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PER I NOSTRI FIGLI Itinerari di crescita e benessere tra famiglia e scuola Lino Graziano Grandi Gian Sandro Lerda Libro "Educare oggi"_Libro "Caro Prof" 28/05/13 09:44 Pagina 5

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PER I NOSTRI

FIGLIItinerari di crescita e benessere

tra famiglia e scuola

Lino Graziano GrandiGian Sandro Lerda

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CAPITOLO 1

CRESCERE E FAR CRESCERE: GENITORI E INSEGNANTI A CONFRONTO

di Gian Sandro Lerda

Il presente capitolo ha una funzione introduttiva e pre-senta una panoramica tesa per lo più ad individuare glielementi principali del complesso scenario di cui ci occu-piamo in questo lavoro, elementi che saranno poi ap-profonditi ed ampliati nei successivi capitoli.

Ci soffermeremo anche sulla questione centrale e deli-cata dei rapporti tra insegnanti e genitori, sia per sottoli-neare la fondamentale importanza di sinergie che pro-muovano un’azione educativa forte, sia per analizzarequali possano essere gli impedimenti o gli ostacoli a taliprocessi di interazione, alla luce dei profondi cambia-menti che caratterizzano i nostri tempi.

Consideriamo i principali attori dello scenario che ciaccingiamo ad analizzare: la famiglia, la scuola, i soggettiin crescita, la società allargata. Quest’ultima contiene isoggetti precedenti, ma non è la semplice somma di essi:esprime sue peculiarità, risultato delle correnti culturaliche l’hanno attraversata negli ultimi anni, tali da porre si-gnificativi condizionamenti (nel bene e nel male) e pres-sioni sui singoli attori.

La famiglia ha subito trasformazioni profonde e percerti versi esprime oggi segnali di crisi.

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È cambiata la struttura della famiglia: si è passati, nelgiro di pochi decenni, dalla famiglia allargata e patriar-cale, alla famiglia nucleare, venendo meno così quellarete di sostegno materiale e culturale che faceva da conte-nitore ed accompagnamento nei processi di crescita.

La famiglia oggi è più sola e quindi più a rischio: igrandi gruppi familiari della cultura contadina o gli in-tensi e solidali rapporti di vicinato che ricordiamo nellanostra infanzia e che facevano riferimento ad un più fortesentimento di appartenenza ad una comunità, cedono ilpasso ad un sempre più marcato isolamento del nucleofamiliare ristretto, che conduce alla solitudine ed allo svi-luppo di ottiche private sempre meno integrate in unpensiero collettivo e condiviso. Siamo tutti proiettati inun mondo lavorativo che ci vede costantemente impe-gnati accanto ad altre persone, ma allo stesso tempo spe-rimentiamo la solitudine e il peso della responsabilità in-dividuale nell’affrontare le difficoltà quotidiane.

Oggi, inoltre, ci troviamo di fronte a diverse tipologiedi famiglia: accanto a quella di tipo “tradizionale”, tro-viamo più frequentemente famiglie con genitori separati,famiglie adottive o affidatarie, famiglie di immigrati por-tatori di altre culture, famiglie di fatto, famiglie ricompo-ste, famiglie monoparentali, ecc. Diverse tipologie chenulla dicono di per sé sul loro valore e le loro capacitàeducative, ma che propongono una complessità decisa-mente nuova ed un mutamento dei vecchi parametri di ri-ferimento.

All’interno della famiglia, poi, sono cambiati i ruolidella coppia genitoriale. La madre, avendo acquisitomaggiore indipendenza e proiezione nel mondo del la-voro, ha spesso ridotto i tempi di contatto con i figli e con

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la casa e reso più precoce il processo disocializzazione/scolarizzazione dei bambini.

Il padre, da detentore della norma, ha via via acquisitoruoli di matrice più materna e mansioni di accudimento,più facilmente interscambiabili con l’altro genitore; si evi-denzia la fatica ad elaborare modalità comunicative e re-lazionali proprie, diverse da quelle della moglie/madre eanche da quelle dei propri padri, non riproponibili oggi espesso non condivise. Mancano modelli di riferimentochiari e significativi per una nuova identità maschile e siriscontra la difficoltà ad assumere quello che, nella nostracultura, è il codice paterno, ovvero il ruolo di chi stabili-sce le regole e riveste una certa autorità, sia quando i figlisono piccoli, sia durante la delicata età adolescenziale. E’ormai unanimemente riconosciuto, a questo proposito,uno sbilanciamento verso un codice femminile/maternoall’interno della famiglia attuale, oppure si assiste all’in-terpretazione di ruoli alternativi quali quelli di “padre-compagnone” o “padre delegante”, ecc.

Come si accennava prima, gli impegni lavorativi di en-trambi i genitori spesso implicano un distanziamento for-zato dal quotidiano dei figli, che vengono affidati mag-giormente alla scuola, ad una serie di impegni program-mati, ai nonni quando ci sono e sono disponibili o a fi-gure sostitutive di accudimento. Si è ridotto il tempo diconvivenza in famiglia, relegato solitamente alla sera e aifine settimana. E in quei momenti gli scambi relazionalisono spesso limitati dall’imperversare di TV, computer,videogiochi e quant’altro.

Si assiste ad una progressiva perdita dei riti e dei ritualicondivisi. A parte i grandi riti sociali che sovente segna-vano il passaggio da un’età ad un’altra, i nostri ritmi divita hanno determinato oggi anche la scomparsa (e ciò è

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ancora più pesante) di riti quotidiani, come ad esempio ilpasto in famiglia, i compiti a casa, il gioco. Si chiede sem-pre più alla scuola o ad altri enti di gestire tempi e spaziper i riti quotidiani: si assiste ad una progressiva “istitu-zionalizzazione” dei bambini (il termine forse è un po’forte, ma è usato provocatoriamente per meglio marcareil fenomeno). Vi è contemporaneamente il bisogno, soste-nuto da probabili sensi di colpa, di assicurare al bambinoil mantenimento delle abitudini familiari, con richiesteagli educatori di ricostruire a scuola un ambiente ed unsistema di modalità relazionali il più possibile coerenticon quello familiare. Compito questo, oltre che pocoeducativo (perché è importante che il bambino speri-menti la differenza), anche di fatto sempre più complessoe spesso impraticabile a causa della maggiore differenzia-zione della provenienza sociale, culturale e geograficadelle famiglie utenti.

Oggi si riscontra inoltre un aumento della distanza in-tergenerazionale: i genitori scelgono di avere i figli adun’età sempre più avanzata e con un investimento affet-tivo (ed economico) sempre più elevato. Un tempo le ge-nerazioni erano più vicine fra loro (la distanza d’età fragenitori e figli era di vent’anni circa) ed era più facile sen-tire e realizzare una certa continuità (ad esempio, spesso ifigli portavano avanti l'attività lavorativa dei genitori),con competenze magari più avanzate da parte dei figli manon dissimili; spesso, inoltre, vi era la tendenza a vivere inluoghi vicini, a più stretto contatto.

