L'incanto di fantasia

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Caterina Armentano, ragazzi 8+ In una notte sinistra e tempestosa, mentre i tuoni e i lampi dirompono tra cielo e terra, Minerva abbandona l’Olimpo per far visita a una bambina, relegata in una caverna da un intero villaggio. La piccola non ha un nome e ha una grave disabilità: non sa parlare, per questo si esprime tracciando disegni sui muri della caverna che la ospita. Minerva rimane affascinata da tante meraviglie, decide così di farle un dono. Le verrà dato un nome: Fantasia. La bambina capirà ben presto di poter dar vita a creature straordinarie, quelle del libro incantato che lei stessa creerà e che magicamente si animeranno: pere magiche, colori fatati, folletti dispettosi, draghi con poteri straordinari, re razzisti, fratelli intrepidi, chiavi che conducono in mondi alternativi, pozioni che inducono il sonno eterno. Fantasia si prenderà cura di tutte le sue creature, rivelandosi migliore di coloro che l’hanno abbandonata, dimostrando che la sua capacità di amare è più forte d

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In uscita il 25/6/2014 (15,00 euro)

Versione ebook in uscita tra fine luglio e inizio agosto 2014 (4,99 euro)

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CATERINA ARMENTANO

L’INCANTO DI FANTASIA

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L’INCANTO DI FANTASIA Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-751-3 In copertina: immagine di Domenico Santomartino

www.facebook.com/domenico.santomartino

Prima edizione Giugno 2014 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

Questa è un’opera di fantasia. Nomi, luoghi, personaggi ed eventi nar-rati sono frutto della fantasia dell’autrice o sono usati in maniera fitti-zia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da considerarsi puramente casuale.

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Cominciate col fare il necessario, poi ciò che è possibile e all'improvviso

vi sorprenderete a fare l'impossibile.

San Francesco d'Assisi Quando il primo bambino rise per la prima volta, la sua risa-ta si sbriciolò in migliaia di frammenti che si sparpagliarono

qua e là. Fu così che nacquero le fate.

James Matthew Barrie

Ogni volta che un bimbo dice: “Io non credo alle fate”, c'è una fatina che da qualche parte cade a terra morta.

James Matthew Barrie

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Ai miei figli e al loro mondo incantato. Alla mia famiglia di origine, l’inizio di tutto.

A mio marito e ai suoi sì che mi hanno cambiato la vita.

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In principio: Il primo dono magico.

Nacque, agli albori dei tempi, la bambina che non sapeva parlare. In un villaggio ai piedi di una montagna, dove gli uomini si davano alla caccia e le donne avevano imparato a coltivare la terra. La sua nascita spezzò la tranquillità in cui la gente viveva. Il suo mutismo fece precipitare i genitori di lei nella convin-zione di essere stati maledetti. Il Cielo aveva voluto punirli con un fardello da trascinarsi lungo il percorso della vita. La bambina non fu più chiamata con il suo nome, fu consi-derata una schiava tutto fare utile al villaggio, come se la fa-tica fisica potesse ripagare gli dei del grave peccato di cui era stata marchiata. Era stata relegata all’ultimo scalino della gerarchia sociale, ciò non le consentiva di poter giocare con gli altri bambini, mangiare insieme alla comunità, partecipa-re ai giochi e alle feste. Non solo era derisa dai suoi coetanei, ma gli adulti la sfrut-tavano come fosse stata una carretta portaoggetti. La solitudine la spinse a cercare un rifugio, all’inizio. Suc-cessivamente, si rese conto che il suo nascondiglio era di-ventato la sua casa. Il suo allontanamento fece tirare un so-spiro di sollievo ai suoi genitori e ben presto gli abitanti del

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villaggio dimenticarono che un tempo era vissuta in mezzo a loro. Fu apostrofata come la maledetta, lo scarto degli dei. Ammantellata dal silenzio e dalla solitudine, la bambina ini-ziò a disegnare. All’inizio con una pietra contro i muri della caverna, spezzandosi le unghie, creando scintille al grattare della pietra contro la roccia, punta dura contro muso duro. In seguito, scoprì come le piante e la terra potessero creare co-lori e sfumature differenti, dando una potenza espressiva e visiva a tutto quello che creava. La sua mente era popolata da esseri straordinari, da immagini che non aveva mai vedu-to, da colori che neanche la natura possedeva. Rese i muri l’immagine di ciò che non riusciva a dire e spes-so, quando i lampi e i tuoni cozzavano in cielo, lei sperava che il fuoco infervorasse i suoi personaggi per renderli vivi e veri. Creature alate e mistiche rendevano quel luogo miserabile una tana più accogliente. Imparò a difendersi dalla paura grazie alla sua spiccata im-maginazione, mentre coloro che l’avevano rinnegata viveva-no nel timore dell’ignoto e spesso, nelle lunghe giornate di pioggia, se ne stavano segregati nei loro rifugi, temendo che i lampi e i tuoni fossero l’espressione d’ira degli dei. Una notte, mentre la sua gente dormiva rifugiata nelle visce-re di una caverna a causa di un forte temporale, la bambina si fermò a osservare la pioggia fare capolino dalle nuvole, scrosciare verso terra e bagnare il mondo; si chiedeva come potesse accadere una simile magia, anelando a disegnare perfettamente come la realtà le appariva.

