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1 CAPITANI DIMPRESA E MAESTRI DEL PENSIERO L’imprenditore e la tradizione degli economisti liberisti italiani da Francesco Ferrara a Sergio Ricossa Piero Bini* 1. Introduzione Da più parti, durante gli anni settanta del Novecento, l’imprenditore puro – quello mitico del self-made man – era dato per spacciato. L’assoluta soggettività della sua figura e delle sue prestazioni pareva dovesse lasciare definitivamente il posto alle razionali performance del management e della tecnocrazia d’impresa. La letteratura economica aveva seguito le varie fasi dell’epopea imprenditoriale, e da una visione fine Ottocento inizi Novecento fondata sull’imprenditore protagonista dello sviluppo, era passata a privilegiare, a partire dai lavori di Taylor, di Veblen e di Berle e Means 1 , il ruolo strategico dell’organizzazione e del controllo delle funzioni interne alla vita di un’impresa. La sintesi di questa complessa evoluzione industriale e dottrinaria nel corso del Novecento è stata offerta dall’ampio lavoro storiografico di Alfred D. Chandler, che conclusivamente sembrava aver stabilito l’assoluta rilevanza dell’innovazione organizzativa resa possibile dalle grandi imprese ad alta intensità di capitale fisico, ritenute più idonee a sfruttare il potenziale di crescita offerto dal progresso tecnologico 2 . Ma l’economia, e talvolta le idee, procedono per cicli. A partire dagli anni ottanta, questa visione della crescita che associa la grande impresa alle virtù del management strategico e quest’ultimo a investimenti in ricerca e sviluppo, è andata di fatto indebolendosi. Ciò è avvenuto, da una parte, a seguito dei deludenti risultati di cui hanno dato prova i complessi apparati delle grandi organizzazioni industriali proprio nella utilizzazione della * Università di Roma Tre – [email protected] . Nel corso delle varie stesure di questo scritto, abbiamo beneficiato dei commenti di vari studiosi che qui desideriamo ringraziare collettivamente. Alcuni di questi commenti sono stati espressi in occasione di due incontri scientifici: il primo svoltosi presso l’Università di Roma Tre il 14-15 settembre 2010 avente per titolo “Firms, Markets and Entrepreneurship: from Marshall to Schumpeter”; il secondo, presso l’Università di Catania il 15-16 ottobre dello stesso anno, nell’ambito della 51 ma Riunione Scientifica Annuale della Società Italiana degli Economisti. Un ringraziamento speciale rivolgiamo a due anonimi referees i quali, con le loro numerose critiche e annotazioni, ci hanno stimolato non poco a riconsiderare alcuni punti fino a quel momento non adeguatamente trattati. Anche se non ci siamo sentiti di aderire totalmente ai loro suggerimenti, senza di essi il livello qualitativo di questo scritto sarebbe stato sicuramente inferiore a quello che oggi è sottoposto all’attenzione dei lettori. La responsabilità di errori e lacune ancora presenti è ovviamente solo nostra. 1 Ci riferiamo al fondamentale lavoro di Taylor (1911) con cui si apre l’epoca del taylorismo, a quello di Veblen (1921) che enfatizza, in contrasto con la tradizionale funzione imprenditoriale, il ruolo positivo dell’élite tecnica degli ingegneri nel processo di razionalizzazione industriale, e all’opera di Berle e Means (1932) che vede nell’avvento del management la fine del primato dell’imprenditore. 2 Per una sintesi di tali studi cfr. le considerazioni svolte dall’autore citato in Chandler, Amatori, Takashi (1999).

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CAPITANI D ’ IMPRESA E MAESTRI DEL PENSIERO

L’imprenditore e la tradizione degli economisti liberisti italiani da Francesco Ferrara a Sergio Ricossa

Piero Bini*

1. Introduzione

Da più parti, durante gli anni settanta del Novecento, l’imprenditore puro – quello mitico del

self-made man – era dato per spacciato. L’assoluta soggettività della sua figura e delle sue

prestazioni pareva dovesse lasciare definitivamente il posto alle razionali performance del

management e della tecnocrazia d’impresa.

La letteratura economica aveva seguito le varie fasi dell’epopea imprenditoriale, e da una

visione fine Ottocento inizi Novecento fondata sull’imprenditore protagonista dello sviluppo, era

passata a privilegiare, a partire dai lavori di Taylor, di Veblen e di Berle e Means1, il ruolo

strategico dell’organizzazione e del controllo delle funzioni interne alla vita di un’impresa.

La sintesi di questa complessa evoluzione industriale e dottrinaria nel corso del Novecento è

stata offerta dall’ampio lavoro storiografico di Alfred D. Chandler, che conclusivamente sembrava

aver stabilito l’assoluta rilevanza dell’innovazione organizzativa resa possibile dalle grandi imprese

ad alta intensità di capitale fisico, ritenute più idonee a sfruttare il potenziale di crescita offerto dal

progresso tecnologico 2.

Ma l’economia, e talvolta le idee, procedono per cicli.

A partire dagli anni ottanta, questa visione della crescita che associa la grande impresa alle

virtù del management strategico e quest’ultimo a investimenti in ricerca e sviluppo, è andata di fatto

indebolendosi. Ciò è avvenuto, da una parte, a seguito dei deludenti risultati di cui hanno dato prova

i complessi apparati delle grandi organizzazioni industriali proprio nella utilizzazione della

* Università di Roma Tre – [email protected] . Nel corso delle varie stesure di questo scritto, abbiamo beneficiato dei commenti di vari studiosi che qui desideriamo ringraziare collettivamente. Alcuni di questi commenti sono stati espressi in occasione di due incontri scientifici: il primo svoltosi presso l’Università di Roma Tre il 14-15 settembre 2010 avente per titolo “Firms, Markets and Entrepreneurship: from Marshall to Schumpeter”; il secondo, presso l’Università di Catania il 15-16 ottobre dello stesso anno, nell’ambito della 51ma Riunione Scientifica Annuale della Società Italiana degli Economisti. Un ringraziamento speciale rivolgiamo a due anonimi referees i quali, con le loro numerose critiche e annotazioni, ci hanno stimolato non poco a riconsiderare alcuni punti fino a quel momento non adeguatamente trattati. Anche se non ci siamo sentiti di aderire totalmente ai loro suggerimenti, senza di essi il livello qualitativo di questo scritto sarebbe stato sicuramente inferiore a quello che oggi è sottoposto all’attenzione dei lettori. La responsabilità di errori e lacune ancora presenti è ovviamente solo nostra. 1 Ci riferiamo al fondamentale lavoro di Taylor (1911) con cui si apre l’epoca del taylorismo, a quello di Veblen (1921) che enfatizza, in contrasto con la tradizionale funzione imprenditoriale, il ruolo positivo dell’élite tecnica degli ingegneri nel processo di razionalizzazione industriale, e all’opera di Berle e Means (1932) che vede nell’avvento del management la fine del primato dell’imprenditore. 2 Per una sintesi di tali studi cfr. le considerazioni svolte dall’autore citato in Chandler, Amatori, Takashi (1999).

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conoscenza; dall’altra, in virtù della prontezza con la quale invece l’imprenditorialità rampante dei

nostri tempi ha saputo trasformare idee nuove in progetti di nuove imprese di successo. Il

personaggio che costruisce la propria fortuna sulla scommessa di una intuizione, che è mosso dalla

volontà di creare e dal desiderio di successo, e che è dotato di qualità di leader, è tornato così sulla

scena.

Tutto ciò ha legittimato la ripresa d’interesse per le sue caratteristiche3, e per una teoria della

crescita più strettamente collegata alle capacità dell’imprenditore puro di utilizzare e diffondere un

avanzamento tecnologico altrimenti destinato a rimanere incagliato nel filtro burocratico della

grande impresa, alla stregua di un patrimonio di conoscenze produttivamente sterile4.

Prendendo ispirazione da queste nuove tendenze e anche al fine di ricercarne una radice

culturale e scientifica di più lungo periodo, abbiamo condotto una ricerca sul tema

dell’imprenditorialità nel pensiero economico italiano di orientamento liberale, dall’età

risorgimentale di metà Ottocento agli ultimi decenni del Novecento.

Com’è noto, il liberalismo è una dottrina politica dai contenuti molto ampi e dalle

multiformi declinazioni (filosofiche, etiche, sociali, politiche, giuridiche, economiche e così via), al

punto da rendere impossibile un’adeguata definizione di questo complesso universo del pensiero5.

Abbiamo dunque operato un ulteriore restringimento della nostra ricerca, focalizzandola su quel

filone di pensiero liberale che afferma l’esistenza di una interdipendenza stretta tra politica ed

economia, al punto di non potersi parlare di libertà politica senza poter disporre anche della libertà

economica6. Ci riferiamo, in breve, al filone liberista. Consapevoli che limitarsi ad esso costituisce

un criterio escludente, ci è parso nondimeno opportuno adottarlo, al fine di diminuire l’eterogeneità

delle fonti utilizzate ad un livello accettabile.

Per rappresentare questo percorso di liberismo italiano sul tema dell’imprenditore, abbiamo

selezionato cinque autori di elevata caratura scientifica, i quali, con le loro opere, coprono circa un

secolo e mezzo della vicenda intellettuale che qui interessa. Essi sono Francesco Ferrara (1810-

1900), Vilfredo Pareto (1848-1923), Maffeo Pantaleoni (1857-1924), Luigi Einaudi (1874-1961),

Sergio Ricossa (1927).

3 Ci riferiamo ad esempio ai lavori di Berta (2004), Bjerke (2007), Acs, Audretsch, Strom (2009), oltre al classico lavoro di Mark Casson, The Entrepreneur del 1982, di cui è uscita una seconda edizione nel 2003 e varie ristampe negli anni successivi: cfr. Casson (2008). 4 Il tema della crescita che pone al centro dell’analisi la conoscenza quale fattore della produzione costituisce l’oggetto dell’ampio lavoro di ricostruzione critica di questo concetto da parte di Warsh (2007). 5 Il lettore interessato ad un testo di sintesi può leggere la voce Liberalismo, di cui è autore Nicola Matteucci, pubblicata in Bobbio, Matteucci (1976), pp. 529-546. Una ricostruzione più recente dei molteplici aspetti legati alla dottrina politica liberale è in Cubeddu (1997). 6 Nei termini della nota polemica che su questo tema si svolse tra Benedetto Croce e Luigi Einaudi, la posizione espressa sopra corrisponde al punto di vista sostenuto dal secondo. Ne parleremo più diffusamente, fornendo i necessari riferimenti bibliografici, nel paragrafo 5 dedicato all’economista torinese.

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In verità, oltre che per evidenti differenziazioni di contesto storico, essi non possono dirsi

del tutto omogenei neppure riguardo al loro proprio liberal-liberismo, come le sintetiche

osservazioni svolte qui di seguito intendono segnalare7.

Francesco Ferrara visse pienamente la stagione risorgimentale della storia d’Italia, in

corrispondenza della quale il liberalismo assunse anche espressioni rivoluzionarie conseguendo, in

un certo senso, il suo apogeo. In particolare, la libertà economica assume nei suoi scritti il

significato di una prerogativa individuale che affonda le sue radici nelle stesse leggi di natura, fino a

connotare, oltre a quelle economiche, anche le principali espressioni della vita civile, politica e

istituzionale.

Pareto e Pantaleoni operarono invece a cavallo tra Otto e Novecento quando le prime

manifestazioni della questione sociale cominciarono a mettere in discussione il modello dello Stato

neutrale e la pratica del non intervento. A queste manifestazioni essi si opposero con fermezza,

sebbene con diversificate modalità di pensiero e di azione. In Pareto, fin dall’inizio del Novecento,

venne gradualmente a incrinarsi la fiducia nella capacità del liberalismo di improntare tanto

l’organizzazione dello Stato quanto le regole della convivenza collettiva. Di più, la sua teoria delle

élites lo portò pessimisticamente a ritenere che le implicazioni umanitaristiche del liberalismo

avrebbero potuto favorire l’ascesa al governo di minoranze socialiste. Approssimativamente nello

stesso periodo, anche il pensiero liberale di Pantaleoni iniziò a perdere i suoi connotati di coerenza.

Molto influenzato dalla dottrina spenceriana della selezione sociale, egli giunse a ravvisare nel

nazionalismo e poi nelle prime manifestazioni del fascismo, soluzioni politiche in grado di

salvaguardare, meglio del liberalismo puro, lo spazio economico della iniziativa privata.

Poi Einaudi. La sua attività di economista si sviluppò lungo tutta la prima metà del XX

secolo, riflettendo sia le fasi più acute della crisi dello Stato liberale, che il successivo totalitarismo,

con le sue forme economiche di stampo corporativista. Il suo liberalismo, oltre ad assumere un

significato di resistenza a tali sviluppi e a sostegno invece di un’economia di mercato

concorrenziale, poneva l’ulteriore obiettivo del conseguimento di istituzioni utili a garantire la

coesione sociale della collettività.

Infine Ricossa. Egli è spettatore critico, specie tra gli anni settanta e ottanta del Novecento,

sia delle nuove tendenze della politica economica, come quelle rappresentate dalla programmazione

economica e dall’ampliamento del raggio d’azione delle imprese pubbliche; che della incapacità dei

7 Tra l’altro, queste osservazioni pongono – ma senza che sia possibile qui affrontarlo – il problema del significato politico del liberismo italiano. Questo problema ha ricevuto negli ultimi trent’anni una crescente attenzione da parte degli studiosi di storia contemporanea, a partire dal libro, da considerarsi oramai classico, di Vivarelli (1981). Più di recente, è tornato a parlarne il lavoro di Cardini (2009) da tempo impegnato su questo argomento. Sempre in relazione al problema storico richiamato in questa nota, un posto a sé occupa la storiografia economica – ampia, di alto livello, e civilmente, oltreché politicamente impegnata – di Aurelio Macchioro ispirata alla critica dell’economia politica: cfr. in proposito Macchioro (1970), (1991), (2006), (2007).

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governi di contrastare efficacemente le istanze e il crescente proselitismo dei partiti della sinistra di

ispirazione marxista. In un contesto storico così raffigurato, egli ha finito per accogliere alcuni

elementi del pensiero libertario e anarco-individualista, ritenendo il liberalismo classico troppo

fragile di fronte al socialismo e al comunismo8.

Peraltro, oltre ad operare in contesti storici ed istituzionali loro propri, gli economisti-epoca

a cui ci riferiamo presentano biografie scientifiche inevitabilmente differenziate, riflettendo le varie

tappe degli sviluppi teorici ed analitici conseguiti dagli studi economici nel lungo arco di tempo

considerato.

Ferrara – che è il principale economista italiano di metà Ottocento – mostra ancora forti

legami con la stagione del classicismo economico, di cui adotta alcune tipiche categorie. A cavallo

tra Otto e Novecento, Pareto e Pantaleoni sono invece tra i protagonisti assoluti di un nuovo

indirizzo teorico, il marginalismo, che essi tuttavia declinano in modo diverso. Einaudi, a sua volta,

deve la sua alta reputazione, più che all’approfondimento analitico, ad un metodo di indagine

(quello degli equilibri parziali) che gli consente di valorizzare al massimo la sua capacità di

comunicare argomenti e indicazioni di politica economica. Anche Ricossa rientra nel filone del

marginalismo, ma la sua caratteristica è quella di svilupparlo secondo la versione della “scuola

austriaca”, di cui predilige il metodo e la filosofia sociale. Egli può considerarsi economista-epoca

del liberismo italiano di fine Novecento, non già, com’era stato Einaudi prima di lui, per aver

esercitato una grande influenza sull’opinione pubblica, ma, al contrario, per averne rappresentato le

posizioni in una versione più radicale e in una situazione di quasi totale isolamento9.

In definitiva, per le caratteristiche brevemente richiamate in merito sia ai diversi contesti

storici, istituzionali e scientifici, che alle loro varie accentuazioni di liberal-liberismo, non è a priori

garantito che sia rintracciabile tra gli economisti qui considerati una vicinanza in merito alla figura

dell’imprenditore. Anzi, qualcuno potrebbe osservare la scarsa plausibilità di un simile sbocco.

Come può essere omologato il comportamento dinamico e dai toni marcatamente individualisti

dell’imprenditore pantaleoniano, con quello testimoniato dalla sensibilità umanistica

dell’imprenditore einaudiano? E cosa può avere in comune “il fabbricante De Milly” impegnato a

conoscere i segreti della produzione delle candele di cera, che Ferrara prende a riferimento per le

sue considerazioni ottocentesche sulla imprenditorialità, con la matematica della programmazione

8 Questo sviluppo del suo pensiero impronta, ad esempio, Ricossa (1999). 9 Ciocca si è rivolto a Ricossa come a “uno dei pochi liberali veri nella cultura italiana di oggi”. Cfr. in proposito Ciocca, Bocciarelli (1994), p. xxiv. Di fronte a un giudizio così netto (il corsivo è però nostro), ci siamo chiesti se esso vada esclusivamente inteso come un grande apprezzamento di coerenza rivolto all’economista torinese, ovvero implichi anche una valutazione non del tutto lusinghiera a carico degli intellettuali che in generale si professano di orientamento liberale, fatta appunto eccezione per Ricossa e pochi altri.

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lineare impiegata da Ricossa per conferire maggiore livello di generalità, in senso marginalista e

neoclassico, al teorema dell’allocazione ottima delle risorse?

Ebbene, il nostro intento è stato anche quello di guardare al di là delle specifiche

rappresentazioni ideologiche e degli strumenti d’analisi da essi utilizzati sulla imprenditorialità, per

verificare se possa invece rintracciarsi tra di loro, su questo tema, un collegamento di natura teorica

o di filosofia politica più sostanziale. Riteniamo, anticipando un giudizio conclusivo, che i risultati

raggiunti abbiano soddisfatto in buona misura questo tentativo di ricerca. Verrà cioè individuata una

linea di comuni riflessioni volte ad argomentare un giudizio di superiorità del capitalismo

imprenditoriale rispetto non solo al socialismo o ai sistemi di economia mista, ma anche nei

confronti del capitalismo manageriale.

