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Lezione n. 3 – 25 aprile 1945 – 13 maggio 1978: dalla Liberazione dell’Italia alla liberazione dei «matti» Paolo Francesco Peloso UO SM D 9 e SPCR Ospedale p. A. Micone del DSMD dell’ASL 3 «Genovese» Scuola di Tecnica della Riabilitazione Psichiatrica Università di Genova I anno Corso di Storia dell’evoluzione del pensiero psichiatrico e riabilitativo Genova, 22 aprile 2020

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Lezione n. 3 – 25 aprile 1945 – 13 maggio 1978: dalla Liberazione dell’Italia alla liberazione dei «matti»

Paolo Francesco Peloso

UO SM D 9 e SPCR Ospedale p. A. Micone del DSMD dell’ASL 3 «Genovese»

Scuola di Tecnica della Riabilitazione Psichiatrica Università di Genova

I anno

Corso di Storia dell’evoluzione del pensiero psichiatrico e riabilitativo

Genova, 22 aprile 2020

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Risposte relative a domande sulla I lezione1. I cittadini di Geel non avevano paura del diverso? Nel senso, accogliere nella propria famiglia una persona folle a quei tempi non faceva paura? oppure si era già arrivati ad una concezione diversa del problema rispetto a tutto il resto del mondo? e soprattutto questa ipotesi dello shock venne utilizzata in altri Paesi in quel periodo, oppure si era diffusa solo a Geel?Credo che i cittadini di Geel siano stati aiutati inizialmente dall’atmosfera religiosa in cui nacque la loro esperienza, cioè che ritenessero l’accoglienza dei folli un atto di devozione che erano tenuti a dare a Dymphna, che li avrebbe protetti per questo. Nei secoli successivi, poi, credo che li abbia aiutati l’abitudine: per loro era divenuto «normale» accogliere i folli perché lì, in quella particolare situazione, si era sempre fatto così. Quanto alla questione dello shock «terapeutico», era molto diffusa nell’antichità; vedete che anche padre Antero lo utilizza, e così lo utilizzarono molto i primi psichiatri nella prima metà dell’800.2. Su cosa si fondava il limite tra normalità e pazzia ai tempi di Menavino?La domanda è molto interessante. Menavino ci dà a suo modo una risposta: sono pazzi coloro che vanno per la città, facendo pazzie. Non ci soddisfa molto. Ma da questo punto di vista non si sono fatti molti passi avanti. Intendo dire che anche oggi certo possiamo distinguere chi ha una malattia mentale e chi no, ma se ci si chiedesse qual è il discrimine che utilizziamo saremmo molto in difficoltà a rispondere. Mario Rossi Monti, un collega toscano contemporaneo, ha scritto libri molto interessanti su questo che se siete interessati posso indicarvi. Poi c’è tutta l’area della «zona grigia», delle situazioni border-line, dove decidere se ci sia o no una malattia mentale è anche oggi difficilissimo. 3. Perché a Timerahane era utilizzata la violenza anziché un processo di cura e rieducativo?Beh, di fronte alla stranezza, a ciò che mette in difficoltà, il primo impulso può essere di piegare la volontà che si mostra eccentrica alla norma, costringendolo con la violenza. Ancoora agli inizi del ‘900 il leader dei surrealisti scrisse una lettera famosa ai Direttori dei manicomi, in cui questo viene denunciato. Quanto alla rieducazione, però, Menavino accenna a qualcosa, anche se un po’ primitivo ma molto sincero, in proposito quando scrive dell’uso di botte per chi si comporta male, e «miglior cura» per chi si comporta bene.4. Com’era percepita la pazzia, più come una malattia o come un crimine, una violazione?Anche qui un’ottima domanda. Direi entrambe le cose, perché questa ambiguità riguarda in ogni epoca la natura stessa della follia. Certo, nelle diverse epoche può prevalere nel modo di percepirla l’uno o l’altro accostamento, e direi che dal titolo del brano di Menavino , «dove si castigano i matti», si comprende come in quel caso prevalesse l’accostamento della follia al crimine, anche se quello alla malattia non era del tutto assente perché Timerahane «è fatto a modo di un ospedale» e «sonovi medicine e altre cose».

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Risposta relativa alla domanda sulla II lezione1. Cosa ne pensa lei riguardo a questa emergenza sanitaria e al problema dei posti non sufficienti in rianimazione? E’ giusto privilegiare i

