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Interventi a.a. 2006-2007 Lidia Rigotto L'autoritratto in veste di Cristo e le sue implicazioni psicolo- giche * Esiste una variante molto particolare di autoritratto, alquanto praticata dagli artisti in diverse epoche, che non consiste nel raffigurarsi così come si è in realtà, quanto piuttosto nel camuffarsi, presentandosi sotto le spoglie di qualcun altro. Questa tipologia riflette un bisogno innato dell’uomo, presen- te fin nei giochi infantili: quello di poter vivere esperienze e situazioni mol- teplici, che l’esistenza quotidiana, vincolata ad un’unica realtà sociale e bio- grafica, c’impedisce di sperimentare. Si tratta, insomma, di quella pluralità di vite di cui parlava già Freud 1 . Identificandosi con l’eroe di un’opera lette- raria o artistica, gli uomini riescono così a realizzare i propri sogni e aspira- zioni, sperimentando talvolta anche il brivido del proibito e della riprova- zione sociale, senza per questo doverne pagare lo scotto. L’artista, rispetto all’uomo comune, ha però una possibilità in più: egli può infatti creare diret- tamente, con la penna, il marmo o i colori, quell’alter ego ideale nel quale identificarsi, il personaggio che maggiormente lo rappresenta e che egli già sente vivere nel profondo della sua anima. All’interno di questo genere di autoritratti come travestimento si possono distinguere due varianti principali: quella in cui l’artista si rappresenta come un eroe negativo, talvolta anche di bassa lega e che comprende quelli che propongo di definire autoritratti drammatici 2 , i quali mostrano “l’eroe in lotta o, con soddisfazione masochistica, nella disfatta” 3 ; e un’altra riguar- dante gli autoritratti epici, ossia quelli che consentono “il godimento che fu della grande personalità eroica nell’ora del trionfo” 4 , nei quali l’artista si raf- * Il testo costituisce la rielaborazione di una parte della tesi di laurea in Psicologia dell’arte discussa nell’a.a. 2005-06. 1 S. Freud, Considerazioni sulla guerra e sulla morte (1915), trad. it. in Opere, Boringhieri, Torino, 1972, vol. VIII. 2 Lo spunto viene da quanto dice Freud nei Personaggi psicopatici sulla scena (1905), in Id., Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 1990 (1969), p. 36. 3 Ibid. 4 Ibid.

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Interventi a.a. 2006-2007

Lidia Rigotto L'autoritratto in veste di Cristo e le sue implicazioni psicolo-giche*

Esiste una variante molto particolare di autoritratto, alquanto praticata dagli artisti in diverse epoche, che non consiste nel raffigurarsi così come si è in realtà, quanto piuttosto nel camuffarsi, presentandosi sotto le spoglie di qualcun altro. Questa tipologia riflette un bisogno innato dell’uomo, presen-te fin nei giochi infantili: quello di poter vivere esperienze e situazioni mol-teplici, che l’esistenza quotidiana, vincolata ad un’unica realtà sociale e bio-grafica, c’impedisce di sperimentare. Si tratta, insomma, di quella pluralità di vite di cui parlava già Freud1. Identificandosi con l’eroe di un’opera lette-raria o artistica, gli uomini riescono così a realizzare i propri sogni e aspira-zioni, sperimentando talvolta anche il brivido del proibito e della riprova-zione sociale, senza per questo doverne pagare lo scotto. L’artista, rispetto all’uomo comune, ha però una possibilità in più: egli può infatti creare diret-tamente, con la penna, il marmo o i colori, quell’alter ego ideale nel quale identificarsi, il personaggio che maggiormente lo rappresenta e che egli già sente vivere nel profondo della sua anima. All’interno di questo genere di autoritratti come travestimento si possono distinguere due varianti principali: quella in cui l’artista si rappresenta come un eroe negativo, talvolta anche di bassa lega e che comprende quelli che propongo di definire autoritratti drammatici2, i quali mostrano “l’eroe in lotta o, con soddisfazione masochistica, nella disfatta”3; e un’altra riguar-dante gli autoritratti epici, ossia quelli che consentono “il godimento che fu della grande personalità eroica nell’ora del trionfo”4, nei quali l’artista si raf-

* Il testo costituisce la rielaborazione di una parte della tesi di laurea in Psicologia dell’arte discussa nell’a.a. 2005-06. 1 S. Freud, Considerazioni sulla guerra e sulla morte (1915), trad. it. in Opere, Boringhieri, Torino, 1972, vol. VIII. 2 Lo spunto viene da quanto dice Freud nei Personaggi psicopatici sulla scena (1905), in Id., Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 1990 (1969), p. 36. 3 Ibid. 4 Ibid.

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figura come un personaggio grande e vittorioso. Nel primo caso esistono gli esempi famosi di Caravaggio che si rappresenta nella testa mozzata di Go-lia, o di Cristofano Allori in quella di Oloferne, ma anche di Rembrandt che si effigia nel Figliol prodigo nella taverna o più recentemente di Mapple-thorpe che si è fotografato come teppista e brigatista. Nel caso degli autori-tratti “epici” troviamo invece opere che rispondono molto spesso (ma non soltanto) ad intenti di autoglorificazione da parte dell’artista: si possono fa-re, a titolo di esempio, i nomi di Manet che si ritrae come Rubens, di Rem-brandt in veste di Zeusi o Giove, e di Tiepolo in quella di Apelle. Gli autoritratti come travestimento (e l’arte in generale) offrono dunque la possibilità di attraversare una serie di incarnazioni successive, ma in questo caso senza rinunciare alla vita vera, senza dover prima morire. O meglio, potremmo dire che l’artista muore continuamente, sulla tela, ogni volta che abbandona un’identità per assumerne su di sé un’altra, rinascendo in un nuovo eroe. L’arte, e soprattutto i ritratti, diventano così anche strumenti di liberazione, capaci di spezzare la prigionia dei ruoli e degli stereotipi ai qua-li tutti gli uomini sono sottoposti durante la loro esistenza e che soprattutto gli artisti subiscono come un peso schiacciante. L’essere umano è un coa-cervo complesso di identità e la sua essenza più profonda va ben al di là di un nome o di un ruolo sociale, i quali invece vengono impressi come un marchio fin nel cuore di ogni uomo e spesso l’unico modo per liberarsene è offerto soltanto dall’arte. Esiste infine una categoria speciale di autoritratti, che partecipa contempo-raneamente delle caratteristiche degli autoritratti “epici” e di quelli “dram-matici”, ossia gli autoritratti in vesti sacre. In essi gli artisti si raffigurano come grandi personalità della sfera religiosa, anche in momenti di lotta o e-strema sofferenza, fino ad arrivare alla rappresentazione della morte. Tutta-via non si tratta quasi mai di disfatta perché l’eccezionalità dei personaggi raffigurati è in grado di trascendere persino il dolore e la morte. Anche que-sto è un genere piuttosto praticato dagli artisti, fin dal XV secolo (periodo nel quale si riscontrano numerose raffigurazioni di artisti in veste di santi), ma ha conosciuto una crescita particolare soprattutto nell’Ottocento, in special modo all’interno del clima simbolista, quando il confronto diretto si stabilisce ormai soprattutto, ma non solo, con la persona di Gesù. E questo da parte non soltanto di artisti credenti. I motivi che spingono verso questa identificazione sono molteplici, tuttavia si può affermare che sono anzitutto l’eccezionalità della persona di Cristo e l’esemplarità della sua vita a costi-tuire una delle spinte principali verso una tale tipologia di autoritratti. Gesù infatti era dotato di caratteristiche che lo rendevano un individuo fuori dal comune: sapeva trattare da pari a pari con i potenti, riusciva a mettere in dif-

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ficoltà i dottori della legge, radunava attorno a sé un numero impressionante di persone e infine, ha affrontato con ineguagliabile forza d’animo una mor-te atroce e infamante, nell’abbandono e nella solitudine, rinnegato persino dai suoi seguaci. Per questo molto spesso gli artisti hanno trovato in Cristo (e soprattutto nel Cristo della passione) il miglior referente simbolico con il quale identificarsi per rappresentare le proprie sofferenze ed esprimere i propri turbamenti. Gli autoritratti in veste di Gesù o di santi offrono però all’artista anche l’opportunità di dire ciò che sente di essere nel profondo, trovando in tal modo l’esatto correlativo oggettivo del suo stato interiore: un innocente in-giustamente perseguitato, il profeta di una nuova concezione artistica, un martire della fede nella venuta di un’arte nuova, il Messia condannato dalla stoltezza di critici farisaici e molto altro ancora.