Procederemo in questo modo. A ciascuno dei cinque economisti considerati dedicheremo un

paragrafo apposito, a partire dal prossimo. Capiterà di frequente di istituire collegamenti interni tra

l’uno e l’altro nel corso di queste specifiche esposizioni. Tuttavia, il compito di offrire una

valutazione d’insieme dei punti in comune, cercando nel contempo di prospettarne una collocazione

unitaria nella storia del pensiero economico dell’imprenditorialità, sarà svolto nel settimo ed ultimo

paragrafo.

2. Francesco Ferrara. L’imprenditore alla scoperta di un nuovo mondo

2.1 Ruolo della conoscenza, imprenditorialità e sviluppo economico. Ai fini di questo

lavoro, partire da Francesco Ferrara (1810-1900)10 non corrisponde tanto a un criterio cronologico,

quanto ad un’esigenza interpretativa. Il tema dell’imprenditore aveva già fatto il suo ingresso nel

pensiero economico italiano già prima o indipendentemente da lui. In proposito, si possono citare

vari autori: Melchiorre Gioia che, seguendo un’impostazione industrialista, aveva posto gli

imprenditori (ma in primo luogo il governo) al centro delle relazioni economiche11; Carlo Bosellini,

che personificava in essi una “autonoma sorgente di privata ricchezza” e un’opera di “invenzione e

direzione”12; Antonio Scialoja, il quale ravvisava nell’imprenditore, piuttosto che nel capitalista, il

vero promotore dello sviluppo13.

Ma è con Ferrara che l’imprenditore diventa una figura centrale del modo di concepire sia il

processo dell’economia che il progresso sociale. Pur non avendo alcuno scritto specificatamente 10 Degli scritti ferrariani è stata effettuata una edizione nazionale di Opere Complete in 14 volumi: Ferrara (1955-2001). Il riferimento ai singoli scritti ferrariani sarà effettuato in forma sintetica, facendo seguire alla formula abbreviata O.C., il titolo dello scritto specifico citato, il numero del volume in cui lo scritto è inserito, e l’indicazione delle pagine. Tra i numerosi lavori che compongono la storiografia ferrariana, ci limitiamo a indicare i seguenti di carattere generale: Asso, Barucci, Ganci (1990), e Faucci (1995). 11 In proposito, la sua opera più rappresentativa è Gioia (1815-1817). 12 Cfr. Bosellini (1816-1817), poi in Bosellini (1976), da dove le citazioni sono tratte: vol. 1°, pp. 121-122. 13 Cfr. A. Scialoja (1849), in particolare p. 96.

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dedicato all’imprenditore, le sue riflessioni in proposito possono ugualmente essere desunte

dall’insieme della sua opera. Essa è pervasa da numerosi richiami alla tradizione utilitarista e

sensista del Settecento e del primo Ottocento, filtrata principalmente attraverso gli scritti di

Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy, J. Baptiste Say, e Frédéric Bastiat14. Del primo sviluppa in

particolare l’idea che la proprietà privata sia l’istituzione grazie alla quale l’istinto naturale

dell’uomo ad “occupare”, piuttosto che dar luogo ad un conflitto di tutti contro tutti, acquisisce una

valenza produttiva15. Del secondo valorizza la rappresentazione dell’economia quale “fisiologia”

dei comportamenti e degli interessi individuali16, da cui la sua inclinazione, tanto metodologica

quanto analitica, a considerare gli studi economici medesimi quali microfondazione di una teoria

generale del progresso17. Dal terzo economista, Bastiat, trae argomenti per sostenere come il

conseguimento dell’armonia tra interessi individuali pur diversi tra loro, sia possibile in un contesto

istituzionale ampiamente improntato alle libertà dei singoli: “La libertà è il principio, l’armonia non

è che un risultato”18.

A seguito di queste influenze, e anche delle accentuazioni drammatiche con cui egli

rappresenta la vicenda umana (dov’è evidente la presenza di Malthus), per Ferrara le principali

motivazioni dei comportamenti dell’uomo si alimentano, da una parte, degli stimoli che i suoi

bisogni (“inesorabilmente ed infinitamente progressivi” 19) gli trasmettono; dall’altra, degli sforzi

fisici, morali e soprattutto conoscitivi che egli compie per sfuggire gli stati penosi della vita. Sul

valore di assoluta preminenza della conoscenza nel processo in cui l’uomo è costantemente

impegnato al fine allentare i vincoli della scarsità, egli non ha dubbi: “L’elemento intellettuale va

sempre più prendendo il di sopra sull’elemento della materia bruta. Non è più dalla forza che

dipende la ricchezza”20.

14 Per un approfondimento di queste derivazioni culturali, rinviamo a Guidi (1990), pp. 215-239. Uno studio che analizza comprensivamente la sua filosofia della storia è Romani (1990), pp. 65-96, poi anche in Romani (1994), pp. 131-160. 15 Nella Prefazione al testo di Destutt De Tracy pubblicato nella prima serie della Biblioteca dell’Economista, Ferrara dice: “occupare non è un titolo; è legge suprema dell’esistenza, indipendente dalle sanzioni delle nostre istituzioni. La proprietà, opera nostra, non serve che ad adempirlo, perché senza proprietà il travaglio dell’occupazione è impossibile, ed è unicamente nel farlo possibile che la proprietà può consistere ed avverarsi”: cfr. O.C., Prefazione a Destutt de Tracy, vol. 2, p. 431. 16 “Nel Trattato di Say – egli scrive – l’uomo comune comincia dal vedere la propria immagine individuale”: O.C., Prefazione a G. B. Say, vol. 2, p. 469. 17 Alcuni aspetti dell’influenza di Say su Ferrara sono stati indagati da Spoto (1990), pp. 205-213. 18 O.C. Prefazione a Federico Bastiat, vol. 3, p. 469. 19 O.C., Lezioni di economia politica, vol. 11, pp. 167-68. Il fenomeno, richiamato in queste poche parole, della insaziabilità dei desideri umani non ha tuttavia implicazioni simili a quelle negative del consumismo e del sottostante problema dell’alienazione. Ferrara ritiene infatti che l’aumento dei consumi pro-capite rifletta anche livelli crescenti di consapevolezza critica e di sensibilizzazione in merito agli stili di vita da parte degli individui, da cui l’emergere di nuovi bisogni o l’affinamento di quelli esistenti. In sintesi, un’espressione di stati progressivi di civiltà piuttosto che critici. 20 Ivi, p. 170.

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Cominciamo col dire che Ferrara individua tre diversi livelli della conoscenza. Il primo è

teorico, il secondo applicativo, il terzo pratico. A ciascuno di essi associa figure specifiche: lo

scienziato puro per il primo livello; lo scienziato applicato o l’ingegnere o, genericamente,

l’individuo con talento applicativo, per il secondo livello. Infine, relativamente al livello della

conoscenza pratica, egli indica tutti coloro che sono dotati non solo di ingegnosità e industriosità,

ma anche della capacità di saper svolgere un “giudizio comparativo tra utilità e costi” nella

conduzione del processo produttivo o di un certo affare21. E’ in questo contesto di attitudini pratiche

che spicca la figura dell’imprenditore, come colui “nella cui mente si concepisce l’intento della

produzione”22, e che ha le competenze necessarie affinché essa possa svolgersi in senso “tecnico”23.

Ferrara impiega vari esempi per illustrare la rilevanza del momento conoscitivo dell’attività

imprenditoriale, a cominciare dalle decisioni di investimento:

[L’economia politica] si limita a dire che la formazione del capitale non dipende da un mero atto di produzione, non dipende dall’assoluto non-consumare, non dipende dal non consumare riferito ai consumi personali dell’uomo; dipende dal consumare nel modo il più produttivo possibile24.

Espressioni di conoscenza sono poi costituite tanto dalle decisioni volte a introdurre

innovazioni nel processo produttivo25, quanto da quelle che concretizzano valutazioni di opportunità

di guadagno derivanti dalla dinamica dei mercati26.

Nell’analizzare il fenomeno economico “sotto il sistema del lavoro associato”, Ferrara

presenta aspetti più specifici dell’attività dell’imprenditore, che è “colui che è capo, forma,

mantiene, e vuol condurre a termine a suo rischio il concetto di prodotto”27. Il compenso per questa

sua funzione è il profitto, che egli tiene distinto dalla rendita, dall’interesse e dal salario perché, a

differenza di queste remunerazioni, non è fissato contrattualmente all’inizio del processo

produttivo, e quindi è di natura aleatoria. Sotto altro aspetto però, egli assimila del tutto il profitto

21 Ivi, p. 113. Per esemplificare questi diverse tipologie di conoscenza, Ferrara si riferisce alla produzione delle candele per illuminazione e riporta il caso di Michel Eugène Chevreul (1786-1889), autore nel 1823 di uno studio sulle “Recherches chimiques sur les corps gras d’origine animale”, e così ne riassume l’esperienza: “In Teoria ci diede l’opera la più perfetta su questa materia. In fatto di Applicazione vide come potevano servire alla illuminazione. In Pratica giunse fino a chiedere ed ottenere un brevetto d’invenzione per la fabbricazione delle candele steariche. Ebbene, tutto fallì: egli non aveva attitudine pratica. Venne dopo di lui un semplice ma abile meccanico, avvezzo a combinar ordigni in un batter d’occhio, e vi riuscì. Era il fabbricante De Milly, che è tuttora alla testa di questa industria”: ivi, p. 100. 22 O.C., La teoria delle mercedi, vol. 4, p. 297. 23 “Nella produzione di qualunque prodotto, come lana, seta, cotone, è necessaria la cognizione…Se questa cognizione viene a mancare sia relativamente al prodotto, sia relativamente alle operazioni che danno a lui vita, il prodotto è impossibile”: O.C., Lezioni di economia politica, vol. 11, p. 99. 24 Ivi, p. 158. 25 “…Si inventò il telajo ed il molino, e l’aumentata produttività del capitale supplì a quell’aumento di cui l’uomo non era suscettibile…”: ivi, p. 165. 26 Ad esempio: “far passare una data capacità produttiva da un’industria, in cui sarebbe soverchia, ad un’altra industria in cui aumenti la produttività, dalla quale si potrà a sua volta ritornare alla prima armato di mezzi atti a vincere l’ostacolo trovato per via”: ivi.

27 Ivi, p. 292.

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dell’imprenditore agli altri tipi di reddito perché determinato dallo stesso principio unificatore, il

“costo di riproduzione”28. Nel suo schema teorico, infatti, è questa la variabile che orienta la

valutazione degli individui negli atti di scambio in generale e nell’impiego dei vari fattori produttivi

in particolare, e che fa sì che i loro rispettivi compensi tendano ad essere “proporzionati al concorso

da essi prestato alla produzione”29, in una sorta di anticipazione della teoria neoclassica della

distribuzione.

L’elemento rischio è considerato da Ferrara come un elemento costitutivo

dell’imprenditorialità. Tuttavia, esso non entra da solo nella valutazione delle sue attività (per

quanto frammentariamente indicate, egli vi include anche la direzione d’impresa, l’attitudine ad

innovare, la capacità di cogliere le opportunità di guadagno); e peraltro vi entra soltanto in via

indiretta attraverso l’ulteriore selezione che la valutazione specifica del rischio impone a quanti

intendano presentarsi sul mercato in qualità di imprenditori, riducendone di fatto il numero, e

contribuendo per questa via ad elevare il “costo di riproduzione” della imprenditorialità. In breve,

riteniamo che Ferrara pensasse l’offerta di imprenditorialità come funzione di un complesso di

variabili (coincidenti con le attività pratiche sopra tipizzate), ciascuna riconducibile ad un impegno

conoscitivo di maggiore o minore complessità.

Questo approccio basato sulla conoscenza quale matrice della funzione imprenditoriale, è

formulato peraltro avendo quale referente polemico David Ricardo, in particolare la sua teoria

conflittuale della crescita. Al modello dell’economista inglese basato sulla “capitalizzazione sulla

materia”, non a caso oppone una rappresentazione che esalta la “capitalizzazione sull’uomo”. In

sintesi:

Nell’uomo la capitalizzazione può essere infinita … Di più la capitalizzazione in un senso non impedisce, come quando avviene con un capitale materiale, la capitalizzazione collo stesso capitale negli altri. Un’idea appena acquistata, non come l’aratro o la semente che mentre servono a un fondo non possono servire ad un altro, sarà acquistata per tutte le intelligenze viventi, per tutte le generazioni future30.

Ferrara si riferisce cioè al carattere non rivale della conoscenza. Del resto, appare in linea

con questa interpretazione la sua posizione contraria al riconoscimento legale dei brevetti industriali

e della proprietà intellettuale in generale. Evidentemente egli era del parere che gli effetti positivi

derivanti dalle nuove idee prodotte sotto l’incentivo costituito dal vantaggio monopolistico che tale

28 Nel contesto della teoria ferrariana della distribuzione, il “costo di riproduzione” dell’imprenditorialità va inteso come il costo opportunità che il capo dell’impresa sostiene per il fatto di precludersi la possibilità di impiegare le proprie capacità in altri tipi di impiego. Per maggiori approfondimenti al riguardo, rinviamo a Perri (1990). Peraltro è ravvisabile una certa analogia tra questa posizione ferrariana e quella che emerge dal recente, ampio lavoro di Casson (2008) dove appunto ritorna il concetto di costo opportunità dell’imprenditorialità quale motivo fondante del profitto anche in una logica di lungo periodo. 29 O.C., Lezioni di economia politica, vol. 11, p. 311. 30 Ivi, p. 326.

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riconoscimento giuridico determina, sarebbero stati inferiori ai benefici derivanti dalla massima

diffusione (in quanto a costo zero) delle conoscenze prodotte pur senza quell’incentivo.

Come risultato di questa logica della capitalizzazione basata sulle nuove idee, egli prospetta

tanto il crescente contributo dato alla produzione da parte dell’uomo rispetto ad altri input, in primo

luogo la terra, quanto una visione della crescita dove, accanto al principio di scarsità, si affianca un

principio di abbondanza31.

La conclusione – sintetizza Ferrara – è dunque diametralmente opposta a quella di Ricardo. Non è la rendita che è destinata a crescere a scapito della mercede; essa [la rendita, ndr] non è mai che la rata minore di un prodotto maggiore; è la mercede dell’uomo, di codesto essere intelligente che ha in sé un istinto che lo spinge sempre nella via dell’infinito, che è destinata ad essere una rata sempre maggiore di un prodotto maggiore32.

Ove si tenga presente che nel contesto da cui questa citazione è tratta, Ferrara impiega il

termine “mercede” per indicare tanto il salario del lavoratore quanto il profitto dell’imprenditore33,

da questa impostazione risulta il ruolo preminente attribuito, per le ragioni sopradette, a

quest’ultimo, quale soggetto sociale chiave nella implementazione, utilizzazione e diffusione della

conoscenza, e perciò della crescita34.

2.2 Le istituzioni e il destino del capitalismo. Tra i temi collegati a quello della

imprenditorialità, è interessante accennare anche alla sua posizione sul credito. Con acume teorico,

Ferrara ne spiega la funzionalità in termini di accelerazione del processo capitalistico. Il credito “ha

questo vantaggio, di aprire al valore una via per la quale ciò che era inutile in una mano, diventa

proficuo in un’altra”35. E ancora:

Se si parte (…) dall’idea che il capitale non è sinonimo di ricchezza, ma vuol dire specialmente ricchezza dedicata all’opera di produzione, si dovrà forzosamente inferire che il convertire una ricchezza inerte in una ricchezza operante, è appunto un dare esistenza ad un capitale, che esisteva bensì, ma come ricchezza, non come capitale36.

31 E’ nostro parere che, dopo che la teoria endogena della crescita ha preso campo a partire soprattutto dal fondamentale lavoro di Paul Romer (1990), i riferimenti ferrariani al ruolo della conoscenza in economia abbiano acquisito un significato più netto e una maggiore pregnanza interpretativa. 32 O.C., Lezioni di economia politica, vol. 11, p. 327. 33 Questa semplificazione terminologica si spiega alla luce della distinzione che Ferrara compie tra i redditi derivanti dal “lavoro attuale” e dal “lavoro passato”. Tanto le prestazioni dei lavoratori quanto quelle dell’imprenditore sono fatte rientrare nella prima categoria: La “mercede corrisponde al concorso personale del lavorante che diciamo mercede propriamente detta o salario, ed al concorso personale dell’imprenditore che diciamo profitto”; analogamente, per indicare unitariamente i compensi del “lavoro passato”, Ferrara adotta il termine interesse, e ciò sia per “il concorso reale del proprietario che diciamo rendita”, che per il “concorso reale del capitalista che diciamo interesse propriamente detto”: cfr. ivi, pp. 300-301. I corsivi sono nel testo. 34 Dato quanto sopra, riteniamo discutibile l’interpretazione che attribuisce a Ferrara una prevalente attenzione ai problemi di natura allocativa dell’economia, e un sostanziale disinteresse a quelli della crescita. Si veda come questa interpretazione è argomentata in Faucci (1995), p. 34. 35 O.C., Della moneta e dei suoi surrogati, vol. 5, p. 225. 36 O.C., Prefazione a G. B. Say, vol. 2, p. 547.

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Queste citazioni mostrano la sua consapevolezza dei caratteri moderni dell’economia

capitalistica di mercato, dove la ricchezza non deriva dal censo, dall’eredità e neppure dal risparmio

in quanto tale, ma da atti produttivi compiuti nello spirito d’impresa. In termini speculari, sa

coglierne anche i possibili risvolti degenerativi. Ciò si verifica quando viene persa di vista la finalità

produttiva a seguito della quale soltanto il diritto di proprietà e le diseguaglianze economiche

acquistano la loro legittimazione sostanziale. In questa logica, egli critica il

cieco ottimismo di que’ conservatori furibondi i quali, confondendo il principio della proprietà colle sue false applicazioni, si struggono di zelo e non rifuggono da alcuna arte per difendere i privilegi, i monopoli, le rapine, le confische, le oppressioni in tutte le loro forme37.