giovani perché gli anziani hanno già vissuto gran parte della propria vita?Con questa domanda ponete due questioni bioetiche importanti e delicate. Mi pare che la prima sia quella dell’«allocazione delle risorse»: credo che, come anche qualcuno di voi ha scritto, il fatto che ci si trovi a dover scegliere uno o l’altro dipenda anche da scelte che sono state fatte a monte: Gino Strada, ad esempio ha fatto notare in questi giorni che con il costo di un solo aereo bombardiere si sarebbero potuti attivare 2.000 posti in terapia intensiva. Questo dal punto di vista teorico non avrebbe escluso in assoluto la possibilità che di posti ne manchino, però certo la avrebbe ridotta. La seconda questione è quella che viene definita «il dilemma dell’ultimo letto». Infatti, anche se ci fossero moltissimi respiratori, non si può escludere che un rianimatore si trovi ad averne uno solo e due pazienti che ne hanno bisogno, e si trovi nella triste situazione di dover scegliere. Direi che le soluzioni possano essere, semplificando molto, tre: la prima è di salvare il più giovane, o quello che ha migliori chances di cavarsela, o quello alla cui vita viene attribuito maggiore «valore» (ad esempio, escludendo il disabile come in qualche Stato USA si è deciso di fare); la seconda è una versione più evoluta della prima, ed è quella di attribuire a ciascuno dei due pazienti un punteggio, che viene definito QALI (Quality Adjusted Life Index), sulla base di una calcolo complesso basato sull’incrocio di vari parametri quali-quantitativi, e affidarsi poi al risultato di questo calcolo per la scelta; la terza è quella di affidarsi al caso e dare la macchina al primo dei due che arriva, o tirarla a sorte (personalmente opterei per quest’ultima, perché mi pare che liberi la coscienza della società e/o del rianimatore da una scelta difficile). Qualunque sia la soluzione che si vuole adottare, comunque, mi pare importante che noi ci poniamo il problema e che la scelta nasca da una discussione pubblica e trasparente che coinvolga tutta la società prima che si ponga concretamente il problema, in modo che la scelta non pesi poi sul singolo medico quando ha la sfortuna di trovarsi nella situazione. Ed è quello che ha chiesto in questo periodo con un documento la Società scientifica dei rianimatori.

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Dunque ci siamo lasciati la volta scorsa nel momento peggiore della storia della psichiatria: lo sterminio dei malati di mente poco prima della shoah e della II guerra mondiale. Il 25 aprile 1945 l’Italia si scopre libera, e deve leccarsi le ferite. Anche il mondo della psichiatria ha le sue. Si stima che i morti nei manicomi negli anni 1942-45 siano stati tra i 20 e i 30.000 oltre l’atteso. Morti di fame, freddo, mancanza di medicine, in definitiva morti perché entrando in guerra non ci si era preparati all’eventualità di dover garantire i rifornimenti in caso di bombardamenti e/o invasione nemica. Tra gli psichiatri caduti ne ricordo tre: Guglielmo Lippi Francesconi, direttore a Lucca, era caduto in odio ai fascisti locali per non aver accettato di «aggiustare» una perizia come avrebbero voluto ed essersi espresso contro il regime; imprigionato nella fortezza di Massa, viene fucilato in una rappresaglia. Giuseppe Muggia, ex direttore ebreo a Sondrio, deportato ad Auschwitz è inviato con la moglie alle camere a gas all’arrivo. Giovanni Mercurio, psichiatra a Voghera e partigiano, è catturato e deportato a Mauthausen, dove muore di stenti. In molti manicomi hanno trovato rifugio ebrei, antifascisti, renitenti alla leva; ma dai manicomi del nord-est, sotto diretto controllo tedesco, con la complicità della polizia fascista vengono prelevati gli internati ebrei e deportati nei lager. Molti manicomi sono stati bombardati o attraversati dal fronte e si calcola che i morti negli ospedali psichiatrici dovuti direttamente a causa bellica, tra personale e internati, siano stati circa 300. Durante il passaggio del fronte è particolarmente difficile la situazione a Volterra, dove sono gli internati coinvolti nell’ergoterapia a fare funzionare l’ospedale e produrre il cibo in una sorta di autogestione, mentre tra gli ospedali psichiatrici colpiti con più durezza dai bombardamenti ricordiamo Reggio Emilia, del quale era stato rifiutato dalle autorità lo spostamento nonostante fosse vicino a bersagli bellici, e Ancona, dove perse la vita tra gli altri il direttore. Il bombardamento dell’ospedale psichiatrico di Ancona, avvenuto l’8 dicembre 1943, fu reso particolarmente famoso da Franco Basaglia, che lo raccontò nel 1979.

Graffito sulla facciata del Padiglione Lombroso dell’Ospedale Psichiatrico di Reggio E., in ricordo del bombardamento

Targa commemorativa del direttore dell’ospedale di Ancona, morto durante il bombardamento nel 1943

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«Molti psichiatri francesi avevano partecipato alla resistenza contro i tedeschi e i primi programmi di umanizzazione del manicomio erano nati in Francia in quel periodo. In quegli anni si è verificato anche un fatto abbastanza singolare ma in Italia. Era stata bombardata una piccola provincia, Ancona, in cui c’era un manicomio. Una bomba era caduta sul manicomio e non lo aveva distrutto ma la maggior parte dei malati era fuggita. Si era al tempo della guerra e nessuno aveva il tempo di pensare dove stavano matti e non matti… c’erano problemi ben più urgenti, altri pazzi si sparavano l’un l’altro… Dopo la guerra, quando si ritornò alla normalità, la gente cominciò a domandarsi dove stavano i malati di mente. Molti non furono trovati, ma alla fine si scoprì che molti di loro stavano vicino al manicomio, vivendo e lavorando come qualsiasi altra persona. Questo indusse alcuni psichiatri a pensare che il trattamento di quei malati, di quegli internati poteva essere fatto in modo diverso. Ma questo fatto non ebbe alcun seguito» F. Basaglia, 1979

La guerra, dunque, aveva costretto i pazienti di Ancona ad arrangiarsi, e avevano mostrato di poterlo fare. Ma ciò in Italia, come scrive Basaglia, non ebbe alcun seguito. In Francia e in Gran Bretagna, invece, avvennero cose che lasciarono tracce profonde nella psichiatria. In Gran Bretagna, presso l’ospedale militare di Northfieldun giovane ufficiale medico, che poi divenne un famoso psicoanalista ma allora non lo era ancora, Wilfred Bion, ebbe l’incarico di dirigere un reparto dell’ospedale psichiatrico dedicato a soldati indisciplinati con disturbi del carattere. Bion volle provare a consegnare la responsabilità di condurre il reparto ai pazienti, per responsabilizzarli. L’esperimento ebbe un esito disastroso: il reparto precipitò nel disordine, e di lì il disordine si diffuse al resto dell’ospedale; Bion fu cacciato, l’ordine fu restaurato d’autorità nel reparto, ma quel primo

esperimento servì a porre le basi del modello della comunità terapeutica.