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In quel frangente, sentì il gufare di un gufo e, dopo una serie di lampi e richiami, apparve una donna dinanzi alla sua pic-cola persona, una splendida creatura, in veste di guerriera, armata di elmo, scudo e corazza. La piccola sussultò. «Non temere, sono venuta in pace!» La bambina si torceva le dita per il timore di essere punita a causa del suo difetto. Ma alla donna piacque quello che vide. «So che non hai più un nome!» esclamò laconica. «No, per loro sono solo un peso…» la piccola si rese conto che senza aver aperto bocca aveva comunque riferito i suoi pensieri. «Non aver paura» le sorrise, «è il modo di comunicare di noi Supremi e da oggi sarà anche il tuo. Ho visto i tuoi disegni. Questo mondo non è degno di te, di conseguenza chi non ti accetterà rimpiangerà di non averti voluta. Io sono Minerva, dea della sapienza, e sono qui per farti un dono, ma devo porti dinanzi a una scelta.» La piccola fece un goffo e impacciato inchino. «Posso darti la capacità di parlare oppure un nome. Puoi sce-gliere liberamente.» La piccola la fissò confusa. «Perché?» chiese con la forza del pensiero. Mai nessuno le aveva donato nulla. «Perché con te è nata una nuova forma di comunicazione, una nuova forma di magia e l’Olimpo non può starsene lì a guardare. Non ho molto tempo: scegli!»

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Con il cuore in tumulto la piccola attraverso i pensieri disse che avrebbe voluto saper parlare. «E così sia!» disse Minerva svanendo così com’era apparsa. La bambina si ritrovò sola nella caverna. Convinta di aver immaginato tutto. Forse era davvero strana. Forse la sua gente aveva ragione: non era capace di distinguere la realtà dal mondo delle ombre da cui era venuta al mondo. Aprì la bocca sperando che un suono spiccasse fuori. La go-la le doleva, la sentiva secca. Provò a dire: “Oooooh!” ma si rese conto che la sua determinazione era nulla, che temeva di non riuscirci. «Oh» fu un attimo, breve. «Ooh…» Il cuore in subbuglio. «Oooooh… so parlare!» urlò. Sgomenta, felice, confusa si portò le mani alla bocca e iniziò a salterellare. «Ora mi accetteranno. I miei genitori mi ameranno! Farò parte della comunità.» Spinta dall’euforia, convinta che la voce avrebbe ricucito i rapporti con gli altri, corse sotto la pioggia urlando e riden-do, verso il rifugio dei suoi genitori. In quella notte imperfetta, in cui la natura sembrava voler centrifugare cielo e terra, la piccola reietta si spinse all’interno della caverna, dove il villaggio si nascondeva in caso di pericolo. Il buio regnava a sprazzi. Alcune fiaccole illuminavano i giacigli degli addormentati. «Posso parlare!» urlò. «Sono capace!» disse nell’attesa che tutti le corressero incontro per abbracciarla. Ma il silenzio fu spezzato solo da un sibilo e il buio fu squarciato dalla mano di suo padre che, avvicinandosi a lei con una torcia in mano,

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la fissò come se avesse visto un’orrida creatura. La bambina rimase impietrita. Quella strana sensazione di disagio che aveva caratterizzato tutta la sua vita e che per un attimo era scomparsa, si fece strada in lei. «Come hai fatto?» disse con voce gutturale. «È stata la dea, Minerva» sorrise la piccola. Un brusio sinistro s’inerpicò dalla caverna fino all’uscio dell’antro. «E perché mai una dea si sarebbe presa tanto disturbo?» «Non lo so, ma posso parlare!» Il dubbio s’insinuò nelle menti di ogni abitante del villaggio. I bambini si nascosero dietro i genitori, gli adulti rimasero nella penombra dell’antro come a voler rimanere un passo dietro alla maledizione. Alcuni di loro, a quattro zampe, si erano allungati verso l’uscio ad annusare l’aria, a cercare di percepire l’odore della bambina, mentre i loro pensieri puz-zavano di paura, di terrore, di miseria. Alla fine, quando la piccola scoppiò in lacrime, un vecchio attorcigliato su gam-be secche e ossute si fece avanti e la fissò come fosse stata un abominio. Si fece passare un bastone da chi gli stava vi-cino e con esso la spinse. La fece ruzzolare nel fango, men-tre l’acqua la infracidiva, uccellino caduto dal nido. «Dobbiamo parlare con gli spiriti» disse. «Ritorna nella tua caverna, quando avremo preso una decisione, verremo a cercarti.» Il ritorno a casa fu una sconfitta. La salita una lotta contro la pioggia e la foresta la spingeva, la sfidava, la schiaffeggiava.

