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Linee guida per la gestione del cinghiale con particolare riferimento alle strategie di prevenzione dei danni
Silvano Toso
INFS (Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica)
Ringrazio la Regione Piemonte di
avermi invitato a questo convegno.
Cercherò di dare un’idea delle linee guida
per la gestione del cinghiale che l’Istituto
Nazionale per la Fauna Selvatica ha
messo a punto negli scorsi anni,
consapevole dell’importanza di questa
specie in tutti i sensi, sia in positivo che in
negativo, nel contesto della gestione
faunistico-venatoria italiana.
Certamente il cinghiale rappresenta
una delle specie più problematiche della
fauna selvatica di interesse gestionale
presente nel nostro paese, ma l’analisi
della letteratura e i contatti con gli enti
gestori anche di altri paesi europei ci
dimostrano che il caso italiano non è
unico. Anche in gran parte del resto
d’Europa il cinghiale rappresenta una
specie problematica.
La specie ha un impatto sulle attività
agricole importante, probabilmente il
maggiore nell’ambito delle specie
selvatiche, basti dire che nel caso italiano
oltre l’80% dei rimborsi dei danni causati
da fauna selvatica è attribuito a questa
specie, con punte a volte ancora maggiori
in certe Regioni, minori in altre.
La spesa complessiva media annua a
livello nazionale, da dati del 1999-2000, è
stata di 2.240.000 euro, ma non sembra,
dai dati che stiamo raccogliendo proprio
in questi mesi per l’aggiornamento della
banca dati nazionale sulla gestione degli
ungulati, che il trend sia in diminuzione,
anzi probabilmente è in lieve ulteriore
aumento.
Il costo dato dai rimborsi dei danni e
dalle spese di prevenzione per cinghiale
abbattuto in caccia (questi sono dati
dell’ATC BO31 sul quale noi abbiamo
operato un lavoro lungo, di quasi sette
anni di gestione sperimentale del
cinghiale) è di 285 euro.
Oltre all’impatto sulle attività agricole il
cinghiale determina anche un impatto
sulle zoocenosi, cioè sulle comunità
animali che convivono nelle aree in cui è
presente questa specie; l’impatto è
diretto, perché il cinghiale è anche un
predatore di uova e piccoli di uccelli che
nidificano a terra e di giovani mammiferi,
ma è un impatto anche indiretto perché il
cinghiale normalmente viene cacciato con
forme di caccia contenitiva che genera un 1 ATC BO3: Ambito Territoriale di Caccia Bologna 3
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disturbo durante le braccate. Infine, il
cinghiale determina anche un impatto con
la gestione faunistico-venatoria, in quanto
si genera una monopolizzazione del
territorio da parte delle squadre di caccia,
che costituiscono oggi un blocco sociale
in grado di condizionare gli amministratori
locali, non sempre con decisioni corrette.
Un problema che è complesso non può
essere affrontato in maniera semplice,
ma va affrontato con una strategia
articolata. Questa strategia si basa su
alcuni punti fermi:
− le norme, sia regionali che
regolamenti provinciali;
− gli strumenti di programmazione:
bisogna capire dove si vuole arrivare
e quali sono gli obiettivi e poi agire di
conseguenza, questo sia a livello di
territorio vasto, vedi il caso delle carte
di vocazione faunistica, a livello
regionale oppure a territorio
intermedio, i piani faunistico venatori
provinciali e regionali, ma anche i
piani di assestamento faunistico
nell’ambito di ciascuna unità
territoriale di gestione, siano essi
ATC2, CA3 o aziende faunistiche;
− gli strumenti gestionali sono un altro
elemento importante e vanno dal
monitoraggio dei danni, della
2 ATC: Ambito Territoriale di Caccia 3 CA: Comprensorio Alpinio
prevenzione attuata, delle popolazioni
di cinghiali, dello sforzo di caccia e dei
carnieri - infatti questi sono gli
elementi conoscitivi che ci consentono
di monitorare costantemente non solo
la presenza della specie, ma anche
l’impatto che questa specie ha sia sul
piano economico che su quello
sociale -, al miglioramento delle
tecniche di prelievo che, a mio
giudizio, andrebbe introdotto per far sì
che il prelievo, sia quando si tratta di
controllo, sia quando si tratta di caccia
vera e propria, consenta di arrivare a
un rapporto costi-benefici più
intelligente e più efficiente rispetto a
quanto avviene oggi.
Uno degli elementi chiave per
migliorare la gestione del cinghiale nel
nostro paese è quello di vedere questa
gestione come una gestione integrata tra
Aree Protette e aree in cui invece la
caccia è consentita. È necessario
affrontare il problema più difficile:
superare la sindrome dell’assedio, perché
non v’è dubbio che gestire il cinghiale,
che è una specie ad alta vagilità4, in un
territorio che è un mosaico di aree di
caccia e di Aree Protette, a vario titolo
(sia le Aree Protette definite dalla Legge
394/91, quindi parchi nazionali e
regionali, ma anche le Aree Protette
definite dalla Legge 157/92, quindi le oasi
4 Vagilità: capacità media di spostamento
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di protezione, le zone di ripopolamento e
cattura) è una sfida non piccola.
In pratica succede che l’area utilizzata
da una popolazione di cinghiali
tranquillamente sta a cavallo dei confini
tra Aree Protette e territorio cacciabile e
quindi si creano due fronti (figura 92): il
fronte interno con danni nel parco (i nostri
parchi quasi mai racchiudono ambienti
dove non esistono attività antropiche, in
particolare agricoltura, più o meno
importanti dal punto di vista economico-
sociale), dall’altra c’è un fronte esterno
dei rapporti con la gestione condotta nel
territorio cacciabile: ovviamente il modo in
cui viene gestito il cinghiale nel territorio
cacciabile ha delle ripercussioni non
piccole anche sulla gestione del cinghiale
internamente alle Aree Protette.
Credo, a questo punto, che sia
necessaria una strategia nazionale di
gestione che veda coinvolti diversi
soggetti: Aree Protette, ambiti territoriali
di caccia e aziende faunistico-venatorie e
aree contigue. Sottolineo questo concetto
delle aree contigue che è presente nella
normativa nazionale, nella Legge 394/91,
perché potrebbe avere un’importanza
notevole nel migliorare la gestione anche
di questa specie.
Cosa succede? L’effetto spugna: è
quello dato dal fatto che soprattutto le
Aree Protette istituite ai sensi della Legge
157/92, cioè oasi di protezione e zone di
ripopolamento e cattura, fungono da
area protettaarea utilizzata dalla
popolazione
Il fronte interno: danni nel parcoIl fronte esterno: rapporti con la gestione
condotta nel territorio cacciabile
area protettaarea utilizzata dalla
popolazione
Il fronte interno: danni nel parco
Il fronte interno: danni nel parcoIl fronte esterno: rapporti con la gestione
condotta nel territorio cacciabile
Figura 92: "Sindrome dell’assedio” per le popolazioni di cinghiale
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spugne che attraggono i cinghiali durante
la stagione di caccia dal territorio
cacciabile all’interno delle Aree Protette e
a caccia chiusa rilasciano cinghiali da
questi rifugi temporanei verso il territorio
ove non è più presente la caccia e quindi
non è più presente la pressione data dalla
caccia sulle popolazioni. Una possibile
soluzione di questo problema dovrebbe
essere affrontata anche a livello
normativo a nostro giudizio: noi pensiamo
che, soprattutto per quanto riguarda le
ZRC5 e in parte anche nel caso delle
oasi, sia giunto il momento di affrontare
una modifica dell’articolo 10 comma 4
della Legge 157/92, consentendo il
prelievo del cinghiale con tecniche a
basso impatto ambientale anche
nell’ambito di questi istituti, che in realtà
sono pensati non tanto come istituti di
protezione come i parchi, ma sono
strutture territoriali finalizzate alla
gestione venatoria e spesso destinate
alla produzione naturale di fagiani, di lepri
e di altre specie che risentono in maniera
negativa della pressione esercitata dal
cinghiale, e fungono proprio, nel ciclo
annuale, da zone di rifugio temporaneo
che non consentono di programmare in
maniera credibile la gestione del cinghiale
che, appunto, è una specie con una
vagilità piuttosto elevata.
5 ZRC: Zona di Ripopolamento e Cattura
Per quanto riguarda la funzione delle
aree contigue ai Parchi, sapete che la
Legge 394/91 definisce le aree contigue
come una sorta di fascia cuscinetto tra
l’area protetta vera e propria e il territorio
dove invece si svolge l’attività venatoria.
Purtroppo le aree contigue nel nostro
paese sono rimaste sostanzialmente sulla
carta e non sono mai state tradotte in
gestione pratica. Credo che uno dei
problemi fondamentali per cui le aree
contigue non sono mai partite sia quello
della residenza venatoria: la Legge dice
che la caccia nelle aree contigue è
consentita esclusivamente ai cacciatori
residenti nei Comuni del Parco. Questo è
stato un freno notevole alla costituzione e
alla gestione delle aree contigue e penso
invece che, piuttosto che basare
l’accesso alle aree contigue dal punto di
vista venatorio sulla residenza
anagrafica, sarebbe molto più intelligente
basarlo su una residenza venatoria tale
per cui i cacciatori che cacciano nell’area
contigua, anche se arrivano da Comuni
esterni al Parco, caccino secondo un
regolamento che sia finalizzato alle
precipue funzioni dell’area contigua
stessa. Penso che le aree contigue
potrebbero in questo senso avere una
funzione notevole di sperimentazione e di
crescita culturale di nuove forme di
gestione più avanzate, perché, se
analizzate bene la norma, le aree
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contigue possono gestire anche in
maniera del tutto innovativa rispetto a
diverse prescrizioni di legge a cui invece
gli ATC o gli stessi Parchi devono invece
sottostare. Quindi è un’occasione
mancata che andrebbe invece ripresa in
maniera seria.
L’approccio generale per una gestione
del cinghiale dovrebbe essere quella di
una gestione flessibile che tiene conto del
contesto ambientale ed umano. Il
cinghiale è una delle specie più flessibili
che conosciamo. Non accetta un
approccio rigido alla gestione. E’
necessario adottare una gestione
“adattativa” che tiene conto
dell’esperienza pregressa, dei fatti positivi
e degli errori commessi e continuamente
si adatta in maniera rapida all’evolvere
delle popolazioni e degli impatti che
queste popolazioni hanno sulle varie
risorse umane, vuoi l’agricoltura, vuoi, più
in generale, la società umana che
condivide il territorio occupato dai
cinghiali.
La gestione, appunto, deve essere
adattativa e l’obiettivo generale,
contrariamente a quanto si sente dire
spesso e si legge, non è tanto, in astratto,
la riduzione delle popolazioni, ma è la
riduzione dei problemi. Spesso le due
cose non sono legate in maniera
assolutamente univoca e un esame
critico della situazione attuale del nostro
paese ci può far dire, credo, che il
cinghiale non merita la gestione a cui
viene sottoposto, una gestione
abbastanza schizofrenica.
Infine vi è la necessità di supportare la
gestione con una buona ricerca
applicabile ed applicata. Sottolineo
applicata perché purtroppo, anche sulla
nostra pelle, abbiamo vissuto esperienze
di una ricerca estremamente calata nella
realtà gestionale, tesa a risolvere i
problemi di gestione del cinghiale, che ha
dimostrato di essere una soluzione
vincente anche sperimentalmente, ma
che poi, per ragioni di altra natura, non è
stata poi applicata successivamente.
Quindi si deve chiudere una sorta di
cerchio virtuoso che partendo dagli
obiettivi attraverso la gestione ne fa una
verifica e ritorna agli obiettivi.
Per quanto concerne le Aree Protette
va detto che l’Istituto, su commissione del
Ministero dell’Ambiente, aveva alcuni
anni fa prodotto delle linee guida per la
gestione del cinghiale nelle Aree protette6
e i principi di queste linee guida, devo
dire, sono stati capiti, accettati , in larga
misura applicati dalle Aree protette: c’è
stato un fiorire di esperienze in anni
recenti sulla gestione del cinghiale nei
6 Linee guida per la gestione del cinghiale nelle aree protette - S. Toso, L. Pedrotti - Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, Ist. Naz. per la Fauna Selvatica “Alessandro Chigi” - Quaderni di Conservazione della Natura - 2001
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Parchi che hanno avuto nelle linee guida
un supporto, credo, abbastanza
importante. Tuttavia, non ovunque la
situazione, anche nell’ambito delle Aree
protette è così positiva: in diversi casi si
brancola ancora un po’ nel buio e in una
situazione criticabile dal punto di vista
soprattutto dell’approccio.
Le tecniche di prelievo nelle Aree
protette hanno visto la cattura con
chiusini e trappole come un elemento
importante, che ha dimostrato di essere
una tecnica di prelievo molto efficace,
cioè con un ottimo rapporto costi-benefici,
e che nella maggior parte dei contesti
ambientali funziona molto bene. Le altre
tecniche possono svolgere un ruolo di
affiancamento delle catture più o meno
importante in funzione di fattori
ambientali, temporali e di dimensione
umana. Cosa intendo con questo? Che
alcuni Parchi hanno preferito adottare
una strategia che tenesse conto sia delle
tecniche di cattura, ma anche
dell’abbattimento da parte di cacciatori
abilitati e coordinati dal Parco stesso,
seguendo per altro il dettato di un
emendamento alla 394 che prevede che
gli abbattimenti tesi a compensare
squilibri nelle popolazioni all’interno dei
Parchi debbano vedere come protagonisti
prioritari cacciatori locali. Questo, a mio
modo di vedere, se non si parte da una
visione ideologica delle cose, non è
scandaloso di per sè, semplicemente va
affrontato in maniera chiara e con onestà
intellettuale, dicendo che le trappole
funzionano altrettanto bene o forse
meglio, tuttavia, per ragioni sociali, si
preferisce utilizzare un altro sistema
oppure affiancarlo alle catture.
Nelle Aree protette diversi aspetti
tecnici dei prelievi, come catture e
abbattimenti, possono e debbono essere
migliorati attraverso regolamenti,
protocolli omogenei per la raccolta dei
dati, filiere di utilizzo degli animali
prelevati, corsi per operatori e quant’altro.
Chiaramente ci sono ancora molte cose
da fare e da perfezionare, anche
nell’ambito delle Aree protette, per quanto
riguarda la gestione del cinghiale, tant’è
vero che il Ministero dell’Ambiente ha
commissionato all’Istituto, proprio
recentissimamente, un riaggiornamento
delle linee guida su cui stiamo proprio in
questi mesi operando e penso che alla
fine di quest’anno, massimo inizio del
2007, usciranno le nuove linee guida che
terranno proprio conto dell’esperienza
maturata dagli stessi Parchi in questi
anni.
