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Liceo Classico Plinio il Giovane Città di Castello Antologia Latina in traduzione a cura del prof. Emiliano Onori Antologia di Letteratura Latina in Italiano, classe III D, maturità 2008-09, a cura del prof. Emiliano Onori 1

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Liceo Classico Plinio il Giovane

Liceo Classico Plinio il Giovane

Città di Castello

Antologia Latina

in traduzione

a cura del prof. Emiliano Onori

Maturità 2008-09

Ovidio

Epigrammi d’Amore I, 1

Mi accingevo a celebrare con metro solenne le armi e le guerre crudeli, in modo che l'argomento e l'elemento ritmico concordassero. Il verso che seguiva era di lunghezza uguale al precedente; dicono che Cupìdo abbia riso e abbia sottratto un piede. «Chi, o crudele fanciullo, ti ha concesso tale diritto sulla poesia? Noi poeti siamo seguaci delle Muse, non tuoi. Che accadrebbe se Venere strappasse via le armi alla bionda Minerva, o se la bionda Minerva agitasse al vento le fiaccole ardenti? Chi potrebbe accettare che Cerere sia la regina delle selve montane e che i campi vengano coltivati agli ordini della vergine con la faretra? Chi potrebbe fornire a Febo, che si distingue per la sua chioma, un'aguzza lancia, mentre Marte fa' risuonare le corde della lira aonia? Tu possiedi, fanciullo, regni grandi e molto potenti; perché aspiri ambiziosamente a una nuova impresa? Ti appartengono forse tutte le cose, dovunque esse siano? È tua anche la valle di Elicona? Neppure Febo dovrà considerare sicura la sua lira? Appena il nuovo componimento si è elevato nel primo verso, il verso successivo attenua l'impeto del mio carme. Ed io non ho argomenti adatti a poesia più leggera: un fanciullo o una fanciulla dalle lunghe chiome ben pettinate.» Mi ero lamentato, quand'ecco egli, schiusa la faretra, scelse frecce destinate alla mia rovina, piegò con decisione contro il ginocchio l'arco ricurvo e disse: «Eccoti, o poeta, l'argomento dei tuoi canti!» Me sventurato! Quel fanciullo aveva frecce infallibili: brucio, e nel mio cuore, già libero, ora regna Amore. Nei sei piedi si alzi il mio canto, nei cinque si abbassi. Addio, crudeli guerre, a voi e al vostro metro! O Musa che si deve cantare con undici piedi, cingi le tempie bionde con il mirto che fiorisce sui litorali!

III, 4

O amante crudele, ponendo sotto custodia la tua giovane donna non concludi nulla: ognuna deve essere tutelata dalla propria indole. Se una donna, rimosso il timore, è casta, allora è veramente casta; ma colei che non pecca perché non può, quella pecca. Quand'anche tu ne abbia ben custodito il corpo, col pensiero ti tradisce: non si può sorvegliare la volontà di alcuna donna; ma neppure il corpo puoi preservare, anche se chiudi tutto: quando avrai chiuso tutti fuori, l'amante sarà già entrato. Colei che è libera di tradire, tradisce di meno: la possibilità stessa rende meno vivi gli stimoli del peccato. Dammi ascolto, smetti di sollecitarne le tentazioni con i divieti; le vincerai meglio con la tua condiscendenza. Ho visto or ora con i miei occhi un cavallo galoppare veloce come un lampo resistendo al morso con la bocca ribelle; non appena si accorse che le redini erano state allentate e che le briglie erano rilasciate sulla sua criniera scomposta, si fermò. Ci opponiamo sempre ai divieti e desideriamo quel che ci vien negato: così l'ammalato si protende verso l'acqua che non può bere. Argo aveva cento occhi sulla fronte e cento sulla nuca, eppure Amore da solo spesso sfuggì ad essi; Dànae, che era stata portata vergine in una dimora infrangibile, fatta di ferro e di pietra, divenne madre: Penelope, pur priva di guardiano, restò incontaminata fra tanti giovani pretendenti. Noi desideriamo maggiormente tutto ciò che viene custodito e sono proprio le precauzioni ad attirare il ladro; pochi s'innamorano della donna che l'altro permette di amare. Ella non piace per la sua bellezza, ma per l'amore del suo uomo: pensano che abbia non so quale attrattiva che ti ha conquistato. Colei che l'amante custodisce non diventa onesta, ma come adultera attrae: la paura stessa le conferisce un valore più grande di quello del suo corpo. Sdégnati pure: un amore illecito piace; è attraente soltanto colei che può dire: «Ho paura.» D'altronde non è un diritto mettere sotto custodia una donna libera; questo timore agiti le donne straniere. Solo perché il guardiano possa affermare: «È merito mio» ella dovrebbe essere casta a gloria di un tuo schiavo? Chi si sente offeso per il tradimento della moglie è troppo rozzo e non conosce a sufficienza i costumi di Roma, in cui i figli di Marte e di Ilia, Romolo e Remo, non nacquero senza colpa. Perché l'hai voluta bella, se ti piaceva soltanto se casta? Queste due virtù non possono coesistere in alcun modo. Se sei saggio, sii indulgente con la tua donna, deponi quel cipiglio austero, non tutelare i diritti del marito inflessibile e coltiva quegli amici che la tua compagna ti procurerà (e te ne procurerà molti): così con pochissima fatica ne avrai gran vantaggio; così potrai sempre partecipare ai festini dei giovani e vedere in casa tua molti doni che non avrai fatto tu.

Arte di Amare

I, 1-292

Se c'è tra voi chi non conosca ancoral'arte d'amare, legga il mio poemae fatto esperto colga nuovi amori!Solcano l'onde con le vele o i remi,5 sospinte ad arte, l'agili carene;con arte noi guidiamo il lieve cocchio:con arte dunque è da guidarsi Amore!Esperto Automedonte era sul carroalle briglie flessibili e pilota10 Tifi fu un tempo sulla poppa emonia.Me volle guida Venere e maestroal più tenero amore: ch'io d'Amoresia detto dunque Tifi e Automedonte!S'è vero ch'è selvaggio e che sovente15 scalpita e freme, Amore è ancor fanciullo:docile età ch'è facile a guidarsi.Educava il Filliride col cantoAchille giovinetto, dominandocon tenera arte quel cuore selvaggio:20 e quegli che più volte fu terroreagli amici e ai nemici, innanzi al vecchiocarico d'anni, dicono tremasse.Quella mano che avrebbe Ettore un giornoduramente provato, egli l'offriva,25 quando richiesta, ai colpi del maestro.Dell'Eacide fu guida Chirone,io lo sono d'Amor: fanciulli entrambi,tremendi figli entrambi d'una dea.Se con il giogo la cervice al toro30 noi possiamo gravare, e con i dentimorde il cavallo generoso il freno,anche per me piegherà il collo Amore,benché con l'arco il cuore mi feriscae m'agiti sugli occhi la sua fiamma.35 Quanto più Amore mi trafisse, quantopiù crudelmente m'arse, su di luitanto più grande prenderò vendetta.Non io, o Apollo, mentirò, dicendoche tu m'ispiri; non mi detta il canto40 voce d'aerei uccelli, né mai vidi,seguendo il gregge, Clio e le sorellenelle tue valli, o Ascra! A dirmi il carmeè l'esperienza. Seguitate dunqueil vate esperto. Ciò ch'io canto è il vero!45 E tu, madre d'Amore, a quant'io tentoscendi propizia! Via le tenui bende,insegne del pudore, ed ogni stolalunga a coprire fino a mezzo il piede!Io canto amori certi e furti leciti,50 nessun delitto toccherà il mio carme.Prima fatica, o tu che vieni all'armi,soldato nuovo per la prima volta,è cercare colei che vuoi amare;quindi piegarla con le tue preghiere;55 per ultimo, far sì che il vostro amorepossa durare a lungo. Ecco al mio cantoquali limiti pongo, ecco l'arenache solcherà il mio carro: ecco la metache sfioreranno le mie ruote ardenti!60 Finché ti sarà lecito e dovunquepotrai libero andare a briglie sciolte,scegli la donna cui tu possa dire:« A me piaci tu sola! ». Ella ai tuoi piedinon ti verrà a cader come dal cielo;65 dovrai cercarla tu, con i tuoi occhi.Il cacciatore sa dove va tesala rete al cervo; sa dove dimorae in quale valle l'ispido cinghiale;chi cerca uccelli ben conosce i rami,70 chi getta l'amo ben conosce l'acquedove nuotano i pesci. Ed anche tu,che cerchi donna e per un lungo amore,scegli dapprima i luoghi dove in follatu ne possa trovare. Ma non voglio75 che tu per questo innalzi vele al vento:per ciò che cerchi, credimi, non servefar molta strada. Se condusse Perseodall'Indie nere Andromeda, e di Frigiavenne l'eroe che rapì la Greca,80 Roma può darti tante e tali donne,che puoi ben dire: “Ciò ch'è bello al mondo,è tutto qui”. Ché quante biade ha Gargare,quanti Metimna ha grappoli ai vigneti,quanti son pesci in mare e tra le fronde85 nidi ed uccelli, quante stelle ha il cielo,t'offre altrettante donne la tua Roma!E non fu qui, nella città d'Enea,che sede eterna stabilì sua madre?Se mai ti prende voglia d'anni teneri,90 subito avrai davanti agli occhi, intatta,qualche fanciulla; se vuoi donna giovane,saranno mille giovani a piacerti:sarai costretto a non saper chi scegliere.Se poi ti piacerà già più matura,95 già fatta esperta, credimi, ne avraisolo per te eserciti. Passeggiasotto i portici ombrosi di Pompeo,quando cavalca il sole sopra il dorsodell'erculeo Leone, o dove aggiunse100 la madre i doni ai doni del figliolo, ricco lavoro di stranieri marmi;rècati sotto i portici, adornatidi antichi quadri, quelli che da Liviache li ordinò prendono il nome, o quelli105 dove con le Belidi, che ai cuginiprepararono morte, sta ferocecon snudata la spada il padre loro.Né trascurare Adone che da Venereebbe onore di pianto, o dei Giudei110 le cerimonie ad ogni sette giorni,né i templi egizi e la giovenca adornadi puro lino: ella fa sì che moltesi mutino in ciò ch'ella fu di Giove.Persino il Foro (e chi potrebbe crederlo?)115 è propizio ad Amor: più d'una fiammanel rumoroso Foro alta riarse.Presso il tempio marmoreo di Venere,dove all'aperto un getto la ninfa Appiafa irromper d'acqua, spesso l'avvocato120 cade in braccio d'amore: nonché d'altri,spesso si scorda di curar se stesso.Qui anche al più facondo le parolemancano a un tratto: è da aggiornar la causa:non è più cosa altrui, è cosa sua!125 Dal tempio accanto Venere sorride.Guardalo, era avvocato, ora vorrebbeessere egli il cliente.

Ma i teatri,siano riservati alle tue cacce:ce n'è da soddisfare ogni capriccio.130 Tutto vi troverai: amore e scherzo,quella che ti godrai solo una volta,quella che val la pena mantenere.Come, portando il loro cibo insieme,vengono e vanno a schiera le formiche,135 o come l'api, scelti i loro boschie i campi profumati, alle corollevolan dei fiori e dei fragranti timi,così, tutta agghindata, corre ai giochila donna là, dove la folla è densa.

140 E quante sono! A me sovente accaddedi non saper chi scegliere. A vedereviene la donna e per esser veduta:luogo fatale, questo, al suo pudore.