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A che cosa le sarebbe mai servita la parola se non avesse mai più potuto parlare con nessuno? Gli uomini nella grotta accesero un grande fuoco. Si cospar-sero di sangue di serpente e, mentre i bambini in cerchio vi danzavano intorno, gli anziani e le donne intonarono un can-to. Un suono sinistro arrivò dal profondo della gola. Un suo-no che graffiava la lingua, il cui eco rimbalzava di stanza in stanza facendo vibrare il pavimento e il soffitto. La terra tremò e laddove era stato acceso il fuoco si creò una voragine, una spirale silenziosa. Tutti si accasciarono al suo-lo con il volto schiacciato a terra. Tremanti. Il sibilo che in-vase le loro orecchie gli fece accapponare la pelle. Scosso come una foglia al vento, il vecchio disse: « La ma-ledetta parla!» «Chi ha osato?» chiese l’entità. «Minerva.» «Giammai! L’abominio è figlia delle ombre. Sta assorbendo le vostre energie. Succhia i vostri sogni. Mangia i vostri pensieri. Ben presto vi ucciderà tutti e prima che ciò accada dovrete farlo voi.» La voragine si allungò, fluttuò e assunse le fattezze di una persona priva di volto e corpo. Una sagoma che vibrava in cerchi concentrici. «Nostra signora Paura, ordinate e noi eseguiremo.» «Annegatela. Annegate tutto quello che fa parte di lei. Prima picchiatela, fatele male, incutetele terrore, fate che tema il mio volto e poi uccidetela.» La sagoma fu aspirata dal terreno da dove era sorta.

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Non attesero che l’alba facesse capolino. Si armarono di tutti gli amuleti possibili e, trascinandosi dietro superstizioni e paure, s’inerpicarono verso la grotta della bambina. Quando la luce creata dalle fiaccole s’insinuò negli incavi delle pare-ti denudando la roccia e facendo emergere le figure create dalla piccola, gli occhi degli abitanti del villaggio balzarono da un disegno all’altro, inorriditi, mentre i loro nervi tesi si contrassero insieme ai muscoli, rimpicciolendo i pensieri, seccando ogni vena sentimentale. «Prendetela!» urlò il vecchio. La bambina tentò la fuga. Urlò. Chiese perché. Invocò il nome della dea. Promise che non avrebbe mai più parlato, ma nessuno le dava ascolto. La sua voce era superflua, il suo respiro un pericolo per chi bramasse la pace. Fu il padre a trascinarla per i capelli mentre i bambini la punzecchiavano con dei bastoni e le lanciavano sassi. Le donne le sputavano addosso e gli uomini intonavano canti di guerra e di lotta. La bambina sentì il dolore del corpo. Il freddo che le violava la pelle. La carne che veniva lacerata, la testa che le pulsava. Il dolore non aveva un epicentro, ma scosse tutto il corpo violandola fino all’anima. Trascinata con la forza su pietre aguzze, taglienti. L’acqua che le lavava via il sangue. Il vento che trasformava i suoni in echi obliqui. La vide non tanto lontano da lei. Forse due passi. Aveva un sorriso ambiguo, un volto trasformato da varie emozioni. Era un’ombra, eppure aveva fattezze umane, ma gli uomini

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non riuscivano a vederla come la vedeva lei. Aveva tentacoli per dita e i suoi occhi erano caverne buie senza fondo. Guardò in fondo a quel buio e tremò, ma non si lasciò spa-ventare, non permise che Paura la soggiogasse. Chiuse gli occhi mentre la picchiavano, mentre la soffoca-vano, mentre la spingevano, mentre l’accecavano. Aprì gli occhi nella sua immaginazione, nel suo regno, nel suo mondo, dove la magia le dava il potere di fare giustizia, dove essere bambina non era un difetto, una condizione di inferiorità. Non necessitava della voce per parlare, conosce-va i suoni anche senza averli uditi. Gli uomini la issarono in alto. La lanciarono come fosse sta-to un sasso. Il suo corpo precipitò nell’acqua, una piccola slavina, schizzi dappertutto. L’acqua sovrastò il corpicino scheletrico, invase le narici, filtrò la bocca, ma lei ormai era altrove, in un posto in cui le sue creature erano vive e reali. Un paio di ali enormi apparvero nel cielo del villaggio. Tutti alzarono gli occhi. Erano ali nere, da pipistrello, con enormi dita tentacolari. Dalla bocca dell’ombra usciva un suono a-cuto, stridente, che faceva scricchiolare le ossa, cedere le gi-nocchia, arrossare gli occhi. Come un viscido serpente, l’ombra invase ogni essere umano posto su quella zolla di terra e Terrore si impossessò delle loro menti, dei loro cuori, mentre la sorella, Paura, se ne stava seduta a ridere di quella frenesia, di quel caos che le deliziava il palato, un sapore che la eccitava, che le faceva vibrare ogni fibra del suo essere. Gli umani iniziarono a incendiare le proprie case, a farsi ma-le a vicenda. Il terrore di essere maledetti, di essere stati pu-