Ora le generazioni si allontanano fra loro per diffe-renza di età e contemporaneamente i ritmi dei mutamentisociali e dello sviluppo tecnologico sono molto più ra-pidi: questo causa inevitabilmente una divaricazione

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molto marcata fra genitori e figli. Questi ultimi, sovente,si trovano ad affrontare attività o a svolgere professioniinimmaginabili (perché inesistenti) ai tempi dei genitori,con conoscenze e competenze molto diverse, o a vivere inluoghi e con modalità completamente mutate rispetto allagenerazione precedente. Questo fenomeno è evidente an-che nella vita quotidiana delle famiglie stesse: basti pen-sare alla competenza informatica e al fatto che quasi sem-pre i figli, già in età scolare, si dimostrano più abili ri-spetto ai genitori di fronte alle nuove tecnologie; o ai mu-tamenti estremamente rapidi in vari settori sociali e cultu-rali come il mondo dell’immagine, dell’abbigliamento,della musica. Si tratta di situazioni che creano inevitabil-mente nei genitori disagio, spaesamento, sensazioni diinutilità e/o di incomprensione: di qui la fatica di “rico-noscere” e di “riconoscersi”, e quindi la difficoltà a ge-stire la relazione.

Anche gli stili educativi si sono profondamente modifi-cati, in relazione a quanto detto finora e come conse-guenza delle correnti culturali degli ultimi decenni: si èverificato un passaggio dalla famiglia strutturata sul prin-cipio di autorità, la cosiddetta famiglia “etica”, volta atrasmettere norme e valori (l’obiettivo era che i figli “sicomportassero bene”), alla famiglia cosiddetta “affet-tiva”, dedita primariamente a trasmettere affetti e a prov-vedere alla felicità dei figli (l’obiettivo è che i figli “stianobene”, siano felici, non soffrano). Anche nel tentativo dibilanciare le assenze prolungate da casa, i genitori adot-tano spesso uno stile iperprotettivo e viziante nei con-fronti dei figli, mentre sono in grande difficoltà nell’at-tuare modalità di relazione che richiedano e talvolta im-pongano la spinta verso l’autonomia e l’indipendenza, lo

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sviluppo del senso di responsabilità, il rispetto delle re-gole. È in crisi, come già accennato prima, il codice pa-terno, la norma e con esso la capacità di mantenere auto-revolezza nelle relazioni educative. Ciò è evidente nellerichieste che i genitori rivolgono sempre più alle scuole,richieste di consulenza e di gruppi di discussione propriosulle tematiche delle regole e dell’autonomia: le famigliesono consce della propria difficoltà nel proporre limiti aipropri figli e richiedono alla scuola spazi e aiuti per con-frontarsi sulla giustizia e sulla necessità di tali limiti, sullemodalità per applicarli e per affrontare in maniera co-struttiva le eventuali trasgressioni.

Crisi dell’autorevolezza, dunque, ma anche crisi dei va-lori di riferimento. E qui apriamo lo sguardo su fenomenipiù allargati: la società è sempre più segnata dalla globa-lizzazione, dal pluralismo della cultura e dalla diversitàdegli stili di vita, dalla secolarizzazione diffusa e da nuoveforme di religiosità, da un forte incremento dello svi-luppo scientifico e tecnologico, caratterizzato prevalente-mente dall’informatica e dalla comunicazione massme-diatica.

In questo scenario la famiglia appare sempre più fra-gile, più piccola, più assillata da problemi economici e la-vorativi, meno sostenuta e difesa dalle reti parentali disupporto, centrata sul bambino-re o sul super-figlio (gliaspetti vizianti e narcisistici prima citati), ma nello stessotempo in attesa che faccia in fretta a crescere e rendersiautonomo per consentire uno spazio successivo di realiz-zazione per i genitori, alla ricerca ancora spesso di suc-cesso personale.

Una famiglia anche più facilmente esposta all’autorefe-renzialità soggettiva ed individualistica (le logiche private

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di cui dicevamo prima, la ricerca dei principi e dei valorial suo interno più che nella comunità).

Paradossalmente, in un clima generalizzato di incer-tezza e di complessità, la famiglia, pur nella sua fragilità,diventa il centro delle proprie sicurezze e luogo in cui ri-fugiarsi, dove si cerca la soddisfazione dei bisogni mate-riali ed affettivi, luogo umano protetto, in cui ci si senteaccolti. In una società poco attenta ai valori della condivi-sione e della solidarietà, dove si fa pressante la competiti-vità e l’incertezza del proprio futuro, dove vengono amancare molti punti di riferimento, anche di carattereideologico, valoriale e spirituale, il “bisogno di famiglia”emerge prepotente: pur con tutti i suoi limiti, ma anchecon tutte le sue risorse, rimane il luogo fondamentale einsostituibile della prima e originaria formazione umana,veicolata dall’educazione.

Certo c’è da chiedersi quale educazione. Lo sviluppoimpressionante della tecnologia, le continue scoperte diingegneria biogenetica, l’immensa quantità di informa-zioni che viaggiano in tempo reale e permettono di farfronte quasi ad ogni imprevisto sembra stiano realiz-zando il sogno del “superuomo” di nietzschiana memo-ria. C’è ancora bisogno di educazione, in queste nostresocietà così autosufficienti e superorganizzate?

Molti oggi parlano di “crisi dell’educazione” o addirit-tura di “fine dell’educazione”: per la debolezza delle pro-poste educative, la molteplicità disorientante di modellidi vita (che rende più arduo il percorso verso la sintesi el’unità della personalità), la perdita o la debolezza di rife-rimenti ideali per un progetto di uomo. Gli episodi diviolenza che continuano a verificarsi nelle scuole e nellecase sono certo il segnale di difficoltà che il mondo scola-stico e familiare sta attraversando, ma anche la manifesta-

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zione di una decadenza educativa di più ampia portata.In particolare sentiamo la crisi del senso di apparte-

nenza alla comunità, sotto forma di una penetrante e per-vasiva mentalità individualistica che corrode dall’internole relazioni. E se non c’è sentimento comunitario non c’èneppure salute psichica, sosteneva Adler.

Il nostro tempo è caratterizzato dall’assenza di un cen-tro, di principi organizzatori (a livello morale/valoriale,ma anche psicologico). Ci troviamo in una società “poli-teistica” (M. Weber), enormemente differenziata, che hamolti dei e molte verità, da cui la frammentazione e l’as-solutizzazione dei propri relativi. Potremmo usare la me-tafora di una “grande piazza”, nella quale l’uomo si sco-pre spesso isolato, disperso, bombardato da una molte-plicità di messaggi eterogenei e spesso contraddittori.