Fosti Romolo tu, primo, a instaurare145 giochi eccitanti, quando maritastii tuoi celibi eroi con le Sabine!Non c'erano ancor veli sul teatronon c'eran marmi, e sulle scene il croconon si spargeva rosso e profumato.150 Semplici fronde ornavano la scena,tagliate dal boscoso Palatino,e nessun'arte; gli uomini accalcatistavano sulle erbose gradinate,riparando dal sole, con i rami,155 le teste irsute. Ciascuno quel giorno,fisso con gli occhi, scelse la ragazza,e per un pezzo in sé tacitamenterinfocolò l'ardore. Sulla scenaun ballerino intanto saltellava160 battendo a terra il piede per tre volteal rude ritmo d'una piva etrusca.Quando infine, nel mezzo d'un applauso(un applauso sincero d'una volta),Romolo dette il segno sospirato165 alla sua gente di buttarsi a preda,tutti in piedi balzarono in un gridorivelatore, e con bramose manifurono sulle donne. Come un volodi timide colombe fugge l'aquila,170 od una fresca agnella fugge il lupo,tremarono così quelle alla furiadi tanti maschi. Non serbò nessunail colore di prima: eguale in tutteera il timore, ma appariva in loro175 nei modi più diversi: ché qualcunagià si strappava nel dolor le chiome,altra sedeva come inebetita;altra mesta taceva, altra la madrecon alti strilli reclamava invano;180 questa piangeva, quella si stupiva;l'una fuggiva, l'altra era di sasso.E mentre erano tutte trascinateverso il vicino letto maritale,in mezzo a loro ce ne fu più d'una185 cui la paura accrebbe la vaghezza.Se poi qualcuna fu ribelle troppoe si negò al compagno, egli la strinsepiù forte a sé con più bramoso amplesso,e: « Perché », disse, « questi begli occhioni190 te li sciupi così? Sarò soltantoper te ciò che tuo padre è per tua madre! ».O Romolo, tu solo ai tuoi soldatisapesti dare gioie così grandi:a questo patto, son soldato anch'io!

195 Certamente è per questo che i teatri,da quel solenne esempio, sono ancoratanto insidiosi ad ogni bella donna.Non ti scordare mai, questo è importante,le corse dei cavalli. Il vasto circo,200 quante comodità con tanta folla!Non bisognano cenni alla ragazzaper dir cose segrete, né ti occorreche lei ti mandi a gesti la risposta.Basta che tu ti sieda accanto a lei,205 se nessuno lo vieta, e che al suo fiancotu stringa il tuo quanto più tu puoi.E’ facile, del resto, ché a teatrosiete costretti l'uno accanto all'altroanche s'ella non vuole: è il luogo in sé210 che fa che tu la tocchi ad ogni modo.Subito cerca d'attaccar discorso,le solite parole da principio:infórmati con cura, premuroso,di chi sono i cavalli nella pista,215 poi favorisci, senza perder tempo,quello che piace a lei, qualunque sia.Se appariranno poi le statue eburneedei grandi numi, allora applaudi fortea Venere signora. E se per caso,220 come succede, le si posa in gremboun granello di polvere, tu, pronto,cogli con le tue dita quel granello;se non c'è nulla, coglilo lo stesso.Mostrale sempre quanto sei gentile.225 Se la sua veste striscia troppo in terra,chìnati premuroso a sollevarla,che non debba sporcarsi. E tu, in compenso,potrei dare un'occhiata alle sue gambesenza ch'ella protesti. Stai attento230 che qualche spettatore dietro voinon prema coi ginocchi le sue spalle.Son le piccole cose a conquistaretestoline leggere; a molti infattibastò disporre con attenta cura235 e mano pronta dietro a lei un cuscino,o darle un po' di fresco, sventolandosemplice tavoletta, o porle ai piediun concavo sgabello. A nuovi amoriil circo t'aprirà sempre la strada,240 e la tragica arena, con la follaintenta e ansiosa. Quivi quante volteha combattuto il figlio della dea!e chi s'aspetta le ferite altruiquante volte è ferito! Mentre parla,245 od una mano stringe, od al vicinochiede il programma, poiché già ha scommesso,per sapere chi vinca, colto al vologeme ferito e sente a fondo in sél'aerea freccia dell'alato iddio:250 da spettatore è fatto attore anch'egli!

Se tu sapessi quel che accadde ai giochiche Cesare ordinò, or non è molto,quando pose di fronte navi grechecontro navi persiane! Quanta gente,255 che bella gioventù! Uomini e donneda un mare all'altro: il mondo intero a Romavenne in quei giorni. Chi tra tanta gentenon trovò donna che l'innamorasse?Quanti e quanti soffrirono le pene260 d'un amor forestiero! Ed ora Cesares'appresta a conquistare quanto avanzaal dominio del mondo. O estremo Oriente,tu sarai nostro, finalmente! O Parto,tu questa volta sconterai la pena!265 0 bandiere di Crasso, rallegratevi,voi che doveste sopportare affrontodalle barbare mani: ecco, s'avanzavendicatore un Cesare fanciullo:è appena giovinetto, ma già guida270 guerre non da fanciullo. O gente sciocca,non contare più gli anni degli dèi:è precoce nei Cesari il valore!Divino, il genio gli anni suoi precorre,non tollera l'ignavia dell'attesa.275 Bimbo ancora, il Tirinzio con le manii due serpenti strangolò, già degnofin dalla culla di suo padre Giove.E tu che ancora sei fanciullo, o Bacco,quanto già fosti grande allorché l'India280 tutta tremò alla vista dei tuoi tirsi!Ora, o giovane Cesare, la guerrasotto gli auspici condurrai del padre,e con pari coraggio, e vinceraicon l'animo e gli auspici di tuo padre!285 A tanto nome devi tanto inizio,principe ora dei giovani e domaniprincipe degli anziani. Ogni feritavendica dei fratelli. Di tuo padrerivendica i diritti. Fu tuo padre,290 padre a noi tutti, che ti diede l'armi:occupa invece un regno il tuo nemicoal padre suo con frode rapinato.

Lettere di Eroine

Medea a Giasone

Esule, senza mezzi, disprezzata, Medea scrive al novello sposo, o forse non hai tempo libero dagli impegni del regno? Eppure mi ricordo: io, regina di Colchide, tralasciai i miei impegni, quando chiedesti che la mia arte ti venisse in aiuto! Le sorelle che regolano i destini dei mortali, avrebbero dovuto svolgere allora fino in fondo il mio fuso; allora io, Medea, avrei potuto morire degnamente. Tutta la vita che ho trascinato da quel tempo, è stata dolore. Ahimè, perché mai, spinta da giovani braccia, la nave costruita col legno del Pelio venne a cercare l'ariete di Frisso? Perché mai noi Colchi vedemmo Argo, la nave di Magnesia, e voi, schiera di Greci, beveste l'acqua del Fasi? Perché mi piacquero più del dovuto i tuoi capelli biondi, la tua eleganza ed il garbo artificioso delle tue parole? Oh, se almeno, una volta giunta l'insolita nave alle nostre spiagge col suo carico di uomini avventurosi, l'ingrato figlio di Esone senza la protezione della mia magia fosse andato contro i fuochi che emanavano le teste fiammeggianti dei tori! E dopo aver gettato i semi, dai semi fossero sorti altrettanti nemici, così che il seminatore fosse abbattuto dal suo stesso seminato! Quanta perfidia sarebbe morta con te, sciagurato! Quante disgrazie sarebbero state allontanate dal mio capo! Fa un certo piacere rinfacciare i propri meriti ad un ingrato; ne godrò, questa sola gioia avrò da te. Con l'ordine di dirigere verso la Colchide la nave che non aveva ancora sperimentato il mare, facesti ingresso nel prospero regno della mia patria. Là io, Medea, ero quello che qui è la tua novella sposa; quanto è ricco suo padre, altrettanto lo era il mio. L'uno possiede Efira bagnata dai due mari, l'altro tutto il territorio che si stende lungo la riva sinistra del Ponto, fino alla Scizia nevosa. Eeta offre ospitalità ai giovani Pelasgi e voi Greci vi sdraiate sui nostri letti variopinti. Fu allora che ti vidi, allora cominciai a sapere chi fossi; quello fu il primo cedimento del mio animo. Ti vidi e fui perduta! Mi infiammai di una passione a me ignota, come una torcia di pino arde dinanzi ai grandi dèi. Eri bello e il mio destino mi trascinava: il tuo sguardo aveva stregato i miei occhi. Tu, traditore, te ne accorgesti! Chi infatti riesce a nascondere bene l'amore? La fiamma appare ben visibile, tradita dal suo stesso chiarore. Nel frattempo ti viene dato l'ordine di aggiogare i duri colli di tori selvaggi all'aratro ad essi sconosciuto. Erano i tori di Marte, pericolosi ben più che per le corna: il loro terribile alito era di fuoco, gli zoccoli tutti di bronzo e di bronzo erano ricoperte le narici, anch'esse annerite dal loro fiato. Poi ti fu ordinato di spargere per i vasti campi, con mano pronta ad affrontare la morte, la semente destinata a generare uomini, che avrebbero cercato di colpire il tuo corpo con armi nate con loro: mèsse, quella, nociva per chi l'ha seminata. Ingannare con qualche incantesimo gli occhi del guardiano, che non conoscono il sonno è l'ultima fatica. Eeta aveva parlato: costernati, vi alzate tutti e l'alta mensa viene allontanata dai letti coperti di porpora. Quanto erano lontani allora per te il regno, che Creusa porta in dote, e il suocero e la figlia del grande Creonte! Te ne vai sconsolato. Ti seguo, mentre ti allontani, con gli occhi umidi e la mia lingua pronunciò con un lieve sussurro: «Addio!». Come, gravemente ferita, toccai il letto posto nella mia stanza, trascorsi la notte, per quanto fu lunga, tra le lacrime. Davanti ai miei occhi c'erano i tori e le messi funeste, davanti ai miei occhi il drago insonne. Da un lato c'è l'amore, dall'altro la paura e la paura accresce l'amore. Si era fatta mattina e l'amata sorella, accolta nella mia stanza, mi trova con i capelli in disordine, riversa bocconi sul letto e tutto era pieno delle mie lacrime. Chiede aiuto per i Minii, una chiede e l'altra otterrà; concedo al giovane figlio di Esone ciò che lei chiede. C'è un bosco tenebroso di pini e di fronde di leccio, a fatica i raggi del sole possono penetrarvi; c'è in quel luogo - di sicuro c'era - un tempio di Diana; vi si erge una statua in oro della dea, foggiata da mano barbarica. Te ne ricordi o hai cancellato dalla tua mente quei luoghi, assieme a me? Giungemmo là; per primo cominciasti così a parlare, con la tua bocca menzognera: «La sorte ti ha dato il potere di decidere della mia salvezza, e la vita e la morte sono in mano tua. È già abbastanza avere la facoltà di uccidere, se a qualcuno piace il potere in se stesso; ma se mi salverai, avrai una gloria maggiore. Ti prego, per le sventure che mi aspettano, dalle quali tu mi puoi sollevare, per la tua stirpe e la divinità del tuo avo che tutto vede, per il triplice volto e per i sacri misteri di Diana e per gli altri dèi, se la tua gente ne possiede: o fanciulla, abbi pietà di me, abbi pietà dei miei uomini, fa' sì che, per il tuo aiuto, io divenga tuo per sempre! E se per caso non disdegni un marito greco - ma come posso sperare gli dèi a me così propizi? -, il mio spirito vitale si dissolva nell'aria leggera, prima che un'altra donna, che non sia tu, divenga sposa nel mio talamo. Sia testimone Giunone, preposta alle cerimonie coniugali e la dea, nel cui tempio di marmo ci troviamo!». Queste parole - e quanto piccola parte non sarebbe bastata? - e la tua destra stretta alla mia turbarono il mio animo di giovane inesperta. Vidi anche le tue lacrime; c'è una parte di inganno anche in quelle? Così, io, una fanciulla, fui subito sedotta dalle tue parole. Allora aggioghi i tori dagli zoccoli di bronzo, senza bruciarti il corpo, e solchi la dura terra con l'aratro come prescritto. Riempi i campi arati di denti funesti anziché di semi, e nascono soldati e hanno spade e scudi. Io stessa, che ti avevo dato i magici filtri, impallidii e mi sedetti quando vidi che gli uomini apparsi all'improvviso impugnavano le armi, finché i fratelli generati dalla terra - fatto prodigioso! - si aggredirono tra di loro con le armi in pugno. Ecco il guardiano insonne, irto di squame stridenti, sibila e spazza la terra contorcendosi. Dove erano le ricchezze della dote? Dove la tua sposa di stirpe regale e l'Istmo che separa le acque dei due mari? Io, che per te ora sono diventata solo una barbara, che per te ora sono povera, che ora ti sembro colpevole, sono quella che fece chiudere gli occhi di fuoco con un magico sonno e che ti diede il vello da portare via senza pericolo. Tradii mio padre, abbandonai il regno e la mia patria; accettai l'esilio, qualunque peso comportasse, la mia verginità divenne conquista di un predone straniero, con la mia cara madre, ho abbandonato la migliore delle sorelle. Ma nella fuga, fratello, non ti lasciai senza di me. In questo solo punto la mia lettera è reticente. Quello che ha osato fare, la mia mano non osa scriverlo. Così io, ma con te, avrei dovuto essere straziata! E tuttavia non ebbi paura - cosa infatti avrei dovuto temere, dopo quello che avevo commesso? - di affidarmi al mare, donna e ormai colpevole. Dov'è la potenza divina? Dove gli dèi? Che si paghino in mezzo al mare le pene che meritiamo: tu del tuo inganno, io della mia ingenuità! Oh se le Simplegadi, schiacciandoci, ci avessero stritolati e le mie ossa si fossero unite alle tue ossa! Oppure Scilla vorace, ci avesse gettati in pasto ai suoi cani! Scilla avrebbe dovuto punire uomini ingrati. O il mostro che tante volte vomita flutti e altrettante li risucchia avesse sommerso anche noi nel mare della Trinacria! Salvo e vincitore, ritorni alle città d'Emonia; il vello d'oro è offerto agli dèi patrii. Perché dovrei parlare delle figlie di Pelia assassine per affetto, e del corpo del padre fatto a pezzi da mani di fanciulle? Anche se gli altri mi accusano, tu per forza mi devi lodare, perché fui costretta tante volte ad essere colpevole per il tuo bene. Hai avuto il coraggio - oh, mi mancano le parole adatte ad esprimere uno sdegno legittimo! -, hai avuto il coraggio di dire: «Esci dalla casa di Esone!». A quell'ordine uscii dalla tua casa, seguita dai bambini e dall'amore per te, che mi accompagna costantemente. Come, improvvisamente, giunse alle mie orecchie il canto di Imene e brillarono fiaccole ardenti ed il suono di un flauto, più triste per me di una tromba funebre, accompagnò canti di nozze, fui pervasa dal terrore; non credevo ancora che si trattasse di una così grande infamia, ma tuttavia il gelo mi pervase tutto il petto. Accorre un mucchio di gente e ripetutamente grida: «O Imene, Imeneo!»; quanto più il grido si avvicinava, tanto più ero in preda all'angoscia. I servi in disparte piangevano e nascondevano le lacrime - chi avrebbe voluto essere messaggero di una disgrazia così grande? Di qualunque cosa si trattasse, io avrei preferito ignorarla, ma come se sapessi, il mio cuore era in pena, quando, il più piccolo dei figli, perché mandato, o per il desiderio di vedere, si fermò sulla soglia della duplice porta; di lì mi disse: «Mamma, vieni! Mio padre Giasone guida un corteo e, vestito d'oro, sprona i cavalli appaiati». Immediatamente, mi lacerai la veste e mi percossi il petto e non mi risparmiai il volto dai graffi. L'istinto mi spingeva ad andare in mezzo alla folla e a strappare via le corone dai capelli agghindati; mi trattenni a stento dal gridare, così com'ero, con i capelli scarmigliati: «È mio!», e dal posare le mani su te. Rallegrati, padre oltraggiato! Rallegratevi Colchi che ho abbandonato! Ombra di mio fratello, ricevi il sacrificio d'espiazione! Io che ho perduto il regno, la patria e la casa, sono abbandonata dal mio sposo, che da solo per me era tutto. Dunque io, che ho potuto domare draghi e tori furiosi, solo il mio sposo non ho avuto il potere di sottomettere. E io che ho respinto fiamme indomabili con la mia scienza magica non ho la forza di sfuggire al mio stesso fuoco. I miei stessi incantesimi, le erbe, le arti mi abbandonano. Né la dea, né i sacri riti della potente Ecate riescono ad avere effetto. Non amo il giorno, le notti sono veglie amare e il dolce sonno, ahimè infelice, non occupa più il mio petto. Io che sono riuscita ad addormentare un drago non posso farlo con me stessa. I miei rimedi sono più utili a chiunque che a me. Una rivale abbraccia le membra che io ho salvato, ed è lei a cogliere il frutto della mia fatica. Forse, mentre cerchi di gloriarti di fronte alla tua sciocca moglie e di formulare discorsi adatti alle sue orecchie ostili, inventi anche nuove calunnie contro il mio aspetto ed il mio comportamento! Rida pure, lei, e gioisca dei miei difetti. Rida e si corichi superba sulla porpora di Tiro - piangerà e sarà bruciata da fiamme che supereranno le mie. Finché ci saranno ferro e fuoco ed essenze velenose, nessun nemico di Medea resterà impunito. E se può accadere che le preghiere tocchino un cuore di ferro, ascolta ora parole più moderate dei miei sentimenti. Ti supplico, così come tu spesso hai fatto con me, e non esito a gettarmi ai tuoi piedi. Se per te non conto più nulla, guarda i nostri figli: una matrigna crudele sarà spietata contro quelli che ho generato io. Ti assomigliano troppo, sono colpita dal loro aspetto e ogni volta che li guardo, i miei occhi si inumidiscono. Ti prego per gli dèi e per la luce della fiamma avita e per quanto ho meritato e per i due figli, pegno della nostra unione, restituiscimi il letto, per il quale, folle, ho abbandonato tante cose! Mantieni fede alle tue parole e ricambia l'aiuto! Io non mi appello a te contro tori e uomini e perché un drago giaccia vinto grazie al tuo intervento; è te che chiedo, te ho meritato, che ti sei dato a me di tua volontà, con te, divenuto padre, sono diventata in pari tempo madre. Chiedi dov'è la mia dote? L'ho pagata in quel campo che tu dovevi arare, per portare via il vello. Quell'ariete d'oro, straordinario per il folto vello, è la mia dote; se io ti dicessi: «Rendimelo», tu rifiuteresti. La mia dote sei tu, salvo, la mia dote è la gioventù greca. Va' ora, disonesto, fa' il confronto con le ricchezze di Sisifo! Che tu viva, che abbia una sposa ed un suocero potente, il fatto stesso che tu possa essere ingrato, persino questo, è merito mio. A loro veramente fra poco... ma a cosa serve preannunciare un castigo? L'ira genera enormi minacce. Andrò dove mi porterà l'ira. Forse mi pentirò del mio operato, così come mi pento di avere avuto cura di un marito infedele. Si occupi di queste cose il dio, che ora sconvolge il mio cuore. Di sicuro la mia mente sta meditando non so che di spropositato.