Le informazioni derivanti dai capi
prelevati debbono essere utilizzate per
monitorare la dinamica delle popolazioni:
il cinghiale è una specie assai mobile,
cioè si presta assai poco a stime
quantitative attraverso il contatto diretto
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con gli animali, mentre le informazioni
che si possono ottenere dai capi abbattuti
o catturati sono preziose e ci possono
dare una buona idea se gli standard di
raccolta delle informazioni e di
elaborazione dei dati sono corrette sul
trend e sull’evoluzione delle popolazioni
locali di questa specie.
Per la gestione venatoria del cinghiale
si può far riferimento ad una nostra
specifica pubblicazione, che è stata
diffusa a tutte le amministrazioni regionali
e provinciali italiane, che ha tenuto conto
proprio di quel lavoro di studio applicato a
un’ATC del bolognese e che è, credo,
riuscito a dare una idea di come può
essere implementata nella pratica una
strategia solistica, complessiva di
gestione di questa specie.
Gli strumenti di programmazione nel
territorio cacciabile devono partire da
scelte che fondamentalmente sono
politiche, nel senso più neutro della
parola; vanno definite linee rosse e
territori a densità agricolo-forestale
tendente a zero, quindi aree di rimozione:
non è pensabile accettare la presenza di
popolazioni di cinghiale in aree in cui il
90% del territorio agricolo-forestale è
interessato da coltivazioni di importanza
economica, come seminativi o frutteti. Ma
anche nel territorio dove le popolazioni di
cinghiali sono accettabili come presenza,
in quanto l’agricoltura non è così
pressantemente presente, vanno tuttavia
definite densità obiettivo, quindi un livello
di danni accettabile per ciascuna unità di
gestione e ciascun distretto di gestione.
Per ottenere questi obiettivi è necessario
attuare prelievi nelle zone di rimozione,
che vanno operati da soggetti non
appartenenti alle squadre di caccia,
altrimenti si realizza una sorta di loop, di
circolo vizioso che ha ampiamente
dimostrato di non raggiungere gli obiettivi
che ci si prefigge.
Va favorita una responsabilizzazione
globale di ciascuna squadra rispetto alla
gestione del cinghiale nel proprio distretto
di caccia e questo è possibile solo se
esiste una diretta responsabilizzazione su
un preciso territorio: la rotazione delle
squadre è un elemento che contrasta
fortemente con questo obiettivo, che
invece è molto importante.
Gli abbattimenti più la prevenzione
devono dare come risultato il
mantenimento della densità obiettivo: in
pratica si prova con una pressione
venatoria stabilita a priori, anche al buio;
se volete, inizialmente, si verifica quanto
quella pressione venatoria è riuscita a
limitare o meno la quantità di danni
presenti nel distretto di gestione e, sulla
base delle informazioni derivanti dai capi
abbattuti, soprattutto dall’esame della
struttura di popolazione tramite le
mandibole degli animali abbattuti e gli
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uteri delle femmine per verificare la
produttività annuale, si stabilisce il piano
di prelievo successivo.
Solo in questo modo è possibile in
maniera adattativa raggiungere gli
obiettivi di un corretto rapporto tra
popolazione di cinghiale e altri usi del
territorio.
L’altra chiave perché questa strategia
stia in piedi è che i danni che eccedono il
tetto massimo stabilito devono essere
pagati dalle squadre di caccia. So che la
cosa non è particolarmente gradita dal
mondo venatorio, ma è l’unica soluzione
che, dove è stata applicata, ha dimostrato
di riuscire a contenere questo tipo di
problema, cioè bisogna spezzare il circolo
vizioso che si è purtroppo innestato in
molte aree del Paese. Carniere elevato
significa densità elevata; carnieri elevati
per molti anni non possono sussistere se
non c’è una elevata densità di cinghiali.
Come fa il mondo venatorio interessato al
cinghiale per mantenere questo tipo di
situazione? Sospende il prelievo anche
prima della fine della stagione venatoria
quando ritiene che ci siano ormai pochi
cinghiali, mantiene delle sorte di rifugi,
anche se non hanno i cartelli, dove a
caccia non ci si va mai, praticamente, e
fungono da serbatoi che rilasciano i
cinghiali successivamente e, infine,
esistono ancora in varia misura, in certe
aree meno, in altre di più, immissioni
abusive e addirittura in qualche caso (sto
parlando di alcune Province dell’Italia
meridionale) legali. È chiaro che
prevedere immissioni di una specie che
ha mediamente il 180% di incremento
utile all’anno e rappresenta un problema
gestionale notevole dà un po’ il senso
della schizofrenia della gestione
faunistico-venatoria che in questo Paese
molto spesso si realizza.
Gli strumenti gestionali partono dal
monitoraggio. I dati relativi a danni e
prevenzione andrebbero georeferenziati e
informatizzati, per quanto riguarda
tipologia, localizzazione e costi; ma poi,
ovviamente, va monitorata la
popolazione. Parlare di censimenti di
cinghiali è abbastanza assurdo,
soprattutto su territori vasti; è possibile
però avere delle stime relative di
abbondanza attraverso due elementi: il
rapporto tra carnieri conseguiti e sforzo di
caccia, e la raccolta e l’esame accurato
delle mandibole e degli uteri dei capi
abbattuti.
La gestione deve essere
continuamente adattativa e si nutre di
queste fonti di informazione. Deve essere
adattativa perché se noi siamo
abbastanza ben in grado di prevedere i
ritmi di crescita e i trend di una
popolazione di caprioli o di cervi, non
siamo affatto in grado di fare questo nel
caso di una popolazione di cinghiale, che
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per sua natura è soggetta ad amplissime
fluttuazioni interannuali.
Questa strategia però non può essere
attuata se non si realizza anche una
collaborazione del mondo venatorio
interessato al cinghiale. Non è pensabile
un muro contro muro; è necessaria
un’opera di convincimento, di lavoro
insieme per fare in modo che una
strategia di questo tipo possa essere non
solo accettata, ma anche
sostanzialmente supportata dal mondo
venatorio, perché è chiaro che il rapporto
tra carniere di sforzo di caccia e
mandibole utili non si possono ottenere
se non attraverso la collaborazione dei
fruitori delle popolazioni di cinghiale.
Nel nostro lavoro, di cui ho accennato
in precedenza, sono anche mostrate le
schede di raccolta dei dati, abbiamo
mostrato esempi di trend dei danni in
rapporto alle diverse tipologie di istituto in
cui i cinghiali erano presenti nell’ATC
sperimentale in cui abbiamo lavorato.
Evidentemente va fatta un’analisi
accurata dell’uso del suolo a livello di
unità gestionali, che poi si deve tradurre
nella definizione di aree a vocazionalità
differenziata. Nel caso, ad esempio,
dell’ATC BO3 (figura 93) c’era un’area
non vocata, un’area quindi di rimozione
(in rosso), un’area a minore vocazionalità
(in giallo) e un’area a maggiore
vocazionalità (in bianco), in cui le densità
obiettivo potevano essere maggiori
rispetto a quelle della fascia intermedia;
da questo si può arrivare alla densità
obiettivo, quindi alla densità di carniere o
al livello di danni accettabile nell’ambito di
ciascuna unità di gestione.
Nell’esempio in figura 94 si vede l’ATC
BO3 con una zona di rimozione (in
bianco), mentre una fascia intermedia
definisce carnieri di 3-5 capi / 100 ha; le
aree invece meno problematiche, in
quanto meno interessate da
un’agricoltura produttiva, possono anche
prevedere carnieri di 6-10 capi / 100 ha.
Area non vocata (rimozione)
Area a minore vocazionalità
Area a maggiore vocazionalità
Area non vocata (rimozione)
Area a minore vocazionalità
Area a maggiore vocazionalità
Figura 93: Aree a vocazionalità differenziata (ATC BO3)
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Infine è importante migliorare le
tecniche di prelievo, come vi dicevo,
anche diversificando le tecniche. Il
cinghiale in Europa si caccia in tanti modi
diversi, mentre in Italia la caccia al
cinghiale è quasi completamente
monopolizzata dalla braccata, che non è
l’unica forma possibile ed è quella che
probabilmente ha anche il rapporto costi-
benefici in termini di sforzo di caccia e
carniere raggiungibile meno interessante;
può essere affiancata dalla girata e dalla
caccia selettiva.
La stessa braccata può essere
sostanzialmente migliorata attraverso la
tracciatura preventiva degli animali: non
ha molto senso slegare i cani in un’area
in cui non si sa se i cinghiali ci sono o no,
in quanto ciò rappresenta un dispendio di
energie e un disturbo indesiderabile.
Va fatto molto lavoro sui cani,
privilegiando la qualità rispetto al numero,
quindi attraverso la selezione e
l’addestramento, e vanno privilegiate
mute omogenee per razza e soprattutto
per modalità di lavoro.
Infine vanno stabilite regole di prelievo
stringenti per mantenere una struttura di
popolazione accettabile: ricordo che le
analisi dei carnieri operate nel nostro
Paese ci dicono che nelle popolazioni
cacciate è difficilissimo trovare animali
che superino i 2-3 anni; abbiamo, per
effetto dell’attività venatoria, un
ringiovanimento artificiale delle
popolazioni che chiaramente poi ha
anche delle ripercussioni sulla struttura di
popolazione, sul tipo di incremento e sulla
dannosità delle popolazioni nei confronti
delle attività agricole.
Riassumendo lo schema è il seguente:
1. definizione degli obiettivi;
2. acquisizione delle conoscenze
sull’unità di gestione;
3. valutazione delle potenzialità socio-
ecologiche del territorio;
4. valutazione del conflitto sociale;
5. raccolta dei dati su danni e
prevenzione, sulla popolazione e
sull’attività di prelievo;
6. azioni per la riduzione del conflitto
sociale;
Zona di rimozione3-5 capi/100 ha6-10 capi/100 ha
Zona di rimozione3-5 capi/100 ha6-10 capi/100 ha
Zona di rimozione3-5 capi/100 ha6-10 capi/100 ha
Figura 94: Densità obiettivo (carniere/livello di
danni) per distretto (ATC BO3)
95
7. organizzazione delle attività gestionali
sulla base di queste informazioni;
8. analisi dei dati;
9. verifica del raggiungimento degli
obiettivi;
10. se è il caso, ridefinizione degli stessi
obiettivi.
Vi ringrazio molto per l’attenzione.
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I cervidi e il patrimonio agro-forestale: esempi d’impatto nel sud-est della Polonia
Jakub Borkowski
Forest Research Institute, Section of Forest Ecology and Wildlife Management
Buon pomeriggio a tutti.
Vorrei partire con una battuta di un
famoso ricercatore che ha partecipato al
convegno sulla biologia forestale che si è
tenuto diverso tempo fa’. Si parlava di un
palloncino che era volato nel cielo e che
si era perso; non c’era nessuno a cui
potesse chiedere informazioni e poi
finalmente incontrò una persona che
camminava lì vicino, quindi si fermò e
chiese: ”Mi scusi signore, dove mi trovo?”
(vorrei ricordare che, all’epoca in cui è
avvenuto il convegno, non esisteva
ancora il GPS) e il signore rispose: “Sei in
Montana”, “Ma io ho bisogno delle
coordinate precise”, “Allora devi rivolgerti
a qualcuno che abbia le conoscenze
adatte, a qualcuno di esperto”, “Ma mi
sembra che lei sia un ricercatore: lo
capisco dal fatto che lei mi ha dato delle
informazioni assolutamente inutili!”.
Questo per dirvi come l’attività del
ricercatore, e quindi l’attività di gestione
forestale, spesso e volentieri è molto
complessa e non si riescono a dare le
risposte giuste, ma io credo che l’attività
che noi svolgiamo sia molto importante.
Io mi sento molto vicino alle attività di
gestione forestale, che significano non
soltanto mettere in pratica la teoria ma,
soprattutto, avere la possibilità di attuare
nella realtà le idee che sono alla base
della sostenibilità e tutto ciò che è
necessario per la protezione e la
prevenzione.
L’argomento di cui vorrei parlare oggi
riguarda i fattori che influenzano e
contribuiscono ai danni da cervo su pino
silvestre nella Polonia sud-occidentale,
zona in cui nel 1992 un incendio
vastissimo colpì ben 10.000 ettari. Si
trattò quindi di una superficie molto vasta,
come non si era mai verificato in tutta
Europa, per cui l’esperienza che riguarda
quest’area è notevolmente importante,
soprattutto per quanto concerne il
rapporto con la fauna selvatica, in
particolare quella costituita dai cervi.
Altro motivo per cui quest’area è
particolarmente importante è che i danni
provocati da quest’incendio non sono mai
stati esaminati in Europa fino ad ora, per
cui ci può fornire diversi elementi
interessanti in proposito. Ci sono alcuni
studi che sono stati effettuati negli Stati
uniti, ma credo che comunque le
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caratteristiche di quei territori siano
diverse dalle nostre. Forse in Europa
esiste solo uno studio di questo genere.
Tra gli impatti della fauna selvatica
sulla vegetazione forestale vi è lo
scortecciamento, un’abitudine tipica del
cervo rosso, sia dei maschi, sia delle
femmine, che va ad influenzare
soprattutto il pino silvestre; questa infatti
è una delle specie di alberi più diffuse in
Polonia e in Europa, motivo per cui la
fauna selvatica, ed in particolare i cervi
rossi, mangiano la corteccia, soprattutto
nei periodi invernali quando non riescono
a trovare altre risorse.
Nella foto 95 si vede un paesaggio
piuttosto comune nella nostra zona.
L’innevamento dura per diverso tempo,
per cui lo scortecciamento è rilevante,
rappresentando la corteccia una risorsa
fondamentale di cibo per la fauna;
ovviamente questo comportamento si
tramuta in un problema non indifferente
per la gestione dell’area forestale. Non
solo il pino silvestre, ma a volte anche le
querce vengono private della corteccia
dagli animali.
Figura 95: Alberi di pino silvestre con evidenti
scortecciature da cervo rosso
Ci sono diverse zone colpite da questo
problema, anche foreste oramai piuttosto
antiche, come ad esempio popolamenti
con vecchie querce, che sono riuscite a
sopravvivere all’incendio.