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niti dagli dei li rese indomiti, violenti, privi di briglie. Terro-re li aveva attanagliati e loro non avevano abbastanza imma-ginazione, abbastanza creatività per combatterlo. Mentre la bambina moriva, lentamente e in agonia, e il vil-laggio veniva distrutto da Superstizione e Ignoranza, invitati al banchetto da Terrore e Paura, il tempo venne risucchiato. Saturno aspirò ogni cosa, ogni istante. La clessidra fu messa a rovescio e la sabbia fu assorbita, granello per granello. Le azioni furono annullate, le scelte lasciate in sospeso. «Allora?» disse Minerva fissando la bambina negli occhi. Occhi liquidi. Oro fuso. La piccola inspirò come se fosse un vagito di nascita. Si por-tò una mano al petto e si guardò intorno. La grotta era lì, lei anche. I suoi disegni solo fantasie. «Non hai capito la domanda?» chiese la dea. La bambina sgranò gli occhi, colmi di lacrime. «Il nome o la voce?» «Il nome» disse. «Che cosa me ne faccio della voce se mai nessuno mi ascolterà?» Minerva sorrise. La dea si avvicinò al muro e con la sua spada grattò via tutti i disegni che la bambina aveva fatto e, dopo aver raccolto sul suo scudo abbastanza polvere, la soffiò con energia verso la piccola che fu invasa da una forza magica. La sua mente prese consapevolezza. «Da oggi ti chiamerai Fantasia e avrai la facoltà di investire con il tuo potere chi reputerai opportuno. Il tuo tocco sarà sacro e le tue mani creeranno solo meraviglie.»

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«Ma io non so parlare, come farò a comunicare agli uomini quello che ho dentro?» «La tua mano e il tuo pensiero saranno sacri. Chiunque sfio-rerai con le tue abili dita avrà la capacità di creare incanti.» «Che cosa intendi per meraviglie?» «Devi salvare il mondo da Terrore, da Paura.» «E come farò?» «Creando le fiabe…» «Le fiabe?» «Racconti magici, daranno agli uomini la forza per esorciz-zare la paura.» «Ma io non sono degna…» «Va’ verso il mondo, senza timore e usa il tuo potere, la gente ti acclamerà!» «E quali armi dovrò usare?» «Il tuo nome, solo il tuo nome…» La dea scomparve e la bambina si ritrovò con la mente som-mersa da idee. Creerò un nuovo linguaggio, si disse presa dal potere che le dava coraggio, per raccontare agli altri le mie fiabe… rac-coglierò le mie storie e le porterò al mondo… chiamerò il metodo scrittura e il dono lo chiamerò libro e girerò il mon-do per porgerlo agli uomini. E in quella notte fatata la piccola Fantasia iniziò a scrivere il primo libro dell’era andata, mentre creature magiche, princi-pesse in pericolo e oggetti stregati facevano capolino nella sua mente incantata.

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Perfettina e il Pero magico.

C’era una volta, in un villaggio fra due colline, un albero di Pero. Era maestoso, rigoglioso e stranamente sempreverde. Anche quando l’inverno, con il suo violento vento, gettava a terra tutte le pere già marce, bastavano pochi giorni e una gemma dava vita a un’altra pera. Era un albero magico, su cui vivevano delle pere magiche. Quell’anno, in cui l’estate era molto calda, spuntò una pera dalla buccia lucida e dal colorito eccezionale. E pochi giorni dopo altre pere iniziaro-no a farle compagnia. La prima nata si chiamava Perfettina, perché era piena di sé e molto altezzosa. Poi arrivò Lunghina che, come dice lo stesso nome, era più lunga delle altre. Rosolia era cosparsa da piccoli puntini. Pacioccona era la più grassa e la più suc-cosa. Dondolina era quella che amava farsi cullare dal vento. Le cinque pere vivevano aggrappate sul lato destro dell’albero, vicine di ramo e, soprattutto per questo, passa-vano le giornate a chiacchierare. Ognuna di loro aveva dei sogni e, nei pomeriggi estivi, tra le risate dei bambini del vil-laggio che giocavano ai piedi dell’albero, esse parlavano delle loro ambizioni. Lunghina desiderava ardentemente che il bambino che ogni giorno andava sotto i rami dell’albero per tentare di racco-

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glierla e farne un infuso al padre ammalato, ci riuscisse, così lei non sarebbe svanita invano e al ragazzino avrebbe ridato un padre sano e un immenso sorriso. Rosolia avrebbe voluto essere raccolta dalla moglie del capo del villaggio per finire nei suoi barattoli colorati sotto forma di marmellata, per addolcire il palato e il cuore di un uomo che trascurava un po’ troppo i suoi bambini. Pacioccona avrebbe voluto crogiolarsi al sole dell’estate nell’attesa di vedere la pera-bambina che sarebbe nata al suo fianco e poi non le sarebbe dispiaciuto lasciarsi cadere fra le foglie secche per diventare concime per le radici di quell’enorme Pero magico. Dondolina, invece, desiderava che il vento la staccasse da quel ramo e la spingesse dall’altra parte della collina, così i suoi semi avrebbero dato vita a un altro pero magico. Tutte avevano da dire. Tutte ridevano alle loro battute. La-sciavano che il sole le maturasse, che il venticello caldo dell’estate le cullasse, ogni tanto cercavano di appesantirsi per far muovere il ramo e scoppiare a ridere quando le fo-glie, cadendo, solleticavano loro la pancia. L’unica diffidente era Perfettina. Lei era nata con la buccia lucida e colorata, senza una macchia o un’imperfezione, a-dornata da foglie che le proteggevano il capo dal sole. Perfettina non si muoveva mai, rimaneva rigida, legata al suo ramo, intenta a vivere il più a lungo possibile per guar-dare i numerosi adulti e bambini che la desideravano. Ma nessuno l’avrebbe avuta, perché lei era posta in un angolo