Lettere dal Mar Nero

Lettera I, 1 (cfr. plico fotocopie)

Ovidio, Metamorfosi

I, 456-567

Il primo amore di Febo fu Dafne, figlia di Peneo,e non fu dovuto al caso, ma all'ira implacabile di Cupido.Ancora insuperbito per aver vinto il serpente, il dio di Delo,vedendolo che piegava l'arco per tendere la corda:«Che vuoi fare, fanciullo arrogante, con armi così impegnative?»gli disse. «Questo è peso che s'addice alle mie spalle,a me che so assestare colpi infallibili alle fiere e ai nemici,a me che con un nugolo di frecce ho appena abbattuto Pitone,infossato col suo ventre gonfio e pestifero per tante miglia.Tu accontèntati di fomentare con la tua fiaccola,non so, qualche amore e non arrogarti le mie lodi».E il figlio di Venere: «Il tuo arco, Febo, tutto trafiggerà,ma il mio trafigge te, e quanto tutti i viventi a un diosono inferiori, tanto minore è la tua gloria alla mia».Disse, e come un lampo solcò l'aria ad ali battenti,fermandosi nell'ombra sulla cima del Parnaso,e dalla faretra estrasse due frecced'opposto potere: l'una scaccia, l'altra suscita amore.La seconda è dorata e la sua punta aguzza sfolgora,la prima è spuntata e il suo stelo ha l'anima di piombo.Con questa il dio trafisse la ninfa penea, con l'altracolpì Apollo trapassandogli le ossa sino al midollo.Subito lui s'innamora, mentre lei nemmeno il nome d'amorevuol sentire e, come la vergine Diana, gode nella penombradei boschi per le spoglie della selvaggina catturata:solo una benda raccoglie i suoi capelli scomposti.Molti la chiedono, ma lei respinge i pretendentie, decisa a non subire un marito, vaga nel folto dei boschiindifferente a cosa siano nozze, amore e amplessi.Il padre le ripete: «Figliola, mi devi un genero»;le ripete: «Bambina mia, mi devi dei nipoti»;ma lei, odiando come una colpa la fiaccola nuziale,il bel volto soffuso da un rossore di vergogna,con tenerezza si aggrappa al collo del padre:«Concedimi, genitore carissimo, ch'io goda», dice,«di verginità perpetua: a Diana suo padre l'ha concesso».E in verità lui acconsentirebbe; ma la tua bellezza vietache tu rimanga come vorresti, al voto s'oppone il tuo aspetto.E Febo l'ama; ha visto Dafne e vuole unirsi a lei,e in ciò che vuole spera, ma i suoi presagi l'ingannano.Come, mietute le spighe, bruciano in un soffio le stoppie,come s'incendiano le siepi se per ventura un viandanteaccosta troppo una torcia o la getta quando si fa luce,così il dio prende fuoco, così in tutto il pettodivampa, e con la speranza nutre un impossibile amore.Contempla i capelli che le scendono scomposti sul collo,pensa: 'Se poi li pettinasse?'; guarda gli occhi che sfavillanocome stelle; guarda le labbra e mai si stancadi guardarle; decanta le dita, le mani,le braccia e la loro pelle in gran parte nuda;e ciò che è nascosto, l'immagina migliore. Ma lei fuggepiù rapida d'un alito di vento e non s'arresta al suo richiamo:«Ninfa penea, férmati, ti prego: non t'insegue un nemico;férmati! Così davanti al lupo l'agnella, al leone la cerva,all'aquila le colombe fuggono in un turbinio d'ali,così tutte davanti al nemico; ma io t'inseguo per amore!Ahimè, che tu non cada distesa, che i rovi non ti graffinole gambe indifese, ch'io non sia causa del tuo male!Impervi sono i luoghi dove voli: corri più piano, ti prego,rallenta la tua fuga e anch'io t'inseguirò più piano.Ma sappi a chi piaci. Non sono un montanaro,non sono un pastore, io; non faccio la guardia a mandrie e greggicome uno zotico. Non sai, impudente, non saichi fuggi, e per questo fuggi. Io regno sulla terra di Delfi,di Claro e Tènedo, sulla regale Pàtara.Giove è mio padre. Io sono colui che rivela futuro, passatoe presente, colui che accorda il canto al suono della cetra.Infallibile è la mia freccia, ma più infallibile della miaè stata quella che m'ha ferito il cuore indifeso.La medicina l'ho inventata io, e in tutto il mondo guaritoremi chiamano, perché in mano mia è il potere delle erbe.Ma, ahimè, non c'è erba che guarisca l'amore,e l'arte che giova a tutti non giova al suo signore!».Di più avrebbe detto, ma lei continuò a fuggireimpaurita, lasciandolo a metà del discorso.E sempre bella era: il vento le scopriva il corpo,spirandole contro gonfiava intorno la sua vestee con la sua brezza sottile le scompigliava i capellirendendola in fuga più leggiadra. Ma il giovane divinonon ha più pazienza di perdersi in lusinghe e, come amorelo sprona, l'incalza inseguendola di passo in passo.Come quando un cane di Gallia scorge in campo apertouna lepre, e scattano l'uno per ghermire, l'altra per salvarsi;questo, sul punto d'afferrarla e ormai convintod'averla presa, che la stringe col muso proteso,quella che, nell'incertezza d'essere presa, sfugge ai morsievitando la bocca che la sfiora: così il dio e la fanciulla,un fulmine lui per la voglia, lei per il timore.Ma lui che l'insegue, con le ali d'amore in aiuto,corre di più, non dà tregua e incombe alle spalledella fuggitiva, ansimandole sul collo fra i capelli al vento.Senza più forze, vinta dalla fatica di quella corsaallo spasimo, si rivolge alle correnti del Peneo e:«Aiutami, padre», dice. «Se voi fiumi avete qualche potere,dissolvi, mutandole, queste mie fattezze per cui troppo piacqui».Ancora prega, che un torpore profondo pervade le sue membra,il petto morbido si fascia di fibre sottili,i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami;i piedi, così veloci un tempo, s'inchiodano in pigre radici,il volto svanisce in una chioma: solo il suo splendore conserva.Anche così Febo l'ama e, poggiata la mano sul tronco,sente ancora trepidare il petto sotto quella nuova cortecciae, stringendo fra le braccia i suoi rami come un corpo,ne bacia il legno, ma quello ai suoi baci ancora si sottrae.E allora il dio: «Se non puoi essere la sposa mia,sarai almeno la mia pianta. E di te sempre si orneranno,o alloro, i miei capelli, la mia cetra, la faretra;e il capo dei condottieri latini, quando una voce esultanteintonerà il trionfo e il Campidoglio vedrà fluire i cortei.Fedelissimo custode della porta d'Augusto,starai appeso ai suoi battenti per difendere la quercia in mezzo.E come il mio capo si mantiene giovane con la chioma intonsa,anche tu porterai il vanto perpetuo delle fronde!».Qui Febo tacque; e l'alloro annuì con i suoi ramiappena spuntati e agitò la cima, quasi assentisse col capo.