Questa società e cultura politeistica fatica a trovare ri-ferimenti valoriali ed educativi unitari. Al contrario tendeancora a moltiplicare indefinitamente le proposte, cosìche un eccesso di offerta finisce di fatto con l’appiattire ladomanda, anche perché le differenti proposte vengonomesse tutte sullo stesso piano come assolutamente indif-ferenziate e indifferenti tra di loro. Risulta così difficilevalutare e selezionare e ci si lascia facilmente catturare dauna cultura dell’indifferenza e dell’immediatezza.

Ecco che, focalizzando nuovamente l’attenzione dalgenerale al particolare, e cioè dalla società ai soggetti increscita, troviamo bambini e ragazzi sottoposti ad unamiriade di stimoli cognitivi ed emotivi, con uno spaziomentale sempre più ridotto per il pensiero, l’elabora-zione, l’organizzazione, la sedimentazione. Non c’è iltempo e l’era dei computer li ha abituati a “pattinare” supiattaforme infinite di conoscenze collegate tra loro attra-

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verso associazioni, anziché permettere l’approfondi-mento, l’introspezione, il ragionamento sulla propriaesperienza.

Anche i modelli di identificazione si sono moltiplicati espingono l’acceleratore sull’individualismo e sul narcisi-smo, proiettando spesso verso una dimensione più vir-tuale che reale. L’accento è sul potere, il successo, di fa-cile e quasi magica attuazione (pensiamo ai programmitelevisivi, dai Gormiti al Grande Fratello), dove le com-ponenti dell’impegno, della fatica, della frustrazione, del-l’eventualità di non farcela, della rinuncia, dell’attesasembrano essere bandite, perché non tollerabili. Prevalela logica del “tutto e subito”, dove anche le pulsioni piùbasilari dell’aggressività e della sessualità stentano a tro-vare contenimento e sano orientamento.

Così come si moltiplicano gli stimoli, allo stesso modosi moltiplicano i bisogni espressi dai bambini e dai ra-gazzi, bisogni talvolta fittizi o indotti, che poco hanno ache fare con i bisogni evolutivi più profondi, come il bi-sogno di sviluppare fiducia, autonomia e coraggio, il bi-sogno di contenimento e regolazione, il bisogno di pas-sare da un pensiero egocentrico ad uno etero-centrato,alla base del consolidamento del sentimento comunitario,il bisogno di sviluppare il pensiero critico e la coscienza,la capacità di reggere responsabilità e impegni. Di questied altri aspetti si proporrà un approfondimento nel terzocapitolo, ma è evidente già ad un primo sguardo comeper un genitore di oggi possa essere difficile riconoscere ibisogni veri e profondi dei figli, sia perché noi stessisiamo immersi nel medesimo bagno di stimoli, sia perchélo scarso tempo a nostra disposizione ci porta spesso asentire i desideri espressi ad alta voce dai figli, più che leesigenze di base sommerse nel rumore di fondo costante.

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In questo quadro è evidente che il ruolo educativodella scuola viene a porsi in primo piano.

Laddove è in crisi l’azione normativa e regolativa e l’ac-cento è posto sull’individualismo e le logiche private, lascuola, in quanto luogo principale di aggregazione (al-meno per la quantità di tempo in cui un bambino o un ra-gazzo mediamente vi permane), promotore di un’istru-zione ed una formazione umana che passa attraverso il la-voro di un gruppo di persone cooperanti (necessaria-mente almeno in misura minima), gestore di relazioni in-terpersonali che necessitano di trovare criteri comuni epossibilità di convivenza, diventa riferimento fondamen-tale dell’educazione dei nostri figli. Ha in sé intrinseco unfortissimo valore educativo, non foss’altro che per i vin-coli oggettivi legati alla struttura della scuola stessa oltreche per le modalità didattiche e la professionalità del per-sonale docente, ma naturalmente risente anch’essa deimutamenti culturali generali prima esposti. Oggi lascuola ha subito, in qualche misura, la medesima evolu-zione della famiglia, passando quindi da una posizionefortemente normativa ad un'impostazione di stampo ma-terno: da un lato osserviamo una maggiore consapevo-lezza da parte degli insegnanti circa l'importanza di unabuona relazione con i bambini, dall'altro però si presentail rischio di una confusione rispetto al ruolo dell'inse-gnante ed alla sua funzione. È come se nel momento incui la scuola ha riconosciuto l'importanza dell'individuo-allievo e dei suoi bisogni individuali, rischiasse di dimen-ticare che l'allievo stesso deve essere educato per diven-tare parte integrante ed attiva della società, anche attra-verso un’azione di disciplina che orienti il comporta-mento degli studenti e degli insegnanti. Così spesso ci si

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trova di fronte a bambini annoiati, egocentrici, poco ingrado di rispettare la distanza e il ruolo, poco capaci diinteriorizzare le regole: gli insegnanti talvolta tendono adattribuirne la causa alla famiglia (e non hanno torto inquesto), incontrando genitori che delegano alla scuola ilcompito di dare le regole ai figli; ma allo stesso tempo igenitori non possono intervenire direttamente sul com-portamento del bambino nel contesto scolastico e vivonoa loro volta gli insegnanti come deleganti e colpevoliz-zanti, non in grado loro stessi di gestire i bambini o i ra-gazzi a scuola, per le stesse carenze e difficoltà. Da questadinamica possono nascere tensioni, incomprensioni, con-flitti che portano ciascuno ad irrigidirsi sulle proprie po-sizioni, con il risultato di non risolvere le situazioni pro-blematiche, anzi di esasperarle, con uno strisciante senti-mento di impotenza.

Nello stesso tempo sentiamo come oggi le famiglie per-cepiscano la propria fragilità educativa e vedano gli inse-gnanti non più solo come docenti e propositori di espe-rienze “didattiche” per i propri figli, ma anche come os-servatori della crescita, esperti della relazione, educatori econsulenti in caso di dubbi e di interrogativi. L’inse-gnante dovrebbe dunque sopperire alle carenze genito-riali, supportare i genitori nel loro ruolo, chiarire le pro-blematiche ed indicare soluzioni, tollerare le ansietà e leaggressività dei genitori stessi che mal sopportano valuta-zioni negative per i propri figli, ecc.