In queste zone si possono riscontrare
tre tipi di habitat principale; vi sono due
diversi tipi di boschi di pino: in un caso si
tratta di rimboschimenti, quindi di
formazioni di origine artificiale, e in un
altro caso invece di rinnovazione
naturale; abbiamo inoltre alcuni casi che
riguardano boschi di betulle. Sebbene la
betulla sia stata impiantata più di recente,
tuttavia cresce più rapidamente rispetto ai
pini silvestri.
Lo studio dei danni da
scortecciamento, che è stato effettuato
tra il 1999 e il 2000, ovvero 6-7 anni dopo
il grande incendio, si era posto due
obiettivi principali. Il primo obiettivo è
stato quello di confrontare i danni nei
rimboschimenti rispetto a quelli nelle
foreste con rinnovazione naturale; a
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questo riguardo si può notare come nelle
esperienze americane dopo un incendio
si trovi una grande quantità di materiale
bruciato e quindi chi si occupa di gestione
forestale riesce a trovare una zona di
studio molto interessante per la presenza
di diversi animali, anche in numero
elevato; l’affermarsi della rinnovazione
vegetale in questo caso è pressoché
impossibile.
Un altro obiettivo dello studio è stato
quello di verificare se le condizioni di
sicurezza offerte dai ripari, che dipendono
dall’età del rimboschimento, influenzino
l’intensità dei danni e soprattutto, quindi,
considerare se la densità abbia
importanza oppure no; quindi si è voluto
cercare di capire, sebbene fino ad ora si
siano effettuati diversi studi soprattutto
sui pini silvestri, se l’entità del danno
dipenda dalla densità degli alberi e se
l’età dell’albero sia collegata a queste
azioni di scortecciamento. E’ stato infatti
rilevato che spesso i cervi vanno a
mangiare la corteccia che è più tenera,
quindi l’età dell’albero riveste una certa
importanza.
Abbiamo cercato di capire in che modo
l’altezza dell’albero effettivamente possa
influenzare la tendenza allo
scortecciamento da parte di questi
animali e soprattutto se esistano risorse
alternative importanti per la fauna
selvatica. Abbiamo considerato quindi
quella che è una risorsa fondamentale,
ovvero il cibo, e il riparo che viene fornito
dagli alberi a questa fauna selvatica.
Abbiamo constatato che, effettivamente,
l’altezza gioca un ruolo fondamentale,
perché quando viene superato un certo
livello la corteccia si indurisce, quindi non
viene più mangiata dagli animali e gli
alberi forniscono, allo stesso tempo,
riparo. Ci sono buone ragioni per credere
che l’altezza degli alberi potrebbe essere
molto importante per la valutazione dei
livelli di scortecciamento. Nel grafico in
figura 96 si può vedere la densità del
gruppo campione di cervi rossi nelle
formazioni a betulla e a pino silvestre.
Figura 96: Densità del gruppo campione di cervi
rossi nelle formazioni a pino silvestre e a betulla
Nel primo anno dello studio, ovvero nel
1999 (lo studio della densità degli animali
è stato condotto per più anni e non per il
solo periodo 1999–2000 citato in
precedenza), abbiamo rilevato dei dati
contrari rispetto a quelle che erano le
0
20
40
60
80
1997 1998 1999 2000
Npe
llet g
roup
s/1
km * *** ns ns
Pino silvestre Betulla
0
20
40
60
80
1997 1998 1999 2000
Npe
llet g
roup
s/1
km * *** ns ns
Pino silvestre Betulla
99
aspettative iniziali, perché la densità di
cervi rossi era inferiore nelle zone
bruciate rispetto a quelle intatte; questo
probabilmente era dovuto al fatto che, nel
corso del primo anno, gli alberi presenti
nelle zone bruciate erano piuttosto bassi
e non riuscivano a costituire un riparo
adatto per i cervi ma, nel momento in cui
gli alberi sono cresciuti, hanno assunto
un’attrattiva molto maggiore e quindi sono
stati apprezzati di più dalla fauna
selvatica locale. Ecco perché abbiamo
capito quanto potesse essere importante
l’altezza degli alberi nel processo di
scortecciamento.
Abbiamo quindi confrontato betulle e
pini silvestri; le betulle, come detto in
precedenza, crescono più velocemente e,
di conseguenza, i pini silvestri, che erano
più bassi, venivano utilizzati di meno. Nel
1999–2000 la differenza tra le formazioni
a pino silvestre e quelle a betulle era
notevole. Quindi abbiamo analizzato il
processo di crescita dei pini silvestri e ci
siamo accorti che c’era un rapporto molto
stretto tra lo scortecciamento provocato
dai cervi rossi e l’altezza degli alberelli di
pino silvestre.
Nel grafico in figura 97 si vede
l’intensità di scortecciamento a seconda
della zona di rinnovazione e si può
vedere come lo scortecciamento nelle
zone bruciate (in rosso) fosse inferiore
rispetto alle zone non bruciate (in blu),
molto probabilmente perché la
disponibilità e l’accessibilità alla corteccia
era migliore in queste zone, mentre nelle
altre gli animali non riuscivano ad avere
un accesso facile per alimentarsi.
Figura 97: Densità del gruppo campione di
cervi rossi nelle formazioni bruciate e non bruciate
Nella tabella 1 possiamo vedere altri
risultati molto significativi, ovvero che non
si è rilevata nessuna differenza nel livello
6.1 6.92000 9.7 8.81999
Artificial regenerationNatural regeneration Year Burned area
23 Unburned forest
Tabella 1: Intensità di scortecciamento in funzione dell’area e del tipo di rinnovazione
010203040506070
1997 1998 1999 2000
Npe
llet g
roup
s/1
km * ns ns ns
Zone bruciate Zone non bruciate
010203040506070
1997 1998 1999 2000
Npe
llet g
roup
s/1
km * ns ns ns
Zone bruciate Zone non bruciate
100
di scortecciamento tra le zone
rimboschite e quelle con rinnovazione
naturale degli alberi, per lo meno nel
secondo anno di studio.
L’età del pino silvestre è un altro
fattore molto importante per determinare
l’intensità di scortecciamento. Nel primo
anno dello studio era ovvio che, se i pini
erano più alti, i danni da scortecciamento
sarebbero stati superiori; però, nel
secondo anno dello studio, si è verificato
che all’inizio si manteneva la stessa
tendenza, ma poi, nel momento in cui il
pino cresceva, non c’era un aumento dei
danni, per le ragioni descritte in
precedenza.
Per quanto riguarda la densità di
alberi, ci si potrebbe aspettare che questa
possa essere un fattore importante per
l’intensità dei danni; ad esempio, è molto
più facile che vi siano dei danni nel
momento in cui l’accesso da parte della
fauna selvatica alle piante risulta più
semplice; tuttavia, non esiste
effettivamente un rapporto tra la densità
degli alberi e l’intensità di
scortecciamento. Avremo comunque
modo di approfondire questo aspetto in
seguito.
Nel grafico in figura 98 si mostra il
rapporto tra le zone a rimboschimento
artificiale e quelle a rinnovazione
naturale, dove di nuovo si nota una
differenza dovuta all’età degli alberi: quelli
che nel 2000 avevano 6 anni
dimostravano un forte collegamento con
l’intensità di scortecciamento e di
conseguenza con la densità degli alberi.
Figura 98: Intensità dei danni da
scortecciamento nei rimboschimenti artificiali in
relazione alla loro età
Una parte molto interessante dello
studio riguarda i dati quantitativi sul
rapporto tra l’altezza degli alberi e
l’intensità di scortecciamento. Nelle zone
a rinnovazione naturale si è registrata
una correlazione notevole tra l’altezza
degli alberi e l’intensità di
scortecciamento, soprattutto nel primo
1999
Pre-thicket age (years)
Deb
arki
ng(%
)5 6 7 8
0
10
20
30
405 - 6 p>0,05
6 - 7 p>0,05
5 - 7 p<0,001(5+6+7) - 8 each case
p<0,001
1999
Pre-thicket age (years)
Deb
arki
ng(%
)5 6 7 8
0
10
20
30
405 - 6 p>0,05
6 - 7 p>0,05
5 - 7 p<0,001(5+6+7) - 8 each case
p<0,001
5 6 7 80
10
20
30
405 - 6 p>0,05
6 - 7 p>0,05
5 - 7 p<0,001(5+6+7) - 8 each case
p<0,001
0
10
20
30
405 - 6 p>0,05
6 - 7 p>0,05
5 - 7 p<0,001(5+6+7) - 8 each case
p<0,001
2000
Pre-thicket age (years)
Deb
arki
ng(%
)
0
5
10
15
20
6 7 8 9
6-7 p>0,05; 6-8 p<0,016-9 p<0,01; 7-8 p<0,058-9 p>0,05
2000
Pre-thicket age (years)
Deb
arki
ng(%
)
0
5
10
15
20
6 7 8 9
6-7 p>0,05; 6-8 p<0,016-9 p<0,01; 7-8 p<0,058-9 p>0,05
0
5
10
15
20
6 7 8 9
6-7 p>0,05; 6-8 p<0,016-9 p<0,01; 7-8 p<0,058-9 p>0,05
101
anno di studio; purtroppo però i dati
raccolti non erano sufficienti per diventare
significativi nell’anno successivo.
Il grafico in figura 99 riguarda l’altezza
degli alberi e l’intensità dello
scortecciamento e si è potuto verificare
ulteriormente come l’altezza degli alberi
giochi un ruolo fondamentale. In quasi
tutte le classi di età, nel corso del primo
anno di studio, il rapporto è sempre stato
molto significativo, mentre nel 2000
questo rapporto è stato significativo solo
per gli alberi più giovani per poi ridursi nel
momento in cui l’altezza è aumentata.
Quindi le conclusioni che possiamo
trarre da questi dati sono, innanzitutto,
che la percentuale di scortecciamento per
i pini a rinnovazione naturale è molto
simile a quella degli alberi da
rimboschimento artificiale.
In secondo luogo, la densità degli
alberi non è un fattore così importante
nell’influenzare l’intensità dello
scortecciamento né nelle zone a
rimboschimento artificiale né in quelle a
rinnovazione naturale.
Inoltre, le condizioni di riparo e di
sicurezza offerte agli animali influenzano
notevolmente l’intensità dello
scortecciamento; il rapporto, però, arriva
solo fino a un certo punto: nel momento
in cui si supera l’altezza di 180 cm questo
stretto legame scompare
automaticamente. Infatti, siccome gli
animali si sentono più al sicuro al di sotto
delle piante più alte, lo scortecciamento
finisce perché tendono a considerare quei
luoghi come zone di riparo. Quindi, nel
momento in cui l’altezza dell’albero
supera un determinato livello, la corteccia
non viene più danneggiata ma gli alberi
vengono considerati come degli utili ripari
per la sicurezza del cervo rosso.
1999RS=0,44, n=34, p<0,05
Mean height 1.5m
0
5
10
15
20
25
30
35
40
1,2 1,4 1,6 1,8 2 2,2Tree height
Deb
arki
ng(%
)
1999RS=0,44, n=34, p<0,05
Mean height 1.5m
0
5
10
15
20
25
30
35
40
1,2 1,4 1,6 1,8 2 2,2Tree height
Deb
arki
ng(%
)2000
RS=0,20, n=35, p>0,05Mean height 1.8m
0
5
10
15
20
25
1 1,5 2 2,5 3Tree height
Deb
arki
ng(%
)2000
RS=0,20, n=35, p>0,05Mean height 1.8m
0
5
10
15
20
25
1 1,5 2 2,5 3Tree height
Deb
arki
ng(%
)
Figura 99: Relazione tra altezza degli alberi e intensità dei danni da scortecciamento nelle
foreste a rinnovazione naturale
102
Per quanto riguarda le implicazioni
relative alla gestione forestale, la
rigenerazione naturale deve essere
sostenuta e promossa il più possibile,
vista l’intensità dello scortecciamento e la
totale assenza di differenze tra le zone
rivegetate artificialmente e quelle no.
Quello che si è potuto verificare è però
come certe “attività” naturali siano più
intense nelle zone a rinnovamento
naturale, rispetto a quelle dove il
rimboschimento è stato effettuato
dall’uomo.
Inoltre, questo sarebbe il modo più
economico per proteggere le foreste dallo
scortecciamento, in quanto non c’è
bisogno di usare strutture artificiali, né di
creare dei ripari artificiali, perché con la
rinnovazione naturale si forniscono sia il
cibo che il riparo per gli animali. Questo
significa che gli addetti alla gestione delle
aree boscate hanno un minore impegno
lavorativo, da questo punto di vista.
Bisogna seguire il flusso naturale delle
foreste.
Da un lato i cervi vengono considerati
come l’ostacolo principale allo sviluppo
della vegetazione forestale, ma
potrebbero essere invece usati proprio
per ridurre e prevenire i danni.
Unitamente a questo, bisogna
effettuare le operazioni di pulizia intorno
agli alberelli il più tardi possibile, in
maniera da poter sfruttare al massimo la
rinnovazione naturale per poi scegliere in
seguito quelle che sono le zone che
richiedono effettivamente una pulizia a
seconda della densità degli alberi. Quindi,
quando la foresta è molto giovane,
bisogna sì effettuare qualche operazione
di pulizia, togliendo alcuni individui, ma
senza eccedere: ritardando un po’ il
diradamento avremo la possibilità di
avere più alberi che ci consentiranno le
attività successive, perché solo con un
certo numero di piante che effettivamente
siano soggette allo scortecciamento
riusciremo ad avere un’azione più
efficace in futuro, limitandoci a rimuovere
solo gli alberi soggetti a scortecciamento
e la cui qualità potrebbe essere inferiore
e, quindi, influenzare negativamente le
attività successive.
Inoltre, la percentuale degli alberi
protetti dallo scortecciamento dovrebbe
essere aumentata insieme ad un
aumento dell’altezza degli impianti, ma
solo fino ad un massimo di 180 cm,
cercando il più possibile, quindi, di
mantenere un livello di protezione.
Nella foto 100 si vede un esempio di
come possiamo proteggere gli alberi dallo
scortecciamento: è possibile utilizzare dei
ripari plastificati installati direttamente
sulle piante (sono protezioni piuttosto
flessibili, quindi si adattano allo sviluppo
dell’albero).
103
Figura 100: Sistema di protezione degli alberi
dallo scortecciamento
In Polonia sta diventando sempre più
comune l’adozione delle recinzioni (foto
101); inizialmente, nel primo anno,
l’utilizzo delle recinzioni a scapito dei
dissuasori olfattivi potrebbe risultare un
po’ più costoso, ma dopo il primo anno si
può dire che si ammortizzano perché
rimangono solo i costi di manutenzione.
