto. Aprì la porta con una spinta e attra-versò la reception di corsa. Melanie la fi ssò con la bocca spalancata.

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Harry uscì nella luce del sole attraverso la porta a vetri e si mise a correre per la strada.

Elettrizzata dall’adrenalina, Harry fece una volata lun-go il canale, le scarpe che schioccavano sul selciato e il sangue che le pulsava in tutto il corpo. Quando fu sicura che nessuno la stava seguendo, rallentò il passo e si ap-poggiò al muro dell’argine per riposarsi.

L’acqua sibilava tra gli alti giunchi vicino alle rive e una brezza leggera le accarezzava il viso. Quando il martellio nel petto si placò, ripescò il telefono dalla borsa e compo-se un numero.

«Pronto, Ian? Sono Harry Martinez della Lúbra Secu-rity. Ho appena terminato il test di penetrazione sul vo-stro sistema.»

«Di già?»«Sì, mi sono introdotta abusivamente e ho preso tutto

quello che mi serviva.»«Gesù. Ehi, ragazzi, non avevamo un dispositivo di al-

larme IDS?»Harry sentì un po’ di trambusto in sottofondo. «Rilas-

sati, Ian, il vostro Intrusion Detection System è a posto. Non sono entrata dall’esterno.»

«Ah no? Ma ci aspettavamo un attacco perimetrale.»«Sì, lo so.» Harry fece una smorfi a. «Scusa.»«Ah, Cristo, Harry.»«Ascolta, un sacco di hackeraggi sono fatti dall’interno.

Dovete proteggervi.»«Davvero?»«Allora, sono entrata attraverso la rete della banca e

sono riuscita ad accedere come amministratore...»«Cosa?»«...e ho trovato i conti correnti dei clienti e i codici PIN.»«Ah, cazzo.»«Diciamo che il vostro sistema di sicurezza interno non

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è un granché. Ma qualche piccola precauzione dovrebbe risolvere il problema. Inserirò qualche raccomandazione nel rapporto.»

«Ma come diavolo hai fatto a entrare?»«Un po’ di ingegneria sociale e una buona dose di fac-

cia tosta. Se può farti sentire meglio, per poco non mi hanno beccata.»

«Non mi fa sentire meglio. Che casino.»«Mi dispiace, Ian. Ho solo pensato di avvertirti prima

che la direzione fi uti qualcosa.»«Be’, grazie, lo apprezzo molto. Ma sono pur sempre

un disastro.»«Non è così male come sembra.» Il telefono di Harry

emise un bip. «Ho lasciato nascosti alcuni strumenti da hacker, tanto per mettere alla prova il vostro anti-virus. Ma possiamo occuparcene in seguito, quando faremo un po’ di pulizia.» Il suo telefono emise un altro bip. «Scusa, Ian, devo andare. Ci sentiamo domani.»

Prese la chiamata in attesa.«Ehilà, Harry, come va con l’intrusione?» Harry sorrise. Era Imogen Brady, un’addetta all’assi-

stenza tecnica della Lúbra Security. Immaginò l’amica se-duta alla sua scrivania, i piedi che a malapena toccavano il pavimento. Imogen sembrava un chihuahua, aveva due occhi enormi su un viso da monella. Era una delle miglio-ri hacker con cui Harry avesse mai lavorato.

«Ho appena fi nito» rispose Harry. «Che succede lì?»«Il signor Soldi a Palate ti cerca.»Si riferiva al loro capo, Dillon Fitzroy. Correva voce che

fosse diventato plurimilionario all’età di ventotto anni du-rante il boom di internet. Era successo nove anni prima. Poco dopo aveva fondato la Lúbra Security e l’aveva fatta crescere fondendola con altre società di software fi nché non era arrivata a essere una delle più grandi aziende del settore.

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«Che cosa vuole?» chiese Harry.«Chi lo sa? Forse un appuntamento.»Harry alzò gli occhi al cielo. Imogen sembrava pure

un fuscello che poteva essere spazzato via dal vento, ma quando si trattava di gossip era un vero mastino.

«Perché non me lo passi?» propose Harry.«Okappa.»Qualche secondo dopo la voce di Dillon era in linea. «Harry? Hai fi nito alla Sheridan?»A giudicare dall’acustica, stava urlando in un apparec-

chio da teleconferenza situato a diversi metri di distanza.«Ho fatto tutto» rispose Harry. «Tranne le scartoffi e.»«Lascia perdere. Ho un altro lavoro per te.»«Adesso?» Stava morendo di fame e dai bar in Baggot

Street arrivava il profumo di caffè e di panini al bacon. Si alzò e si avviò verso il ponte sul canale.

«Sì, adesso. Mandami i dati della Sheridan, farò compi-lare il rapporto da Imogen. Voglio che ti occupi di un’altra valutazione di vulnerabilità.»

Harry sentiva il ticchettio della tastiera in sottofondo. Dillon non perdeva mai l’occasione di fare più cose nello stesso momento. La sua mano sinistra si stava probabil-mente muovendo sul portatile come quella di un pianista, mentre la destra scriveva appunti su un blocchetto.

«Allora, dove stavolta?» domandò Harry. «All’IFSC, e il cliente ha chiesto espressamente di te. Gli

ho detto che sei la migliore.»«Grazie, Dillon, sei un gentiluomo.» Ora sì che era

contenta di aver messo i tacchi a rocchetto. L’Internatio-nal Financial Services Centre era un posto decisamente elegante.

«Chiamami quando hai fi nito» disse Dillon. «Mangia-mo un boccone insieme, così mi aggiorni.»

Harry sgranò gli occhi. Due volte contenta di aver mes-so i tacchi a rocchetto. «Okay.» Prima di mettersi a fanta-

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sticare su che cosa potesse signifi care un boccone, disse: «Allora, dimmi qualcos’altro sul lavoro all’IFSC. Sappiamo che tipo di sistemi usano?».

«No, scoprirai tutto quando li incontrerai...» Dillon fece una pausa. «Se vuoi sapere la mia, penso che voglia-no prima studiarti un po’.»

Harry si fermò di colpo in mezzo al ponte. «Perché dovrebbero?»

Dillon esitò un secondo di troppo. «Senti, forse in fi n dei conti non è un’idea tanto buona. Magari assegnerò l’incarico a Imogen.»

Harry si tappò l’orecchio con una mano per escludere il rumore del traffi co. «Okay, che succede? Chi è il cliente?»

Lo sentì fare un rumore con i denti mentre pensava a come rispondere.

«D’accordo, è stata un’idea stupida» disse. «È la KWC.»L’adrenalina schizzò nell’organismo di Harry come ac-

qua da una tubatura rotta. Raggiunse barcollando il muro dell’argine e si appoggiò con la schiena alla pietra fredda.

KWC. Klein, Webberly e Caulfi eld, una delle banche d’in-vestimento più prestigiose della città, di cui si servivano alcune delle persone e delle aziende più ricche d’Europa. Aveva sede legale a New York, con uffi ci a Londra, Fran-coforte e Tokyo, nonché lì a Dublino.

Era anche la società per la quale aveva lavorato suo padre prima che lo mandassero in galera.