Il primo artista5 a raffigurarsi nelle vesti di Gesù è stato Albrecht Dürer (1471-1528); per lui va-le, almeno in parte, questo rapporto con il dolo-re e la sofferenza a cui accennavo, anche se ciò non esaurisce completamente tutte le motiva-zioni. Il dipinto più noto nel quale è attuata quest’identificazione è l’Autoritratto con man-

tello di pelliccia (1500, fig. 1), ma vi sono an-che altri lavori interpretabili in questo senso, quali il disegno Autoritratto malato (1507), l’incisione Sudario sorretto da due angeli

(1513) e il disegno Autoritratto come uomo dei

dolori (1522). Come già aveva notato Panofsky6 a proposito del dipinto del 1500, queste opere

5 Non è stato possibile affrontare qui tutti gli artisti che si sono misurati con questa temati-ca. Esiste tuttavia un filo rosso che unisce gran parte degli individui scelti, ossia quello del-la sofferenza; quest’ultima, facendosi specchio di quella sostenuta da Gesù con la sua Pas-sione, diventa ciò che permette agli artisti di avvicinarsi di più al Cristo e di raffigurarsi come lui. Le sofferenze patite dagli autori trattati in questo saggio sono tanto di ordine fisi-co (la malattia, corporale o mentale, come nel caso di Dürer e di Van Gogh), quanto di or-dine “spirituale”, essendo state sostenute in nome di un particolare credo artistico, come nel caso di Gauguin e, seppur in modo diverso, anche di Millet. L’opera di Jacek Malckzewski offre invece l’occasione per osservare gli autoritratti in veste di Cristo da un’altra angola-zione, relativa a temi politici o sentimentali. Infine, ho voluto presentare due esempi para-digmatici di un rapporto che potremmo definire ludico e giocoso con la figura di Gesù, ri-guardante questa volta l’ambito fotografico. 6 E. Panofsky, La vita e le opere di Albrecht Dürer (1943), trad. it. Feltrinelli, Milano 1967, pp. 59-60.

1. A. Dürer, Autoritratto

con mantello di pelliccia, 1500, Monaco, Alte Pina-kothek.

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sono interpretabili all’interno dell’orizzonte della dottrina dell’Imitatio

Christi, che percorre tutta la spiritualità cristiana e che aveva già trovato ampia diffusione in campo monastico. A dover essere imitata era la vita ter-rena di Cristo e i diversi ordini religiosi ponevano l’attenzione ora sulla po-vertà, ora sulla mansuetudine o sulla misericordia di Gesù. Nel XIV secolo prese poi avvio la devotio moderna, una corrente di riforma spirituale svi-luppatasi nei Paesi Bassi e poi diffusasi in tutta Europa nel corso del XV e XVI secolo, la quale ebbe forte influsso su Martin Lutero e la Riforma pro-testante. In essa l’accento era tutto spostato sull’imitazione della passione di Cristo come mezzo di elevazione spirituale: il Cristiano, chiamato ad essere santo come il suo Maestro per raggiungere la perfezione che è di Dio, trova nell’imitazione della vita e della sofferenza di Cristo il mezzo più efficace per farsi come lui. Quella di Dürer non è dunque presunzione, ma la rappre-sentazione oggettiva delle parole stesse di Gesù che nel Vangelo dice ai di-scepoli: “Siate voi dunque perfetti come è perfetto il padre vostro celeste” (Mt 5,48). Nel dipinto del 1500 è contenuto così il presagio della sofferenza futura di Dürer, che troverà una piena rappresentazione soltanto nei lavori citati poco sopra. Tuttavia, anche se qui abbiamo l’immagine di un Dio glorioso, egli sapeva bene che per divenire il Salvator Mundi, Gesù ha dovuto prima pas-sare attraverso la sofferenza della croce. Questa prospettiva allora rende e-vidente, più che la presunzione di un artista, la sua grande fede: Dürer mette la sua vita nelle mani della divina Provvidenza, accettando tutto ciò ch’essa vorrà dargli, fama e onori, ma anche dolore e malattia. Questa è del resto l’esplicita dichiarazione presente nell’Autoritratto con il fiore d’eringio, del 1493, dove una scritta, in alto accanto alla data, recita: “I miei affari seguo-no il corso che gli è assegnato lassù [in cielo]”7. Ciò che immediatamente colpisce lo spettatore in questo famoso dipinto non è dunque il riferimento alla passione di Cristo, che richiede un’analisi preliminare per essere indivi-duata, quanto piuttosto l’aria di grandiosità con la quale Dürer si è raffigura-to, che ricorda, come già accennato, le rappresentazioni tradizionali del Sal-

vator Mundi. Tutto ciò è sicuramente indice della grande considerazione che l’artista aveva di se stesso, in virtù anche della notevole abilità artistica or-mai raggiunta, per la quale riceveva già da qualche tempo le lodi dei con-temporanei, soprattutto degli umanisti, che lo consideravano il “nuovo Apel-le”. Oltre al rapporto con il Gesù della passione, e dunque con l’umanità di Cri-sto, è qui presente un’altra identificazione, se vogliamo ancora più ardita,

7 F. Anzelewsky, Dürer, Office du Livre, Fribourg (Suisse) 1980, p. 249.

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poiché si rivolge questa volta alla natura divina del Salvatore: si tratta del ri-chiamo alla figura di Dio creatore. E ciò si attua attraverso quella mano in primo piano, così accuratamente dipinta, che Dürer rivolge verso se stesso. Essa ricorda la mano creatrice di Dio, della quale si dice: “La destra del Si-gnore si è alzata, la destra del Signore ha fatto meraviglie” (Sl 118, 16-17). Dürer sembra così asserire: “Con questa mano io mi sono creato, attraverso il potere conferitomi da Dio”. Di nuovo, si ritrova mescolata alla grande au-toconsiderazione che il pittore aveva maturato, anche la fede fiduciosa con la quale egli si abbandonava nelle mani di Dio, non esitando a far derivare da Lui ogni suo bene. Difatti, Dürer ammette esplicitamente che la sua ca-pacità creativa è un dono, gratuitamente ricevuto dal Signore, quando dice: “Si onora Dio quando appare che egli ha dato tale penetrazione (Vernunft) a una creatura in cui è insita quest’arte”8. Ma non è tutto: con quella stessa mano, Dürer indica a se stesso, che si guarda allo specchio e poi sulla tela finita, la persona di Cristo verso la qua-le tende la sua ricerca. La ricerca di Cristo è però in ultima analisi la ricerca di Dio stesso, di cui Cristo ci offre un’immagine sensibile, attraverso la sua Incarnazione. L’adorazione del Volto Santo (del quale in definitiva abbiamo una rappresentazione proprio nell’Autoritratto di Monaco), pratica molto diffusa a quell’epoca, si trasforma così nell’infinita ricerca del volto di Dio da parte dell’uomo, quel volto dal quale traeva la sua forza e la sua vita (piena, immortale) prima della caduta e del peccato9 e del quale l’uomo sen-te un bisogno profondo. Dürer tenta di ritrovare il volto di Dio attraverso il suo stesso volto, immagine a sua volta di quello di Gesù. Così, mentre Gesù, incarnandosi, compie un percorso di “umanizzazione”, l’uomo (e Dürer in particolare) attraverso la sua somiglianza con Gesù, figlio di Dio, riguada-gna la strada della sua divinizzazione, percorrendo a ritroso il cammino compiuto dai Progenitori dopo la perdita della comunione con Dio. “ ‘Im-magine del Dio visibile’, Cristo è l’uomo perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, deformata dal peccato”10. Nell’autoritratto di Dürer è presente forse anche questa prospettiva: il desiderio inconfessabi-le dell’uomo (soprattutto di un uomo che in quanto pittore si sente davvero creatore potente capace di dare la vita) di essere come Dio, di riuscire a si-gillare dentro di sé l’immagine integra del volto di Dio per ottenere o recu-perare un’identità sostanziale con il suo Creatore. Come dice San Giovanni:

8 E. Panofsky, La vita e le opere di Albrecht Dürer, cit. p. 59. 9 Nel libro dei Salmi si legge per esempio “Copri il tuo volto ed essi vengono meno; togli il loro spirito ed essi muoiono, ritornando alla loro polvere” (Sl 104, 29). 10 È questo quanto emerge dal Concilio Vaticano II. Cfr. voce “Gesù Cristo” in Antonio Mistrorigo Vescovo, Guida alfabetica alla Bibbia. Enciclopedia di base per la conoscenza,

la lettura e la preghiera, Piemme, Casale Monferrato (Al) 1995, p. 271.

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2. A. Dürer, Autoritratto ma-

lato, 1507 ca., Kunsthalle, Brema.