Non si sta chiedendo troppo agli insegnanti? Di esserenon solo insegnanti, ma educatori, genitori, psicologi, as-sistenti sociali, ecc.? Tali richieste da un lato possonoportare ad un proficuo ripensamento sulle proprie com-petenze, alla sempre utile messa in discussione dei propriparametri di riferimento, alla ricerca continua di aggior-

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namento e formazione personale, strumenti indispensa-bili, irrinunciabili per esercitare questa professione; dal-l’altro, tuttavia, possono produrre una diffusa sensazionedi malessere e di fatica. Dobbiamo considerare che laprofessione dell’insegnante è esposta ad un livello eleva-tissimo di stress emotivo, proprio per questi carichi chenon si esauriscono nella gestione dei ragazzi in classe, macomprendono anche le dinamiche con i genitori, tra l’e-quipe degli insegnanti, con la struttura scolastica stessa. Ilrischio di burn-out è molto alto e giustificherebbe la pre-senza di momenti di supervisione, come esistono per altreprofessioni cosiddette di “aiuto”, o almeno di “spazi diascolto” con la funzione di contenere ed elaborare i fati-cosi vissuti emotivi sollecitati e supportare i docenti nel-l’esercizio della loro funzione. Gli insegnanti spesso rice-vono richieste che non sono in grado di assecondare edessi stessi riferiscono di sentirsi impreparati e sovraccari-cati. La fatica emotiva che ne deriva rischia di spingerlitalvolta a chiudersi in maniera difensiva in ruoli moltocentrati sui bambini, ma più distaccati nei confronti degliadulti. Questa reazione è assolutamente comprensibile,ma spinge erroneamente a viversi come interlocutori delbambino e non della famiglia.

Allo stesso tempo ci troviamo spesso di fronte ad un al-tro fenomeno, che sembrerebbe opposto a quello prece-dente, ma in realtà si origina a partire dagli stessi aspettiprima analizzati. L’individualismo, la supremazia della lo-gica privata, lo stile educativo improntato al permissivi-smo ed alla viziatura, la caduta del codice paterno del-l’autorità producono spesso atteggiamenti di difesa e at-tacco (aggressivo o svalutante) da parte dei genitori ogniqualvolta i figli “subiscono” una valutazione negativa diprofitto o di comportamento o quando non si rivelano

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così “perfetti” come ci si poteva aspettare. Il meccanismodi base è spesso lo stesso, cioè l’incapacità di tollerare leproprie difficoltà nel ruolo di genitore e la valutazionenegativa dall’esterno vissuta come minaccia o afferma-zione della propria inettitudine o semplicemente limita-tezza. Vissuti da sempre provati dai genitori, ma oggi di-venuti intollerabili nell’ottica narcisistica imperante edespressi aggressivamente per la caduta del principio diautorità che vedeva un tempo i genitori nella posizione disostenitori (spesso acritici) dell’operato dell’insegnante.A ciò si aggiunga, a seconda dei casi, il desiderio che ilpiccolo sia quel fanciullo perfetto che si vorrebbe mo-strare alla società (come espressione della propria perfe-zione e del proprio successo) o la volontà viziante di evi-targli ogni sorta di frustrazioni o difficoltà, intervenendosempre e comunque a difesa.

Un insegnante può trovarsi in difficoltà nel sostenere,per i motivi detti prima, tali atteggiamenti aggressivi osvalutanti del genitore e rischia di reagire o evitando co-municazioni “scomode” o comunicando in maniera par-ziale e poco chiara o barricandosi all’interno del proprioruolo ed inasprendo così ancora di più lo scontro.

Un altro fenomeno a cui a volte assistiamo è legato al-l’ottica del diritto che tende a prevalere su quella del do-vere e fa sì che si ponga primariamente attenzione al fattoche il servizio scolastico di cui si ha diritto risponda atutti i prerequisiti richiesti di qualità e attenzione ai biso-gni dell’utente, nel caso specifico lo studente, più che va-lutare quanto quest’ultimo faccia il suo dovere. E dunqueaccanto al genitore delegante, troviamo il genitore super-informato sui programmi scolastici, che fa confronti congli insegnanti delle altre sezioni ed è pronto a denunciareeventuali incongruenze o inadempienze al dirigente sco-

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lastico. Ed in tali dinamiche si finisce talvolta per dimen-ticare l’aspetto più importante, cioè il bene del ragazzo,che in realtà, almeno nella teoria, dovrebbe stare a cuorea tutti e che necessiterebbe di una collaborazione più chedi una contesa tra le parti. Senza contare la possibilità chesi offre così al ragazzo di aggirare gli ostacoli dribblandotra i disaccordi degli adulti ed il modello di incapacità dicooperazione che si propone, rinforzando così un tipo difilosofia per contrapposizioni che è già fin troppo dila-gante.

D’altra parte anche l’insegnante non può più pensaredi godere della fiducia incondizionata e aprioristica deigenitori e non può sottrarsi ad un confronto con essi suitemi educativi. Non può pensare che il suo operato siasempre e comunque esente da possibili critiche o annota-zioni, anche se deve difendere e delimitare in qualche mi-sura il suo ruolo. L’insegnante, e questo sta nelle sue pos-sibilità e nelle competenze richieste dal suo ruolo, devepossedere conoscenze specifiche riguardanti non solo lapropria materia di insegnamento e la didattica, ma anchela gestione degli aspetti emotivi e relazionali che com-porta la relazione educativa. Ormai non si può prescin-dere da questi aspetti, perché ne va non soltanto del be-nessere dei ragazzi, ma anche dell’equilibrio psicologicodell’insegnante stesso che, senza strumenti adeguati, èesposto a stress e frustrazioni non sempre tollerabili,come già si diceva prima. L’insegnante formato in questosenso ha la possibilità di utilizzare le competenze relazio-nali non solo nell’ambito della classe, ma anche nel rap-porto con il genitore, riuscendo a presentare in modoadeguato le sue osservazioni e considerazioni sul bam-bino o ragazzo in questione e le strategie pensate o fino almomento attuate per fronteggiare gli eventuali problemi.

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Ciò spesso facilita l’accettazione da parte del genitore,che sente un autentico interesse per il proprio figlio e in-travede delle possibilità di intervento, che vanno a smor-zare i vissuti di impotenza o di colpa facilmente solleci-tati.

Il rapporto di fiducia dunque è da conquistare in en-trambe le direzioni: quante volte si ascoltano nei nostristudi genitori che non credono alle parole dell’insegnantee viceversa insegnanti che non credono alle parole dei ge-nitori solo perché presentano immagini diverse dellostesso bambino! Noi sappiamo benissimo che tali imma-gini possono tranquillamente coesistere perché la stessapersona può avere comportamenti diversi in contesti di-versi, dal momento che le dinamiche e le richieste sonodifferenti. E poi l’immagine è sempre un prodotto sog-gettivo, dunque condizionato dal punto di vista di chi os-serva, dai suoi “occhiali”.

