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II. UNA FILOSOFIA CHE PARLA DELLA VITA 1. Introduzione In questo capitolo intendo prendere in considerazione la filosofia di Nietzsche partendo dai suoi aspetti più strettamente legati alla vita e, oserei dire, alla quotidianità; cercherò soprattutto di mettere in risalto quelle parti del pensiero nietzscheano che scaturiscono, appunto, dalla vita di tutti i giorni, a tal punto che forse qualcuno potrà pensare che ciò di cui parlerò non è “filosofia” nel significato comune del termine, ossia che si tratta di riflessioni troppo legate alla vita reale, quella che quotidianamente viviamo tutti noi. Al contrario, ritengo che la grandezza di Nietzsche risieda anche, per non dire soprattutto, nella sua capacità di osservazione, nel suo riuscire a cogliere gli aspetti del mondo che lo circonda (che è anche il nostro mondo), anche quelli più sottili e impercettibili; Nietzsche, possiamo dire, è un “genio della quotidianità”. Nella vita di tutti i giorni, in tutto quello che facciamo, noi abbiamo soprattutto “intenzioni”; ed ecco che il filosofo, forse in maniera eccessivamente generalizzante, osserva: Tutto ciò che avviene per un’intenzione si può ridurre all’intenzione di aumentare la potenza. 1 1 F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 663. 36

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II. UNA FILOSOFIA CHE PARLA DELLA VITA

1. Introduzione

In questo capitolo intendo prendere in considerazione la filosofia di Nietzsche partendo dai suoi aspetti più strettamente legati alla vita e, oserei dire, alla quotidianità; cercherò soprattutto di mettere in risalto quelle parti del pensiero nietzscheano che scaturiscono, appunto, dalla vita di tutti i giorni, a tal punto che forse qualcuno potrà pensare che ciò di cui parlerò non è “filosofia” nel significato comune del termine, ossia che si tratta di riflessioni troppo legate alla vita reale, quella che quotidianamente viviamo tutti noi.

Al contrario, ritengo che la grandezza di Nietzsche risieda anche, per non dire soprattutto, nella sua capacità di osservazione, nel suo riuscire a cogliere gli aspetti del mondo che lo circonda (che è anche il nostro mondo), anche quelli più sottili e impercettibili; Nietzsche, possiamo dire, è un “genio della quotidianità”.

Nella vita di tutti i giorni, in tutto quello che facciamo, noi abbiamo soprattutto “intenzioni”; ed ecco che il filosofo, forse in maniera eccessivamente generalizzante, osserva:

Tutto ciò che avviene per un’intenzione si può ridurre all’intenzione di aumentare la potenza.[footnoteRef:1] [1: F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 663.]

Nietzsche sembra riferirsi in queste righe agli esseri umani e agli animali; tuttavia, secondo il pensatore la volontà di potenza, ossia un tendere costantemente a un aumento della potenza, è una legge alla quale non sfuggono neppure le piante e addirittura nemmeno le cose che compongono il mondo inorganico. Per quanto riguarda le piante, osserva:

“L’uomo tende alla felicità”, ad esempio: che c’è di vero in questo? Per comprendere che cosa è vivere, quale specie di sforzo e di tensione sia la vita, la formula deve valere tanto per l’albero e la pianta quanto per l’animale. […] … ogni espandersi, incorporare, crescere, è tendere a una resistenza: il movimento è essenzialmente congiunto a stati di dispiacere; ciò che qui dà l’impulso deve in ogni caso volere qualcosa d’altro, giacché vuole così il dispiacere e lo cerca continuamente. Perché combattono fra loro gli alberi di una foresta vergine? Per la “felicità”? Per la potenza![footnoteRef:2] [2: Ivi, af. 704. ]

Ma anche il mondo inorganico, dicevamo, è, secondo Nietzsche, governato dalla volontà di potenza; il mondo stesso è “volontà di potenza”, tesi, questa, che trapela con la massima chiarezza dall’aforisma che la sorella del filosofo e il discepolo Heinrich Köselitz hanno scelto per concludere La volontà di potenza; tale aforisma, piuttosto lungo, termina così:

… per questo mondo volete un nome? Una soluzione per tutti i suoi enigmi? E una luce anche per voi, i più nascosti, i più forti, i più impavidi, o uomini della mezzanotte? Questo mondo è la volontà di potenza – e nient’altro! E anche voi siete questa volontà di potenza – e nient’altro![footnoteRef:3] [3: Ivi, af. 1067. ]

Il filosofo tedesco ritiene che anche la forza di gravità sia una manifestazione della volontà di potenza; ed ecco allora che anche fra i pianeti (e quindi in tutto l’universo) è sempre la volontà di potenza, sotto forma di gravità, a stabilire i rapporti di forza; si potrebbe dire, ad esempio, che siccome la Luna ruota intorno alla Terra, ed è quindi assoggettata alla gravità terrestre, la Terra ha un grado di potenza maggiore rispetto alla Luna; la Terra, a sua volta, essendo come tutti i pianeti del sistema solare “prigioniera” della gravità del Sole, ha un grado di potenza minore rispetto al Sole stesso. In un certo senso, quindi, sembra che per Nietzsche anche la materia possa avere “intenzioni”. Il pensatore intende proprio questo quando parla di “volontà di potenza”, ossia una legge inquietante e ineluttabile che determina tutti gli accadimenti, e che guida le intenzioni di tutto ciò che esiste, dalle più minuscole particelle ai pianeti.

Osserva:

La volontà di accumulare energia è specifica del fenomeno della vita, per la nutrizione, la generazione, l’ereditarietà – per la società, lo Stato, i costumi, l’autorità. Non potremmo ammettere che questa volontà sia la causa motrice anche nella chimica? E nell’ordine cosmico?[footnoteRef:4] [4: Ivi, af. 689. ]

Anche ogni essere vivente, ovviamente, sia esso uomo, animale o pianta, è, secondo il filosofo, spinto all’agire da una volontà che ha come unico scopo un aumento della potenza; una definizione precisa di “potenza” non può essere data; degli alberi abbiamo parlato, mentre per quanto riguarda gli animali, osserva Nietzsche, l’aumento della potenza viene ricercato già nell’atto di alimentarsi; per gli uomini la potenza può essere intesa nel suo significato più classico, ossia come potere politico, oppure come ricchezza, oppure ancora come generazione di figli per ottenere una sorta di immortalità; il voler crescere, in ogni senso, equivale a voler aumentare la potenza.

Nella filosofia nietzscheana c’è molta “quotidianità”, e l’ammirazione del pensatore per Schopenhauer è comprensibile se si considera che, come osserva Paolo Scolari, Schopenhauer elabora prima di Nietzsche una filosofia che scaturisce dalla vita reale; dice Scolari:

Schopenhauer viene assunto da Nietzsche quale pensatore tipo e figura esemplare di intellettuale della società della sua epoca. La sua è l’unica filosofia moderna “vissuta” prima che “pensata”, che esprime una scelta di vita. In effetti, Schopenhauer non fu un “intellettuale di professione”: non fece mai della filosofia una mera occupazione intellettuale, né tantomeno un lavoro da svolgere al servizio dello Stato, in vista del successo e del guadagno.[footnoteRef:5] [5: P. Scolari, op. cit., p. 34.]

La filosofia di Nietzsche è quindi una “filosofia della vita”, che talvolta diventa anche una “filosofia di vita”, ossia una filosofia che scaturisce dalle reali esperienze di chi l’ha concepita e che indica come si debba agire in determinate situazioni, senza però assumere mai i toni della predica;

osserva Eugen Fink:

Nietzsche ha dato, come disse una volta Scheler, alla parola «vita» la risonanza dell’oro; egli ha fondato la «filosofia della vita».[footnoteRef:6] [6: E. Fink, op. cit., p. 11.]

E ancora:

La filosofia sembra a Nietzsche più «una prassi di vita» che una verità teoretica.[footnoteRef:7] [7: Ivi, p. 172. ]

Anche Giorgio Penzo, riferendo degli studi di Hans Weichelt, parla della notevole “passione pedagogica” che caratterizza la filosofia del pensatore di cui stiamo parlando; osserva:

In particolare, Weichelt mette in rilievo la passione pedagogica di Nietzsche, che sarebbe presente in tutti i suoi scritti. Una simile passione traspare nella predilezione di Nietzsche per i termini erziehen, lehren (educare, insegnare). Nietzsche vuole istruire i suoi discepoli, i suoi colleghi, i suoi amici, la sorella, il lettore, il popolo tedesco e l’intera umanità. In fondo, questo sarebbe il pathos presente in tutti gli scritti di Nietzsche.[footnoteRef:8] [8: G. Penzo, Nietzsche e il nazismo, il tramonto del mito del super-uomo, Rusconi, Milano 1997, p. 135. ]

Insomma, parleremo di un Nietzsche attento osservatore del quotidiano, un Nietzsche che, lo vedremo, tradisce una grande sensibilità, un Nietzsche, lo abbiamo visto nel capitolo precedente, che a volte tenta con tutti i mezzi di persuadere ad azioni francamente sconcertanti, ma le cui riflessioni sono allo stesso tempo semplici e profonde, e ci parlano di tanti aspetti della vita che solo un geniale osservatore come lui poteva cogliere, e che per nostra fortuna egli ha deciso di raccontarci.

2. Vita e filosofia

Mi sembra corretto intitolare questo paragrafo “Vita e filosofia” proprio perché, come vedremo, parleremo di alcuni aspetti della filosofia di Nietzsche che, come dicevamo, sono strettamente connessi alla vita reale, a tal punto che possiamo dire che qui la vita diventa filosofia e la filosofia diventa vita.

L’importanza che Nietzsche attribuisce alla quotidianità emerge già dai suoi scritti giovanili, quelli relativi alla sua permanenza alla scuola di Pforta, dove nel suo diario annota perfino le pietanze che vengono servite giornalmente per cena; scrive:

Poi è l’ora della cena, che assomiglia in tutto al pranzo.

Lunedì. Venerdì. Minestra, pane e burro, formaggio.

Martedì. Sabato. Minestra, patate, burro.

Mercoledì. Minestra, salsiccia, purea di patate o cetrioli sottaceto.

Giovedì. Minestra, omelette, salsa di prugne, pane e burro.

