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QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA PUBBLICA E TERRITORIALE n. 2/2010 Silvio Beretta e Renata Targetti Lenti L'India nel processo di integrazione internazionale. Dal primo al secondo unbundling e la posizione dell'Italia UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PAVIA

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QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA PUBBLICA E TERRITORIALE

n. 2/2010

Silvio Beretta e Renata Targetti Lenti

L'India nel processo di integrazione internazionale. Dal primo al secondo unbundling e la posizione

dell'Italia

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PAVIA

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QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA PUBBLICA E TERRITORIALE UNIVERSITA’ DI PAVIA ______________________________________________________________________ REDAZIONE Enrica Chiappero Martinetti Dipartimento di Economia Pubblica e Territoriale Università degli Studi di Pavia Corso Strada Nuova 65 27100 PAVIA tel. 0039-382-984401 -984354 fax 0039-382-984402 E-MAIL [email protected] COMITATO SCIENTIFICO Italo Magnani (coordinatore) Luigi Bernardi Renata Targetti Lenti La collana di QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA PUBBLICA E TERRITORIALE ha lo scopo di favorire la tempestiva divulgazione, in forma provvisoria o definitiva, di ricerche scientifiche originali. La pubblicazione di lavori nella collana è soggetta, con parere di referees, all’approvazione del Comitato Scientifico. La Redazione ottempera agli obblighi previsti dall’art. 1 del D.L.L 31/8/1945 n. 660 e successive modifiche. Le richieste di copie della presente pubblicazione dovranno essere indirizzate alla Redazione.

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L'India nel processo di integrazione internazionale. Dal primo al secondo unbundling e la posizione dell'Italia Silvio Beretta, [email protected] Renata Targetti Lenti, [email protected]

Abstract. The paradox of India’s current success can be seen as the outcome of what were once considered policy failures. If compared with other fast-growing Asian economies (as China), India’s pattern of development is quite idiosyncratic. Indian economy differs from any other at the same development level (in particular from China) under two respects, namely the skill intensity of its exports and the variety of its products. The importance of services compared to manufacturing is widely acknoweldged. In addition to this, within this latter India emphasized skill-intensive rather than labour-intensive manufacturing. Moreover, within manufacturing India emphasized skill-intensive rather than labour-intensive productions. While China seems to be absorbing surplus labour from agriculture into manufacturing, there is a growing concern that India failed to match its neighbour. In fact, according to some scholars the prospects for employment growth in the skill-based sector are relatively limited. In contrast to other comparable developing Countries, India put an emphasis on tertiary education. Combined with a wide range of policy distortions, this may account for channelling the manufacturing sector into more skill-intensive productions. Furthermore, the government attempted to develop capital goods production (mostly by involving the public sector). This led to India being a major presence in few industries, requiring a scale of production larger than in other developing Countries. However, regulatory penalties and constraints on big private businesses implied that - in most private industries - the average firm size was relatively small. Finally, a rigid labour law regime, as well as constraints on the scale of private enterprises, might as well have limited India’s presence in labour-intensive manufacture, i.e. the usual specialization pattern of a populous developing Country. At the same time, the protectionist policy created an enormously diversified industrial sector, if compared to other similar economies. Also, such diversification ends up often being quite inefficient. The combination of these ‘‘policy mistakes” can be considered instrumental in shaping the economy of India today. Many authors complained that India would not revert to the pattern followed by other Countries, despite several reforms which removed some political obstacles shaping its distinctive path. Now, the challenge is to successfully combine a rapid rate of growth with a development process, promoting employment and poverty reduction. Such virtuous path could result not only from national policies, but above all from the globalization process and the outsourcing and offshoring in the service sectors. In particular, moving from outsourcing of business services (“first unbundling”) to outsourcing of tasks (“second unbundling”) could be very important. A theory of global production process focusing on tradable tasks would be especially suitable to investigating how falling costs of offshoring affect factor prices and employment in the industrialized Countries as well as in developing countries like India. In this paper, we analyze how national policies contribute to explain India’s growth and its place in the international division of labour. We first examine India’s pattern of development, being sure that a snapshot of India at this point reflects the legacy of its unique and much-commented-upon development strategy: a curious combination of simultaneously favouring and disfavouring domestic entrepreneurship, with a rich overlay of arcane rules and procedures. Then, we examine the position of India in the globalization process. In particular, we try to explain the challenges and opportunities for this system, that could derive from the so-called “second unbundling”. JEL Classification: F41 L2 L8 O53 O57 P52. Keywords: Sviluppo economico dell'India, India e globalizzazione, India e Cina, Outsourcing, Offshoring, Unbundling.

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1. Introduzione “Il 6 luglio 2006 è stato riaperto al traffico il passo di Nathu La fra l’India e la Cina, a quasi seimila metri d’altezza nel cuore dell’Himalaya. La via della seta che aveva contrassegnato per millenni i rapporti fra i due paesi, e fra la Cina e il resto del mondo, è tornata alla vita dopo essere stata ermeticamente sigillata per oltre quarant’anni” (Armellini, 2008, p. 7). Così inizia la prefazione di Antonio Armellini, già ambasciatore d’Italia a New Delhi, alla traduzione italiana di un recente saggio sui sistemi imprenditoriali di India e Cina (Khanna, 2008). Ma la circostanza evocata introduce con immediatezza il tema delle prospettive dell’economia indiana nel contesto internazionale, quali si vanno delineando a seguito del prevedibile intensificarsi dei rapporti commerciali tra i due sistemi asiatici: ne potrebbero infatti derivare sinergie fra tali sistemi, con conseguente accelerazione dello sviluppo di entrambi. Infatti “Both nations would be more inclined to solve cooperatively the relatively small irritants that exist between them, such as border disputes” (Basu, 2007, p. 30). È consueto, oggi, mettere a confronto la crescita recente dell’India e quella della Cina (Rampini, 2006). Tale confronto non è, d’altra parte, né irrilevante né di rilievo contingente: è invece funzionale a meglio comprendere i fattori specifici dello sviluppo economico indiano, e quindi anche le sue prospettive, che condizioneranno a loro volta quelle dell’intera area asiatica e le stesse opportunità di crescita delle (e di integrazione con le) economie europee e italiana in questa area. Si sostiene a tale proposito che Cina e India “si svilupperanno autonomamente secondo linee mutually reinforcing e non conflittuali” (Armellini, 2008, p. 8): esse continueranno a uniformarsi a modelli distinti, ma sfrutteranno al meglio le rispettive eccellenze e la loro complementarità produrrà vantaggi in termini di crescita sia interna sia mondiale (Khanna, 2008). La progressiva apertura dell’India agli scambi internazionali è una delle conseguenze più significative del processo di globalizzazione. In un contesto di crescente, generalizzata interdipendenza l’area asiatica ha complessivamente assunto, ed è destinata ad accrescere, la propria rilevanza nel quadro delle relazioni triangolari USA-Pacifico-Europa. Le performance della Cina nella macroregione East Asia and the Pacific e dell’India in quella South Asia costituiscono oggi, infatti, la determinante del sistematico maggior valore del tasso di sviluppo del Pil - sia effettivo sia previsto - dei developing countries rispetto al dato medio mondiale1: tale effetto risulterebbe naturalmente ancora maggiore se, per ottenere queste medie “regionali”, i dati della crescita venissero ponderati per la popolazione. Il processo di integrazione non riguarda più d’altra parte, come in passato, i soli flussi commerciali ma anche - e soprattutto - i flussi di investimento e la delocalizzazione dei processi produttivi: questi presentano, per l’Europa e per l’Italia, sfide e opportunità di crescente rilievo la cui consapevolezza presuppone, ed è questo l’oggetto del presente lavoro, un approfondimento, di necessità non strettamente economicistico, proprio delle specificità dello sviluppo indiano. 2. India e Cina: un primo confronto Se molte sono le analogie fra i due sistemi sotto il profilo dei fondamentali del processo di crescita, altrettanto numerose - e forse più marcate - appaiono le differenze culturali, socio-politiche e di struttura produttiva. L’India, così come la Cina, si distingue per un processo di crescita accelerato, che è andato accentuandosi nell’ultimo decennio e le cui determinanti sono riconducibili alle 1 Simmetricamente, i paesi raggruppati sotto la voce Sub-Saharan Africa registrano valori (sia effettivi sia in proiezione) sistematicamente inferiori a quelli medi dei developing countries, ma stabilmente superiori (anche nelle proiezioni a medio termine) alla media mondiale, con la sola eccezione degli anni 1980-2000 (+2,2% contro +3%). Ancora più in basso nella graduatoria si colloca l’area Middle East and North Africa, limitatamente tuttavia agli anni fra il 2004 e il 2008 (previsioni), dal momento che sia i valori relativi agli anni 1980-2000 sia quelli previsti per il 2008-30 sono superiori alla media mondiale (rispettivamente +4% contro +2,2% e +3,6% contro +3,3%). Se quindi i paesi Middle East and North Africa possono essere considerati un “freno” nei confronti del complesso dei developing countries, sembra che siano i paesi high-income a esserlo quando il contesto è quello mondiale (World Bank, 2008).

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riforme avviate all’ inizio degli anni ‘90. I tassi di crescita del Pil, sebbene meno elevati di quelli cinesi, sono stati nell’ultimo decennio - e permangono - molto significativi. L’India è oggi, infatti, la quinta economia per importanza in termini di Pil2. In entrambi i paesi il ruolo delle imprese pubbliche si è poi rivelato determinante per l’avvio del processo di crescita. E in entrambi le diverse fasi della crescita sono state contrassegnate da significativi cambiamenti politici e dall’emergere di personalità come Nehru, i Gandhi e più recentemente Manmohan Singh in India e come Deng Xiaoping e Jiao Zeming in Cina. In India risale infatti a Nehru la decisione di promuovere un modello di pianificazione centralizzata basato sull’ intervento dello Stato sia come regolatore del sistema economico sia come “proprietario” delle risorse produttive. Per tali vie esso è andato progressivamente assumendo un ruolo preponderante, quando non esclusivo, in settori rilevanti dell’economia indiana (si parla a questo proposito di Commanding Height). Nel periodo immediatamente successivo all’ indipendenza, e fino agli anni ’80, la pianificazione indiana, pur evidenziando analogie con quella cinese in ragione della priorità assegnata da entrambe all’industria di base, ha presentato caratteristiche del tutto peculiari. Gli orientamenti di policy riflettevano in particolare i princìpi gandhiani. La morigeratezza nei comportamenti di consumo trovava infatti giustificazione nella ricerca di un migliore equilibrio tra uomo e natura ed era pertanto cruciale ai fini del benessere complessivo degli individui. Tale messaggio si traduceva, in campo economico, nella difesa delle produzioni locali, di quelle tradizionali e di quelle artigianali a scapito delle produzioni destinate all’esportazione3. In entrambi i paesi permane rilevante il peso di un’agricoltura in larga misura arretrata. In India, sia pure per ragioni diverse dalla Cina, il settore agricolo è stato sistematicamente penalizzato, determinando di frequente scarsità di beni alimentari. In India, così come in Cina, ma il dato è comune ai paesi emergenti, sono inoltre rilevanti e crescenti le diseguaglianze tra regioni, tra classi sociali, tra città e campagna. In entrambi i paesi politica estera e alleanze sono state condizionate, negli ultimi anni, dalla necessità di reperire fonti energetiche aggiuntive. Gli accordi nucleari recentemente siglati con gli Stati Uniti segnano inoltre l’abbandono da parte dell’India della politica di “non allineamento” e il suo ingresso tra i protagonisti di maggiore peso della comunità internazionale (Torri, 2007). Tra India e Cina sono individuabili, per converso, anche differenze significative. Sul piano generale, al “socialismo confuciano” della nuova Cina si contrappone in India la “democrazia diffusa”, contraddistinta da un’ampia autonomia regionale e da un modello di “organizzazione sociale guidata dal basso” (Armellini, 2008, p.8) nel contesto di istituzioni e di strutture formative profondamente segnate - specialmente a livello di istruzione superiore - dall’influenza britannica. In particolare il sistema universitario viene considerato una delle determinanti del ruolo eminente che l’India occupa nel terziario avanzato (ICT). È infatti nel contesto di un assetto istituzionale democratico, quindi antagonistico rispetto a quello cinese, che si è sviluppata la produzione di beni immateriali informatici, biotecnologici e di servizi a elevato contenuto di innovazione. Tale assetto si è iscritto in una cultura millenaria di pluralismo e di "tradizione argomentativa", nella quale il dibattito delle idee ha potuto svilupparsi in spirito di reciproco riconoscimento. La tradizione culturale indiana è infatti, contrariamente a quella cinese, spiccatamente speculativa. Inoltre, come ha recentemente ricordato Amartya Sen, il concetto stesso di democrazia può essere esteso per comprendervi non soltanto le istituzioni di natura specificamente politica, ma anche altre rilevanti caratteristiche del sistema (Sen, 2004). In tale più ampia accezione la democrazia è definibile come 2 Nel 2008 il Pil era di 1,217.5 miliardi di dollari USA, pari a un valore pro capite di 1,070.0 dollari. 3 Le ragioni remote che contribuiscono a spiegare il mancato avvio di un autentico processo di industrializzazione in India sono di natura eterogenea: fra le altre gli interessi della Compagnia delle Indie Orientali, che hanno concorso a frenare lo sviluppo delle industrie tradizionali, e la convenienza a utilizzare tecniche produttive a elevata intensità di lavoro, cioè della risorsa produttiva più abbondante. Non vi è tuttavia dubbio che la responsabilità principale deve essere attribuita proprio alle politiche di piano adottate: la centralità assegnata alle lavorazioni artigianali e manuali e la rigida divisione dei ruoli tra mercanti-capitalisti e artigiani-manuali vennero infatti assunte come canoni ai quali conformare l’architettura della politica industriale.