3. A. Dürer, Sudario sorretto da due angeli, 1513, Città del Vaticano, Bi-blioteca Apostolica.

“Saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,2). Il volto di Dio, la sua contemplazione, è dunque contemporaneamente sorgente di vita per l’uomo ma anche ciò che lo rende uguale a Lui, è la fonte di luce capace di divinizzare chi la contempla. Se i successi artistici ed umani possono aver contribuito all’identificazione di Dürer con il Salvator Mundi, la malattia e le sofferenze l’hanno probabilmente aiutato ad identificarsi nell’Uomo dei dolori, cioè in colui che ha

sofferto per antonomasia e che, prendendo su di sé tutte le sofferenze del mondo, ha dato anche un senso al patire umano, alle tribolazioni subite dagli innocenti e persino alla morte. Nel disegno noto come Autori-

tratto malato (1507, fig. 2) e nel Sudario

sorretto da due angeli (1513), le ragioni del travaglio di Dürer sono riconducibili all’umor

malinconico, al quale egli era convinto di appartenere. Fin da giovane era infatti soggetto a cefalee, insonnia, depressione (tutti disturbi che fin dai tempi di Ippocrate erano attribuiti all’influsso di Saturno, pianeta dominante il tipo malinconico) e che tuttavia si risolvevano in creatività artistica. Inizialmente

soggetti a Saturno si riteneva fossero individui spiacevoli, portati alla follia, ma anche allo studio solitario; a partire dal XV secolo, grazie all’opera di Marsilio Ficino, il quale si rifaceva ad Aristotele, anche gli artisti passarono dall’influsso di Mercurio a quello di Saturno. Ecco dunque che nell’Autoritratto malato l’artista indica con il dito il punto preciso in cui ha male, ossia il fianco dove ha sede la bile, fonte della sua melanconia. Nel Sudario sorretto da due angeli

(fig. 3), Dürer offre le sue sofferenze a Dio come mezzo di espiazione e di elevazione, morale e spirituale, per essere poi degno di salire effettivamente al Cielo, quando sarà la sua ora. In questo caso, tuttavia, non trova mezzo migliore per esprimere ciò che desidera diventare se non attuando una sosti-

tuzione con il volto di Cristo: è infatti suo il viso che raffigura in una delle

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4. A. Dürer, Autoritratto co-

me Uomo dei dolori, 1522, Brema, Kunsthalle.

reliquie più venerate dalla cristianità, ossia la Veronica. In questo caso, non abbiamo un autoritratto costruito utilizzando elementi idealizzati tipici del volto di Gesù, com’era il caso dell’autoritratto del 1500, ma un’immagine di Cristo che prende a prestito alcuni tratti del viso del pittore11. Anche la por-tata dell’identificazione con la figura di Cristo che entra in gioco qui è molto più forte poiché in questo caso non è un autoritratto che può essere guardato anche come un’immagine di Gesù ma al contrario chiunque si poneva di fronte all’incisione con l’intento di adorare il Volto Santo adorava in defini-tiva Dürer stesso. Con l’Autoritratto di Monaco e con questa incisione, Dürer ribadisce il suo essere simile a Cristo in quanto artista creatore, ma ribadisce anche la sua fiducia nella volontà e nella Provvidenza divina, come aveva già proclamato nell’iscrizione dell’Autoritratto del 1493: “I miei affari seguono il corso che gli è assegnato lassù”, che è come dire “Tutta la mia vita, nel bene e nel ma-le, avrà la direzione che Tu vorrai dargli”. L’Autoritratto come Uomo dei dolori (1522, fig. 4) è invece segno di una ben diversa sofferenza, poiché a quella data non era più la melanconia ciò che lo tormentava, bensì la malaria, contratta alla fine del 1520 in una paludosa zona della Zelanda. Com’è diverso questo corpo infiacchito, dalle spalle ricurve e dai capelli scarmigliati, rispetto all’immagine che Dürer aveva offerto di sé vent’anni prima! Eppure siamo di fronte ai due volti dello stesso uomo o, che è lo stesso in questo caso, all’altra faccia dello stesso Dio, ossia a quell’evento che è presupposto dall’immagine del Salvator Mundi. Raffigurandosi come Uomo dei dolori, cioè come Gesù che si prepara a prendere su di sé tutto il male del mondo, Dürer fa del suo volto il correlativo oggettivo di uno stato fisico e psicologico che non è più soltanto suo ma che appartiene ad ogni uomo: attraverso i segni che la malattia imprime sul suo corpo egli ci parla del male che ogni individuo sperimenta nel corso della sua esistenza. Questa scelta non è segno di una inguaribile mania di gran-dezza dell’artista tedesco, ma rientra piuttosto nell’ottica della Riforma. Lu-tero, infatti, esortava i Cristiani a seguire Cristo “attraverso le pene, le mor-

11 Vedi anche quanto afferma B. Fricke nella scheda relativa al Sudario sorretto da due an-

geli in G. Morello e G. Wolf, Il volto di Cristo, Electa, Milano 2000.

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5. J. F. Millet, Autoritratto

in veste di Cristo coronato

di spine, 1847, Cherbourg, Museée Thomas Henry

tificazioni e gli inferni”12. Dürer affronta il suo personale calvario, accettan-do il dolore e la sofferenza che furono del Maestro per percorrere con Lui e per mezzo di Lui la strada della Salvezza.

Con Jean-François Millet (1814-1875) sembra di essere ancora nell’orizzonte dell’Imitatio Christi. Nel 1847 egli eseguì infatti un disegno, noto come Autoritratto in veste di Cristo coronato di spine

(fig. 5), che molto ha in comune sia con l’Autoritratto di Monaco sia con l’Uomo dei

dolori. Il disegno non è altro che una Veronica, il volto di un uomo che si appresta a sostenere il proprio martirio. A quella data il pittore francese aveva già da qualche tempo coraggiosamente rinunciato all’agiatezza e ai piccoli onori che poteva offrirgli la carriera di ritrattista della classe borghese, avviata nella cittadina di Cherbourg, per dedicarsi alla sua vera vocazione, quei soggetti pastorali che poi

lo renderanno celebre, ma che per il momento era molto difficile vendere. La sua situazione economica era divenuta improvvisamente precaria, dopo che il matrimonio, contratto nel 1841 con Pauline Ono, gli aveva invece spalancato le porte del benessere. Alle difficoltà economiche e artistiche si aggiunsero anche quelle morali, giacché Millet aveva iniziato nel 1845, alla morte della moglie, una relazione con una giovane cameriera, Catherine Lemarie, con la quale visse tutta la vita, sposandola solo in punto di morte. Il legame era malvisto dalla sua famiglia d’origine, con la quale l’artista in-terruppe ogni rapporto, e probabilmente anche dai parenti di Pauline, tanto che egli fu costretto a trasferirsi a Le Havre. Se le difficoltà non accennava-no a diminuire, la famiglia Millet cresceva invece di numero, grazie alla na-scita della seconda figlia proprio nel 1847. Prostrato dalle tante vicissitudini che avevano così radicalmente trasformato la sua vita, Millet, negli anni più bui della sua esistenza, si rivolge al Cristo coronato di spine, al giusto che sopporta un’iniqua condanna per il riscatto di molti, cercando di trovare nelle sue tribolazioni uno specchio delle pro- 12 Dalla tesi XCIV di Martin Lutero citata in Julia Kristeva, Sole nero: depressione e me-

lanconia, trad. it. Feltrinelli, Milano 1988, p. 105.

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prie e nel contempo un mezzo per accettarle, facendosi forza per andare a-vanti. Come Gesù nell’Orto degli Ulivi, accetta di sua volontà d’immolarsi per tutti gli uomini, superando la tentazione di fuggire di fronte al suo desti-no, così anche Millet sente di essere votato ad un sacrificio sublime e decide di percorrere fino in fondo la sua personale via crucis, sorretto unicamente dalla sua volontà. Il suo martirio, pur non essendo sostenuta per il beneficio dell’umanità intera, possiede comunque un grandissimo valore agli occhi dell’artista, che segue le proprie convinzioni più profonde, sapendo di trac-ciare un cammino anche per le generazioni future di artisti, allo stesso modo in cui Gesù si è fatto carico delle colpe di tutti gli uomini. L’artista francese, però, a differenza di Dürer, può accusare qualcuno delle condizioni in cui versa e difatti, nel suo autoritratto, dischiude le labbra, quasi a pronunciare un fatidico “Perché?” non solo verso i critici e i mercan-ti d’arte che lo affamavano, insensibili persino di fronte alla sorte che toc-cherà alle sue creature, ma anche verso i suoi parenti. A giocare un peso in quest’identificazione con il Cristo è stato probabilmente anche il fatto di a-vere avuto in quel periodo la stessa età di Gesù al momento della morte. A trentatre anni entrambi avevano affrontato l’incomprensione di coloro che erano riconosciuti come i detentori del sapere (i dottori della legge per Gesù, i critici d’arte per Millet) e il tradimento (degli amici e seguaci nel caso di Gesù, dei parenti più stretti per Millet). Il pittore di Gruchy era inoltre uno spirito profondamente religioso e il fatto di trovare delle similitudini tra la propria vita e quella del Salvatore gli sarà stato senz’altro di qualche confor-to. Fin da ragazzo, infatti, aveva ricevuto una solida educazione religiosa, leggeva le sacre scritture assieme alla nonna e per tutta la vita continuò a commentare le difficoltà incontrate citando un versetto dalla Genesi: “Con il sudore della tua fronte mangerai il pane” (Gn 3,19). È probabile che dietro l’Autoritratto in veste di Cristo stia anche un’altra motivazione. Per lui erano difatti anni di trasformazione in tutti i campi (fa-migliare, sociale, economico ma anche stilistico e tematico) ed è impossibile credere che tutto questo non gli provocasse anche profondi turbamenti psi-cologici, capaci di rimettere in discussione il suo stesso senso di identità. Un’identità che egli aveva cercato di cogliere e fissare anche attraverso i va-ri autoritratti eseguiti fin lì13., e pure per mezzo di quest’opera tanto singola-re. Quando alla fine, dopo il trasferimento definitivo a Barbizon nel 1849, Millet troverà la propria strada, rinuncerà completamente ad autorappresen- 13 Millet aveva eseguito un autoritratto a pastello nel 1835-36, un altro nel 1840 ca. e un al-tro ancora nel ’41, in atteggiamento da compiaciuto borghese. Poi, nel 1847-48 ca. erano venuti i ritratti nei quali si presentava come un bohémien o un contadino, rivendicando or-gogliosamente le proprie origini dalle quali aveva cercato di staccarsi. Cfr. Lucien Lepoit-tevin, Jean-François Millet Portraitiste. Essai et catalogue, Léonce Laget, Paris 1971.