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Altri psichiatri, per lo più anch’essi di formazione psicoanalitica, riprovarono dove Bion aveva fallito, con maggiore successo. Con il termine comunità terapeutica, quindi, noi siamo abituati a indicare delle strutture residenziali sulle 24 ore, ma in origine invece questo termine non designava un luogo, ma un modello di cura basato appunto sull’uso della comunità, del gruppo, per curare. Un modello cioè in cui la cura non era più nelle mani dell’alienista, ma dell’intero gruppo: psichiatri, tutto il personale, e gli stessi pazienti, ai quali veniva riconosciuto un potenziale terapeutico anche rispetto agli altri pazienti. Secondo il modello della comunità terapeutica, che si sviluppò soprattutto in Gran Bretagna, e quello della socioterapia che si sviluppò negli stessi anni in Francia, al medico era chiesto di fare un passo indietro, lasciando più spazio agli altri operatori e ai pazienti stessi. Tom Main, un altro psicoanalista che partecipò a quegli esperimenti, li ricorda così nel 1946:

“Il medico non è più il padrone dei “suoi” pazienti: questi sono affidati alla comunità che deve curarli e a cui appartengono, come vi appartiene lui stesso (…). Si deve sottolineare qui che il medico, educato ad assumere un ruolo grandioso in mezzo ai malati, trova difficile rinunciare al suo potere, assumersi responsabilità sociali nell’ospedale e garantire sinceramente ai pazienti un ruoloindipendente e adulto. Ma anche per il resto del personale le cose non sono facili. E’ arduo vivere in un settore che comporta stress psicologici senza desiderare di far leva sull’autorità, senza soffocare la spontaneità, senza imporre la dipendenza, e soprattutto la legge e l’ordine”.

Già, un ruolo «grandioso». Vi ricordate la statua di Pinel di fronte alla Slapétriére che abbiamo visto nella scorsa lezione? Tom Main parla di questo.

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Beh, non è un piccolo cambiamento, dai tempi in cui, con Esquirol, un medico abile doveva avere «nelle mani» il manicomio! Un sociologo, Robert Rapoport, visita queste prime comunità terapeutiche e ritiene di poterne identificare, in un libro del 1960 che porta un titolo significativo, «La comunità come dottore», le caratteristiche fondamentali in queste quattro:

- democratizzazione: cioè condivisione del potere decisionale nel gruppo, riunito nell’assemblea;- permissività: cioè funzionare sempre con il massimo grado di tolleranza e il minor numero di regole possibile;- comunitarismo: cioè attenzione spostata dall’individuo al gruppo (il che era una grande novità per uno psicoanalista), stile

confidenziale, condivisione di tempo e spazio e comunicazione aperta tra tutti i membri della comunità- confronto con la realtà: cioè disponibilità di tutti a discutere i rispettivi comportamenti e impegno a riportare tutto, sempre, a un

confronto costante con la realtà

Negli stessi anni in Francia nasce la «psicoterapia istituzionale» o «socioterapia» che dà vita a esperienze simili. Nella comunità si condivide teoricamente tutto, e il momento centrale della vita comunitaria è l’«assemblea», cioè il momento in cui tutti i membri si ritrovano e, apparentemente assumono insieme le decisioni. Ma tutto questo è veramente autentico? Com’è possibile essere una comunità se una parte dei membri consumano lì tutta la loro vita, e un’altra parte (il personale) vi partecipa limitatamente all’orario di lavoro, e poi ha una vita privata fuori? Com’è possibile che tutti partecipino della comunità con lo stesso potere, se una parte dei membri della comunità (il personale) è lì per curare un’altra parte (i pazienti?)? E se il personale, dopo l’assemblea, si riunisce in un luogo nel quale gli altri membri dell’assemblea non sono ammessi, per riflettere alla luce di teorie più o meno condivise al suo interno (ispirate alla psicoanalisi, alla fenomenologia, o altro) sui contenuti emersi dall’assemblea, e orientare la vita della comunità in senso terapeutico? Come è possibile che la comunità operi davvero come dottore, se tra i suoi membri c’è, comunque, uno che è il dottore, altri che sono gli operatori, e altri che sono i pazienti?

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Appare evidente, insomma, che la comunità terapeutica è certo più comunitaria, più aperta rispetto al manicomio, ma rappresenta anch’essa un ambiente artificiale rispetto alla «vera società», che continua a non essere di per sé considerata tanto terapeutica, né tanto accogliente; e rappresenta anche un ambiente denso di contraddizioni, che è una comunità, sì, ma non è una comunità di uguali proprio in quanto il fatto di essere «terapeutica» non permette che sia una vera comunità, e fa sì che ci sia qualcuno che è lì per un bisogno di cura e qualcun altro che è lì, perché essere lì e curare è il suo lavoro.