Petronio, Satyricon

Antologia

XXXIV, 4-10 Entrano poi sùbito due Etiopi ben chiomati con certi otri minuscoli, sul tipo di quelli che servono nell'anfiteatro a innaffiare l'arena, e ci versano vino sulle mani.Che d'acqua nessuno ne offriva.[5] Complimentato per tanto buon gusto, « Marte - risponde il padrone - vuole tutti alla pari. Per questo ho disposto che a ciascuno fosse riservato un tavolo personale 52. E così anche gli schiavi puzzoni ci terranno meno caldo con il loro pigia pigia ».[6] Arrivano all'istante delle anfore di cristallo accurata¬mente sigillate, che portano attaccate al collo etichette con la scritta: « Falerno Opimiano di cent'anni » 53. [7] Mentre noi ci leggiamo tali scritte, Trimalcione batte le mani l'una con l'altra, e « Ahi, - esclama, - dunque il vino vive più a lungo dell'ometto! Ma allora facciamo le spugne. È vita il vino. E questo che offro è Opimiano garantito. Ieri non ne ho servito di così buono, e sì che le persone a cena erano di molto più riguardo ». [8] Mentre noi dunque si beve, tutti in estasi in mezzo a quel lusso, arriva uno schiavo con uno scheletro d'argento, articolato in modo che le sue giunture e vertebre erano disnodate e flessibili in ogni senso 54. [9] Come lo getta sulla tavola una prima e una seconda volta, e la catena guizzante assume pose diverse, Trimalcione commenta:[10]

« Ahi, che miseri siamo, che nulla a pesarlo è l'ometto!

Così saremo tutti quel giorno che l'Orco ci involi.

Perciò viva la vita, finché si può star bene ».

[…] XLI, 9-12 Dopo questa portata Trimalcione si alzò per andare sul vaso. Noi, conquistata, senza il tiranno, la libertà, ci mettiamo a far parlare i commensali. [10] Dama dunque per primo, chiesto qualche boccale, « Il giorno - disse - va via come niente. Mentre ti volti, fa notte. Allora non c'è niente di meglio che andar diritto dal letto alla tavola. [11] E abbiamo avuto un bel freddo (et mundum frigus habuimus). A mala pena mi ha scaldato il bagno (vix me balneus calfecit). Però una bevanda calda ti veste a dovere. [12] Io ne ho infilato una serie (staminatas duxi) e sono proprio sbronzo (matus). Il vino mi ha dato alla testa ».

Persio. Satire (da leggere una a scelta)

Non ho mai bagnato le mie labbra alla fonte del cavallo,né di aver mai sognato sul Parnàso dalle due cime mi ricordo, per diventare così improvvisamente poeta.E le fanciulle dell’Hélikon e Pirene che rende pallidile lascio a coloro alle cui immagini s’abbracciano le edere rampicanti; io mezzo rustico quale sonoporto i mei carmi alla festa dei vati.Chi ha fatto pronunciare al pappagallo il suo ‘salve!’e chi ha insegnato alla gazza a tentare di pronunciare le nostre parole?il maestro dell’arte, l’elargitore dell’ingegno,il ventre, abilissimo nell’imitare anche le voci negate dalla natura.Ma se rifulgerà la speranza del denaro ingannatore,potrai credere che i corvi poeti e le gazze poetesse cantino un canto dolce come il nettare di Pégaso.

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Satura I

O cure dei mortali! o quanto vuoto nelle cose!"Chi leggerà i tuoi versi?". Dici a me? Nessuno, per Ercole."Nessuno?" O due o nessuno. "Vergogna, sventura". E perché?Certo Polidamante e le Troiane mi preferiranno Labeone!Sciocchezze! Se la torbida Roma non apprezza qualcosa, non fartiavanti a raddrizzare nella bilancia l'ago storto, non cercarefuori di te. Infatti a Roma chi non... Potessiparlare... Ma sì che si può, al guardare certe testecanute e la nostra melanconica vita e cosa facciamoappena lasciato il gioco delle noci, quando ci diamoarie di saccenti zii; allora, perdonate. "Non voglio".Che farci? ma sono un burlone con la milza petulante.Scriviamo rinchiusi, in versi o liberi da impaccimetrici, qualcosa di sublime da soffiare fuori a pienipolmoni, che infine leggerai in pubblico, pallido, ravviato,con la toga nuova, la sardonica di compleanno al dito, dall'altodi un soglio, gargarizzato l'agile gola da modulati sciacqui,pesto l'occhietto lascivo. E vedrai oscenamente agitarsicon voce roca i corpulenti Titi se i carmigli penetrano nei lombi e i tremuli versi gli solleticanole pudende. E tu, nonnetto, raccogli escheper le altrui orecchie cui, per quanto di pelleincallita, una volta dovrai pur dire basta?"Perché aver studiato, se il fermento e il caprifico che ci nacquerodentro, lacerato il fegato non possono uscire fuori?".Di qui il pallore e la vecchiaia O costumi! A tal puntoil tuo sapere è nulla se altri non sappia che tu sai?"Ma è bello essere additati, e sentir dire: "Eccolo, è lui!"Ti pare trascurabile cosa servire da dettato a centoscolaretti ricciuti?". Ecco i discendenti di Romolo chiederesbevazzando a pancia piena che cosa narrino i divini poemi.Ora qualcuno con una mantellina color di giacinto sulle spalledice qualcosa di stantìo con balbuziente voce nasale,e sbrodola tutte le Fìllidi e le Issìpili e quanto di lagrimevolesia nei poeti, storpiando le parole con il palato languido.Assentirono gli illustri ospiti: ora non sarà pagoil cenere del poeta? non sarà più lieve il cippo sulle sue ossa?I convitati tessono elogi: ora da quell'ombra, da quel tumulo,da quel cenere venturoso non nasceranno viole?"Tu scherzi", dici "e troppo ti compiaci di arricciareironicamente il naso. O vi sarà chi ricusi citazioni al meritosulle labbra della gente, e composte pagine degne del cedroche non temono di incartare sgombri e spezie, non voglia tramandarle?"Chiunque tu sia che or ora ho finto mio contraddittore,se scrivo e per caso mi riesce qualcosa di decente- uccello raro -, se tuttavia mi riesce qualcosa di decente,non certo io fuggirò le lodi, non sono di fibradi corno. Ma escludo che il fine ultimo di ciò che si fadi buono, consista in quel tuo "Bravo!" "Bene!". Scuotiben bene quel "Bravo!". Che cosa non c'è lì dentro? Non c'èl'Iliade di Accio inebriata da ellèboro, e le elegiuzzedettate da nobili dispeptici, insomma tutto ciò che si scrivesu letti di cedro? Tu, furbo, offri una caldapancetta di scrofa a un affamato, o un consunto mantello a un amicointirizzito egli dici: "Amo il vero, ditemi il verosu di me". È possibile? Vuoi che lo dica? Tu scherzi, zuccapelata cui sporge di un piede e mezzo una pancia di maiale.O Giano, al cui tergo nessuna cicogna ha beccato, né alcunoha imitato con agili mani le bianche orecchie asinine,né mostrato tanto di lingua quanto un'assetata cagnadi Puglia! Ma voi, sangue patrizio, che dovete pur viverecon la nuca cieca, guardatevi dalle smorfie che vi fanno alle spalle!Ma che dice la gente? Cos'altro se non che ora alfinei carmi scorrono con ritmo così dolce, che sulle giunture scorreliscia l'unghia più severa? "Sa tendere il verso comese chiuso un occhio tracciasse delle rette con il cordino rosso;si occupi anche dei costumi, dello sfarzo, dei banchetti regali,la Musa concede al nostro poeta di scrivere meraviglie".Ed ecco oggi si insegna ad assumere sentimenti eroicia gente avvezza a giocherellare con versicoli alla greca, incapacedi descrivere un bosco, di elogiare una campagna rigogliosa con le sue ceste,i fuochi, i maiali e le Palilie fumose per i falò di paglia,da cui Remo, e tu, o Quinzio, che logoravi il vomerenel solco, tu che la trepida sposa vesti da dittatoreal cospetto dei buoi; un littore riportò a casa il tuo aratro.Bene, poeta! V'è ancora chi indugia sul venoso librodel bacchico Accio e sulla bitorzoluta Antiope di Pacuvio,cui pure resse il cuore luttuoso di sventure?Quando vedi cisposi padri instillare nei figlitali consigli, chiedi di dove provenga lo sfrigolìodi frittura del nostro linguaggio, e questa vergogna per cuiil levigato Trossulo ti saltella con le natiche da un sedile all'altro?Non ti vergogni di non poter allontanare da una testa canuta il pericolod'una condanna, a meno che tu non oda - lo desideri - un "Bravo"che ti rianimi? "Sei un ladro", dicono a Pedio. E Pedio?Pesa le accuse in rigorose antitesi, si fa lodareper la dotta disposizione delle figure: "Bello, questo". Bello?Romolo, ci sculetti anche? Mi commuoverebbe un naufrago che canta,e gli porgerei l'elemosina? Ma sei tu che canti recando appesoa una spalla il tuo ritratto nel naufragio. Del vero, non dell'inventatodi notte, si dorrà chi vorrà piegarmi con il suo lamento."Ma al ritmo prima rozzo si e aggiunta l'eleganza delle giunture:si e appreso a chiudere i versi così: "il Berecinzio Attis";e ancora: "il delfino che solcava il ceruleo Nereo";e così: "sottraemmo una costola al lungo Appennino"."Le armi e l'eroe" non vi sembra schiumoso e di spessa corteccia,quasi un vecchio ramo soffocato da un eccesso di sughero?".Qualcosa dunque di tenero, da leggere con la nuca rilassata?"I rochi corni riempirono di mimallònei rimbombie la Bassaride pronta a strappare al superbo vitello la testae a guidare con tralci d'edera la lince, la Menade,Evio, Evio ripete, ed Eco risuona duplicandosi".Esisterebbe ciò se sopravvivesse in noi una vena dei testicolipaterni? Questa roba slombata nuota a galladella saliva sulle labbra, e la Menade e Attis sguazzano nel bagnato,non inducono a percuotere il pluteo né risentono di unghie rosicchiate."A che serve raschiare con verità mordaci le orecchiedelicate? Attento che non si raffreddino per te le soglie dei potenti:mi sembra già di sentire un nasale ringhio di cane".Oh per me considera ciò una cosa innocente:non obietto. Bravi, tutti! tutti diverrete mirabilicose. Vi piace così? "Qui", dici, "nessunoinsudici". Dipingici due serpenti: "ragazzi, quiè sacro, orinate fuori". Me ne vado, Lucilio morsea sangue la città, e te, o Lupo, e te, o Mucio,e ci si ruppe un molare. Lo scaltro Flacco punge i vizidell'amico inducendolo a sorridere, e accolto così nel cuore,scherza esperto nel sospendere lagente al suo naso pulito.E io non posso fiatare? neanche di nascosto, o con la bucadi Mida? in nessun luogo? Ma scaverò qui: o mio libretto,ho visto coi miei occhi: chi non ha le orecchie d'asino?Questo segreto e questo mio riso - un nulla - non te li vendoper nessuna Iliade. O tu, chiunque sii, toccatodal soffio dell'audace Cratino, o impallidito per lo studio dell'iracondoEupoli e del sommo vegliardo, guarda anche me, le mie satire,se per caso ci trovi qualcosa di ben cotto, a cui si appassioniun lettore dall'orecchio purgato, non chi si diverte, sudicio,a celiare sulle pianelle dei Greci, e pensa di poter dire "Guercio"al guercio, credendosi qualcuno, imbaldanzito dall'italico onore,per aver infranto - edile ad Arezzo - delle mezzette fasulle,o quello che si crede furbo se ride dei numeri sull'abacoe dei disegni tracciati sulla sabbia, pronto alle risase una sfacciata meretrice tira la barba a un cinico. A costoroassegno di mattina l'editto del pretore, dopopranzo Callìroe.Tratto da Splash Latino - http://www.latin.it/autore/persio/saturae/!01!satura_i.lat