È necessario non rimanere intrappolati nel meccani-smo di attribuzione all’altro della causa di ciò che nonfunziona e dalle aspettative di compensazione reciprocache spesso portano a difficoltà di comunicazione e di col-laborazione. Il genitore si aspetta talvolta che l’insegnanteriesca a fare (e ritiene che sia lui a doverlo fare) quelloche il genitore stesso non è riuscito ad ottenere dal pro-prio figlio in casa (ad esempio la capacità di impegnarsi odi appassionarsi a qualcosa o di organizzarsi o di rispet-tare le regole), ma allo stesso modo talvolta capita chel’insegnante chieda al genitore di fare qualcosa che luinon è riuscito a fare (ad esempio recuperare le difficoltàin alcune materie, cambiare metodo di studio, modificareil comportamento in classe): si tratta di richieste ambiguedove ciascuno difende il proprio ruolo, ma poi chiede al-l’altro di interpretarlo un po’ al suo posto, in tempi e luo-

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ghi che non sono quelli appropriati. Il genitore chiede al-l’insegnante di essere un sostituto-genitore e l’insegnantechiede al genitore di essere un sostituto-insegnante. Inquest’ottica diventa spesso molto difficile collaborare: infondo ciascuno si aspetta che l’altro faccia quello che luinon è in grado di fare, assegnandogli la “colpa” e la re-sponsabilità di un eventuale insuccesso.

È fondamentale, invece, che non ci siano confusioni ditempi, spazi e ruoli: la scuola deve gestire le questioniscolastiche e la famiglia deve gestire le questioni familiari,ciascuno con le proprie competenze e con la piena assun-zione delle proprie responsabilità. La relazione genitore-figlio non è il luogo dei compiti, delle lezioni, delle ripeti-zioni, degli apprendimenti scolastici, ma è il luogo sem-mai, oltre che dell’affetto e del sostegno emotivo, anchedel pensiero, dell’interesse, dell’esperienza, della curio-sità, del dialogo, dell’approfondimento, di tutto ciò che èla cultura di quella famiglia, che poi verrà riordinata,completata, organizzata, collocata in quadri di pensieropiù esaustivi e ricchi all’interno del percorso scolastico,nella relazione insegnante-allievo. Certo la famiglia non èsolo mangiare, dormire e TV, ma neanche compiti e le-zioni: questi devono esserci, ma nella misura in cui ilbambino/ragazzo abbia gli strumenti per gestirseli inmodo almeno parzialmente autonomo, senza invaderecompletamente (come spesso accade) le relazioni fami-liari.

Lo stesso può valere per il comportamento: a casa è ge-stito dai genitori, a scuola dagli insegnanti, dove la colla-borazione sta nel sostegno reciproco delle azioni educa-tive. Nel sapere, ad esempio, da parte del genitore, che ilfiglio è anche scolaro e quindi l’intervento disciplinaredell’insegnante va rispettato e sostenuto (portando il

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bambino a riflettere seriamente su di sé), ma non nel ri-chiedere all’uno di risolvere i problemi che avvengononel contesto dell’altro.

Da questo sintetico quadro, prima ancora che ci si ad-dentri nelle specificità presentate nei capitoli successivi,deriva la stretta necessità di una maggiore definizionedelle proprie identità e responsabilità di ruolo che con-duca ad una reale collaborazione e sostegno reciproco trainsegnanti e genitori.

È necessario un canale di contatto tra la scuola e la fa-miglia, con la possibilità di momenti concreti ed ap-profonditi di scambio (i colloqui dovrebbero essere parti-colarmente curati) per orientare il percorso di sviluppodel bambino. Ascoltarsi reciprocamente (non solo comu-nicare il profitto) permette all’insegnante di acquisirel’immagine di quel bambino o ragazzo vista con gli occhidel genitore, in un contesto differente, nella sua realtà fa-miliare e sociale, e al genitore di conoscere e verificarequale sia la partecipazione del figlio alla vita scolastica, ilsuo interesse, il suo impegno, le sue difficoltà, la sua ca-pacità di collaborare e di essere solidale con i compagni.E questo permette, sempre senza invadere il territoriodell’altro o aspettarsi dall’altro la soluzione ai problemi,di avere un’immagine più completa e a volte di capire piùa fondo determinati fenomeni, affinché ciascuno possapoi intervenire meglio nel proprio contesto. Se, ad esem-pio, un bambino di prima elementare si mostra a scuolapigro, svogliato e tende a non rispettare le consegne, è daun confronto tra genitori ed insegnanti che potrà emer-gere il significato di quel comportamento. Da parte del-l’insegnante potrebbe essere letto come generico atteg-giamento di sfida del bambino nei confronti dell’adulto,

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ma se si apprende dai genitori che a casa non è mai sfi-dante e non mostra pigrizia, svogliatezza o non rispettodelle consegne, forse il problema è un altro. Magari siscopre che il bambino a casa non è così semplicementeperché non gli sono mai state fatte richieste specifiche,precise come quelle scolastiche. Ecco che la reazione delbambino in classe di fronte ad un insegnante che non glichiede di fare un disegno a suo piacimento, ma gli ri-chiede di scrivere proprio quello che c’è scritto alla lava-gna e che lui non è in grado di fare perché non l’ha an-cora imparato, può essere la reazione di un bambino im-paurito di fronte al nuovo compito, che si rifugia poi nel-l’evitamento (pigrizia, svogliatezza) o nel rifiuto/opposi-zione. Non si tratta di sfida, si tratta di paura.

Nell’ottica dell’ascolto e del rispetto reciproco, la pro-fessionalità dell’insegnante e la sensibilità del genitorepossono convergere e permettere una migliore compren-sione del bambino. A entrambi poi il compito di rinfor-zare e incoraggiare il bambino, abituandolo ad affrontareil nuovo, nei rispettivi ambienti. Il bambino/ragazzo, inquesto modo, si accorge che gli adulti intorno a lui cer-cano di comprenderlo ed aiutarlo in un confronto reci-proco ed attraverso un’azione di cooperazione e si sentein una rete di sicurezza, che a volte magari è anche sco-moda (perché gli adulti che si parlano non consentonopiù di tanto le facili scappatoie), ma contiene, guida epermette di crescere.

Senza anticipare quanto si presenterà più diffusamentenell'ultimo capitolo, possiamo tuttavia accennare al fattoche un valido contributo per gli insegnanti possono an-che essere gli interventi di esperti nella conduzione di la-boratori o lavori di gruppo con i bambini e i ragazzi ascuola che, se condotti adeguatamente, possono fornire

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utili elementi di comprensione delle dinamiche emotive erelazionali ed aprire a strategie di intervento comunica-bili e condivisibili con i genitori.

È evidente che in tutto ciò risulta sempre fondamentalel’umanità dell’adulto, genitore o insegnante che sia, il suomettersi in gioco nella relazione educativa, il modello diuomo che trasmette.