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“government by discussion” dove “individual values can and do change in the process of decision-making” (Buchanan, 1954, p. 120). In India il sistema democratico, per di più strutturalmente decentrato, ha rappresentato un freno al processo di accumulazione. Tasso di risparmio e tasso di investimento risultano infatti sistematicamente inferiori a quelli cinesi. Mentre in Cina la propensione all’ investimento in infrastrutture ha favorito la modernizzazione del sistema produttivo, la carenza di infrastrutture adeguate continua infatti a rappresentare un ostacolo per lo sviluppo indiano. In Cina il controllo pubblico del sistema bancario e finanziario ha promosso l’ accumulazione e la crescita: in India ha invece determinato un’offerta di credito insufficiente e distorsioni nella sua composizione. La struttura dell’economia indiana per settori produttivi è inoltre molto diversa da quella cinese. Il settore manifatturiero vi occupa infatti un peso tuttora modesto (pari al 29% del PIL nel 2008 contro il 49% della Cina) mentre più consistente, e in qualche misura anomalo per un paese emergente, è il peso del settore terziario (pari ben il 53% del PIL nel 2008 contro il 40% della Cina)4. La diversità delle strutture produttive e dei sistemi finanziari trova poi corrispondenza nel diverso ruolo degli investimenti esteri: in Cina questi suppliscono alle carenze del mercato interno, in India sono considerati un potenziale ostacolo allo sviluppo del sistema economico (Khanna, 2008). 3. Linee evolutive dello sviluppo indiano Secondo numerosi osservatori sono le politiche attuate nei decenni che hanno preceduto il processo riformatore, nonché le liberalizzazioni successive, a spiegare caratteristiche e specificità del sistema economico indiano (Kochhar et al., 2006; Banerjee, 2006). Queste sono sinteticamente identificabili in: i) un settore industriale molto differenziato, caratterizzato tanto da imprese pubbliche di grandi dimensioni, quanto da imprese private di dimensioni medio-piccole e a elevata intensità di lavoro qualificato, ii) un mercato del lavoro piuttosto rigido nel quale è carente l’offerta di lavoro qualificato; iii) un settore terziario molto sviluppato in rapporto a quello manifatturiero. Tali caratteristiche sono la conseguenza: 1) di un’espansione del terziario avanzato più rapida della norma, per un paese emergente, e 2) della progressiva contrazione registrata, negli anni recenti, dagli investimenti nell’istruzione superiore. Nei decenni che seguirono l’indipendenza lo Stato nazionalizzò alcuni settori-chiave dell’economia, sostenendone altri con ingenti investimenti, e sottoponendo il settore privato a un articolato sistema di regole e di controlli. Vennero erette barriere tariffarie e doganali a protezione delle industrie nazionali. Tali politiche ebbero come effetto tassi di crescita di modesta entità. La crescita - pure contenuta - degli anni ‘80, alla quale ci si riferisce come all’ Hindu rate of growth (Rodrik, Subramanian, 2004; Srinivasan, 2005), era stata in larga misura determinata da politiche di bilancio espansive che, unitamente all’ aumento dei sussidi, avevano contribuito ad accrescere il disavanzo del settore pubblico. Il fabbisogno di quest’ultimo era stato in parte finanziato “monetizzandolo”, cioè collocando titoli del debito pubblico presso la Banca Centrale. Base monetaria e offerta di moneta erano aumentate. Il disavanzo pubblico aveva assorbito gran parte del risparmio disponibile interno, riducendo le risorse a disposizione degli investimenti privati. L’accumulo dei disavanzi si era tradotto in un aumento del debito pubblico con conseguenze significative in termini di elevati tassi di inflazione, necessità di ricorrere al credito estero per il finanziamento degli investimenti, aumento del debito estero: circostanza, quest’ultima, che aveva accresciuto i rischi di insolvenza delle imprese (con conseguente recessione e perdita di posti di lavoro) derivanti da eventuali svalutazioni monetarie. Nonostante gli interventi del FMI, della Banca Mondiale e giapponesi, l’economia indiana 4 I dati sono di fonte World Bank (2009a), Si veda: http://www.worldbank.org.in/WBSITE/EXTERNAL/COUNTRIES/SOUTHASIAEXT/INDIAEXTN/0,,menuPK:295609~pagePK:141132~piPK:141109~theSitePK:295584,00.html

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manifestava, all’inizio degli anni ’90, preoccupanti segnali di crisi. Le restrizioni commerciali (tariffarie e non) introdotte non si erano rivelate sufficienti a ridurre il disavanzo di parte corrente, a determinare il quale avevano contribuito sia le ingenti importazioni di beni alimentari necessarie a fare fronte all’ insufficiente produzione agricola, sia il permanere della dipendenza dall’estero per l’approvvigionamento di materie prime (risorse energetiche) e beni capitali. Si erano, di conseguenza, progressivamente ridotte le riserve valutarie ed era aumentato il debito estero. La crescente inflazione interna aveva inoltre ridotto la competitività delle esportazioni indiane. È in questo contesto macroeconomico che si inquadra la crisi nei pagamenti internazionali dell’inizio degli anni ’905: per farvi fronte l’India concordò con il FMI un nuovo prestito di 1,5 miliardi di dollari, nonché l’adozione di riforme strutturali. Le riforme intraprese a partire dal 1991 furono caratterizzate da un mix di politiche di stabilizzazione e di interventi strutturali di stampo liberista (Bardhan, 2004). Questo processo di liberalizzazione è noto come “Delhi Consensus”, per sottolinearne la peculiarità rispetto al noto “Washington Consensus”. La Commissione per il piano venne ridotta a un ruolo consultivo, mentre il processo di liberalizzazione investì gli investimenti, il tasso di cambio, il regime commerciale, il settore finanziario e quello fiscale. Durante la fase iniziale del programma di riforme la priorità fu assegnata all’abolizione del License Raj, il complicato e minuzioso sistema di licenze e di adempimenti richiesti fin dai tempi dell’indipendenza per iniziare e condurre un’attività economica nella maggior parte dei settori produttivi. Anche al riequilibrio dei conti pubblici e alle politiche di stabilizzazione fu assegnata la priorità6. Il tasso di crescita del PIL aumentò progressivamente attestandosi al 6,2% in media all’anno nel periodo 1993-2000, per passare successivamente al 9,4% nel 2005 e ridursi progressivamente al 7,1% nel 2008. La ripresa è stata particolarmente significativa nei settori industriale e dei servizi nonché nella domanda di beni di consumo. Si apre a questo punto la “terza fase” del processo di sviluppo. Gli investimenti diretti esteri erano passati da 0,6 miliardi di dollari nel 1992-93 a 4,1 miliardi nel 1993-94, con una particolare accelerazione verso la fine del 1993: tali sviluppi vennero interpretati come una sorta di “voto di fiducia” nei confronti delle politiche macroeconomiche attuate. Le misure adottate dalla Reserve Bank of India a partire dal 1994 hanno inoltre consentito di ridurre l’inflazione al di sotto del 5% nel 1996: in assenza di aggiustamenti significativi in campo fiscale, questo risultato è stato raggiunto grazie all’aumento dei tassi di interesse reali. Le riforme economiche varate nel 1991 e i positivi effetti dell’ accresciuta integrazione del paese nel sistema internazionale hanno favorito la valorizzazione delle sue potenzialità, così da determinare un aumento del PIL di quasi quattro volte (293 miliardi di dollari USA nel 1988, 1.159 miliardi nel 2008)7. Non sono state tuttavia in grado di ridurre in misura adeguata il fenomeno della povertà, che in molte zone rimane ancora molto elevato8: i divari tra zone urbane e zone rurali permangono inoltre fortissimi9. L’India è oggi il secondo paese più popoloso dopo la Cina, con 1 miliardo e 40 milioni di abitanti10. Il ragguardevole incremento della popolazione non è sorprendente dal punto di vista delle regolarità demografiche. Anche i paesi occidentali, quando 5 Le riserve valutarie indiane erano appena sufficienti a sostenere due settimane di importazioni. In più, il rating dell’India venne abbassato e le obbligazioni indiane vennero declassate a junk bonds. 6 Nel maggio del 1992, appena dopo la prima serie di liberalizzazioni commerciali, venne dimezzata la percentuale di produzione manifatturiera indiana sottoposta a restrizioni non tariffarie, che passò dal 90% al 46%. Tuttavia i provvedimenti di liberalizzazione riguardavano, ancora una volta, soprattutto i beni intermedi e i macchinari: in queste categorie le percentuali dei beni sottoposti a restrizioni non tariffarie erano scese, rispettivamente, al 19% e al 12%. Le restrizioni non tariffarie sui beni di consumo finale rimanevano invece elevatissime. 7 Si veda World Bank (2009b). 8 Un terzo della popolazione vive ancora in condizioni di povertà: per l'esattezza il 26,1% se si colloca la soglia della povertà a un livello - comunque molto basso - di 80$ all'anno. La percentuale sale al 44% (la Cina si colloca al 19%) se si fissa la soglia a 1$ al giorno, cioè al livello convenzionalmente stabilito dalle Nazioni Unite come corrispondente alla povertà “estrema”. La percentuale sale a circa l’80% se la soglia viene collocata a 2$ al giorno. 9 Secondo stime ufficiali indiane, fra il marzo e l’ottobre del 2004 i casi di suicidi per debiti di contadini sarebbero stati più di mille, mentre l'Istituto di Studi per lo Sviluppo di Chennai parla di una vera e propria "epidemia". 10 Si veda World Bank (2009b).

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sono stati socialmente ed economicamente comparabili all’India odierna, hanno registrato andamenti demografici analoghi. Ma se il tasso di crescita della popolazione indiana può essere considerato “normale”, valori assoluti e distribuzione territoriale non lo sono. Il 71% circa degli abitanti vive infatti ancora in zone rurali11. Le città molto popolate sono, per ora, relativamente poco numerose: meno di 40 superano il milione di abitanti, incluse le quattro megalopoli di Mumbai, Kolkata, Dilli e Chennai.