Ma abbandoniamo un attimo questo discorso sui limiti della democratizzazione degli ambienti di cura, la loro apertura alla partecipazione di tutti, la loro trasformazione del paziente da oggetto della terapia (il trattamento morale) a soggetto della terapia propria e altrui (la comunità come dottore) che, anche se non è completa, però è indubbio che con il passaggio dal manicomio alla comunità terapeutica in parte almeno si realizza. Ci soffermiamo ora su un altro processo che interessa la psichiatria del secondo dopoguerra, specialmente nei Paesi anglosassoni e in quelli francofoni: non solo la trasformazione dell’istituzione psichiatrica da manicomio a comunità terapeutica, ma anche l’uscita dall’istituzione verso la società. In questo caso, almeno in Gran Bretagna e negli USA, l’organizzazione della psichiatria segue quella della sanità in generale: in Gran Bretagna si sviluppa un sistema sanitario nazionale che ambisce a portare la cura il più vicino possibile alla persona e a non lasciare scoperto nessuno, e negli USA, un po’ dopo, ambiziosi programmi vanno nella stessa direzione. La psichiatria non rimane indietro e nel mondo anglosassone si sviluppa così la «psichiatria di comunità» (non bisogna confondersi però, il termine comunità indica in questo caso la società nel suo insieme, non un piccolo gruppo, perché il termine inglese «community» significa comunità sia nel senso della comunità ristretta che della comunità come sinonimo di società). E nel mondo francofono si sviluppa la «psichiatria di settore» che mantiene sì l’ospedale psichiatrico, trasformato sul modello della comunità terapeutica dalla socioterapia, ma si basa anche su nuovi servizi che operano nel vivo della società, i reparti di psichiatria che nascono negli ospedali generali (quelli che poi saranno in Italia gli SPDC) e i servizi sul territorio che offrono trattamenti ambulatoriali, domiciliari, centri diurni e operano per il reinserimento della persona nella società, compresi i luoghi di lavoro. Il che pone in modo totalmente diverso rispetto al manicomio, anche trasformato in comunità terapeutica, la questione della riabilitazione. Quello che auspicava Marandon de Montyel, insomma, in parte si realizza: la cura e la riabilitazione si fanno, almeno per la parte più grande, fuori dal manicomio.

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Un «settore psichiatrico» quindi è formato da un reparto dell’ospedale psichiatrico - i cui reparti perciò non sono più divisi in base ai bisogni dei pazienti (agitati, tranquilli, ecc.), ma in base alla zona di residenza (cioè il settore, o il territorio) cui i pazienti appartengono e a cui ritorneranno appena possibile - dal reparto psichiatrico dell’ospedale generale di quella zona, e dal servizio che opera sul territorio.

Parallelamente a queste due rivoluzioni – cioè il passaggio degli ospedali psichiatrici più aggiornati dal modello manicomiale a quello della comunità terapeutica e il loro collegamento con i luoghi della vita reale attraverso la psichiatria di comunità o di settore – ne avviene una terza, che in qualche misura (è difficile dire «quale misura», ma qualche misura senz’altro), favorisce la diffusione delle due rivoluzioni precedenti, ed è la nascita degli psicofarmaci nel corso degli anni ‘50 con i quali è possibile sostituire in gran parte le violente terapie di shock.

Le tre grandi rivoluzioni che investono il mondo della psichiatria tra la seconda guerra mondiale e gli anni ‘50 sono pertanto:1. La nascita della comunità terapeutica e della socioterapia2. La nascita della psichiatria di comunità e del settore3. L’introduzione degli psicofarmaci

In Italia le prime due rivoluzioni si realizzano con una ventina d’anni di ritardo rispetto agli altri Paesi occidentali; nel caso degli psicofarmaci il ritardo è minore.

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Tra i critici più interessanti della socioterapia francese ricordiamo Frantz Fanon, uno psichiatra di colore nato nella Martinica, che combatté nell’esercito francese durante la guerra e si formò alla socioterapia con Francois Tosquelles, che fu uno dei suoi fondatori. Pubblicò due libri molto importanti, Pelle nera, maschere bianche che è dedicato a una lettura fenomenologica dei vissuti dell’uomo di colore rispetto al bianco; e I dannati della terra, che è dedicato a una lettura fenomenologica e politica dei vissuti legati all’oppressione coloniale francese in Algeria. Infatti, dopo la formazione con Tosquelles, Fanon andò a lavorare in Algeria come psichiatra, entrò a far parte del Fronte di Liberazione, poi si dimise dall’ospedale con una famosa lettera con la quale sosteneva che non è possibile la psichiatria in una situazione nella quale il paziente è vittima dell’oppressione coloniale oltre che della malattia (ricordate il confronto tra la statua di Pinel e quella di Colombo, durante la scorsa lezione). Poi dovette rifugiarsi a Tunisi dove diresse un ospedale di giorno di neuropsichiatria. Per gli articoli che scrisse in quel periodo Fanon, che morì giovanissimo, è considerato il fondatore dell’etnopsichiatria moderna, ma noi ci soffermiamo invece su un articolo del 1959 nel quale critica la socioterapia perché sostiene che rappresenta comunque una comunità chiusa e artificiale, e ritiene che per l’assistenza psichiatrica siano più adatti i servizi diurni rispetto a quelli sulle 24 ore, perché non sradicano il soggetto dal suo ambiente naturale. Ecco alcuni brani.