Domenica. Minestra, crema di riso, pane e burro – aringhe, insalata, pane e burro – uova, insalata, pane e burro o altro.[footnoteRef:9] [9: F. Nietzsche, Scritti giovanili, 1856-1864, Adelphi, Milano 1998, p. 95. ]

Per rendersi conto bene di quanto per Nietzsche siano importanti le questioni giornaliere, quelle che di solito non ricevono grandi attenzioni da parte dei filosofi, mi sembra opportuno riportare una serie di riflessioni che il filosofo fa in Ecce homo, dove appunto dichiara di ritenere tali questioni non solo importanti, ma addirittura fondamentali. Afferma:

Ben altrimenti mi interessa un problema dal quale dipende la «salvezza dell’umanità» molto più che da qualche curiosità da teologi: il problema della alimentazione. Grosso modo lo si può formulare così: «Tu, come devi nutrirti, per raggiungere il tuo massimo di forza, di Virtù in senso rinascimentale, di virtù senza moralina?».[footnoteRef:10] [10: F. Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 34. ]

Continua:

Ancora un paio di cenni della mia morale. È più facile digerire un grosso pasto che un pasto troppo piccolo. Il presupposto di una buona digestione è che tutto lo stomaco vi partecipi. Bisogna conoscere la capacità del proprio stomaco. Per la stessa ragione sono sconsigliabili quei pasti noiosi che io chiamo banchetti sacrificali interrotti, i pasti alla table d’hote. – Niente fra i pasti, niente caffè: il caffè incupisce. Il tè fa bene solo di mattina. Poco, ma forte: è molto dannoso e ammorba tutta la giornata se è troppo debole, anche di poco. In queste cose ognuno ha la sua misura, spesso entro limiti strettissimi e delicatissimi. In un clima molto eccitante è sconsigliabile cominciare la giornata con il tè: bisogna cominciare un’ora prima con una tazza di cacao spesso e sgrassato. – Star seduti il meno possibile; non fidarsi dei pensieri che non sono nati all’aria aperta e in movimento – che non sono una festa anche per i muscoli. Tutti i pregiudizi vengono dagli intestini. Il sedere di pietra – l’ho già detto una volta – è il vero peccato contro lo spirito santo. Al problema dell’alimentazione è strettamente apparentato il problema del luogo e del clima. Nessuno è padrone di vivere dappertutto; e in questo caso chi ha da realizzare grossi compiti, che mettono alla prova tutta la sua forza, non ha molto da scegliere. L’influsso climatico sul metabolismo, che ne viene ostacolato o accelerato, è così grande che uno sbaglio nella scelta del luogo e del clima può non solo estraniare un uomo dal suo compito, ma anche sottrarglielo del tutto: non riuscirà mai a incontrarlo. Quell’uomo non avrà mai tanto vigor animale da poter raggiungere quella libertà che trabocca fino alla punta estrema dello spirito, quella per cui egli riconosce: questo è cosa per me e per me solo… Un’inerzia anche lieve dell’intestino, diventata cattiva abitudine, è più che sufficiente a trasformare un genio in qualcosa di mediocre, di «tedesco»; basta il clima tedesco per scoraggiare intestini forti e anche eroici. Il ritmo del metabolismo è in preciso rapporto con la mobilità o fiacchezza dei piedi dello spirito; lo «spirito» è solo una specie particolare di questo metabolismo. Vediamo un po’ in quali luoghi si trovano o si sono trovati uomini di grande spirito, dove l’arguzia, la raffinatezza, la cattiveria facevano parte della felicità, dove il genio si trovava quasi necessariamente a casa: tutti sono contraddistinti da un’aria particolarmente asciutta. Parigi, la Provenza, Firenze, Gerusalemme, Atene – questi nomi stanno a provare qualcosa: che il genio è condizionato dall’aria asciutta, dal cielo puro – e questo vuol dire metabolismo rapido, possibilità di attirarsi continuamente grandi, e anche enormi, quantità di forza.[footnoteRef:11] [11: Ivi, pp. 36-38. ]

E ancora:

Mi si domanderà qual è la vera ragione per cui ho raccontato tutte queste piccole cose, indifferenti secondo il giudizio comune: danneggio me stesso, tanto più, poi, se veramente sono destinato a rappresentare grandi compiti. Risposta: queste piccole cose – alimentazione, luogo, clima, svaghi, tutta la casistica dell’egoismo – sono inconcepibilmente più importanti di tutto ciò che finora è stato considerato importante. Proprio da qui bisogna cominciare a cambiare tutte le proprie nozioni. Quelle che finora l’umanità ha considerato cose serie, non sono neppure delle realtà, sono semplici prodotti della immaginazione, o più esattamente menzogne che derivano dai cattivi istinti di nature malate, dannose nel senso più profondo – tutti i concetti di «Dio», «anima», «virtù», «peccato», «al di là», «verità», «vita eterna»… Ma in essi si è cercata la grandezza della natura umana, la sua «divinità»… Tutti i problemi della politica, dell’ordine sociale, dell’educazione sono stati falsati alla radice per il fatto che si sono presi per grandi uomini gli uomini più dannosi – e che si è imparato a disprezzare le «piccole» cose, che sono poi le faccende fondamentali della vita…[footnoteRef:12] [12: Ivi, pp. 52-53. ]

Infine:

Il concetto di «Dio» inventato in opposizione alla vita – tutto ciò che è dannoso, venefico, calunnioso, mortalmente ostile alla vita vi è raccolto in una terrificante unità! Il concetto di «al di là», di «mondo vero» inventati per svalutare l’unico mondo che esista – per non lasciare alla nostra realtà sulla terra alcun fine, alcuna ragione, alcun compito! Il concetto di «anima», di «spirito» e infine anche di «anima immortale», inventati per spregiare il corpo, per renderlo malato - «santo» -, per opporre una orribile incuria a tutte le cose che meritano di essere trattate con serietà nella vita, i problemi della alimentazione, dell’abitare, della dieta spirituale, della cura dei malati, della pulizia, del tempo che fa! Invece della salute la «salvezza dell’anima».[footnoteRef:13] [13: Ivi, p. 136. ]

Come si può vedere, dunque, l’ultimo Nietzsche è molto chiaro nell’attribuire alle faccende quotidiane un’importanza notevolissima; anzi, per lui l’alimentazione, la pulizia e il clima sono le uniche cose importanti, e queste cose sono state messe in secondo piano, se non disprezzate, a causa dell’illusoria credenza in un “altro mondo”. Naturalmente l’attendibilità delle affermazioni appena riportate non può essere verificata in questa sede; l’unica affermazione che mi sembra il caso di evidenziare è quella in cui il filosofo, direi erroneamente, attribuisce a Firenze un’aria asciutta.

Altrove afferma:

Quello che ci fa onore. Se c’è qualcosa che ci fa onore, è questo: abbiamo collocato altrove la serietà; diamo peso alle cose basse, disprezzate da tutte le epoche e lasciate in disparte […] C’è forse un errore più pericoloso che il disprezzo del corpo? Come se con quel disprezzo tutta la spiritualità non fosse condannata a diventare malaticcia […] Tutto ciò che fu pensato dai cristiani e dagli idealisti non ha capo né coda: noi siamo più radicali […] Vogliamo strade lastricate, aria buona in camera, che i cibi siano compresi nel loro giusto valore; abbiamo messo serietà in tutte le necessità dell’esistenza […] Ciò che finora fu più disprezzato, lo portiamo in prima linea.[footnoteRef:14] [14: F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 1016. ]

Anacleto Verrecchia, nel suo La tragedia di Nietzsche a Torino, sembra quasi scandalizzarsi del fatto che Nietzsche, parlando del suo soggiorno in Italia, dia più importanza ai prezzi della frutta e della verdura che non ai quadri e alle chiese; osserva Verrecchia:

Invano ci si aspetterebbe da lui un ritratto sociale e culturale dell’Italia alla Stendhal, o almeno la descrizione di una città, di un museo, di un monumento. Si direbbe che l’Italia, per lui che pure era stato professore di filologia classica a Basilea e aveva frequentato nientemeno che Burckhardt, fosse solo clima, aria, temperatura. […] Trascorre sei o sette mesi a Sorrento e ci si aspetta che egli, con o senza mal di testa, corra di qua e di là per ammirare gli inestimabili monumenti della Campania, così come aveva fatto, mezzo secolo prima, Schopenhauer: «Ho visitato anche Napoli; poi, dopo aver ammirato Pompei, Ercolano, Pozzuoli, Baia e Cuma, mi sono spinto fino a Paestum, dove ho contemplato gli antichissimi, splendidi templi della città di Poseidonia, intatti dopo venticinque secoli, e mi dicevo, preso da sacro rispetto, che stavo camminando sullo stesso pavimento che forse era stato calpestato anche da Platone» (così si legge nel curriculum vitae, redatto in latino, che Schopenhauer inviò all’università di Berlino il 31 dicembre 1819). Niente di tutto questo da parte del professore di filologia classica Friedrich Nietzsche, che preferisce parlare del tempo e dei reumatismi di Malwida von Meysenbug. Quando arriva a Venezia per la prima volta, scioglie forse inni di meraviglia? Niente affatto: dice che non ha interesse né per i quadri né per le chiese. Chi si aspetta da lui una descrizione di piazza San Marco o dei Frari deve accontentarsi di un banalissimo elenco dei prezzi della frutta e della verdura. Eppure egli si riempiva continuamente la bocca di «arte»![footnoteRef:15] [15: A. Verrecchia, op. cit., pp. 20-21. ]

Lo stupore di Verrecchia appare fuori luogo, dal momento che è lo stesso Nietzsche, come abbiamo visto, ad ammettere di dare notevole importanza anche alle cose apparentemente più insignificanti. Verrecchia sottolinea anche il fatto che il filosofo tedesco, costituzionalmente malaticcio e cagionevole, propugnando un modello di uomo dalla salute di ferro e dalla corporeità fiorente, fa un qualcosa di “illogico”. A mio giudizio, invece, questo è un segno di onestà intellettuale, nel senso che è troppo facile, per un pensatore, “propagandare” come buoni e giusti quei valori che sono più confacenti alla sua natura. Nietzsche, piaccia o meno la sua filosofia, scriveva mosso dal desiderio di contribuire all’elevazione dell’uomo, e dedica tutte le sue energie al conseguimento di questo scopo.

Leggendo Nietzsche, per un motivo che non è facile spiegare, si ha la sensazione che in questa filosofia, nonostante sia caratterizzata da un materialismo sfrenato, ci sia qualcosa di spirituale, una sorta di “materialismo raffinato”.

Chi può negare, ad esempio, l’enorme raffinatezza, l’altruismo e, oserei dire, la moralità, di un intento come quello che trapela dal seguente aforisma:

Un educatore non dice mai quello che pensa, ma solo ciò che pensa di una cosa in rapporto all’utilità di chi viene educato. Questa dissimulazione non deve essere tradita: il fatto che si creda alla sua sincerità fa parte della sua maestria. Deve padroneggiare tutti i mezzi della disciplina e dell’addestramento: molte nature le spinge innanzi solo frustandole con lo scherno, altre forse – nature pigre, indecise, paurose, vane – con una lode esagerata. Un simile educatore è al di là del bene e del male: ma nessuno lo deve sapere.[footnoteRef:16] [16: F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 980. ]

Così scopriamo che Nietzsche, il filosofo della durezza e dell’egoismo, nonché il propugnatore dell’annientamento dei deboli, non manca di aiutare a migliorarsi degli individui che, proprio perché “pigri”, “indecisi”, “paurosi” e “vani”, possono essere considerati deboli. Questo, naturalmente, partendo dal presupposto che Nietzsche in questo aforisma parli di qualcosa che riguarda anche lui, il che mi sembra abbastanza chiaro. Egli, infatti, per sua stessa ammissione parla solo di cose che ha vissuto in prima persona, e del resto non è difficile scorgere nell’aforisma appena riportato un tono autobiografico.

Il filosofo, in queste righe, anche se la parola “amore” non compare, non descrive altro che un atto di amore, ma un amore ben diverso da quello di cui si parla in alcuni degli aforismi che abbiamo riportato nella prima parte di questo lavoro; come si ricorderà, lì si parlava di “sacrifici umani” e di “annientamento dei malriusciti”, mentre ora scopriamo che si deve agire amorevolmente, attraverso “una lode esagerata”, nei confronti delle “nature” indecise e fragili.