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del ramo dov’era impossibile arrivare. E Perfettina ne gode-va. Era felice di essere desiderata e inavvicinabile. Le altre pere tentavano sempre di instaurare un’amicizia, di prendere confidenza, ma lei arricciava il naso e si girava dall’altro lato. «Tanta superbia a che serve?» diceva disgustata Lunghina, «non vivrà in eterno!» «Perdi il tuo tempo» continuava Rosolia, «Perfettina pensa di essere unica e speciale!» «Goditi il sole e il vento, scaccia dalla tua testolina quelle foglie» diceva Dondolina, «non ci resta molto da vivere; alla fine finirai spiaccicata al terreno come tutte noi e avrai perso del tempo prezioso a lodare la tua bellezza.» Perfettina non rispondeva. Sapeva che un giorno tutte quelle pere avrebbero ritrattato le cattiverie che dicevano ricono-scendo le sue speciali qualità. Arrivò il momento in cui l’Albero iniziò a chiedere alle pere ciò che desideravano e, a una a una, iniziarono a confidare al Pero magico quali fossero le loro aspirazioni. L’Albero fu soddisfatto e così lasciò cadere Lunghina fra le mani del marmocchietto dal papà malato, Rosolia finì tra i barattoli colorati della moglie del capo del villaggio, Pacioccona, do-po aver visto la pera-bambina, divenne concime per le radici dell’albero e Dondolina, spinta dal vento, oltrepassò la colli-na e finì in un terreno fertile. Le loro buone azioni portarono sollievo agli ammalati, calore alle famiglie tristi, speranza per un futuro diverso.

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Perfettina, invece, chiese più tempo per esprimere il suo de-siderio, anche se in cuor suo aveva già scelto. Voleva diven-tare una bambina, così avrebbe vissuto la sua esistenza da mortale solo per curare il suo corpo. L’Albero Magico non fu sorpreso dalla sua richiesta. «Vuoi davvero questo?» chiese il Pero. «Lo voglio!» rispose lei convinta. «E così sia!» Perfettina saltò giù dall’albero su due belle gambe da bambina. L’Albero le indicò il sentiero da seguire e le disse che una famiglia l’avrebbe accolta come se fosse stata loro figlia. Ma la vita da essere umano non piacque a Perfettina. Doveva studiare, fare sport, tenere in ordine la sua cameret-ta, badare al fratello minore quando i genitori erano assenti. Non le era concesso laccarsi le unghie o tingersi i capelli perché era ancora troppo piccola. Il suo più grande desiderio era rimirarsi dinanzi allo specchio e prendersi cura del suo corpo e quella situazione non glielo consentiva. Motivo per cui tornò dall’Albero per chiedergli di trasformarla in una gatta. Ne aveva visti tanti nel villaggio e sembrava che la lo-ro vita fosse comoda e pigra, per di più i gatti erano puliti ed eleganti. L’Albero chiese ancora una volta: «Vuoi davvero questo?» «Lo voglio!» rispose lei. «E così sia!» fu la risposta. E da bambina si trasformò in gatta. Ma ben presto capì che neanche quella vita era fatta per lei. Viveva alla giornata, doveva rubare per mangiare, i bottegai

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la prendevano a calci pur di impedirle di rubare del cibo. Fu allora che tornò dall’Albero Magico per chiedergli di tramu-tarla in un’aquila. Imperiosa, selvaggia e forte. «Vuoi davvero questo?» chiese il Pero. «Lo voglio!» rispose Perfettina. «E così sia!» E Perfettina divenne un’aquila. Magari quella vita le sarebbe anche piaciuta se un giorno, mentre sorvolava le alture della collina, un cacciatore non le avesse sparato. Un dolore sordo la lacerò e finì tra i rami del Pero Magico. «Salvami!» disse Perfettina in fin di vita. «Hai esaurito i tuoi desideri» rispose il Pero con freddezza. «Vuoi dire che lascerai morire tua figlia?» «Ti ho lasciato scegliere e tu, come tutte le altre pere di quest’albero, dovrai accettare le conseguenze delle tue decisioni!» Contemporaneamente arrivò il cacciatore che le aveva spara-to, accompagnato da altri colleghi. Tentarono in tutti i modi di salire sull’albero e di prelevare la preda ferita tra i rami. La scalata era impossibile, il Pero era così maestoso! Perfettina iniziò a piangere. Per la prima volta in vita sua aveva paura. Ma proprio quando la disperazione aveva rag-giunto il culmine, una vocetta sottile le arrivò all’orecchio. «Lasciala vivere, le darò il mio desiderio!» Una pera-bambina parlava decisa con il Pero Magico. «Non posso!» tuonò arrabbiato l’Albero. «Perfettina è abi-tuata ad avere tutto con facilità e se non imparerà a usare il