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6. P. Gauguin, Autoritratto col Cristo

giallo, 1889, Saint-Germain-en-Laye, collezione della famiglia Maurice De-nis.

tarsi, segno forse che ormai la sua identità era solidamente costruita e non aveva più bisogno di essere ripensata e tanto meno di venire messa comple-tamente in discussione.

Diversi da quelli di Dürer e di Millet sono gli intenti di Paul Gauguin (1848-1903) quando si rivolge alla figura di Gesù nei suoi autoritratti. Le identifi-cazioni con Cristo sono attuate da Gauguin principalmente all’interno del gioco delle identità che stava elaborando in quegli anni, e soprattutto sul finire del nono decennio: ciò che gli interessava maggiormente era riuscire a fornire di sé l’immagine di una natura complessa e composita, capace anche di giustificare la sua produzione arti-stica, che sapientemente mescolava stili di epoche e paesi lontani: il Giappone, Panama, la Cambogia, la Bretagna, il Perù ed infine Tahiti. Significativi al riguardo sono tre lavori, uno dei quali è particolarmente illuminante. Si tratta dell’Autoritratto

col Cristo giallo (1889-90, fig. 6). Qui, accanto all’identità di “Gauguin il selvaggio”, discendente dagli antichi inca, simboleggiata dal vaso di terra-cotta a destra, ne mise in risalto altre due: quella dell’uomo europeo civiliz-zato, ossia ciò che egli era stato fin lì14, rappresentata dal suo autoritratto in primo piano, e quella del Cristo, costituita appunto dal Cristo giallo. Ne risultava una sorta di trittico, al cui vero significato poteva accedere solo chi conoscesse il senso profondo delle altre due opere raffigurate. Se per qualificarsi come “selvaggio” Gauguin aveva fatto ricorso al periodo trascorso in Perù con la famiglia quand’era bambino (dal 1849 al 1855), alla sua identificazione con Cristo contribuirono invece le idee di Vincent van Gogh sulla figura e il ruolo dell’artista, che i due pittori ebbero modo di condividere durante il soggiorno ad Arles di Gauguin. Nelle convinzioni di Vincent, come Gesù era il Seminatore della Parola, così l’artista seminava le

14 “Devi ricordarti che ci sono due nature in me, l’indiano e la sensitiva. La sensitiva è scomparsa, il che permette all’indiano di camminare dritto e fermo.” Lettera alla moglie del febbraio 1888 in Paul Gauguin, Lettere alla moglie e agli amici, trad. it. Longanesi & C., Milano 1984, p. 108.

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7. P. Gauguin, Cristo nell’Orto degli

ulivi, 1889, West Palm Beach, Flor-ida, Norton Museum of Art.

proprie opere “nel campo dell’opinione pubblica”15, mentre viceversa Cristo era stato, per l’esemplarità della sua vita, un artista esistenziale, che non la-vorava con marmo o argilla ma con la carne viva16. Di questa concezione re-ligiosa dell’arte si ritrova una consonanza nelle parole dello stesso Gauguin, quando dice: “L’arte è un’astrazione, cavatela dalla natura sognandovi davanti e pensate alla creazione che verrà, è il solo mezzo per salire verso Dio facendo come il nostro Divin Maestro, creando”17. In questa lettera, scritta prima della partenza per Arles ma nella quale sono già evidenti le suggestioni ricevute da Vincent, fors’anche per via epistolare, si nota come anche per Gauguin l’arte diven-tasse una sorta di scala capace di condurre chi la pratica verso l’infinito, quell’infinito del quale il seminatore e i covoni per Van Gogh erano il sim-bolo e che Gauguin riecheggerà nel colore giallo del suo Cristo. Per Vincent l’arte richiedeva una dedizione assoluta e, pur procurando sof-ferenza e incomprensione, era dotata di un fine consolatorio. La massima che meglio corrispondeva a questa visione era una frase di San Paolo: “Af-flitto ma sempre lieto”. Gauguin, confessando a Schuffenecker che passa se-renamente di sventura in sventura e paragonando le proprie vicissitudini ad un “duro calvario”18, fa propria questa visione, sulla quale si appoggerà con convinzione negli anni successivi. Oltre all’influsso di Van Gogh, fondamentale per la realizzazione di questi autoritratti in veste di Cristo fu anche l’esperienza vissuta da Gauguin a Pont-Aven nei due soggiorni del 1886 e del 1888, durante i quali divenne pian piano un punto di riferimento e una guida per tutti gli artisti che vi sog-

15 Vincent a Van Rappard, Lettera del 21 marzo 1883, citata in D. W. Druick e P. K. Ze-gers, Van Gogh e Gauguin. Lo studio del Sud, trad. it. Electa, Milano 2002, p. 31. Catalogo della mostra al The Art Institute di Chicago e al van Gogh Museum di Amsterdam del 2002. 16 Lettera a Bernard della fine di giugno del 1888, citato in P. Junod, (Auto)portrait de

l’artist en Christ, in Erika Billeter e Michel Tournier (a cura di) Das Selbstportrait in Zei-

talter der Photographie. Maler und Photographen im dialog mit sich selbst, Württember-gischer Kunstverein, Stuttgard 1985 p.66 17 Lettera a Schuffenecker del 14 agosto del 1888 trad. it. in Paul Gauguin, Lettere alla mo-

glie cit. p. 116. 18 Lettera a Schuffenecker del 16 novembre 1889, ivi p. 155.

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8. P. Gauguin, Autoritratto o Presso il Golgota, 1896, Sao Paulo, Museo de Arte.

giornavano, che ricorrevano a lui per ricevere aiuto e consigli19. Questa pri-ma esperienza venne poi ripetuta, benché in forma diversa, nel soggiorno a Le Pouldu, nei primi mesi del 1889. Fu in questo secondo periodo che Gau-guin realizzò il Cristo nell’Orto degli ulivi (1889, fig. 7). Egli aveva finito per sovrapporre a se stesso divenuto capo di una piccola accolita di artisti, l’immagine di un altro grande Maestro: Gesù, capo e guida degli apostoli. Questa identificazione gli dava modo anche di valorizzare le sofferenze so-stenute fin lì in nome dell’arte, oltre che di vedere in esse il segno della glo-ria futura, quando la sua opera sarebbe finalmente stata compresa. Meno ostentata è invece l’identificazione con Gesù di un autoritratto del pe-riodo tahitiano, noto come Presso il Golgota (1896, fig. 8): vestito con una lunga tunica, probabilmente un camice d’ospedale20, e con i capelli più lun-ghi del reale, Gauguin, immerso nelle tenebre, fissa negli occhi l’osservatore. Se nel Cristo nell’Orto lo sguardo abbassato sottolineava la rassegnazione di chi si compiaceva di essere riconosciuto come un martire della fede nell’arte, l’atteggiamento di questo lavoro è ben diverso. Lo

sguardo sicuro diventa un atto d’accusa rivolto non solo alla società francese del tempo, che aveva disprezzato il suo profeta, ma a tutti gli uomini, anche a quelli che in un prossimo futuro fossero stati incapaci di riconoscere il valore del suo messaggio artistico. Gauguin è come il Cristo che muore, nell’abbandono più completo, per le colpe commesse da tutti gli uomini, anche da quelli non ancora nati. Gauguin stesso affermerà, circa tre anni dopo Presso il Golgota: “Questa spaventosa società che fa trionfare i piccoli a spese dei grandi e che pure dobbiamo sopportare – questo è il nostro calvario”21.

Con tali autoritratti Paul Gauguin rubava però

19 “Io qui lavoro molto e con successo; mi si rispetta come il pittore più in gamba di Pont-Aven” Lettera alla moglie del luglio 1886, ivi p. 80. 20 A causa della sifilide e di problemi cardiaci, l’artista fu ricoverato a più riprese in ospeda-le. Gauguin attraversò, proprio nel 1896, uno dei periodi più duri della sua esistenza. Ripar-tito per Tahiti senza ricevere il saluto di nessuno dei vecchi amici e senza che alcuno i pro-digasse, come in precedenza, per aiutarlo a racimolare il denaro necessario, Gauguin lasciò la Francia amareggiato e ferito, non solo nello spirito. 21 Citato in I. F. Walther, Paul Gauguin. Quadri di un drop-out, trad. it. Taschen, Köln 2001, p. 68.