Illuminante a tal proposito un pensiero di Freud, chequasi cent’anni fa così ricordava la sua esperienza di stu-dente: “À difficile stabilire che cosa ci importasse di più, seavessimo più interesse per le scienze che ci venivano inse-gnate o per la persona dei nostri insegnanti. In ogni casoquesti ultimi erano oggetto per tutti noi di interesse sotter-raneo continuo, e per molti la via delle scienze passava ne-cessariamente per le persone dei professori. Li corteggia-vamo o voltavamo loro le spalle, immaginavamo che pro-vassero simpatie o antipatie probabilmente inesistenti, stu-diavamo i loro caratteri e formavamo o deformavamo i no-stri sul loro modello. Essi suscitavano le nostre rivolte piùforti e ci costringevano a una completa sottomissione; spia-vamo le loro piccole debolezze ed eravamo orgogliosi deiloro grandi meriti, del loro sapere e della loro giustizia. Infondo li amavamo molto, se appena ce ne davano un mo-tivo; non so se tutti i nostri insegnanti se ne sono accorti".(Freud, 1914)

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CAPITOLO 2

PASSATO E FUTURO NELLA FAMIGLIA OGGI:I PERCORSI DEL CAMBIAMENTO

di Lino G. Grandi

Scuola e famiglia: si tratta di organizzazioni fondanti laSocietà. Promuovono l’incontro, la relazione, la comparte-cipazione, il riconoscimento, il superamento di una conce-zione individualistica e l’esigenza di una produttiva dialet-tica il cui fulcro è la considerazione dell’altro che è altro date e che è portatore di valore, di significato ed è vitale,proiettato nell’affermazione di sé, nel soddisfacimento deisuoi bisogni, nel concretizzare il suo progetto di vita.

Viviamo in un’epoca che tende ad esaltare l’individuo,che privilegia l’Io, che lo esalta e lo schiaccia sotto il pesodell’apparenza: io valgo perché possiedo, perché attiro l’at-tenzione, perché ho dei mezzi che altri non possono per-mettersi, perché sono fonte di desiderio, perché mi diffe-renzio. Trattasi di un Io che può confrontarsi ed interagirecon un Tu, sempre però in un clima di differenziazione edè come se una barriera non permettesse il processo crea-tivo che solo lo strutturarsi di un Noi potrebbe consentire.L’uomo si è così auto-recluso in una gabbia, fors’anchedalle sbarre dorate, ma che gli impedisce ogni progetto diautopromozione poiché -va detto- solo l’incontro con l’al-tro, con il diverso, consente crescita e sviluppo delle poten-zialità.

Si constata di conseguenza che in famiglia l’Io si occupadel benessere, del “non deve mancare nulla”; succede però

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che si strutturi un clima di insoddisfazione, poiché spesso èavvertito come carente da parte dell’altro l’occuparsi dime, l’accogliermi con dedizione, il soddisfare i miei bisogni(spesso inespressi) e viene così a mancare la consuetudinead approcciare l’altro antecedendo alle necessità dell’Io leesigenze del partner, laddove un’educazione all’osserva-zione permetterebbe la comprensione delle attese, spessoinespresse, di chi o di coloro che condividono la quotidia-nità con noi.

Nel mentre le suddette riflessioni vengono qui elaborateed eventualmente condivise, grazie anche ad altri aspettinon enunciati in questo contesto per non dilungare eccessi-vamente il discorso, l’attenzione si rivolge ora al mondodella scuola dove le analogie non mancano. L’istruzione,pur non trascurando le esigenze imprescindibili di appren-dimento, deve poter tradursi in formazione e, perché que-sto avvenga, l’insegnante deve avviare un processo di revi-sione degli antichi “simboli” introiettati. Esemplificando:non è sufficiente aver abolito la pedana sotto la cattedra.

La vicinanza emotiva con gli allievi può favorire la com-partecipazione e soprattutto nella psicologia del docentel’ottica dell’autoritarismo deve cedere il passo all’autorevo-lezza, sostenuta dal convincimento che prendersi cura de-gli allievi è espressione di una scelta di servizio, laddovel’insegnante è proteso a cogliere potenzialità e difficoltàdegli allievi: ancora una volta l’Io (con le sue esigenze, lesue difese, le sue debolezze, le sue finzioni quali ad es. “iprogrammi ministeriali devono essere assolti e bisognauniformarsi”) deve volgere verso il Noi, consentendo in talmodo il processo di crescita dell’allievo, con un’operazionetrasformativa che traduce le difficoltà in opportunità, la di-stanza emotiva e gestionale in condivisione.

Il bimbo che ci è stato affidato deve anzitutto essere aiu-

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tato a crescere, grazie a un’efficace indagine delle sue ca-ratteristiche; abbisogna di stimoli adeguati, di un tratta-mento pedagogico individualizzato, insomma di poter cre-scere nel rispetto della specificità - anche se eventualmentepovera - del suo potenziale. È lui che dovrà percorrere lastrada della sua vita; a noi spetta l’onere di aiutarlo ad indi-viduarla e di sostenerlo.

Ne consegue che l’insegnante non si adagi, ripropo-nendo schemi appresi quand’era scolaro, nella tradizionedella pedagogia idealistica di cui fu maestro e cultore Gio-vanni Gentile, fra l’altro Ministro dell’Istruzione negli annidel regime fascista. Recitava, la suddetta filosofia (e la pe-dagogia ne era un derivato) idealistica che l’Io assoluto siincarnava nella figura dell’insegnante; questi era sopra, suun piedistallo, possedeva la verità ed il sapere, dispensavacultura e giustizia, era guida da accogliere con rispetto edobbedienza. Il buon allievo doveva allinearsi al dettato delMaestro, senza spirito critico, pronto ad accogliere ed ese-guire, sotto l’egida del dovere, proteso ad apprenderesenza “se” e senza “ma”, perché solo l’obbedienza e l’ese-cuzione (come da copione) dei compiti assegnatigli gliavrebbe consentito di pervenire ad una maturità adulta, al-l’assunzione positiva di un adeguato ruolo sociale. Pratica-mente un insegnamento dogmatico, che scende dall’altoverso il basso, che deve essere appreso comunque, ancheindipendentemente dal fatto che sia stato compreso; l’ac-cettazione della positività di una posizione subordinata, ve-niva considerata come essenziale e pertanto premiata.

Il richiamo qui sopra presentato, che potrà anche appa-rire scontato, in realtà è stato sollecitato dall’esperienza diformatore - sono almeno quarant’anni che opero nelmondo della Scuola - di insegnanti. Consapevoli o menoche siano di ciò che si agita nel loro inconscio nonché del

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personale stile di approccio con gli allievi, è risultata evi-dente da parte di molti, troppi docenti la convinzione chel’oggettivo patrimonio di conoscenze assolutamente mag-giore rispetto a quello degli alunni, è più che sufficienteper permettere loro di trasmettere il proprio sapere inmodo adeguato. Spesso inconsapevoli riproduttori del det-tato latino “rem tene, verba sequentur” non coltivano consufficiente determinazione l’arte di saper “condurre ad ap-prendere”. Quale nobiltà connota invece l’adulto che siimpegna a reperire il metodo più consono, più adeguatoper sollecitare l’allievo ad imparare, nel creativo processoche vede l’esperto occupato a reperire le metodologie piùefficaci per coinvolgere l’allievo, rifiutando altresì di trin-cerarsi nella difesa che “è lo studente che si deve adattareal metodo dell’insegnante”. Non dobbiamo infatti formareuomini dipendenti, ripetitivi, sterili copie di noi stessi,bensì uomini liberi, capaci di pensiero autonomo, costrut-tori del futuro e non meri esecutori/ripetitori.