Satura II

Conta, o Macrino, con una pietruzza più lucida questo giornoche ti segna sereno un altro dei tuoi anni che passano; mescivino puro al tuo Genio. Tu non chiedi agli dèicon preghiere mercantili ciò che si può loro confidaresoltanto in disparte. Ma molti potenti sacrificheranno con tacitoincensiere: non garba a tutti bandire dai templi quel mormoraree il sommesso sussurrìo delle preghiere, e vivere con richieste palesi."Sani pensieri, reputazione, credito": ciò con chiarezza,e che l'oda chi passa, ma dentro di sé e fra i denti si mormora:"Mi morisse lo zio, che bel funerale!", oppure: "Oh secol favore di Ercole mi risonasse sotto il rastrello un vasodi monete d'argento! Potessi eliminare il pupillo cui seguoprossimo erede! è anche scabbioso e gonfio d'acre bile.Nerio seppellisce già la terza moglie!"Per chiedere santamente ciò al mattino tuffi più volteil capo nell'onda del Tevere ed espii nella corrente le colpenotturne? Orsù, rispondimi - è una bazzecola che voglio sapere -,che ne pensi di Giove? pensi di anteporlo... a chi? a chi?per esempio a Staio? o per l'appunto esiti? Chi migliorgiudice, o chi più adatto ai fanciulli orfani?Dunque ciò con cui tenti di forzare le orecchie di Giove,via, dillo a Staio. "Per Giove", invocherai, "O benignoGiove", ma Giove non invocherà se stesso? Tu pensiche ti abbia perdonato perché, tuonando, con la sacrafolgore abbatte un leccio più presto che te e la tua casa?O perché non giaci fulminato nei boschi sacri, per responsodi fibre di pecora e di Ergenna, luogo malauguroso da evitare,per questo dunque Giove dovrebbe stolidamente offrirtila barba da tirare? o v'è un compenso con il quale hai compratole orecchie degli dèi? forse polmoni e grasse budella?Eccoti una nonna o una zia per parte di madre, timoratadegli dèi, ha tolto l'infante dalla culla e col dito impudicoe saliva lustrale gli purifica la fronte e le umide labbra,esperta com'è nell'esorcizzare il malocchio; poi lo scuotefra le mani e avvia con supplice voto la sua misera speranzaora ai campi di Licino, ora ai palazzi di Crasso.Lo vogliano genero il re e la regina, le ragazze se lo rubino;dovunque avrà posato il piede fiorisca una rosa".Ma io non ho mai raccomandato a una nutrice simili voti:dissuàdila da essi, o Giove, anche se ti pregherà biancovestita.Un altro chiede aiuto per i suoi nervi esauriti, e salutein vecchiaia. Sia pure; ma i grandi vassoi e i grassi insaccatiimpediscono a Giove di assecondarlo e ostacolano gli dèi.Tu chiedi di accrescerti il patrimonio sacrificando un bue,e invochi Mercurio esaminando le fibre: "Arricchisci la mia casa,concedimi armenti e greggi feconde". In che modo, sciagurato,quando sul fuoco si strugge il grasso di tante giovenche?Tuttavia si ostina a volerla vinta con sacrifici e pinguifocacce: "Ecco già prospera il campo, s'arricchisce l'ovile,ecco, ecco, l'ottengo!", finché disilluso e senzasperanza, sospira: "Invano ho dato fondo al mio danaro".Se ti porto in dono crateri d'argento e sbalzati in oromassiccio, sudi e il cuore ti batte per la gioia e ti fastillare il sudore dalla parte sinistra del petto.Da qui ti venne l'idea di spalmare una tinta d'oro,di quello da ovazioni, sui volti degli dèi, perché tra i fratellidi bronzo, quelli che mandano sogni liberi dal catarro,abbiano il primo posto e la barba dorata.L'oro ha soppiantato i vasi di terracotta di Numa e i bronzisaturnii, e rimosso le urne delle Vestali e i fittili etruschi.O anime curve in terra e vuote di cielo!A che giova introdurre le nostre usanze nei templi,e trasferire agli dèi i piaceri della nostra carne scellerata?Essa ha corrotto l'olio diluendovi per sé la cannella,essa ha bollito la lana calabra nella deturpante porpora,essa ci ha indotto a raschiare la perla dalla conchiglia, e a separarele vene del metallo dalla grezza terra nella massa incandescente.Pecca anch'essa, pecca, ma nel suo male v'è pure l'utile.Ma voi, pontefici, ditemi: che ci fa l'oro nel santuario?Proprio lo stesso che le bambole offerte dalle fanciulle a Venere.Perché piuttosto non offriamo ai celesti ciò che il rampollocisposo del grande Messalla non potrebbe con i suoi piatti sontuosi:un'armonia spirituale di leggi umane e divine, i santisegreti della mente, un cuore imbevuto di onestà generosa?Allora mi accosterò ai templi, e sacrificherò con semplice farro.Tratto da Splash Latino - http://www.latin.it/autore/persio/saturae/!02!satura_ii.lat

Satura III

"Sempre la solita storia? già il chiaro mattinoentra dalle finestre e allarga con la luce le strette fessure,e continui a russare quanto basti a smaltire il robustoFalerno, mentre la quinta linea è toccata dall'ombra.Ehi, che fai? Già da un pezzo la canicola infuriata cuocele messi inaridite e ogni gregge è al riparo d'un ampio olmo",dice uno degli amici. "Davvero? è cosi? presto,qualcuno! Nessuno?" Gli si gonfia la vitrea bile:"Mi sento scoppiare" grida quasi ragliassero gli armentid'Arcadia. Subito brandisce un libro, una rasata pergamenadi doppio colore, la carta, il nodoso astile.Allora cominciano i lamenti: l'inchiostro rappreso ristagnasulla penna, il nero di seppia sbiadisce per eccesso d'acqua,è un continuo gemito per la cannuccia che semina gocce."O meschino, e ogni giorno più meschino, a ciò siamo giunti?Ma perché piuttosto, al pari d'un tenero piccioncinoe dei figli dei ricchi non chiedi la pappa a bocconcini,e bizzoso non ti quieti neppure alla ninnananna della balia?""Studiare con questa penna?". "A chi lo racconti? Perchécanticchi codeste storielle? Ci sei tu, in gioco. Il cervelloti si scioglie in acqua. Tutti ti sprezzeranno. Risuona del difettoa percuoterla, e risponde stonata una brocca di creta malcotta.Sei umido e molle fango, ora bisogna affrettarsia plasmarti con l'instancabile ruota. Certo hai un discreto raccoltodi grano dal podere paterno, una saliera tersa e immacolata,cos'hai da temere? - e una padella sicura abitatrice del fuoco.Basta così? o ti si conviene far scoppiare i polmoni di vento,perché millesimo trai il tuo ramo da una genealogia etrusca,o perché drappeggiato nella tràbea saluti il tuo censore?Al volgo le fàlere. Io ti conosco fin sotto la pelle.Non ti vergogni di vivere al modo di quel dissoluto di Natta?Ma egli è inebetito dal vizio e nelle fibre del cuore gli crescegrasso lardo, è irresponsabile, non sa cosa perde, e se affondanon ritorna più a gorgogliare alla superficie delle onde.Grande padre degli dèi, quando un'atroce passionetinta di bollente veleno sfrena la mente dei crudelitiranni, non punirli in altra maniera che questa:scorgano la virtù, e si sentano marcire per averla abbandonata.O forse più gemettero i bronzi del siculo giovenco,o più atterri la spada che pendeva dai dorati soffittisulla testa porporata, di chi debba dire a se stesso: "Precipitiamo,precipitiamo fino al fondo", e in sé impallidisca, infelice,mentre ne è ignara la sposa che gli dorme accanto."Da bambino, ricordo, spesso mi ungevo gli occhi con olio,se non volevo imparare le solenni parole di Catone morituro,e che mio padre ascoltava sudando con gli amici condottifin troppo elogiate dal maestro un po' tocco di mente, con sé.Giustamente il mio desiderio più grande consisteva nel saperecosa mi fruttasse un buon colpo da sei, quanto mi sottraesseun rovinoso uno, non fallire lo stretto collo di un'anfora,e che nessuno mi superasse nel far girare la trottola con la frusta.Ma ormai non dovresti essere inesperto nel redarguire il malcostume,e di ciò che insegna il sapiente Portico dipinto dei bracatiMedi, per cui la gioventù veglia insonne e rasale chiome, nutrita di baccelli e di grosse fette di polenta;e a te la lettera del filosofo di Samo dai divergenti rami,già mostrò la via che si leva sul destro lato.Ma continui a russare, e la testa ti ciondola come slogata,sbadiglia il vino di ieri con le mascelle sgangherate da ogni parte!V'è qualcosa cui miri, quasi bersaglio al tuo arco?O insegui qua e là i corvi con cocci e zolledi terra, affidando al caso i tuoi passi e vivendo alla giornata?Riconoscerai che si ricorre invano all'ellèboro quando la pellegià ammalata si gonfia: prevenite il morbo mentrearriva. A che serve promettere a Cratero mari e monti?Imparate, o dissennati, a conoscere le ragioni delle cose;ciò che siamo, per quale vita nasciamo, il luogoassegnato, come e da dove aggirare lievemente la méta,la misura delle ricchezze, ciò cui è lecito aspirare, l'utilitadella ruvida moneta serbata, quanto convenga donarealla patria e ai cari congiunti, chi volle dio che tu fossi,e quale il ruolo a te assegnato nella condizione umana.Apprendi, e non invidiare l'odore delle molte giarenella ricca dispensa d'un avvocato che ha difeso i grassi Umbrie le spezie e i prosciutti, ricordo di qualche cliente della Marsica,e i pesci in salamoia non ancora affondati dalla sommità del barile.Ma ora qualcuno della razza dei centurioni di lezzo caprigno,potrà dire: "Per me, quello che so mi basta,non mi curo di essere un Arcesilao o uno di quei disgraziatiSoloni con la testa bassa e gli occhi fissi a terra,che sembrano masticare i loro brontolii e rabbiosi silenzi;con il labbro sporgente pare che ci pesino le parole,rimuginando le allucinazioni di quel vecchio infermo, "nullanasce dal nulla, nulla può tornare nel nulla".Per questo sei pallido? per ciò qualcuno non mangia?"A questo la gente ride e i giovani muscolosiarricciando il naso ripetono tremule risate."Guarda bene, il cuore mi palpita per non so che, e il respiromi esala pesante dalla gola ammalata, guarda, per cortesia".Chi parla così al medico, che gli prescrive il riposo a letto,se la terza notte constata che il polso gli batte normale,chiederà a una casa più ricca, con una bottiglia mezzana,del vino leggero di Sorrento da bere prima del bagno."Ehi, amico, sei pallido!" "Non è niente". "Ma guarda qui,sia quel che sia, la pelle, senza che l'avverta, ti si gonfiagiallastra". "Sei più pallido tu, non farmi il tutore;quello l'ho sepolto: resti tu". "Via, tacerò".E lui, gonfio di cibo, con il ventre sbiancato, si bagna,mentre la gola espira faticosamente fiati sulfurei.Ma tra i calici lo coglie un tremore che gli scuote via dalle maniun bicchiere di vino caldo, i denti gli battono scoperti,grassi bocconi gli cadono dalle labbra molli.Di lì a poco le trombe, le candele, e infine quel signorinofelice sul catafalco, spalmato di grasso balsamo di amomo,protende tese le rigide gambe verso la porta.Ma Phanno recato a spalla i Quiriti, fatti ieri,con il pileo in testa. "Toccami il polso, baggiano, poggiamila destra sul petto: non brucio; toccami la punta dei piedie delle mani, non è mica gelata". Ma se per caso vedi del denaro,o la splendida figlia del tuo vicino ti sorride languidamente, il cuoreti sobbalza come dovrebbe? Se ti portano irta verdurain un gelido piatto, e pane di farina passata a uno stacciogrossolano, proviamo se mangi! Ti viene subito un'ulcerapurulenta nella tenera bocca, invisibile, ma guai se la irritauna bietola plebea. Agghiacci quando la sbiancante paurati drizza i peli del corpo; o il sangue ti bolle, comeper sottoposta fiamma, ti scintillano gli occhi e dici e fai coseche lo stesso folle Oreste giurerebbe degne di un folle.Tratto da Splash Latino - http://www.latin.it/autore/persio/saturae/!03!satura_iii.lat