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un’identificazione che era molto cara a Van Gogh (1853-1890): quella con Gesù artista e creatore. Quest’identificazione e anche l’idea dell’imitazione di Cristo che Vincent perseguì, più o meno coscientemente, per tutta la vita, aveva probabilmente radici nell’intensa educazione religiosa ricevuta dalla famiglia fin dalla fanciullezza22. La dottrina di Tommaso da Kempis era in-fatti stata riscoperta dalla scuola di Groningen, movimento riformista del Calvinismo olandese sorto nell’ottocento e di cui la famiglia Van Gogh fa-ceva parte. Vincent aveva inizialmente cercato di percorrere la carriera di pastore e predicatore, volendo diventare un vero seminatore della parola, come il padre, ma soprattutto come Gesù. Alla figura di Gesù seminatore era particolarmente legato ed essa compariva anche nel suo primo sermone. Come già accennato, ad essa continuerà a rifarsi anche quando, allontanatosi dalla fede, paragonerà il lavoro artistico a una semente gettata “nel campo dell’opinione pubblica”. Significativa al riguardo è la costanza con la quale affronterà il tema del seminatore in pittura, attraverso le copie da Millet e poi in opere del tutto personali, segno probabilmente dell’incapacità di af-frontare direttamente il soggetto tanto agognato, che finiva sempre per esse-re rappresentato attraverso simboli e immagini spostate. Vincent infatti non raffigurerà mai Gesù nella sue opere, eccetto che nella Pietà da Delacroix, dove ancora una volta la copia dai maestri gli offriva l’opportunità per rea-lizzare, senza sensi di colpa, la figura di quel Dio con il quale non aveva mai smesso di rapportarsi, pur avendo da tempo con Lui un rapporto conflittuale, simile a quello che s’era creato con suo padre. Nel luglio del 1888 aveva tentato di superare il suo blocco, realizzando un Cristo nell’Orto, subito grattato perché, diceva, “non bisogna fare figure di quest’impegno senza modello”23. Reagendo in un certo senso al fallimento della sua aspirazione di divenire pittore, Van Gogh traspose nell’arte quella concezione missionaria, votata al sacrificio completo di sé, ch’egli aveva già profuso nel suo modo di fare il predicatore, soprattutto nel Borinage. Nel corso di tutta la sua vita, Van Gogh cercherà dunque sempre di fuggire la tentazione di dare forma concre-ta alla sua identificazione con Gesù, come invece aveva fatto Gauguin nei suoi autoritratti. Solo la malattia riuscirà a sollevare il velo del diniego, sve-lando le intenzioni profonde dell’artista olandese. Nella Pietà (da Delacroix) (settembre 1889, fig. 9), Van Gogh traspone così a livello artistico un bisogno esistenziale. Qui Cristo hai tratti di Vincent: 22 È noto come sia il padre, Theodorus van Gogh, che lo zio materno, Johannes Stricker, fossero pastori protestanti. Lo zio aveva anche compendiato la versione modernizzata della Imitatione Christi di Tommaso da Kempis. 23 Lettera a Theo del luglio 1888, citata in Druick e Zegers, Van Gogh e Gauguin cit. p. 125.

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9. V. van Gogh, Pietà (da De-

lacroix), settembre 1889, Am-sterdam, Van Gogh Museum.

naso aquilino (assente nell’incisione da cui è tratta la copia), capelli e barba fulvi. E’ il Cristo che è stato appena deposto dalla croce, ucciso da atroci tormenti, come Vincent è ormai spossato dalle continue crisi. L’ultima, del luglio 1889 l’aveva lasciato senza forze e con la ragione molto indebolita per tutto il mese. La somiglianza che egli da sempre sentiva con Gesù si era fatta ora, nel tempo della malattia e del dolore, ancora pi forte. E così Van Gogh si sentiva come Cristo non solo in quanto artista creatore, o per la dedizione con la quale affronta la sua arte, ma anche e soprattutto per le sofferenze spirituali che travagliavano la sua esistenza. La fatica di vivere, la spossatezza che lo coglieva dopo le crisi, gli ricordavano probabilmente quelle che Gesù sperimentò sul suo corpo, durante la flagellazione la salita al calvario. Dando forma a ciò che provava attraverso le sue opere, Vincent tentava anche di darsi un po’ di sollievo con gli unici strumenti che erano in suo possesso: i pennelli e la tela. Secondo le sue stesse parole, questo è lo scopo delle copie dai maestri eseguite nei mesi successivi alla crisi di luglio:

Ebbene – io, soprattutto ora che sono ammalato, cerco di fare qualcosa che mi sollevi, per mio piacere. […] Un sacco di gente non copia, un sacco d’altra gente copia – io mi ci sono messo per caso e trovo che si impara e che talvolta ci si consola. Inoltre in quei momenti il pennello scorre fra le mie dita come fosse un archetto su un violino ed esclusivamente per il mio piacere.24

L’unica medicina che risultasse realmente efficace era l’arte: se produrre la-vori originali e che gli davano particolare soddisfazione generava spesso violente crisi, le copie dai maestri, al contrario, lo aiutavano. La “consola-zione” di cui parla nasceva fors’anche dal fatto che queste copie richiedeva-no da parte sua un minor dispendio psichico, al posto dello sfiancante lavoro di ricerca sulla composizione, il soggetto e i colori che è sempre sotteso ad un’opera d’arte, in particolare ad opere così innovative come erano, pro-

24 Lettera a Theo del 19 settembre 1889 citata in S. Frezzotti (a cura di), Vincent Van Gogh, Arnoldo Mondadori - De Luca editore, Milano-Roma 1988, p. 242. Catalogo della mostra su Van Gogh tenuta a Roma nel 1988. Corsivi miei.

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10. V. van Gogh, La resurrezione di

Lazzaro (da Rembrandt), maggio 1890, Amsterdam, Van Gogh Museum.

grammaticamente, quelle di Vincent. Egli desiderava creare qualcosa di nuovo ed è naturale che in tale sforzo le sue forze ne uscissero logorate. I suoi lavori erano anche qualcosa di più, poiché gli offrivano il modo di comunicare agli altri ciò che provava: il dolore, le inquietudini, le speranze di guarigione. Se nelle lettere tendeva sempre a minimizzare la gravità del suo stato di salute, oppure ne parlava con distacco, quasi che il fatto riguar-dasse un altro, i suoi dipinti riescono a trasmetterci ancora adesso con una schiettezza sorprendente, le emozioni e i turbamenti di un’anima travagliata. È il caso della Resurrezione di Lazzaro (maggio 1890, fig. 10), tratta da

un’acquaforte di Rembrandt. Esegui-ta di nuovo dopo una crisi, quella del febbraio 1890, ci presenta senza mezzi termini quale era lo stato reale in cui versava in quel periodo Van Gogh. Attraverso la versione ridotta che ne dà, infatti, il soggetto si trasforma: non c’è più una resurrezione ma un compianto su Cristo, in cui le Pie donne hanno i volti di Mme Ginoux e Mme Roulin, due persone con le quali aveva avuto rapporti di cordiale amicizia, nella solitudine in cui conduceva la sua

vita ad Arles, lontano dalla famiglia. Con la Resurrezione di Lazzaro Vincent sembra ammettere la propria scon-fitta, avendo ormai perduto ogni speranza di poter realmente guarire, e nello stesso tempo prepararsi ad una fine imminente, che di fatto si concretizzerà solo due mesi dopo. Raffigurandosi disteso nel sepolcro, Van Gogh è co-stretto a fare i conti con quell’immagine e ad accettarla, identificandosi con l’uomo che giace nella tomba, vale a dire con un cadavere, con tutto ciò che questo comporta a livello psichico. Certo, è possibile vedere nel dipinto an-che un tentativo di esorcizzare la morte, come a dire “Io sono già morto, non devo temere più nulla”. Un modo, insomma, per esercitare un qualche genere di dominio proprio su ciò che in quel momento sfuggiva di più al controllo di Vincent, ossia la sua malattia. Forse egli si uccide nella finzione pittorica per morire una volta per tutte alla propria malattia, e risorgere, sa-no, nel mondo reale. Non si tratterebbe allora di una scelta volontaria, quan-to piuttosto di un gesto fondato sull’inconscia credenza nella magia delle immagini, le quali da sempre hanno avuto il potere di far credere agli uomi-ni nella realtà sostanziale di ciò che viene rappresentato, generando la con-vinzione che la raffigurazione possa esercitare anche un qualche influsso sul

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mondo reale. La credenza nella magia dell’immagine, come spiegavano Kris e Kurz nel loro celebre lavoro, non scompare nella civiltà contemporanea e dunque può essere all’opera anche nel dipinto di Van Gogh. Il sepolcro e la morte possono però assumere in se stessi il valore di una li-berazione: come per Gesù i tormenti e le tribolazioni patiti a causa dei suoi persecutori cessarono solo nel sepolcro, così anche per Vincent il male che lo affligge sembra potersi acquietare solo con la tomba. Sembra proprio questo il pensiero che Van Gogh concretizza con il suo dipinto: un disperato bisogno di quiete, proprio come disperato è il grido di Mme Roulin-Pia donna, china sul corpo già scheletrico del Cristo-Vincent e come priva di speranza è l’intera scena. Solo due mesi dopo questo suicidio pittorico se-guirà quello reale e per questo l’opera diventa quasi una dichiarazione d’intenti, l’urlo sgomento di un uomo che non sa più come liberarsi di se stesso, di quel doppio malato sul quale non ha alcun dominio e che è dive-nuto come un estraneo. Ciò che muore sulla tela e quello che Van Gogh vo-leva uccidere quel giorno di luglio sono forse la stessa entità, ossia l’Altro che dimorava nel suo corpo.