Se recuperiamo l’efficacia del passaggio dall’Io-Tu allacostruzione del Noi, ecco che si pone la problematica inno-vativa della validità e del valore del Servizio - espressionequesta lodata ed abusata - ma che (a livello pre-conscio)spesso induce fastidio.

Qualsiasi sia il ruolo che ci compete come educatori -genitori, insegnanti, ecc. - noi espletiamo un servizio, cimettiamo cioè al servizio di chi o di coloro che affrontanoil tortuoso e spesso infido percorso della crescita verso l’a-dultità, che hanno pertanto bisogni di guida, di sostegno,di cura. Ritengo che sapersi mettere al servizio sia la cosapiù grandiosa che possa offrire un senso, un significato allavita di un uomo. Purtroppo la sub-cultura che impregna lanostra umanità dipendente dall’apparenza, dall’apparire,propone una visione critica, svalutativa, dell’ottica del ser-

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vizio; la considera come se fosse un “mettersi sotto”, unsottomettersi, un servire, un subordinarsi. Ne sono esem-pio lampante e deprimente i numerosi lavoratori delle co-siddette Aziende di Servizio, quali ad esempio le Poste, l’I-NAIL, l’INPS, il Comune, gli Enti statali, le ASL, ecc., chespesso ci portano ad interrelazionare con impiegati, fun-zionari, professionisti, spesso maleducati: presidiano luo-ghi in cui è loro richiesto di svolgere un servizio per la col-lettività ed assumono invece un atteggiamento autoritarioquando non insofferente, come se il fatto che debbanoespletare un servizio produca un fastidio quasi epidermico.

Vi è un effetto alone nella parola servizio, che produceun disagio; in realtà, la parola servizio è sinonimo di ric-chezza e grandezza. In merito, mi viene in mente un riferi-mento valido per i credenti ed i non credenti. Relativa-mente al tema famiglia, nel Vangelo si trova un esempiobellissimo di servizio nell’occasione delle Nozze di Canaa,laddove Maria - ad un certo punto del ricevimento - si ac-corge che il vino è finito. Non se ne è accorto nessun altro;soltanto colei che ha scelto di essere l’ancella del Signore,che ha dedicato tutta se stessa al Servizio, ha appreso l’artedel vedere, del prevedere.

Molti di noi hanno gli occhi, ma sono occhi che nonsanno vedere; anche all’interno della nostra casa, luogoprivilegiato per l’espressione degli affetti.

Credo che il mio primo dovere, quando rientro in fami-glia la sera, sia “vedere” mia moglie e i miei figli. Chiedia-moci altresì se gli insegnanti, in classe, “vedono”; se i maritie le mogli, nel loro habitat, avvertono il vedere come occa-sione privilegiata per promuovere il benessere.

Ragioniamo sul significato del vedere: la Madonna vedeche manca il vino, cioè vede la carenza, vede la difficoltà,vede che gli sposi non hanno calcolato adeguatamente il

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rapporto tra gli ospiti ed il vino necessario. La Madonnavede e si muove, con delicatezza e con forza. Si rivolge condolcezza e con precisione a Gesù, dicendogli che gli ospitinon hanno più vino. Come succede in molti casi, speciecon gli adolescenti, ottiene una risposta sgarbata, similealle fastidiose risposte che i nostri figli adolescenti dannospesso a noi: Gesù le dà un rimando “Che vuoi da me, odonna?”. La mamma, che è una mamma e quindi è consa-pevole dell’affetto del figlio, non si deprime per la rispostasconcertante. Ella si rivolge ai servi e dice “Fate quello chevi dirà”. E così il figlio dà l’avvio al primo miracolo ter-reno.

Mi è venuto spontaneo introdurre così il tema del “ruolodel vedere”, del ruolo della mamma che gestisce determi-nate relazioni. Questo discorso è trasferibile e promozio-nale per gli insegnanti, perché se nel loro grande ruolo diformatori, di guida, di Maestri vedessero effettivamentequello che avviene nell’aula e lo interpretassero e lo inte-grassero in un’ottica di comprensione del fenomeno che siè proposto, verosimilmente anziché soffrire disagi e fru-strazioni, o procedure assecondando schemi precostituiti,si impegnerebbero nella ricerca, nella scoperta di modalitàeducative innovative e sempre più efficaci.

Esemplificando, se io agissi con i miei figli come miopadre ha agito con me, presumibilmente i miei figli sareb-bero già scappati di casa. Questo perché sono cambiati itempi: certe modalità che rispondevano alla cultura di untempo, oggi non funzionano più. In un mio scritto diqualche tempo fa affermavo: “La famiglia è interrela-zione, è condivisione, è dialettica”. La famiglia è un campodi forze dinamicamente attivo: ognuno di noi è in pre-senza di altri membri del nucleo (marito, moglie, figli, pa-renti). Come affermava Aristotele, la famiglia è il nucleo

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fondante della società. Secondo quanto sosteneva già lafilosofia greca, la famiglia è il luogo in cui si sviluppa lacapacità di relazione con il mondo esterno, ovvero è illuogo in cui il figlio - grazie all’aiuto dei genitori - si apread una relazione interna e, così facendo, si avvia ad ap-prendere modalità di gestione delle essenziali relazioniesterne, potendo in tal modo dar vita ad una dinamica so-ciale costruttiva. Possiamo dunque affermare che la fami-glia è interrelazione; ma, che cosa significa interrela-zione? Significa saper condividere, sapersi occupare del-l’altro; insomma sapersi esprimere in un ottica di servizio.Esemplificando: quando un uomo rientra a casa si occupadi sua moglie e dei figli.

Diventa fondamentale quindi liberarsi dalla gogna del-l’autocentratura, dalla chiusura solipsistica che sottendeun posto ed un ruolo privilegiato, come se io fossi il cen-tro del mondo. Certamente è gratificante ricevere atten-zioni, ma non è meno salutare rivolgere la mia attenzioneanche verso i membri della mia famiglia. Non è correttodire che il figlio adolescente “ha soltanto capricci in te-sta”: quelli che sembrano capricci di scarsa o dubbia si-gnificatività del figlio adolescente, forse richiamano i ca-pricci che hanno turbato i nostri genitori quando era-vamo noi giovani e di certo allora non li consideravamosolo piccoli accidenti egoistici, bensì cose molto impor-tanti. Un genitore può pensare che, mettendo a disposi-zione del figlio vitto, alloggio, e soldi per lo svago, l’abbiasostanzialmente soddisfatto e si attende come rispostache questi faccia il suo dovere di studente. Dobbiamocercare di capire che i capricci e i problemi che ai nostriocchi appaiono di scarsa o ridotta pregnanza, per il bam-bino e per l’adolescente sono invece questioni impor-tanti. Si ripropone qui l’ottica del servizio: io mi rendo

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conto che sono un portatore di significato, di un sensodella vita, perché sono attento a queste cose e devo essereattento anche a me ed alle mie disarmonie per poter es-sere attento agli altri.