Egli non pensa che per contrastare queste forme negative delle relazioni economiche sia

necessario reprimere o regolamentare dall’alto il conflitto tra i diversi interessi in campo, ma al

contrario sia opportuno che si dispieghino in un contesto di massima libertà, al fine di impedire che

“nessuna tra le forze umane si adoperi a confiscare alcuna forza di altri esseri umani”38. Egli

impiega parole acide nel commentare la posizione di capitalismo compromissorio che ravvisava

nell’industriale tessile Alessandro Rossi che

Ama o tollera in pace le ingerenze governative, ma è pronto a combatterle se osano di giungere sino a regolare la disciplina interna degli opifici. Aborre il libero-cambio, ma solo quando gli pare che non riesca favorevole al corso delle sue industrie39.

Come vedremo, questa posizione ferrariana ritornerà nelle riflessioni degli economisti

italiani considerati in questo scritto.

Infine, una regolamentazione pubblica delle imprese, per non parlare della sostituzione di

imprese pubbliche a quelle private, sono da lui considerate proposte controproducenti nella

prospettiva dello sviluppo. Di conseguenza – in veste di Ministro delle finanze nel gabinetto

costituito da Urbano Rattazzi nell’aprile 1867 – cercò di assecondare la tendenza verso

l’introduzione di criteri gestionali di tipo privatistico nell’amministrazione pubblica e finanziaria

del nuovo stato unitario: “E consiste in ciò che chiamasi regìa cointeressata, nell’associare cioè

all’azione del pubblico amministratore il concorso dello speculatore privato“40.

Una volta garantiti questi lineamenti istituzionali, l’imprenditore ferrariano si pone come un

demiurgo al centro di quella serie di coppie di tipo naturalistico che egli collocava alla radice della

37 O.C., Libertà e proprietà, (20 agosto 1851), vol. 8, p. 475. 38 O.C., Prefazione a Destutt de Tracy, vol. 2, p. 439. 39 O.C., L’americanismo economico in Italia, vol. 10, p. 595. 40 O.C., Esposizione finanziaria del Ministro per le finanze (9 maggio 1867), vol. 9, p. 21. Va però anche aggiunto che questa posizione di principio non gli impedì di criticare il progetto di Convenzione per la Regia cointeressata dei tabacchi presentata nel luglio 1868 dal ministro delle finanze Luigi Guglielmo De Cambray-Digny. Infatti, secondo Ferrara, alcune clausole della Convenzione in oggetto favorivano ingiustamente la società privata appaltatrice (era la Società Generale di Credito Mobiliare di Domenico Balduino) con relativo danno dell’erario pubblico. Cfr. al riguardo O.C., La regia cointeressata nella privativa dei tabacchi, vol. 8, pp. 137-152. Per una interpretazione fondata su questo esempio di “capitalismo parassitario”, rinviamo il lettore a Faucci (1976), in particolare, p. L.

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vicenda umana: il dolore come contraltare della ricerca del piacere; la penosità del “travaglio” quale

premessa necessaria per l’acquisizione della proprietà; il conflitto degli interessi quale

manifestazione di una dialettica che, nel percorso storico di uno sviluppo fondato sulla libertà,

sfocia nella loro ricomposizione armonica.

Che si tratti di una costruzione che sta in piedi anche in virtù del collante ideologico, non

crediamo possa essere messo in dubbio. Al riguardo, è sufficiente richiamare i principali ingredienti

che stanno alla base della sua concezione di progresso, e il modo in cui li ha problematizzati: 1)

un’idea di libertà quale “pass-partout universale” per interpretare il passato, il presente e il futuro

della dinamica sociale41; 2) un approccio di individualismo filosofico come schema di riferimento

obbligato delle relazioni economiche, pena la perdita della loro positiva connotazione sistemica; 3)

la proprietà privata quale esito necessario di pulsioni naturali dell’uomo. Sono tutti elementi,

dicevamo, da lui problematizzati in modo tale da comportare sempre e comunque una critica senza

appello a qualsivoglia ipotesi di riforma sociale o di intervento pubblico in economia. E’ a questa

unidirezionalità del pensiero – forse più che ai singoli elementi della sua concezione di progresso –

che la critica di “liberismo intransigente” a lui indirizzata da Federico Caffè può essere, a nostro

parere, più precisamente circoscritta42.

Emendabile dunque sotto certi aspetti, crediamo nondimeno che la scrittura ferrariana

continui a meritare attenzione e apprezzamento sotto molteplici altri. Ci riferiamo, ad esempio, al

contributo da lui fornito nell’accelerare il passaggio dalla teoria classica a quella marginalista; a

quello volto al superamento di una concezione pre-capitalistica e stazionaria dell’economia, per

mettere al suo posto una proposta dinamica di capitalismo di mercato; al suo impegno, di evidente

impronta risorgimentale, nel promuovere il processo di modernizzazione della società italiana,

facendo risaltare il ruolo che in tale processo la borghesia produttiva avrebbe dovuto svolgere a

sostegno di questa sua idea di progresso senza confini.

Ciò che abbiamo cercato di evidenziare in questo paragrafo è che egli, in primo luogo,

associava questa idea ad una figura, l’imprenditore, che neppure può concepire uno stato di

completa soddisfazione dei propri bisogni, e che è portato di conseguenza a riproporre all’infinito,

sulla base di un patrimonio crescente di conoscenze, la sfida dialettica fra il trauma del

cambiamento e il fascino della scoperta.

41 Siamo debitori della espressione citata a Barucci, Asso (1990), p. 19. 42 Ci riferiamo in particolare a Caffè (1986).

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3. Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde: l’imprenditore di Pareto

3.1 L’imprenditore nell’equilibrio economico generale. La ricchezza della costruzione meta-

teorica di Ferrara in merito alla figura dell’imprenditore sembra eclissarsi del tutto negli scritti di

economia pura di Vilfredo Pareto (1848-1923). A dividere i due autori è intervenuta la svolta

marginalista degli anni settanta dell’Ottocento, declinata nei termini della teoria dell’equilibrio

economico generale.

Nel Corso di economia politica43, l’imprenditore è raffigurato come un agente che opera in

un processo circolare di beni e servizi. Da una parte, acquista i servizi produttivi offerti dai

proprietari dei vari tipi di capitale (personali, fondiari, mobiliari); dall’altra, offre al pubblico dei

consumatori i beni di utilità diretta prodotti grazie alla utilizzazione di questi servizi. Sui mercati di

“libera concorrenza” è la sua attività che conduce a un “equilibrio della produzione” in

corrispondenza del quale egli (“l’imprenditore ideale”, precisa Pareto) “non realizza né guadagno,

né perdita”44. E’ uno stato-limite in cui “il prezzo e il costo di produzione tendono a divenire

uguali”45, ovvero ogni residuo si annulla: il compenso dell’imprenditore si riduce al “suo salario

come direttore di impresa”, né più né meno di una tra le varie componenti delle “spese di

produzione”46. Alla medesima conclusione teorica giunge nel Manuale di economia politica,

sebbene in modo formalmente diverso47.

E’ noto come proprio questa concezione purista dell’imprenditore abbia non poco

caratterizzato il trend delle ricerche successive in economia, al punto da improntare ancora oggi

buona parte della manualistica di base, dove le manifestazioni della imprenditorialità che non

rientrano in quelle volte a realizzare la combinazione ottima degli input in un contesto di perfetta

informazione, vengono spesso ignorate o minimizzate.

Mark Blaug ha individuato in questa situazione una relazione di causa-effetto: il rachitismo

teorico che ha afflitto la figura dell’imprenditore nel corso degli studi di economia del Novecento,

sarebbe appunto la diretta conseguenza dalla “growing popularity of general equilibrium theory”.

Peraltro:

Despite valiant attempts to dynamise microeconomics, large parts of modern economics remain trapped in a static framework. Worse than that is the fact that modern economics lacks any true theory of the competitive process48.

43 Cfr. Pareto (1961). 44 Pareto (1961), § 87, p. 49. 45 Ibidem. 46 Ibidem. 47 Cfr. Pareto (2006). In proposito, ecco un passaggio testuale (cap. V, § 65, p. 229): “quando c’è concorrenza tra le imprese, queste debbono stare sulla linea delle trasformazioni complete; non hanno cioè né utile né perdita”. 48 Blaug (1986), p. 223. Il corsivo è nel testo. A sua volta, le considerazioni di Blaug riprendono il punto di vista già precedentemente espresso da Baumol (1968), p. 66 da cui è tratto questo passaggio: “ The [neoclassical] theoretical firm is entrepreneurless – the Prince of Denmark has been expunged from the discussion of Hamlet”. Peraltro, questo scritto

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Non ci sono dubbi sul fatto che l’opera di Pareto, insieme a quella di L. Walras, costituisca

la radice degli sviluppi analitici su cui Blaug pone la sua attenzione critica. Al tempo stesso però,

sarebbe una forte distorsione interpretativa attribuire all’economista italiano l’idea che

l’imprenditore sia una sorta di funzionario-robot della produzione, come appunto implica lo schema

dell’equilibrio statico. In numerosi passaggi, specie del Corso, egli sottolinea la complessità del

comportamento degli uomini di affari, condizionati da vera incertezza, attività collusive, e da

aspettative indotte dallo stesso processo dinamico di mercato49: la possibilità che gli imprenditori

incorrano in errori è cioè elevata, specie quando prendono decisioni riguardo a investimenti in

capitale fisso50.

In breve, in parallelo ad una rappresentazione di imprenditore coerente con la funzione

equilibrante ad essa attribuita nell’economia pura, in Pareto se ne può rintracciare un’altra ben

diversa, che è quella, dinamica e squilibrante, che emerge dai suoi scritti di economia applicata e di

sociologia. Fino a che punto egli sia riuscito a conciliare l’imprenditore virtuale dell’equilibrio con

quello in carne ed ossa delle “seconde approssimazioni”, è l’argomento a cui ci dedicheremo nel

prosieguo di questo paragrafo.

3.2 Pareto e l’economia “positiva”. Al riguardo, una prima considerazione attiene al modo

in cui egli intende il meccanismo di aggiustamento all’equilibrio e il ruolo che in esso svolge la

funzione imprenditoriale. Di fatto, precisa nel Corso, l’equilibrio non è mai raggiunto

giacché a misura che si cerca di avvicinarvisi, si modifica continuamente perché si modificano le condizioni tecniche ed economiche della produzione. Lo stato reale è dunque quello delle oscillazioni continue attorno ad un punto centrale d’equilibrio che si sposta esso stesso51.

E’ in citazioni come questa, che il lettore comincia ad avvertire in Pareto una tensione tra

logica e realtà del processo competitivo. Da una parte, il variare delle “condizioni tecniche ed

economiche della produzione” implica che le decisioni imprenditoriali riguardo alla scelta delle

funzioni di produzione sono assunte in stato di incertezza. Dato poi che (anche per Pareto) gli

imprenditori presentano capacità differenziate, non vi è motivo di aspettarsi da parte loro un

adeguamento corretto, tempestivo e uniforme di fronte, ad esempio, ad un mutamento dei prezzi, a

qualche nuova applicazione della tecnica, o a una riforma istituzionale. Le migliori capacità di

adattamento di alcuni frutteranno loro elevati profitti; il ritardo o gli errori di altri causerà loro

minori guadagni o perfino delle perdite. Per rappresentare il processo della “libera concorrenza”

di Baumol è da segnalare anche per gli ulteriori punti di contatto che presenta con la linea della imprenditorialità che emerge dal lavoro degli economisti italiani qui considerati. 49 Si è soffermato recentemente su questo tema A. Zanni in alcune sue “Note di commento” poste nella parte conclusiva di Pareto (2006), in particolare pp. 616-618, 620, 634. 50 Cfr. Pareto (1961), § 42, p. 27. 51 Pareto (1961), § 101, p. 58.

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egli utilizzò peraltro una metafora che tende ad accentuare il carattere strategico dei comportamenti

imprenditoriali:

Gli imprenditori che subiscono delle perdite possono essere rappresentati da persone che diano l’assalto ad una collina occupata dagli imprenditori che conseguono dei guadagni. Costoro tentano di respingere gli assalitori: a tal fine sono costretti d’ingegnarsi costantemente di trovar modo di migliorare la loro produzione. Se venisse meno lo stimolo, che vien dall’assalto sferrato contro la loro posizione, si dovrebbe trovare il modo di sostituirlo con un qualche altro per evitare di veder decadere l’industria. Gli imprenditori che subiscono perdite lottano per la vita; spiegano cioè tutta l’energia di cui sono capaci … Si deve aggiungere che tali spese rappresentano pure, in parte, spese per tentativi fatti al fine di migliorare la produzione e compiere delle esperienze52.

L’imprenditore di questa metafora degli scalatori non è un passivo agente che risponde

secondo schemi precostituiti agli stimoli del mercato, ma un individuo che giusto nella rottura della

routine vede la possibilità di migliorare la propria posizione competitiva. Sotto altro profilo, però,

questa rappresentazione dinamica e di “seconda approssimazione” dell’attività imprenditoriale non

lo induce a mettere in discussione il valore euristico della sua analisi statica dell’equilibrio

concorrenziale, anche se, come avremo modo di dire in seguito, il ruolo esplicativo che egli era

disposto a riconoscere a questa analisi pura sarebbe diminuito significativamente nel corso dei suoi

studi successivi.

Come considerazione di ordine generale, si ha che la tensione tra logica e realtà del processo

competitivo che i suoi scritti economici testimoniano, finisce per indebolire il suo stesso modello di

riferimento, dove, da una parte, si accoglie una figura di imprenditore che nella realtà produce il

mutamento “delle condizioni tecniche ed economiche della produzione”; mentre, dall’altra, in

economia pura cioè, è stilizzata come un agente di cui in primo luogo si enfatizza la capacità di

adeguarsi ad esse53.

Considerazioni di altra natura, ma pur sempre utili a far emergere questa dualità paretiana,

sono quelle che derivano dalla elaborazione statistica che egli compie su un data-base di bilanci di

società anonime belghe (dal 1873 al 1892) al fine di calcolare la media aritmetica dei profitti e delle 52 Pareto (1961), Libro secondo, § 718, p. 94. L’argomento di cui si discute ha ricevuto uno specifico sviluppo in una lettera di Pareto a Pantaleoni del 31 marzo 1896 dove il mittente disegna il grafico qui sotto riprodotto, che invece manca nel Corso, e la cui didascalia comincia così: “Gli imprenditori bisogna figurarseli così. Stanno su un colle. La media AB non dà utile, sopra AB stanno quelli che guadagnano, sotto quelli che perdono. In X ci sta un fortunato mortale che ha il massimo guadagno. Quelli che stanno sotto procurano di arrampicarsi. In ciò consiste la situazione della libera concorrenza…”: Pareto (1960), volume primo, pp. 426-427.

53 Mette in risalto questa doppia valenza della impostazione paretiana Zanni (1991), che vi si riferisce in termini di “Pareto’s methodological tragedy”.

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perdite conseguiti da queste società, al netto degli interessi spettanti al capitale: la media così

calcolata si avvicinava allo zero54.

Senza entrare nel merito dei criteri tecnici utilizzati da Pareto per elaborare questa stima, ciò

che rileva è il fatto che questo metodo gli consente di conciliare ancora una volta l’ideale

dell’imprenditore che non fa né profitti né perdite (ora identificato però in un imprenditore

“medio”) con una realtà che testimoniava, insieme ai fallimenti di imprese, storie imprenditoriali di

successo e serie storiche di profitti positivi55.

La compresenza di due “tipi” imprenditoriali diversi – quello dell’imprenditore “ideale”,

analitico e statico; e quello dell’imprenditore “medio”, statistico e dinamico – che però convergono

negli stessi risultati, per quanto metodologicamente sospetta, fa capire una volta di più quale

importanza avesse per Pareto cercare di integrare la stilizzazione delle posizioni virtuali con

l’istanza storica dell’imprenditorialità56.

3.3 L’imprenditore della sociologia di Pareto. Ad ogni buon conto, è stato poi lo stesso

Pareto, nella fase più avanzata della sua vita scientifica, a cercare di superare le strettoie

metodologiche e interpretative della teoria economica grazie alla più ampia prospettiva offerta dalla

sociologia. Il senso di questa svolta è percepibile ad esempio in quanto egli scrive all’amico

Pantaleoni il 13 ottobre 1907:

Ciò che ora è maggiormente urgente per comprendere i fenomeni sociali è la sociologia. La parte economica dei fenomeni è in gran parte dominata dalla parte non-economica. Quindi le deduzioni economiche sono assai lontane dalla realtà57.

Ovviamente, non è possibile dare qui una soddisfacente presentazione della sociologia di

Pareto. Ci limitiamo ad osservare che la figura dell’imprenditore è fatta rientrare in una categoria

più ampia, quella degli Speculatori (S). Al contrario dei Redditieri (R), negli Speculatori prevale

una mentalità “progressista” e “internazionale”. Essi mostrano una spiccata propensione per ciò che

Pareto chiama l’istinto delle combinazioni, ovvero una tipologia di azione attraverso cui vengono

stabilite relazioni funzionali tra cose simili o diverse, ma tutte accomunate dal fatto di essere indice

54 Cfr. Pareto (2006), cap. V, § 69. 55 Segnaliamo la vicinanza di questo approccio di Pareto con la rappresentazione statistica dei profitti medi imprenditoriali fornita da Marshall nei Principi, sebbene essa sia da inquadrare sotto finalità generali d’analisi in parte diverse da quelle paretiane. Per l’economista britannico è più evidente lo scopo di esaminare l’imprenditorialità in un’ottica d’insieme, quasi prefigurandone una lettura macroeconomica; in Pareto invece la statistica dei profitti corrisponde, come si è detto, all’esigenza di fornire una base “positiva” all’analisi teorica dell’equilibrio economico generale. Cfr. al riguardo, Marshall (1972), Libro sesto, cap. VIII, in particolare, pp. 813-814. Per un inquadramento del concetto di imprenditorialità in Marshall, rinviamo il lettore a Loasby (1996). 56 Questa aspirazione paretiana ad un proposito unificatore dell’analisi economico-sociale è stata segnalata di recente anche da Faucci (2009). 57 Pareto (1960), volume terzo, p. 66. Interessanti considerazioni su questo passaggio del programma scientifico paretiano sono svolte in Magnani (2003).