Diverso rispetto a quelli visti fin qui è il caso di Jacek Malczewski (1854-1929), pittore simbolista, il maggior rappresentante della pittura polacca di fine ottocento. La sua produzione di autoritratti presenta diversi esempi d’identificazioni con il Cristo, colto in vari momenti della sua vita terrena, e dunque non solo nelle tappe salienti della passione. Eppure, anche quando il tema è Cristo di fronte a Pilato, il Gesù di Malczewski non ha la gravità dolente degli Ecce Homo della tradizione, né il patetismo di quelli di Gau-guin. L’intento di Malczewski non era probabilmente quello di rendere par-tecipe gli altri delle proprie sofferenze e per questo si sente libero di dedi-carsi piuttosto alla rappresentazione di altri passi del Vangelo. Così egli rea-lizza un Cristo e la Samaritana25 (1912, fig. 11), nel quale raffigura se stes-so nei panni di Gesù e la donna amata, Maria Balowa, in quelli della Sama-ritana. In questo modo il tema sacro di Cristo che parla alla donna della Sa-mara dell’acqua che toglie per sempre la sete, cioè della venuta dello Spirito Santo, si trasforma in un colloquio amoroso e l’acqua che Cristo chiede alla Samaritana diviene la richiesta di una rispondenza sentimenti da parte di un uomo che sta dando (offrendo) in pegno tutto se stesso alla persona amata. Ciò che egli le offre è molto di più di quello che chiede. “Chi beve dell’acqua che io gli darò non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna.” (Gv 4,14):

25 Ne aveva dipinti altri due, uno nel 1905 e un altro nel 1908.

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11. J. Malczewski, Cristo e la

Samaritana, 1912, Lviv (Ucrai-na), Galleria d’Arte.

le parole di Gesù diventano quelle dell’artista polacco, poiché il suo amore incondizionato ed eterno è il solo capace di appagare per sempre la sete di amore di Maria Balowa. L’amore che egli le darà sarà infatti così completo ch’ella non proverà mai più il bisogno di cercarne altrove, ciò perché il sentimento che muove Malczewski verso di lei è talmente grande da non esaurirsi mai: anzi, esso si moltiplicherà nel suo cuore, divenendo così sorgente che zampilla per la vita eterna. Che le parole del Cristo-Malczewski abbia-no colpito nel segno lo attesta il fatto che la Samaritana-Balowa è così presa dal collo-quio con lui da non importarle più di attinge-

re quell’acqua che le darà di nuovo sete: difatti, ella se ne sta rapita a fissare l’uomo accanto a lei, la brocca vuota posata distrattamente in grembo. La scelta di sfruttare un importante passo evangelico per parlare di una relazio-ne tutt’altro che spirituale tra un uomo e una donna può sembrare un po’ in-solente. Eppure, Malczewski non è il solo ad adottare una simile prospetti-va. Come ha notato Nissan Perez, diversi brani della vita di Gesù hanno sti-molato, anche in passato, interpretazioni erotiche, spesso persino in chiave omosessuale piuttosto che etero26, facendo così di Gesù un Salvatore secon-do al carne capace di liberarli dai loro terreni tormenti. L’ottica di Malcze-wski è però duplice: se da un lato umanizza il messaggio di Gesù, erotiz-zandolo, dall’altro eleva, spiritualizzandolo, il suo amore per Maria Balowa, attribuendogli così, al contempo, il potere di sublimare l’essere umano che vi si doni completamente. In altri autoritratti, il riferimento a Cristo ha invece l’intento di trasmettere messaggi politici e in special modo patriottici. Nel Tributo a Cesare (1908, fig. 12) ecco Malczewski calato nei panni di Gesù mentre risponde ai dottori della legge, venuti a metterlo alla prova, “Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (Mt 22,21). Per comprendere piena-mente il senso di questo dipinto bisogna riferirlo alla situazione polacca di quegli anni. Dopo il trattato di Pietroburgo del 1773, la Polonia era stata

26 In quest’ottica può essere visto il divieto di toccarlo rivolto da Gesù alla Maddalena nel Noli me tangere e al contrario l’invito rivolto a Tommaso di mettere la mano nella ferita sul costato. Cfr. N. N. Perez, Corpus Christi Les Rprésentations du Christ en photographie:

1855-2002, Jérusalem-Paris, Marval 2002, p. 26.

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12. J. Malczewski, Il tri-

buto a Cesare, 1908, Po-zna!, Muzeum Narodo-we.

spartita tra Austria, Prussia e Russia e il Congresso di Vienna aveva sancito di fatto questa situazione. Nonostante i ripetuti sollevamenti patriottici, l’unità nazionale fu riconquistata solo nel 1918, dopo la contemporanea caduta delle tre potenze straniere. Pertanto la Polonia era, nel 1908, uno stato occupato. Gli individui che attorniano Malczewski nella sua opera potrebbero così essere interpretati come simbolo dei connazionali del pittore, che vogliono provare la sua fedeltà alla patria, come fecero i farisei con Gesù; oppure come emissari del regime al potere, e in questo caso il loro intento sarebbe quello di verificare se Malczewski, autore di arcani dipinti simbolici, sia in realtà un pericoloso sovvertitore. La risposta di Gesù, tra-dotta in termini moderni, sulle labbra del pittore polacco diventerebbe allora “Date all’invasore ciò che gli appartiene, ma alla Polonia cioè che è della Polonia, cioè la sua sovranità nazionale”. Ciò significa che Malczewski ri-conosce al governo i diritti che gli appartengono a proposito dell’amministrazione del Paese, ma allo stesso tempo non nasconde la pro-pria convinzione che la Polonia debba tornare libera. Anzi, calandosi nei panni di Gesù, giunge ad affermarlo con grande perentorietà, velata ma non cancellata dal travestimento adottato. L’agognata libertà si concretizzerà infine nel 1918 e di essa darà testimo-nianza con la Profezia di Ezechiele (1919), dove vestirà i panni del profeta biblico per annunciare al paese l’avvenuta liberazione, secondo quanto Dio aveva promesso: “Vi darò il mio spirito e vivrete, vi farò stare tranquilli nel vostro paese”27, “un solo re regnerà su tutti; non saranno più due popoli, non si divideranno più in due regni”28. Malczewski, indicando alla Polonia quale sarà il suo futuro, le ricorda al contempo quanta divisione, lotte e sopraffa-zioni le siano costate la sua attuale indipendenza; così, la profezia di Eze-chiele si trasforma in un monito perché i polacchi conservino con tutte le lo-ro forze il traguardo conquistato con lacrime e sangue, per non essere mai più servi di un dominio straniero.

27 Ez 37, 14 28 Ez 37, 22

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Alterità e morte nella fotografia

Gli autoritratti in vesti sacre sono un terreno particolarmente fertile per chi utilizza il mezzo fotografico. Fin dalla sua nascita, infatti, la fotografia ha sottolineato il gusto per il travestimento di chi ne fa uso, il piacere di na-scondersi piuttosto che di svelarsi29. Per usare le parole di Disdéri, l’autore della Carte-de-visite, “il modello, anziché definire la propria rassomiglian-za, cerca di assomigliare a qualcun altro”30. Questa caratteristica si accom-pagna però sempre, inscindibilmente, ad un’altra: difatti la fotografia, nel momento in cui permette di diventare un altro individuo, mentendo sulla propria identità, consente anche di dare credibilità alla nuova identità assun-ta: essa è nello stesso tempo bugiarda e autentica, inattendibile e obiettiva. Infatti, grazie al meccanismo particolare della genesi di ogni immagine fo-tografica, il quale prevede obbligatoriamente che il soggetto sia stato davve-ro di fronte all’obbiettivo per poter essere raffigurato, la fotografia afferma prepotentemente che ciò che vediamo è esistito davvero, nel mondo reale. In essa, falsità e verità divengono indiscernibili e su questo hanno spesso gio-cato molti fotografi, dando vita a personaggi, oggetti e situazioni i quali, per il solo fatto di essere impressi su di una pellicola fotografica pretendono di essere reali31. Nel mezzo fotografico è però insito anche un importante rapporto con il sa-cro, legato addirittura alla sua stessa genesi: mi riferisco al legame con la Sacra Sindone. Questa può infatti essere considerata come il primo negativo della storia: impronta di un corpo umano ottenuta per impressione su di un telo di lino32. Così, quasi come in un rito iniziatico, l’artista che si accinge ad utilizzare l’apparecchio fotografico è in un certo senso spinto a misurarsi direttamente con il lenzuolo sacro almeno una volta nella vita, mettendo in scena direttamente se stesso, proprio come Gesù che sulla Sindone ci lasciò il suo autoritratto. Ma questa messa in scena altro non è che quella di un in-dividuo morto: la vita della fotografia inizia con la raffigurazione della mor-te e questo sarà per lei un marchio incancellabile33. In un certo senso po-