Come abbiamo visto, il filosofo afferma:

Il vero amore degli uomini esige il sacrificio per il bene del loro genere – è duro, è pervaso di autosuperamento, perché ha bisogno del sacrificio umano. E questa pseudoumanità che si chiama cristianesimo vuole precisamente ottenere che nessuno venga sacrificato...[footnoteRef:17] [17: Ivi, af. 246. ]

E ancora:

L’amore frainteso. C’è un amore da schiavi, che si assoggetta e si svende, che idealizza e si inganna – e c’è un amore divino, che disprezza e ama e trasforma, eleva ciò che ama. Si deve acquistare quella enorme energia della grandezza per foggiare l’uomo futuro allevandolo, da un lato, e, dall’altro, annientando milioni di malriusciti: e non si deve venir meno per il dolore che si crea – un dolore quale non fu mai visto finora.[footnoteRef:18] [18: Ivi, af. 964. ]

Non è ben chiaro, quindi, ciò che Nietzsche intende con la parola “amore”; da un lato, lo abbiamo visto, propugna un amore basato sulla durezza e sulla mancanza di pietà, auspicandosi che i rapporti fra gli uomini siano sempre più caratterizzati dalla mancanza di compassione; dall’altro sembra esaltare una forma di amore che, seppure non ben definita, non sembra rimandare, dai termini e dal tono con cui ne parla, a un amore che preveda (nell’ottica di un’elevazione dell’umanità) il “sacrificio umano”; anzi, il filosofo, sempre con tono autobiografico, sembra talora riferirsi a un amore di stampo oserei dire quasi “cristiano”, che scaturisce dalla sofferenza e dalla pura gioia di amare; scrive:

Un’anima piena e potente non soltanto viene a capo di perdite, privazioni, rapine, insulti dolorosi e magari terribili, ma esce da simili inferni con una pienezza e potenza maggiore e – cosa più essenziale – avendo rinnovato e accresciuto la gioia di amare. Io credo che colui che abbia intuito nell’amore una delle più basilari condizioni di crescita comprenderà Dante, che sulla porta del suo Inferno scrisse: “Anche me creò l’eterno Amore”.[footnoteRef:19] [19: Ivi, af. 1030. Il curatore della Volontà di potenza annota, a proposito di questo aforisma: «Ma in Dante è: “Giustizia mosse il mio alto Fattore: / fecemi la Divina Potestate, / la Somma Sapienza e ʹl Primo Amore” (Inf., III, 4-6)». ]

Anche altrove il pensatore sembra parlare di un amore dal “sapore” quasi romantico; osserva:

Si vuole la prova più sorprendente della distanza a cui giunge la forza trasfiguratrice dell’ebbrezza? L’“amore” è questa prova: ciò che si chiama amore in tutte le lingue e in tutti i silenzi del mondo. Qui l’ebbrezza si disfa della realtà a tal punto che nella coscienza dell’amante la sua causa si cancella e sembra che al suo posto debba trovarsi qualche altra cosa – il tremolare e brillare di tutti gli specchi incantati di Circe. Qui non c’è alcuna differenza tra uomo e animale, e non c’entrano lo spirito, la bontà, la probità. Si è burlati delicatamente, se si è delicati; si è burlati grossolanamente, se si è grossolani: ma l’amore, e persino l’amore per Dio, l’amore santo delle “anime redente”, alla sua radice resta sempre una sola cosa: una febbre che ha buoni motivi per trasfigurarsi, un’ebbrezza che fa bene a mentire sul proprio conto… E in ogni caso si mente bene, quando si ama, si mente bene davanti a sé e a proposito di sé: ci sembriamo trasfigurati, più forti, più ricchi, più perfetti, si è più perfetti... […] chi ama vale di più, è più forte. […] La sua economia generale è più ricca che mai, più potente, più completa di quella dell’uomo che non ama. Chi ama diventa prodigo: è abbastanza ricco per esserlo. Adesso osa, diventa avventuriero, diventa un asino per coraggio e innocenza; torna a credere in Dio, nella virtù, perché crede nell’amore; […] Se dal lirismo del tono e del vocabolario sottraiamo la suggestione che esercita quella febbre intestinale, cosa resta di quella poesia e di quella musica?... Forse l’art pour art: il virtuoso gracidare di frigide rane che si disperano nel loro pantano… Tutto il resto l’aveva creato l’amore…[footnoteRef:20] [20: Ivi, af. 808. ]

L’amore di cui si parla in questo aforisma, e soprattutto la frase “chi ama vale di più, è più forte”, sembra davvero non avere niente a che fare con una forma di amore che preveda “sacrifici umani” e l’annientamento sistematico di determinate categorie di persone che Nietzsche, come abbiamo evidenziato, si auspica; resta il fatto che tali inquietanti auspici saranno messi in pratica in modo metodico e rigoroso dal regime nazionalsocialista, seppure in forme non del tutto uguali rispetto a quanto suggerisce il filosofo.

Del resto, sia detto di passaggio, è difficile pensare che chi dice “chi ama vale di più, è più forte” possa essere pazzo!

Se dovessimo giudicare Nietzsche come persona in base a una lettura superficiale dei suoi libri, potremmo pensare che era un uomo violento e spietato, ma, come abbiamo visto, ci sono alcune affermazioni che ci fanno capire che aveva un’indole gentile e sensibile, caratterizzata da un “altruismo” discreto e raffinato. Anche altrove il filosofo dimostra di avere molto tatto nei rapporti con gli altri, individuando nell’odio contro la mediocrità un atteggiamento non consono alla condotta di vita di un filosofo, facendo capire ancora una volta che anche lui si attiene a tale modo di rapportarsi con gli altri; dice infatti:

Con quale diritto far perdere ai mediocri il gusto per la loro mediocrità? Io, lo si vede, faccio l’opposto.[footnoteRef:21] [21: Ivi, af. 892. ]

E poi:

L’odio contro la mediocrità è indegno di un filosofo: fa quasi dubitare del suo diritto alla “filosofia”. Appunto perché è l’eccezione deve tutelare la regola, deve far sì che ogni mediocre rimanga contento di se stesso.[footnoteRef:22] [22: Ivi, af. 893. ]

Si potrebbe dire che in Nietzsche albergano due anime distinte che, parlando in termini che forse egli non approverebbe, sono l’una votata al bene e l’altra al male, anche se, obbiettivamente, prevale quella votata al “male”.

Il filosofo, lo abbiamo visto, si auspica a più riprese che l’uomo assecondi i propri istinti, anche quelli più feroci, e che agisca guidato da essi, prendendo coscienza della propria natura animalesca e consacrando ad essa la propria esistenza. L’uomo, che per Nietzsche non è altro che un animale più evoluto, deve, per realizzarsi pienamente, liberarsi dal timore di diventare in tutto e per tutto “bestia”. Allo stesso tempo tuttavia, egli, in forma quasi poetica, esalta dei comportamenti che rendono l’uomo molto diverso dagli animali, i quali non sono in grado di “mentire a fin di bene”, come invece deve fare, lo abbiamo visto, un educatore. In questo Nietzsche rimane profondamente e inequivocabilmente umano. Afferma ancora:

Noi apprezziamo poco gli uomini buoni, li consideriamo animali da armento: sappiamo come fra gli uomini peggiori, più maligni, più duri si nasconda spesso un’inestimabile particella d’oro che pesa più di tutta la semplice bonarietà delle paste d’uomo.[footnoteRef:23] [23: Ivi, af. 943. ]

Un esempio a mio avviso chiarificatore di questa “particella d’oro”, di questa bontà dal grande peso specifico che, come sottolinea Nietzsche, alberga nel cuore degli uomini più duri, può essere trovato nel film di Clint Eastwood Gran Torino. In questo film, infatti, Clint Eastwood fa la parte di un “duro” che mostra disprezzo nei confronti dei suoi vicini di casa asiatici, definendoli “musi gialli”. Ebbene, nonostante questo disprezzo, alla fine del film egli sacrifica la propria vita per far sì che i responsabili di un pestaggio operato ai danni di uno dei suoi vicini asiatici vadano in prigione. Clint Eastwood, infatti, si reca a casa dei responsabili del pestaggio, e provocandoli li induce ad ucciderlo, in modo tale che, appunto, finiscano in prigione. Questa storia, a mio avviso, spiega bene quello che intende dire Nietzsche, il quale disprezza la bontà pietistica, senza pudore e sempre pronta a prestare soccorso che viene incentivata dal cristianesimo. Sarebbero pochi, infatti, i cristiani pronti a dare la vita per qualcuno, eppure nessun vero cristiano definirebbe con disprezzo “musi gialli” delle persone asiatiche.

Mi sembra interessante riportare quattro lettere nelle quali troviamo un Nietzsche, ancora una volta, molto “umano”, un Nietzsche, si potrebbe dire, davvero immerso nella quotidianità: nella prima il filosofo, dalla scuola di Pforta e quindi ancora molto giovane, racconta alla madre di essersi ubriacato; nella seconda racconta di un litigio avuto con un dipendente di un sarto al quale aveva commissionato un abito, casualmente pronto in occasione del suo primo incontro con Wagner; nella terza fa una goffa e improbabile proposta di matrimonio, mentre nella quarta, dopo aver ricevuto una lettera di risposta dalla signorina Mathilde Trampedach e accortosi della brutta figura, le scrive ancora scusandosi della strampalata proposta; ecco la prima lettera, datata 16 aprile 1863:

Cara mamma,

oggi scriverti rappresenta per me una delle cose più spiacevoli e dolorose che mi sia mai toccato di fare. Ho commesso infatti una grave mancanza e non so se tu vorrai e potrai perdonarmela. È con animo oppresso, e profondamente irritato con me stesso, che mi accingo a scriverti, specialmente se ripenso a come siamo stati bene insieme, senza un’ombra di disaccordo, durante le vacanze di Pasqua. Domenica scorsa, dunque, mi sono ubriacato e non ho altra giustificazione se non quella che io non so quanto riesco a sopportare e che, proprio quel pomeriggio, ero un po’ agitato. Quando rientrai fui colto in quello stato dal professor Kern: questo martedì mi ha fatto comparire davanti al sinodo, che mi ha retrocesso al terzo posto della mia gerarchia e mi ha privato di un’ora di passeggiata domenicale. Puoi ben immaginare come io sia avvilito e di cattivo umore, soprattutto perché ti procuro un tale dispiacere con una storia così sconveniente, quale non mi era mai capitata in vita mia. E come mi dispiace poi anche per il pastore Kletschke, che mi aveva appena dimostrato tanta inattesa fiducia! Ora, con questo solo errore, rovino irrimediabilmente una discreta posizione che mi ero guadagnato durante il trimestre scorso. Sono anche talmente furibondo con me stesso, che non riesco assolutamente ad andare avanti con i miei studi e non so affatto darmi pace. Scrivimi dunque al più presto e con molta severità, giacché me lo merito, e nessuno meglio di me sa quanto me lo merito. Non è necessario che ti assicuri ulteriormente che mi conterrò al massimo, perché ora molto dipenderà da questo. Ero ridiventato anche troppo sicuro di me, e ora eccomi strappato a questa mia sicurezza, in un modo, invero, terribilmente spiacevole. Oggi andrò dal pastore Kletschke e gli parlerò. – Per favore, non raccontare in giro tutta questa storia, a meno che non la si sappia già.[footnoteRef:24] [24: F. Nietzsche, Epistolario, 1850-1869, Adelphi, Milano 1976, pp. 235-236.]