Per concludere, il processo riformatore degli anni ‘90 (dopo alcuni tentativi che risalgono alla metà del decennio precedente) e le politiche del governo guidato da Manmohan Singh sotto l’influenza di Sonia Gandhi hanno consentito all’India, forse per la prima volta dall’ indipendenza, di esercitare un ruolo di protagonista nel contesto internazionale. Deregolamentazione degli investimenti nella maggior parte dei settori industriali, sottrazione di molte industrie-chiave alla mano pubblica, graduale abolizione delle restrizioni quantitative sulle importazioni, avvio della liberalizzazione dei cambi e della convertibilità di parte corrente, alleggerimento della pressione fiscale e riforme finanziarie sono alcuni dei provvedimenti/orientamenti assunti in quegli anni12. E’ andata in tal modo affermandosi una imprenditorialità diffusa la quale per altro, al momento, costituisce solo una premessa di sviluppo equilibrato nel medio periodo. La caduta delle limitazioni quantitative al commercio dei tessili e l’entrata in vigore (1 gennaio 2005) delle norme a tutela della proprietà intellettuale rappresentano un ulteriore, significativo momento di svolta. 4. Le caratteristiche del settore produttivo L’India è un’economia di tipo misto in cui il policy maker, a livello sia federale sia statale, svolge tuttora un significativo ruolo di regolazione, oltre che di gestione diretta delle numerose imprese pubbliche. Le politiche attuate dopo l’indipendenza, e nei due decenni dall’inizio delle riforme, hanno prodotto effetti contrastanti che danno luogo, secondo alcuni autori, a un vero e proprio “paradosso” (Banerjee, 2006). La pianificazione centralizzata, analogamente a quanto accaduto in Cina, aveva annullato ogni sorta di incentivo, riducendo di conseguenza la produttività e la competitività del sistema. Erano state introdotte severe (e crescenti) misure di restrizione commerciale al fine di proteggere le industrie locali, caratterizzate da bassa produttività. Il Licence Raj, sommandosi a quello dei dazi doganali, aveva determinato gravi distorsioni nel sistema produttivo favorendo le produzioni destinate a sostituire le importazioni piuttosto che a incentivare le esportazioni. I prezzi interni erano molto più elevati di quelli internazionali, mentre il sistema delle licenze aveva dato luogo al formarsi di posizioni di rendita. Uno degli obiettivi del processo di pianificazione e delle politiche protezionistiche era stato quello di raggiungere l’autosufficienza in molti settori manifatturieri, favorendo nel contempo i comparti produttori di beni capitali (Kochhar et al., 2006). Sistema delle licenze e controllo pubblico erano gli strumenti utilizzati per realizzare gli obiettivi di piano. Contemporaneamente si era cercato di frenare, tramite la legislazione antimonopolistica, gli eccessi di concentrazione produttiva. A partire dall’inizio degli anni ’80 e fino al 1990, tuttavia, la strategia di sviluppo ha subìto modificazioni, in particolare sotto forma di un più accentuato decentramento dei processi decisionali e della promozione delle privatizzazioni. Il regime delle licenze (l’Hindu rate of reform) è stato reso più flessibile, sebbene in modo non generalizzato bensì selettivo. Grazie all’adozione di questi provvedimenti gli anni ‘80 hanno visto una crescita piuttosto sostenuta rispetto ai decenni

11 Al momento dell’ indipendenza, gli abitanti dell’India ammontavano a circa 350 milioni. Oggi sono all’incirca triplicati. L’India registra attualmente una crescita demografica costante (pari all’1,61% all’anno) notevolmente inferiore ai picchi raggiunti tra gli anni ‘50 e ’70 del XX secolo, che sollecitarono drastiche misure di pianificazione familiare, tra cui le impopolari campagne di sterilizzazione: tale andamento era stato determinato dai ragguardevoli risultati raggiunti nella lotta contro le carestie locali e dal miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie, che hanno prodotto una forte riduzione del tasso di mortalità. 12 Per un inquadramento generale dell’argomento cfr. Bardhan (2004), Per approfondimenti più settoriali cfr. anche Reddy (2004), Rakshit (2004) e Govinda Rao (2004).

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precedenti. Gli investimenti si sono progressivamente orientati verso il settore privato. I consumi interni sono cresciuti. I miglioramenti organizzativi introdotti nel settore industriale e il mutato atteggiamento del governo nei confronti dell’ imprenditoria privata hanno consentito un incremento della produttività. La scomposizione del tasso di sviluppo del reddito ha messo in luce come la modesta crescita precedente agli anni ‘80 fosse attribuibile all’aumento nella dotazione dei fattori, mentre quella successiva è da attribuirsi prevalentemente all’ aumento della loro produttività (Basu, 2007, p.10). Secondo alcuni autori (Rodrik, Subramanian, 2004; Virmani, 2004) tale aumento è ascrivibile al migliorato utilizzo dei fattori nei diversi settori produttivi più che alla riallocazione degli stessi dai settori a bassa produttività (agricoltura) verso quelli a produttività più elevata (industria e servizi). Uno degli obiettivi centrali della politica economica è diventato, a partire dall’inizio degli anni ‘80, la promozione delle esportazioni. Grazie al deprezzamento del tasso di cambio reale e alla riduzione delle tariffe, le esportazioni di prodotti sia manifatturieri sia agricoli sono aumentate in misura significativa. L’aumento delle esportazioni ha inoltre consentito di importare beni capitali e tecnologie più avanzate. Gli investimenti diretti esteri sono aumentati di circa 15 volte a far tempo dalla liberalizzazione dell’economia, e di ben 450 volte rispetto al 198813. Oggi l’India è un paese molto appetibile per gli investitori stranieri. E’ stata progressivamente elevata la quota di partecipazione consentita alle imprese straniere14, provvedimento che ha dato immediato impulso a importanti operazioni nel settore automobilistico, delle telecomunicazioni e dei servizi informatici con la costituzione di joint venture con importanti partner stranieri (Honda, Toyota, Michelin). Queste politiche sono all’origine di un sistema produttivo accentuatamente dualistico, non solo dal punto di vista delle tecniche impiegate, ma anche e soprattutto a seconda che si tratti di imprese private o pubbliche, di grande o di piccola dimensione, industriali o agricole. Nel settore pubblico le imprese sono prevalentemente di grande dimensione e utilizzano tecnologie a elevata intensità di capitale. Nel settore privato prevalgono invece le piccole e medie imprese a conduzione familiare. La piccola impresa familiare di carattere artigianale era stata considerata dall’autorità di piano come lo strumento per fare fronte all’abbondante disponibilità di lavoro nelle aree rurali, ma anche per il raggiungimento dell’autosufficienza nella produzione di alcuni beni di consumo di base e di una distribuzione più equa del reddito. La prevalenza di imprese di piccole dimensioni si conferma come una caratteristica distintiva del sistema industriale indiano. Questo ultimo è il risultato di misure che, in passato, erano state oggetto di critiche (Kochhar et al. 2006). Grazie alle politiche protezionistiche adottate nel primo periodo della pianificazione si è sviluppato un sistema industriale assai articolato, prevalentemente finalizzato a soddisfare le esigenze del mercato interno. Il peso del settore manifatturiero, tuttavia, è ancora relativamente ridotto rispetto a quello del terziario. Contrariamente a quanto si è verificato in altri paesi emergenti, il sistema manifatturiero che è andato delineandosi nei primi decenni successivi all’indipendenza, e che tuttora permane, era caratterizzato da industrie a elevato contenuto di lavoro qualificato e a elevata intensità di capitale (Banerjee, 2006). Risultava invece inferiore alla media dei PVS la presenza di industrie a elevato contenuto di lavoro non qualificato. Tali caratteristiche non hanno subìto sostanziali modificazioni a seguito delle riforme degli anni ’80 e ’9015. Da una parte è stato più agevole mantenere la specializzazione acquisita, dall’altra non è stata sostanzialmente modificata una legislazione che ha favorito l’impiego del capitale rispetto a quello del lavoro. Il processo di privatizzazione ha trovato corrispondenza nello sviluppo di alcune grandi imprese a proprietà familiare (l’esempio più significativo è probabilmente quello del gruppo Tata). La piccola 13 Vedi World Bank (2009b). 14 Si rimanda per un approfondimento di questo punto ai siti del Ministero delle Finanze (http://www.finmin.nic.in/foreign_investment/int_finance_issues/index.html) e Doing Business with India (http://www.madaan.com/investing.htm). 15 La maggior parte della produzione è infatti realizzata in impianti moderni, in particolare nell’industria siderurgica, petrolchimica e della carta, nella produzione di apparecchiature elettriche ed elettroniche, di prodotti chimici, nella lavorazione della pelle e dei metalli. Di rilievo sono anche le industrie per la lavorazione del tè e dei cereali, gli oleifici, gli zuccherifici.

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e media industria, tuttavia, mantiene un ruolo di rilievo: rappresenta infatti circa il 40 % della produzione, di cui i 2/3 destinati all’esportazione, e assicura il 65% dell’ occupazione. Contrariamente al modello cinese, basato sulla mano d’opera a basso costo, quello indiano ha privilegiato specifiche nicchie tecnologiche. Il ricorso alla subfornitura ha inoltre compensato, in molti casi, la scarsa capienza del mercato interno. Un’altra caratteristica significativa del sistema industriale indiano (eredità della pianificazione) è il peso relativamente equilibrato dei diversi settori: prodotti di base, intermedi e beni di consumo (fra questi ultimi il tessile, specialmente cotoniero, è tra i più antichi e importanti). L’industria cinematografica è tra le prime al mondo per numero di film prodotti. Negli ultimi anni si è considerevolmente sviluppata anche l’industria a elevata intensità tecnologica (aeronautica, elettromeccanica), oltre naturalmente al settore dell’informatica, particolarmente attivo nella produzione di software. Un’anomalia del sistema industriale è costituita dal modesto turnover delle imprese, determinato dall’abbondanza di finanziamenti a disposizione anche delle imprese poco efficienti (Topalova, 2004) originata a sua volta da una politica del credito “conservativa” (Banerjee, Duflo, 2004). Una politica creditizia poco aggressiva, inoltre, ha frenato la crescita dimensionale delle imprese, con conseguenze negative in termini di efficienza: si tratta del fenomeno noto come under-lending (Banerjee et al., 2003, p. 142). Negli Stati più dinamici, tuttavia, vanno profilandosi in questo campo alcuni mutamenti, con conseguente riduzione nel numero delle industrie meno dinamiche (Kochhar et al., 2006). Un fattore che potrebbe favorire la scomparsa di alcune imprese, e una riduzione del grado di diversificazione, è costituito dallo sviluppo del settore immobiliare, determinato dalla vendita di terreni industriali nelle grandi città, come conseguenza del rapido processo di urbanizzazione (Kochhar et al., 2006). In India il settore dei servizi presenta una dimensione media superiore a quella caratteristica di un paese emergente. Alcuni comparti, come quello bancario, sono caratterizzati da bassi livelli di efficienza. Altri invece, come quelli produttori di software, sono assai dinamici e competitivi. La loro evoluzione è il risultato delle riforme strutturali del passato oppure di politiche settoriali, in particolare nel settore dell’istruzione: si tratta comunque di comparti strategici per la collocazione internazionale del paese. La trasformazione del sistema bancario ha seguito un percorso parallelo a quello del sistema reale (Banerjee et. al., 2004). Inizialmente privato, esso aveva subìto un processo di nazionalizzazione a partire dal 1969. Elevato dirigismo, obblighi di finanziamento di settori considerati prioritari e vincoli di riserva e di liquidità particolarmente onerosi avevano ridotto l’indipendenza operativa e la competitività delle banche (Cole, 2002). Solamente in una terza fase, e cioè a partire dal 1992, è iniziato un percorso inverso finalizzato a liberalizzare il sistema, a favorirne riorganizzazione, concorrenzialità e autonomia (Banerjee et al., 2003, 2004). E’ stata prevista la possibilità di fondare banche private, riducendo la quota pubblica nelle banche di Stato mediante offerta pubblica di acquisto di azioni e facilitando l’accesso al mercato da parte delle banche estere. Sono state gradualmente introdotte regolamentazioni prudenziali in linea con gli standard internazionali (Chiarlone, 2008). L’efficienza degli istituti bancari resta, tuttavia, inferiore a quella riscontrabile in altri paesi emergenti. Il peso dello Stato nella proprietà delle banche “rimane significativo e il livello di consolidamento molto basso” (Chiarlone, 2008, p. 108). Permangono obblighi di erogazione e di riserva che vincolano l’autonomia delle banche. Il limitato sviluppo dell’intermediazione trova rispondenza, come generalmente avviene nei paesi emergenti, nella sostanziale esclusione dall’accesso al credito dei segmenti più deboli della popolazione (Banerjee, Duflo, 2005). Infine, l’apertura agli istituti stranieri “non è ancora completa e sembra che questo passo seguirà il processo di consolidamento delle banche indiane” (Chiarlone, 2008, p. 108). Nonostante tali limiti, il sistema bancario ha avuto e conserva un ruolo rilevante per il sistema economico. Esso rappresenta infatti il principale canale di finanziamento del sistema stesso; sebbene il suo peso sia molto inferiore a quello della Cina, resta comunque nettamente superiore a quello di altri segmenti