È necessario sottolineare che la «socio-terapia istituzionale» si fonda su istituzioni rigide, griglie strette e schemi stereotipati. Nella neo-società, infatti, non c’è invenzione: non c’è un dinamismo creatore, rinnovatore. Non ci sono delle vere scosse o crisi. La maggior parte delle nostre istituzioni rimane un «cemento cadaverico.

Noi pensiamo oggi che il vero ambiente socioterapico sia e rimanga la società concreta stessa.

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L’incontro tra il medico [e anche l’operatore] e il paziente all’interno dell’ospedale

diurno si configura come l’incontro tra due individui liberi. Questo è il presupposto

necessario di ogni terapia e, in particolare, di quella psichiatrica.

Il malato che lascia l’ospedale diurno recupera, varcata la soglia, ogni sua abitudine. Il

malato, dopo le sei di sera, è catturato dal complesso gioco delle coordinate socio-

personali che definiscono il suo inserimento nel mondo. Resta in costante rapporto con i

luoghi del suo agire quotidiano: tornando a casa incontra il droghiere, il macellaio, il

giornalaio. Il cinema, il teatro, le manifestazioni sportive continuano a influenzare la sua

personalità suscitando reazioni affettive, opzioni e relazioni dinamiche. Di fatto, non

esiste una cesura con l’ambiente esterno e il terapeuta non ha mai di fronte a sé un

isolato, un escluso. Si trova, al contrario, a confrontarsi con una personalità le cui

relazioni col mondo sono vivaci e attive. Il malato continua a essere coinvolto nella

società, nella famiglia, nell’ambiente professionale: non è, quindi, un individuo a cui

abbiano «spezzato le antenne».

L’ospedalizzazione diurna è perciò di gran lunga la forma d’assistenza psichiatrica più

adeguata alla malattia mentale, quella che meglio si adatta alle scoperte moderne

sull’eziologia delle malattie mentali. A nostro avviso, affinché uno Stato possa dirsi

adeguatamente preparato a svolgere un’efficace attività medico-psichiatrica, è necessaria

una moltiplicazione dei centri di psichiatria all’interno di ospedali generali, la maggior

parte dei quali dovrebbe essere dedicata all’ospedalizzazione diurna.

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L’Italia, come dicevamo, nel corso degli anni ‘50 rimase indietro rispetto agli altri Paesi occidentali; tutte e tre le «rivoluzioni» psichiatriche di cui abbiamo parlato giunsero in ritardo. Franco Basaglia era assistente all’Università di Padova e si occupava di psichiatria avendo come riferimento i testi della psichiatria a orientamento fenomenologico; seguiva perciò una corrente filosofica che, in estrema sintesi (perché occorrerebbe molto tempo per approfondirla), mi pare che si caratterizzi, per quello che qui ci interessa, per questi aspetti fondamentali:

- cercare di rapportarci alle cose riportandole alla loro nuda realtà, cioè liberandole di tutti i giudizi e pregiudizi che nel corso della storia si sono accumulati (in questo senso è da intendersi l’affermazione di Basaglia che la malattia mentale non esiste, perché – come abbiamo visto – la malattia mentale è un particolare modo con cui a partire dal XIX secolo la medicina ha colto ilfenomeno della follia, che invece essa sì esiste ed è una delle forme che l’esistenza dell’uomo può assumere. Per la stessa ragione, Basaglia riprende dalla fenomenologia l’dea che incontrando un uomo folle, dobbiamo mettere tra parentesi il fatto che quella persona sia malata, e il termine con il quale la psichiatria indica sinteticamente la sua diagnosi, perché questo giudizio a priori ci impedirebbe di cogliere come aveva già sostenuto prima Karl Jaspers la realtà concreta e singolare di quella persona e della forma che l’esistenza ha assunto nel suo caso

- tentare – come scrive Lodovico Cappellari in un testo pubblicato l’anno scorso - «di comprendere le esperienze interne [il «vissuto»] dell’altro anche quando esse appaiono incomprensibili a un primo avvicinamento, di dare loro un senso, di cercare di studiare ed evidenziare come certe esperienze vengono formandosi nel mondo interno, di ridare cioè il diritto, ai pazienti, di essere ascoltati e di condividere con noi un cammino terapeutico»

- non interessarci tanto alla descrizione della forma che la follia assume in un essere umano, ma invece concentrarci sul modo in cui egli affronta, organizza, sente, interpreta il suo essere sofferente, per cercare di dargli comprensione e aiuto

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Il 1961 è un anno importante per il nostro discorso perché:

- Michel Foucault pubblica la Storia della follia, nella quale ricostruisce la nascita della psichiatria e la trasformazione della follia da un fenomeno sociale in una malattia

- Frantz Fanon pubblica I dannati della terra- Erwing Goffman pubblica Asylums

E, quello stesso anno, Franco Basaglia diventa direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia, e subito l’impatto con la povertà e la sofferenza dei malati, per lui che era abituato a visitare i pazienti della Clinica universitaria, è sconvolgente. Anni dopo racconterà di aver ritrovato in essi in quel momento la sua esperienza di detenuto, quando da studente era stato incarcerato per attività antifascista. E di aver ritrovato l’ambiente che Primo Levi aveva descritto a proposito del lager, le stesse dinamiche istituzionali, appena un po’ attenuate. Confesserà che il primo pensiero all’arrivo in manicomio è di fuggire, ritornare all’Università; di non poter affrontare quella realtà. Poi decide di rimanere e di lottare per la distruzionedell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione(questo è il titolo della comunicazione con la quale tre anni dopo annuncerà al congresso internazionale di psichiatria sociale a Londra il suo progetto).