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di “scaltrezza e furbizia, attitudine al cambiamento”, doti spesso utilizzate “per conseguire felice

successo o lauti guadagni”. In sintesi

gli imprenditori sono in genere gente avventurosa, in cerca di novità, tanto nel campo economico come in quello sociale, ai quali non dispiacciono punto i movimenti, da cui sperano di poter trovare vantaggio (…) La Speculazione è cagione in specie dei mutamenti e del progresso economico sociale (…) Una società ove prevalgano in modo assoluto gli individui della categoria R rimane cristallizzata; ove gli individui della categoria S, manca stabilità, è in uno stato di equilibrio instabile, che può essere con facilità distrutto da un accidente interno o esterno 58.

Pur da queste poche citazioni, emerge il diverso punto di vista da cui gli imprenditori sono

considerati negli scritti di sociologia rispetto a quelli di economia pura. In questi, la loro operosità

conduce all’equilibrio economico; in quelli, emerge invece la rilevanza degli atti imprenditoriali

attraverso cui avviene la rottura dell’equilibrio economico, fase necessaria al fine di conseguire,

insieme agli extra profitti, posizioni sociali di successo, per entrare a far parte delle “classi elette”.

Un caso emblematico di questa diversa prospettiva è rappresentato dal protezionismo. In

proposito, occorre aver presente che nel Corso Pareto aveva sostenuto la proposizione che “ogni

misura protettiva cagiona una distruzione di ricchezza”, considerandola peraltro come uno dei

“teoremi più certi e importanti a cui adduca la scienza economica”59. Questa perfetta consonanza tra

analisi pura e fenomeno economico concreto venne però abbandonata già nel Manuale, dove si

sostiene la necessità di valutare gli effetti empirici del protezionismo caso per caso60. E’ tuttavia

solo grazie alla sociologia che Pareto ritiene infine possibile conseguire un esauriente

inquadramento scientifico della figura dell’imprenditore. In sintesi, le tariffe protezionistiche, in

determinate condizioni, avvantaggiano le categorie degli Speculatori, tendendo a rafforzarne la

posizione all’interno della classe dirigente. In una società che si supponga afflitta da immobilismo

perché caratterizzata da una classe dirigente che vede la prevalenza della categoria conservatrice dei

Redditieri, un riequilibrio a favore degli Speculatori incentiva il cambiamento e lo sviluppo.

Cosicché il protezionismo – sistema che sotto ipotesi di economia statica non consente il

conseguimento dell’efficienza – può nondimeno determinare ritmi più elevati di crescita grazie al

mutamento dell’originario assetto sociale, vale a dire a seguito dell’aumento di offerta di risorse che

proprio il mutamento sociale è in grado di determinare.

Quanto detto presenta un profilo scientifico indubbiamente interessante e suggestivo. E’ nel

giudizio comune che l’emergere di determinati eventi economici – ad esempio, i fenomeni di crisi

58 Pareto (1988), 4° vol., §§ 2232 e 2235, p. 2122 e p. 2128. Per un inquadramento della sociologia di Pareto, si rinvia il lettore sia alle introduzioni critiche di Giovanni Busino al Trattato (Pareto, 1988) e al Compendio di sociologia generale (Pareto, 1978), che al libro di Samuels (1974). 59 Pareto (1961), § 873, Volume secondo, p. 246. 60 Questa posizione è annunciata già nella Proemio e poi svolta nel cap. IX riguardante “Il fenomeno economico concreto”: cfr. Pareto (2006).

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finanziaria – non possa essere correttamente inteso se non come una simbiosi di variabili di natura

diversa: economica, sociologica, psicologica, politica. Qui però interessa maggiormente rilevare

come il tentativo di Pareto di conseguire una rappresentazione integrata dell’imprenditorialità non

abbia ancora trovato, per quanto è dato sapere, dei continuatori disposti a riprenderlo e

approfondirlo. Secondo quanto sostiene un acuto interprete di Pareto, ciò andrebbe in sostanza

imputato all’elevato grado di difficoltà che un simile tentativo di indagine a molte dimensioni

comporta:

Questa scissione fra un mondo del normale e del certo ed un mondo del nuovo e dell’incerto, che nella testa di Pareto non si collocavano su due facce opposte della luna, ha finito per ritorcerglisi contro: pochi economisti si interessano all’«istinto delle combinazioni» ed alla «neofilia» in Pareto, si è quindi persa la strada che nelle sue intenzioni metteva in immediata comunicazione quei due mondi61.

Fornire una spiegazione più articolata di questo esito negativo non è affatto agevole. Esiste

indubbiamente un limite oltre il quale l’analisi scientifica non può andare nel cercare di tradurre in

termini di categorie unificanti la complessità e la mutevolezza delle relazioni sociali ed economiche.

Peraltro, è in questo limite che si riflette anche il trade-off che di continuo emerge tra rigore logico

e grado di rilevanza delle proposizioni scientifiche dell’economia. Nel caso dell’imprenditore di

Pareto, gli studi successivi hanno dato priorità ad un trade-off sbilanciato a favore dell’approccio

purista, poi consolidatosi in quella rappresentazione neo-classica che, pur così povera di sostanza

storica, ha nondimeno consentito di mettere a frutto il patrimonio di virtù epistemiche di cui essa è

dotata. Nonostante che il fronte della critica a tale concezione si sia nel tempo irrobustito62,

incentivando anche ricerche volte a spiegare empiricamente i differenziali di produttività derivanti

dalla diversificate performance imprenditoriali63, la figura dell’imprenditore che non fa né profitti

né perdite continua ad occupare il centro della scena.

Pareto è considerato, insieme a Walras, uno degli iniziatori di questa linea scientifica, ma

questo consolidato giudizio, come abbiamo cercato di dire, ha comportato anche lo snaturamento,

quanto meno parziale, del suo genuino progetto di ricerca “positivo” e sperimentale. Ciò che in

particolare esso ha significato è la rimozione del fatto che, secondo lui, l’economia pura, scienza

delle azioni logiche ripetitive, non ha molto da dire su una figura il cui modo di operare meglio può

essere compreso nella prospettiva e con gli strumenti d’analisi della dinamica economica e del

mutamento sociale.

61 Zanni (2006), pp. 617-618. 62 Nei tempi più recenti, particolarmente attivi nel sostenere questa critica sono risultati gli studiosi di ispirazione austriaca, primo fra tutti Israel M. Kirzner. Ne hanno trattato, tra gli altri, Colombatto (2001) e Pontarollo (2005). 63 In Italia, dobbiamo principalmente ai lavori di G. Fuà e del c.d. Gruppo di Ancona il perseguimento di questa linea di analisi; cfr., al riguardo, il recente scritto di Conti, Cucculelli (2008).

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4. Maffeo Pantaleoni. L’imprenditore e il processo di mercato

4.1 Natura e funzioni dell’imprenditore. La teoria dell’imprenditorialità di Maffeo

Pantaleoni (1857-1924) è inscritta nel suo approccio filosofico individualistico, e nella sua adesione

alla dottrina dell’evoluzionismo selettivo di Herbert Spencer. L’imprenditore è colui che nella

società contemporanea esprime in maggior misura elementi edonistici di comportamento, elevate

capacità intellettuali e pratiche, e una visione del futuro fatta di esperienze creative, atti vitalistici,

obiettivi ambiziosi64. “L’attività dell’imprenditore – diceva rivolgendosi ai suoi studenti – è quella

che forse meglio di ogni altra vi mostra la diseguaglianza intellettuale e persino morale fra gli

uomini”65: una premessa che espone immediatamente il terreno analitico dell’imprenditorialità alle

incursioni dell’ideologia.

In breve, per Pantaleoni l’imprenditorialità è soprattutto una vocazione, e se il percorso della

selezione sociale non viene ostacolato da istituzioni inadeguate, è principalmente grazie ad essa che

il principio di razionalità e lo spirito del capitalismo riescono a superare le resistenze frapposte alla

loro diffusione da una maggioranza di individui poco incline alla loro disciplina.

Ma prima di continuare su questa linea culturale dell’imprenditore eroe-borghese, e su

quella scientifica di una teoria dinamica del suo ruolo in economia, occorre fare un passo indietro

per accennare al diverso punto di partenza da lui tenuto al riguardo nei suoi Principi di economia

pura del 188966. In sostanza qui l’imprenditorialità – intesa come capacità di svolgere compiti di

direzione, organizzazione e coordinamento d’impresa – è considerata come il quarto fattore della

produzione che si aggiunge ai tradizionali terra, lavoro e capitale. Nell’ottica della minimizzazione

dei costi, egli fa valere anche per questo elemento della produzione il principio di sostituzione tra

fattori, da cui la determinazione dei relativi compensi di equilibrio67. Fin qui, l’impianto è

marginalistico e statico. L’approccio è sostanzialmente marshalliano.

Sennonché, proprio nella parte conclusiva del paragrafo dedicato ai “profitti come rendita”,

Pantaleoni prospetta uno scenario nuovo, vorremmo dire inaspettato, dell’imprenditorialità, perché

apre all’idea che l’extra-profitto dell’imprenditore dotato di capacità superiori non tenda

necessariamente al profitto normale, come invece comporterebbe lo schema teorico da cui era

partito. Il motivo di fondo di questa diversione è che, da una parte, “con la civiltà, la domanda di

64 Per un primo inquadramento della figura dell’imprenditore nell’opera di Maffeo Pantaleoni, rinviamo il lettore a Bini (1995). 65 Pantaleoni (1903-04), p. 556. Si tratta delle sue Lezioni di economia svolte durante l’anno accademico 1903-04. Di questi testi esistono circa una ventina di edizioni, a seconda dell’anno universitario in cui le lezioni si svolsero. Solitamente, esse venivano raccolte in aula da studenti qualificati. In uno scritto appositamente finalizzato a studiarne le caratteristiche (editoriali, stilistiche e di contenuto), è stata accertata la loro sostanziale aderenza al dettato pantaleoniano. Cfr. al riguardo Bini (1994). 66 Cfr. Pantaleoni (1889). 67 Cfr. ivi, in particolare p. 329 e segg.

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servizi di tal genere [cioè imprenditoriali; ndr] diventa maggiore con la maggiore sottigliezza e

complessità dei processi tecnici e la estensione dei mercati”68; dall’altra, “non è ovvio per quale

ragione abbia da crescerne [dei medesimi servizi imprenditoriali; ndr] l’offerta”69:

l’imprenditorialità avrebbe cioè una bassa elasticità di offerta rispetto al reddito, essendo costituita

su doti naturali difficilmente riproducibili. Da ciò il carattere speciale che attribuisce a questo

fattore della produzione, insieme peraltro alla propensione, testimoniata nei suoi scritti successivi,

ad accentuarne gli aspetti dinamici.

Al fine di fornire un’idea più precisa della duttilità di Pantaleoni come studioso e docente di

economia, un’ulteriore precisazione è ancora necessaria. Lo schema basato sulla imprenditorialità

come attività di routine che non consegue né profitti né perdite, non scomparve mai del tutto nei

suoi scritti. Rimase, ad esempio, uno tra i riferimenti della sua didattica di base; oppure veniva da

lui richiamato tutte le volte che lo riteneva congeniale alle finalità esplicative di volta in volta

perseguite, come una forma di eclettismo retorico. Risulta così, ad esempio, nello scritto su

Sindacalismo e la realtà economica del 190970, dove intende sostenere l’infondatezza delle

rivendicazioni del “proletariato organizzato” e del “sindacalismo politico” volte a sostituire tanto

l’imprenditore quanto il capitalista nel “governo” delle imprese. Assumendo l’impresa di perfetta

concorrenza sotto l’ipotesi di rendimenti costanti, egli può sottolineare tanto che l’efficienza

allocativa è conseguita in virtù di un assetto distributivo fondato sulla produttività marginale dei

fattori della produzione, quanto che, in corrispondenza di questo stato, non viene a prodursi alcun

residuo. L’idea di sfruttamento – che secondo lui alimentava erroneamente, forse anche

strumentalmente, le rivendicazioni sindacali – trovava in uno schema teorico siffatto la sua piena

smentita. Dunque, “La verità è che ciascuno e tutti sono imprenditori della loro porzioncella di

compito e nessuno lo è al là di questo”71: “L’imprenditore reale è un essere diffuso”72. Nella

complementarità di funzioni in cui Pantaleoni invita a considerare tanto la singola impresa, quanto

le interrelazioni tra imprese (da cui il concetto di “complesso economico”), la pretesa della “massa

operaia (di) essere l’imprenditore unico” 73 andava giudicata una pura velleità.

Per completezza, occorre al tempo stesso precisare che in una nuova edizione di questo

scritto pubblicata nel 192474, Pantaleoni aggiunge un brano dove sostiene che nella realtà “il caso

(…) più spiccatamente caratteristico della funzioni di imprenditori di qualche valore”75 è costituito

68 Ivi, p. 335. 69 Ibidem. 70 Cfr. Pantaleoni (1932). 71 Ivi, p. 12. 72 Ivi, p. 7. 73 Ivi, p. 13. Il corsivo è nel testo. 74 Gli estremi di questa nuova edizione sono indicati nel riferimento bibliografico Pantaleoni (1932). 75 Ivi, p. 5.

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dalla capacità di produrre innovazioni, andando cioè oltre il mero lavoro di direzione e

organizzazione dell’impresa. Ma a questo altro modo di considerare l’imprenditorialità (e il suo

compenso, ora emergente come residuo) non fa seguire alcun effetto in termini di revisione della

tesi sostenuta nella versione originaria dello scritto citato, di fatto escludendo a priori che una simile

funzione innovativa potesse essere svolta dai lavoratori: all’eclettismo di Pantaleoni contribuivano

talvolta anche considerazioni di politica militante.

Nel riprendere il filo dell’argomento principale, occorre innanzitutto considerare che per lui

l’attività imprenditoriale volta alla combinazione ottimale delle risorse non si esaurisce in

operazioni di routine, perché comporta il dover prendere decisioni dalla valenza sia innovativa che

speculativa, a seguito delle quali l’imprenditore, pur “non togliendo i danari dalle tasche altrui”76,

riesce a conseguire un profitto netto positivo. Entreremo nel vivo di questo argomento nel prosieguo

di questo paragrafo.

4.2 Competizione imprenditoriale e processo di mercato. Un esito particolarmente

interessante della visione teorica di Pantaleoni è che, proprio a seguito tanto delle attività innovative

dell’imprenditore quanto di quelle speculative, questa figura è presentata come il perno centrale sul

quale si costituiscono sia la dinamica del mercato che il processo dello sviluppo. A lui la parola:

Un quadro sommario del processo della libera concorrenza è questo: in un qualche punto del mercato mondiale sorge una iniziativa, e sarà questa una scoperta scientifica, o l’invenzione di un processo tecnico, quella di un metodo di organizzazione sociale. Essa frutta un soprareddito all’iniziativa non rubato ad altri, ma tolto alla natura di cui la resistenza resta vinta (…) Il soprareddito conseguito in quella via suscita concorrenti, cioè imitatori, perfezionatori, divulgatori e il soprareddito, qualunque forma abbia, si estende ad una sfera più ampia di persone (…) Segue una domanda di capitali e di lavoratori per parte di tutti gli imprenditori della nuova idea (…) Intanto si moltiplicano i prodotti dell’industria nella quale ha avuto luogo un nuovo processo, ne ribassano di conseguenza i prezzi (…) Con ciò ottengono sopraredditi anche tutti coloro che in qualche modo diretto o indiretto hanno un rapporto di scambio con l’industria nella quale è avvenuto un perfezionamento e il beneficio da essa prodotto si diffonde nel mondo intiero77.

Questa lunga citazione, presa da un suo intervento effettuato nel 1900, non solo rivela una

straordinaria somiglianza con la successiva elaborazione di Schumpeter: innovazione

imprenditoriale → extraprofitto e inflazione → sciame di imprenditori imitatori → successiva

tendenza deflattiva; ma testimonia anche la sua propensione a cogliere nel meccanismo di mercato

la rilevanza di quegli elementi di nuova conoscenza e di nuovi assetti organizzativi che sono indotti

da questo medesimo meccanismo, e destinati a loro volta ad imprimere ad esso ulteriori

cambiamenti. La sua idea di fondo è che la struttura di mercato concorrenziale, invece che essere un

dato acquisito per l’analisi una volta per tutte, debba essere trattata come una variabile endogena

dello stesso processo economico attivato dalle decisioni competitive degli imprenditori. In 76 Pantaleoni (1908-09), p. 325. 77 Pantaleoni (1963-4b), vol. 1, p. 262-3.

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definitiva, per Pantaleoni mercato concorrenziale e imprenditore sono le due facce della stessa

medaglia, dato che nel primo termine si riflettono e si innervano gli specifici atti del secondo:

La forma più universale e polimorfa di inventività è la concorrenza. Ogni atto concorrenziale è una nuova invenzione (…) E’ la sorgente più energica del dinamismo sociale. E’ il più forte demolitore di ogni specie di posizione acquisita. E’ una minaccia permanente per tutti quanti coloro che sono arrivati, siano cose, siano persone, siano forme organizzate78 .