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del mercato finanziario16. 5. Il sistema educativo in India Una caratteristica del sistema formativo indiano (secondo taluni studiosi un’autentica singolarità per un paese emergente), è costituita dal fatto che la spesa in higher education è relativamente più elevata di quella in primary education (Kochhar et al., 2006). Si devono a questa “anomalia” alcune specificità del sistema sociale, ma soprattutto di quello produttivo. Da una parte il tasso di analfabetismo permane molto elevato, dall’altra la presenza del lavoro qualificato in alcune industrie è particolarmente significativa. Tale politica dà luogo a risultati ambigui. Da una parte essa ha finito con l’alimentare un’emigrazione di lavoratori qualificati verso paesi anglofoni (Usa, Regno Unito); dall’altra ha favorito la nascita di imprese a elevata intensità tecnologica e di lavoro qualificato che operano nel terziario avanzato. In un contesto caratterizzato da una severa normativa antimonopolistica, da elevata protezione tariffaria e da sussidi alle imprese pubbliche, l’abbondanza di lavoro qualificato ha determinato la nascita di imprese particolarmente competitive (Kochhar et al., 2006). Secondo Banerjee (2006, p.1022) “The combination made for many interesting experiments that probably would not have happened in a less dirigiste economy”. Dopo avere ottenuto l’indipendenza, l’India cercò di sviluppare un sistema scolastico unitario e integrato, ma la formazione della giovane popolazione indiana, con la complessità sociale e religiosa che la caratterizza, non fu opera facile17. Anche se dall’indipendenza il numero delle scuole e dei discenti è notevolmente aumentato18, circa il 30 per cento dei bambini di età compresa tra i sei e i dieci anni non frequenta la scuola pubblica. Numerosi fattori spiegano l’elevato tasso di abbandono scolastico. Esiste, innanzitutto, una sorta di diffidenza da parte delle famiglie povere, soprattutto nelle zone rurali, verso la scuola pubblica. Il lavoro minorile (presente soprattutto in agricoltura, ma diffuso anche in attività industriali quali la tessitura dei tappeti, la produzione di sigarette e la tessitura della seta) è inoltre un fenomeno associato alla povertà: tra analfabetismo e povertà si determina quindi una sorta di circolo vizioso. In parallelo sono state create Università, di tradizione anglofona, e centri di ricerca all' avanguardia. Il paese conta circa 200 atenei: i più antichi sono quelli di Kolkata, Mumbai e Chennai, sorti nel 1857. Ogni anno conseguono la laurea 400mila ingegneri, che trovano immediatamente occupazione, e anzi non sono sufficienti a soddisfare la richiesta interna. La crescita economica, prossima al 10%, renderà infatti necessaria l’occupazione di non meno di un milione e 700mila ingegneri. Nonostante le Università siano praticamente al completo, si prevede per il 2010 un deficit di almeno mezzo milione di laureati. Negli anni ‘80 gli imprenditori indiani avevano imparato ad adattarsi alle prime pur modeste liberalizzazioni. A partire dagli anni ‘90, a seguito del processo riformatore, avevano iniziato a esportare e a sfruttare le potenzialità offerte dalla globalizzazione. Oggi sono gli imprenditori indiani ad acquisire quote di imprese straniere. Ne è un esempio la scalata da parte dell’indiana 16 Sul tema specifico - quanto rilevante - del microcredito un accurato resoconto dell’esperienza di Sewa (Self Employed Women’s Association) iniziata nel 1974 - tre anni prima della fondazione della Grameen Bank di Muhammad Yunus - è contenuto in Gramaglia (2008). 17 Più della metà della popolazione ha meno di 25 anni. Molti di questi giovani non hanno alcuna qualificazione e sono disoccupati. Il 40% della popolazione sopra i 15 anni di età è ancora analfabeta. La Costituzione indiana aveva previsto l’eliminazione del sistema delle caste che per secoli aveva escluso da ogni prospettiva di promozione sociale gli strati inferiori della popolazione. All’indomani dell’indipendenza furono attuate importanti misure per promuovere attivamente l’istruzione e migliorare le condizioni di vita delle classi marginali, la cui origine si collega al prevalere di gruppi etnici economicamente e culturalmente superiori su popolazioni sottomesse. Si calcola, tuttavia, che siano ancora 240 milioni i dalit, termine recentemente utilizzato per designare gli harijan, “figli di Dio”, come furono chiamati da Gandhi gli “impuri”. 18 Dopo le riforme degli anni ‘80 il sistema scolastico, quasi interamente gestito a livello degli stati, prevede l’istruzione obbligatoria e gratuita dai 6 ai 14 anni. Recentemente è stato inoltre istituito un programma nazionale di alfabetizzazione degli adulti. Nel 2005 il tasso di alfabetizzazione della popolazione adulta era cresciuto al 56,6%, contro il 43% degli anni ‘80 dello scorso secolo.

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Mittal della lussemburghese Arcelor. “Abbiamo capitali e conoscenza per farlo”, ricorda spesso Nandan Nilekani, che dal 1° gennaio è entrato nel consiglio d'amministrazione di Reuters. “With the rise in foreign exchange balance and the confidence of success in the software and pharmaceuticals sector, Indian corporations have gone on a spree of buying international companies, an activity unheard of ten years ago” (Basu, Maertens, 2007, p. 21). Nonostante i progressi realizzati dal sistema educativo, cominciano tuttavia a emergere strozzature connesse alla qualità dei laureati. Nasscom, l'associazione delle imprese di software e dei servizi, ammonisce che già oggi solo un ingegnere su quattro serve davvero a ciò di cui ha bisogno l' information technology indiana. «È vero: quella della qualità è una strozzatura della crescita che dobbiamo correggere», ammette Nilekani 19. Per questo Infosys ha appena stanziato 300 milioni di dollari per costruire nuovi edifici, sviluppare i corsi e aggiornare i curricula nel campus di Mysore, nel Karnataka, dove oggi studiano 4.500 giovani (13mila fra un paio d' anni). 6. La collocazione del sistema economico indiano nel processo di globalizzazione Quale è la prevedibile collocazione dell’India nell’economia internazionale se si tiene contemporaneamente conto della sua evoluzione di sistema e delle caratteristiche del processo di globalizzazione? Quali sono inoltre gli elementi positivi e quali quelli negativi dello sviluppo passato, che oggi possono favorire oppure frenare l’ integrazione dell’India nell’economia internazionale? Per quanto si possa essere tentati dal consentire con Ulrich Beck (1999, p.13) nel considerare il termine globalizzazione una “…orribile parola…diventata inevitabile in ogni dichiarazione pubblica”, e si possa quindi desiderare di astenersi dall’usarla, non v’è dubbio che i fenomeni che essa sottende, e nei quali consiste, siano a tal punto incombenti e rilevanti da proporci di continuo nuove occasioni di attenzione e ulteriori prospettive di analisi. E ciò vale tanto se si ritiene, come fa Anthony Giddens (2000), che il termine sia sufficientemente autoesplicativo da esimerci da ogni impegno definitorio, quanto se ci si impegna nella ricerca di definizioni più o meno puntuali, come è consuetudine che facciano sia le organizzazioni internazionali (sottolineando ad esempio la natura della globalizzazione in quanto “processo dinamico e multidimensionale di integrazione economica”20) sia tanti studiosi, magari per tentarne periodizzazioni o per puntualizzarne aspetti rilevanti, oltre che funzionali a impostare discussioni più fondate di quanto non lo consenta, di norma, tanta pubblicistica d’occasione (Osterhammel, Petersson, 2005). E sono proprio studiosi indiani a svolgere un ruolo eminente in tale discussione, quali esponenti di primo piano di quella “rete internazionale”, o “rete d’interazione”, che secondo taluni costituisce l’accezione tuttora prevalente di uno “spazio globale” (e dei correlati “assetti sociali globali”) ancora allo stadio di

19 Nandan Nilekani è stato cofondatore, a 27 anni, di Infosys e Ceo. Recentemente il ministro indiano delle Finanze Chidambaram ha sostenuto che “l'Ibm è il passato, Infosys il futuro”. “Infy”, come la chiamano gli indiani, è la prima impresa indiana quotata al Nasdaq. Oltre al quartier generale di Electronic City, a Bangalore, dispone di nove centri di sviluppo e di 30 uffici in 20 Paesi. Quando fu creata nel 1981 da Murthy, Nilekani e altri cinque amici, Infosys Technologies aveva un capitale sociale corrispondente alle 10mila rupie (circa 200 dollari) prestate da Sudha, la moglie di Narayana Murthy. Alla chiusura dell' ultimo anno fiscale la sua capitalizzazione di mercato superava i 30 miliardi di dollari. Da 26 trimestri ottiene risultati superiori alle previsioni e per 13 trimestri il suo rendimento ha superato il 15%. “Siamo in un mercato dalle tremende opportunità”, afferma Nilekani senza tuttavia riuscire a dissimulare il proprio ottimismo. In realtà Infosys “fa le cose più in fretta, meglio e più a buon mercato perché siamo riusciti a creare una compagnia su scala mondiale”. 20 OECD (2005, p.11). La stessa fonte ufficiale sottolinea (p. 16) come alla crescente internazionalizzazione dei mercati abbiano contribuito soprattutto “i) la liberalizzazione e la deregolamentazione dei movimenti di capitale, e particolarmente dei servizi finanziari; ii) l’ulteriore apertura dei mercati agli scambi commerciali e agli investimenti…iii) il ruolo strategico svolto dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) nell’economia”.

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utopia o di struttura “a tendere”21, Il riferimento è, in particolare, a Jagdish Bhagwati (2000, 2005, 2006) e al suo lavoro di sistematizzazione del problema dei costi e dei benefici della globalizzazione, degli obiettivi di minimizzazione e di massimizzazione correlati, della gestione della transizione verso livelli sempre più elevati di integrazione22 e della connessa velocità ottimale di aggiustamento; del cruciale problema, infine, del rapporto fra globalizzazione e democrazia, con i connessi riferimenti esemplificativi (con riferimento alla realtà indiana) alla relazione fra diffusione delle tecnologie informatiche, accesso ai mercati internazionali e sviluppo delle attività artigianali (Bhagwati, 2005). Ci si riferisce inoltre, naturalmente, all’opera complessiva di Amartya Sen, tutta finalizzata a individuare condizioni e caratteristiche della buona “società aperta” e delle relative “regole di governo”23. Il sistema economico indiano ha registrato un crescente grado di apertura nei confronti dell’estero, pur non potendosi ancora considerare l’India un sistema particolarmente “aperto”. Il suo “grado di apertura”, misurato dall’interscambio di beni e servizi, è passato infatti dal 20,4% nel 2000 al 29,9% nel 2005 e al 38,6% nel 2008 (World Bank, 2009a, 2009b), a segnalare una progressiva integrazione nel mercato internazionale24. Il tasso annuo di crescita delle importazioni (8,6% nel 2007 e 17,9% nel 2008) ha sempre superato quello delle esportazioni (tasso di crescita medio annuo pari al 7,5% nel 2007 e al 12,8% nel 2008) con conseguente persistente disavanzo commerciale (54 miliardi di dollari nel 2007 e quasi 70 nel 2008). L’incremento dell’interscambio è stato inoltre favorito dalla creazione delle “Zone Economiche Speciali” (Special Economic Zones) particolarmente vantaggiose sotto i profili fiscale, doganale e, in generale, regolativo e procedurale. La crescita dell’interscambio dell’India con il resto del mondo (unitamente a quello della Cina) costituisce uno dei fenomeni più significativi dell’ultimo decennio, destinato a modificare radicalmente non solo gli equilibri geopolitici, ma anche la dinamica della diseguaglianza a livello mondiale sia tra paesi sia al loro interno (Topalova, 2006; Harrison, McMillan, 2007). La Banca Mondiale (World Bank, 2008), facendo riferimento alla vasta letteratura disponibile, fornisce indicazioni significative25. L’approccio della Intercountry inequality, che misura le variazioni del reddito pro-capite fra paesi prescindendo dalla numerosità della popolazione, porta a concludere che nel corso degli ultimi due decenni la distribuzione mondiale del reddito è diventata più iniqua. Quello che misura invece la International inequality, ponderando i redditi pro capite per la popolazione, suggerisce la conclusione opposta in ragione, soprattutto, dell’evoluzione registrata proprio dai sistemi economici cinese e indiano. L’approccio della Global inequality, infine, consente di misurare la diseguaglianza a livello mondiale effettuando confronti fra redditi 21 Per una sintetica rassegna di posizioni su questo punto cfr. J. Osterhammel, Petersson (2003). Per un punto di vista italiano cfr. Deaglio (2004). 22 Alla critica della politica dell’Amministrazione Clinton a questo proposito, per quanto riguarda tanto i flussi finanziari quanto quelli commerciali, Bhagwati dedica in particolare una raccolta di interventi. Si veda Bhagwati (2000). 23 Cfr., fra i tanti, Sen (2002). particolarmente per gli scenari aperti (pp. 3-9) dal primo capitolo, dal titolo Dieci punti sulla globalizzazione. L’ “avversario” viene esemplificato mediante l’immagine (contenuta in almeno quattro testi sanscriti a partire dal 500 a.C.) della ranocchia che trascorre l’intera vita in un pozzo ed è timorosa di tutto quello che ne sta al di fuori. La ranocchia, ammette Sen, “…aveva una ‘visione del mondo’, ma circoscritta a quel piccolo pozzo….Questo rimane un problema importante, perché in giro, al giorno d’oggi, ci sono miriadi di ranocchie e anche, naturalmente, i loro sostenitori e difensori” (p. 17). In tema di “regole di governo”, la necessità di istituzioni finalizzate allo sviluppo della conoscenza e alla sua trasmissione internazionale (fattore considerato ancora più strategico dello sviluppo dei mercati ai fini di una globalizzazione più equilibrata) è sottolineata da Pasinetti (2007). 24 L’India esporta un’ampia varietà di prodotti, principalmente tessili, capi di vestiario, gemme e gioielli, articoli in pelle, tè, apparecchiature meccaniche e prodotti chimici di base. Stati Uniti, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Arabia Saudita, Belgio e alcuni paesi del Commonwealth sono i suoi principali partner commerciali. 25 La centralità dell’argomento è enfatizzata da Sen (2002, p. 5) che sottolinea: “La sfida principale ha a che fare, in un modo o nell’altro, con la disuguaglianza, sia tra le nazioni sia nelle nazioni. Le disuguaglianze rilevanti comprendono le differenze nella ricchezza, ma anche le macroscopiche asimmetrie nel potere politico, sociale ed economico. Una questione cruciale è la divisione, tra paesi ricchi e paesi poveri o tra differenti gruppi in un paese, dei guadagni potenziali generati dalla globalizzazione”. Per una sistematizzazione della complessa relazione fra povertà, crescita e disuguaglianza cfr. Bourguignon (2003), e altresì Kanbur (2005).