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cuore, invece della bellezza, morirà, così, senza lasciare traccia della sua esistenza!» «Le darò anche il mio desiderio!» «Anche il mio!» «E pure il mio!» L’Albero sgranò gli occhi. Perfettina rimase sbalordita. Quattro pere-bambine, poste sul lato destro dell’Albero, erano pronte a sacrificare la loro vita per i suoi capricci. E stranamente quelle pere assomigliava-no a Lunghina, Rosolia, Pacioccona e Dondolina. Se non le avesse viste sparire con i propri occhi, avrebbe pensato che fossero loro. L’idillio fu spezzato da un urlo lancinante che arrivava dal cuore dell’Albero: i cacciatori stavano tentando di buttarlo giù a colpi d’ascia, sia per rifarsi della cacciagione, sia per-ché tanta legna faceva gola a ognuno di loro. Avrebbero guadagnato un mucchio di soldini vendendo il tronco mas-siccio. Anche le altre pere iniziarono a piangere. Erano tutti terro-rizzati. Come illuminata da verità assoluta, Perfettina capì cosa do-veva fare! «Ho osato, ho voluto troppo e non è giusto che prenda più di quello che mi tocca. Non avevo capito che una pera, qualun-que forma assuma, rimarrà sempre una pera! Adesso è il mio turno: devo darmi agli altri!» L’Albero sorrise. Finalmente Perfettina aveva capito. Chiuse gli occhi e si lasciò trasportare dall’amore che aveva dentro.

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Il suo corpo divenne puro spirito e le sue ali divennero e-normi. Perfettina-spirito d’aquila planò sui cacciatori terro-rizzandoli e mandandoli via. Il suo tocco di fuoco guarì la ferita dell’Albero. «Adesso sei uno spirito della foresta» disse l’Albero, «ora va’ e proteggi i deboli.» Le pere-bambine osannarono Perfettina la cui luce pura si perdeva nell’azzurro del cielo. E l’Albero Magico, fiero delle sue figlie, decise che era il momento di schiacciare un pisolino, fino ai prossimi deside-ri, fino all’arrivo di una nuova Perfettina.

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La pozione del sonno eterno.

C’era una volta una principessa di nome Ilaria, che viveva in un regno sfarzoso e fastoso insieme al re e alla regina, due genitori attenti e amorevoli. Coccolata, viziata e amata da amici, parenti e dal popolo, il suo futuro le prospettava solo tanta felicità. Ma la malasorte era in agguato e ben presto la spensieratezza fu accantonata, perché la regina si ammalò gravemente. La principessa, preoccupata, sostò giorno e notte al capezza-le della madre, ma, nonostante le sue amorevoli attenzioni e le cure dei medici più preparati e più illustri del regno, la re-gina morì. Il re fu sopraffatto dal dolore, ma come capo del regno do-vette mettere la sua sofferenza in secondo piano e occuparsi del popolo, delle terre e degli affari. Ilaria, invece, si chiuse in una solitudine ermetica e ango-sciante. L’ombra del dolore si aggirò per il castello intimidendo co-lori e suoni, trasformandolo in un luogo sinistro, lugubre e privo di vita. Ilaria si confinò nelle sue stanze concedendo l’ingresso e-sclusivamente alla balia, poiché quest’ultima l’aveva accudi-ta durante l’infanzia. La donna, però, iniziò a rivelare lenta-

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mente la sua vera natura. Non essendo più osservata dalla regina ed essendo il re occupato in altre faccende, iniziò a rubare. Aveva un figlio di tre anni a cui voleva che gli venis-se impartita un’istruzione e, soprattutto, voleva che ottenesse un titolo nobiliare e per realizzare il suo progetto era dispo-sta a tutto. L’atteggiamento ostile e pessimistico della prin-cipessa rese i rapporti con suo padre molto difficili, poiché l’uomo non riuscendo a consolarla si accartocciò in un pro-fondo senso di colpa. Stanca di soffrire, di sentirsi dire che un giorno quel dolore terribile al cuore si sarebbe trasforma-to in un dolce e malinconico ricordo, la principessa si rifugiò sempre più spesso nel mondo dei sogni, dove si sentiva al sicuro. Lì sua madre era sempre presente. L’accarezzava, le parlava, la faceva sentire felice. La balia capì che era il momento d’agire: la sofferenza della principessa era un’ottima fonte di guadagno per lei e suo fi-glio. Voleva dare una leggera spinta all’orfanella per avere campo libero. Fu sua premura farle sapere che nel regno viveva uno stre-gone potente capace di distillare la pozione del sonno eterno: un intruglio che lasciava eternamente addormentati. Vestita da contadina, Ilaria si diresse dallo stregone che vi-veva in una casa angusta e sgangherata. La ragazza acquistò la pozione cedendo al vecchio una borsa piena di monete. Lo stregone, ridotto in miseria, accettò la ricompensa, ma disse alla ragazza che quello non era il modo giusto per affrontare le angosce della vita.