In altri termini, l’atto concorrenziale è eminentemente un atto imprenditoriale laddove

questo sia finalizzato al conseguimento di un vantaggio competitivo. In questa prospettiva, non

esclude che esso possa dar luogo a coalizioni e sindacati industriali7980, quando cioè, in

corrispondenza di determinate condizioni della tecnica o di un certo grado di sviluppo

dell’economia81, queste forme di associazioni di interessi consentono di conseguire livelli di

maggiore efficienza:

Esaminando queste condizioni si vedrà che la costituzione dei sindacati talvolta non è altro che la manifestazione della ricerca e della attuazione della dimensione più efficace, e tal’altra la formazione di un legame, o cemento [tra imprese diverse; ndr] necessario e dotato di maggiore forza coesiva82.

In sostanza, egli ammette la possibile funzionalità di un certo grado di potere monopolistico

da parte delle imprese, a condizione che sia fatta salva la totale libertà di accesso imprenditoriale in

tutti i settori del mercato. La concorrenza potenziale deve cioè rimanere al più alto livello possibile.

Assicurato questo presupposto – che qualifica l’idea che Pantaleoni aveva dei “sindacati industriali”

rispetto ai classici monopoli che invece criticava – egli considera un “errore legislativo” trattare i

primi in modo sanzionatorio. Una normativa dei mercati tendente a riprodurre il modello atomistico

della concorrenza perfetta non è di conseguenza ben vista dal nostro autore.

Egli peraltro riconosce che nel processo di crescita economica possano prodursi in modo

non sporadico elementi di instabilità dovuti anche a decisioni imprenditoriali errate. In particolare,

segnala quelle che determinano eccessi di capacità produttiva e di immobilizzazioni83. Secondo lui,

tuttavia, la soluzione a questo problema di instabilità non è né l’intervento dello stato, né ancor

78 Pantaleoni (1963-4c), p. 204. Il lettore tenga presente che tra le “invenzioni” Pantaleoni include sostanzialmente ciò che Schumpeter chiamerà innovazioni, ivi comprese quelle attraverso cui uno o più imprenditori tentano di modificare a proprio favore talune caratteristiche del mercato in cui operano. 79 Cfr. Pantaleoni (1963-4b), p. 261. 80 E’ particolarmente rappresentativo di questo orientamento lo studio dal lui effettuato nel 1909 sulla dinamica economica, pubblicato in Pantaleoni (1963-64e). 81 Sotto questa angolazione, un caso degno di nota è quello costituito dalla sua critica alle imprese municipalizzate. Se, da una parte, la loro costituzione può secondo lui legittimarsi su un calcolo di efficienza, dall’altra, la loro natura pubblica le rende meno pronte a variare struttura di governance e criteri gestionali di fronte al variare delle condizioni di mercato e dello stato della tecnica. Un’interpretazione di questo doppio livello dell’analisi pantaleoniana è svolta in Bini (2008), in particolare pp. 60-72. 82 Pantaleoni (1963-4b), p. 261. 83 E’ quanto emerge ad esempio nel quarto capitolo, “Teoria dei salvataggi bancari”, facente parte de La caduta della Società generale di credito mobiliare italiano; cfr. Pantaleoni (1895), dove delinea anche una teoria del ciclo da sovrainvestimenti.

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meno il socialismo. Egli confida invece in un processo di correzioni virtuose tutto interno

all’economia di mercato, che, in sintesi, può essere così riportato84.

Grazie ad una politica di riconoscimento istituzionale delle funzioni positive svolte dagli

imprenditori in una economia di mercato, l’area delle relazioni interpersonali caratterizzate da

rapporti economico-contrattuali si sarebbe ampliata relativamente a quella dei rapporti di natura

politica (o basati sulla forza) e anche a quella dei rapporti affettivi o altruistici. Come sbocco di

questo processo, immaginabile come un percorso di educazione collettiva alla economicità, tanto

l’efficienza dei mercati e delle imprese, quanto la reputazione, la cultura e lo spirito

dell’imprenditorialità ne sarebbero usciti rafforzati. Pantaleoni può delineare così uno scenario

caratterizzato dall’ampliamento dei mercati esistenti o dall’aumento del loro numero, scenario che

potremmo generalizzare alla stregua di un processo di avvicinamento dell’economia reale all’ipotesi

di un sistema ottimale di mercati completi.

Torniamo ora al problema segnalato all’inizio riguardante il manifestarsi di una crisi indotta

da decisioni imprenditoriali responsabili di investimenti in eccesso. Essi sono rappresentabili come

stock di valori non liquidabili sul mercato se non al costo di gravi perdite: è ciò che Pantaleoni

intende per “immobilizzazione”. Proprio a seguito di questa sua caratteristica, il concetto medesimo

di immobilizzazione è strettamente connesso alla dimensione del mercato in cui essa può essere

negoziata, nel senso che è tale dimensione a stabilirne il più o meno elevato grado di liquidità85.

Ebbene, il processo sopra descritto di avvicinamento ad un sistema di mercati completi ha tra i suoi

effetti positivi anche quello della più agevole negoziabilità delle “immobilizzazioni”, diminuendone

nel contempo la rilevanza critica.

In sintesi, egli attribuisce alla imprenditorialità la capacità di autosostenersi nel processo di

progressivo riconoscimento sociale delle sue funzioni, in uno con l’ampliamento dell’area delle

relazioni interpersonali caratterizzate dal riflesso della economicità.

Le considerazioni che una simile visione delle cose suscita, sono ovviamente molteplici. Per

limitarci a quelle che ci sembrano maggiormente adeguate al nostro scopo, va innanzitutto

segnalata, in termini di metodo, la propensione di Pantaleoni ad ampliare il raggio delle proprie

esplorazioni importando l’analisi sociale delle relazioni interpersonali all’interno dell’economia. E’

il segno distintivo del suo progetto di economia sociologica.

Per quanto riguarda il suo disegno basato sulla autosostenibilità di lungo periodo della

imprenditorialità, esso appare molto interessante, a patto però di delimitarlo nella forma scientifica

di un determinato insieme di condizioni ipotetiche, da verificare puntualmente sulla scorta di casi

84 Una più argomentata spiegazione di questo processo di superamento della crisi da sovrainvestimenti è contenuta in Bini (2002). 85 Su questo aspetto del problema rinviamo il lettore alle considerazioni di Marconi (1998).

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concreti. Esso rivela invece la sua natura tautologica se viene assunto quale esito necessario e

generalizzato del funzionamento dei sistemi economici caratterizzati dalla presenza della libera

imprenditorialità. Valga in proposito il diverso grado di conferma che hanno registrato alcune

componenti di questo suo disegno-profezia nell’attuale epoca dell’economia globale: al forte

ampliamento dell’imprenditorialità, che è coerente con la sua simpatetica visione in proposito, non

ha corrisposto la parallela aspettativa di una diminuzione dei rischi sistemici connessi a questo

fenomeno di diffusione del capitalismo imprenditoriale.

Comunque sia di queste verifiche e problematiche, e rientrando nell’alveo del nostro tema,

non vi è dubbio che si coglie qui una diversità non marginale fra Pantaleoni e Schumpeter, l’altro

grande interprete dell’imprenditore.

Per l’economista austriaco il successo imprenditoriale avrebbe condotto – a seguito

dell’emergere della figura del manager e del formarsi di grande imprese burocratizzate avverse al

rischio – all’esaurimento della stessa azione imprenditoriale. La prospettiva di Pantaleoni è invece

diversa86. Se il percorso della selezione sociale non viene ostacolato, la mentalità imprenditoriale –

inizialmente del tutto minoritaria – si sarebbe imposta spontaneamente nel contesto sociale di

riferimento e nella cultura comune, contribuendo a creare un ambiente favorevole alla sua stessa

riproduzione, e, nel contempo, a ridimensionare il ruolo tanto della politica quanto del capitale agli

effetti della crescita economica.

E’ chiaro che questa spiegazione non collima neppure con il corpo ortodosso della teoria

economica: né quella classica (che agli effetti della crescita enfatizzava il ruolo del capitale

piuttosto che quello dell’imprenditore), né quella neo-classica, tutta centrata sull’analisi

dell’equilibrio, piuttosto che del disequilibrio. Né vi si poteva adattare il suo concetto di profitto,

che, invece che essere trattato quale variabile di breve periodo, o perfino come anomalia, risulta

essere l’elemento tramite il quale l’individualismo imprenditoriale innerva permanentemente la

logica e l’essenza del mercato e della crescita.

Come si è accennato nella Introduzione, le trasformazioni economiche degli ultimi due

decenni hanno comportato una riconsiderazione della funzione dell’imprenditore, in termini di

capacità innovativa, di rapido adattamento a circostanze mutevoli, di propensione al rischio e alla

scoperta. Questo paragrafo ha cercato di mettere in luce come Maffeo Pantaleoni possa considerarsi

86 La figura dell’imprenditore in Schumpeter ha dato luogo, come è noto, ad una estesa letteratura, ancora oggi in via di ampliamento. Ai fini di un confronto (peraltro solo implicito) tra Schumpeter e l’interpretazione qui proposta di Pantaleoni, rinviamo il lettore a De Vecchi (1993) e a Zanini (2000), pur nelle differenti accentuazioni di metodo e di contenuto che queste due opere presentano. Tra quanti invece hanno rilevato, a differenza della nostra interpretazione, un’analogia tra Pantaleoni e Schumpeter sulla questione del progressivo esaurimento del ruolo sociale ed economico dell’imprenditore privato, è in particolare da segnalare lo scritto di Finoia (1985). Infine, sul «primo» Schumpeter, autore nel 1908 di Das Wesen und der Haup tinhalt der Theoretischen Nationalökonomie (L’essenza e i principi dell’economia teorica, Bari, Laterza, 1982) e Pantaleoni, si rinvia a Zanni (1983).

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uno dei primi e perspicaci studiosi di questo tipo di imprenditorialità. Non esenti da implicazioni

ideologiche, i suoi contributi in proposito, tuttavia, si presentano ancora con il fascino di un

pensiero che, nel cercare di coniugare un approccio dinamico dell’economia con una determinata

visione dell’uomo, ambiva a sfidare le barriere del tempo.

5. Luigi Einaudi: imprenditorialità e idee meta-economiche della piccola impresa

5.1 L’imprenditore “Principe mercante”. Chiunque abbia una certa familiarità con gli scritti

di Luigi Einaudi (1874-1961)87, avrà pure percepito i due elementi di base del suo pensiero politico-

economico: un’idea di libertà come esigenza morale dettata dalla dignità della persona umana e

dalla sua vocazione ad una “vita libera”; e una concezione di libera concorrenza quale istituzione in

grado di promuovere, oltre ad assetti allocativi efficienti, una più ricca trama di relazioni sociali e

civili.

La concezione di liberalismo che Einaudi fa propria sta giusto nel rivendicare una legame tra

i suddetti due elementi88, e nel ritenere che l’idea di libertà, sebbene elemento prioritario rispetto al

secondo89, non possa conseguirsi pienamente sul piano storico senza l’ausilio di forme

organizzative atte a realizzare un’economia libera90. E’ all’interno di questo complesso rapporto tra

concezione morale e criteri economici che si delinea la figura dell’imprenditore di Einaudi.

Il primo lavoro di rilievo che egli svolge al riguardo è un ampio saggio, Un Principe

Mercante91, dove ricostruisce varie storie imprenditoriali di successo. Si sofferma in particolare su

quella di Enrico Dell’Acqua, un industriale di Busto Arsizio, preso come riferimento della grandi

potenzialità dell’imprenditorialità italiana in merito alle opportunità di penetrazione commerciale

del nostro paese sui mercati dell’America Latina alla fine dell’Ottocento.

Il lettore non vi trova alcun riferimento analitico al tema imprenditore, bensì l’accurata

descrizione, letterariamente coinvolgente, delle varie sfaccettature della personalità dell’uomo

87 Per chi fosse interessato ad approfondirne i vari aspetti, rinvio ad alcune opere di carattere generale: Forte (1982), Faucci (1986), Giordano (2006), Barucci (2008). 88 Tale concezione, com’è noto, costituì motivo di differenziazione con quanto sostenuto in proposito da Benedetto Croce. I termini di questo dibattito svoltosi a più riprese nel corso degli anni Venti, Trenta e Quaranta del Novecento, sono stati poi riportati in Croce, Einaudi (1957), e ripercorsi sinteticamente, tra gli altri, da Faucci (2000), pp. 287-9. 89 “Perché – disse – vive indipendentemente da quella norma che si chiamò liberalismo economico”; cfr. Einaudi (1937). 90 Cfr. come questo collegamento è argomentato da Galasso (2010). 91 Cfr. Einaudi (1900).

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d’affari dei quei tempi: dai suoi fermenti psicologici92, agli aspetti che ne mettono in evidenza le

doti naturali93. In breve, per Einaudi l’imprenditore è “l’uomo nuovo” della civiltà industriale.

L’autore che egli ha maggiormente presente nel ricostruire i lineamenti biopsicologici

dell’imprenditore è Walter Bagehot94. E’ interessante tener presente al riguardo che, proprio in

merito alla figura dell’imprenditore, l’economista e giornalista britannico tende di fatto a superare la

scarsa considerazione riservata ad essa dagli economisti classici inglesi. Riportando

l’imprenditorialità al centro della scena – è stato osservato95 – consegue un duplice esito: da una

parte, accorcia le distanze tra quella medesima tradizione classica inglese (di cui comunque si sente

parte) e il pensiero economico continentale che, proprio a cavallo tra Otto e Novecento, innalza

l’imprenditore a deus-ex-machina dell’economia. Dall’altra, prepara il terreno alla sintesi teorica di

Alfred Marshall il quale si sarebbe orientato di lì a poco verso una concezione di imprenditore pur

sempre cardine della vita economica, ma maggiormente identificato in quell’insieme sistemico di

funzioni e competenze complementari costituenti l’essenza dell’impresa96.

Ebbene, anche Einaudi, ma solo nelle Conclusioni del suo scritto, sembra accettare questa

nuova prospettiva dei futuri assetti del capitalismo:

Il passaggio dall’Individuo alla Società Anonima costituirebbe un indizio e un presagio. Sarebbe l’indizio che l’impresa oramai è poggiata su basi solide e tali da resistere alle vicende avverse (…) e sarebbe il presagio di una vita lunga e gloriosa. (…) Come sempre, l’Individuo scopre e inventa; si apre la strada in mezzo alle liane aggrovigliate della foresta vergine. Quando la via è tracciata la grande Società Anonima capitalistica vi percorre sopra il suo cammino trionfale. (…) Per quanto le pagine di questo scritto siano tutte un inno alla efficacia ed alla forza dell’iniziativa individuale, è doveroso riconoscere che nel mondo economico moderno vincono spesso non gli individui più abili, ma le organizzazioni più potenti e salde97.

Come subito vedremo, però, egli non sarà disposto a portare molto avanti questa linea di

riflessione basata sulle virtù e sulle caratteristiche del capitalismo manageriale. Quella che invece

egli evoca attraverso la metafora del Principe mercante – dove gli elementi morali, caratteriali,

psicologici del capo dell’impresa ne fanno altresì emergere una valenza di ordine umanistico –

continuerà ad essere ben presente anche nei suoi scritti successivi, caratterizzandone maggiormente

il suo genuino significato.

92 L’imprenditore è una persona “malcontenta” e “insofferente” della routine quotidiana anche se remunerativa; è “disdegnoso di seguire le vie già battute e conosciute”, ecc. 93 “Vede e comprende ciò che gli altri non vedono”; “è audace e intraprendente”, “afferra al volo le occasioni di guadagno”, e così via. 94 Di Bagehot Einaudi riporta varie citazioni, senza tuttavia fornire i relativi riferimenti bibliografici. Il testo a cui Einaudi si riferisce è comunque Bagehot W., “Postulates of English Political Economy” pubblicato sulla Fortnightly Review del 1876, poi confluito in Bagehot (1880). 95 Ci riferiamo a quanto argomentato in proposito da Berta (2004), in particolare pp. 31-45. 96 I testi canonici di questa concezione marshalliana sono costituiti da Marshall (1879) e (1972). 97 Einaudi (1900), p. 141, e pp. 163-4. I corsivi sono nel testo.

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5.2 Natura e ruolo dell’imprenditore. Venendo a considerazioni di maggiore contenuto

analitico riguardo alla natura e al ruolo dell’impresa e dell’imprenditore, egli adotta, in prima

approssimazione, l’approccio della teoria neoclassica dell’equilibrio. L’imprenditore è assimilato ad

un lavoratore dalle competenze speciali, il cui compenso è determinato dalla relativa produttività

marginale espressa in valore98. Il suo compito consiste nel dirigere l’impresa e nell’organizzare in

modo ottimale i fattori della produzione. Date le differenziate capacità degli imprenditori, essi

realizzano di fatto compensi altrettanto diversificati: oltre allo stipendio di direzione, i bravi

imprenditori percepiscono anche profitti. Tuttavia, vigendo il meccanismo della concorrenza che in

simili situazioni incentiva l’aumento della produzione e l’entrata di nuovi imprenditori sul mercato,

gli extra-guadagni tendono ad annullarsi. La conclusione teorica di Einaudi è quella che già l’analisi

pura dell’equilibrio di Pareto aveva messo in evidenza, e cioè che: “Se esiste la concorrenza, il

profitto non esiste”99.