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indipendentemente dal paese di appartenenza. Questa misura, riflettendo sia le diseguaglianze tra paesi (between countries) sia quelle all’interno dei paesi (within countries), mostra una sostanziale stabilità a partire dalla fine degli anni ’80 (World Bank, 2008). Si stima che proprio la rapida crescita delle “grandi economie emergenti” (Cina e India in particolare) abbia consentito di “bilanciare” la tendenza alla crescita delle diseguaglianze all’interno dei diversi paesi. Particolarmente utili ai nostri fini sono le elaborazioni di Milanovic e Yitzhaki (2002). Esse consentono, nell’ottica dell’approccio della Global inequality, di segnalare l’emergere di una “classe media mondiale”, e di identificare la sua distribuzione per grandi aree del mondo. Dopo avere convenzionalmente identificato tre categorie “globali” di percettori di reddito (“poveri”, “classe media” e “ricchi”), i due autori mettono in evidenza il fatto che la classe media pesava, nel 1993, per l’8% della popolazione mondiale e per il 12% del reddito (Milanovic, Yitzhaki, 2002, p. 173). Ulteriori elaborazioni calcolano nel 7,6% e nel 13,8% i rispettivi valori riferiti al 2000 e nel 16,1% e nel 14,0 % quelli previsti al 2030 (World Bank, 2008, p.101). La classe media proveniente da East Asia and the Pacific (prevalentemente Cina), stimata pari all’1,3% della popolazione mondiale (e al 2,0 % del reddito) nel 2000, viene proiettata al 7,3% (e al 6,4% del reddito) nel 2030: i dati relativi alla South Asia (prevalentemente India) registrano un incremento dallo 0,1 all’1,6% della popolazione mondiale (e dallo 0,1% all’1,3% del reddito). I paesi nei quali si verificheranno incrementi rilevanti nelle dimensioni della classe media (Cina e India sono e/o saranno i più “probabili” fra questi) sperimenteranno anche le implicazioni di tale fenomeno, così come ne sarà condizionata la struttura stessa della produzione mondiale. La composizione del ”paniere” globale di beni e servizi domandati tenderà infatti a subire un riorientamento potenzialmente radicale, e ciò tanto più accadrà quanto più la classe media dei paesi emergenti “peserà” sulla classe media mondiale. Questa ultima circostanza tenderà inoltre a determinare conseguenze in termini di political economy, e queste consisteranno nell’incremento di “popolarità” dell’opinione (e quindi delle politiche) pro-globalizzazione, che vedranno aumentare la propria “base sociale” di riferimento, oltre che il peso politico di questa26. Proprio in India, negli ultimi anni, si è andata formando una consistente classe borghese e imprenditoriale. Alla globalizzazione commerciale (è ancora il caso indiano ad avvalorare questa tesi) dovranno essere affiancate - per “captarne” i guadagni - politiche ulteriori, idonee a favorire la mobilità del lavoro (Munshi, Rosenzweig, 2004). L’integrazione finanziaria, in quanto sia all’origine di instabilità (specie in situazioni di fragilità istituzionale), è infatti onerosa per i “poveri”, e le crisi finanziarie che si sono succedute (fra cui quelle asiatiche) sono di ciò una dimostrazione convincente. La non univocità della relazione fra povertà e globalizzazione emerge infine dal peso del fattore “progresso tecnico”, nella misura in cui questo ultimo risulti indipendente dagli sviluppi della globalizzazione e sia invece rilevante nel determinare i differenziali di reddito. La composizione delle esportazioni indiane non riflette i vantaggi comparati caratteristici di un paese emergente. Contrariamente a quanto avviene nella maggior parte di tali paesi, non solo la produzione interna, ma anche le esportazioni sono costituite da prodotti dotati di un elevato contenuto di lavoro qualificato. “The two things that distinguish India from any other economy at its level of development are the skill intensity of its exports and the diversity of what it produces” (Banerjee, 2006, p.1022). Secondo Banerjee e Duflo (2000), tuttavia, la quota di esportazione sul totale mondiale di questi prodotti, in passato, è stata meno elevata di quanto sarebbe stato giustificabile sulla base del grado di sviluppo del settore. Il successo nelle esportazioni di prodotti informatici dipende più dal livello di reputazione che non dal prezzo. Solo introducendo sistemi di rating in grado di segnalare il grado di affidabilità delle singole industrie sarà possibile incrementare le esportazioni di questi prodotti. Anche il settore delle biotecnologie ha sperimentato, ed è destinato a subire, un’evoluzione molto simile a quella del settore informatico. Il fattore che contribuirà a mantenere elevato il grado di competitività delle esportazioni di high-tech customized 26 Per alcuni riferimenti alle connessioni con il teorema di Stolper-Samuelson, all’approccio delle preferenze dell’”elettore mediano” (in relazione al peso crescente di questo ultimo nei paesi in sviluppo) oltre che agli “effetti di ritorsione” ipotizzabili nei paesi industrializzati (e alle relative verifiche empiriche), cfr. World Bank (2008).

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software è la reputazione che i prodotti indiani saranno in grado di conquistare nel tempo. Questo modello di specializzazione in industrie a elevata intensità di lavoro qualificato potrebbe, nel futuro immediato, presentare elementi di debolezza dal punto di vista della sostenibilità in relazione agli aumenti di costo del lavoro qualificato. Questi effetti si sono già manifestati sotto forma di incrementi dei livelli retributivi, e quindi di un aumento della diseguaglianza salariale. Secondo stime recenti il divario tra le retribuzioni dei lavoratori con istruzione superiore e quelle dei lavoratori con istruzione secondaria è aumentato dal 34% al 50% (Azam, 2009, p. 2). Due sono le possibili spiegazioni di tali aumenti. Secondo alcuni autori i mutamenti nei salari relativi sono attribuibili all’ aumento della domanda di lavoro qualificato (Chamarbagwala, 2006), particolarmente in numerosi comparti del settore industriale (Kijima, 2006; Chamarbagwala, 2006). “Skill biased technological change is the most probable reason for shift in demand in favor of tertiary graduated workers” (Azam, 2009, p.14). Secondo altri, invece, tali divari sono attribuibili all’aumento dei rendimenti dell’istruzione superiore (Kijima, 2006). Tale aumento, che si è concentrato tra la fine degli anni ’90 e il 2004, sarebbe stato causato dall’arresto della crescita relativa dell’offerta di lavoratori laureati. Cambiamenti nelle politiche dell’istruzione, che si sono tradotti in un maggiore impegno nella formazione primaria e secondaria a svantaggio di quella superiore, si sono “combinati” con un aumento della domanda di lavoro qualificato, e quindi dello skill premium (Azam, 2009). 7. Globalizzazione e forme alternative di outsourcing e offshoring L’outsourcing, o per meglio dire seguendo Krugman (2007, p.1) l’ offshore outsourcing, può essere definito come il commercio internazionale in input intermedi, che talvolta attraversano più volte le frontiere prima di essere incorporati nei beni finali. Si tratta di un fenomeno relativamente recente, reso economicamente conveniente dalla diminuzione dei costi di trasporto e di comunicazione, che agevola la combinazione di input provenienti da paesi diversi in vista della produzione di un determinato bene o servizio (Sharma, 2005). Secondo Blinder (2005, p. 2) “economists who interpret offshoring as nothing more than international business as usual are greatly underestimating both its importance and its disruptive impact on Western societies.” E’ possibile spiegare l’aumento della domanda relativa di lavoro qualificato, e del conseguente aumento delle retribuzioni, ricorrendo a un modello formulato da Feenstra (2007) per analizzare gli effetti dell’attività di outsourcing. Il modello è stato elaborato per spiegare la dinamica relativa (nel paese di origine e in quello di arrivo) delle retribuzioni dei lavoratori specializzati rispetto a quelli non specializzati, conseguente al trasferimento di una fase del processo produttivo di beni e di servizi. Precisamente “The provision of services or the production of various parts of a good in different countries that are then used or assembled into a final good in another location is called foreign outsourcing or more simple outsourcing” (Feenstra, Taylor, 2008, p. 228). La delocalizzazione produttiva a cui il modello si applica è quella tradizionale, relativa a uno specifico settore. Parti del processo produttivo e/o componenti del prodotto sono ottenute in uno o più paesi diversi da quello di residenza dell’industria che organizza il processo produttivo e commercializza il prodotto finale. Per spiegare gli effetti dell’outsourcing è opportuno distinguere, all’interno della catena di formazione del valore di un bene, le diverse fasi, da quella iniziale di ricerca e sviluppo a quella finale della commercializzazione (fig.1a). Se queste attività vengono separate sulla base del diverso impiego di lavoro qualificato, è agevole individuare quelle che verranno presumibilmente trasferite all’estero. Si veda su questo punto la fig.1b desunta da Feenstra, Taylor (2008, p. 232). Saranno trasferite quelle fasi della lavorazione del prodotto, collocate alla sinistra della linea di confine A, che richiedono un maggiore impiego di lavoro non qualificato, il cui prezzo è inferiore nei paesi emergenti. Si tratta, generalmente, di una parte dell’ attività di produzione dei componenti e dell’assemblaggio degli stessi.

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Fig. 1a Le fasi del processo produttivo ordinate per sequenza temporale

Fig. 1b Le fasi del processo produttivo ordinate per qualificazione del lavoro

Fonte: Feenstra, Taylor (2008), p.232. Mano a mano che i costi del trasporto o del capitale diminuiscono nel paese straniero, risulterà conveniente trasferirvi un maggior numero di attività. La linea di confine tra attività trasferite e attività che restano nel paese di origine si sposta verso destra da A a B (fig. 2). Il primo effetto consiste nella diminuzione dell’impiego di lavoro non qualificato e nel corrispondente aumento del prezzo relativo del lavoro qualificato nel paese di origine, cioè “the relative wage of skilled labor will increase because of outsourcing” (Feenstra, Taylor, 2008, p. 236). Analogamente il trasferimento di attività a più elevato contenuto di lavoro qualificato determina anche nel paese straniero un aumento della domanda di lavoro qualificato: conseguentemente anche in questo paese aumenta il prezzo relativo di questa tipologia di lavoro. L’evidenza empirica raccolta da Feenstra e Taylor (2008) sulla base dei dati del NBER conferma questa ipotesi.

Fig.2 La linea divisoria nella catena del valore si sposta verso destra

Fonte: Feenstra,Taylor (2008), p. 236. I costi relativi del lavoro trovano corrispondenza in minori prezzi relativi dei componenti prodotti all’estero rispetto ai prezzi delle produzioni a più elevata intensità di lavoro qualificato realizzate nel paese di origine. Si osserverà pertanto una riduzione delle ragioni di scambio di questi due tipi di attività, alla quale corrisponderà uno spostamento delle produzioni all’esterno della frontiera, con conseguente passaggio, in termini di livelli di produzione, dal livello Y0 al livello Y1 (Feenstra, Taylor, 2008, p. 250). Si veda a questo proposito la fig. 3.