Figura 101: Recinzioni
Infatti, rispetto ad altre forme di
protezione che devono essere rinnovate
sistematicamente (ad esempio i
dissuasori olfattivi), con le recinzioni si ha
una protezione più costante e più
efficace; ecco perché l’adozione di
recinzioni, soprattutto in Polonia, è
diventata sempre più comune.
Ritengo che abbia avuto degli effetti
abbastanza positivi, ma solo in alcune
zone. Ad esempio, nella Polonia del nord
alcuni anni fa si è verificata una tempesta
molto forte che ha colpito una zona
boscata di valore notevole e diversi ettari
di territorio sono stati distrutti; in
quell’area si è deciso di utilizzare la
recinzione anche se, a mio parere, in
questo caso non era molto utile, perché
non c’erano molti impianti e la zona era
troppo grande per poter installare una
recinzione così vasta. Quindi anche
l’utilizzo della recinzione richiede il giusto
studio.
Nelle foto 102 e 103 vediamo altri
strumenti per la protezione degli impianti,
soprattutto per le specie a crescita lenta,
come le spirali, che possono essere
utilizzate a protezione delle piantine. Altre
protezioni possono essere invece
applicate a specie che crescono più
velocemente. Questi strumenti non
richiedono ulteriori interventi perché si
decompongono naturalmente.
105
Le esperienze di prevenzione dei danni causati da ungulati e da avifauna
Lorenzo Galardi
ARSIA (Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione del settore Agricolo-
forestale della Regione Toscana)
Buona sera a tutti. Innanzitutto vorrei
ringraziare la Regione Piemonte per
l’invito che mi ha rivolto.
Nel mio intervento introdurrò
l’argomento cercando anche di mettere a
fuoco il ruolo dell’ARSIA, l’Agenzia
regionale che in Toscana si occupa del
settore agricolo-forestale, dopo di che vi
illustrerò due esperienze che abbiamo
realizzato nella nostra Regione,
riguardanti la prevenzione dei danni
causati da fauna selvatica, una nei
confronti della fauna ungulata e l’altra
relativa ai danni arrecati da avifauna.
È necessaria una piccola premessa:
quando si vengono ad avere delle
interazioni tra insediamenti antropici e
popolazioni animali non si possono non
venire a creare delle situazioni particolari,
che possono essere sia situazioni di
vantaggio, sia di svantaggio, chiaramente
da un punto di vista antropocentrico.
Comunque sia, si possono avere delle
situazioni sinergiche che si vengono a
creare che in questa sede sono quelle
che ci interessano meno, e d’altro canto
invece possiamo avere delle situazioni di
competizione, che saranno prese
maggiormente in considerazione
nell’intervento.
Entrando un po’ più nello specifico, mi
occuperò in particolar modo del danno
“classico”, ovvero il danno arrecato alle
colture agro-forestali; infatti, quando si
parla di danni, questi possono essere di
vario genere e si possono venire a creare
delle situazioni di conflitto in ben altri
contesti, non ultimo quello che riguarda il
traffico stradale.
È necessaria una premessa; mi
riallaccio a quanto è stato detto negli
interventi che mi hanno preceduto sui
danni che deve sostenere in termini di
risarcimento la Regione Piemonte,
riportando in figura 104 i dati per dare
un’idea dell’ordine di grandezza dello
sforzo economico che la Regione
Toscana deve sostenere in termini
monetari per la rifusione dei danni: siamo
sull’ordine annuale dei 3,5-4,0 milioni di
euro, ed è una voce ad alta incidenza sul
bilancio.
Quindi, a fronte di questo quadro che
comunque risulta avere una certa criticità,
106
si è in qualche modo attivata una
sensibilità politica da parte dell’istituzione
in cui mi trovo ad operare e, in questo
senso, sono state attuate delle iniziative,
volte sia a collaudare che a trasferire
delle soluzioni innovative, che è un po’ la
funzione principale dell’ARSIA.
Non entro nel merito, ma sono state
attuate una serie di iniziative che hanno
preso in considerazione l’uso di repellenti,
di recinzioni elettrificate, ma anche altre
forme di dissuasione; ci siamo occupati
anche degli incidenti stradali.
Vorrei illustrare per sommi capi e in
estrema sintesi qual è la metodologia di
approccio progettuale che l’Agenzia
utilizza nell’affrontare una problematica.
Un primo step prevede l’individuazione di
esperienze significative a livello italiano,
europeo ed internazionale; una volta che
queste esperienze sono state individuate,
si contatta il soggetto depositario di
queste informazioni; dopo di che, quando
sono state acquisite, queste nuove
conoscenze vengono messe in pratica e
vengono collaudate in contesti ben
specifici; una volta avvenuta la fase di
collaudo (che chiaramente si spera sia
avvenuta in modo positivo), si passa al
trasferimento delle tecniche apprese e
validate, attraverso canali divulgativi che
possono essere di vario genere.
La prima esperienza, come già
accennato in precedenza, riguarda la
prevenzione ed il contenimento danni
mediante l’utilizzo di recinzioni
elettrificate, rivolte a mammiferi di una
certa dimensione, prevalentemente
ungulati. L’articolazione progettuale,
rifacendomi a quanto appena detto sul
modo di operare dell’Agenzia, prima di
tutto ha previsto l’individuazione di
esperienze significative a livello
internazionale, grazie alla quale è emerso
il ruolo molto importante dell’allora ONC-
Office National de la Chasse7, organismo
governativo francese che ha competenze
in merito alla gestione faunistica. C’è
stato quindi un contatto approfondito con
questo Ente, dopo di che abbiamo
valutato l’adattabilità delle tecniche
francesi alle realtà toscane. Infine, siamo
passati all’ultima fase e abbiamo
trasferito le conoscenze acquisite,
7 Office national de la chasse et de la faune sauvage (ONCFS) - http://www.oncfs.gouv.fr/
0
500000
1000000
1500000
2000000
2500000
3000000
3500000
4000000
2001 2002 2003 2004
0
500000
1000000
1500000
2000000
2500000
3000000
3500000
4000000
2001 2002 2003 2004
Figura 104: Prevenzione danni su colture
agro-forestali – La rifusione danni è una voce
altamente incidente sul bilancio della
Regione Toscana.
107
attraverso due pubblicazioni8, che sono
disponibili presso l’ARSIA.
In questa prima esperienza abbiamo
utilizzato delle recinzioni elettriche per
contenere prevalentemente ungulati e in
particolare il cinghiale, che hanno ripreso
esattamente quanto sperimentato
dall’ONC negli ultimi trent’anni, quindi con
una cognizione molto approfondita della
problematica. Gli elementi che
compongono una recinzione elettrificata
sono un elettrificatore, dei picchetti che
servono a sostenere tutto il sistema, degli
isolatori attraverso i quali passa un
conduttore ed infine il conduttore stesso.
Gli elettrificatori utilizzati nella nostra
esperienza sono di tre tipologie, che sono
quelle classiche reperibili in commercio: a
corrente, cioè alimentati dalla rete (a
220V), ad accumulatore a batterie
ricaricabili (a 12V) e poi a pila (a 9V);
hanno delle caratteristiche abbastanza
diverse e consentono di elettrificare delle
distanze molto variabili. Gli elettrificatori a
pila sono i meno potenti e solitamente
vengono utilizzati per una difesa
parcellare; ad esempio, il piccolo
imprenditore agricolo che ha una vigna di
ridotte dimensioni di solito ricorre alla pila;
diversamente, se si deve fare un fronte di
8 “I danni causati dal cinghiale e dagli altri ungulati alle colture agricole. Stima e prevenzione” – Quaderno ARSIA 5/99 “La prevenzione dei danni alle colture da fauna selvatica. Gli ungulati metodi ed esperienze” - Santilli F. [et al.] - Libro ARSIA 16 - 2002
svariati chilometri, ad esempio per
separare una zona boscosa da una
agricola, si utilizzerà l’elettrificatore a
corrente, che eroga una potenza molto
più elevata. Molto spesso accade che si
scelga un elettrificatore sbagliato per un
determinato caso: spesso esiste una
certa disinformazione anche da parte dei
venditori che consigliano determinati
apparecchi per il contenimento della
fauna selvatica; in effetti la fauna
selvatica, e in particolare gli ungulati,
richiedono solitamente delle potenze
(ovvero i Watt che l’apparecchio può
erogare) molto più elevate rispetto alla
fauna domestica: di solito, gli elettrificatori
che si usano per il contenimento di un
bovino sono 10 volte meno potenti
rispetto a quelle che si dovrebbero usare
per il contenimento di un cervo o di un
cinghiale. L’efficacia dell’apparecchio si
può desumere non tanto dal voltaggio,
cioè dalla tensione che viene erogata
(infatti è possibile trovare elettrificatori
che arrivano a tensioni di 10.000V in
cresta), quanto piuttosto dal wattaggio; è
infatti più difficile trovare degli
elettrificatori che eroghino potenze
superiori ai 3-4 Watt, che sarebbero quelli
di solito necessari per contenere un
animale quale il cinghiale o il cervo.
L’effetto dolore che viene provocato
sull’animale non è legato alla tensione ma
alla potenza, che si esprime in Watt.
108
Gli interventi che abbiamo realizzato
hanno previsto l’installazione di recinzioni
in cinque ATC9 toscani, scelti in modo
che rappresentassero tutte le realtà della
Regione; infatti abbiamo ATC che si
affacciano sul mare, quindi caratterizzati
da un clima mediterraneo come quello
dell’Alta Maremma (Grosseto6), oppure
nella zona del Parco nazionale delle
Foreste Casentinesi come nel caso
dell’ATC Arezzo1, o ancora nella zona
del Chianti dove abbiamo l’ATC Firenze5;
abbiamo quindi uno spaccato di tutte le
realtà ambientali toscane. All’inizio
dell’esperienza sono state realizzate ben
126 recinzioni per un totale di copertura
di oltre 150 km. Sono state protette
colture di vario genere, colture erbacee
autunno-vernine e primaverili-estive, ma
anche in alcuni casi colture arboree
specializzate. L’installazione e la
manutenzione sono state approntate in
varie forme, ma solitamente si sono
instaurate delle collaborazioni tra gli
agricoltori e i cacciatori, cosa peraltro non
facile. C’è stata una supervisione e un
monitoraggio continui da parte dei tecnici
dell’ARSIA e una strategica opera di
sensibilizzazione che è stata avviata
attraverso degli incontri tra agricoltori,
cacciatori e comitati degli ATC.
L’ATC Arezzo1, come accennato in
precedenza, è un ATC montano e,
9 ATC: Ambito Territoriale di Caccia
quando sono iniziate le esperienze nel
2000, era un caso particolare, perché tra
le colture tutelate classiche, quali vigna,
frumento, girasole e mais, avevamo
anche degli alberi di Natale che erano
brucati e danneggiati in particolare dal
cervo; in questo caso è stata installata
una recinzione un po’ particolare rispetto
a quelle canoniche che si vedono per il
cinghiale, in quanto si tratta di una
recinzione molto più alta, su cinque fili, ed
è stata riscontrata una riduzione del
100%. Negli altri casi, frumento, uva,
girasole, abbiamo avuto quasi sempre
ottimi risultati; abbiamo avuto un po’ di
problemi sul mais, in cui la riduzione dei
danni è stata solo del 53%.
L’ATC Firenze5 si colloca nella zona
meridionale della Provincia di Firenze,
quindi il Chianti fiorentino, e capite bene
che è una zona che ha un’importanza
notevole per quanto riguarda l’impatto
che il cinghiale può creare. Qui sono
state realizzate soltanto tre recinzioni e
abbiamo avuto una riduzione di danno
sull’uva del 75%.
L’ATC Grosseto6, che corrisponde
all’Alta Maremma, ha installato 93
recinzioni per 102 km complessivi,
andando a tutelare una serie variegata di
colture; in particolare, nel caso del
vigneto abbiamo ottenuto una riduzione
del 94%.
109
Nell’ATC Pisa14 sono state create
solamente 4 recinzioni, ma sono state
monitorate in modo particolarmente
valido e i risultati che abbiamo ottenuto
sono stati lusinghieri, in quanto abbiamo
avuto una riduzione del 100% sia sul
mais, sia sul girasole, sia sul frumento.
Un ultimo caso, quello dell’ATC
Siena19, che è l’appendice meridionale
della Provincia di Siena e quindi della
Toscana, e che confina con la Provincia
di Viterbo e quindi con il Lazio, è un caso
particolare perché non sono state
realizzate parcelle come negli altri ATC
ma è stata realizzata una sorta di “Linea
Maginot”, di addirittura 16,8 km, che
mirava a interrompere il flusso di cinghiali
che da un Parco della Provincia di Viterbo
tutte le notti si riversavano nei seminativi
della Provincia di Siena, nella Valle del
Paglia. Qui abbiamo avuto una riduzione
(si tratta di un dato aggregato) del 95%
dei danni.
I dati citati relativi alla riduzione dei
danni negli ATC oggetto di studio non
hanno valore scientifico, da un certo
punto di vista, perché non sono stati
elaborati statisticamente, infatti non
c’erano i presupposti per poterlo fare,
però un’indicazione di massima sulla
validità delle recinzioni elettriche penso
che comunque si possa far emergere.
Le conclusioni che abbiamo tratto da
questa prima esperienza sono che si
vede, da tutto ciò, che non si può
disconoscere un’adattabilità delle
recinzioni elettriche agli ambienti più
disparati ed eterogenei. Sicuramente
l’applicazione di queste metodiche ha
un’importanza strategica anche a livello
sociale ed economico, andando ad
attenuare delle tensioni e dei conflitti che
spesso e volentieri si vengono ad
instaurare tra il mondo agricolo e il
mondo venatorio. Se ben realizzata,
quindi se ben costituita in partenza nei
suoi singoli elementi, se monitorata
costantemente e calata in un contesto
oggetto di gestione, una recinzione
elettrica può determinare una riduzione
drastica del danno fino all’azzeramento.
Sarebbe presuntuoso demandare alla
sola attività di contenimento con la
recinzione elettrica gli esiti di una
gestione complessiva; infatti la mia idea,
e non penso di essere il solo a pensarla
così, è che la prevenzione non è e non
può essere considerata uno strumento
sostitutivo di un’attività gestionale
complessiva ma bensì un efficace
elemento su cui questa si può basare e
può essere una componente di una serie
di interventi necessari ad un approccio
“olistico” alla problematica.