Però, in una seconda approssimazione alla realtà, Einaudi introduce nuovi aspetti della

funzione imprenditoriale facendone derivare una “fonte permanente dei profitti”100, e il quasi

completo superamento del modello neo-classico di partenza. Rapidamente, tali aspetti riflettono: a)

la capacità di effettuare innovazioni di prodotto o di processo; b) la prontezza nell’assecondare i

mutevoli gusti dei consumatori; c) l’acume dimostrato nel valorizzare le dotazioni di capitale

umano a disposizione dell’impresa e le relazioni d’affari con la propria clientela, e ciò grazie ad

accorgimenti organizzativi, di marketing e quant’altro; d) l’intelligenza strategica posta nel

realizzare accordi con altri imprenditori, sotto condizione che non degenerino in monopoli pieni o

parziali (cartelli, consorzi, trusts e simili)101.

A seconda delle caratteristiche imprenditoriali enfatizzate, Einaudi (come già è emerso in

Pantaleoni) raffigura l’imprenditore talvolta come tessera nel grande mosaico dell’equilibrio,

tal’altra invece come artefice del disequilibrio. Egli tuttavia non ricerca il significato di questa

pluralità di manifestazioni teoriche, così come, in generale, non sembra molto interessato ad

elaborare un’analisi economica pura dell’imprenditorialità. Non dobbiamo meravigliarci di questo:

la sua personalità di studioso lo indirizza verso forme di conoscenza economica in grado di

incorporare tanto proposizioni logiche, quanto regole, vincoli e giudizi di valore idonei a orientare a

fini applicativi quelle medesime proposizioni logiche. Ebbene, sotto il punto di vista che qui

interessa, questa sensibilità lo porta a privilegiare argomenti dal contenuto prevalentemente

istituzionale o storico-applicativo. Tra questi argomenti abbiamo deciso di soffermarci su quello che

98 Cfr. Einaudi (1931), pp. 156-8. 99 Einaudi (1949), p. 220. 100 Ibidem, p. 225. 101 Cfr. ibidem, p. 221.

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pone un confronto tra piccola e grande impresa, e ciò perché riteniamo che più di altri faccia

risaltare alcuni significativi tratti del suo pensiero102.

5.3 Piccola e grande impresa. L’argomento delle dimensioni di impresa e dei motivi che ne

possono spiegare le dinamiche interne, ha ricevuto un continuo interesse da parte del nostro Autore.

Egli perviene a dei punti fermi al riguardo. Da una parte, attribuisce al progresso tecnico un posto

centrale nella spiegazione della crescita economica. Dall’altra, non ritiene che le sue applicazioni in

termini di funzioni della produzione determinino un processo a senso unico a favore della grande o

della piccola dimensione 103. Egli riconosce, ad esempio, che l’argomento basato sul conseguimento

di economie interne di scala milita a favore della prima; ma talvolta, osserva, le risultanze del

progresso tecnico innalzano soprattutto l’efficienza e le potenzialità delle piccole imprese104.

Questo di Einaudi è in realtà un discorso a più facce. Vi è la critica a quanti si muovevano

nel solco della tesi di Marx sul processo di “centralizzazione” del capitale, con la tendenza alla

sparizione delle piccole imprese assunta quale legge storica105; ma soprattutto vi è l’intuizione di

una più pronta attitudine dei piccoli imprenditori a tradurre in progetti di impresa il flusso di nuove

idee e conoscenze che un mondo caratterizzato dal cambiamento produce incessantemente106.

Sul tema generale del rapporto tra tipo d’impresa e dinamica di mercato, il suo

ragionamento si articola nei seguenti argomenti. All’origine di ciascuna impresa è solitamente

individuabile un progetto industriale. Messa di fronte al mutamento delle condizioni di mercato, e

dunque anche alla caducità del proprio progetto, la piccola impresa non ha alternative se non quella

di rinnovarlo alla luce di queste nuove condizioni. Dovrebbe essere così anche per le grandi

imprese. Ma esse, proprio in virtù delle loro dimensioni, godono di un potere di mercato che alle

piccole imprese è precluso. Possono perciò, in tutto o in parte, eludere la disciplina della

concorrenza e con essa anche il problema dell’aggiornamento del loro progetto industriale. E’

questo un timore che ricorre costantemente nei suoi scritti, da quelli di primo Novecento riguardanti

ad esempio la formazione di “sindacati fra industriali” 107, fino a quelli contenuti nelle sue Prediche

inutili degli anni cinquanta108. Di conseguenza, il grande imprenditore viene quasi sempre delineato

102 Un altro tema a cui ugualmente Einaudi dedicò molta attenzione in senso critico è quello riguardante la natura e i limiti dell’impresa pubblica. Insieme a quello affrontato qui, ne abbiamo parlato in Bini (2010a). 103 Il testo ove egli si dilunga maggiormente ad analizzare questi temi di economia industriale e della produzione è Einaudi (1931) che raccoglie il suo “Corso di insegnamento di economia politica e legislazione industriale” presso la Regia scuola di ingegneria di Torino. 104 Coerentemente a questa sua opinione, Einaudi avrebbe potuto citare l’introduzione dei motori elettrici all’inizio del Novecento. 105 Cfr. Einaudi (1931), in particolare pp. 76-77. Il tema del rapporto tra dimensioni d’impresa, accumulazione e cambiamento tecnico nel pensiero dei maggiori economisti, ivi compreso Marx, è oggetto di studio da parte di Heertje (2005). 106 Nei termini del dibattito attuale sulla rilevanza della conoscenza quale fattore di crescita, il lettore può rintracciare spunti einaudiani come quello sopra segnalato in opere come Acs, Audretsch, Strom (2009) e Bjerke (2007). 107 Cfr. Einaudi (1914). 108 Cfr. Einaudi (1974).

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con tratti controversi: positivi, quando risulta evidente la sua missione innovatrice o quando è

raffigurato come il geniale fondatore dell’impresa; critici, invece, se egli si avvale di pratiche

monopolistiche, discriminazioni di prezzo o accordi collusivi con altre imprese, coll’intenzione di

dissimulare la caducità dell’originario progetto industriale, o la perdita di uno spirito d’iniziativa

andato via via disperdendosi nell’avvicendamento dei managers alla guida dell’impresa o negli alti

e bassi della congiuntura economica. Specie durante le crisi, le esperienze a cui lui attinge

hanno chiarito quanto fossero maggiori le probabilità di sopravvivenza delle medie e delle piccole imprese governate da un uomo o da una famiglia in confronto a quelle delle imprese grandissime o colossali dirette dalla volontà anonima di consigli di amministrazione e di comitati di consorzi109.

E’ interessante notare come egli attribuisca questa diversità di risultati della piccola e media

impresa rispetto alla grande, a un elemento della genuina imprenditorialità di natura psico-

sociologica, ovvero l’essere resistente ai richiami del conformismo, far parte cioè di una minoranza

non imitativa: “l’andar controcorrente è di pochi o di pochissimi”110. Nella grande impresa, invece,

questa attitudine al non conformismo, qualora esista, tende a stemperarsi nel rispetto dei maggiori

vincoli e del modus operandi burocratico che la grande impresa ha dovuto adottare. A tal punto che

“Nella grossa impresa il capo deve sentire la voce dei consigli, comitati, gruppi (…) la maggioranza

è formata da uomini medi, i quali vanno secondo corrente”111. Il suo fiuto lo porta a cogliere anche

un legame specifico tra questa psicologia da “uomo medio” che filtra nei criteri gestionali della

grande impresa, e la forte instabilità e il carattere convenzionale delle aspettative imprenditoriali:

Gli uomini non fanno piani in base ad una ipotetica realtà vera, ma a quella realtà che essi vedono oggi e proiettano domani. Se traversano un’ondata di ottimismo, essi vedono colorata in rosa la realtà dell’oggi e del domani e fanno rosei piani di ingrandimento; se essi sono in balia dell’umor nero, i piani si restringono e gli investimenti si riducono a nulla112.

Quella che Einaudi pone all’attenzione del lettore è una sorta di equazione: un sistema di

grandi imprese significa che il numero di quanti progettano e mettono in pratica iniziative

economiche sia piccolo, comporta cioè il restringimento dello “spazio” sociale su cui possono

incidere i processi decisionali dell’imprenditorialità. Di conseguenza molti individui

dal temperamento prudente o critico o ricostruttore sono impediti dal compiere il loro benefico ufficio e costretti a mettersi al seguito dell’uomo medio, dell’uomo rappresentativo della tendenza psicologica dominante, fatalmente volta all’imitazione, ossia, al margine, all’errato operare economico113.

Da quest’ultima frase affiora la consapevolezza che, quanto più ristretta è l’area

dell’imprenditorialità, tanto maggiore è il rischio di aspettative erratiche o addirittura del formarsi di 109 Einaudi (1932b), p. 483. 110 Ibidem, p. 485. 111 Ibidem. 112 Ibidem, pp. 484-485. 113 Ibidem, p. 487.

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bolle speculative. Gli animal spirits di Einaudi non sono dunque un dato generalizzato della

imprenditorialità contemporanea come in Keynes, ma una specifica deriva di quei sistemi

capitalistici dove si è attenuato il grado di competitività, e dove i processi decisionali sono venuti

concentrandosi in pochi soggetti.

Il sospetto che Einaudi nutre verso la grande impresa – quale luogo di possibili complicità

tra i poteri forti dell’economia e quelli deboli della politica – è affiancato, a contrario, dalla sua

intima adesione alla piccola e media impresa. In tale adesione è anche possibile cogliere la sua

difficoltà ad accettare i dati della modernità, da lui ricondotti, talvolta con qualche forzatura, alle

tendenze livellatrici delle produzioni in serie e alle manifestazioni massificate del vivere civile114.

La sua però non è solo una manifestazione ideologica. Infatti, fin da un suo scritto risalente

alla fine dell’Ottocento, egli prospetta un modello di sviluppo economico fondato sulle

caratteristiche della territorialità e della imprenditorialità diffusa, e sul transito dal mondo agricolo a

quello industriale di determinati valori e convenzioni: il senso della famiglia, il rispetto della

proprietà privata, la forza della tradizione, lo spirito di appartenenza alla comunità di origine, e così

via115. Pur non presentando tutti gli elementi della odierna economia dei distretti industriali116,

Einaudi ne anticipa alcuni tratti, in particolare il fatto che l’intreccio funzionale tra le caratteristiche

spaziali e la cultura sociale dei luoghi non produce solo un dato sociologico o civile, ma è pure in

grado di sviluppare meccanismi di regolazione e assetti organizzativo-tecnologici delle imprese che,

proprio dalla complementarità di ruolo tra mercato e comunità locale, traggono un quid specifico

per il più rapido conseguimento di obiettivi di crescita e benessere.

Indubbiamente, quello della piccola impresa è il campo in cui i suoi ideali prendono il

sopravvento sull’analisi, tanto più laddove portano a trascurare le manifestazioni critiche in cui più

facilmente può incorrere il sistema delle piccole imprese: l’autosfruttamento del lavoro, la

dipendenza personale, la scarsità di infrastrutture funzionali, la carente ricerca tecnologica di base, e

così via. Ma un giudizio equilibrato non può non richiamare anche ulteriori evidenze, che nella

prosa di Einaudi prendono letteralmente il volo. Ci riferiamo alle grandi potenzialità che il sistema

delle piccole imprese possiede al fine di elevare e soprattutto diffondere la cultura del produrre a

sezioni sempre più ampie di popolazione; e alla consapevolezza che il livello di civiltà e di

organizzazione sociale ed economica di un paese è anche funzione del grado di decentramento al

quale vengono discusse e prese le decisioni, in definitiva del grado di distribuzione del potere nella

114 Di qui il costituirsi di una critica a questo suo approccio di “romanticismo economico”. Cfr. in primo luogo Bertolino (1946). 115 Mi riferisco in particolare a Einaudi (1897). 116 Come è noto, è questo un filone di indagini che Giacomo Becattini, valorizzando alcuni concetti di base marshalliani, ha intrapreso a partire dagli anni Settanta. Si veda ad esempio Becattini (1979).

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società. Chi legga “Confessioni di un industriale” pubblicato nel 1932117, comprende

immediatamente tutto ciò, e come avvenga, pur attraverso una retorica da piccolo mondo antico,

che il sistema delle piccole e medie imprese riesca sia ad innalzare l’offerta di capacità

imprenditoriali, che a stimolare la ricerca dell’autonomia e della diversità da parte degli

imprenditori e dei lavoratori. In breve, come si giunga a realizzare grazie a ciò, in parallelo anche al

sistema dell’istruzione, un processo moltiplicativo del capitale umano118.

A ben vedere però, il suo abbozzo di analisi di un’economia dei distretti è ispirato da una

convinzione più di radice, che sia cioè nella piccola impresa che la congiunzione dei due elementi

proprietà privata e libertà riesce ad esprimere un massimo di potenzialità in termini di progresso

economico e sociale. E tende al tempo stesso ad accreditare l’idea di questi due elementi (come già

in Francesco Ferrara un secolo prima di lui) come prerequisiti ottimali della stessa analisi

economica. Sebbene per Einaudi, come sopra abbiamo detto, le funzioni economiche

dell’imprenditore siano altra cosa rispetto a quelle di chi anticipa il capitale, questa coppia di

elementi ha finito per acquisire nel suo sistema di pensiero il significato di una grande meta-idea, a

sua volta in grado di suscitare nuovi prodotti del pensiero e nuove applicazioni, utili sia ad elevare il

carattere umano, che ad alimentare il processo di crescita119.

5.4 Istituzioni e politiche pubbliche. Per Einaudi la libera economia di mercato può tuttavia

produrre anche delle anomalie, talvolta dei veri e propri mostri. E’ ciò che lui chiama “capitalismo

storico”, una realtà in cui hanno preso campo privilegi, protezioni, monopoli, nonché tendenze

negative come il livellamento di massa e il conformismo. Ben prima che emergesse un settore

riconosciuto dell’indagine economica dedicato appositamente ai c.d. fallimenti di mercato, egli ne

individuò varie tipologie, tutte in qualche modo riconducibili ad espressioni di avidità umana andate

fuori controllo. Inoltre, Einaudi comprende che la stessa concorrenza, per durare, non deve avere la

pretesa di costituire un fenomeno universale, dato che non tutti gli individui sono in grado di

reggere alla sua disciplina. Ciò lo motiva – soprattutto a partire dalla fine degli trenta, primi anni

quaranta – ad approfondire in particolare il campo della politica sociale120.

Smaliziato osservatore del mercato e delle sue possibili degenerazioni, Einaudi tuttavia non

contemplò di porvi rimedio con il sistema dell’intervento pubblico discrezionale, ma con un sistema

117 Cfr. Einaudi (1932). 118 Un recentissimo studio in proposito non ha tuttavia mancato di segnalare anche taluni elementi problematici in questo processo, ovvero i ritardi registrati nelle piccole imprese nell’utilizzazione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, nonché la loro oggettiva difficoltà a istituire percorsi formativi interni. Cfr. Visco (2011). Nella letteratura economica il maggiore riferimento dottrinario in tema di capitale umano è costituito da Becker (1964). 119 Sull’importanza delle meta-idee nel suscitare tanto progetti di ricerca economica, quanto l’aggiornamento delle politiche pubbliche, si è soffermato recentemente Warsh (2007), in particolare pp. 429-438. 120 L’esito di questo indirizzo è Einaudi (1949), che raccoglie, tra l’altro, i corsi universitari da lui tenuti in Svizzera nel 1944.

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di regole che, da una parte, riuscisse a depotenziarne le manifestazioni critiche più eclatanti, ma,

dall’altra, ne convalidasse il ruolo quale riferimento obbligato tanto della società civile quanto della

politica121. I suoi interventi all’Assemblea Costituente offrono una testimonianza incontrovertibile

di questi suoi convincimenti. Affidare le sorti dell’economia alle cure di autorità politiche o di

imprese pubbliche sarebbe stata per lui una battaglia persa in partenza.

6. L’imprenditore di Sergio Ricossa

6.1 Le influenze della scuola austriaca. Sergio Ricossa (1927) è l’ultimo di questa serie di

economisti liberisti sul tema dell’imprenditore.

Per cogliere gli elementi essenziali della sua concezione al riguardo, occorre partire dalla

sua visione dell’economia come processo dinamico, instabile e aperto ad una pluralità di esiti; e dal

confronto che pone tra questa raffigurazione dello sviluppo basato sul libero mercato, e quella

opposta di quanti ritengono necessario progettare preventivamente controlli e obiettivi in merito a

questo stesso processo. Ricossa non condivide questo secondo approccio e ne denuncia le principali

aporie: 1) la progettazione di obiettivi non comporta di per sé la capacità di raggiungerli; 2) il

conseguimento effettivo di una finalità ottimale definita in un contesto di pianificazione

dell’economia, non dimostra che “l’ignoto non contenga una sorpresa ancora inimmaginata, che

giudicheremmo superiore al falso «ottimo» se un giorno la scoprissimo o la inventassimo”; 3) il

metodo della predeterminazione dei percorsi e delle finalità nuoce in generale alla libertà122.

Dunque, due filosofie politiche diverse. Da una parte, il “razionalismo costruttivistico” che

nel Novecento ha avuto in J. M. Keynes il più prestigioso rappresentante; dall’altra il “razionalismo

critico” di K. Popper e di F. von Hayek. Ricossa aderisce totalmente a questo secondo approccio

dati i forti limiti che lui ravvisa in qualsiasi progetto di conoscenza totalizzante o che tende ad

essere tale, e dunque anche in nome di un sistema di regole che incentivino gli individui ad

utilizzare quelle informazioni puntuali che sono esclusivamente alla loro portata. A sua volta, il dato

dell’imprevedibilità – che gli aderenti al razionalismo costruttivistico vorrebbero eliminare al fine di

conseguire il progresso nella stabilità – è invece giudicato in senso positivo nella prospettiva dei

razionalisti critici, perché sinonimo di scoperte e di stimolo per nuove conoscenze. In sintesi,

121 Egli in sostanza aderisce alla tesi, propria dell’economia sociale di mercato, fondata sulla ammissibilità dei c.d. interventi pubblici conformi, conformi in quanto non lesivi dei meccanismi dell’economia di mercato. Per un approfondimento in proposito si rinvia a Forte (2005). 122 Cfr. Ricossa (1988), in particolare p. 194 e segg.