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Fig.3 Equilibrio con outsourcing: un modello semplificato

aylor (2008), p. 250.

li effetti dell’outsourcing nel paese che coordina il processo produttivo (generalmente il paese

mpo si è intensificato l’outsourcing dei componenti, cioè quello interno al settore

fatto, aspetti di novità rispetto al

Fonte: Feenstra, T Gindustrializzato) sono molteplici. Innanzitutto si determina una riduzione dei costi, e quindi anche del prezzo di vendita del prodotto. In secondo luogo si determina un mutamento nel peso relativo dei diversi tipi di occupazione a seconda del grado di specializzazione, e conseguentemente anche nelle retribuzioni relative. Questi effetti sono analoghi a quelli che si verificherebbero se si utilizzassero le prestazioni di lavoratori immigrati. “When a good or service is produced more cheaply abroad, it makes more sense to import it than to make or provide it domestically” (Mankiw, 2004, p. 229). Nel corso del temanifatturiero. In parallelo è aumentato anche l’outsourcing dei servizi alle imprese. La produzione di servizi richiede tuttavia un impiego di lavoro qualificato superiore a quello richiesto nel settore manifatturiero. Secondo alcuni autori l’outsourcing di servizi rientra nel modello tradizionale di commercio internazionale. In un modello di tipo ricardiano il fenomeno interesserà pertanto i paesi caratterizzati da un vantaggio comparato nella produzione di servizi. “The growing outsourcing of services in industrial countries is simply a reflection of the benefits from the greater division of labor and trade…” (Amiti, Wei, 2004, p. 37). Il fenomeno nuovo, secondo questi autori, è costituito dal timore della perdita dell’occupazione da parte di categorie di lavoratori (liberi professionisti, contabili, disegnatori) che in precedenza erano protetti nei confronti della concorrenza internazionale. D’altra parte l’evidenza empirica raccolta da Amiti e Wei (2004, 2005a, 2005b) non sembrava confermare, almeno fino al 2003, questi timori. “Drawing on the experiences of the United States and the United Kingdom, we can say that, in the aggregate, outsourcing does not appear to be leading to net job losses - that is, jobs lost in one industry often are offset by jobs created in other growing industries” (Amiti, Wei, 2004, p. 37). Probabilmente, tuttavia, l’outsourcing di servizi presenta, di modello tradizionale dei costi comparati, come conseguenza della crescente complessità del contesto socio-economico mondiale: si parla a questo proposito di seconda globalizzazione.

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8. Globalizzazione e nuove forme di outsourcing. Il secondo unblunding La seconda globalizzazione è caratterizzata dalla crescente rilevanza dell’ outsourcing delle mansioni. Si tratta di un processo diverso da quello descritto nel paragrafo precedente (Grossman, Rossi-Hansberg, 2006, 2008; Blinder, 2006). In questo caso, infatti, lo “spacchettamento”, e il corrispondente trasferimento all’estero, non riguardano più le diverse fasi del processo produttivo, bensì l’organizzazione stessa d’ impresa, distinta sulla base delle diverse mansioni (Baldwin, 2006)27. Fig.4 Il primo e il secondo unbundling

Fonte: Baldwin (2006), p. 25. Ne conseguono, in altri termini, mercati globali di mansioni nei quali tendono a confluire trasversalmente unità di competenze facenti capo a settori produttivi eterogenei sotto il profilo sia della collocazione geografica sia dei livelli di produttività (fig. 4). Ne risulta superata la corrispondenza fra dotazione di lavoro qualificato e protagonisti “vincenti” del processo di globalizzazione, come anche quella, simmetrica, fra lavoro non qualificato e “perdenti”. Molte professioni legate alla società dell’informazione e all’ economia della conoscenza rispondono più di altre, oggi, alla pratica di questo tipo di outsourcing. La nuova globalizzazione, che si realizza secondo il nuovo paradigma, si distingue pertanto dalla prima per il fatto di operare a livelli di disaggregazione molto più spinti. In quanto tale può coinvolgere processi produttivi tanto industriali quanto terziari, tanto di fabbrica quanto di ufficio, frammentandoli. La caduta dei costi di comunicazione e di coordinamento, nonché differenziali salariali non compensati da divari di produttività adeguati, determinano e/o favoriscono tale processo. Gli effetti sulla domanda e sulle remunerazioni dei differenti tipi di lavoro possono risultare rafforzati quando si introduca questo ulteriore, e inedito, concetto di delocalizzazione, riferito non a fasi di un singolo processo produttivo, ma a specifiche mansioni afferenti contemporaneamente a più settori. Questo tipo di outsourcing, sulla scorta dell’approccio noto come “paradigma di Princeton”, e che fa perno sulla crescente rilevanza della concorrenza internazionale fra mansioni individuali rispetto a quella che opera fra aziende e/o fra settori industriali, ruota attorno al cosiddetto secondo unbundling, o secondo “spacchettamento” (Grossman, Rossi-Hansberg, 2006, 2008). Questo fenomeno si è venuto determinando a seguito del pratico annullamento dei costi di comunicazione, e a esso consegue la pressoché perfetta trasferibilità interspaziale delle mansioni “codificabili” (Baldwin, 2006). Il punto appare di particolare rilevanza, fin da oggi ma ancora di più in prospettiva, sia per il sistema socio-economico indiano sia per le relazioni fra questo e il

27 Un esercizio di integrazione fra trade-in-tasks theory e trade-in-goods theory è contenuto in Baldwin, Robert-Nicoud (2010).

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resto del mondo. Emerge immediatamente, a questo proposito, una significativa differenza tra il new paradigm (così definito da Grossman, Rossi-Hansberg, 2006, p. 1) e l’old paradigm. Secondo Blinder (2005, 2006) l’outsourcing di servizi può essere addirittura valutato alla stregua di una seconda “rivoluzione industriale”. L’outsourcing di componenti era giustificato dai differenziali nel costo del lavoro non qualificato rispetto a quello qualificato, ed era favorito dalla riduzione dei costi di trasporto che interessava in uguale misura tutti i settori produttivi (Harrison, McMillan, 2009). L’outsourcing di mansioni, invece, può essere attuato solo in determinati casi (Sako, 2006; Sako, Tierney 2005), in relazione alla natura della mansione e non al contenuto relativo di lavoro non qualificato. L’esempio più convincente è quello dei conducenti di mezzi di trasporto. Si tratta di una mansione il cui contenuto di lavoro non qualificato è elevato, ma che non può essere trasferita all’estero (Baldwin, 2006). In generale si può ipotizzare che non possano essere trasferite le mansioni che richiedono un rapporto face-to-face con il cliente. Tuttavia “As information technology improves, more and more personal services will migrate over the line and become impersonal services. At this point, we cannot even guess the ultimate dimensions of the migration. But it is likely to be large” (Blinder, 2005, p. 15). Amiti e Wei (2004) hanno documentato che, tra il 1992 e il 2000, l’outsourcing di servizi da parte di imprese manifatturiere degli Stati Uniti è aumentato del 6%. Nello stesso tempo, tuttavia, erano aumentate anche le esportazioni di servizi, così da determinare un surplus netto (Garner, 2004). Il medesimo fenomeno si osserva in altri paesi industrializzati come Regno Unito e Svizzera. I paesi emergenti che registrano un surplus netto nel comparto dei servizi sono India, Singapore e Hong Kong (Amiti, Wei, 2004). In sintesi l’outsourcing di mansioni verso l’estero produce tre effetti all’interno (Grossman, Rossi-Hansberg, 2006). In primo luogo si riduce il prezzo relativo dei beni ottenuti impiegando lavoratori che percepiscono salari più bassi. Inoltre si riducono domanda di lavoro e occupazione. Aumenta infine la produttività media dei lavoratori, dal momento che rimangono nel paese le funzioni caratterizzate da un più elevato livello di produttività. L’ipotesi di Grossman e Rossi-Hansberg (2006) è che la tecnologia più avanzata dell’economia “domestica” si combini con un lavoro meno costoso all’estero, con effetti paragonabili a quelli che si otterrebbero con l’introduzione del progresso tecnologico: gli effetti in termini di benessere dovrebbero quindi essere comunque positivi. Alcuni autori hanno distinto le mansioni in due categorie: quelle basate su routine e quelle non routinarie. “The idea is that the routine tasks, which include “routine manual” and routine cognitive” categories could be offshored to educated workers in low-wage nations” (Baldwin, 2006, p. 34). Spitz (2004) ha osservato in particolare, in Germania, una contrazione nell’occupazione delle mansioni di natura routinaria, accompagnata da un aumento nell’occupazione di quelle “non trasferibili”: egli sottolinea inoltre il diverso ruolo delle tecnologie informatiche nelle differenti mansioni, dal momento che “computer technology is complementary to workers in executing analytical and interactive activities, whereas it substitutes for workers in performing manual and cognitive routine tasks” (Spitz, 2004, p. 1). Non bisogna dimenticare inoltre che l’effettivo trasferimento dipenderà anche dall’esistenza (o non) di costi di coordinamento di mansioni complementari. Si darà pertanto un limite al di sopra del quale il trasferimento non risulta conveniente (Baldwin, 2006). Nel trasferimento di mansioni la distinzione rilevante è quindi quella tra le attività che possono transitare sulla fibra ottica e le altre, e non quella tradizionale basata sul livello di istruzione dei lavoratori (Blinder, 2005). Bardhan e Kroll (2003), Jensen e Kletzer (2005), Van Welsum e Reif (2006) individuano, con riferimento agli Stati Uniti, un numero piuttosto elevato di professioni trasferibili: in particolare analisti finanziari, tecnici in campo medico, specialisti in informatica o in discipline matematiche. Mann (2005) ha calcolato che negli Stati Uniti, tra il 1999 e il 2004, circa un terzo delle occupazioni a bassa qualifica nel settore informatico (operatori telefonici e informatici) è stata trasferita all’estero. E’ invece aumentato l’impiego di lavoratori specializzati.

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Alcuni studi hanno evidenziato, sia teoricamente che empiricamente, i vantaggi che possono essere ottenuti dalle imprese che ricorrono all’outsourcing di servizi (Abramovsky et al., 2004). Glass e Saggi (2001) giungono alla conclusione che l’outsourcing, riducendo i costi, determina un aumento dei profitti e di conseguenza anche delle spese per ricerca e sviluppo. Altri studi, utilizzando dati relativi a singole imprese e/o impianti, mostrano come l’outsourcing di servizi sia generalmente associato a un aumento di produttività nell’impresa che utilizza servizi importati (Hijzen et al., 2006; Gorg et al., 2008; Tomiura, 2007; Olsen, 2006). Secondo Sako (2006) l’aumento di produttività è attribuibile alla combinazione di tre fattori: 1) la standardizzazione dei processi di fornitura di servizi, 2) una maggiore specializzazione accompagnata da incentivi per migliorare le performance, 3) l’utilizzo “domestico” di servizi a più elevato contenuto di lavoro specializzato. Generalmente l’aumento di produttività si accompagna a una riduzione del costo del prodotto, con vantaggio per le imprese che utilizzano i relativi beni come input. Se poi si verifica una perdita di occupazione nel settore che ricorre all’outsourcing, questa è generalmente compensata dall’aumento dell’ occupazione in altri settori (Amiti, Wei, 2004). Nel complesso, dunque, non si osserva una significativa riduzione della domanda di lavoro con effetti negativi sull’accumulazione di capitale umano (Crinò, 2009). Uno studio recente utilizza dati a livello di impianto riferiti all’Irlanda, con l’obiettivo di stimare la relazione tra outsourcing di servizi, profitti e innovazione. I risultati confermano le attese, e cioè l’esistenza di una correlazione positiva tra outsourcing e andamento delle innovazioni. Secondo questa interpretazione “outsourcing allows a plant to restructure activities towards more skill intensive (innovative) activity” (Gorg, Hanley, 2009, p. 5). Si sposta quindi verso l’esterno la frontiera tecnologica. Si tratta di un risultato di rilievo, che consente di ridimensionare gli effetti negativi prodotti dall’outsourcing di servizi in termini di riduzione dell’occupazione; consente inoltre di prevedere che il divario tecnologico tra paesi industrializzati e paesi emergenti permarrà e che l’outsourcing di servizi è una strategia destinata a perdurare (Gorg, Hanley, 2009). Da quanto osservato discendono alcune significative conseguenze in ordine alle politiche che i paesi industrializzati dovrebbero adottare per compensare la riduzione di occupati derivante dall’outsourcing. Le conseguenze della prima ondata erano abbastanza definite. Il trasferimento aveva interessato prevalentemente i settori tradizionali, a basso contenuto tecnologico. I lavoratori qualificati e con elevato grado di istruzione avevano tratto vantaggio dal trasferimento all’estero delle fasi della produzione a più elevato contenuto di lavoro non qualificato. Le politiche di sostegno finalizzate a compensare la perdita di posti di lavoro si prefiggevano quindi di migliorare il livello di istruzione dei lavoratori meno qualificati e di incentivare la nascita di attività industriali nei settori a più elevato contenuto tecnologico. Molto più complesso è invece progettare politiche adeguate a fronteggiare gli effetti negativi del secondo “spacchettamento”. Un eccesso di impegno delle politiche formative europee a favore delle mansioni soggette a tale modalità di outsourcing aumenta per ciò stesso, e proprio nella misura in cui consegue i propri obiettivi in termini di miglioramento delle qualifiche professionali, il numero dei lavoratori passibili di subire le conseguenze negative dei processi di delocalizzazione, quando tali lavoratori siano occupati in mansioni agevolmente trasferibili. Paradossalmente risultano meno esposti alla concorrenza internazionale i lavoratori poco specializzati, che occupano posizioni per loro natura non trasferibili (Blinder, 2005). Si è già osservato come alcune mansioni nel campo dei servizi alla persona, delle pulizie, dei trasporti siano per definizione “locali”. Già in passato, in un articolo scritto per il centenario del New York Times come se scrivesse nel 2096, Krugman (2006, p.1) aveva attirato l’attenzione sui rischi che potevano derivare da una offerta “eccessiva” di lavoratori specializzati nella cosiddetta economia della conoscenza: “… ultimately an economy must serve consumers - and consumers don't want information, they want tangible goods …. A world awash in information will be a world in which information per se has very little market value”. Anche Blinder (2006) ha sottolineato come la domanda di beni materiali sia destinata ad aumentare anche nei paesi emergenti. Il ritmo di espansione della domanda di informazione potrebbe invece risultare più lento rispetto all’offerta. Come osserva Baldwin (2006, p. 42) “If ten