Ecco la seconda lettera, scritta da Lipsia a Erwin Rohde e datata 9 novembre 1868:

Giunto a casa, trovai un biglietto a me indirizzato, con queste poche parole: «Se vuoi conoscere Richard Wagner, vieni alle quattro meno un quarto al Café théâtre. Windisch». […] Pensando che si sarebbe trattato di un ricevimento in grande, decisi di mettermi in gran tenuta, ed ero contento che il mio sarto mi avesse promesso di terminarmi proprio per quella domenica un vestito da ballo. Era una giornata terribile, pioggia e neve, venivano i brividi all’idea di uscire; perciò fui ben felice quando, nel pomeriggio, venne a trovarmi Roscher, che mi parlò un po’ degli Eleati e del concetto di Dio nella filosofia. […] Cominciava a fare buio, il sarto non arrivava e Roscher se ne andò. Lo accompagnai, mi recai personalmente dal sarto e trovai i suoi schiavi tutti indaffarati attorno al mio vestito: mi promisero di consegnarmelo entro tre quarti d’ora. Me ne andai tutto soddisfatto, passai da Kintschy, lessi il Kladderadatsch, ove mi divertì il trafiletto secondo cui Wagner si trovava in Svizzera, mentre a Monaco si stava costruendo per lui una bella casa. Invece io sapevo che lo avrei visto quella sera stessa […] A casa però non v’era traccia del sarto. Mi lessi ancora con tutta calma la dissertazione su Eudocia, e solo di tanto in tanto giungeva a disturbarmi un suono acuto ma lontano di campanello. Alla fine mi resi conto con certezza, che doveva esserci qualcuno fuori dell’antiquato cancello di ferro, e che questo era sbarrato così come la porta di casa. Gridai all’uomo, al di là del giardino, di entrare dal Naundörfchen, ma era impossibile farsi capire con quel frastuono della pioggia. Tutta la casa entrò in agitazione, finalmente venne aperto e un vecchietto con un pacco venne da me. Erano le sei e mezzo, l’ora di vestirmi e far toilette, dato che abito molto distante. Tutto bene: l’uomo ha portato la mia roba, me la provo, mi sta bene. Dannazione: questi mi presenta il conto. Lo accetto educatamente. L’uomo vuole essere pagato, subito alla consegna. Sono meravigliato, gli spiego che non sono obbligato a trattare con lui, lavorante del mio sarto, ma soltanto con il sarto in persona, al quale ho fatto l’ordinazione. L’uomo si fa più insistente, il tempo più incalzante: afferro la mia roba e comincio a indossarla, ma l’uomo l’afferra a sua volta e me lo impedisce. Io faccio violenza e lui pure! Una scenata. Lotto in camicia, perché voglio indossare i calzoni nuovi. Infine sfoggio la mia dignità, passo alle minacce solenni, impreco contro il sarto e il suo tirapiedi, giuro vendetta, e intanto l’ometto sparisce con la mia roba. Fine del secondo atto: seduto in maniche di camicia sul sofà, esamino un vestito nero, chiedendomi se sia bello abbastanza per Richard. Fuori piove a dirotto.[footnoteRef:25] [25: Ivi, pp. 645-647.]

Ecco la terza lettera, scritta da Ginevra a Mathilde Trampedach, in data 11 aprile 1876:

Gentile signorina,

stasera Lei scrive qualcosa per me, anch’io voglio scrivere qualcosa per Lei. Raccolga tutto il suo coraggio e non si spaventi per la domanda che adesso Le rivolgo: vuole diventare mia moglie? Io La amo, e mi sembra che Lei già mi appartenga. Non una parola circa il carattere repentino della mia simpatia! Quanto meno, non v’è in ciò colpa alcuna, e perciò nulla di cui discolparsi. Ma quel che vorrei sapere è se Lei sente, come sento io – che noi non siamo stati estranei l’uno all’altra nemmeno per un istante! Non crede anche Lei che in un legame ciascuno di noi potrebbe diventare più libero e migliore, dunque excelsior, più di quanto non vi riuscirebbe da solo? Vuole ardire di accompagnarsi a me, a uno che aspira con tutto il cuore a diventare più libero e migliore? Per tutti i sentieri della vita e del pensiero? E ora sia schietta e non nasconda nulla. Nessuno, tranne il nostro comune amico Senger, sa di questa lettera e della mia domanda. Domattina alle 11 ritorno col diretto a Basilea, debbo ritornare; Le unisco il mio indirizzo di Basilea. Se Lei vorrà rispondere di sì alla mia domanda, scriverò subito alla Sua signora madre, di cui in tal caso Le chiederei l’indirizzo. Se troverà il coraggio di decidersi in fretta, per un si o per un no – una Sua lettera potrà raggiungermi fino alle 10 di domani all’Hôtel garni de la Poste. AugurandoLe per sempre ogni bene e ogni felicità.

Friedrich Nietzsche[footnoteRef:26] [26: F. Nietzsche, Epistolario, 1875-1879, Adelphi, Milano 1995, pp. 134-135. ]

Infine, ecco la quarta lettera, scritta sempre a Mathilde Trampedach da Basilea, in data 15 aprile 1876:

Gentilissima signorina,

Lei è abbastanza magnanima da perdonarmi, lo avverto dalla benevolenza davvero immeritata della Sua lettera. Ho sofferto talmente al ricordo del mio comportamento orribile e violento, che non Le sarò mai abbastanza grato per questa benevolenza. Non voglio dare spiegazioni e non sono in grado di giustificarmi. Avrei soltanto un ultimo desiderio da esprimere: che Lei, qualora dovesse leggere il mio nome o rivedermi, non pensasse unicamente allo spavento che Le ho causato. La prego in ogni caso di credere che desidererei riparare al male che ho fatto.

La riverisce il Suo

Friedrich Nietzsche[footnoteRef:27] [27: Ivi, pp. 141-142.]

Come abbiamo visto, dunque, in queste lettere troviamo un Nietzsche che si ubriaca, come può succedere a tutti i comuni mortali, un Nietzsche che, nell’episodio del sarto, si dimostra tutt’altro che dimesso e che anzi manifesta una certa litigiosità, mentre nella proposta di matrimonio emerge un Nietzsche impacciato e insicuro; in queste lettere, insomma, scopriamo un Nietzsche “quotidiano”.

Vorrei ora riportare l’inizio di una lettera immaginaria che Giorgio Penzo scrive a Nietzsche, e che forse può aiutare a capire cosa intendo quando dico che nella filosofia di questo pensatore, nonostante il feroce materialismo, c’è qualcosa di estremamente spirituale; scrive Penzo:

Caro Nietzsche,

quando per la prima volta ho sentito parlare di te, avevo circa dieci anni. Vivevo ancora nella mia città natale di Chioggia. La finestra della mia camera si apriva in una calle che portava al ponte sulla laguna che unisce Chioggia al mare. Subito dopo l’ora di pranzo mi affacciavo alla finestra per raccogliere con gioia il saluto di un padre cappuccino che camminava modestamente con un giovane prete: era il vescovo di Chioggia con il suo segretario. Diverse volte ero invitato ad accompagnarli per un breve tratto. Nelle sue conversazioni, il vescovo, usando espressioni molto semplici, riusciva a parlare con me del senso della vita, che per lui doveva essere vissuta proprio come un gioco. E nelle sue conversazioni egli citava con ammirazione i nomi di Agostino e Nietzsche. Erano due pensatori che doveva amare molto, dato che li descriveva come aperti alla forza del divino.[footnoteRef:28] [28: G. Penzo, op. cit., p. 9. ]

Forse l’unico punto in tutta la filosofia di Nietzsche in cui il filosofo parla di qualcosa di invisibile, è quando evidenzia il fatto che fra gli individui c’è un fluido che scorre continuamente, e che in conseguenza di ciò un individuo non è mai isolato. Ovviamente anche l’aria e le onde radio sono invisibili, ma sono pur sempre materia, non “spirito”, e lo stesso vale evidentemente per questo “fluido”; ma resta il fatto che l’ammissione, da parte del pensatore, dell’esistenza di un qualcosa che non può essere né visto né toccato, è un fatto quantomeno singolare. Afferma:

Ecco la più profonda concezione del soffrire: le forze formatrici si urtano. L’isolamento dell’individuo non deve ingannare: in verità, fra gli individui c’è un fluido che scorre continuamente.[footnoteRef:29] [29: F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 686. ]

La singolarità di tale affermazione risiede anche nel fatto che questo fluido, oltre a non poter essere né visto né toccato, non può essere neppure “rilevato”. Infatti, anche se l’aria è invisibile può tuttavia essere percepita e “toccata”, come ad esempio avviene quando tira vento e i nostri indumenti si muovono; anche le onde radio sono invisibili e, a differenza di quanto accade con l’aria, non possono essere percepite dall’uomo, ma possono essere rilevate con appositi strumenti. Il fluido di cui parla Nietzsche, invece, non può essere “dimostrato”, anche se, come immagino capiti a tutti, accade a volte di incontrare persone alle quali si stava pensando pochi giorni, poche ore o addirittura pochi attimi prima. Ovviamente mi riferisco a persone alle quali pensiamo molto raramente, l’incontro con le quali, se di poco successivo all’averle pensate, può in effetti far pensare a un fluido che, come afferma Nietzsche, scorre continuamente fra gli individui.

C’è un’altra affermazione del pensatore tedesco che mi ha fatto molto riflettere, e che forse può essere collegata al fluido di cui abbiamo appena parlato; essa recita così:

Io riconobbi la forza attiva, ciò che crea, nel mezzo dell’accidentale: il caso stesso è soltanto l’urto reciproco degli impulsi creativi.[footnoteRef:30] [30: Ivi, af. 673. ]

Sembrerebbe, dunque, che secondo il filosofo il caso non esista, e che esso sia il risultato dello scontro fra i vari “impulsi creativi” degli individui. Tale affermazione è a mio avviso collegabile a quella in cui Nietzsche parla, come abbiamo visto, di un fluido che scorrerebbe continuamente fra gli individui, nel senso che proprio partendo dal presupposto che gli individui sono solo apparentemente isolati, ne consegue che anche tutti gli accadimenti, che sembrano governati dal caso, sono in realtà il frutto di uno “scontro” fra i vari impulsi creativi, i quali si scontrano mediante il suddetto fluido.

Infatti, anche nell’aforisma in cui Nietzsche parla del fluido in questione, egli, proprio prima di parlare di tale fluido, dice che “le forze formatrici si urtano”, il che è un modo per dire con parole diverse quello che afferma nell’altro aforisma, dove, come abbiamo visto, asserisce che “il caso stesso è soltanto l’urto reciproco degli impulsi creativi”.