La seconda esperienza riguarda
invece la prevenzione dei danni provocati
110
da avifauna. È stato appunto avviato un
progetto in collaborazione tra l’ARSIA e il
Parco di Migliarino- S. Rossore-
Massaciuccoli che si trova nella zona
costiera delle Province di Pisa e Livorno.
Come è possibile vedere nel grafico in
figura 105, i danni da avifauna hanno una
certa incisività sul bilancio della Regione
Toscana essendo pari al 21% in media
negli ultimi anni. Quindi è una
problematica che ha un suo peso e per
questo ha innescato una certa percettività
da parte delle istituzioni, tant’è che è
stata attivata anche nei confronti
dell’avifauna, come in quelli degli
ungulati, una serie di iniziative.
Anche in questo caso il modo di
lavorare dell’Agenzia è stato lo stesso già
enunciato in precedenza.
Il primo punto quindi è stato quello
dell’individuazione delle esperienze più
significative e in questo caso è stata
considerata una sperimentazione
abbastanza particolare, realizzata in
Inghilterra, relativa ad un pallone (foto
106).
Il collaudo è avvenuto nel Parco
regionale della Tenuta presidenziale di S.
Rossore, oggi in gestione alla Regione
Toscana.
Cervidi ed altri ungulati14%
Lepre2%Nutria
1%
Indeterm.3%
Istrice2%
Cinghiale57%
Avifauna21%
Cervidi ed altri ungulati14%
Cervidi ed altri ungulati14%
Lepre2%
Lepre2%Nutria
1%
Indeterm.3%
Istrice2%
Istrice2%
Cinghiale57%
Cinghiale57%
Avifauna21%
Avifauna21%
Figura 105: Suddivisione percentuale
dell’incisività dei danni da fauna sul bilancio della
Regione Toscana
Figura 106: Helikite, pallone testato in Inghilterra
per la prevenzione dei danni da avifauna
A ciò è seguita la redazione di un
quaderno divulgativo10 inerente
quest’esperienza.
Questo pallone è stato testato in
Inghilterra ma da qualche anno trova
ampia diffusione anche negli Stati uniti e
viene chiamato helikite, dove heli sta per 10 Un nuovo metodo ecologico per la prevenzione dei danni da uccelli alle colture agricole - F. Santilli [et alt.] - Quaderno ARSIA 4 - 2004
111
helium, in quanto è un pallone gonfiato a
elio, e kite sta per aquilone. È un pallone
di mylar, con un diametro di circa 70 cm,
dotato di una vela stabilizzatrice che gli
consente, essendo gonfiato a elio, di
volare fino a una certa altezza, di solito
con un volo utile fino a 60 m che è meglio
non superare, e non essendo stabilizzato,
ma fluttuante in continuazione a seconda
delle brezze e delle correnti ascensionali,
difficilmente può indurre assuefazione
sulle popolazioni ornitiche, in quanto non
riescono ad abituarsi a questa presenza,
variando in continuazione il suo
dinamismo.
La Tenuta presidenziale di S. Rossore
è di 4.800 ha, di cui 3.000 ha a bosco e
ben 1.800 ha a seminativo; è oggetto di
danneggiamenti alle colture agronomiche
ma anche alla rinnovazione forestale,
soprattutto da parte di ungulati, ma anche
molto da parte delle popolazioni ornitiche;
in particolar modo la nostra esperienza
ha testato questo helikite nei confronti di
una popolazione svernante di
colombaccio, che nella zona è molto
numeroso in inverno perché l’habitat è
eccezionale, da un certo punto di vista, e
anche climaticamente è una zona molto
mite e per questo è ben frequentata da
tanti migratori svernanti.
Sono stati individuati due
appezzamenti, distanti tra loro 700 m, di
circa 20 ha l’uno e in uno sono stati
collocati due palloni, nell’altro invece non
è stato collocato nulla, in quanto utilizzato
come appezzamento testimone. La zona
in cui sono collocati i due campi
sperimentali, notoriamente e da molti anni
è frequentata da stormi di colombacci con
migliaia di esemplari. È stata eseguita la
semina di orzo, anche se in un periodo
anomalo, ovvero ai primi di febbraio, in
quanto lo scopo non erano prove di tipo
agronomico ma si voleva verificare
l’efficacia del pallone. Una volta collocati i
due palloni c’è stata la scomparsa degli
stormi di colombaccio. Nella cartina in
figura 107 si può vedere indicato in rosso
il posizionamento degli helikite
nell’appezzamento verde, mentre in blu
l’appezzamento di controllo: dal momento
di posizionamento dei palloni, il numero
dei colombacci si è azzerato e sono
riapparsi solo alla fine del periodo di
studio con valori minimi.
112
Figura 107: Cartina con l’indicazione
dell’appezzamento con helikite e
dell’appezzamento di controllo
Riassumendo, abbiamo monitorato
una fase preliminare in cui abbiamo
rilevato una presenza di colombacci
simile nei due appezzamenti, dopo di
che, in una fase di post-collocamento dei
palloni, abbiamo notato un immediato
allontanamento degli animali per almeno
25 giorni. Nei 30 giorni totali di studio vi è
stata una presenza media di 2,2 individui
nell’appezzamento con helikite, a fronte
di 500,8 individui in media
nell’appezzamento di controllo.
È stato importante anche stimare la
distanza di fuga degli animali, ovvero la
distanza a cui si tenevano gli animali nei
confronti del pallone, perché questo ci da
un’idea dell’efficacia dello strumento in
termini di raggio d’azione.
La superficie protetta è legata
chiaramente all’etologia della specie
(questo lo sappiamo a livello di
bibliografia) però abbiamo visto che in
particolare sul colombaccio l’area protetta
può andare, per un singolo pallone, dai 7
ai 10 ha.
Questo sistema di prevenzione dei
danni è economicamente competitivo, in
quanto un pallone costa più di 100
sterline, ma al costo unitario si
contrappone un’elevata superficie
protetta, a differenza, ad esempio, di
palloni predator che sono stati testati ed è
risultata la necessità di 7-10 fino anche a
15 palloni all’ettaro.
Ci sono anche degli inconvenienti,
purtroppo, nell’uso dell’helikite: non può
essere utilizzato su aree coperte da
vegetazione arborea o arbustiva, o dove
passano delle linee elettriche, ma
occorrono aree libere, come appunto un
terreno appena seminato. Venti superiori
ai 32 km/ora o pioggia o basse
temperature fanno sì che il pallone non si
alzi e quindi questo può costituire un
problema. Tendono a sgonfiarsi e quindi
ogni 7-10 giorni solitamente occorre
intervenire e rigonfiarli. Le bombole di elio
non sono molto semplici da reperire, sono
113
pesanti ed il trasporto può generare
qualche problema a livello legale. Infine, i
palloni possono essere oggetto di
danneggiamenti e furti, ma questo fa
parte degli inconvenienti di un po’ tutti gli
strumenti e apparecchi che vengono
utilizzati.
Vi ringrazio per l’attenzione.
114
I sistemi di contenimento delle popolazioni di nutrie Roberto Cocchi
INFS (Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica)
Ringrazio la Regione Piemonte e
l’Osservatorio faunistico per l’opportunità
che mi offre di illustrare il quadro della
situazione per quanto riguarda la
gestione della nutria, con particolare
riferimento agli aspetti legati alle misure
volte alla limitazione dei danni arrecati dal
roditore.
La nutria (Myocastor coypus) è un
roditore d’origine centro-americana che è
stato introdotto in diversi Paesi
sostanzialmente per finalità commerciali
(produzione di pellicce). In Italia
l’allevamento per la pelliccia (il cosiddetto
castorino) ha conosciuto una vasta e
capillare diffusione soprattutto negli anni
‘70 ed ’80. Diverse aziende agrarie
allevavano stock più o meno numerosi di
nutrie. La diffusione di questi nuclei
allevati è stata estremamente vasta sul
territorio italiano. Questo è proseguito fino
a che, la perdita d’interesse commerciale
per la produzione di pellicce ha costretto
alla progressiva dismissione degli
allevamenti, con relativa liberazione dei
soggetti in natura. Questi sono stati i
precursori di altrettanti nuclei naturali ed
auto riproduttivi che via via hanno dato
luogo a popolazioni sempre più estese e
numerose, diffuse su ampie porzioni del
territorio italiano.
Nella cartina in figura 108 è illustrato
l’areale di distribuzione della specie
aggiornato all’anno 1999. Esso si articola
in due macro aree continue che coprono,
la prima, la Pianura Padana e la fascia
alto e medio adriatica e, la seconda, la
dorsale tirrenica dalla Liguria sino al
Lazio. Vi sono poi una varietà di nuclei di
dimensione sostanzialmente inferiore
ubicati in Italia centrale, sulle isole
maggiori e in comprensori prealpini.
Molteplici sono le ragioni del successo
che la specie ha conosciuto in Italia, così
come in diversi altri Paesi d’introduzione,
ad iniziare da un potenziale biotico di
prim’ordine: la dimensione media delle
Figura 108: Distribuzione della
nutria in Italia (1999)
115
figliate si aggira intorno alle cinque unità
e l’età di conseguimento della maturità
sessuale è precoce (sei mesi per i
maschi). Inoltre vi è una capacità
d’adattamento a tipologie ambientali che
trovano ampia diffusione (residui ambienti
naturali di zone umide e aree artificiali ad
agricoltura intensiva provviste di una rete
di canali irrigui e di bonifica). Vanno
considerati inoltre altri due elementi che
hanno contribuito non poco a determinare
lo status attuale del roditore: l’iniziale
capillare diffusione artificiale che la
specie ha conosciuto e la tardiva presa di
coscienza del problema da parte degli
organismi competenti.
Le tipologie di conflitti ascrivibili alla
nutria sono diverse. Anzitutto va
menzionato il rischio di riduzione della
biodiversità causato dalla presenza di
una specie alloctona e come tale
potenziale elemento di alterazione
strutturale delle biocenosi locali in cui è
stata introdotta. Non a caso la nutria è
inserita nell’elenco IUCN delle 100 specie
invasive più pericolose a livello globale11.
Anche in Italia si assiste a prelievi a
scopo alimentare attuati dal roditore su
vegetazione acquatica naturale o semi-
naturale con alterazione della struttura e
della distribuzione di alcune comunità 11 "100 de las Especies Exóticas Invasoras más dañinas del mundo. Una selección del Global Invasive Species Database”, Lowe S., Browne M., Boudjelas S., De Poorter M., Noviembre 2004. Sito web: www.issg.org/bookletS.pdf
biotiche, nonché su uccelli acquatici con
distruzione dei nidi e predazione delle
uova. Sono stati documentati episodi a
carico di popolazioni di Mignattino
piombato, Svasso maggiore e Tuffetto.
Altro conflitto ascrivibile alla nutria è
quello inerente gli asporti di produzioni
agricole ubicate in prossimità di corsi
d’acqua. Le coltivazioni maggiormente
attaccate sono barbabietola da zucchero,
granoturco, riso ed ortaggi. Per
fronteggiare questi danni economici le
Amministrazioni locali delegate alla
gestione faunistica sono chiamate a
rispondere ad un crescente numero di
richieste d’intervento.
Infine vi sono i problemi di natura
idraulica dovuti allo scavo di gallerie e
tane operato dalle nutrie sia su sponde di
corsi d’acqua naturali (fiumi), sia su
arginature pensili (fuori terra) di canali
irrigui. Quando le tane sono concentrate
e numerose vi è il rischio di
collassamento delle banchine, con
conseguente esondazione, in occasione
di ondate di piena.
Si ipotizza anche un possibile
problema di natura sanitaria legato al
rinvenimento, su una percentuale di
individui, di anticorpi di Leptospira che,
come noto, è una zoonosi. In realtà studi
condotti al riguardo non hanno consentito
di isolare Leptospira per cui la nutria è
116
considerata solamente un veicolatore
secondario della patologia che si diffonde
attraverso le urine e quindi l’acqua, alla
stregua di altri roditori che frequentano gli
stessi ambienti (ratti in particolare).
In comprensori dove la nutria conosce
densità particolarmente elevate, può
rappresentare un pericolo per la viabilità
stradale; ci sono segnalazioni di
ribaltamento di mezzi agricoli a seguito
del passaggio su sentieri “minati” dalle
sottostanti tane di nutria.
Con l’aiuto delle immagini dalla 109
alla 111 passiamo in rassegna le tipologie
ambientali dove si verificano più
frequentemente i problemi. Nell’ordine:
zone umide naturali di dimensioni più o
meno estese dove la problematicità è
rappresentata dal possibile impatto sulle
biocenosi locali.
Ci sono poi le perforazioni ripetute e
concentrate di canali irrigui interrati di
portata limitata e quelle inerenti canali di
primaria portata con arginature pensili.
Infine gli alvei fluviali possono essere
interessati da situazioni a rischio in
presenza di perforazioni di tane e gallerie
operate anche da nutrie.
La nutria è specie naturalizzata vivente
in stato di libertà sul territorio italiano e
come tale considerata fauna selvatica ai
sensi dell’art. 2 della Legge nazionale n.
157/92. Questo status giuridico consente
Figura 110: Perforazioni ripetute su
canali interrati di portata limitata
Figura 111: Collassamento di una
porzione di scarpata
Figura 109: Zone umide naturali: impatto
sulle biocenosi locali
117
la possibilità di applicare anche alla nutria
gli strumenti previsti dagli articoli 19 e 26
della suddetta Legge relativi al controllo
numerico di popolazioni di fauna selvatica
omeoterma che arrecano danni. In
generale gli strumenti previsti dalla norma
per la limitazione dei danni sono: la
prevenzione mediante impiego di efficaci
misure incruente, il controllo numerico
cruento ed il risarcimento monetario dei
danni.
L’adozione di efficaci misure di
prevenzione dei danni volte ad anticipare
il verificarsi dell’evento dannoso deve
rivestire un ruolo prioritario nell’ambito di
una corretta strategia di gestione della
problematica. Purtroppo non sempre è
possibile individuare azioni dotate di un
buon rapporto costi/benefici. E’ evidente
che misure preventive con costi unitari
superiori rispetto al danno che intendono
escludere o con efficacia scarsa non
possono essere prese in considerazione.
Su questo tema credo ci sia molto da fare
anche per quanto riguarda la necessaria
validazione delle tecniche condotte
attraverso una rigorosa sperimentazione
in campo.
Un’azione di prevenzione dei danni
agricoli cagionati da nutria prevede il
ricorso all’impiego di un filo elettrificato
posto a circa 15 cm da terra con cui
perimetrare le colture passibili di asporto.