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or twenty percent of the two and a half billion people in China and India learn how to manipulate information online, the reward to “information society” jobs could plummet”. E’ sempre Krugman (2006, p.5) ad affermare: “So over the course of this century many of the jobs that used to require a college degree have been eliminated, while many of the rest can, it turns out, be done quite well by an intelligent person whether or not she has studied world literature”. Ne segue che non sarà più il diverso livello di istruzione a rendere “più richiesti” i lavoratori qualificati, ma saranno altre caratteristiche a determinare la loro capacità di affrontare e risolvere problemi nuovi. In tale contesto, che è per definizione più imprevedibile, soggetto a cambiamenti più repentini e più orientato all’individuo (piuttosto che al settore, all’impresa o al gruppo di imprese) emerge, ad esempio a carico delle politiche europee, l’opportunità/necessità della cautela nella scelta fra destinazioni alternative degli investimenti in formazione. Sempre Blinder (2005, p. 23) ammonisce che “Simply providing more education is probably a good thing on balance, especially if a more educated labour force is a more flexible labour force, one that can cope more readily with nonroutine tasks and occupational change. However, education is far from a panacea ... In the future, how children are educated may prove to be more important than how much.” Si pone di conseguenza il problema di promuovere un sistema di protezione sociale orientato più all’individuo che al “posto” di lavoro, più alla tutela sociale che alla conservazione delle strutture produttive esistenti. Baldwin (2006) ha sottolineato come sia molto difficile prevedere quali mansioni saranno trasferite. La convenienza al trasferimento può infatti rivelarsi un evento improvviso, che riguarda non più i settori ma le singole mansioni. Dovrebbe avere dunque conseguenze di carattere individuale. Baldwin (2006, p. 44), in particolare, osserva: “Given the unpredictability of adjustment needs, it may not be wise to establish lists of tasks that are eligible for globalisation adjustment-assistance. Rather, the new paradigm suggests that some of the money spent on helping sectors adjust would be more effectively spent on helping workers adjust”. 9. Le prospettive del sistema indiano Quali prospettive si vanno delineando per il sistema economico indiano e per il processo di integrazione tra India ed Europa/Italia, tenendo conto anche delle nuove caratteristiche che la globalizzazione è andata assumendo, nonché dei punti di forza e di debolezza di quel sistema anche nei confronti di un competitor come la Cina? In talune produzioni l’India è considerata già oggi un’alternativa significativa alla Cina, anche in ragione dei livelli retributivi più contenuti del lavoro non qualificato, sebbene in tutto o in parte compensati, a seconda dei settori, da una più bassa produttività del lavoro28. Il confronto deve tuttavia essere effettuato tenendo conto anche di fattori ulteriori, che possono condizionare l’attrattività del paese, in positivo o in negativo. Fattori sicuramente positivi sono la disponibilità di lavoro qualificato, utilizzabile in modo complementare a quello non qualificato, e l’esistenza di un terziario avanzato che potrebbe fornire importanti servizi alle imprese europee (e in particolare italiane). I prodotti industriali e informatici indiani hanno ormai raggiunto standard qualitativi del tutto comparabili a quelli occidentali, con un elevato contenuto di valore aggiunto, innovazione e design. Basti leggere la descrizione che Rampini fa di Bangalore per rendersi conto della profonda trasformazione in atto a questo riguardo (Rampini, 2006)29. Per valutare l’effettivo grado di competitività del sistema indiano rispetto a quello cinese sia nell’attrarre investimenti esteri, sia nel definire il proprio ruolo nella divisione internazionale del

28 Per una comparazione fra i due sistemi in campo tecnologico cfr. Fan (2008). Per una comparazione fra le rispettive specializzazioni produttive, e per un esame dei rapporti economici fra i due sistemi e fra questi e il resto del mondo, cfr. Qureshi, Wan (2008). 29 Si stima che nel 2006 le esportazioni di software indiano siano cresciute del 33% rispetto al 25% del 2005.

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lavoro occorre fare riferimento a una “batteria” standard di “indicatori di affidabilità”30. La Cina, ad esempio, risulta avvantaggiata quanto a tempo (in termini di giorni) richiesto per fare rispettare un contratto, per registrare una proprietà, per avviare un’attività e al tempo (in termini di anni) richiesto per comporre un’insolvenza (Basu, Maertens, 2007). L’India risulta, invece, preferibile quanto a tempo (in termini di ore) necessario per adempiere agli obblighi fiscali, il che parrebbe segnalare una maggiore efficienza dell’apparato burocratico. Offre inoltre condizioni migliori dal punto di vista della qualità dell’imprenditoria locale, di alcuni indicatori di qualità delle istituzioni (diritto di espressione, efficacia della legge, controllo della corruzione31), della protezione della proprietà intellettuale. È inoltre caratterizzata da una situazione demografica più favorevole in termini di popolazione giovane (oltre il 40% degli indiani ha meno di 30 anni) sia in valore assoluto (450 milioni contro 400) sia, a maggior ragione, in termini relativi. Il peso relativo della popolazione anziana previsto in Cina per il 2050 è altresì superiore a quello indiano. Questa caratteristica della struttura demografica potrebbe rallentare la crescita della produttività complessiva, nonché incidere sull’impiego del risparmio: una quota crescente di esso dovrebbe infatti essere destinata al finanziamento dello stato sociale, con conseguente contrazione degli investimenti e del tasso di accumulazione. L’India inoltre, anche grazie a una struttura istituzionale più frammentata, appare più propensa a fronteggiare, quantomeno in termini di propensione alle compensazioni di sistema (una sorta di automatismo omeostatico), situazioni di tensione interna che le sono più che ad altri familiari in ragione della sua stessa molteplicità etnica, linguistica, religiosa, che pure può essere considerata all’origine di una maggiore lentezza relativa nell’ elaborazione e nell’attuazione dei processi di riforma. Come spesso accade nei sistemi complessi (non soltanto in quelli socio-economici, specie se di grandi dimensioni) il combinarsi di caratteristiche comparativamente eterogenee, quando non opposte, dà luogo a fenomeni di “ricomposizione”, determinando risultati di sistema caratterizzati da una propria coerenza interna e quindi idonei a consentire, per quanto utili e significative, delle graduatorie. Tradizionalmente, infatti, proprio la frammentazione politica, castale, religiosa e linguistica ha costituito un nodo problematico fondamentale del sistema indiano, pure se sullo sfondo di una tradizione democratica ormai consolidata e in presenza di fattori giuridico-istituzionali (le pratiche commerciali ad esempio) in grado di accreditare l’esistenza di meccanismi di path dependence virtuosa, dei quali invece la Cina non appare fornita. D’altra parte sono numerosi anche i fattori negativi che rendono l’India meno competitiva. Primi fra tutti le carenze infrastrutturali materiali e istituzionali (strade, irrigazione, istituti e cooperative di credito) a supporto delle attività industriali (Chakravorty, Lall, 2007). In alcune regioni, segnatamente quelle del Sud, queste carenze rappresentano un vero e proprio ostacolo alle comunicazioni infraregionali e interregionali. Tra le carenze istituzionali occorre segnalare il cattivo funzionamento del mercato del lavoro32: questo è segmentato, piuttosto rigido, caratterizzato da una legislazione accentuatamente vincolistica, da scarsa mobilità e da un rilevante peso delle “attività informali” (Biggeri, Mehrotra, 2008; Basu, Maertens, 2007). E’ comunque improprio spingersi troppo oltre nel confronto fra India e Cina, ricavando dal confronto un “eccesso di conclusioni”: si rischierebbe infatti di indulgere in un esercizio eurocentrico dettato più da finalità “esorcistiche” (l’abituale atteggiamento troppo impaurito di un continente troppo diviso) che non da analisi ben fondate33. A ridimensionare ulteriormente il confronto/contrapposizione fra i due sistemi concorre, ad esempio, il forte incremento dei rapporti 30 Per un commento su elaborazioni IFC e Banca Mondiale in argomento cfr. Gahia, Kulkarni (2007). 31 I valori degli indicatori di stabilità politica, di efficienza del governo e di qualità normativa vedono invece in vantaggio la Cina. 32 Per un’analisi del mercato del lavoro indiano con particolare riguardo al peso delle “attività informali”, ai connessi problemi definitori e alle relative esperienze riformatrici (oltre che alla letteratura in argomento) si veda Biggeri, Mehrotra (2008). 33 Si noti, incidentalmente, che nella classifica EIU (Economist Intelligence Unit) il rischio-paese indiano è inferiore a quello cinese. Le valutazioni Sace classificano comunque l’India fra i paesi “A”, assicurabili senza particolari condizioni; la categoria di rischio Ocse dell’India è 3, in un range da 1 a 7 in ordine crescente di rischio.

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reciproci fra i due paesi: nel quadriennio 1999/2003 le esportazioni indiane verso la Cina sono infatti aumentate di oltre il 50% in media all’anno, contro il 27% circa di quelle cinesi in India: il settore dell’IT indiano è inoltre oggetto di particolare attenzione da parte cinese (Srinivasan, 2004). Ipotesi di complementarità prospettica fra i due sistemi nelle produzioni offshore sono d’altronde state già avanzate, ipotizzando una specializzazione della Cina nel low cost offshore e una complementare dell’India nel low cost a più elevata intensità tecnologica (Giridharadas, 2006). Quanto all’Italia, è stata sottolineata una significativa complementarità fra la struttura economica dell’India (dove permangono vincoli normativi in materia di investimenti diretti esteri, particolarmente nei settori dei servizi finanziari e assicurativi e nelle microimprese) e quella italiana34, con analogie specifiche quanto al ruolo della piccola e media impresa a struttura familiare. Occorre tuttavia premettere che la partnership italo-indiana, dal punto di vista sia commerciale sia degli investimenti diretti, permane relativamente esigua, anche se le presenze industriali italiane sono qualitativamente significative (Gaiha, Kulkarni, 2007). Se poi si applicano anche ai confronti italo-indiani alcuni degli indici di affidabilità già richiamati, si riscontra un vantaggio italiano per quanto riguarda i tempi di registrazione di una proprietà (27 giorni contro 67 nel 2005), quelli richiesti per avviare un’attività (13 giorni contro 71) e quelli necessari per comporre un’insolvenza (1,2 anni contro 10), e per contro uno indiano quanto ai tempi di adempimento degli obblighi fiscali (264 ore contro 360 in Italia) e a quelli richiesti per l’applicazione dei contratti (425 giorni contro 1.390). L’UE è il primo partner dell’India35. All’interno di questo aggregato, come si è anticipato, la quota italiana non è particolarmente significativa, sebbene il mercato indiano costituisca, in prospettiva, uno sbocco promettente, soprattutto nei settori che impiegano tecnologie avanzate e in quelli che producono specifici beni di consumo (beni di uso personale, prodotti per l’abitazione) idonei a intercettare l’accresciuta capacità di spesa di una fascia crescente della popolazione indiana (la middle class cui si è fatto cenno in precedenza). Le importazioni indiane dall’Italia sono aumentate, fra il 2005/6 e il 2006/7, del 44,1%, ma il loro peso relativo sul totale delle importazioni indiane è passato dall’1,2% all’1,4% soltanto. Il tasso di sviluppo delle esportazioni indiane verso l’Italia è stato nello stesso anno del 42,2%: la quota relativa delle esportazioni indiane verso l’Italia sul totale dell’export indiano è salita dal 2,4% al 2,8%. In ambito UE, l’Italia rappresenta il quinto partner dopo Germania, Francia, Regno Unito e Belgio, anche se il tasso di incremento più recente delle importazioni indiane dall’Italia (appunto il 44,1%) è stato di gran lunga superiore a quello registrato da ciascuno degli altri paesi UE. L’Italia rappresenta quindi a tutt’oggi, per l’India, un partner commerciale comparativamente non primario (si pensi che le importazioni indiane dalla Svizzera pesavano, nel 2006/7, per il 4,9% delle importazioni indiane complessive, contro l’1,4% di quelle dall’Italia). L’indice di complementarità commerciale fra India e Italia (Qureshi, Wan, 2008), che segnala il potenziale di espansione degli scambi interpaese, risulta tuttavia (nel periodo 1990-2005) abbastanza elevato anche se inferiore a quello relativo alle relazioni commerciali italo-cinesi (0,32 contro 0,43)36 Nel settore strategico dei trasferimenti di tecnologia, il primo partner dell’India sono gli USA, seguiti da Germania e Giappone. L’Italia si colloca al quinto posto, con una quota pari al 6% del totale. Gli investimenti diretti indiani in Italia, a loro volta, sono stati, fino a poco tempo fa, molto limitati37. Per quanto riguarda il sistema italiano e i suoi processi di internazionalizzazione, occorre notare come la perdita di quote di mercato registrata fino al 2002 sia riconducibile al permanere di una 34 A tale proposito è stata utilizzata, in sede ufficiale, l’espressione “equazione naturale”. Cfr. Gahia, Kulkarni (2007, p.13). 35 L’UE aveva ricevuto nel 2006 il 20,4% delle esportazioni indiane, alimentando il 14,9% delle importazioni (ICE NEW DELHI, novembre 2007, p. 6). 36 Cfr. Qureshi, Wan, (2008), p. 21 (Tabella A3 dell’Appendice). I valori del coefficiente di specializzazione e del coefficiente di conformità (che si collocano fra 0 e 1, dove 0 segnala strutture di esportazione del tutto dissimili e 1 strutture di esportazione del tutto coincidenti), sono rispettivamente (per i rapporti India-Italia) 0,40 e 0,33 nello stesso periodo (contro 0,47 e 0,55 per i rapporti Cina-Italia). 37 L’investimento Videocon ad Anagni ha tuttavia segnato, a questo proposito, un’inversione di tendenza.