Per capire meglio questa teoria, che difficilmente potrà essere dimostrata, vorrei raccontare un episodio che mi è capitato di apprendere leggendo un libro scritto da una suora; questa, ad un certo punto, racconta dei lavori di manutenzione di cui necessitava il monastero in cui viveva, e che erano stati intrapresi senza la necessaria copertura economica. Ebbene, la suora racconta che una benefattrice, senza sapere niente di questo fatto, firmò spontaneamente un assegno per un importo esattamente uguale a quanto era necessario per saldare il debito con l’idraulico e l’elettricista, scorgendo in questo avvenimento la mano della Provvidenza.

Ora, in effetti si tratta di una coincidenza piuttosto strana, e non ho motivo di credere che la suora abbia inventato questo fatto, ma volendo fare l’avvocato del diavolo non potrebbe essere questo proprio un caso di “urto reciproco degli impulsi creativi”, ossia un avvenimento in cui ha agito quel fluido che scorre fra gli individui di cui parla Nietzsche? Naturalmente non intendo dire che la benefattrice ha sentito una vocina che le ha detto di fare una donazione per un importo uguale al debito contratto dalle suore, ma forse in maniera inconscia il fluido ha messo in qualche modo in contatto la suora e la benefattrice, spingendo quest’ultima a donare esattamente la cifra necessaria per pagare i lavori.

Ed è lo stesso Nietzsche, in una lettera, a raccontare un episodio che fra gli altri potrebbe averlo indotto a credere nell’esistenza del fluido in questione; come ho già detto, infatti, anche a me capita a volte di incontrare persone alle quali pensavo letteralmente pochi attimi prima, e il filosofo racconta di un qualcosa di analogo; scrive:

Mia cara sorella,

giovedì pomeriggio, proprio mentre, passeggiando, pensavo al Lama [“Lama” è il nomignolo con cui Nietzsche chiamava la sorella], che vive da signora in terra straniera, e decidevo di scriverle una lettera, è venuto da me un signore sconosciuto e mi ha detto: «Madame Gazzola a des lettres pour Monsieur». Dopodiché Monsieur se n’è andato subito da Madame Gazzola – ah, una gazza ladra di cui serbavo un cattivo ricordo dallo scorso inverno - , ed ecco che c’era una lettera con l’inconfondibile scrittura di un Lama sudamericano.[footnoteRef:31] [31: F. Nietzsche, Epistolario, 1885-1889, Adelphi, Milano 2011, p. 313.]

Naturalmente le mie sono solo ipotesi, ma credo che sia interessante cercare di capire la filosofia di questo straordinario pensatore anche nei suoi aspetti apparentemente meno importanti e meno “filosofici”.

3. Volontà di potenza, superuomo, eterno ritorno

Mi sembra opportuno dedicare un paragrafo anche a quelli che sono i temi riassuntivi della filosofia nietzscheana. Come dice giustamente Georg Simmel nella sua recensione al libro di Ferdinand Tönnies Il culto di Nietzsche, «Il compito più nobile e fecondo nei confronti di un pensatore è quello di trarre, dalla serie di idee che oscillano e si contraddicono, l’idea centrale, giusta, in sé chiara»[footnoteRef:32]. [32: F. Tönnies, Il culto di Nietzsche, Editori Riuniti, Roma 1998, p. 153. ]

Trovare un’idea centrale nella filosofia del pensatore tedesco è tuttavia estremamente difficile, ma indubbiamente i temi trattati in questo paragrafo sono quelli che meglio la riassumono, temi ai quali io aggiungerei la critica alla “modernità” e alle idee che essa, già quando Nietzsche scriveva, portava con sé; penso al socialismo, alla democrazia, al parlamentarismo e alle relative conseguenze sulla società dell’epoca, conseguenze che a Nietzsche non piacevano affatto.

Come è noto, Nietzsche è un filosofo a-sistematico, e diffida dei filosofi sistematici; egli afferma che «Il mondo non è affatto un organismo, ma è caos».[footnoteRef:33] [33: F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 711. ]

Ora, se il mondo è caos se ne deduce che esso non è regolato da nessuna legge, contrariamente a quanto sostengono coloro che credono in un dio, i quali scorgono nell’universo un senso e un’armonia che Dio stesso vi avrebbe immesso. Ebbene, nell’ultimo aforisma della Volontà di potenza, che abbiamo già citato, Nietzsche fornisce una legge che, come abbiamo visto, spiegherebbe tutti gli accadimenti dell’universo; tale legge non è altro che la volontà di potenza stessa, che non è solo la legge del mondo, ma ne è anche l’essenza: il mondo è la volontà di potenza.

Si capisce bene che questo contrasta con l’affermazione secondo la quale il mondo è caos. Infatti, nel momento in cui si asserisce che ogni essere e ogni cosa che si trova nell’universo ha come scopo un aumento della potenza, automaticamente si immette un senso in tutto ciò che accade; se questo è vero, infatti, il mondo non è più governato dal caos, ma è il frutto di una lotta per la potenza che, sebbene sia una legge inquietante, conferisce, come dicevamo, un senso al Tutto e quindi anche all’esistenza di ogni uomo.

Ma è proprio la consapevolezza della mancanza di un senso in tutto ciò che accade che, secondo Nietzsche, caratterizza l’uomo forte e ben riuscito, il quale “resiste” e riesce a sopravvivere nonostante conosca questa tremenda verità; il pensatore, infatti, afferma che i deboli, per non perire, immettono un senso nelle cose, e credono che in esse sia racchiusa una volontà; afferma, in un aforisma già citato nel primo capitolo:

Chi non sa mettere la propria volontà dentro le cose, chi è privo di volontà e di forza, pone almeno ancora un senso nelle cose, ossia crede che ci sia racchiusa una volontà. Il grado di forza di volontà è misurato da quanto si riesce a fare a meno di un senso insito nelle cose, da quanto si è capaci di resistere in un mondo privo di senso, perché se ne organizza un piccolo frammento.[footnoteRef:34] [34: Ivi, af. 585. ]

Ebbene, diciamolo ancora una volta: affermando “Questo mondo è la volontà di potenza – e nient’altro! E anche voi siete questa volontà di potenza – e nient’altro!”, Nietzsche conferisce un senso al mondo e quindi anche all’esistenza degli uomini.

Si potrebbe dire, dunque, che la volontà di potenza è un surrogato della Provvidenza, o, similmente, del progetto di Dio. Sia in un caso che nell’altro, infatti, tutti gli accadimenti sono guidati e regolati da un qualcosa che, in ultima analisi, non dipende dalla volontà dell’uomo, le cui azioni e scelte sono tese, da una parte, ad assecondare la spinta verso un incremento della potenza, dall’altra, in un’ottica religiosa, a modellarsi in base al progetto di Dio.

In entrambi i casi, insomma, non solo l’agire umano ma tutto l’universo è regolato da un qualcosa che tende a un preciso scopo, e questo di conseguenza consente una visione delle cose più rassicurante. Certo, il pensare che la legge del mondo sia un instancabile e insaziabile tendere a un aumento della potenza, non implica la rassicurante convinzione che esista un altro mondo e quindi una vita eterna come nel caso della credenza in un dio, ma, come detto, conferisce all’esistenza un senso, uno scopo, e, in ultima analisi, può anche essere un motivo valido per cui vivere che altrimenti, in un mondo in preda al caos, sarebbe difficile trovare.

Nietzsche, dunque, ritiene che ogni essere vivente sia spinto all’agire da un insopprimibile desiderio di aumentare la potenza, e questo vale anche per coloro che “servono”; osserva nel Così parlò Zarathustra:

Dove ho trovato vita, ho trovato anche volontà di potenza; e anche nella volontà di chi serve ho trovato la volontà di essere padrone. Chi persuade il debole a servire il forte? La sua volontà, che vuol essere signora su ciò che è ancora più debole: di quest’unico piacere essa non sa privarsi. E come il piccolo si dà al grande, per avere piacere e potere sul piccolissimo: così si dà anche il più grande, mettendo in pericolo, per amor della potenza, la vita. […] E dove sono sacrifici e servigi e sguardi d’amore: anche lì c’è la volontà di esser padrone. Per vie traverse il debole si insinua lì nella roccaforte e fin nel cuore del potente – e vi ruba potenza. […] Solo dove è vita è anche volontà: ma non volontà di vivere, bensì – così ti insegno io – volontà di potenza![footnoteRef:35] [35: F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Fabbri, Milano 1996, Del superamento di sé, pp. 136-137. ]

Forse, ed è una mia considerazione, quando un cristiano (un autentico cristiano) si mette al totale servizio degli altri, lo fa tenendo ben presente un’esortazione di Gesù, quella che recita così: «Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti» (Mc. 9,35).

Il socialismo, dunque, viene visto da Nietzsche come una dottrina contraria e ostile a quella che è la legge fondamentale e naturale della vita, ossia, lo abbiamo detto più volte, la volontà di potenza, la quale spinge ogni individuo a voler possedere sempre di più; dice:

... ci saranno sempre troppi possidenti perché il socialismo possa significare altro che un accesso patologico; e questi possidenti sono come un solo uomo che ha un unico articolo di fede: “bisogna possedere qualcosa per essere qualcosa”. Ma questo è il più vecchio e il più sano di tutti gli istinti; io aggiungerei: “bisogna voler possedere di più di quanto si ha per diventare qualcosa di più”. Così suona l’insegnamento che la vita stessa predica a tutto ciò che vive: la morale dell’evoluzione. Avere e voler avere di più, in una parola: crescere – è la vita stessa. Nella dottrina del socialismo si nasconde malamente una “volontà di negare la vita”: devono essere uomini o razze degenerate, quelli che escogitano una simile dottrina. In realtà io desidererei che alcuni grandi esperimenti dimostrassero che in una società socialista la vita rinnega se stessa, recide le proprie radici.[footnoteRef:36] [36: F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 125. ]

La riflessione che si può fare su questo aforisma è che forse Nietzsche generalizza troppo; in effetti è vero che la grande maggioranza degli uomini si adopera per “crescere”, o, per dirla in modo più chiaro, per fare sempre più soldi; tuttavia mi pare sbagliato dire che tutti coloro che non avvertono questa spinta ossessiva all’accumulo di denaro sono dei degenerati. Mi è capitato di conoscere una persona, quando c’erano ancora le vecchie lire, che dichiarava di credere nel comunismo (che è una dottrina molto più livellatrice del socialismo che conosceva Nietzsche) a tal punto da affermare “Se lo Stato mi desse 10.000 £ al giorno io vivrei contento”, eppure questa persona non era affatto né un degenerato né un fallito.

Se dunque, come detto, la volontà di potenza può essere considerata un surrogato della Provvidenza o del progetto di Dio, l’eterno ritorno può essere invece considerato, nell’ambito della filosofia nietzscheana, un surrogato della vita eterna, mentre il superuomo può essere visto come un santo al contrario. Mentre il santo rifugge dai sensi e dalla corporeità, donandosi totalmente all’altro e mortificando il proprio ego, il superuomo, al contrario, asseconda gli istinti, ritiene di avere diritto al massimo egoismo e disprezza il destino dei “molti”; ma in entrambi i casi siamo in presenza di uomini reputati superiori; i santi, infatti, sono in un certo senso considerati dalla Chiesa e dai fedeli dei “superuomini”, ossia uomini capaci di vivere il vangelo a tal punto da donare a Dio tutta la loro esistenza, rinunciando ai piaceri che la vita può offrire e vivendo in prima persona le sofferenze degli altri; i superuomini sono, in un certo senso, dei santi, in quanto capaci di accettare con la massima serenità la tragicità di una vita senza Dio, dicendo sì anche alla sofferenza più grande, il tutto nell’ottica del comandamento nietzscheano che impone di dire sì alla vita anche nei suoi aspetti più dolorosi e terrificanti.