29 È quanto nota Stefano Ferrari, Lo specchio dell’Io. Autoritratto e psicologia, Laterza, Ba-ri-Roma 2002, p. 142. 30 Cit. in F. Alinovi e C. Marra, La fotografia. illusione o rivelazione?, Il Mulino, Bologna 1981, p. 20. 31 Penso per esempio al famoso falso del mostro di Loch Ness o ai tanti travestimenti di Marcel Duchamp. 32 Illuminante è un’affermazione, citata da Perez, del dott. Pierre Barbet il quale, nel suo li-bro Les Cinques plaies du Christ, dice “Noi siamo in possesso della fotografia del cadavere di Gesù” con un candore e una sicurezza stupefacenti. Cfr. Perez, Corpus Christi cit. p. 15. Traduzione e corsivo miei. 33 Quante volte la fotografia viene usata, nel passato come nel presente, per ritrarre i cada-veri: dagli esempi, più antichi in cui si fotografava qualcuno appena deceduto per conser-

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13. Salvo, Benedizione di Lu-

cerna, 1970/75, Berlino, Col-lezione Paul Maenz.

tremmo dire che la pittura sta alla vita come la fotografia sta alla morte. La prima, infatti ha il potere di rendere presenti gli assenti e vivi coloro che so-no morti, secondo l’ottica dello stesso Leon Battista Alberti, mentre la foto-grafia, grazie alla sua capacità di catturare un istante di vita, lo eternizza, pietrificandolo e uccidendolo. Come un processo di mummificazione, essa salva dalla scomparsa ciò che è fragile solo a patto di bloccarlo per sempre, succhiandogli via la linfa vitale come fa un ragno con la sua preda. In fotografia, in virtù del potere di attestazione di realtà tipico del mezzo, l’artista, rappresentandosi come Gesù, rivendica più o meno consapevol-mente per se stesso l’identità del Salvatore: così, il volto di Gesù fattosi uo-mo, che noi possiamo finalmente vedere sulla carta impressionata, non è più un viso d’invenzione, nato dalla fantasia di un pittore, ma è effettivamente quello del Figlio di Dio, ossia quello del fotografo che così si è rappresenta-to. Non si tratta semplicemente di un delirio di onnipotenza, quanto piuttosto del bisogno dell’uomo di confrontarsi con un modello di riferimento, un e-roe mitico o un idolo. Tutti gli uomini prendono infatti qualcuno a modello nel corso della loro vita: i genitori, un amico, un personaggio importante del mondo dello spettacolo, della politica, della scienza o anche un personaggio letterario. Si tratta sempre di individui che, per qualche aspetto del loro

comportamento o della loro vita, appaiono superiori agli altri, eccezionali, nel senso letterale del termine. Come non considerare allora l’eccezionalità della vita e della morte di Gesù Cristo.

Per quanto riguarda l’aspetto più ludico del mezzo fotografico, il suo gusto per la trasfor-mazione e il cambiamento d’identità, piuttosto interessanti sono gli esiti di due artisti contemporanei: l’italiano Salvo e la fotografa giamaicana Renee Cox.

Nei primi anni ’70 Salvo realizzò una serie fotografica di particolare interesse, nota come Le benedizioni di Lucerna (fig. 13). In esse l’artista compare con un abbigliamento

moderno che di per sé non suggerisce nulla suggerisce sull’identità che si è

varne l’estremo ricordo, alle foto di guerra o di esecuzioni capitali, fino ad arrivare al cada-vere coperto da un lenzuolo dei delitti di cronaca nera o delle stragi del sabato sera.

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attribuito. Sono invece la mano destra levata in un distratto gesto di benedi-zione e una sottile aureola che gli circonda il capo a dirci che si tratta di Cri-sto. Tutto ciò non è però sufficiente per cancellare l’impressione che si tratti di una messinscena in bilico tra lo scherzo e la parodia, perché mentre bene-dice questo singolare Cristo tiene l’altra mano in tasca, oppure regge una si-garetta. Ciò che stona non è tanto l’abbigliamento contemporaneo (difatti anche Gesù vestiva con gli abiti della sua epoca e se rinascesse un’altra vol-ta sarebbero quelli gli indumenti che indosserebbe), quanto piuttosto il fatto che l’immagine di quello che dovrebbe essere il Cristo non concorda con ciò che sappiamo di lui. L’uscita da quella consolidata tradizione iconografica sottesa alle immagini sacre, infatti, genera forti resistenze da parte dell’osservatore: così, fatichiamo ad accettare un Cristo così moderno e così poco compreso del suo ruolo. Per comprendere le Benedizioni di Lucerna bisogna tenere presente che Sal-vo ha realizzato altre opere che presentano simili meccanismi di fondo. Esi-stono infatti un Autoritratto (come Raffaello), un fotomontaggio come Cac-

ciatore, ma anche le serie delle lapidi o le immagini della Sicilia o dell’Italia riempite dai nomi dei grandi artisti del passato, fra i quali compare anche quello di Salvo. In tutti i casi abbiamo sempre “un procedere artistico co-stantemente in bilico fra il sé e l’altro da sé”34, che si fonda su un bisogno costante dell’artista di affermare su tutto la propria personalità. Con la diffe-renza sostanziale che nelle Benedizioni il modello non è solo un grande del passato ma Dio stesso. In questa stessa direzione vanno anche le riscritture dei libri (dalla Divina Commedia al Vangelo). In tutti questi lavori, l’Io dell’artista sembra non accettare di essere rinchiuso in rigide classificazioni, le quali, mentre definiscono, uccidono perché la vita non è mai ferma, ma mutevole e sempre varia, come insegna Pirandello. La riscrittura del Vangelo poi potrebbe essere considerata come un pendant delle Benedizioni, oltre che una loro documentazione: se nelle foto Salvo-Cristo è raffigurato mentre benedice, quello in cui compare il suo nome è il suo Vangelo, quello che parla della sua vita, morte e miracoli. Entrambi i lavori sono realizzati negli stessi anni e ciò fa pensare che l’artista sia stato indotto a compiere più di un’identificazione con Gesù proprio perché già stava lavorando su questa tematica sacra. Quella di Salvo sarebbe dunque una personalità bisognosa di mettersi in lu-ce, di essere riconosciuta e apprezzata. Anche il fatto che egli utilizzi sem-pre il proprio nome nelle sue opere e mai il cognome potrebbe essere inter-pretato in questo senso: il nome è infatti l’affermazione del proprio Io al di

34 Danilo Eccher, Una frontiera per la pittura, in Renato Barilli e Danilo Eccher (a cura di), Salvo, Electa, Milano 1998, p. 12.

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sopra della famiglia e del gruppo di appartenenza. Secondo la grafologia, le persone che scrivono il proprio nome o anche solo l’iniziale, più grande del cognome attestano il loro bisogno, ma anche la capacità, d’imporsi solo gra-zie alle proprie doti, al di là dei meriti della famiglia35. In un’intervista, Salvo, parlando di Sindbad il marinaio e del fatto che in re-altà i Sindbad della storia sono due, uno che viaggia e uno che sta fermo, di-ce “credo che in realtà sia connaturato all’uomo questo anelito a essere al-trove, a desiderare sempre di fare altro”36. Questo bisogno di cui parla l’artista può essere esteso, visto il genere di opere con cui si è spesso misu-rato, anche al desiderio di essere altro. Come avviene nelle serie dedicate agli artisti italiani del passato, essere altro è possibile anche solo in virtù della “magia” del linguaggio. Tuttavia, uno dei mezzi privilegiati per cam-biare identità è l’immagine37. Così Salvo, attraverso l’uso della macchina fo-tografica e grazie alla sostituzione del proprio nome a quello di Gesù nel Vangelo, sviluppa compiutamente la storia di quello che è ormai divenuto il suo alter ego, quel Cristo un po’ svagato e in abiti contemporanei che senza pompa e clamore benedice la città di Lucerna. Tuttavia resta da chiedersi perché la sua scelta sia caduta proprio sul Vange-lo e su Gesù. Il Vangelo è certamente uno dei testi più famosi di tutto il mondo, oltre che un testo fondante per l’intera cultura occidentale, un testo imprescindibile con il quale Salvo ha forse sentito l’urgenza di misurarsi. Nondimeno, anche se raffigurasi come Cristo rientra probabilmente all’interno di questo confronto, non si tratta di una scelta così scontata. In un altro punto dell’intervista Salvo afferma “la vita è strana, secondo me fac-ciamo sempre dei lavori nei quali si invera il nostro desiderio più intimo, o meglio, la nostra propensione, lavori che consentono di andare incontro alla propria natura”38. Andare incontro alla propria natura è anche ritrarsi come un “grande” per affermare di esserlo, non con superbia ma con coscienza del proprio valore? Raffigurasi come Cristo rientra in questa stessa ottica? Forse

35 Una conferma di questa ipotesi la si ricava anche dal campo dell’arte: Dürer, per esem-pio, usava firmare i propri lavori con un monogramma nel quale la lettera “A” del nome racchiudeva al suo interno una piccola “D” indicante il cognome; Van Gogh, invece, scelse ad un certo punto di firmarsi solo Vincent dicendo che lui “non era un van Gogh”. Il nome è quindi l’affermazione della personalità. 36 Dede Auregli, Intervista con Salvo in Barilli e Eccher (a cura di), Salvo cit. p. 88. 37 Come hanno dimostrato Kris e Kurz ma anche Otto Rank, esiste un forte rapporto tra i-dentità e immagine: la paura di perdere l’anima e il timore di farsi ritrarre, ma anche le leg-gende delle statue che prendono vita, assumendo identità propria, lo testimoniano in modo inequivocabile. 38 Dede Auregli, Intervista con Salvo in Barilli e Eccher (a cura di), Salvo cit. p. 113.