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l’incertezza e l’instabilità, aborrite dai primi, acquistano una loro ragion d’essere nel sistema di

ragionamento dei secondi, alla stregua di un humus sociale e antropologico indispensabile

all’azione svolta “dai liberi imprenditori, dai liberi innovatori, dalla concorrenza che crea e

distrugge tumultuosamente”123.

Conseguentemente a questa filosofia politica, Ricossa ritiene che l’imprenditorialità, prima

ancora di sostanziarsi di specifiche attività, si riveli nelle doti naturali di cui gli uomini dispongono

in diversa misura. L’immaginazione e la fantasia vengono prima del calcolo economico. L’intuito e

lo spirito di intraprendenza, prima della logica e della razionalità. Il soggettivismo delle scelte prima

dei meriti dell’organizzazione. Di qui, secondo lui, l’ambito riduttivo, se non fuorviante, della

figura dell’imprenditore nella manualistica neo-classica, esclusivamente dedito alla

massimizzazione di una funzione obiettivo (i profitti) a partire da determinati dati (la funzione di

produzione)124. La vera mentalità imprenditoriale, invece, si pone nella prospettiva di cambiare quei

dati:

Il più nobile attribuito dell’attività imprenditoriale è l’innovazione produttiva, sì che il successo arrida a lui quando vede quel che i concorrenti non vedono: un nuovo prodotto, un nuovo metodo di fabbricazione, una nuova opportunità di progresso economico, di soddisfazione dei consumatori (…) Prima assai di occuparsi dei mezzi migliori, il buon imprenditore si occupa dei fini migliori (nell’ambito delle imprese), e facendolo in concorrenza con altri imprenditori, il suo primato dipenderà dall’identificare traguardi che gli altri giudicheranno a torto sbagliati125.

Questa citazione, ed altri passaggi del suo Dizionario di Economia, forniscono le coordinate

dottrinarie del discorso di Ricossa126. L’imprenditorialità si manifesta innanzitutto, come Hayek ha

posto in luce, attraverso una “procedura di scoperta”127; dà luogo, come in Schumpeter128, ad un

processo di “distruzione creatrice” attivato dalle innovazioni che realizza; è orientata a cogliere con

prontezza le opportunità di guadagno, come negli sviluppi della “scuola austriaca” elaborati da

Israel Kirzner129.

La difesa che egli svolge della concorrenza è anche basata sulla sua capacità di attivare,

proprio grazie alla funzione imprenditoriale, un doppio registro, sia teorico che pratico, cioè a dire:

123 Ivi, p. 189. 124 Cfr. in proposito Ricossa (2006), in particolare p. 151 e segg. 125 Ricossa (1982), voce “imprenditore” p. 216. 126 Oltre alla voce “imprenditore” si vedano in Ricossa (1982) anche le seguenti: impresa, concorrenza, equilibrio, sovranità del consumatore, speculazione. 127 Tra le varie opere utili a comprendere il punto di vista di F. A. von Hayek, si rinvia a Hayek (1988b) e a Hayek (1948). 128 Il riferimento classico è Schumpeter (1971), ma Ricossa cita anche Schumpeter (1955). 129 Cfr. Kirzner (1997). Le opere di Kirzner a cui Ricossa direttamente si riferisce sono Kirzner (1979) e (1980). Il lettore interessato ad approfondire i termini filosofici e metodologici della scuola austriaca può rivolgersi a Barrotta, Raffaelli (1998).

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“in regime di concorrenza vi sono due forze contrastanti: se da un lato vi sono forze che spingono

verso la normalità dei valori, dall’altra lato ve ne sono che cercano di perpetuare l’anormalità”130.

Ora, come abbiamo già visto, su questa doppia valenza dell’azione dell’imprenditore – di

rottura come di ricostituzione dell’equilibrio – si era già soffermato Pantaleoni, con il suo ampio

concetto di “atto concorrenziale”. In modo analogo, Ricossa. Da una parte, egli raffigura

l’imprenditore come un soggetto che incarna una filosofia del progresso senza mèta, senza cioè

l’illusione di un “fondamento assoluto” da realizzare131. In questa prospettiva, “Il mercato serve a

far nascere invenzioni e a saggiarne la validità, la capacità di crescita e sviluppo. In quanto sistema

per innovare, esso destabilizza l’economia, anziché portarla in equilibrio”132. Dall’altra, il processo

di mercato concorrenziale è ritenuto in grado di generare un flusso continuo di nuove conoscenze e

informazioni in virtù delle quali si mantiene elevata la consapevolezza e la prontezza degli individui

(degli imprenditori in particolare) riguardo alle opportunità di guadagno da cogliere. E, come si è

visto, sono proprio queste attività di natura speculativa che, riducendo lo spazio della ignoranza

altrui da sfruttare, realizzano una tendenza all’equilibrio.

Sulla questione di quale delle “due forze contrastanti” prevalga, Ricossa propende per una

soluzione dettata dall’esperienza secondo cui “al di là delle sue turbe congiunturali (qualunque

economia di mercato) possiede un assetto normale non caotico, al quale possiamo pensare come

assetto di equilibrio”133: un concetto dunque debole di equilibrio, certo non come riferimento

analitico in grado di interpretare in senso stretto la realtà di mercato, come negli schemi neoclassici

di equilibrio generale. Un’idea di equilibrio, che, proprio perché mèro riferimento di tendenza, pare

coesistere con la pur diversa nozione di “ordine”, da intendersi come insieme di relazioni di

mercato da cui si possono trarre elementi di conoscenza utili alla formazione di aspettative corrette.

Di nuovo, Hayek è sullo sfondo.

6.2 Evidenze e conferme dal caso italiano. Un’ulteriore indicazione in merito

all’imprenditorialità in Ricossa deriva dalla distinzione dal sapore didattico che egli effettua tra il

“buono” e il “cattivo” imprenditore e che fa perno sulla sovranità del consumatore, rispettata dal

primo, tradita dal secondo. Di fatto, egli tende a far coincidere la “cattiva” imprenditorialità con

quelle posizioni che emergono quando viene meno la concorrenza di mercato134, non diversamente

peraltro da quanto già gli economisti italiani considerati in questo scritto avevano messo in luce135.

130 Ricossa (1988), pp. 123-4. 131 Cfr. Ibidem, p. 73. 132 Ricossa (2006), p. 140. 133 Ricossa (1982), voce “equilibrio”, p. 188. 134 Cfr. Ricossa (1982), p. 218. 135 Si riporta il seguente passo di Pareto per esemplificare questa linea di pensiero sulla “cattiva imprenditorialità”: “Gli imprenditori risentono vivamente la pressione della libera concorrenza. Per sottrarvisi richiedono al governo ogni specie di protezione: protezione contro la concorrenza dei paesi stranieri; protezione contro gli operai (scioperi, associazioni

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E’ opportuno far notare che per lui la concorrenza è da apprezzare, prima ancora che come metodo

per selezionare i produttori “ottimi, i più informati, i più efficienti, i più meritevoli”, soprattutto per

impedire protezioni, aiuti e il formarsi di monopoli, o, nel caso che questi esistano, nel far sì che

essi siano “vincitori precari di una gara sempre aperta”136. E’ cioè una concezione di concorrenza

che Ricossa, negli anni settanta e ottanta del Novecento, contrappone polemicamente a quanti –

economisti, politici, opinione pubblica – esprimevano allora forti riserve sull’operatività del libero

mercato. A fronte di proposte volte ad ampliare il raggio di operatività delle imprese pubbliche (per

meglio coniugare l’interesse collettivo con l’esigenza di sostenere lo sviluppo dell’industria), o ad

assumere i metodi della programmazione economica (al fine di incentivare selettivamente

l’innovazione e gli investimenti)137, Ricossa opponeva drasticamente il suo rifiuto, anche perché

ritenute fonti di ulteriore indebolimento della genuina funzione imprenditoriale.

In I Fuochisti della Vaporiera del 1978, la sua polemica nei confronti del dibattito allora in

corso in Italia, non risparmia niente e nessuno: le debolezze della politica, le velleità della

programmazione, le forzature dei sindacati, le dissimulazioni del comunismo, il conformismo

scientifico di molti economisti. Egli critica pesantemente anche gli imprenditori, colpevoli tanto di

arrendevolezza opportunistica di fronte alle rivendicazioni dei lavoratori, quanto di comportamenti

conniventi con i poteri pubblici.

“Al principio del secolo – ricorda – Pareto li aveva accusati [gli imprenditori] di

demagogia sinistrorsa”. La storia si stava ora ripetendo, forse in peggio: “I grandi industriali non si

riconoscevano bene nell’imprenditore einaudiano. Tanto meno adesso, che raramente erano i

fondatori dell’impresa, ma più spesso i figli, nipoti, generi, cognati”. Lo stile dell’incipiente

capitalismo manageriale stava iniettando il virus del conformismo nelle nuove generazioni di

imprenditori:

Il genio italiano di improvvisare, di arrangiarsi, sotto l’occhio di un padrone-regista disordinato, ma dotato di forte personalità, stingeva nel grigiore. Le grandi industrie copiavano i ministeri. … Molti managers erano funzionari, non padroni. Snobbavano quei padroni che “venivano dalla gavetta138.

In breve, in quegli anni settanta, si era giunti ad una svolta negativa nel modo di concepire

l’economia e la società:

operaie, ecc.); protezione mediante l’alterazione delle monete; protezione contro i possessori di risparmio, il governo provvedendo a conceder prestiti ad un saggio minore di quello che si determina liberamente sul mercato; protezione per i trasporti per terra e per via d’acqua; sovvenzioni marittime; premi, ecc. ecc. Ogni governo, che accorda tali protezioni, impedisce agli imprenditori di assolvere la loro funzione sociale. (…) Gli imprenditori che assolvono la loro funzione sociale, sono degli esseri molto utili. Gli imprenditori, che non l’assolvono, sono, quanto meno, dei parassiti e possono diventare estremamente nocivi”: cfr. Pareto (1961), II, § 725, p. 105. 136 Ricossa (2006), p. 155. 137 Si veda al riguardo come ciò risulta argomentato in Silva (1995). 138 Ricossa (1978), p. 27.

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Questi dirigenti laureati e plurilaureati non potevano contentarsi di un liberalismo ottocentesco, sentimentale, sempliciotto, paesano. Il più bel libro di Einaudi, le Lezioni di politica sociale, cominciano così: «Siete mai stati in un borgo di campagna in un giorno di fiera». Ci voleva ben altro per l’incipiente èra tecnotronica. Se proprio si voleva restare liberali, si fosse almeno liberali alla Keynes. Gli stessi economisti più giovani o meno anziani stavano convertendosi a Keynes, se non se la sentivano ancora di fare i marxisti139.

Sono indubbiamente giudizi di parte quelli che Ricossa pronuncia. Ridurre a mère mode e

distorsioni politiche, sindacali o culturali, il percorso che vede il passaggio del nostro paese, a

partire dagli anni cinquanta, da una civiltà prevalentemente contadina ad una caratterizzata

dall’industrializzazione e dai consumi di massa, appare forse troppo semplificante. Al tempo stesso

però, sono valutazioni che, soprattutto lette a distanza di tempo dalle vicende a cui Ricossa si

riferisce, mettono impietosamente in luce antiche tare e recenti debolezze delle nostre istituzioni,

della nostra comunità nazionale e delle sue classi dirigenti.

6.3 L’imperfettismo e la tradizione italiana di economia liberale. Ne La fine dell’economia

del 1986, Ricossa propone di considerare l’evoluzione e i protagonisti del pensiero economico non

alla luce di una delle prospettive usuali (basate sulla teoria del valore, o della distribuzione, o

dell’equilibrio, e così via), bensì sul confronto tra “due concezioni della vita e del mondo, perfino

due teologie”, che lui chiama perfettismo e imperfettismo:

Diremo perfettismo ogni dottrina che predichi un regno mondano di perfezione, senza il dominio dell’economico; e imperfettismo quel poco di contrastante e di paradossale, che ritenga il perfetto indesiderabile, più che impossibile, e l’economico un aspetto come gli altri della nostra vita, non un ramo della demonologia140.

Perfettisti sono tutti quegli economisti che ad esempio hanno elaborato o vagheggiato

progetti di stati ideali caratterizzati certamente da una più equa distribuzione del reddito, ma che

risultano anche tali perché in grado di indirizzare la capacità umana, prima ancora che ad aumentare

la quantità dei beni e servizi prodotti, a stabilizzare i desideri materiali degli individui, e semmai

nobilitarne le motivazioni verso consumi civili, o di natura collettiva, o perfino signorili. Perfettisti

sono da lui considerati anche tutti quegli altri economisti che hanno ravvisato nel capitalismo ad

economia di mercato una forma perversa di organizzazione sociale, rispetto alla quale nessuna

soluzione migliorativa è concepibile se non quella del suo definitivo superamento. Tra questi ultimi,

primeggia Marx. Tra i primi, John S. Mill e John M. Keynes.

Ebbene, il perfettismo che accomunerebbe tutti questi autori, altrimenti appartenenti a mondi

teorici, culturali e politici diversi, li fa pure simili nel ridimensionare o annullare la figura

dell’imprenditore, che invece caratterizza, con il suo ruolo centrale, la linea di economia liberale qui

ricostruita. Al posto dell’imprenditore protagonista dell’economia, John S. Mill mise il saggio 139 Ricossa (1978), pp. 26-27. 140 Ricossa (2006), p. 12.

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filosofo; i successori di Marx il ministro della produzione; John M. Keynes, il manager della grande

impresa in sintonia con il “civil servant”, l’uomo pubblico responsabile e compreso della propria

missione, intellettualmente in grado di progettare e attuare decisioni dal rilevante contenuto

economico-amministrativo141.

Peraltro, questa insolita declinazione del pensiero economico consente a Ricossa di operare

una sottodistinzione nella vasta categoria di quanti si dichiarano liberali: tra coloro cioè che

(secondo la sua visione del mondo) liberali lo sono davvero, e quanti invece solo di facciata. Il

confronto a cui egli ricorre è tra l’imperfettista Einaudi e il perfettista Keynes:

entrambi liberali, ma esponenti di due liberalismi così diversi, che individuarli con lo stesso nome è fonte di seri equivoci. (…) Un sensibile chiarimento pare ottenersi assimilando il liberalismo “inglese” nell’imperfettismo borghese, e chiamandolo semplicemente liberismo; mentre il liberalismo “continentale” si può far rientrare nel più grande alveo del perfettismo e della cultura signorile. Einaudi era liberista. Keynes non lo era. Comunque, la fine dell’economia, invocata o temuta, è come il sesso per i vittoriani: in fondo a ogni pensiero, seppure escluso dal discorso142.

Ciò che Ricossa intende suggerire non è solo una visione del mondo, ma implicitamente

anche un criterio storiografico utile a portare alla luce un obiter dicta il più delle volte

accuratamente eluso nelle diatribe tra economisti, altrimenti ritenuti appartenenti ad un

indifferenziato filone di pensiero economico liberale.

Nello stile e nelle parole di Francesco Ferrara, l’esigenza filosofica di Ricossa era già stata

peraltro pienamente avvertita:

E’ ben da distinguere tra le condizioni e le leggi. Coloro che si sono attenuti ad assegnare le condizioni di uno stato perfetto o perfettibile, finirono sempre con l’architettare il modello di uno stato ideale. Coloro che si sono limitati ad indicare le leggi sotto cui si compie il progresso, astraggono dalle forme materiali di uno stato perfetto, e riducono tutte le forme possibili a delle idee generali applicabili a tutte143.

L’errore dei primi consisterebbe nel non comprendere che se l’elaborazione di modelli

sociali

si appoggia sopra un organismo cavato a priori dalle proprie viscere, astrologato in un gabinetto, e proclamato in un club, questa non è più teoria del futuro, ma congiura contro la logica; è la pretesa d’imprigionare l’umano intelletto nelle dimensioni del Lussemburgo; è un arresto intimato all’umanità; non è teoria, ma l’eresia del progresso144.

Nello scrivere così, Ferrara aveva soprattutto di mira tanto la dottrina dell’incivilimento di

Gian Domenico Romagnosi, quanto le forme del socialismo utopistico. Maffeo Pantaleoni,

141 Quanti fossero interessati ad approfondire l’evoluzione del pensiero di J.M. Keynes in tema di imprenditorialità possono vedere Bini (2010b). 142 Ivi, p. 87. Interessanti considerazioni in merito alle diverse culture di cui sono espressione i lavori di questi due economisti, sono contenute in Fusco (2009), in particolare pp. 185-218. 143 F. Ferrara (1933), p. 255. 144 Ivi, p. 258.

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cinquant’anni dopo, cercava con argomenti simili di opporsi agli obiettivi di conoscenza e di potere

tanto del “socialismo della cattedra” quanto del socialismo scientifico:

Non è compatibile con l’idea di progresso l’idea di una forma ideale di società. Un ideale è un termine. Il progresso non conosce termine. Raggiunto che sia un ideale, segue un altro, e così eternamente. Il solo ideale possibile è una negazione, cioè un regime di libertà, di concorrenza, un regime che lasci aperta la porta a ogni pretesa, che ammetta al combattimento ogni lottatore. Il collettivismo è dunque lungi dall’essere pericoloso. E’ soltanto sciocco. I suoi fini più nobili non possono essere realizzati che da quel sistema di individualismo che esso condanna145.

Quale contraltare di una visione virtuosa (e perciò da lui ritenuta pericolosa) della coesione

umana, Pantaleoni torna dunque a proporre l’imprenditore, il rappresentante per antonomasia del

sistema sociale basato sull’individualismo.

Ricossa, circa ottanta anni dopo di lui, tira le fila del medesimo discorso, qui riproposto nel

considerare la figura, per eccellenza imperfettista, dell’imprenditore.