Lo stesso Nietzsche sembra riconoscere una certa affinità fra la figura del superuomo e quella del santo; egli, infatti, che come lascia intendere si considera lui stesso un superuomo, teme di essere scambiato per un santo, ed è per evitare tale equivoco che afferma:

Ho una paura spaventosa che un giorno mi facciano santo: indovinerete perché io mi premunisca in tempo, con la pubblicazione di questo libro, contro tutte le sciocchezze che si potrebbero fare con me… Non voglio essere un santo, allora piuttosto un buffone… Forse sono un buffone.[footnoteRef:37] [37: F. Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 127. ]

Del resto, il filosofo sottolinea l’importanza di mettere in atto quotidianamente alcune pratiche finalizzate al proprio rafforzamento, pratiche consigliate anche dalla Chiesa e messe in atto in primo luogo dai santi, con la differenza che, osserva Nietzsche, la Chiesa ha abusato di tali pratiche, promuovendone una messa in atto fanatica ed eccessiva, e vedendo in esse un modo per mortificare la carne e non, come intende Nietzsche, uno stile di vita da seguire per ottenere un rafforzamento.

Dice il filosofo:

Ciò che è guastato dall’abuso che la Chiesa ne ha fatto: 1) l’ascetismo: ormai si ha a stento il coraggio di metterne in luce la naturale utilità, la sua indispensabilità al servizio dell’educazione della volontà. Il nostro assurdo mondo degli educatori, che guarda all’“utile servitore dello Stato” come a uno schema regolativo, crede di potersi accontentare dell’“istruzione” e dell’addestramento dei cervelli; a costoro manca del tutto questo concetto: prima è necessaria un’altra cosa, l’educazione della forza di volontà; si impongono esami per tutto, ma non per la cosa principale: se si è capaci di volere, se si è in grado di promettere: il giovane finisce gli studi senza aver nemmeno una domanda, nemmeno una curiosità per questo supremo problema, quello del valore della sua natura; 2) il digiuno: in ogni senso – anche come mezzo per conservare la delicata capacità di godere di tutte le cose buone (per esempio: per qualche periodo non leggere, non ascoltare musica, non essere amabili, si devono avere giorni di digiuno anche per la propria virtù); 3) il “chiostro”: il temporaneo isolamento, respingendo severamente il mondo, ad esempio la posta; una forma di profonda meditazione su di sé e di ritrovamento di sé, che non si propone di scansare le “tentazioni”, ma i “doveri”: un uscire dal girotondo dell’ambiente, un appartarsi dalla tirannia degli stimoli e delle influenze che ci condanna a spendere la nostra forza soltanto in reazioni e non permette più che quella forza si accumuli sino ad acquistare un’attività spontanea.[footnoteRef:38] [38: F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 916. ]

Anche Karl Jaspers, secondo il quale «La lotta di Nietzsche contro il cristianesimo nasce dalla sua propria essenza cristiana»[footnoteRef:39], scorge in una frase del pensatore tedesco qualcosa di simile al concetto cristiano di peccato originale; tale frase recita così: «C’è qualcosa di fondamentalmente erroneo nell’uomo»[footnoteRef:40]; «Questa affermazione nietzscheana – osserva Jaspers – è quasi la traduzione del concetto cristiano del peccato originale».[footnoteRef:41] [39: K. Jaspers, Nietzsche e il Cristianesimo, Christian Marinotti, Milano 2009, p. 41. ] [40: F. Nietzsche, Frammenti postumi, 1882-1884, Volume VII, tomo I, parte II, Adelphi, Milano 1986, 11 [8]. ] [41: K. Jaspers, op. cit., p. 100. ]

Eugen Fink parla invece di una “teologia” nietzscheana, che egli individua nel capitolo della Volontà di potenza dedicato all’arte, dove la religione è l’arte e Dio è Dioniso. Osserva Fink:

… il capitolo sull’arte non è altro che la sua «Teologia», una teologia senza Dio, cioè senza un Dio cristiano e Creatore del Mondo, ma una teologia che giustifica l’esistenza come fenomeno estetico, percepisce nello splendore del Bello la parte sana del mondo, la Religione-arte del Dio Dioniso che gioca.[footnoteRef:42] [42: E. Fink, op. cit., p. 175. ]

Come dicevamo, sembrerebbe corretto individuare nel concetto di eterno ritorno un surrogato della vita eterna. Allora ci domandiamo: anche lo stesso Nietzsche ha avuto paura di confessare a se stesso che si vive solo una volta e non, come vuole l’eterno ritorno, infinite volte? Anche il filosofo della “morte di Dio”, così coraggioso e temerario (filosoficamente parlando), ha forse avuto paura di vivere fino in fondo il suo stesso pensiero, quello secondo il quale la vita finisce inesorabilmente e non esiste alcun “mondo vero”?

Del resto, l’eterno ritorno sembra francamente qualcosa di ancora più improbabile e fantasioso del vecchio Dio, per confutare il quale Nietzsche ha messo in campo tutte le sue energie; l’eterno ritorno è, per usare parole care allo stesso Nietzsche, “un’invenzione poetica”, che poi è l’accusa che il pensatore tedesco rivolge a Platone; afferma infatti:

… il platonismo […] diceva: quanto più è “idea”, tanto più è Essere. Capovolgeva il concetto di “realtà” e diceva: “Ciò che voi ritenete reale è un errore: quanto più ci avviciniamo all’idea, tanto più ci avviciniamo alla verità”. Lo si capisce? Questa è stata la conversione più grande: e poiché fu accolta dal cristianesimo, non ci accorgiamo di questo fatto sorprendente. In fondo, Platone, da quell’artista che era, ha preferito l’apparenza all’essere! La menzogna e l’invenzione poetica alla realtà![footnoteRef:43] [43: F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 572. ]

Nietzsche, infatti, quando nella Gaia scienza annuncia il pensiero dell’eterno ritorno, lo fa proprio in termini poetici; dichiara:

Il peso più grande. Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni cosa indicibilmente piccola e grande della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra gli alberi e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta – e tu con essa, granello di polvere!». – Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato?[footnoteRef:44] [44: F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., af. 341. ]

Ebbene, non è questo aforisma, che parla di “demoni”, “ragni” e “clessidre” esattamente un’invenzione poetica? Probabilmente anche lo stesso Nietzsche era consapevole che affermare che ognuno dovrà rivivere innumerevoli volte la propria vita altro non è, appunto, che un’invenzione poetica.

Ma c’è un’altra domanda che a mio avviso è necessario porsi: Nietzsche, pensava di essere lui stesso un superuomo? La mia risposta a questo quesito è indubbiamente affermativa. Abbiamo già visto alcuni brani dai quali emerge, neppure troppo implicitamente, che appunto il filosofo si considerava lui stesso un prototipo del superuomo. Tale mio convincimento è suffragato, fra gli altri, da un aforisma in cui il pensatore, seppure senza nominare la parola “superuomo”, afferma di appartenere egli stesso a un’umanità “più alta” e numericamente molto ridotta; afferma:

Al di sopra della caligine e del sudiciume delle bassure umane c’è un’umanità più alta, più chiara, che per numero deve essere molto piccola – perché tutto ciò che eccelle è per sua natura raro: le si appartiene non perché si sia meglio dotati, o più virtuosi, o più eroici, o più amorosi degli uomini di laggiù, ma perché si è più freddi, più chiari, più lungimiranti, più solitari, perché si sopporta la solitudine, la si preferisce, la si esige come una felicità, un privilegio e persino una condizione di esistenza, perché si vive tra nubi e lampi come tra i propri pari, ma anche tra raggi di sole, gocce di rugiada, fiocchi di neve e tutto ciò che necessariamente giunge dall’alto e che si muove, si muove eternamente solo dall’alto verso il basso. Le aspirazioni all’altezza non sono le nostre. Gli eroi, i martiri, i geni e gli entusiasti non sono abbastanza sereni, pazienti, fini, freddi e lenti per noi.[footnoteRef:45] [45: F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 993. ]

Di parere diverso dal mio è Gianni Vattimo, il quale afferma:

Chi è l’interprete legittimo di Zarathustra? […] L’oscurità della profezia di Zarathustra è una impossibilità oggettiva a formularsi in modo più esplicito, perché l’oltreuomo, che ne sarebbe, sia nella sua capacità di comprensione sia nella sua esistenza stessa, l’interprete autentico, non c’è ancora. […] Nietzsche non è l’oltreuomo e proprio per questo non può dare una interpretazione coerente e inequivoca della propria visione profetica; d’altra parte, proprio la coscienza di non vivere ancora nell’età dell’oltreuomo lo spinge continuamente a volersi far legislatore e promotore di un concreto movimento che conduca alla realizzazione storica di esso. Nel circolo di questa contraddizione si muove il pensiero dell’ultimo Nietzsche che non riesce a trovare una sistemazione nella Volontà di potenza.[footnoteRef:46] [46: G. Vattimo, Il soggetto e la maschera, Bompiani, Milano 2007, p. 352. ]

Naturalmente, sul fatto che questa non è l’età del superuomo (che Vattimo preferisce chiamare “oltreuomo”) sono d’accordo con Vattimo, così come è innegabile che il messaggio di Zarathustra non può essere interpretato e compreso da nessuno, se non in maniera parziale, e che forse mai nessuno riuscirà a comprenderlo nella sua interezza; tuttavia, come detto, ritengo che Nietzsche fosse convinto di essere lui stesso un superuomo, e anzi ci sono buone ragioni per credere che egli, nel descrivere alcune delle caratteristiche del superuomo stesso, non faccia altro che descrivere se stesso.

Quello che è possibile dire del superuomo è che egli è sì incline alla violenza, ma, come abbiamo visto, ha anche atteggiamenti inequivocabilmente e profondamente umani.