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Tornata al castello, la giovane principessa indossò il vestito migliore e si lasciò aiutare dalla balia a sistemare degnamen-te le sue stanze. Dopo essersi adagiata tra soffici cuscini di seta, ingurgitò il liquido amaro. Quando la balia si rese conto che la pozione aveva funziona-to, gettò via la boccetta che l’aveva contenuta e chiamò il re. In poco tempo tutto il regno seppe della grande disgrazia e l’uomo, esausto e addolorato, scoppiò in lacrime. Chiamò a raccolta medici, maghi, filosofi, sacerdoti, scienziati, ma nessuno seppe dare soluzione all’intricato mistero. L’unico ad avere la soluzione era il vecchio mago che, una volta scoperta l’identità della contadina, andò di filato al castello. A riceverlo fu la balia che, con una scusa banale, lo condus-se nelle segrete del castello dove lo rinchiuse. Il re non si arrese alla sofferenza e decise di emanare un e-ditto in cui chiedeva a tutti i principi e ai nobili del mondo di presentarsi al capezzale della principessa e di darle un bacio, nella speranza che l’incantesimo si spezzasse. Il re aveva sentito dire che Biancaneve e la Bella addormentata nel bo-sco così si erano salvate da morte certa. La principessa non ebbe la stessa fortuna, nonostante ai piedi del letto a baldac-chino si fossero presentati tutti gli uomini più belli e nobili del mondo; dopo averle sfiorato la fronte con un bacio l’incanto non si era sciolto. Dopo un pellegrinaggio durato due anni, il re, dietro sugge-rimento della balia, decise di chiudere a chiave la stanza del-la principessa e di non permettere a nessuno di entrarvi mai più. Il re concesse alla perfida donna di sigillare per sempre

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l’uscio della stanza, di prendere tutti gli oggetti preziosi e di farne quello che voleva. La balia, entusiasta, cantava vitto-ria, osando persino sperare di poter un giorno essere incoro-nata regina. Mentre lei portava via tutti gli oggetti preziosi, il figlioletto frugava nel baule di Ilaria in cerca di giocattoli nuovi: il cavallino di legno, le bambole di porcellana, i libri di fiabe. Nel frattempo, l’addormentata sentiva tutto. Da molto si era resa conto di aver fatto la scelta sbagliata. Era consapevole che la donna sognata non era sua madre, ma solo una com-binazione di ricordi. Quando capì che la vita reale, nonostan-te il dolore, era meglio di un sogno rarefatto, tentò di tornare indietro, ma non ci riuscì e così si ritrovò prigioniera del suo stesso desiderio. Voleva urlare, chiedere aiuto, dire che si rendeva conto di aver sbagliato, ma era come bussare dietro una porta e non ricevere risposta. Voleva essere salvata, so-prattutto adesso che si rendeva conto che, da quel momento in poi, sarebbe stata chiusa a chiave nelle sue stanze e che la balia avrebbe fatto di tutto perché il re si dimenticasse di lei. Così, mentre la donna malvagia raccattava oggetti preziosi, Ilaria provava con tutta se stessa a urlare. Il piccoletto, non interessato ai sogni di gloria della madre, ma desideroso di nuove scoperte, si arrampicò sull’alto letto della principessa e, sedutosi al suo fianco, aprì il libro che aveva fra le mani e disse: «Qui sopra c’è una principessa che ti somiglia. Qual-cuno ti ha dipinta sul libro?» Quando si rese conto che la principessa non si muoveva, la scosse leggermente.

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«Sei morta?» chiese ancora. «Ho capito» continuò pensiero-so, «sei solo viziata, mamma lo dice sempre che le bambine ricche non danno retta a nessuno; magari se ti leggessi qual-cosa, potremmo diventare amici!» Non sapendo leggere, il piccoletto trasse ispirazione dai di-segni sulle pagine del libro e con molta fantasia raccontò storie di principi, principesse, mostri e stregoni e, gestico-lando come se fosse stato il più grande cavaliere errante con in pugno la sua spada dall’elsa d’oro, narrò vicende assurde e contorte. Quando ebbe finito, soddisfatto di se stesso, chiuse il libro e proferì: «Ho capito hai tanto sonno, buona notte» e sporgen-dosi verso la principessa le diede un sonoro bacio sulla guancia. Come se le catene fossero state spezzate e la chiave della porta chiusa ritrovata, la principessa, per incanto, aprì gli occhi e si rese conto di essere nel mondo reale. Il bambino si mise a esultare di gioia e quando la balia si re-se conto che tanta euforia era il presagio della sua sventura, afferrò il figlio con prepotenza e come una furia corse fuori dalla stanza e chiuse a chiave la porta dall’esterno. La principessa all’inizio rimase un po’ stralunata, ma, resasi conto dei propositi della balia, raccolse tutte le forze e si mi-se a urlare. Quel frastuono fece accorrere molte guardie e al-la fine, attirato da tanto baccano, arrivò il re, sconvolto. «Che cosa sta accadendo? Chi urla?» chiese il re. «La principessa» disse il bambino sovrastando le bugie della madre.