satura IV

"Ti occupi di politica?" - immagina che queste parole le dicail barbuto maestro che mori per una pozione di funesta cicuta -,"E fidando su che? Dimmelo, o pupillo del grande Pericle.Certo l'ingegno e l'esperienza ti giunsero veloci, primache ti spuntasse la barba, incallito già nelle cose da direo da tacere. E allora quando il popolino è in tumulto e fervedalla bile, ti basta l'animo per imporre silenzio alla turbainfiammata con un maestoso gesto della mano. Che dici, poi?"Quiriti, ciò, per esempio, non è giusto; questo e male,preferibile quello". Infatti sai pesare la giustiziasui piatti dell'incerta bilancia; distingui la linea rettaanche se passa tra curve, o il regolo inganna per un piedestorto, e sai marchiare il vizio col nero theta.Ma perché dunque tu che di bello hai solo, inutilmente,l'epidermide, non cessi di scodinzolare precoce per il volgo che ti blandisce,tu, più adatto a sorbire l'ellèboro puro di Anticira?Qual è per te il sommo bene? Vivere semprefra unte casseruole e curarti la pelle con assidui bagnidi sole? Attento, una qualsiasi vecchia risponderebbe ugualmente.Va', e sbuffa pure: "Sono il bellissimo figliodi Dinomaca"; - e sia, purché riconosca non meno assennatala cenciosa Bauci quando offre gridando il basilicoa uno schiavo discinto." Nessuno cerca di scendere in sé,ma ognuno guarda nella bisaccia sulle spalle di chi lo precede!Poniamo che tu abbia chiesto: "Conosci i poderi di Vettidio?";"Di chi?" "Quel riccone che a Curi ara tanta terraquanta non ne sorvolerebbe un nibbio"; "Parli di quello sciaguratoin ira agli dèi, che quando attacca il giogo agli archidei crocicchi, non volendo sturare una bottiglia di vino vecchio,piagnucola: "Alla salute", mordendo una cipolla non sbucciata cosparsadi sale, e mentre i servi festeggiano una pentola di farro,succhia la feccia stracciosa d'un aceto svanito?"Ma se unto riposi e ti lasci trafiggere la pelle dal sole,uno sconosciuto dà di gomito al vicino e sputa acre:"Bella moda sarchiare il pene e l'intimitàdei lombi e mettere bene in mostra fradice vulve!Mentre ti pettini il tappetino delle gote profumate al balano,perché il gorgoglione ti sporge dagli inguini depilato?Anche se cinque palestriti si mettano a svellere i tuoi fittoni,e con una pinza ricurva stanchino le tue natiche infrollite,tuttavia non v'è aratro che domi codeste erbacce".Bersagliamo, e a vicenda offriamo le gambe alle frecce degli altri.Viviamo così, lo sappiamo. Sotto i tuoi fianchis'apre un'oscura ferita, ma la copre una larga cinturad'oro. Da' ad intendere a parole ciò che preferisci,e inganna i tuoi nervi, se puoi. "Se il vicinato mi definisceegregio, non dovrei credergli?" Ma se impallidisci, briccone,alla vista del denaro, e fai tutto ciò che garba al tuo pene,e flagelli lasciandovi i segni l'amaro pozzo, avraiofferto invano alla folla le orecchie credulone. Rifiutaciò che non sei, la gente riprenda i suoi doni. Rientrain te: saprai qual breve scorta di virtù possiedi.Tratto da Splash Latino - http://www.latin.it/autore/persio/saturae/!04!satura_iv.lat

satura V

È costume dei poeti chiedere cento voci, centobocche, e desiderare cento lingue per i loro versi,si tratti di un dramma che reciti a bocca apertail tragedo atteggiato a cordoglio, o delle ferite di un Partoche si svelle il ferro dall'inguine. "A che miri con ciò? Che bocconidi robusta poesia ingurgiti, perché ti servano centogole? I magniloquenti raccolgano nebbie sull'Elicona, se c'èancora qualcuno per cui dovrà bollirela pentola di Progne o quella di Tieste, vivanda frequente di quell'insulsoGlicone. Ma tu non comprimi l'aria con l'ansante manticementre il metallo fonde sul fuoco, né brontoli cupogracchiando fra te e te non so che cosa di solenne,né tendi le gote rigonfie sino a farle scoppiare.Usi le parole comuni, esperto nei costrutti energici,nell'eleganza misurata, nello strigliare i vizi spettralie trafiggere la colpa con libero gioco. Traida qui il tuo dire, lascia a Micene le sue mensedi teste e piedi, attieniti ai pasti plebei".Davvero non voglio che le mie pagine si gonfino di funebriciance buone soltanto ad emettere fumo.Parliamo in disparte fra noi: ti offro ora, per esortazionedella Camena, il mio cuore da scrutare. Mi piace mostrarti,Cornuto, dolce amico, quanta parte della mia animati appartenga. Percuoti tu, accorto nel distinguereciò che suona pieno dall'intonaco d'una lingua dipinta.Per questo si ardirei chiedere cento lingue,per esprimere con voce chiara con quale profondità ti ho accoltonei meandri del petto, e perché le parole rivelino quantod'ineffabile si celi nelle intime fibre del mio cuore.Appena la porpora, custode dell'adolescenza, mi abbandonò timorosoe il ciondolo infantile fu appeso in dono ai succinti Lari,quando i piacevoli compagni e il fascio di pieghe della togaormai bianca mi permisero di guardare impunementetutta la Suburra, e il cammino è incerto e l'errore inconsapevoledella vita conduce le trepide menti nella biforcazione dei crocicchi,io m'affidai a te. Tu accogli la mia giovaneetà, o Cornuto, nel tuo seno socratico. Allora il regolo,con benefico inganno, al solo avvicinarsi corregge le storteabitudini, la ragione incalza il talento che vuole esserevinto, e sotto il tuo pollice assume un industre sembiante.Ricordo, trascorrevo lunghe giornate con te,e per cenare insieme sottraevo le prime ore alla notte;comune il lavoro, e ugualmente insieme disponiamo il riposo,riposiamo dai faticosi impegni con una casta mensa.Invero non dubitare di ciò, per norma sicura concordanoi nostri giorni, guidati da un'unica stella: o la Parca,tenace nel vero, tiene le nostre vite sospesesull'equilibrata Bilancia, o l'ora scoccata degli amicifedeli divide i concordi destini di noi due fra i Gemellie col favore di Giove vinciamo insieme il malefico Saturno:non so quale,, ma certo un astro mi conforma a te.Mille le specie degli uomini, e diversi gli usi della vita;ognuno vuole il suo, né si vive d'un solo desiderio.Questi, sotto il sole d'oriente, scambia con merciitaliche il rugoso pepe e i granelli di cumino che induconoil pallore; questi, sazio, preferisce ingrassare in un sonnovinoso; un'altro si compiace del Campo; un'altro lo rovinanoi dadi; quello è sfatto dalle donne; ma quando la pietrosagotta li avrà colpiti alle giunture, rami secchid'un vecchio faggio, ormai tardi piangeranno la vitatrascorsa in grevi giorni e in luce palustre.Tu invece ti compiaci di impallidire sulle notturne carte;coltivi i giovani, purifichi le loro orecchie per seminarvila messe di Cleante; apprendete di qui, ragazzi e vecchi,il preciso fine dell'animo, il viatico alla infelice canizie!"Domani sarà lo stesso". "Domani? quasi mi facessiun grande regalo". Ma quando è venuto il giorno seguente,il domani di ieri è già consumato: altri domanirapiranno questi giorni, e sempre resterà una piccolariserva di domani. Per quanto vicina a te e sottolo stesso timone, invano inseguirai la ruota che gira,se corri come ruota posteriore e sull'altro asse.V'è bisogno di libertà, ma non di quella per cuiqualunque Publio della tribù Velina se la sia meritata,ottiene con la tesserina un po' di farro scabbioso. Ahi,sterili di verità coloro che una giravolta trasforma in Quiriti!Ecco Dama, stalliere da due soldi, cisposo per il cattivovino, bugiardo anche per un pugno di foraggio: il padronelo gira, e dalla giravolta di un attimo esce un Marco Dama:cribbio! Se garantisce Marco rifiuteresti un prestito? Impallidisciper un verdetto di Marco? ha parlato Marco: è così; firmae sigilla gli atti, o Marco. Questa è vera libertà,ce la dona il pìleo. "O chi altro è libero se non chi può viverea suo piacimento? Se posso vivere come voglio, non sonopiù libero di Bruto?" "Concludi male", disse allorauno stoico, lavatosi l'orecchio con abrasivo aceto:"il resto lo accetto, ma togli quel posso e quel voglio"."Dopo che grazie alla bacchetta mi allontanai dal pretore, miopadrone, perché non dovrebbe essermi lecito ognidesiderio, eccetto quelli vietati dal codice di Masurio?"Ascolta, ma prima ti cadano dal naso l'ira e le grinzosesmorfie mentre ti estirpo dall'animo i pregiudizi delle nonne.Non è il pretore che può dare agli stolti il delicato sensodel dovere e permettere loro la pratica d'una vita travolgente:più presto adatteresti la sambuca a quel pezzo di facchino.Ti contrasta la ragione, sussurrandoti in segreto che non è lecitoaccingerti a ciò che, nel farlo, puoi solo guastare.La legge di natura, comune a tutti gli uomini, ingiungel'ignoranza che non può nulla, osservi almeno i divieti.Se diluisci l'ellèboro, non sai fermare al punto giustol'ago della bilancia: te lo vieta l'arte medica.Se un contadino con gli zoccoli pretende di comandare una nave e non sanemmeno qual è Lucifero, Melicerta griderebbe che il pudoree scomparso dal mondo. L'arte della vita ti ha insegnato a camminarecon passo diritto, e sai distinguere l'apparente dal vero,affinché non batta falsa una moneta d'oro che ha sottoil rame? E le cose da perseguire e a vicenda quelle da evitarele hai segnate, le prime con il bianco di creta, le altre con il carbone?Sei moderato nei desideri, in una casa modesta, dolcecon gli amici? Secondo il bisogno stringi o apri i sacchidel tuo grano? Riusciresti a non chinarti per raccattare una moneta piantatanel fango senza ingoiare d'un sorso l'acquolina mercuriale?"Possiedo le qualità che dici". Se avrai parlato sinceramente,sarai libero e sapiente, con il favore dei pretori e di Giove.Se invece tu che eri poc'anzi della nostra farina,sei sempre della stessa pelle, e sotto un limpido voltoconservi nel cuore corrotto la natura dell'astuta volpe,riprendo ciò che ti avevo concesso prima e ritraggola fune. La ragione ti è stata avara: se stendi un dito,sbagli. Eppure che c'è di più esiguo? Con nessuna quantitàd'incenso otterrai che agli stolti aderisca mezz'oncia, un'inezia,di bene. Non si possono mescolare saggezza e stoltezza. Se per il restosei un terrazziere, non potrai danzare, anche per tre solebattute, il satiro di Batillo. "Ma io sono libero!" Da chelo deduci, soggetto a tante schiavitù? Conosci soltantoil padrone che ti libera con la bacchetta? Se ti gridano: "Ragazzo,portami le striglie al bagno di Crispino. Muoviti, bighellone!",l'aspro comando non ti scuote, e nulla di esterno penetraad agitarti i nervi. Ma se i padroni ti nascono nel fegato malato,come scamperai con minore pena di colui che la frustae il timore del padrone spingono a portargli le striglie? È mattinae pigro continui a russare. "Àlzati", dice l'Avarizia,"su, àlzati". Rifiuti. Insiste: "Àlzati". "Non posso"."Àlzati". "A che fare?" "E lo chiedi? reca saperde dal Ponto,castorio, stoppa, ebano, incenso, e vino di Cosche scivola in gola, scarica per primo il pepe nuovodal cammello assetato. Traffica, spergiura". "Ma Giove sentirà"."Via, gonzo, passerai allegro il tempo a bucarecon un dito una lustra saliera se cerchi di vivere d'accordocon Giove!". Vestito alla svelta carichi il sacco e il barile sui servi.Nulla impedisce che su un vasto battello divoril'Egeo; ma pronta la Baldoria ti chiama in dispartee ammonisce: "Dove ti precipiti, folle, dove? Che cosati salta in mente? Nel petto infiammato ti si gonfia con tantamaschia energia la bile che un'urna di cicuta non la placherebbe? Tu attraversare il mare? tu mangiare su un banco,appoggiato ad attorte gomene e a un orcio che odoradi rosatello di Veio guastato dalla cattiva pece?Che cerchi? che il denaro accresciuto qui modestamente con l'interessedel cinque per cento, ti frutti con avido sudore l'undici?Gòditela; prendiamo a volo le dolcezze, la vita allegraci appartiene; cenere e ombra e favola diverrai.Vivi memore della morte; l'ora fugge, l'istantein cui ti parlo è già passato". Ora che fai?Due ami opposti ti lacerano. Quale seguirai? Occorreche a vicenda li subisca con alterno ossequio, e a vicendali sfugga. Né tu potrai dire, una volta resistitoall'incalzante comando, che hai rifiutato di obbedire: "Ormai ho spezzatoi legami"; infatti anche una cagna dibattendosi strappala catena, ma fuggendo, con il collo ne trascina un lungo frammento."Davo, presto, voglio che mi creda, intendo finirlacoi tormenti passati" - ma Cherestrato dice questo mordendosile unghie a sangue -. "O dovrei disonorare parenti cosìa modo? con la mia sinistra fama dovrei frantumarele sostanze paterne dinanzi a una turpe casa, mentrecanto ubriaco, con la fiaccola spenta bagnando ben benela porta di Crìside? "Bravo, ragazzo, rinsavisci. Sacrificaun'agnella agli dèi redentori". "Ma piangerà, Davo, se la lascio?""Scherzi, si scaglierà su di te, ragazzo, a colpi delle sue rossepianelle, non trepidare e non cercare di rodere la fitta rete,ora feroce e violento; ma se ti chiamasse, "Subito", diresti"."Che fare dunque, non andarci neanche orase mi chiami e sia lei a supplicarmi?". "Se uscisti di lì interamente,neanche ora". È qui, è qui l'oggetto della ricerca,non nella verga agitata da uno stolto littore.forse padrone di sé l'adulatore che l'inamidata Ambizioneporta in giro con la bocca spalancata? "Vigila e gettaceci abbondanti al popolo che tumultua affinché ancheda vecchi, seduti al sole, ricordino le nostre Florali".Cosa di più bello? Ma al ricorrere dei giorni di Erode, quandole lucerne cinte di viole sulle unte finestre emananouna grassa fumea e sguazza la coda del tonnoin cerchio nel rosso catino e la bianca brocca e ricolmadi vino, muovi silenzioso le labbra e impallidisci al sabatodei circoncisi. Allora i neri fantasmi e i pericoli che derivanodall'infrangersi dell'uovo, e i giganteschi galli, e la guercia sacerdotessacon il sistro, introducono in te gli dèi che gonfiano il corpose al mattino non gusti i tre capi d'aglio prescritti.Ma prova a dire ciò fra i centurioni che soffrono di varici.Subito l'enorme Puliennio scoppia in una grossolana risatae per meno di cento assi ti offre all'asta cento Greci.