4. Nietzsche e Schopenhauer

Vorrei fare adesso alcune brevi riflessioni sul rapporto fra Nietzsche e Schopenhauer. Come è noto, il filosofo su cui stiamo riflettendo deve molto a Schopenhauer, ed egli non lo nega; afferma: «Chi ha preparato la mia via: Schopenhauer»[footnoteRef:47]. [47: F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 463. ]

Per quanto riguarda le filosofie elaborate da questi due pensatori, mi sembra corretta l’analisi di Hans Vaihinger, della quale riferisce Giorgio Penzo nel suo Nietzsche e il nazismo:

La dottrina di Nietzsche non sarebbe altro che la stessa dottrina di Schopenhauer, letta però in modo positivo. In altre parole, la dottrina di Nietzsche si rivelerebbe come uno schopenhauerismo capovolto.[footnoteRef:48] [48: G. Penzo, op. cit., p. 97. ]

Questa interpretazione trova conferma nell’analisi di Georg Simmel, di cui parla ancora Penzo:

Così, se per Schopenhauer il fine ultimo si precisa nell’atto di annullare la vita, in quanto viene soppressa la volontà di vivere, per Nietzsche il fine ultimo si precisa nell’atto di una affermazione della vita, in quanto si proclama la volontà di vivere. In fondo, tutti e due i filosofi sottolineano la dimensione della volontà.[footnoteRef:49] [49: Ivi, p. 123. ]

Ora, Nietzsche parte dall’assunto che la “verità” è un qualcosa che deve essere creato, ossia è un’interpretazione che ognuno può dare; secondo Schopenhauer la “volontà di vita” (che in Nietzsche diventa “volontà di potenza”, ma evidentemente le due definizioni si riferiscono a qualcosa di molto simile) è fonte di sofferenza, e quindi per evitare questa sofferenza essa deve essere repressa, mentre per Nietzsche, al contrario, non solo non va repressa, ma anzi deve essere assecondata; per Nietzsche, infatti, un uomo ben riuscito non solo non evita la sofferenza, ma anzi la cerca e addirittura la sente come un piacere; osserva:

Sono gli spiriti eroici quelli che dicono di sì a se stessi nella crudeltà tragica: questi sono abbastanza duri per sentire come piacere la sofferenza.[footnoteRef:50] [50: F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 852. ]

Come dicevo, Nietzsche asserisce che la verità deve essere creata, e un esempio di tale concetto lo possiamo trovare proprio riflettendo sul rapporto tra la filosofia di Nietzsche e quella di Schopenhauer. Abbiamo detto che Schopenhauer ritiene che quella che lui chiama “volontà di vita” è fonte di grande sofferenza per ogni uomo, e quindi il pensatore di Danzica ritiene necessario affrancarsi da tale volontà attraverso tre strade, ossia l’arte, l’etica e l’ascesi; Nietzsche, al contrario, ritiene che proprio l’assecondare questa volontà, nonostante ciò comporti una grande sofferenza, conferisce all’esistenza un valore maggiore, in quanto la rende più piena e degna di essere vissuta.

Entrambi i filosofi sono quindi d’accordo sul fatto che il continuo ed incessante anelare a un qualcosa, che è tipico della natura umana, sia fonte di sofferenza (e questa è una verità oggettiva), ma l’uno consiglia di reprimere tale volontà, mentre l’altro, per i motivi che abbiamo visto, ritiene più onorevole assecondarla; ebbene, io credo che non sarebbe corretto dire che una di queste due opinioni è “vera” e l’altra è “falsa”, in quanto sono due visioni contrarie ma che hanno entrambe una loro fondatezza. Semmai si potrà dire che una scaturisce dal rifiuto di un aspetto fondamentale dell’esistenza, il che, forse, è un sintomo di debolezza, mentre l’altra scaturisce da un’eroica accettazione della vita e di tutti i suoi aspetti, anche i più dolorosi.

Quindi, se ponessimo come criterio della verità il fatto di accettare la vita più o meno coraggiosamente, allora potremmo dire che Nietzsche ha “ragione” e Schopenhauer ha “torto”; tuttavia, come abbiamo detto, i due filosofi propugnano due diversi modi di rapportarsi con la vita che sono entrambi legittimi, e quindi non sarebbe corretto dire che uno sbaglia e l’altro ha ragione.

Tali riflessioni, infatti, escono dalla mente di due persone diverse, che vivevano e pensavano in modi diversi, ed ecco allora che Nietzsche sbaglia quando dice «Lo scandaloso malinteso di Schopenhauer, che scambia l’arte per un ponte verso la negazione della vita».[footnoteRef:51] Nietzsche sbaglia, a mio avviso, perché non si tratta di un “malinteso”; semplicemente Schopenhauer, a differenza di Nietzsche, quando fruiva dell’arte avvertiva una soppressione della volontà, mentre Nietzsche, al contrario, per la sua natura che evidentemente era diversa da quella di Schopenhauer, nella fruizione dell’arte riscontrava una spinta verso l’accettazione della vita, finanche nei suoi aspetti più spiacevoli. [51: Ivi, af. 812. ]

Ci sono poi, a differenza del caso appena citato, situazioni in cui la verità non è qualcosa che va creato, ma che va scoperto. Esempio: Schopenhauer afferma che quando due individui decidono di procreare lo fanno spinti dalla “volontà di vivere” della specie, che li induce ad affrontare qualsiasi sacrificio pur di conseguire lo scopo, ossia, appunto, procreare; afferma:

In definitiva, ciò che dunque con tanta esclusività e con tanta forza attira l’un verso l’altro due individui di sesso diverso è la volontà di vivere di tutta la specie.[footnoteRef:52] [52: A. Schopenhauer, Metafisica dell’amore sessuale, Bur, Milano 1994, p. 75. ]

Nietzsche, invece, ritiene che l’istinto sessuale sia la conseguenza del desiderio di potenza dell’individuo e non, come vuole Schopenhauer, la conseguenza del desiderio della specie di non estinguersi; dice:

Contro la teoria secondo cui il singolo individuo si propone il vantaggio del genere, della posterità, a spese del suo vantaggio: questa è solo apparenza. L’enorme importanza che l’individuo attribuisce all’istinto sessuale non è una conseguenza dell’importanza di quell’istinto per la specie: al contrario, il generare è la prestazione propria dell’individuo e quindi il suo interesse supremo, la sua più alta espressione di potenza.[footnoteRef:53] [53: F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 680. ]

In questo caso, dunque, siamo di fronte a opinioni, opinioni che difficilmente potranno trovare conferma in un senso o nell’altro.

Quello su cui è possibile fornire un’opinione, invece, è la celebre constatazione schopenhaueriana che la vita dell’uomo «oscilla come un pendolo, di qua e di là tra il dolore e la noia»; io credo, invece, che tale affermazione non sia del tutto esatta, poiché quando riusciamo a raggiungere quello a cui si ambisce, alla sofferenza (che innegabilmente accompagna lo sforzo volitivo) non subentra la noia, bensì una gradevole sensazione di appagamento, che in effetti dura poco ma che ripaga della fatica e, appunto, della sofferenza.

In ogni caso, Nietzsche e Schopenhauer sono due pensatori per molti versi simili, due pensatori che hanno dedicato molte energie alla riflessione sugli aspetti quotidiani dell’esistenza, e che hanno partorito due filosofie che trasudano vita quasi da ogni pagina.

5. Alcune contraddizioni

Mi sembra interessante evidenziare anche alcune contraddizioni presenti nella filosofia di Nietzsche. Vorrei iniziare da quella che a mio giudizio è la “regina” delle contraddizioni; come è noto il pensatore tedesco ha attaccato ferocemente il cristianesimo.

Egli sostiene che ci possono essere solo azioni egoistiche, e che anche «… le azioni altruistiche sono soltanto una specie di quelle egoistiche»;[footnoteRef:54] anche il cristianesimo, sostiene il filosofo, propugnando l’altruismo e l’amore del prossimo, in realtà ha fatto leva sulle pulsioni egoistiche degli individui, le quali, stimolate dalla promessa dell’immortalità, crescono a dismisura. Infatti, osserva, dietro alle azioni apparentemente più altruistiche si cela uno sfrenato desiderio egoistico, tutto proteso, appunto, al conseguimento della vita eterna. Tale concetto è espresso molto bene nel seguente aforisma, già citato nel primo capitolo del presente lavoro ma che mi sembra opportuno citare di nuovo, anche se soltanto in parte; afferma Nietzsche: [54: Ivi, af. 786. ]

Il cristianesimo, avendo portato in primo piano la dottrina del disinteresse e dell’amore, non ha tuttavia affatto attribuito all’interesse della specie un valore più alto che all’interesse dell’individuo. La sua azione propriamente storica, la fatalità della sua azione, rimane viceversa precisamente quella di avere accresciuto l’egoismo, l’egoismo individuale, fino all’estremo (fino all’estremo dell’immortalità individuale).[footnoteRef:55] [55: Ivi, af. 246. ]

Naturalmente il cristiano è convinto di agire in modo genuinamente altruistico e privo di secondi fini, ma in realtà secondo Nietzsche si tratta di un altruismo che vuole essere lautamente ricompensato. Ebbene, dopo aver trascorso tutta la sua vita ad attaccare il cristianesimo con parole del tenore di quelle appena sentite (e a volte anche ben più feroci), in Ecce homo afferma:

… io attacco solo cose alle quali non sia connessa nessuna disputa personale o un qualche retroscena di brutte esperienze. […] A me spetta far guerra al cristianesimo, perché da quella parte non mi sono venute né disgrazie né ostacoli – i cristiani più seri sono sempre stati benevoli con me.[footnoteRef:56] [56: F. Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 29. ]

Ecco allora che, ed è questa la contraddizione regina, ossia quella più clamorosa, dopo aver speso tutte le sue energie per convincere il lettore che dobbiamo auspicarci che l’uomo diventi sempre più cattivo, ecco che invece afferma di apprezzare la “benevolenza cristiana”, cioè la benevolenza di coloro che a più riprese definisce “animali da armento”, dimostrando così di giudicare positivamente quel modo di vivere e di agire che egli, in maniera ossessiva, aveva in tutti i suoi libri denunciato come pericoloso e spregevole.

Ecco un’altra contraddizione; afferma nella Volontà di potenza:

… nessuno ha dato all’uomo le sue qualità, né Dio, né la società, né i suoi genitori e antenati, né lui stesso: nessuno è responsabile di quello che l’uomo è.[footnoteRef:57] [57: F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 765. ]

Sembra, dunque, che le qualità di ogni uomo non siano dovute, fra le altre cose, ai suoi genitori; eppure, altrove, afferma:

Si diventa un uomo per bene perché si è un uomo per bene, ossia perché si è nati con un capitale di buoni istinti e di circostanze propizie… Se si viene al mondo poveri, da genitori che hanno sperperato e non accumulato, si è “incorreggibili”, cioè pronti per la prigione e il manicomio…[footnoteRef:58] [58: Ivi, af. 334. ]

Da questo brano, quindi, sembra emergere che, al contrario di quanto affermato nell’altro aforisma, le qualità di ognuno dipendano proprio dai suoi genitori; anche nel Così parlò Zarathustra ribadisce il legame fra le caratteristiche dei genitori e quelle dei figli; dice:

Seguitate le orme là dove già passò la virtù dei vostri padri! Come vorreste salire in alto se non sale con voi la volontà dei vostri padri? […] E dove ci sono i vizi dei vostri padri, non dovete voi voler fare i santi! Che cosa avverrebbe se colui, i cui padri amavano le donne, i vini forti e la carne di cinghiale, volesse da sé la castità? Sarebbe una follia![footnoteRef:59] [59: F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., Dell’uomo superiore, p. 323. ]

Anche Nietzsche, sia detto di passaggio, non sfugge a questa sentenza, come dimostra la sua indole mite, simile a quella del padre. Il filosofo, infatti, come abbiamo già visto parla del padre nei seguenti termini:

Mio padre morì a trentasei anni: era dolce, amabile e morboso, come un essere fatto per passare oltre.[footnoteRef:60] [60: F. Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 17. ]