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specializzazione “scorretta”, in quanto concentrata nei settori tradizionali, più esposti alla concorrenza dei paesi a relativamente basso costo del lavoro (Barba Navaretti e altri, 2007). Tale considerazione appare tuttavia più in linea con le caratteristiche della prima globalizzazione, contrassegnata dalla prevalenza della logica del settore produttivo, che non con quella della seconda, contrassegnata invece dalla crescente rilevanza del fenomeno dello skill upgrading e dalla tendenza alla frammentazione geografica non solo della fabbrica ma anche dell’ufficio. Proprio a partire dal 2002 il panorama della situazione italiana segnala un recupero di competitività anche da parte di settori che, in precedenza, erano andati perdendo quote di mercato. E’ significativo notare come tali settori siano tra loro eterogenei, includendo sia attività “tradizionali”, il cui peso nel commercio mondiale è in declino (tessile), sia altre, in espansione, caratterizzate da elevata intensità di capitale umano e di tecnologia. A determinare tale miglioramento è risultato decisivo il ruolo dei “grandi esportatori”, grazie alle performance consentite loro dalle molteplici determinanti (dimensionali, finanziarie, di struttura proprietaria, capacità di sostenere elevati costi fissi di entrata e così via) del loro vantaggio competitivo nei processi di internazionalizzazione (Mayer, Ottaviano, 2007). In altre parole, il fattore di competitività che oggi sembra “contare” per le imprese non è tanto il settore di appartenenza e/o il livello tecnologico quanto piuttosto la dimensione in relazione alla capacità di partecipare al processo di internazionalizzazione. Non vi è dubbio che, nel mercato globale delle mansioni dotate delle caratteristiche che rispondono allo “spacchettamento” (call center, disegno tecnico, trattamento dati), l’India si presenta come un fornitore dalle rilevanti potenzialità. Come sottolinea Blinder (2005, p. 13) “…the fraction of service jobs in the United States and other rich countries that can potentially be moved offshore is thus certain to rise inexorably as the technology improves and as countries like India and China continue to modernize, prosper, and educate their workforces”. L’India, ad esempio, gode di un vantaggio comparato nella produzione di servizi rispetto ai manufatti. I costi in questo settore sono bassi se comparati a quelli prevalenti negli Stati Uniti (Feenstra, Taylor, 2008). Nello stesso tempo “the costs of ousourcing relatively unskilled manufacturing activities to India are much greater than the costs of outsourcing skilled services activities” (Feenstra, Taylor, 2008, p. 260). In India, infatti, i costi di trasporto sono piuttosto elevati a causa dell’ inadeguatezza delle infrastrutture. D’altra parte l’India gode di un’ottima rete di telecomunicazioni: questa, unitamente alla disponibilità di lavoro qualificato e istruito, spiega il tipo di specializzazione e di outsourcing verso l’India (Blinder, 2005). La percentuale di lavoratori a elevato livello di istruzione (e che parlano correntemente l’inglese) non è ancora molto elevata, ma è destinata ad aumentare (Bhagwati, Panagariya, Srinivasan, 2004). Come sottolinea Blinder (2005, p. 27) “Americans, and residents of other English-speaking countries, probably need to start thinking less about the challenge from China, which is largely about manufactured goods, and more about the challenge from India, which is in services. In today’s world, speaking English is already a notable source of comparative advantage when it comes to providing services electronically. And this advantage seems destined to grow in importance as impersonal services account for relatively more international trade and manufactured goods account for relatively less”. Le attività coinvolte sono numerose: non solo call center, ma anche “accounting and finance, writing software, R&D…” (Feenstra, Taylor, 2008, p. 265). La sostenibilità di questo modello di specializzazione, fino a oggi vincente, potrebbe tuttavia essere messa in discussione proprio nel comparto del software a opera di altri paesi dell’Asia del Sud come il Pakistan (Banerjee, 2006). Si prevede, tuttavia, che le migliori aziende indiane del settore informatico siano pronte a decentrare parte delle proprie operazioni in altri paesi dove il costo del lavoro è inferiore. In tal caso sarebbe l’India stessa a dare vita a una nuova forma di outsourcing. Già nel 2003 la quota di servizi che l’India aveva trasferito all’estero, e successivamente importato, era pari al 2,5 % del PIL, significativamente più elevata dello 0,4% degli Stati Uniti (Amiti, Wei, 2004, p. 37)38. Nel 2003 l’India era il quarto paese (dopo Regno Unito, Stati Uniti e Hong Kong) a

38 I dati sono tratti dall’ International Monetary Fund (2003).

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presentare un surplus netto nel commercio di servizi, per circa 10 miliardi di dollari (Amiti, Wei, 2004). 10. Considerazioni conclusive Sulla base delle considerazioni formulate a proposito tanto della “nuova globalizzazione”, con particolare riferimento al fenomeno dell’outsourcing, quanto delle più recenti dinamiche di internazionalizzazione delle imprese italiane, si può sostenere che le politiche di contesto siano preferibili, al fine di sostenere le imprese italiane, agli interventi diretti settoriali e/o aziendali: “…general worker retraining programmes would be one example of new-paradigm adjustment programme” (Baldwin, 2006, p.44). Allo stesso modo appare preferibile, nel quadro delle politiche di sostegno dei costi di aggiustamento, potenziare strutture di welfare orientate al sostegno alla persona, sebbene queste possano rivelarsi onerose per i profili di political economy, cioè per le maggiori difficoltà di consenso che tendono a suscitare. Nella prospettiva dei rapporti italo-indiani39, è pertanto possibile formulare alcune ipotesi di scenario. In particolare è ragionevole domandarsi quanto duraturo possa essere il (recente) miglioramento, per altro gestito più dal sistema delle imprese (o da singole imprese) che non dalle politiche pubbliche, della nostra struttura produttiva quanto a intensità di internazionalizzazione e quindi a posizione competitiva. E anche in quali termini si possa configurare (prescindendo dai rapporti di concorrenza/collaborazione fra grandi gruppi) l’“incontro” fra l’impresa internazionalizzata italiana e quella indiana, tenendo conto sia dei progressi compiuti dalla seconda nel campo dello skill upgrading, sia della speciale attitudine della piccola e media impresa indiana a combinare convenientemente abilità manuale e innovazione tecnologica40. A questo proposito sarebbe augurabile che l’Italia valutasse con attenzione i rischi impliciti nell’ipotesi che gli sviluppi “domestici” (verso una specializzazione più spinta nei settori produttivi a più elevata intensità di tecnologia avanzata e di capitale umano) ai quali si è accennato si trovino a “intercettare” l’economia indiana proprio su quel sentiero del secondo unbundling, cioè della nuova globalizzazione, nella quale l’India sembra esprimere, e consolidare, un vantaggio di sistema. Di conseguenza le politiche rilevanti (formative e non, nazionali ed europee) dovrebbero essere finalizzate a intensificare i processi di internazionalizzazione d’impresa (indipendentemente dalla collocazione settoriale e dalle caratteristiche dimensionali di quest’ ultima) piuttosto che a “forzare” specializzazioni nelle quali potremmo trovarci a subire (proprio nei confronti di paesi come l’India) le conseguenze di un vero e proprio “svantaggio globale”. L’ indeterminatezza del contesto è infine accentuata dalla tendenza delle “due globalizzazioni” a operare in sovrapposizione, e non solo in successione: ci sono comunque tutti i motivi per prevedere fondatamente che, di questi sviluppi, l’India si appresti a diventare protagonista.

39 Un dettagliato dossier sull’argomento è contenuto nello studio predisposto dal Research Team dall’IPALMO (2007). 40 Significativo, a questo proposito, è proprio l’esempio dei cluster indiani in quanto concentrazioni geografico-settoriali di imprese medio-piccole (circa 400 di piccole imprese moderne e 2000 di attività rurali e artigiane). Il complesso dei cluster indiani contribuisce per il 60% all’esportazione di manufatti e per il 40% alla produzione industriale del paese. Alcuni di questi rappresentano il 90% della produzione complessiva di particolari settori di trasformazione, come nel caso della maglieria di Ludhiana, della gioielleria di Surat e di Mumbai e della pelletteria di Chennai, Agra e Calcutta. Cfr. su questo punto l’intervento di Vishwanath (2007).

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ELENCO DEI QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA PUBBLICA E TERRITORIALE PUBBLICATI n. 1/2010 Silvio Beretta, Variabili finanziarie ed economia globale in tempo di crisi n. 2/2010 Silvio Beretta, Renata Targetti Lenti, L'India nel processo di integrazione

internazionale. Dal primo al secondo unbundling e la posizione dell'Italia

********** n. 1/2009 Giorgio Panella, Andrea Zatti, Fiorenza Carraro, Market Based Instruments for

Energy Sustainability

********** n. 1/2008 Italo Magnani, Il pubblico e il privato nella economia della città n. 2/2008 Italo Magnani, Note a margine di una recente opera sull'indirizzo sociologico della

scienza delle finanze italiana n. 3/2008 Italo Magnani, La riforma sociale nella formazione di Nitti economista n. 4/2008 Marisa Bottiroli Civardi, Renata Targetti Lenti and Rosaria Vega Pansini, Multiplier

Decomposition, Poverty and Inequality in Income Distribution in a SAM Framework: The Vietnamese Case

n. 5/2008 Luca Mantovan, A Study on Rural Subsistence in the Ethiopian Northern Highlands

********** n. 1/2006 Italo Magnani, Città. L’intreccio pubblico-privato nella formazione dell’ordine

sociale spontaneo

********** n. 1/2005 Paola Salardi, How much of Brazilian Inequality can be explained? n. 2/2005 Italo Magnani, Economisti Campani: a proposito della pubblicazione di due inediti

di Carlo Antonio Broggia n. 3/2005 Italo Magnani, Ricordo del Professor Giannino Parravicini n. 4/2005 Italo Magnani, A proposito degli “Studi in onore di Mario Talamona”

********** n. 1/2004 Italo Magnani, Il “Paretaio” n. 2/2004 Italo Magnani, L’economia di Luigi Einaudi: ovvero la virtù del buon senso n. 3/2004 Marisa Bottiroli Civardi e Enrica Chiappero Martinetti, Povertà between and within groups: a reformulation of the FGT class of index n. 4/2004 Marco Missaglia, Demand policies for long run growth: being Keynesian both in the

short and in the long run? n. 5/2004 Andrea Zatti, La tariffazione dei parcheggi come strumento di gestione della

mobilità urbana: alcuni aspetti critici

********** n. 1/2003 Giorgio Panella, La gestione delle aree protette: il finanziamento dei parchi regionali

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n. 2/2003 Marco Stella, A Ban on Child Labour: the Basu and Van’s Model Applied to the Indian “Carpet-Belt” Industry n. 3/2003 Marco Missaglia e Paul de Boer, Employment programs in Palesatine: food-for-work or cash-for-work?

Aprile 2010