Il limite di questa misura è che non può,
per ovvie ragioni, essere adottata
ovunque e quindi ancora una volta andrà
impiegata con raziocinio privilegiando le
situazioni suscettibili di maggior danno
(colture di pregio).
Una tecnica di prevenzione utilmente
impiegabile per limitare il danno idraulico
causato dalle perforazioni da nutria
consiste nella protezione fisica delle
arginature mediante sistemi meccanici. In
realtà da tempo nel settore idraulico si
opera in questo senso; si pensi ai
“primitivi” sistemi di protezione delle
sponde arginali con palizzate in legno
oppure alla più “moderna”
cementificazione delle stesse. In tempi
più recenti sono state messe a punto
tecniche sicuramente impattanti sotto il
profilo ecologico garantendo, nel
contempo, un elevato grado d’efficienza.
Si tratta di operare una preventiva
riprofilatura della sezione delle arginature
e di stendere poi una rete metallica di
maglia adeguata con funzione anti-
intrusiva opportunamente ancorata in
punta ed al piede. Questi si configurano
come interventi risolutivi in virtù della loro
ampia durata temporale. Tuttavia si tratta
ancora d’azioni isolate e puntiformi e ciò
a causa principalmente dei costi che sono
piuttosto elevati. La protezione
meccanica delle arginature sta comunque
conoscendo un certo impulso negli ultimi
anni soprattutto nel contesto di situazioni
118
di canali irrigui di primaria portata con
arginature pensili. Qui il ricorso a misure
di prevenzione mediante adozione
d’efficaci interventi può profilarsi come
intervento vincente anche sotto il profilo
economico, se solo lo si confronta con i
costi di ripristino relativi ai non rari eventi
calamitosi di esondazione di corsi
d’acqua.
Una sperimentazione da noi condotta
riguardante l’impiego di reti metalliche
sulle arginature di un canale interrato ha
consentito di apprezzare la
rinaturalizzazione spontanea delle
sponde da parte di vegetazione erbacea
successivamente all’ultimazione della
posa della rete. Nella successiva
stagione estiva abbiamo avuto modo di
osservare la presenza anche di
vegetazione naturale flottante
(Ceratophyllum).
Un’applicazione che sta riscuotendo un
certo interesse è quella della cosiddetta
“ingegneria naturalistica”. Sul tema
specifico della protezione di sponde di
canali viene proposto l’impiego di
soluzioni ibride d’intervento che
contemplano l’accostamento di materiale
protettivo inerte (rete) ad una parte viva
(vegetazione erbacea, arbustiva e
arborea) con valenza riqualificante dal
punto di vista ecologico e paesaggistico.
Per quanto riguarda il controllo
numerico (rimozione) della nutria attuato
sul territorio italiano ai sensi dell’art. 19
della legge n. 157/92, il grafico in figura
112 riporta i quantitativi annui riferiti al
periodo 1995-2000 durante il quale l’INFS
ha condotto un’indagine conoscitiva
mirata a quantificare i costi della gestione
Trappola
0
10.000
20.000
30.000
40.000
50.000
60.000
70.000
1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001
46% 54%
TOT: 220 688
Sparo
0
10.000
20.000
30.000
40.000
50.000
60.000
70.000
1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001
70.000Totale
Trappola
0
10.000
20.000
30.000
40.000
50.000
60.000
70.000
1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001
46% 54%
TOT: 220 688
Sparo
0
10.000
20.000
30.000
40.000
50.000
60.000
70.000
1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001
70.000TotaleTotale
Figura 112: Nutrie rimosse nel periodo 1995-2000
119
della nutria in Italia. Nel nostro Paese le
nutrie vengono rimosse con tecniche
selettive ed efficaci. Nel 54% dei casi
indagati le Amministrazioni delegate
hanno impiegato specifiche gabbie-
trappola; nei restanti casi si è fatto ricorso
all’abbattimento con arma da fuoco da
parte di personale incaricato nell’ambito
di piani di controllo numerico predisposti,
gestiti e controllati dalle Amministrazioni
competenti.
A fronte della conduzione di queste
azioni, la dinamica dei danni agricoli solo
in rari casi denota una chiara inversione
di tendenza. In realtà il dato complessivo
riferito all’ambito nazionale evidenzia
come i danni continuino a crescere
nonostante lo sforzo profuso. Questo
potrebbe dipendere da una serie di fattori,
tra i quali il sotto dimensionamento dello
sforzo esercitato che probabilmente non
è in grado di incidere in misura
apprezzabile sulla consistenza e sulla
distribuzione della nutria. Da questo
punto di vista, anche il ritardo con cui gli
interventi di rimozione fisica hanno avuto
inizio gioca un ruolo non secondario.
La situazione evidenziata dai dati
esposti sembra quella di Amministrazioni
che operano interventi di contenimento
numerico della nutria sulla spinta di
crescenti pressioni sociali ma che solo
raramente riescono ad ottenere risultati
concreti (contenimento dei danni). D’altra
parte va detto che, considerato lo status
attuale della specie, l’obiettivo dichiarato
è tutt’altro che banale: si tratta di operare,
in ambiti territoriali spesso neanche tanto
0
500.000
1.000.000
1.500.000
2.000.000
2.500.000
3.000.000
3.500.000
4.000.000
1995 1996 1997 1998 1999 2000
€
TotaleCosti
Ripristinoarginature
Controllonumerico
Indennizzodanni agricoli0
500.000
1.000.000
1.500.000
2.000.000
2.500.000
3.000.000
3.500.000
4.000.000
1995 1996 1997 1998 1999 2000
€
TotaleCosti
Ripristinoarginature
Controllonumerico
Indennizzodanni agricoli
Figura 113: Costi di gestione della nutria
120
limitati, uno sforzo di rimozione superiore
all’incremento utile annuo delle
popolazioni.
L’indagine INFS ha inteso quantificare
anche il costo della gestione della nutria
in Italia. Nel grafico in figura 113 è
riportata la dinamica delle tre tipologie di
costo in cui è stata frazionata la spesa di
gestione del roditore (indennizzo,
controllo numerico e ripristino arginature).
Questi dati derivano da interviste
condotte presso tutti i principali referenti
nazionali in tema di gestione faunistica ed
idraulica (Regioni, Province, Consorzi di
bonifica, Magistrati delle acque). I costi
totali evidenziano una crescita quasi
esponenziale nel periodo indagato dovuta
soprattutto alle spese di ripristino di
arginature idrauliche. Questa voce di
spesa rappresenta l’entità di gran lunga
più importante rispetto alle altre
costituendo il 75% del totale. I costi della
gestione idraulica vanno considerati
“conservativi” essendo stati esclusi dal
conteggio alcuni casi di importanti episodi
d’esondazione avvenuti nel periodo
d’indagine. Un dato di questo genere, da
un lato, contribuisce ad elevare
fortemente il costo “sociale” della nutria
collocandolo su valori monetari di gran
lunga superiori rispetto al mero costo di
indennizzo monetario e del controllo
numerico; dall’altra parte, probabilmente
per la prima volta in Italia, emerge
l’importanza del costo idraulico
determinato dalla nutria che, di norma,
non viene monitorato a livello di
competenze faunistiche (Uffici caccia).
L’efficacia delle azioni di controllo
numerico risulta estremamente variabile
in funzione di una serie di fattori. Oltre a
quelli più sopra accennati riconducibili
sostanzialmente alla dimensione dello
sforzo (quantità e qualità del personale e
degli strumenti impiegati), anche aspetti
ecologici ed idraulici giocano un ruolo non
trascurabile. A parità di sforzo profuso, si
è visto che in comprensori ove sussiste
un sostanziale isolamento idraulico si
assiste ad un più celere decremento
dell’indice di cattura (nutrie catturate per
100 notti trappola) a causa
presumibilmente di un meno rapido
reclutamento d’immigrati (lago Trasimeno
vs. Campotto). Analogamente può essere
interpretato il differente rapporto
sforzo/efficacia di interventi di controllo
numerico condotti in due ambienti della
Riserva Naturale Valenza (piccola zona
umida vs. canale). Nella zona umida è
stato possibile eradicare la nutria in sei
settimane. La ricolonizzazione del
territorio è stata scarsa. In questo
contesto si apprezza uno sforzo
contenuto e un’elevata efficacia
dell’intervento. In un canale irriguo
limitrofo all’area precedente si è invece
avuto un successo di trappolaggio
121
disomogeneo con una consistente e
rapida rioccupazione del territorio nel
corso dell’anno successivo da parte di
nutrie provenienti da aree adiacenti. Ciò
ha comportato uno sforzo elevato e
un’efficacia scarsa.
In realtà per le nutrie i canali e, più in
generale, i corsi d’acqua a lento deflusso
svolgono una fondamentale funzione
equiparabile a quella delle nostre
autostrade: vengono utilizzati come vie
primarie di spostamento, oltre che come
ambiti in cui intrattenere relazioni sociali
ed attività trofiche. Ciò significa che, a
parità di altri requisiti, le aree interessate
da una capillare rete di canalizzazione
offrono possibilità di uno spostamento più
celere da parte delle nutrie risultando, di
conseguenza, più difficile ridurre
stabilmente le consistenze numeriche del
roditore.
Ciò non significa che laddove le
arginature di canali e corsi d’acqua siano
interessati dallo scavo di gallerie da parte
delle nutrie non si possa fare ricorso ad
efficaci tecniche di protezione (reti).
Occorre tuttavia avere ben chiaro che
questi interventi impediscono la
perforazione ma non escludono la
possibilità di utilizzare i corsi d’acqua
quali vie di transito. Questo è uno dei
riscontri emersi a conclusione di un’altra
indagine condotta dall’INFS in Provincia
di Rovigo nel biennio 2002-2003 che ha
inteso saggiare le reazioni
comportamentali di un campione di nutrie
munite di radio collare, in una tratta
sperimentale di un canale sottoposto alla
stesura di una rete protettiva. I collari
sono stati installati, previa iniezione di
una sostanza ad azione anestetica,
nell’ambito di quattro sessioni di cattura,
marcaggio e ricattura. La tecnica ha
consentito di monitorare, ad un buon
livello di dettaglio, gli spostamenti degli
animali prima, durante e dopo la stesura
della recinzione secondo un determinato
protocollo di acquisizione dei fix. I dati
consentono di evidenziare situazioni
comportamentali piuttosto disomogenee
che spaziano da casi di individui che
hanno operato una rimozione immediata
e irreversibile dell’area frequentata
successivamente al collocamento della
rete, a casi invece dove si assiste ad una
sostanziale stabilità delle aree
frequentate dalle nutrie. Qui in realtà le
tane sono state spostate
successivamente al collocamento della
rete ma a distanze piuttosto limitate
(nell’ordine di alcune decine di metri) per
cui si ha una situazione di sostanziale
stabilità dell’area di riferimento degli
animali nonostante la stesura delle reti.
Sembra che aspetti demografici quali l’età
ed il ruolo sociale possano influenzare
questo tipo di scelte. In questo senso i
giovani sembrano più propensi a fare
122
spostamenti anche importanti, mentre i
soggetti adulti gerarchicamente dominanti
sono più inclini a stabilizzarsi in zone
poco disturbate. Purtroppo la limitatezza
del campione non consente di avere
conferme dal punto di vista statistico.
La rete metallica a doppia torsione a
maglia esagonale di 6x8 cm esercita
un’efficace azione anti-intrusiva sulle
arginature dei canali dove è stata
collocata e può prevenire il verificarsi di
rottura di arginature conseguenti a
pressioni idriche eccezionali. Non è
tuttavia in grado di esercitare un
impedimento al transito delle nutrie nelle
acque del canale trattato. Si è osservato
inoltre un trasferimento delle gallerie e
delle tane dai canali trattati ad altri
contigui posti anche a distanze ridotte. La
sola protezione delle arginature con rete
non rappresenta un efficace metodo di
contenimento numerico del roditore,
semmai uno strumento complementare al
controllo numerico.
E’ convincimento dell’Istituto Nazionale
per la Fauna Selvatica che una strategia
nazionale di gestione della nutria
dovrebbe contemplare obiettivi
diversificati in ragione dello status
distributivo della specie prevedendo, nei
comprensori dell’Italia centro-
settentrionale, dove l’areale è
sostanzialmente continuo, interventi di
limitazione numerica finalizzati a ridurre
gli impatti ecologici ed economici. Invece
nei siti interessati da localizzazioni ancora
puntiformi e di limitata estensione vale la
pena verificare la possibilità di condurre
azioni con finalità eradicativa, previa
redazione di piani di fattibilità. In entrambi
i contesti andrebbero altresì implementati
gli interventi di protezione idraulica delle
arginature di tratti di corsi d’acqua a
rischio mediante il posizionamento di
efficaci sistemi di prevenzione.
123
I danni al patrimonio forestale: monitoraggio e prevenzione Alberto Dotta
Consorzio Forestale Alta Valle Susa
Grazie a tutti.
Io lavoro in Alta Valle Susa; il
Consorzio Forestale è un ente di gestione
delle proprietà comunali e, ovviamente,
all’interno delle attività legate alla
gestione del patrimonio forestale, ci
siamo trovati a doverci interrogare su
quale fosse il rapporto tra ungulati e
foresta e soprattutto che aspetti potesse
avere la presenza degli ungulati in
rapporto ai modelli gestionali delle foreste
che noi applichiamo, alla selvicoltura e a
tutti gli aspetti che derivano dalla gestione
del patrimonio comunale. Questa
relazione dovrebbe affrontare questi
aspetti e potremmo partire da alcune
considerazioni di ordine storico, in quanto
l’Alta Valle Susa, che è situata nelle Alpi,
nella Provincia di Torino, è stata
caratterizzata, un po’ come tutte le vallate
alpine, da eventi storici che l’hanno
portata ad avere alla fine del 1800 un
patrimonio faunistico estremamente
povero, legato soprattutto alla presenza
del camoscio, mentre gli altri ungulati
erano presenti in misura estremamente
ridotta. Questo è stato un aspetto
importante che ha sicuramente colpito
anche i predatori. Nelle nostre vallate
alpine iniziamo il 1900 con un patrimonio
molto povero dal punto di vista della
fauna ungulata. Questo perché le vallate
alpine sono state intensamente abitate e
coltivate e tutte le attività legate al
pascolo e la competizione negativa per gli
ungulati selvatici con gli animali domestici
hanno sicuramente contribuito a
impoverire notevolmente il panorama
faunistico.