Il rischio da evitare nel contesto socio-economico-esi-stenziale odierno è l’auto-abbandono ad una contempla-zione solipsistica: la nostra è una società dove le personesi agitano per soddisfare l’apparenza ed i bisogni indotti,ed è ciò che vedono i nostri figli. I ragazzi di oggi, adesempio, non sanno più scherzare: pensano che unoscherzo, per essere tale, debba essere cattivo. Da dovehanno imparato questo? Molti spettacoli televisivi lohanno insegnato e lo propongono. Quando trasmettiamoai nostri figli la ricchezza di avvicinarsi al compagno diclasse in difficoltà per aiutarlo? Piuttosto, proponiamoloro l’importanza di essere i più bravi. Quando nostro fi-glio torna da una partita di pallone, la domanda che gli ri-volgiamo è: “Hai vinto?” In realtà, un genitore o un do-cente sa che le prime domande dovrebbero essere: “Ti seidivertito? Come sei stato con gli altri? Hai passato un belpomeriggio?”. Tuttavia, se non c’è il Noi, se non c’è lacondivisione, come possiamo trasmettere con credibilitàquesti concetti?

Viviamo tutti una realtà sconcertante, ansiogena, ancheperché la nostra società è in crisi economica. Domandia-moci se abbiamo educato i nostri giovani ad affrontare ladifficoltà: abbiamo trasmesso in casa, ad esempio, i valoridella fatica, del sacrificio e della rinuncia? Da quanti anninon sentiamo queste parole? Se i nostri figli - grazie al-l’impegno da noi profuso - avessero una spina dorsaleadeguatamente rinforzata, non sarebbero così preoccu-pati per il loro futuro e non sarebbero tanto spaventatidalla crisi. Certo, non si può ignorare la presenza del gra-

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vissimo disagio economico, dell’insicurezza per il futuro;ma siamo stati educati a reggere la fatica ed a sopportareil rischio di una situazione non comoda? Qui si trova ladifferenza tra la famiglia di ieri e la famiglia di oggi.

La famiglia del passato, ad impostazione etica, era so-stanzialmente impostata sul dovere: la cultura cattolico-giansenista era penetrativa e regnava sovrana con un fortesenso del peccato e della colpa. Di certo era carente l’in-coraggiamento, ma non mancava un’educazione all’a-scolto. Fin da bambini, in casa si era educati a parteciparealla vita della famiglia: la madre invitava i figli a salutare ilpadre al suo arrivo dal lavoro, mentre il padre suggerivaai figli di andare in cucina per dare una mano alla madre.In questo modo, fin da piccolo il bambino era educatoalla responsabilità, a casa come a scuola. Si tratta diaspetti formativi importanti e di certo hanno contribuitoa risollevarsi dal disastro della dittatura e della guerra edhanno favorito la nascita del miracolo economico italianonegli anni ‘50-‘60. Il miracolo economico non si è svilup-pato per caso, autonomamente, ma attraverso l’educa-zione al lavoro ed all’impegno.

Da allora sono cambiate molte cose. I giovani di oggisono stati educati al sacrificio? Quante volte i nostri ra-gazzi sono stati invitati dalla madre a salutare il padre tor-nato dal lavoro, o sono stati invitati dal padre ad affian-care la madre nelle sue quotidiane e pesanti fatiche?Molti genitori rivelano di non riuscire quasi ad entrarenelle camere dei figli, tanto sono in disordine. Tutto ciònon è una partenza, ma un esito. Occorre chiedersi dov’e-rano i genitori quando quei giovani erano bambini di treo quattro anni, e domandarsi che tipo di educazionehanno trasmesso loro.

Spesso, ai giorni nostri, i coniugi si criticano l’un l’altro

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davanti ai figli e, anziché sostenersi reciprocamente, in-ducono sentimenti di insicurezza. Quante volte i genitoriparlano d’amore ai propri figli? Quante volte si fa inmodo che il figlio senta quanto i genitori si amano l’unl’altro? Ciò accade raramente: cosa temiamo? Si tratta dipudore dell’affettività? È timore di condividere?

C’è come un uragano che irrompe in questa psicologiadel relativismo, che è dominante dagli anni ‘30 ed è colti-vata da correnti politiche insane; tale psicologia del relati-vismo sta sviluppando una mentalità dove tutto è possi-bile e dove l’unica cosa certa è l’incerto. È vero: l’unicacosa certa è l’incerto, ma allora è incerto tutto (l’amoreper il coniuge, l’amore per i figli, il rapporto con l’inse-gnante, il rapporto con la Chiesa…). Se tutto è incerto,chi dà le necessarie (forse anche discutibili) sicurezze ainostri figli? Indubbiamente occorre trasmettere loro chela sicurezza certa va presa con cautela, perché le cose pos-sono essere considerate da diversi punti di vista, ma è op-portuno agire per rinfrancare, per rinforzare il carattere.Ad esempio, un insegnante dovrebbe dare ai suoi allievisicurezza, ed è sicurezza anche l’ammettere che eglistesso può sbagliare, ma che il suo obiettivo è di essere un“giusto”. Scolari e studenti capiscono subito se l’inse-gnante è preda delle sue disarmonie. Gli allievi ed i figlinon sopportano le ingiustizie. Ciascun genitore deve rico-noscere che non prova un amore identico per ognuno deisuoi figli: li ama tutti, ma deve riconoscere che ci sonodelle sfumature, non può esserci un’eguaglianza totale diaffetto.

Mettiamoci pertanto nell’ottica di costruire giorno pergiorno una affettiva e produttiva relazione all’internodella casa. Non confondiamo il concetto dell’amoreeterno con la realtà: una cosa è il matrimonio indissolu-

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bile, un’altra è spiegare ai giovani che il coniuge si con-quista tutti i giorni, senza dare nulla per scontato. Questovale anche per i figli: per far sì che essi entrino a far partedel mondo e siano forti per affrontare le difficoltà e lebattaglie che il mondo continuamente ci getta addosso. Igenitori devono trasmettere fin da subito ai figli la forzadel loro amore, poiché l’incoraggiamento, la costanza el’impegno si confermano in una casa attraverso una solafondamentale energia: la forza dell’amore.

E le similitudini con la realtà della scuola non necessi-tano di enunciazione: è sufficiente un’operazione di recu-pero di analogie nel convincimento che l’attenzione e l’a-more consentiranno lo sviluppo di un clima favorevolealla crescita umana e sociale della nostra più grande ric-chezza: i nostri ragazzi.

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