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14. R. Cox, Yo Mama’s The Last Supper, 1999.

sì, se vi uniamo quel profondo narcisismo di cui parlava Eccher39: coscienza del proprio valore e una sopravvalutazione narcisistica del Sé sarebbero gli ingredienti base delle Benedizioni, come della riscrittura del Vangelo. La dimensione eroica delle identificazioni messe in atto da Salvo40 è fonda-mentale: riconoscendosi sempre nell’eroe di qualche vicenda, Salvo trala-scia volontariamente ciò che è banale. Non si può vivere un’esistenza qual-siasi – sembra questo il messaggio che vuole lasciarci – altrimenti non var-rebbe la pena di averla vissuta! E poco importa se questa vita eccezionale la otteniamo attraverso l’arte e l’evasione che questa consente.

Balzata agli onori della cronaca nel 2001 in occasione di una mostra al Mu-seo di Boston, Renee Cox (nata nel 1960) è l’autrice di una particolare rie-laborazione del Cenacolo di Leonardo, intitolata Yo Mama’s The Last Sup-

per (fig. 14). In quest’opera la fotografa ritrae se stessa, completamente nu-da, al posto del Cristo nell’Ultima Cena, attorniata dagli apostoli, vestiti, ma tutti dalla pelle nera. Già in altre opere fotografiche Cox si è ritratta nuda, come ad esempio nella serie Yo Mama41. Il suo bisogno ricorrente di mani-polare i classici dell’arte è spiegato dalla fotografa giamaicana, che dice: “[…] Il cristianesimo ha una grande importanza nella comunità afro-americana, tuttavia non ci sono rappresentazioni di noi. Io mi assunsi così il compito di inserire le persone di colore all’interno di queste opere classi-

39 Danilo Eccher, Una frontiera per la pittura, in Barilli e Eccher (a cura di), Salvo cit. p. 15. 40 Oltre a quelle elencate sono da ricordare anche gli autoritratti come San Martino e come San Giorgio. 41 In alcune di queste foto Cox è incinta, in altre è attorniata dai suoi figli, ma in ogni caso non c’è nessuna presenza maschile adulta; per questo motivo si può dire che la serie costi-tuisca un’esaltazione piena della femminilità, della capacità procreativa e della fecondità. Sintomatica in questo senso è la foto Yo Mamadona and Child, dove l’evidente riferimento va alla Vergine Maria, che ha concepito un figlio senza l’intervento del maschio.

Lidia Rigotto: L’autoritratto in veste di Cristo

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che”42. Viene qui espresso un profondo bisogno di sentirsi parte integrante della comunità cristiana nella quale i neri sono comunque inseriti, e fors’anche il desiderio di adorare un Dio nel quale riconoscersi pienamente: non più un Dio “bianco”, dunque, ma fatto ad immagine e somiglianza del popolo che lo venera. Anche la scelta di raffigurare Giuda con la pelle bian-ca può essere spiegato all’interno di una simile ottica: la tradizione artistica rappresentava spesso la diversità spirituale del traditore utilizzando colori scuri per i capelli, la barba e la pelle. Gesù, che era buono e santo, al contra-rio aveva chioma bionda e occhi azzurri. Cox ribalta tutta questa tradizione, facendo della pelle bianca, il simbolo del peccato e del pervertimento. Giuda doveva essere rappresentato come un diverso e l’unica diversità possibile in mezzo ad un gruppo di neri era data dal fatto di essere bianco. Non si tratta di un nuovo razzismo, ma piuttosto di un’accusa per il modo in cui sono sta-ti a lungo trattati i neri dalla comunità dei bianchi e per il diritto negato di riconoscersi in quel Dio nel quale pure credevano. Il fatto che sia una donna a impersonare il Cristo ha una valenza ulteriore, riconducibile a quella celebrazione della femminilità nei termini in cui era stata già espressa nella serie Yo Mama e la nudità completa sottolinea ulte-riormente quest’importanza di essere donna. La stessa Cox in un’altra occa-sione aveva detto: “Perché mai una donna non può essere Cristo? Noi siamo coloro che danno la vita!”43. Viene instaurato anche un importante paralleli-smo tra il Dio creatore e la capacità generativa femminile: la donna è più vi-cina a Dio di quanto non lo sia il maschio. Inoltre Renee Cox, in quanto donna e artista creatore, assomma in sé un duplice potere, poiché essa può generare un altro essere vivente ma può anche creare, con l’arte, una secon-da realtà. La figura del Cristo dell’Ultima Cena richiama però anche la cele-brazione eucaristica, durante la quale il sacerdote prende il posto di Gesù che offre il suo corpo e il suo sangue in espiazione dei peccati. L’immagine del Cristo-donna diventa allora anche un atto di accusa rivolto alla Chiesa e al suo rifiuto di ordinare donne prete, oltre che una protesta per lo scarso ruolo assegnato alle donne nell’amministrazione del culto. L’assunto base di Yo Mama’s The Last Supper è in definitiva il rifiuto di as-segnare a Dio sia una razza precisa sia un sesso determinato: Dio, in quanto puro spirito, non ha sesso: Egli è contemporaneamente Padre e Madre per le

42 Vedi voce Biography in “Renee Cox”, http://www.reneecox.net/bio.html. Traduzione mia. 43 The Associated Press, Brooklyn museum photograph depicting Jesus as naked woman

angers mayor, in http://www.freedomforum.org/templates/document.asp?documentID=13096, New York 2001.

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sue creature ed anzi, avendo creato l’intero genere umano da solo, la sua na-tura è più simile a quella femminile, così come è stata celebrata dalla serie Yo Mama. Furono proprio questi motivi, ossia il fatto che Renee Cox fosse una donna nera, oltreché nuda, a suscitare tanto scalpore e a indignare l’allora sindaco di New York Rudolf Giuliani. Come ha poi acutamente osservato Nissan Perez, ci sono cose che non si possono rappresentare nelle immagini foto-grafiche di Cristo tra le quali la nudità, la pelle nera e l’aspetto effeminato44. Infatti, “poiché la fotografia è una riproduzione “esatta” della realtà, molto più esplicita che in altri mezzi di rappresentazione, essa è capace di generare un’opposizione più forte, delle reazioni più violente e anche un sentimento d’oltraggio di fronte a ciò che è mostrato o suggerito”45. Renee Cox è riusci-ta a riunire in Yo Mama’s The Last Supper tutte e tre le componenti citate da Perez, generando una miscela esplosiva. Eppure Renee Cox non è stata la sola ad offrire una rappresentazione effeminata di Gesù. Difatti, nel pieno Rinascimento, gli artisti utilizzarono anche tratti eccessivamente femminili nella raffigurazione delle pose, dei gesti e della struttura muscolare di Ge-sù46. Le origini di una tale pratica risalirebbero alla mistica medievale, per la quale “le donne erano identificate con il corpo fisico di Cristo e gli uomini con la sua anima”47. Certamente Renee Cox conosceva queste rappresenta-zioni artistiche così ambigue e in questo modo la sua opera tanto discussa finisce per inserirsi in una lunga tradizione di rappresentazioni effeminate di Gesù, le quali avevano persino una motivazione teologica. Comunque sia, credo sia indubbia una premeditata volontà di suscitare scal-pore da parte della fotografa, forse anche nell’intento di attirare su di sé l’attenzione dei media, oltre che un certo desiderio di protagonismo, simile in parte a quello di Salvo, che come lei amava essere il protagonista delle proprie creazioni artistiche. Se Cox è certamente riuscita nel suo intento di ottenere l’interesse dei mass media è però più arduo stabilire quanto le sue fotografie abbiano effettivamente fatto riflettere sulla posizione dei neri all’interno della società americana e della religione cristiana in generale, sul ruolo della donna e sui suoi diritti di parità con gli uomini, anche per ciò che riguarda la celebrazione del culto.

44 Perez, Corpus Christi cit. p. 21. 45 Ibid. Traduzione mia. 46 Tra gli esempi che si possono citare ci sono un Noli me tangere (1518) ed un Ecce Homo

di Correggio (1525-30), un Noli me tangere di Tiziano (1515) ed un Battesimo di Cristo (1519) del Parmigianino, dove Cristo sembra persino una donna barbuta piuttosto che un uomo effeminato. 47 Eleanor Heartney, “Blood, Sex and Blasfemity – The Catholic Imagination in Contempo-raney Art”, New Art Examiner citato in Perez, Corpus Christi cit. p. 26.

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