7. Alcune considerazioni di sintesi

Questo scritto ha inteso far emergere non solo la teoria, ma anche la radice filosofica

dell’imprenditorialità, nello specifico del pensiero economico liberista italiano, da Francesco

Ferrara a Sergio Ricossa. La caratteristica di questo filone è consistita innanzitutto nel cogliere il

ruolo dell’imprenditore in un raggio d’azione più ampio di quello circoscritto dalla

massimizzazione del profitto, per integrarvi anche motivazioni e obiettivi di fama, prestigio, potere.

Nella Introduzione abbiamo posto l’oggetto di questa ricerca nei termini di un confronto

netto tra questo tipo di imprenditore fatto da sé, e il manager della grande impresa. Il primo,

indisciplinato, talvolta perfino psicologicamente precario, ma anche un leader naturale, dalle

indubbie capacità operative, mosso dal desiderio di distinzione e di successo. Il secondo, invece,

razionale nell’organizzare, metodico nel controllare, scientifico nello stabilire gli obiettivi strategici

dell’impresa, ma talvolta anche rallentato o perfino inibito dalla tecnocrazia e dai meccanismi

burocratici da lui stesso creati.

Si tratta ovviamente di un confronto semplificato al massimo. Nella realtà odierna dei

sistemi capitalisti ad economia di mercato, le due figure coesistono, sebbene, come è stato

osservato, in proporzioni e gradualità diverse a seconda dei casi concreti o delle fasi storiche

attraversate146.

145 Pantaleoni (1963-4b), p. 269. 146 Giusto quanto asserisce conclusivamente lo scritto di Baumol, Litan and Schramm (2009), dove si suggerisce che “the best form of ‘good capitalism’ is a blend of ‘entrepreneurial’ and ‘big-firm’ capitalism, although the precise mix will vary from country to country, depending on a combination of cultural and historical characteristics that we hope others will help clarify in the years head” (p. 32).

Commento [MSOffice1]:

Commento [MSOffice2]:

Commento [MSOffice3R2]:

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Questo schema duale è stato comunque utile per rappresentare con la maggiore chiarezza

possibile il punto di vista degli economisti qui considerati, per i quali, in breve, l’imprenditore è

soprattutto colui che rientra nella prima tipologia. E questo è sostenibile non solo per un autore

come Ferrara, vissuto prima dell’avvento della moderna figura del manager, ma anche per gli altri:

il Pareto-sociologo, che dell’iniziativa imprenditoriale ha colto gli aspetti in grado di imprimere

un’accelerazione alla circolazione delle élites; Pantaleoni, che ha posto l’atto imprenditoriale al

centro della sua analisi del processo di mercato; Einaudi, preoccupato di preservarne i risvolti

umanistici; infine Ricossa, che nelle modalità di comportamento imprenditoriale ha ravvisato un

presidio della società “aperta”.

Questo scritto ha cercato di fornire talune spiegazioni di questi orientamenti, mettendo in

evidenza, ad esempio, la visione soggettivistica dei processi economici prevalente nelle loro opere;

lo stretto connubio funzionale – ma non l’identificazione – che essi instaurano tra imprenditorialità,

proprietà privata ed economia di mercato; il processo moltiplicativo di conoscenze e di capitale

umano che il decentramento delle decisioni imprenditoriali riesce ad attivare in misura talvolta

maggiore di quanto accadrebbe in un sistema contraddistinto dal “big-business”.

Naturalmente, può aver inciso in questo indirizzo anche il dato caratteristico di un paese

come l’Italia, in cui il processo di crescita è avvenuto in buona parte grazie alla diffusione della

piccola impresa. E nel quale però, al tempo stesso, l’opinione pubblica e la cultura sono state avare

di riconoscimenti al ruolo dell’imprenditorialità e all’economia di mercato147. A questa tendenza

critica, gli economisti considerati hanno cercato coscientemente di opporsi, preoccupati dei risvolti

economici e politici (illiberali) che da essa sarebbero potuti scaturire. Preoccupazioni che sono del

tutto evidenti in Einaudi (basti considerare la sua opposizione al fascismo-corporativismo), ma

anche, per i decenni a noi più vicini, in Ricossa, impegnato in una resistenza ad oltranza contro gli

orientamenti favorevoli alla programmazione economica o alle imprese pubbliche.

La loro convinzione che l’imprenditorialità testimoni una modalità di azione diversa e più

efficace rispetto a quella di altri soggetti dell’economia, li ha orientati verso un’analisi più ampia di

quella che la teoria neo-classica standard ha svolto attraverso la figura dell’imprenditore che non fa

né profitti né perdite. E’ perciò del tutto comprensibile che essi, pur appartenenti (escluso Ferrara)

al grande filone del marginalismo, abbiano adottato nelle loro opere (salvo Pareto economista

“puro”) un concetto debole di equilibrio, e ciò al fine di lasciare maggiore spazio ad una visione

147 Considerazioni interessanti sul tema segnalato e sull’ipotesi che questo deficit di legittimazione possa essere addebitato in parte anche all’incapacità del medesimo sistema delle imprese “di farsi carico del problema economico dell’intera società”, sono contenute in Ciocca (1994), pp. 9-14.

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dinamica e non atomistica del mercato, in definitiva un approccio poco connotato da strumenti di

analisi formale, ricco invece di riferimenti socio-psicologici148.

Decisamente elevata è stata comunque la loro consapevolezza dei termini teorici in cui il

tema dell’imprenditore si è sviluppato nel dibattito internazionale. E’ stato però anche selettivo il

modo in cui essi li hanno discussi o fatti propri, a cominciare da Ferrara.

Pur ragionando in termini di categorie del classicismo economico, Ferrara ribalta il rapporto

tra capitalista e imprenditore: se per gli economisti classici sono le capacità manageriali a svolgere

un ruolo di assistenza al capitale – entità che dunque occupa il centro della scena economica –

nell’economista italiano è il capitale ad affiancare in subordine lo spirito imprenditoriale,

considerato il vero artefice della crescita economica e del progresso149. Riflessioni analoghe

ricorrono anche negli altri economisti qui presi in considerazione.

Pantaleoni, da parte sua, sente l’influenza di Marshall, ma molto più di quanto non faccia

questo economista150, amplia i confini entro cui la considerazione dell’organizzazione quale quarto

fattore della produzione tende a delimitare il ruolo dell’imprenditore: nell’economista italiano, il

mercato di concorrenza diventa l’espressione di atti imprenditoriali dalla valenza strategica.

Einaudi coglie, similmente a Keynes, i casi di fallimento di mercato di cui l’imprenditore

privato può rendersi responsabile; ma, a differenza dell’economista inglese, non ritiene possibile o

auspicabile mettere al suo posto l’imprenditore pubblico, perché del primo continua a percepire

tutte le positive potenzialità, del secondo le sicure manchevolezze e degenerazioni.

Schumpeter costituisce un autore di primario riferimento in questa storia, sebbene si debba

anche mettere in conto come la sua concezione di attività imprenditoriale quale processo di

distruzione creatrice fosse già presente nell’insegnamento – molto influente in Italia – di Pantaleoni.

Comunque sia, di Schumpeter gli economisti italiani considerati non accettano taluni sbocchi

pessimistici. Secondo loro, infatti, il capitalismo imprenditoriale è un processo in grado di

rigenerare se stesso di continuo. In altri termini, l’emergere della figura del manager, per quanto

possa ritenersi necessaria, non esaurisce il ruolo dell’imprenditore. Questo si basa su un impasto

psicologico inimitabile, fonte a sua volta di sempre nuove iniziative ed esperienze, laddove il

manager (in particolare per Einaudi, ma anche secondo Ricossa) svela, prima o poi, le sue

debolezze di uomo conformista.

148 A questo proposito, è da vedersi quanto opportunamente osserva Tusset (2004), in particolare pp. 201-204, e Tusset (2005). 149 Si percepisce nelle sue parole quasi un’anticipazione di ciò che circa un secolo dopo diventerà il tema einaudiano del capitale concepito come il “servo sciocco” di coloro che, sapendolo impiegare, lo emancipano da una situazione altrimenti sterile. Mi riferisco in particolare a Einaudi (1943). 150 Sulla cui posizione ricca di sfumature in tema di imprenditorialità è da vedersi Caldari (2005).

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In generale, negli scrittori italiani si percepisce una forte vocazione per una riflessione

unitaria, sia teorica che normativa, sulla figura dell’imprenditore, di cui accentuano tanto le speciali

motivazioni, quanto le numerose attitudini, da cui, specularmente, la molteplicità delle funzioni di

cui essi ritengono sia portatore: non solo la capacità di dirigere e organizzare l’impresa, ma anche

l’attitudine ad innovare, e la prontezza nel cogliere opportunità di guadagno nelle situazioni, in

realtà sempre presenti, di squilibrio di mercato151.

A nessuno dei nostri economisti sfugge che questo complesso di attività è svolto in

condizioni di “vera” incertezza. Al tempo stesso però, questa specifica connotazione non è da essi

ritenuta sufficiente per fondarvi una spiegazione esauriente delle determinanti del saggio profitto.

Le accentuazioni che essi svolgono in merito ai vari aspetti dell’attività imprenditoriale, vanno in

altre direzioni. Ferrara e Ricossa tendono ad associare la realizzazione di residui positivi al ruolo

dell’imprenditore quale produttore o utilizzatore di nuove conoscenze. Pareto –considerato nella sua

veste di economista applicato e sociologo – agli sforzi volti ad acquisire vantaggi competitivi sul

mercato e posizioni di successo nella società. Pantaleoni, e di seguito a lui Einaudi e poi

nuovamente Ricossa, alla loro intraprendenza e forza innovativa, insieme alla prontezza speculativa.

L’interpretazione di sintesi che ci sentiamo di dare di questa loro posizione in merito alla rilevanza

del rischio di impresa, è che, da una parte, essi lo considerano una caratteristica sistemica delle

economie fondate sull’anticipazione di costi certi e sull’aspettativa di ricavi incerti152. Dall’altra,

però, non ritengono che costituisca elemento in grado di enucleare il quid specifico del contributo

imprenditoriale alla formazione della ricchezza sociale. Detto in altri termini, il capitalismo

imprenditoriale è apprezzato come un sistema superiore di coordinamento dell’economia anche

perché riesce a motivare (grazie alla speranza di profitti) un numero di individui disposti ad

affrontare il rischio della produzione, ben superiore a quello che risulterebbe in altri ordinamenti

economici. In sintesi, il profitto è l’esca che il capitalismo ad economia di mercato impiega per

consentire che le potenzialità imprenditoriali esistenti in una società si trasformino in reali progetti

di impresa. La capacità effettiva di conseguire profitti e la determinazione del loro livello è fatta

derivare invece dall’abilità dei medesimi imprenditori nel compiere quei tipi di attività sopra visti,

che li qualificano come capi d’impresa.

Questa personificazione dell’imprenditore nel complesso dei suoi aspetti operativi, spiega

peraltro la duttilità di accenti dei nostri economisti in merito agli esiti della sua attività, declinati in

151 Uno scritto che ripercorre questa visione multifunzionale dell’attività imprenditoriale da parte degli economisti del passato è Karayiannis (2008). 152 Tra gli economisti considerati è in particolare Ricossa ad evidenziare questa caratteristica intrinseca dei processi produttivi. Egli utilizza questo argomento nella sua impostazione di teoria neomarginalista e soprattutto di superamento del razionalismo radicale e “costruttivistico” che lui interpreta come un “abuso” del modello basato sull’ homo oeconomicus. Una esposizione completa di questo suo approccio dai contenuti sia teorici, che di filosofia politica, è contenuta in Ricossa (1991).

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termini talvolta di equilibrio, tal’altra di squilibrio. In Pareto ciò si ritrova nella dualità che emerge

nei suoi studi di economia pura rispetto a quelli della sociologia. In Pantaleoni e Einaudi, nel

cercare di rappresentarne metodologicamente la personalità complessa, espressione di calcolo, ma

anche di vivacità intellettuale, forza di carattere, aspirazione ad una “vita libera”. In modo analogo

anche in Ricossa, il quale, nell’evidenziare questi due esiti dell’imprenditorialità, risente

maggiormente dell’impostazione austriaca basata su un’idea di mercato imperfetto caratterizzato da

continue attività di “scoperta”153.

La linea comune di riflessioni che emerge da questo tipo di studi è la posizione

assolutamente centrale che viene attribuita all’imprenditore nell’economia. E’ in virtù di questa

figura che gli economisti considerati ritengono possibile concepire il processo di mercato come una

successione di stati ognuno dei quali caratterizzato, rispetto al precedente, da un minor vincolo di

scarsità e da un maggior livello di conoscenze. E’ ugualmente tramite questo loro concetto di

imprenditorialità che, nella interazione tra attività che rompono l’equilibrio ed altre che tendono a

ricomporlo, si concretizza l’autosostenibilità del medesimo processo anche nel lungo periodo. In

definitiva, si afferma l’idea che un ordine, e non un equilibrio, sia il frutto più significativo di

questo doppio registro dell’agire imprenditoriale.

Nel corso del Novecento (per non parlare del periodo attuale), il manifestarsi di dinamiche

economiche andate fuori controllo, non poteva però non accentuare i dubbi in merito a questa

visione di un ordine economico che si perpetua attraverso l’instabilità. Del resto, anche nel campo

degli economisti di orientamento liberale – ne è un esempio lo stesso Einaudi – è molto cresciuta la

consapevolezza della necessità di un più forte quadro normativo finalizzato a bloccare le patologie

di una imprenditorialità talvolta preda del modo compiacente in cui, nelle fasi espansive del ciclo, si

autorappresenta.

In generale, gli economisti di cui ci siamo occupati, erano ben consapevoli del fatto che

l’eccentricità della figura dell’imprenditore può suscitare forti dissensi sociali. Ma la loro

prospettiva li ha solitamente indotti ad un atteggiamento negativo o di prudenza nei confronti di

ipotesi di intervento pubblico di correzione o supplenza di questa figura. Il loro credo, se così si può

dire, è di origine smithiana, ritenendo che gli esiti insoddisfacenti o perfino, in occasioni estreme,

controproducenti derivanti dal sistema delle libertà economiche, sarebbero stati comunque meno

dannosi di quelli invece scaturenti da un sistema di ampi poteri attribuiti al governo e alla

burocrazia pubblica.

Tale è la percezione che hanno avuto di questo problema, da essere stati indotti a una

riflessione specifica sulle condizioni lato-senso politico-istituzionali che è opportuno vengano

153 Si vedano le considerazioni svolte al riguardo da Colombatto (2001).

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garantite affinché le prerogative dell’imprenditorialità siano preservate anche in situazioni

critiche154. Proprio per questo essi hanno offerto contributi per definire politiche utili sia a

stemperare il potenziale destabilizzante dell’attività “distruttrice” dell’imprenditore (da farsi ad

esempio con provvedimenti di stabilità monetaria o con l’introduzione di ammortizzatori sociali),

che a difenderlo da quelle contestazioni politiche e culturali incapaci di comprenderne le finalità di

lungo periodo. Una difesa che, sintetizzando, essi hanno consigliato di organizzare su alcuni grandi

principi di cui la presente ricerca ha messo in particolare evidenza i seguenti: 1) la salvaguardia dei

diritti di proprietà e dell’idea di guadagno, da intendersi alla stregua di un sistema di incentivi

idonei a incanalare le potenzialità imprenditoriali verso effettivi sbocchi produttivi; 2) la rigorosa

delimitazione dell’intervento pubblico in economia, nella consapevolezza che l’imprenditorialità

non possa essere regolamentata oltre una certa misura, né tanto meno collettivizzata, senza

risultarne sminuita o distrutta; 3) un codice legislativo e un assetto istituzionale che sanciscano il

ruolo positivo dell’iniziativa privata e dell’economia di mercato. Questo terzo elemento ha trovato

in Einaudi la sua più coerente espressione attraverso la proposta di una Costituzione economica ad

hoc che stabilisse anche il divieto per tutti i monopoli.

Nella Introduzione abbiamo accennato al fatto che tra gli economisti di cui ci siamo

occupati, nonostante il loro comune ceppo di pensiero liberale, sono intercorse numerose

differenziazioni: di contesto storico, istituzionali, scientifiche, e perfino relative alle loro personali

accentuazioni liberistiche. Questa ricerca facente perno sull’imprenditore ha tuttavia evidenziato

come tra questi stessi economisti siano emerse anche significative vicinanze nei metodi di ricerca,

negli approcci teorici, nelle finalità scientifiche perseguite e nelle proposte concrete elaborate al fine

di salvaguardare la funzionalità di tale figura nella prospettiva di crescenti livelli di benessere.

In conclusione, tra Ferrara, Pareto, Pantaleoni, Einaudi, Ricossa, sono stati individuati una

continuità e un patrimonio di riflessioni teoriche e di filosofia politica finalizzate a sostenere la

reputazione economica e sociale dell’imprenditorialità; ovvero anche per impedire scelte politiche

volte a sovraimporre all’economia di mercato piani o modelli di sviluppo diversi da quelli scaturenti

dal sistema delle libere decisioni imprenditoriali.

154 A tale riguardo, ci limitiamo esclusivamente a richiamare, senza poter andare oltre, che questo atteggiamento mentale li ha indotti talvolta a sottovalutare o a male interpretare la portata di certi sviluppi storici che, dietro il paravento della difesa del libero mercato, hanno in realtà introdotto forti distorsioni nel sistema delle libertà politiche e della rappresentanza. E’, ad esempio, un tema ancora aperto quello delle responsabilità di intellettuali di fede liberale nell’aver favorito o nel non aver contrastato efficacemente l’ascesa del fascismo in Italia quando esso si proclamava “liberista”. Queste considerazioni si ricollegano a quanto detto nella Introduzione, laddove abbiamo accennato al problema del significato politico del liberismo italiano.

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