Rispetto a questa situazione, oggi ci
troviamo in condizioni estremamente
diverse per quanto riguarda il contesto
socio-economico: l’uomo, pur essendo
numericamente presente allo stesso
modo, è localizzato in altre zone e ha
interessi economici diversi che ricadono
ormai marginalmente sull’agricoltura e
sulla selvicoltura, che sono
completamente diverse rispetto al
passato. Di conseguenza anche il
patrimonio faunistico è cambiato. Gli
animali domestici stanno diminuendo,
magari non come numero ma come
concentrazione e dislocazione, mutano le
condizioni ambientali e anche le
esperienze di reintroduzione degli
ungulati selvatici hanno fatto sì che questi
animali si trovassero in un ambiente
124
molto diverso da quello esistente prima
della loro notevole diminuzione. Gli
ungulati hanno quindi trovato un
ambiente tutto sommato favorevole per
loro: non c’erano predatori, il contesto
antropico socio-economico era
completamente diverso; per questi motivi
tutte le esperienze di reintroduzione di
ungulati, anche nell’ Alta Valle Susa,
hanno portato a esperienze di notevoli
incrementi di popolazione in tempi
relativamente brevi.
Come in tutti i sistemi in cui l’uomo
mette le mani, anche il sistema alpino che
ci siamo trovati a gestire è caratterizzato
da un disequilibrio, favorito anche dalle
attività socio-economiche dell’uomo sulle
Alpi e quindi gli ungulati si sono trovati ad
avere a che fare con un territorio
sicuramente molto diverso da un
ambiente naturale. Ricordiamo che
attualmente le zone “vergini” sulle Alpi,
soprattutto su quelle piemontesi, ma
anche su tutte le altre Alpi, con la sola
eccezione di alcune zone in Slovenia,
sono molto poche. Gli ungulati si trovano
quindi in ambienti fortemente modificati e
sicuramente per loro favorevoli. I primi
casi ed esperienze di reintroduzione di
ungulati avvengono, anche in Alta Valle
Susa, all’interno di aree protette: negli
anni ’60 nel Parco del Gran Bosco di
Salbertrand vengono reintrodotti alcuni
ungulati, i quali si sono fortemente
incrementati. Essendo degli erbivori, gli
ungulati si cibano nella loro dieta di un
insieme variegato di specie, fra cui
ovviamente anche quelle forestali e
conseguentemente si è subito osservato,
in maniera anche semplicemente visiva,
come questi aspetti sia comportamentali,
sia alimentari, avessero un’incidenza nei
confronti del patrimonio forestale.
Per questo motivo in Alta Valle Susa si
è iniziato a monitorare cosa stava
effettivamente succedendo, anche perché
le posizioni erano, in alcuni casi,
estremamente allarmistiche da parte degli
amministratori locali che vedevano la
rinnovazione forestale mangiata, i boschi
sparire; si era creata una posizione molto
conflittuale e quindi sono stati fatti i primi
inventari dall’Università degli Studi di
Torino, con la collaborazione della
Provincia di Torino e di tutte le
amministrazioni coinvolte, chi
fattivamente, chi monetariamente.
Gli anni ’80 vedono il primo inventario
dei danni in Alta Valle Susa, il primo di
questo genere in Provincia di Torino, che
è stato poi replicato nel 2001 nel corso
della redazione del Piano Forestale
Territoriale, che nel disegno della
pianificazione forestale regionale è la
pianificazione forestale di secondo livello
dalla quale poi devono discendere i piani
aziendali delle singole proprietà.
125
Questo Piano ha visto ripetuta,
volutamente con le stesse metodologie
del primo inventario, l’analisi dei danni e
quindi i due risultati sono paragonabili e
raffrontabili. Ora vi illustrerò i dati del
secondo inventario (tabella 2); stiamo
valutando la riedizione a breve di un
nuovo monitoraggio dei danni e
quest’anno, durante la redazione di un
Piano di Assestamento di un Comune
della zona, abbiamo già acquisito alcuni
dati per confrontare soprattutto la
presenza dei predatori, rilevando così dei
dati interessanti.
Tabella 2 Dati del secondo inventario forestale
(Piano Forestale Territoriale, CFAVS – Regione
Piemonte, 2001)
75.3Latifoglie nobili
55.2Faggio
29.6Pino uncinato
42.3Abete rosso
18.1Pino cembro
96.2Abete bianco
30.4Pino silvestre
54.1Larice
Percentuale di rinnovazione danneggiata
Specie
75.3Latifoglie nobili
55.2Faggio
29.6Pino uncinato
42.3Abete rosso
18.1Pino cembro
96.2Abete bianco
30.4Pino silvestre
54.1Larice
Percentuale di rinnovazione danneggiata
Specie
Quelli che consideriamo danni al
patrimonio forestale sono di tre tipi:
− brucamento,
− scortecciamento,
− sfregamento.
Su questi effetti sulle cortecce abbiamo
già visto dei dati estremamente
interessanti nell’intervento relativo
all’esperienza in Polonia, ma sicuramente
in Alta Valle Susa, dove sono presenti
quasi tutte le specie che si ritrovano sulle
Alpi, osserviamo una distribuzione non
omogenea di questi danni nei confronti
della rinnovazione. Sicuramente ci sono
piante che risultano più colpite e piante
che risultano molto meno colpite, sia per
le loro caratteristiche di appetibilità e sia
perché in alcuni casi, come ad esempio il
pino cembro, queste specie crescono in
ambienti che soprattutto nel periodo fine
invernale - primaverile, ovvero nei periodi
più critici in cui gli ungulati hanno più
bisogno di un’alimentazione di soccorso,
si trovano in condizioni di protezione da
parte della neve e risultano meno
danneggiate. All’opposto abete bianco,
larice e abete rosso sono specie che
risentono in maniera maggiore dei danni
arrecati dalla fauna ungulata.
Per quanto riguarda le specie forestali
alpine, il danno da brucamento (foto 114)
è uno dei più impattanti, in quanto spesso
se il brucamento viene ripetuto porta a
morte la pianta e, come vedremo, questo
è un aspetto abbastanza preoccupante
soprattutto per l’abete bianco, per il quale
il ripetuto brucamento delle gemme causa
la morte della pianta.
126
Figura 114: Danni da brucamento
I dati dell’ultimo inventario confermano
quanto già indicato nel primo, ovvero che
è difficile attribuire la responsabilità del
danno da brucamento ad una specie
ungulata particolare. Se ne possono
invece conoscere gli effetti sulle piante:
ad esempio il 96% della rinnovazione di
abete bianco risulta brucato. Questo è
sicuramente un dato significativo per noi,
in quanto ritroviamo all’incirca la stessa
distribuzione generale dei danni, con le
specie più tipiche del piano subalpino,
come il pino cembro, poco brucate,
mentre quasi tutte le specie del piano
montano risultano fortemente brucate.
I danni da sfregamento (foto 115) sono
danni comportamentali, cioè sono riferiti
allo sfregamento dei palchi sul fusto degli
alberi e questi sono tipi di azioni degli
ungulati completamente diverse rispetto
ai brucamenti. In Alta Valle risultano più
sensibilmente interessate da questi danni
le piante che crescono più lentamente,
perché, come veniva espresso nella
relazione del collega Jakub Borkowski sul
pino silvestre, le piante che crescono più
lentamente hanno un periodo più lungo di
esposizione a questo tipo di danni; quindi
il pino cembro, che in Alta Valle in media
impiega circa 30 anni ad arrivare a 1,5 m
di altezza, è sicuramente una specie che
può essere interessata da questi danni.
Figura 115: Danni da sfregamento
Per quanto riguarda la specie ungulata
responsabile, suddividendo le piante in
classi di altezza, per gli esemplari in
prima classe, cioè con altezze fino a 1,5
m, è più interessante l’azione del capriolo
rispetto al cervo, mentre per classi
superiori, fino a 10 cm di diametro, e
quindi ben superiori a 1,5 m di altezza,
cambiano i rapporti e il cervo diventa la
specie principale, per motivi di
dimensione dell’ungulato.
127
Per i danni da scortecciamento (foto
116) derivanti da azione alimentare, legati
alla rimozione della corteccia con i denti
da parte degli ungulati selvatici, stiamo
facendo dei monitoraggi con l’Università
degli Studi di Torino sulla risposta da
cicatrizzazione che le piante hanno nei
confronti di questi danni (foto 117).
Figura 116: Danni da scortecciamento
In questo caso la specie più
interessata è l’abete bianco, un po’ meno
le altre specie che sono presenti
all’interno delle nostre foreste. Anche in
questo caso l’attribuzione corretta
riferisce quasi il 100% dei danni al cervo.
Il secondo inventario evidenzia
un’incidenza percentuale (tabella 3) di
quasi un 72% per il brucamento, mentre
lo scortecciamento risulta
percentualmente poco significativo e lo
sfregamento rappresenta quasi il 20%.
Tabella 3: Incidenza percentuale delle tre tipologie
di danno
71.7%Brucamento
19.4%Sfregamento
5.3%Scortecciamento
Incidenza percentualeTipologa
71.7%Brucamento
19.4%Sfregamento
5.3%Scortecciamento
Incidenza percentualeTipologa
Nell’ottica di valutare come queste
azioni generino delle conseguenze a
livello gestionale, è estremamente
interessante anche un altro aspetto,
ovvero la letalità (tabella 4), cioè l’analisi
della mortalità generata nei confronti della
rinnovazione forestale da questi tipi di
azione. Sicuramente lo sfregamento è
quello che genera una letalità abbastanza
significativa; globalmente il brucamento è
causa del 14% di letalità della
rinnovazione colpita, con l’eccezione
dell’abete bianco in cui quasi il 100%
Figura 117: Risposta da cicatrizzazione in
alberi colpiti da scortecciamento (CFAVS –
UNITO)
128
delle piante brucate dopo un po’ di tempo
arriva a morte; per quanto riguarda lo
sfregamento, la letalità sembra essere più
legata allo sfregamento del cervo rispetto
a quello del capriolo.
Tabella 4: Letalità percentuale suddivisa per tipo
di danno e per specie maggiormente incidenti
35.3%Sfregamento Capriolo
41.2%Sfregamento Cervo
14.3%TOTALE
26.7%Sfregamento
13.8%Scortecciamento
14.2%Brucamento
Letalità %Tipo di danno
35.3%Sfregamento Capriolo
41.2%Sfregamento Cervo
14.3%TOTALE
26.7%Sfregamento
13.8%Scortecciamento
14.2%Brucamento
Letalità %Tipo di danno
Entriamo ora nella valutazione di
questi danni. Rispetto all’analisi effettuata
negli anni ’80, l’approccio nostro come
gestori è completamente diverso:
all’inizio, anche sulla scorta di una
valutazione “emotiva”, l’azione degli
ungulati veniva considerata un danno di
per sè, perché si arrivava da una
situazione di disequilibrio in cui gli
ungulati non c’erano e
conseguentemente anche la popolazione
e noi gestori delle foreste non ci
rapportavamo in alcun modo con questo
tipo di fauna, ma abbiamo dovuto iniziare
a rapportarci e ovviamente all’inizio tutto
veniva considerato danno, con una
visione molto antropocentrica.
Essendo però gli ungulati selvatici una
componente dell’ecosistema, dobbiamo
tener conto che comunque una parte di
usura alimentare e comportamentale ci
deve essere. Abbiamo quindi iniziato ad
affrontare, anche in accordo con altri
gestori e in particolare con l’Università
degli Studi di Torino, la problematica,
cercando di capire come la presenza di
questi ungulati potesse incidere sul
territorio, perché, al di là della valutazione
numerica dell’inventario dei danni,
ovviamente ci si rendeva conto che non
in tutte le situazioni uno stesso
comportamento dava risultati analoghi.
Il primo aspetto, che vede sempre
l’uomo come soggetto principe, è quello
che, trovandoci in un ambiente montano,
assegnamo alle foreste un insieme di
funzioni, cioè ci attendiamo che le foreste
svolgano molteplici funzioni. Questo è
sicuramente un aspetto importante
perché dobbiamo valutare come l’azione
degli ungulati permetta o no alla foresta di
assolvere le funzioni che noi ci
aspettiamo da questa. Qui però subentra
un altro problema, ovvero che le funzioni
che l’uomo, soprattutto sulle Alpi,
assegna alle foreste sono varie e
soprattutto hanno una validità limitata nel
tempo; facendo un esempio molto
semplice, sicuramente fra alcuni anni, se
129
il petrolio continua ad aumentare di
prezzo, le richieste nei confronti di legna
da ardere saranno talmente diverse da
quelle attuali e anche sulle Alpi ci si
interrogherà su modelli gestionali delle
foreste diversi da quelli attuali. Quindi, la
validità delle scelte degli indirizzi
gestionali che noi diamo alle foreste varia
velocemente nel tempo. Negli anni ’60
non si pensava assolutamente che le
foreste avessero un’importanza
economica come quella che hanno
attualmente, basti pensare che allora il
valore di 1 mc di legname sulle Alpi
equivaleva più o meno a uno stipendio,
ora 1 mc di legname in piedi vale 20 euro,
quindi immaginate la differenza. Questo
per illustrare la complessità del processo
decisionale all’interno dell’attribuzione
delle funzioni alle foreste e ovviamente
questo processo decisionale, che si è un
po’ ribaltato negli ultimi anni, nasce
innanzitutto dalla valutazione se esiste o
no una funzione di protezione nei
confronti dei pericoli naturali e, solo dopo
aver escluso la presenza di una funzione
di protezione, si può discriminare se le
foreste sono in grado di produrre
legname o di poter evolvere liberamente
per conto loro senza nessun intervento
da parte dell’uomo, oppure se possono
essere destinate alla fruizione.
Ovviamente all’interno di questo processo
di definizione delle funzioni sono di
primaria importanza anche le destinazioni
naturalistiche – in Alta Valle Susa sono
presenti 18 Siti di Interesse Comunitario e
Parchi regionali – e quindi la complessità
del processo decisionale è notevole.
Questa è la situazione dei boschi in Alta
Valle Susa: il 24% dei boschi svolgono
una funzione di protezione dei versanti;
un 23% assolve una funzione di
protezione dei versanti, ma con possibilità
di attuare modelli selvicolturali che
prevedano anche la raccolta
economicamente vantaggiosa del
legname; un 24% può essere ancora
destinato alla produzione di legname; un
interessante 17% di superficie ha evidenti
interessi per una gestione naturalistica
delle foreste; un 9% può evolvere
liberamente senza alcun intervento e
condizionamento da parte dell’uomo e un
3% è destinato alla fruizione.