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Fu subito aperta la porta della stanza di Ilaria e quando il re vide la sua bambina sveglia, l’abbracciò così forte e la strin-se al cuore con tanto amore che le guardie ebbero un sussul-to di commozione. Il re promise alla principessa che non l’avrebbe mai più lasciata da sola e che nessun dolore sareb-be mai più stato più forte del loro amore. La balia fu gettata nelle segrete del castello e con la sua pri-gionia si scoprì il povero vecchio mago ancora in vita, che fu liberato dopo aver promesso che non avrebbe mai più di-stillato una pozione tanto potente. Fu dichiarata festa in tutto il regno, ci furono balli e canti per molti mesi e la principessa Ilaria, anche se all’inizio un po’ disorientata, ben presto riconobbe gli amici ormai cresciuti, ritornò a divertirsi e a sorridere alla vita. Non molti mesi do-po il risveglio, conobbe un principe intelligente e bello che sposò e con cui ebbe molti bambini. La primogenita, da a-dulta, sposò il figlio della balia che, cresciuto dal re, divenne un uomo generoso, coraggioso e dall’animo puro. Ilaria visse così a lungo da essere circondata da tanti nipoti-ni, fu amata con trasporto sia dal popolo sia dai familiari, ma anche se erano passati tanti anni, viveva ricordando il sorriso e l’affetto profondo che sua madre le aveva donato e ogni notte si addormentava sorridendo, sicura che un giorno l’avrebbe riabbracciata in un mondo più perfetto di quello dei sogni.

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I magici pennarelli di Mirta.

Mirta era un’orfanella di dieci anni che da sempre viveva in un orfanotrofio. Era stata abbandonata, appena nata, dinanzi alla porta di una chiesetta in campagna e nessuno seppe mai di chi fosse figlia. Di lei si occupò la direttrice dell’istituto, la signorina Furia, una donna severa e fredda. Questa insegnò a Mirta l’essenziale, ordinandole di non perdere tempo a fantastica-re. Per la bambina rifugiarsi nel mondo della magia era l’unico modo per evadere da un posto opprimente e triste, ma doveva svolgere così tante faccende che non le rimaneva il tempo per sognare. Non si era mai vista una ragazzina tanto seria, ordinata e controllata, che non si sporcasse l’unico vestito che aveva, che non sbrodolasse la cena, che non poggiasse i gomiti sul tavolo, che si pulisse le unghie con tanta frenesia. Dormiva in una stanza grigia, buia e senza finestre con altre cinque bambine. La signorina Furia aveva un solo progetto: crescere Mirta come una vera arpia per far sì che un giorno prendesse il po-sto dell’unica insegnante di quell’istituto, la maestra Maria. Così facendo, sarebbe diventata l’egemone assoluta di quel luogo.

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Mirta andava a letto con il cuore pesante, convinta di avere qualcosa di sbagliato perché nessuno la voleva. Vedeva an-dar via tanti bambini arrivati dopo di lei, inconsapevole del fatto che la direttrice impediva alle coppie di adottarla. Una di quelle sere amare, in cui la piccola si addormentò con il volto umido di lacrime, in piena notte, sul suo como-dino sgangherato si accese una luce. La fiammella era tal-mente forte e concentrata da disturbarne il sonno, per questo la bambina aprì gli occhi, sorprendendosi nel vedere un lu-me acceso; dapprima faticò molto a focalizzare l’oggetto poco distante da lei, ma, resasi conto che non danneggiava gli occhi, poté osservare attentamente il centro del fulgore, accorgendosi che non era un lume o una candela, bensì una creaturina alata che volteggiava nell’aria. Quest’ultima, av-vicinandosi al volto della bimba, le disse: «Non aver paura, sono una fata!» Mirta rimase a bocca aperta, non aveva mai pensato alla probabile esistenza di una fata; la signorina Furia le aveva sempre ricordato di tenere la mente aperta a faccende più concrete. La fatina era bella, con il corpo sottile fasciato da veli lumi-nescenti, aveva le ali variopinte come le farfalle. Non era più alta di una penna e i suoi piedini minuscoli non toccavano terra. «Sei sorpresa di vedermi?» chiese la fata. «Veramente, non credevo che tu esistessi!» «E questa è una cosa grave! Ma lo sai che sei l’unica bambi-na al mondo che non sogna?» fece offesa la fata.

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«Davvero?» chiese incredula Mirta. «Mi dispiace, ma sono sempre tanto stanca!» «Lo so, lo so, per questo sono qui, per farti un regalo!» «Un regalo?» si emozionò Mirta. «Non ho mai ricevuto un regalo! Tranne quando suor Lucia mi ha donato un paio di scarpe, ma erano usate!». La fata sorrise. «Questa volta sarà un regalo nuovo e tutto tuo. Però devi promettermi una cosa, dovrai usarlo solo tu, altrimenti la magia scomparirà per sempre!» «Un regalo magico?» chiese incredula Mirta. «E cosa avresti voluto da una fata?» La piccola donna magi-ca estrasse da chissà dove una bacchetta fatata e, dicendo delle parole incomprensibili, fece apparire sul letto della bambina un astuccio colorato. Mirta euforica si affrettò ad aprirlo e, sorpresa, trovò all’interno sei pennarelli. Fine anteprima.Continua...