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Quello che Bsaglia incontra a Gorizia, insomma, è un uomo:

..Isolato, segregato, reso inoffensivo dalle mura che lo rinchiudono, il ricoverato pare assumere un valore al di là di quello umano, fra animale docile ed inoffensivo ed una bestia pericolosa…..

...l’uomo pietrificato dei nostri ospedali, l’uomo immobile, senza uno scopo, un’attesa, una speranza verso cui tendere, l’uomo acquetato e libero dagli eccessi della malattia, ma ormai distrutto dal potere dell’istituto

F. Basaglia 1965- La distruzione dell’ospedale psichiatrico

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In quel momento, l’ospedale psichiatrico esiste da quasi due secoli (da ancora di più, se consideriamo le istituzioni come quella descritta da Menavino; Basaglia è un uomo solo, che concepisce un sogno che sembra folle, impossibile. Questa è la realtà che incontra, nel ricordo che ne fa ad Antonio Slavich, il primo collega che lo raggiunge per aiutarlo:

«L'interno degli otto reparti, da 50 o da 100 letti, era verniciato a olio e arredato con qualche panca e pesanti tavolacci; vi stazionavano qualche divisa bianca, non proprio immacolata, e più di 600 corpi infagottati in tela, grigi e rapati. Nei due reparti A accettazione i corpi stavano in prevalenza a letto, alcuni legati; nei due reparti B agitati molti erano contenuti a letto nelle celle. Nelle belle giornate, che a Gorizia erano frequenti anche a novembre, era il tempo delle lunghe ore d'aria: e allora tutti dovevano stare a rabbrividire nei cortili, alcuni ingabbiati, alcuni - specie al B - anche legati agli alberi, i più stesi per terra lungo i muri, o sulle panche di pietra, o ambulanti in un moto perpetuo e senza meta. Il sommesso brusìo e lo scalpiccio erano assordanti, ma in quella mattina di sole qualcuno, forse per compiacere il nuovo direttore, aveva acceso gli altoparlanti, da cui Mina urlava: "Tintarel-la di luu-naaaaa! Tintarella color laat-teeeeee!". Persino Franco fu colpito dal contrasto stridente e ne sorrise, come in seguito raccontò lui stesso a Slavich con la consueta ironia» (Slavich, 2018, p. p. 33).

Basaglia è un uomo di grande cultura e può disporre di un apparato teorico ampio e di peso che lo aiuta ad affrontare le difficoltà che incontra nel mondo incrostato da due secoli di storia del manicomio; cerchiamo di schematizzarlo pwer quanto è possibile:

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Riferimenti filosofici: Jaspers, Husserl, Binswanger, Minkowski, Merlau-Ponty, Sartre

Sociologia delle istituzioni: Primo Levi, Erwing Goffman, Russel Burton

Esperienze di trasformazione del manicomio: comunità terapeutica anglosassone, socioterapia francese

Esperienze all’esterno, nella società: psichiatria di settore francese, psichiatria di comunità anglosassone

Antifascismo e lotta anticoloniale: Antonio Gramsci, Frantz Fanon

Storia della psichiatria: Michel Foucault, riscoperta di John Connolly

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In particolare, nel libro Asylums il sociologo americano Erwing Goffman descrive la carriera morale del malato di mente da pre-degente, a degente ed eventualmente post-degente come una progressiva degradazione della persona che passa per una graduale ma costante sottrazione di credibilità, di dignità e diritti. Questa degradazione, che ha inizio nella fase di pre-degente e prosegue in quella di degente, determina una speculare reazione del degente che sentendosi trattato come un uomo ormai privo di credibilità, dignità e diritti comincia a viversi egli stesso come tale. Secondo Goffman i fenomeni di degradazione estrema che portavano taluni degenti nei manicomi a perdere persino la capacità di lavarsi o di svolgere i bisogni fisiologici in modo corretto (i «sudici»), rappresenterebbero spesso il grado estremo di questo processo, che viene definito autostigma. Anche il degente che guarisce e ritorna in famiglia e sul lavoro non sfugge del tutto a questo duplice meccanismo, perché continuerà a essere considerato e considerarsi una persona che, avendo passato una malattia mentale, potrebbe non esserne completamente guarito, o ricadervi. Anche una volta uscito dall’ospedale, perciò, rimarrà per sempre un «sorvegliato», affidato più o meno implicitamente ai familiari e obbligato a presentarsi periodicamente ai servizi psichiatrici di comunità. Il che certo è, in qualche misura, inevitabile, ma in parte invece dipende dallo stigma, che è un pregiudizio, una generalizzazione dei quale non si è verificato il riscontro nella singola realtà di quel caso. Vi renderete conto, operando nella riabilitazione, di quanto questi meccanismi che si presentavano in forma grossolana ed evidente nell’ospedale psichiatrico, pesano anche oggi nella vita e dei pazienti e nel nostro lavoro. Dalla lettura di Goffman, e altri studiosi delle istituzioni, Franco e Franca Basaglia, che curano l’edizione italiana del libro, traggono la convinzione che ribaltare questo processo di degradazione restituendo fiducia, dignità e diritti alla persona – cioè guarire il malato dal danno che ha fatto l’istituzione - è la cosa più urgente, per poi aiutarla ad affrontare la follia in se stessa.