Poi, ancora sul padre, in La mia vita:

Mio padre era pastore di questo paese e dei vicini villaggi di Michlitz e Bothfeld. Era il perfetto ritratto del prete di campagna! Dotato di cuore e d’intelletto, adorno di tutte le virtù d’un cristiano, menava vita tranquilla e semplice ma felice, ed era stimato e amato da quanti lo conoscevano. I suoi modi piacevoli e il suo spirito sereno allietavano più d’una brigata dove era invitato e lo rendevano al primo apparire benvoluto ovunque.[footnoteRef:61] [61: F. Nietzsche, La mia vita, Adelphi, Milano 1992, p. 8. ]

Chi conobbe Nietzsche lo descrive come un uomo dall’indole mite e dai modi gentili; la sua filosofia, invece, soprattutto quella più prossima al crollo psichico, è un continuo inneggiare alla violenza e all’immoralità; tuttavia non si può parlare di “incoerenza”, poiché il filosofo deve fare filosofia a prescindere da se stesso, come osserva, a nostro avviso giustamente, il pensatore tedesco:

A me sembra che a un uomo le porte della conoscenza si chiudano non appena costui si interessi al suo caso personale.[footnoteRef:62] [62: F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 425. ]

In tal senso non stupisce che Nietzsche, nonostante la sua salute cagionevole (ricordiamo l’opinione di Anacleto Verrecchia), ribadisca più volte la necessità di favorire i sani e di impedire ai deboli e ai malati di riprodursi; afferma:

Per quanto ciò suoni strano, bisogna sempre armare i forti contro i deboli; i fortunati contro gli sfortunati; i sani contro i deperiti e coloro che hanno tare ereditarie.[footnoteRef:63] [63: Ivi, af. 685. ]

Sarebbe come se, volendo fare un esempio banale, siccome un individuo non ha il denaro sufficiente per acquistare una Ferrari, sostenesse che un’utilitaria è migliore e più bella di una Ferrari. Nietzsche, piacciano o no le sue opinioni, nonostante la sua salute precaria ha avuto il coraggio e l’onestà intellettuale di esaltare la salute e la forza; il fatto poi che qualcuno, come abbiamo visto, veda in questo un modo inconscio per riscattarsi dalle proprie sofferenze, è cosa che non ci interessa, poiché a noi interessa quello che ha detto e non perché lo ha detto.

Anche il celebre consiglio che la vecchietta dà a Zarathustra, appare in contrasto con la natura e la personalità di Nietzsche; la vecchietta, infatti, dice a Zarathustra: «Vai dalle donne? Non dimenticare la frusta!»[footnoteRef:64] Abbiamo visto, infatti, con quale goffaggine il pensatore fa una proposta di matrimonio alla signorina Trampedach. [64: F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., Delle donnine vecchie e giovani, p. 85. ]

Ma non basta: il filosofo non solo deve avere il coraggio di elaborare una filosofia che, talora, può essere in contrasto con la sua natura, ma può anche fornire opinioni ed esortazioni alle quali egli, proprio perché in posizione di osservatore, non necessariamente deve conformarsi.

Insomma, ciò che va bene per tutti non necessariamente va bene anche per il filosofo, in quanto egli ha il privilegio, appunto, di guardare le cose “dall’alto”, di sentirsi “altro” rispetto alla moltitudine degli individui, i quali hanno esigenze ed aspirazioni che il filosofo conosce ma che egli, in virtù della sua diversità, non sempre sente confacenti alla sua natura.

Tale concetto lo si capisce bene leggendo un aforisma che abbiamo già citato e del quale ripeto solo la parte che ci interessa; diceva quell’aforisma:

… “bisogna possedere qualcosa per essere qualcosa”. Ma questo è il più vecchio e il più sano di tutti gli istinti; io aggiungerei: “bisogna voler possedere di più di quanto si ha per diventare qualcosa di più”. Così suona l’insegnamento che la vita stessa predica a tutto ciò che vive: la morale dell’evoluzione. Avere e voler avere di più, in una parola: crescere – è la vita stessa.[footnoteRef:65] [65: F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 125. ]

Ebbene, da queste parole si capisce che Nietzsche ritiene naturale e sano che ogni individuo, detto in termini chiari, cerchi di accumulare sempre più ricchezze; poi però, altrove, dove elenca quelli che a suo dire sono i tratti distintivi di una natura aristocratica (facendo intendere di attenersi anche lui a tale comportamento), afferma:

… non voler possedere nulla di volgare. I propri libri, i propri paesaggi.[footnoteRef:66] [66: Ivi, af. 943. ]

Da questi aforismi, solo apparentemente contraddittori, si capisce che il filosofo tedesco ritiene la sua natura diversa da quella degli altri uomini, gli uomini comuni; egli ritiene, cioè, che ciò che è normale e auspicabile per la stragrande maggioranza degli individui (ossia un processo di crescita che consiste, fra le altre cose, nell’accumulo di sempre maggiori ricchezze), sia invece da rifuggire per il vero uomo nobile, tenendo presente che un filosofo, per Nietzsche, è sempre un uomo contraddistinto da una personalità aristocratica, non intendendo con ciò, ovviamente, il possedere un titolo nobiliare.

Ma parlavamo di contraddizioni. Un’altra si palesa proprio quando il filosofo fornisce, sempre nell’aforisma appena citato, altri tratti distintivi della natura aristocratica; osserva:

Che cos’è aristocratico?

L’accuratezza nelle cose più esteriori, addirittura un aspetto frivolo nella parola, nell’abbigliamento […] l’assoluta convinzione che un lavoro manuale non disonori in alcun modo, ma certamente tolga nobiltà. […] la convinzione che la cortesia sia una delle maggiori virtù […] Gradire la compagnia dei prìncipi e dei preti, perché costoro in effetti conservano la fede in una diversità dei valori umani persino nella valutazione del passato, almeno simbolicamente e all’ingrosso.[footnoteRef:67] [67: Ibid. ]

Poi, nel Così parlò Zarathustra, parlando ancora di nobiltà, afferma:

Il tipo migliore e che preferisco è oggi ancora il contadino sano, rozzo, scaltro, cocciuto, tenace: è questa oggi la razza più aristocratica. Il contadino è oggi l’uomo migliore; e la razza dei contadini dovrebbe essere padrona![footnoteRef:68] [68: F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., Colloquio con i re, p. 273. ]

Ebbene, queste due definizioni di nobiltà, di ciò che deve essere considerato “aristocratico”, sono in stridente contrasto, in quanto le qualità aristocratiche che Nietzsche evidenzia nella Volontà di potenza (ossia nei Frammenti postumi) non sono attribuibili ai contadini; prima di tutto, infatti, i contadini, per quella che è la mia esperienza, non hanno certamente un aspetto frivolo nell’abbigliamento né tanto meno nella parola; in secondo luogo, il filosofo dice che un lavoro manuale toglie nobiltà, e quello del contadino è un lavoro manuale; poi afferma che la cortesia è una delle maggiori virtù, e i contadini non sono certo campioni di cortesia, e, almeno secondo quello che mi è capitato di osservare, non gradiscono molto la compagnia dei preti.

Certo, Nietzsche non era così sprovveduto da cadere in una così evidente contraddizione senza avvedersene, ed è plausibile che egli volesse evidenziare che esistono due tipi di nobiltà; ma resta il fatto che queste due definizioni di ciò che è aristocratico sono praticamente opposte, e non sappiamo quale, per il filosofo, sia quella più autentica; egli, tuttavia, sembra che nella definizione di che cosa è aristocratico che fornisce nella Volontà di potenza stia parlando di qualcosa a cui lui stesso si attiene, lasciando intendere di essere un aristocratico dalle “belle maniere” e dalla spiccata cortesia.

Altra contraddizione: nella Volontà di potenza afferma: «Lo scetticismo è una conseguenza della décadence»[footnoteRef:69]; poi, altrove, dice: «L’uomo grande è necessariamente scettico».[footnoteRef:70] La contraddizione è piuttosto evidente, dal momento che l’uomo grande non può essere un decadente. [69: F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 43. ] [70: Ivi, af. 963. ]

Altra contraddizione ancora; dichiara, in un aforisma già citato:

Io credo che colui che abbia intuito nell’amore una delle più basilari condizioni di crescita comprenderà Dante, che sulla porta del suo Inferno scrisse: “Anche me creò l’eterno Amore”.[footnoteRef:71] [71: Ivi, af. 1030. ]

Poi, nella Genealogia della morale, afferma:

Dante, a mio parere, ha commesso un grossolano errore nel porre con una ingenuità da far paura sulla porta del suo inferno quell’iscrizione «fecemi l’eterno amore».[footnoteRef:72] [72: F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 38. ]

Ebbene, nel primo brano sembra esaltare la scelta di Dante di scrivere quella frase sulla porta del suo Inferno, mentre nel secondo brano definisce la stessa cosa come un “grossolano errore”.

Proseguiamo con la prossima contraddizione; sentenzia:

Noi psicologi dell’avvenire – noi abbiamo poca voglia di osservare noi stessi; riteniamo quasi un segno di degenerazione il fatto che uno strumento cerchi di “conoscere se stesso”: noi siamo strumenti della conoscenza e vorremmo avere tutta l’ingenuità e la precisione di uno strumento – quindi non dobbiamo analizzare, “conoscere” noi stessi. Primo indizio dell’istinto di autoconservazione del grande psicologo: non cerca mai se stesso, non ha occhi, né interesse, né curiosità per se stesso… […] noi diffidiamo di ogni contemplazione del nostro ombelico, perché per noi l’autoosservazione è una forma di degenerazione del genio psicologico.[footnoteRef:73] [73: F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 426. ]

Riflessione: ma non è, Ecce homo, in buona parte, esattamente un’auto-analisi, un’auto-osservazione?

Ma ecco l’ultima contraddizione che mi preme evidenziare; afferma:

… la “natura superiore” dell’uomo grande consiste nell’essere diverso dagli altri, nella sua incomunicabilità, nella differenza di rango – e non in un qualsivoglia effetto, facesse pure tremare l’orbe terracqueo.[footnoteRef:74] [74: Ivi, af. 876. ]

Poi, dice:

La lotta contro gli uomini grandi è giustificata per ragioni economiche. I grandi uomini sono pericolosi, sono casi, eccezioni, cataclismi, forti abbastanza per mettere in questione ciò che fu lentamente fondato e costruito. Si deve non solo far brillare questo esplosivo in modo tale che non rechi danno, ma, se è possibile, prevenirne lo scoppio: istinto fondamentale di ogni società civilizzata.[footnoteRef:75] [75: Ivi, af. 896. ]

Ma come? Prima dice che l’uomo grande è tale perché è “diverso dagli altri” e non perché può causare degli effetti tali da far “tremare il globo terrestre”; poi, al contrario, afferma che l’uomo grande è tale proprio perché è simile a un “cataclisma”, capace di “mettere in questione ciò che fu lentamente fondato e costruito”, aggiungendo incredibilmente e, a mio avviso, con una punta di masochismo, che lo scoppio di questo “esplosivo” (ossia l’uomo grande) deve essere, in una società civilizzata, prevenuto, o al limite “fatto brillare” in modo tale che non rechi danno.

Tale affermazione è