In che modo, allora, poter affrontare la
valutazione se sia o no un danno l’azione
degli ungulati? Partiamo ad esempio dalla
necessità di gestione naturalistica
all’interno delle Aree Protette e dei Siti di
Interesse Comunitario: in questi ambiti
bisogna valutare se l’impatto degli
ungulati può in alcuni casi limitare la
diffusione o provocare la scomparsa di
alcune specie forestali. Questo è il caso
del Gran Bosco di Salbertrand, in cui la
presenza di ricchi boschi di abete bianco
ha determinato l’istituzione di un Parco
130
naturale. Se noi partiamo dalla
considerazione che l’Alta Valle Susa,
come quasi tutte le Alpi, ha una ricchezza
floristica e una biodiversità tra le più
elevate all’interno dell’Europa, la tutela di
questa biodiversità rappresenta un
aspetto che deve essere correttamente
valutato. Per quanto riguarda invece gli
aspetti forse più importanti, ovvero quelli
di protezione dei versanti, gli indirizzi
sono contenuti nella pianificazione a
livello di area vasta delle foreste. Lo
scopo del gestore è quello di mantenere
nel tempo la capacità di protezione del
versante; molto spesso si tratta di foreste
con elevata dinamica, quindi con
presenza di zone in rinnovazione, foreste
giovani, che assolvono meglio la capacità
di protezione dei versanti. In questi ambiti
un’azione nei confronti della rinnovazione
deve essere valutata nei confronti del
mantenimento in efficienza di questa
funzione. Lo stesso per i modelli
selvicolturali che si applicano in questi
popolamenti: sono tutti modelli
selvicolturali che, sulla scorta anche delle
indicazioni di una selvicoltura più
prossima alla natura, prevedono sempre
la rinnovazione di tipo naturale all’interno
delle foreste, la rinnovazione su piccole
aree e una gestione che permetta di
mantenere una buona copertura del
terreno e un’elevata dinamica all’interno
delle cenosi forestali, in modo da
assicurare la funzione di protezione in
modo continuativo nel tempo. Per quanto
riguarda invece la produzione di legname
si è passati da modelli selvicolturali tipici
degli anni ’50-’60 con estesi tagli raso e
rinnovazione posticipata artificiale a
modelli selvicolturali in cui viene
privilegiata, se non prescritta, la ricerca
della rinnovazione naturale. Anche in
questo caso, la presenza degli ungulati
deve essere valutata rispetto alla
capacità o meno di assolvere la funzione
di produzione di legname.
Ecco che quindi, sulla scorta di quanto
capitato presso altre strutture di gestione,
ci si è interrogati se già la semplice
definizione di danno fosse sufficiente e
idonea a descrivere quello che
succedeva; nel Piano Forestale
Territoriale abbiamo recepito numerose
indicazioni che si trovano in letteratura e
siamo transitati a un approccio di tipo
diverso, cioè abbiamo definito che, in
ogni caso, dato atto che gli ungulati ci
sono e che quindi, come tali, fanno parte
anche dell’ecosistema della foresta, per
ogni tipologia di popolamento forestale in
relazione anche alla funzione assegnata,
ci potesse essere una soglia di danno
sostenibile, ovvero abbiamo definito una
soglia di danno al di sotto del quale non è
pensabile che vengano arrecati problemi
al mantenimento in efficienza delle
funzioni che noi ci attendiamo dalle
131
foreste, mentre al di sopra di questa
soglia possono esistere dei problemi.
Arrivare a definire queste soglie
ovviamente è un problema abbastanza
articolato. In bibliografia gli esempi non
erano tanto legati a situazioni montane e
alpine, caratterizzate dalla ricchezza
floristica all’interno di popolamenti
forestali e dalla presenza di crescita lenta
delle piante, ma si riferivano a situazioni
abbastanza diverse dalla nostra.
Abbiamo quindi cercato in qualche modo
di arrivare a definire per ogni tipologia
forestale (in Regione Piemonte tutte le
foreste sono catalogate all’interno di tipi
forestali), in funzione del mantenimento in
efficienza delle funzioni assegnate alle
foreste, quale potesse essere la soglia di
danno accettabile, considerando il danno
sulla percentuale della rinnovazione
presente.
I dati riportati in tabella 5 sono relativi
alle tipologie forestali che riescono a
sostenere l’usura che gli ungulati danno
nei confronti della rinnovazione forestale.
Tabella 5: Tipologie forestali con danno
riscontrato minore della soglia di danno
accettabile
35,00%21,14%Pineta di Pino uncinato
30.00%29,61%Pineta endalpica di gretodi pino silvestre
35,00%33.45%Pineta Mesalpico-Endalpicaacidofila a pino silvestre
Soglia di danno accettabile
Danno riscontrato
Tipi forestali
35,00%21,14%Pineta di Pino uncinato
30.00%29,61%Pineta endalpica di gretodi pino silvestre
35,00%33.45%Pineta Mesalpico-Endalpicaacidofila a pino silvestre
Soglia di danno accettabile
Danno riscontrato
Tipi forestali
Questi sono dei popolamenti che, in
Alta Valle, crescono soprattutto su
stazioni su versanti meridionali e sono
parte delle pinete, sia endalpiche che
crescono lungo i greti, sia acidofile a pino
silvestre (per chi conosce, nella zona tra
Exilles e Salbertrand). Presentano una
soglia di danno accettabile in quanto, allo
stato attuale, dai dati dell’inventario, ciò
che gli ungulati consumano della
rinnovazione forestale risulta sostenibile,
ovvero noi osserviamo che il
popolamento evolve anche in presenza di
questo tipo di componente
dell’ecosistema senza che si riscontrino
dei problemi alla sua dinamicità. Ad
esempio la pineta acidofila presenta un
33% di danno a fronte di una soglia di
danno accettabile del 35%; lo stesso vale
per le pinete di pino uncinato che, forse
anche per problemi alimentari, risultano le
pinete meno colpite.
132
Nella tabella 6 vediamo riportati i
popolamenti in cui ci può essere una
soglia di allerta.
Tabella 6: Tipologie forestali con danno
riscontrato di poco maggiore alla soglia di danno
accettabile
35,00%39.47%Larici-cembreto aCalamagrostis villosa
20,00%31,21%Pineta endalpicamesoxerifiladi pino silvestre
30,00%32,70%Pineta Endalpica basifila dipino silvestre
Soglia di danno accettabile
Danno riscontrato
Tipi forestali
35,00%39.47%Larici-cembreto aCalamagrostis villosa
20,00%31,21%Pineta endalpicamesoxerifiladi pino silvestre
30,00%32,70%Pineta Endalpica basifila dipino silvestre
Soglia di danno accettabile
Danno riscontrato
Tipi forestali
In questi tipi forestali troviamo un
danno riscontrato vicino alla soglia di
danno accettabile. E’ il caso delle pinete
più frequenti, quelle situate tra Oulx e
Bardonecchia, e delle pinete sui versanti
nord in cui si riscontra una dinamica di
rinnovazione molto vivace, con abete
bianco, abete rosso e larice, e in cui il
danno è stato riscontrato superiore alla
soglia di danno accettabile. Ci sono poi i
lariceti con pino cembro, a quote inferiori,
in cui il danno riscontrato è vicino alla
soglia di danno accettabile. La gestione di
questi popolamenti deve essere
particolarmente attenta, deve proseguire
il monitoraggio, ma il gestore deve sapere
che in qualche caso occorre valutare
anche delle scelte gestionali diverse
rispetto a quelle applicate.
Nella tabella 7 sono riportati i
popolamenti in cui - e qui la parte del
leone la fanno le abetine di abete bianco -
l’usura è ben maggiore rispetto a quanto
potrebbe essere il danno accettabile
all’interno di questi popolamenti.
Tabella 7: Tipologie forestali con danno
riscontrato molto maggiore della soglia di danno
accettabile
25,00%49,85%Laricetosu rodereto-vaccinieto esu pascolo
25,00%51.24%Pecceta endalpica apino silvestre e larice
18.00%85,24%Abetina meso-trofica
15,00%92.24%Abetina eutrofica
Soglia di danno accettabile
Danno riscontrato
Tipi forestali
25,00%49,85%Laricetosu rodereto-vaccinieto esu pascolo
25,00%51.24%Pecceta endalpica apino silvestre e larice
18.00%85,24%Abetina meso-trofica
15,00%92.24%Abetina eutrofica
Soglia di danno accettabile
Danno riscontrato
Tipi forestali
Lo stesso riguarda anche i lariceti su
rodereto-vaccinieto e su pascolo che,
proprio anche per le loro caratteristiche di
presenza di rinnovazione molto sporadica
e delicata, sono popolamenti abbastanza
colpiti.
Capite quindi come questo approccio
ha premesso di monitorare, perimetrare e
entrare nel dettaglio del comportamento
133
degli ungulati nei confronti dei
popolamenti forestali, rispetto a quanto
poteva essere un’analisi pura e semplice
del danno dal monitoraggio effettuato.
Questo permette di attuare delle
attenzioni, legate al segnale di pericolo:
sicuramente i popolamenti tra Oulx e
Bardonecchia, sul versante nord, e
soprattutto la zona di Salbertrand ed
Exilles, dove sono presenti le abetine e
alcuni popolamenti di larice nella testata,
sono le zone in cui è prevista
un’attenzione nei confronti dei danni degli
ungulati. Questa è sicuramente cosa ben
diversa rispetto ad avere la totalità
dell’Alta Valle Susa posta a rischio di
collasso per la presenza di ungulati.
Passando all’ultima parte, cioè la
prevenzione, vediamo cosa, in sostanza,
viene fatto.
Per prima cosa, già da un po’ di anni,
nelle abetine stiamo passando a modelli
gestionali che non prevedono più la
necessità di estese superfici in cui
aspettarsi la rinnovazione naturale. Come
è noto, i popolamenti forestali evolvono
attraverso fasi che sono quelle di
rinnovazione, di crescita, di
invecchiamento e di collasso e occorre
fare in modo che i nostri popolamenti
forestali si arricchiscano di strutture varie,
in modo tale da non avere necessità
estese di messa in rinnovazione, ma da
avere dei popolamenti che solo per
piccole zone abbiano necessità di messa
in rinnovazione. Un popolamento più
articolato, in cui si può scalare nel tempo
la necessità di rinnovazione, fa sì che i
disturbi esterni, tra cui possiamo
includere gli ungulati, non siano così in
grado di arrecare problematiche diffuse e
uniformemente distribuite, tali da creare,
se presenti, problemi alla dinamica
forestale. Questo discorso vale per tutti i
pericoli naturali e questa attenzione
genera sicuramente degli effetti positivi a
livello di gestione.
Un’altra cosa che facciamo è quella di
cambiare approccio, perché noi forestali
abbiamo sempre fretta: entriamo in un
bosco, vediamo che non c’è la
rinnovazione e cadiamo nel panico!
Ovviamente, questo è legato anche al
fatto che i modelli gestionali prevedono
sempre ormai la presenza di rinnovazione
naturale e, se non ne vediamo, ci viene
l’ansia! Ecco che, invece, un altro aspetto
legato alla prevenzione è quello di avere
un approccio più attendista, cioè di
sapere aspettare e non prevedere, se
non strettamente necessario, una messa
in rinnovazione, che, in presenza di
ungulati selvatici, potrebbe avere dei
problemi. Applicare modelli gestionali
estensivi e molto incisivi, in alcune zone,
genera comunque delle problematiche,
mentre un approccio più prossimo alla
134
natura, nella gestione delle foreste sulle
Alpi, come sta avvenendo un po’
dappertutto, può essere interessante.
La prevenzione si basa anche sul fatto
di favorire e di non ostacolare la presenza
del lupo e degli altri predatori che, per
fortuna, sono presenti all’interno del
nostro territorio e che contribuiscono a un
riequilibrio all’interno del vasto panorama
faunistico presente nell’Alta Valle di Susa,
quindi il loro contributo è estremamente
positivo. Questo genera però dei problemi
con il modo venatorio, non tanto con i
gestori degli istituti faunistici, quanto nei
confronti del singolo cacciatore che,
magari per la presenza di predatori, vede
meno gli ungulati.
Un altro aspetto legato alla
prevenzione è legato al fatto di produrre,
come abbiamo visto anche nell’intervento
relativo alla Polonia, misure attive, quali
recinzioni o altro. Sicuramente sulle Alpi
esistono problemi di costi di questi
sistemi e infatti vengono utilizzati come
ultima possibilità, proprio quando non ci
sono altre soluzioni, in quanto sono molto
costosi; inoltre a causa della presenza
della neve che spinge sulle recinzioni e,
in qualche caso, le abbatte o le
danneggia, risulta molto difficile e poco
praticabile l’utilizzo di questi sistemi.
Nel caso in fotografia 118 è possibile
vedere una zona in cui sono state usate
recinzioni.
Figura 118: Recinzioni
Si tratta di una zona in cui uno
schianto da vento su circa 60 ettari ha
completamente allontanato la copertura
forestale; in questo caso per diversi
motivi si è resa necessaria la
realizzazione di queste recinzioni, ma, se
non succedono casi come questo, di
evidenti problemi esterni alla corretta
gestione del bosco, non facciamo mai
ricorso a questo sistema. Un altro caso in
cui siamo ricorsi alle recinzioni è quello di
Exilles, in cui un incendio ha prodotto un
allontanamento della copertura forestale
a monte di un paese creando problemi di
protezione diretta del centro abitato.
L’altro aspetto, anche se potrebbe
essere quello più scontato, ma che
stiamo portando avanti grazie sia al
Parco del Gran Bosco di Salbertrand, sia
al CA TO2 (che è l’ente gestore della
fauna in Alta Valle Susa), è quello di
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essere riusciti a comunicare le diverse
esigenze e a far contemplare all’interno
dei Piani di gestione della fauna il
monitoraggio dei danni e le analisi che
noi abbiamo effettuato sul danno
sostenibile. In questo modo, anche nella
definizione dei Piani di abbattimento o nei
Piani di gestione della fauna, chi deve
provvedere alla gestione della fauna sa e
comprende all’interno dei propri piani il
monitoraggio che noi abbiamo effettuato
sul popolamento forestale. Questo per noi
è un aspetto molto interessante, perché
fa sì che i diversi gestori del territorio
colloquino e si rendano partecipi della
gestione integrata del territorio e questo è
un aspetto abbastanza decisivo, per noi,
per la gestione corretta del territorio.
Grazie.