Il meccanismo dello stigma; un esempio: 1. alcuni schizofrenici in certi momenti sono violenti; 2. gli schizofrenici sono violenti; 3. Gino è schizofrenico; 4. quindi Gino è violento e devo averne paura.

LO STIGMA E’ UN PROCESSO ATTRAVERSO IL QUALE LA REAZIONE DEGLI ALTRI CI SPOGLIA DELLA NOSTRA IDENTITA’.

E. Goffman

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Un altro sociologo cui fa riferimento Basaglia è Russell Burton, il quale nel volume Institutional neurosisdel 1959, la «nevrosi istituzionale» (che Basaglia ridefinisce «istituzionalizzazione», eliminando la metafora con una diagnosi psichiatrica) come un disturbo caratteristico degli ospedali psichiatrici, indagando i problemi di diagnosi differenziale, eziologia, trattamento e prevenzione come se si trattasse di una vera malattia indotta come effetto collaterale dalla cura. Tra i sintomi più tipici riporta apatia, mancanza di iniziativa, perdita di interesse per cose ed eventi che non corrispondano ai bisogni più semplici e immediati, sottomissione e talvolta perdita della capacità di esprimere risentimento per ordini aspri o ingiusti dei quali si è oggetto. Secondo l’autore, la causa della nevrosi istituzionale è incerta, ma può essere associata a fattori caratteristici dell’ambiente (come perdita di contatto con il mondo esterno, forzata inattività, o l’essere sistematicamente oggetto di brutalità, violenza o atteggiamenti derisori, essere oggetto delle decisioni di altri, spersonalizzazione nel senso di vedere attribuito scarso valore ai propri sentimenti, alle relazioni che si sono instaurate, alle piccole proprietà, agli eventi della propria vita). Possono essere importanti anche alcuni effetti degli psicofarmaci, l’atmosfera di reparto, la perdita di prospettive al di fuori dell'istituzione. Nel suo testo Burton si preoccupa anche di dare indicazioni per il trattamento della nevrosi istituzionale, a partire dal ripristino dei contatti dei pazienti, la fornitura di una sequenza giornaliera di occupazioni utili, attività ricreative ed eventi sociali, eliminazione della brutalità e delle umiliazioni in tutti i loro aspetti da parte del personale, incoraggiamento delle relazioni e dell’appropriazione di oggetti materiali. Può essere utile considerare anche una riduzione dei farmaci, in particolar modo sedativi, antipsicotici o farmaci che bloccano provocando come effetto collaterale un irrigidimento muscolare, ed è necessario comunque creare un'atmosfera familiare, amichevole e permissiva e rendere il paziente consapevole del permanere per il futuro della prospettiva di una vita fatta

di alloggio, lavoro, reddito e rapporti di affetto, fuori dall'ospedale.

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Nello schema sottostante, tratto dal libro di Burton, vedete i sette passaggi necessari per la «riabilitazione» del paziente affetto dalla nevrosi istituzionale, partendo da quando siede intorno senza far nulla, finendo con quando via via si rianima e alla fine interrompe il rapporto con l’ospedale e solo può, se lo desidera, frequentare gruppi di autoaiuto di ex pazienti.

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In quest’altro schema vedete come viene restaurato il rapporto nelle due direzioni con il mondo esterno, operazione che Burton ritiene indispensabile nella riabilitazione dalla nevrosi istituzionale. E’ il ribaltamento dell’isolamento di cui parlava Esquirol:

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Anche la riabilitazione – che è originariamente un termine usato dagli ortopedici per indicare il ripristino di una funzione prima sospesa, ma è anche un termine usato dai giuristi per indicare la restituzione della pienezza di credibilità, dignità e diritti a un cittadino dopo che ha compiuto un reato e scontato la pena –deve spesso essere preceduta o accompagnata da un lavoro sullo stigma e sull’autostigma. Questo lavoro, come scrive Benedetto Saraceno in un libro fondamentale del 1995, La fine dell’intrattenimento, deve essere svolto con modalità key and lock, cioè lavorando con la chiave (la persona) e con la serratura (il contesto). Ed è proprio quello che propone Burton e fa proprio Basaglia: da un lato si occupa, singolarmente uno per uno e non in modo seriale come faceva il manicomio, dei degenti per liberarli dall’autostigma e aiutarli a rendere la loro follia compatibile con la vita nella società; e dall’altro si occupa della città e dello Stato, per combattervi i meccanismi dello stigma che rendono necessario l’ospedale psichiatrico. Basaglia, poi, in una conferenza fondamentale tenuta all’Università di Genova nel 1967, sostiene che gran parte della degradazione, inferiorizzazione e istituzionalizzazione del degente passa attraverso il corpo, i gesti, gli atti e racconta come a Gorizia si sta affrontando il problema, per poi concludere che:

“Un’istituzione che intende essere terapeutica, deve diventare una comunità (…) dove il rapporto non sia il rapporto oggettivante del signore con il servo, o di chi dà e chi riceve; dove il malato non sia l’ultimo gradino di una gerarchia fondata su valori stabiliti una volta per tutte dal più forte; dove tutti i membri della comunità possano - attraverso la contestazione reciproca e la dialettizzazione delle reciproche posizioni - ricostruire il proprio corpo-proprio e il proprio ruolo”.