Satura VI

Già i primi freddi ti hanno condotto al focolare sabino,o Basso? già le severe corde della lira vibranosotto il tuo plettro? Mirabile artefice, adattiil virile suono delle antiche voci ai ritmi della cetralatina, poi, straordinario vecchio, susciti giovanilischerzi e giochi sulle corde con pollice onesto. Per mes'intiepidisce la spiaggia ligure e l'inverno del mio maredove gli scogli formano un ampio fianco e il lido s'inarcain un profondo seno. "Visitate il porto di Luni, o cittadini,ne vale la pena!" A ciò esorta l'anima di Ennio,dopo avere sognato russando di trasformarsi da pavonepitagorico in Quinto Meònide. Qui non mi curo della gente,né di cosa minacci al bestiame l'infausto scirocco,né dell'angolo di terra del vicino perché più fecondo; e anchese tutti quelli di nascita peggiore arricchissero, rifiutereid'intristirmi per questo, curvo di vecchiaia, di cenare di magro,di toccare con il naso il sigillo d'una bottiglia di vino scipìto.Divergano altri da ciò; l'oroscopo produce gemellidi indole opposta. Uno soltanto nel giorno del compleannofurbastro acquista della salsa e ci condisce l'asciutta insalata,spruzzando da sé nel piatto il pepe al pari di cosasacra; l'altro, un ragazzo generoso, ha denti capacidi finirsi un patrimonio. Io godrò del mio, ma senzastrafare: non imbandirò dei rombi ai liberti, non sarò prontoa distinguere il delicato sapore delle torde. Vivi della tua messe,e macina il granaio, lo puoi; che temi? Èrpica, e il nuovoraccolto è già in erba. Ma il dovere ti chiama: un amicorovinato da un naufragio si afferra ai càlabri scogli. Tuttoil suo e i voti inascoltati li ha inghiottiti lo Ionio. Egligiace sul lido con i grandi dei strappati dalla poppa,il fianco delle nave lacerata in balìa degli smerghi. Spezzauna parte viva del tuo, dònala al misero, affinchénon vaghi dipinto sulla tavoletta azzurra. Ma il tuo erede trascureràil banchetto funebre, adirato perché decurtasti il patrimonio;darà all'urna le tue ossa senza profumi, decisoa ignorare se il cinnamo non olezzi e se il ceraso guasti la cannella."Allora indenne intacchi il capitale?" E Bestio incalzai maestri greci: "Così è: di quando è venutoa Roma, con le spezie e i datteri, codesto nostro gustoeffeminato, persino i falciatori guastano la polenta con densograsso". Temerai tutto ciò dopo morto? Ma tu, mio erede,chiunque sarai, ascoltami un po' in disparte dalla gente:caro, non sai? è giunto l'alloro di Cesare per una straordinariavittoria sulla gioventù germanica e già si spazza la freddacenere dalle are, e Cesonia dà in appalto armida appendere sulle porte, clamidi regali, parrucche biondeper i prigionieri, carri da guerra, enormi statue del Reno.Allora per gli dèi e per il genio del condottiero a celebrarne le egregieimprese compiute, offro cento paia di gladiatori.Chi me lo vieta? Pròvati! Guai se non lo consenti!Elargisco olio, pane e carne al popolino: me lo proibisci?Dimmelo con chiarezza. "Il tuo campo vicino non è cosìdissodato da permetterti ...". Via, se non mi resta nessuna zia,cugina, pronipote di zio paterno, se la zia da partedi madre fu sterile, e da parte della nonna non resta nessuno,me ne vado a Boville o al poggio di Virbio, e subito trovoper erede Manio. "Un figlio di ignoti" Chiedimi chi erail mio quadrisnonno: non subito, ma lo dirò; aggiungine uno,ancora uno: è già un figlio di ignoti, e questoManio per parentela mi diventa all'incirca fratello della bisnonna.Tu che mi precedi perché mi chiedi la fiaccola mentrecorro? Per te sono il dio Mercurio, vengo giù io, propriocome lo dipingono. Rilutti? Desideri goderti i resti?Manca qualcosa alla somma: l'ho intaccata per me; ma per teè intera, di qualsiasi entità. Evita di chiedere la sortedell'eredità lasciatami un tempo da Tadio, e non dire: "Ponii beni paterni, aggiungi gli interessi, detrai le spese,che resta?". Che resta? Via, ragazzo, metti più oliosui cavoli! Nei giorni di festa dovrei cucinarmi dell'orticae una mezza testa di porco affumicata appesa per un'orecchia,affinché quel nipote sazio di fegati d'oca,quando la sua uretra capricciosa si stancherà di inguini vagabondi,minga in una vulva patrizia? e di me non resterebbe che lo scheletroe a lui tremolerebbe d'adipe il ventre macellaio?Vendi l'anima al lucro, commercia, fruga instancabileogni parte del mondo, non vi sia nessuno più abilenel battere la mano sui grassi Cappàdoci esposti sul tavolato;raddoppia il patrimonio. "L'ho gia fatto, tre, quattro e diecivolte mi torna fra le pieghe: segna dove fermarmi".Si è trovato, o Crisippo, chi e capace di stabilire la misura del tuo mucchio.

Giovenale, Satire

Satira V, XV

Chi non sa quali mostri venera,Volusio di Bitinia, il folle Egitto?In un luogo si adora il coccodrillo,in un altro si ha sacro timore dell'ibis,gran razziatore di serpenti.Qui, dove giace sepolta l'antica Tebedalle cento porte e risuonanole magiche corde dei ruderi di Mèmnone,riluce la statua doratad'uno scimmione sacro.Intere città venerano i gatti,altre un pesce del Nilo o un cane,nessuna Diana. Sacrilego è profanarefrantumando a morsi porri e cipolle(o sante genti: per loro gli deinascono negli orti!); mensa non v'èin cui non ci si astengadalla carne di animali da lana:mostruoso è sgozzare un capretto;lecito è invece nutrirsi di carne umana.Raccontando queste mostruositàalla tavola di un Alcinoo sbalordito,Ulisse pare che abbia provocatoirritazione e sarcasmo in alcuni,quasi fosse un bugiardo contafavole:'Non c'è nessuno che butti a mare quest'uomo,che s'inventa immani Lestrígoni e Ciclopi,degno, lui sí, dell'orrenda e vera Cariddi?Sembrano piú credibili persino Scilla,le rupi Cianee in lotta fra loro,gli otri stipati di tempeste o Elpènore,toccato dalla verghetta di Circe,che grugnisce insieme ai suoi rematorimutati in porci. Tanto scioccocrede il popolo dei Feaci?'.Chi aveva attinto pochissimo vinoall'anfora di Corfú ed era ancora sobrio,a buon diritto cosí ragionava:a parlare di queste cosesenza testimoni era solo Ulisse.E anch'io vi narrerò un fatto incredibile,sí, ma accaduto di recentesotto il consolato di Iuncooltre le mura dell'afosa Copto,un delitto di massapiú efferato d'ogni finzione tragica.Non v'è tragedia, anche se le consulti tutteda Pirra in poi, dove un delittovenga commesso da un intero popolo.A questo grado d'orrenda ferociaè giunto il nostro tempo: ascolta.Tra le città vicine di Ombo e Tèntirauna rivalità che si perde nel tempomantiene acceso un odio senza finee ferite insanabili.Tanto reciproco furore nasceperché le due popolazioniodiano gli dei del vicino,convinte che siano vere divinitàsolo quelle che loro adorano.Per uno dei due popoli è tempo di festae a tutti i capi e maggiorentidella città nemicaparve occasione buonaper impedire agli altri di godersiin santa pace e felici quella giornatae il piacere dei sontuosi banchettiallestiti davanti ai templi e nei crocicchiinsieme ai letti, dove notte e giornosi veglia, distesi talvoltasino a che il sole del settimo giornonon li sorprende.L'Egitto è certo paese selvaggio,ma in quanto a sfrenatezza, come io stesso ho visto,questa barbara marmaglia non cedeneppur di fronte alla malfamata Canopo.Ora, non ci vuol molto a vincere gente ubriaca,con la lingua impastata e le gambe malferme.Da una parte uomini che danzano al suonodi un nero flautista, profumi d'ogni genere,fiori e tante corone sulle fronti;dall'altra l'odio di gente affamata.Risuonano le prime ingiurie:per quegli animi eccitati è la diana della rissa.Con uguale clamore si viene alle manie in luogo delle armi infuriano i pugni.Poche son le mascelle che si salvano,pochi o nessuno nella zuffa i nasi intatti.In entrambe le schiere volti mutilati,sembianze sfigurate,ossa che spuntano da guance fracassate,pugni lordi del sangue che gronda dagli occhi.Eppure lo credono ancora un gioco,una battaglia di ragazzi,visto che non calpestano cadaveri.A che scopo combattersi a migliaia,se tutti sono ancora vivi?Perciò l'impeto si fa piú accanito:raccolti sassi in terra,ecco che, tendendo le braccia,cominciano a scagliarequeste armi tipiche delle rivolte.Ma non massi come quelli di Turno e Aiace,o del peso di quell'altro con cui Diomedeferí alla coscia Enea: pietruzzeche possono scagliare mani assai diverse,mani del nostro tempo.Sin da quando viveva ancora Omerola nostra specie cominciò a degenerare;ora la terra nutresoltanto uomini malvagi, inetti,e se li vede un nume, qual che sia,con odio li schernisce.Ma riprendiamo il filo.Ricevuti rinforzi, una delle due partidecide di metter mano alla spadae di riaccendere la mischia a suon di frecce.Sotto l'incalzare degli Ombi,gli abitanti della vicina Tèntira,immersa nei palmizi,volgono le spalle in precipitosa fuga.Uno di loro, mentre per la gran pauracorre all'impazzata, cade e vien catturato.Tagliato a pezzi e pezzi minutissimi,perché un solo morto basti per tutti,quella masnada vittoriosa tutto se lo mangiasino all'osso, senza curarsi affattodi cuocerlo bollito in pentola o allo spiedo,accontentandosi del cadavere crudo,tanto lungo pareva attendereche il fuoco fosse pronto.E almeno questo ci rallegri:non violarono il fuoco che Promèteo,strappandolo alla sommità del cielo,donò alla terra; [rendo grazie al fuocoe penso che anche tu ne sia felice].Ma chi ebbe cuore di mettere i dentisu quel cadavere, sembrava non avermai mangiato niente di piú gustoso.In cosí grande strazio, credi,a provar piacere di quella carnenon furono soltanto i primi:l'ultimo arrivato, quando ormai tutto il corpoè divorato, sfregò il suolo con le ditaper assaggiare almeno un po' di sangue;e piú non domandare.I Vàsconi, si dice, con queste vivandesalvarono un tempo la loro vita;ma la cosa è diversa:qui si trattava di avversità della sorte,di estrema necessità di una guerra,di situazione disperata,di fame atroce dovuta a un assedio senza fine.[In questi casi, come della gentedella quale ho parlato,un episodio di cannibalismomerita compassione.]Esaurito ogni filo d'erba, ogni animaleed ogni cosa che esige il furoredel loro ventre vuoto, oggetto di pietàdegli stessi nemiciper il pallore, la magrezzae le membra scarnite, spinti dalla fameaddentavano il corpo altrui,pronti a divorare anche il proprio.Chi mai di noi o degli deinegherebbe il perdono a genteche aveva patito cosí crudelie immani pene? L'avrebbero assoltapersino i Mani, dei cui corpis'era cibata. Certo,nelle sue massime Zenoneoffre migliore insegnamento:[alcuni infatti ritengono che non tuttosia lecito per salvare la vita;]ma come poteva essere stoico un Càntabro,in piú al tempo del vecchio Metello?Ora il mondo intero si è incivilitoalla cultura greca e nostra:l'eloquenza di Gallia persino in Britanniaha formato avvocati e a Tulegià si parla di stipendiare un retore.Sí, quel nobile popolo di cui ho detto,e il Saguntino, pari in coraggio e virtú,anche se provato da sciagura maggiore,possono trovare qualche attenuante:ma l'Egitto è piú sanguinariodegli altari della Meòtide.La Tàuride infatti, inventrice,se ai poeti si può dar fede,di questi orrendi sacrifici,si limita a immolare esseri umani,senza che la vittima abbia a temereulteriori offese, piú gravi del coltello.Ma quale circostanza spingeva costoro?Quale rabbiosa fame, quale assedio di nemicia osare tale mostruosità li costrinse?Non v'era piú efficace scongiuro da fareperché il Nilo non negasse la pienaalle riarse campagne di Menfi?Ma questa imbelle e inutile marmagliaincrudelí con una rabbiache mai ebbero i terribili Cimbri,i Bretoni e neppure i truci Sàrmatio gli spietati Agatirsi; e pensareche son soliti alzare minuscole velesu barchette d'argilla e piegare la schienasui corti remi di questi gusci dipinti.Non saprei trovare una pena adattaa tanta scelleratezza o un suppliziodegno di gente come questa,nella cui mente fame ed odiosono esattamente la stessa cosa.La natura, dando le lacrime al genere umano,attesta di averlo fornitoanche di un cuore facile alla commozione.Questa è la parte migliore della nostra coscienza.Quando un amico è chiamato in giudizio,la sua penosa situazioneci strappa il pianto, e cosí quando un orfano,che vela coi lunghi capelli di fanciullail viso rigato di lacrime,cita in giudizio il tutore infedele.È per istinto naturale che piangiamo,quando incontriamo il funeraledi una vergine in età da maritoo quando si seppellisce un fanciullotroppo piccolo per fiamme di rogo.Dov'è quell'uomo onestoe degno della fiaccola segreta,come lo vuole il ministro di Cerere,che crede non appartenergli alcun dolore?Questo ci distingue dal mutismo degli animali:noi soli abbiamo avuto in sorteil sacro dono di ragione,di attingere al divinoe di creare e praticare l'arte,traendo dal cielo quella coscienzanegata agli esseri che stanno pronie con lo sguardo fisso al suolo.Nascendo il mondo, a loro il Creatorediede solo la vita: a noi un'anima,perché da un mutuo amore fossimo costrettia chiedere e a prestare aiuto,a riunire in un sol popolo gli uomini dispersi,a uscire dall'ancestrale forestaabbandonando i boschi, dimora degli avi,a costruire case, unendo il nostro tettoal focolare altrui,cosí che la reciproca fiduciadei vicini rendesse piú sicuro il sonno,a proteggere in armi il cittadinocaduto o vacillante per grave ferita,a lanciare segnali con la medesima tromba,a difenderci con torri in comunee dietro porte chiuse da un'unica chiave.Ma ormai c'è piú concordia tra i serpenti.Ogni belva risparmia quellache ha macchie simili alle sue:quando mai a un altro leonetolse la vita il leone piú forte?in quale bosco un cinghiale è spiratosotto i denti di un cinghiale piú grosso?In India la tigre vive in pace perpetuacon altre tigri feroci e l'accordoregna persino tra gli orsi crudeli.Ma all'uomo non basta forgiaresu scellerate incudini armi di morte(i fabbri primitivi,che ignoravano l'artedi modellare spade,si limitavano a fondere sarchi,rastrelli e sudavano su vomeri e zappe):vediamo popoli che per placare l'iranon si accontentano di uccidere,ma credono che petto, braccia e voltosiano cibo e nient'altro.Se oggi vedesse queste infamie umane,cosa direbbe Pitagora, dove fuggirebbe?lui che si asteneva da tutti gli animali,quasi fossero creature umane,e non concedeva al suo ventreneppure tutti i tipi di legumi?Tratto da Splash Latino - http://www.latin.it/autore/giovenale/saturae/!05!liber_quintus/15.lat

Apuleio, Apologia (De Magia)

Antologia

25-27 Eccomi arrivato all'accusa di magia, a quell'incendio che acceso con grande baccano, per mia rovina, contro la comune aspettazione è svanito fra non so quali storielle da vecchie comari. Non vedesti tu mai, Massimo, uno di quei fuochi di stoppia che scoppiettando sonoro divampa immenso a un tratto e poi cade, ché è paglia, senza lasciare più nulla? Eccoti quell'accusa: cominciata con le ingiurie, nutrita di chiacchiere, difettosa di prove, dopo la tua sentenza non lascerà più veruna traccia della calunnia.

Poiché per Emiliano tutta l'accusa fu compresa in questa sola imputazione, che io sono un mago, voglio chiedere ai suoi eruditissimi avvocati, che cosa sia il mago. Siccome io leggo in numerosi autori, mago è nella lingua dei Persiani quello che è da noi il sacerdote; e allora qual delitto è dopo tutto essere sacerdote, avere la conoscenza, la scienza, la pratica delle ordinanze rituali, dei precetti della religione, delle regole del culto? Questa è almeno la definizione che Platone dà della magia quando ricorda con quali discipline i Persiani educhino al regno il giovane principe. Ho nella memoria le parole di quell'uomo divino: e tu, Massimo, ricorda con me: «All'età di quattordici anni lo ricevono quelli chiamati regi pedagoghi. Sono scelti tra i Persiani i quattro ritenuti migliori, di età matura: il più saggio, il più giusto, il più temperante, il più coraggioso. Dei quali uno insegna la magia di Zoroastro figlio di Oromazo: e questo è il culto degli dèi. Insegna anche l'arte del regnare».

Avete ascoltato, dunque. La magia, che voi sconsigliatamente accusate, è arte gradita agli dèi immortali, che gli dèi sa bene onorare e venerare, pietosa voglio dire ed esperta delle cose divine, già fin da Zoroastro e da Oromazo, suoi fondatori, sacerdotessa dei celesti; essa fa parte dei primi insegnamenti del principe, e fra i Persiani non è più lecito a chiunque esser mago che essere re. In un altro dialogo Platone, a proposito di Zalmoxis, uno che pur essendo trace di nazione, praticava la medesima arte, lasciò scritto così: «gl'incantamenti essere buone parole». Se è così, perché non mi è lecito conoscere le buone parole di Zalmoxis o la scienza sacerdotale di Zoroastro? Ma se, com'è volgare costume, i miei avversari credono che mago è propriamente colui che mediante la sua comunicazione con gli dèi immortali, con la forza di certi incantesimi può compiere tutto ciò che voglia di incredibile, mi stupisco in verità che essi non abbiano temuto di accusare uno cui riconoscono tanto potere. Giacché da una potenza tanto occulta e soprannaturale non ci si potrebbe guardare come da altri pericoli. Chi chiama in giudizio un assassino, viene accompagnato; chi accusa un avvelenatore, sta più attento a quel che mangia; chi denuncia un ladro, custodisce bene le sue cose; ma chi accusa di un delitto capitale un mago, come costoro l'intendono, con quali compagni, con quali scrupoli, con quali custodi può rimuovere da sé la invisibile e inevitabile rovina? Per siffatti delitti, chi accusa non crede.

Per un comune errore di ignoranza sono attaccati solitamente i filosofi. Gli uni che cercano di penetrare le cause elementari e i princìpi costitutivi dei corpi, sono tenuti per irreligiosi e negatori degli dèi, come Anassagora, Leucippo, Democrito ed Epicuro e tutti quanti sono sostenitori dell'ordine naturale del mondo; gli altri che solleciti scrutano la provvidenza ordinatrice dell'universo e onorano devotamente gli dèi, questi sono chiamati volgarmente maghi, quasi fossero altresì gli autori dei fatti che essi conoscono. Tali furono Epimenide e Orfeo e Pitagora e Ostane; e in sospetto di magia vennero dopo anche le Purificazioni di Empedocle, il Dèmone di Socrate, il Bene di Platone. Mi congratulo con me stesso di essere anch'io annoverato fra tanti e tali personaggi. Tutte le altre inezie e assurdità che costoro han tratto fuori per dimostrare la mia colpabilità ingenuamente temerei che tu possa ritenerle criminose per il solo fatto che mi sono state imputate. «Perché, dice, tu hai fatto ricerca di certe specie di pesci?» Come se a un filosofo non sia lecito fare per motivo di studio quello che un gaudente si permetterebbe per il piacere della gola. «Perché una donna libera ti ha sposato dopo quattordici anni di vedovanza?» Quasi non fosse più mirabile cosa l'essere rimasta tanti anni senza marito. «Perché prima di sposarti mise per iscritto in una lettera non so quale suo personale apprezzamento?» Quasi uno debba dare ragione dei sentimenti altrui. �