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Quello del ruolo, insomma, continua a essere a Gorizia come lo era stato per i teorici della comunità terapeutica e della socioterapia un intreccio impossibile da sciogliere. Nell’assemblea si è uguali ma diversi. C’è il sig. tale e il signor tal altro, tutti possono contraddirsi l’un l’altro, ma poi c’è il «signor direttore» e c’è il dottor tale e il dottor tal altro ai quali tutti si rivolgono e dai quali, anche se si sentono liberi di contestarli, si attendono poi le soluzioni. E i dottori al termine della riunione discutono tra loro, in una sorta di assemblea sull’assemblea. Uguaglianza o diversità dunque?

E’ forse solo un’opinione personale, ma direi che si è uguali sul piano antropologico, è pari cioè la dignità umana e sono pari i diritti basilari previsti dalla Costituzione. Si è uguali per tutto ciò che non implica specifiche competenza e le responsabilità a esse collegate. E si è diversi quanto alle competenze e ai livelli di responsabilità. Si discute tutti, e ogni voce è importante; e se si deve decidere se la prossima gita da organizzare sarà al mare o in montagna si voterà per alzata di mano (e guardate che anche ricordarsi la riconsegna al gruppo di questo potere non è per niente semplice per noi operatori, perché siamo sempre tentati di decidere per gli altri); ma se dobbiamo decidere se le condizioni cliniche di Gino sono abbastanza buone per partecipare, beh lì non si decide più a maggioranza e, magari dopo aver ascoltato il parere di tutti, però decide il tecnico. Rispetto al manicomio, dove tutto il potere era del direttore e poteva essere da lui delegato al più all’interno dello staff, la comunità terapeutica è una realtà molto più complessa, è una continua faticosa operazione di assunzione e riconsegna di potere per la quale il gruppo di Gorizia conia la definizione di

«deistituzionalizzazione», un nodo che ritorna sempre nella riabilitazione.

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Deistituzionalizzazione, infatti, è un termine che viene inventato a Gorizia e che non ha a che fare tanto (o solo) con il fatto di chiudere un’istituzione totale, come un manicomio o un carcere, quanto piuttosto col rompere la tendenza a pietrificare, rendere rigidi, inamovibili definiti una volta per tutte ruoli e rapporti tra le persone che è propria di ogni istituzione, anche quelle della nuova psichiatria. Deistituzionalizzazione è aborrire ogni pur piccolo esercizio di potere che non sia reso indispensabile dalla necessità. Ogni regola seriale, uguale per tutti, che non possa essere volta per volta discussa, verificata nella sua reale necessità, rinegoziata con ciascuno. Ogni momento nel quale il lavoro istituzionale tiene più conto dell’interesse e della comodità dell’istituzione o del singolo operatore che dei bisogni e della libertà del paziente. Deistituzionalizzazione è, per Basaglia e la sua équipe, scegliere, ogni volta che si può, il massimo di libertà possibile per l’altro. Sforzarsi di guardare e vivere le cose come l’altro le vive. Nel 1978, gli ospedali psichiatrici sono stati chiusi in Italia, nel 1998 anche le ultime persone che c’erano rimaste chiuse dentro sono uscite, nel 2015 sono stati chiusi anche gli ultimi sei Ospedali Psichiatrici che rimanevano, quelli Giudiziari. Si potrebbe pensare allora che Basaglia abbia vinto su tutta la linea, che questi discorsi che stiamo facendo su Gorizia facciano veramente parte ormai della storia. Invece credo di no. Nella vostra carriera, già nei vostri tirocini, avrete modo di vedere come, chiuso il manicomio, il nodo istituzione/deistituzionalizzazione ci accompagna ancora ogni giorno nel lavoro, in tutti i luoghi nei quali si ripete l’incontro tra un soggetto che soffre e l’istituzione psichiatrica dalla quale si aspetta la cura. Come questo nodo sia qualcosa che non potrà mai essere consegnato alla storia dell’evoluzione del pensiero psichiatrico e riabilitativo dove pure ha le radici, perché forse è il nodo centrale della psichiatria e della riabilitazione. Ed è anche una questione che si riapre, direi, ogni volta che un

operatore e un paziente si incontrano, per fare insieme riabilitazione psichiatrica.

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A Gorizia le cose cominciano a muoversi, certo in modo graduale, agendo su più piani contemporaneamente:

1. Apertura dei reparti, abbattimento delle reti e delle sbarre2. Introduzione degli psicofarmaci, che prima erano poco utilizzati3. Umanizzazione delle relazioni, stoviglie, personalizzazione degli abiti e degli spazi4. Abolizione graduale dei mezzi di contenzione5. Assemblee di reparto e generali, trasformazione dell’ospedale in comunità terapeutica 6. Ripresa dove possibile dei legami con le famiglie all’esterno, permessi e dimissioni in famiglia7. Qualificazione del lavoro degli infermieri e formazione8. Trasformazione completa del significato terapeutico del lavoro dei ricoverati, non più concepito solo come strumento per la

distrazione dalla malattia, la rinuncia al disordine e l’allenamento alla normalità, ma come elemento della riacquisizione della fiducia in se stessi e della scoperta della propria dignità:

“Il problema del lavoro, delle attività verso cui stimolare i malati apatici, indifferenti, abulici, è fondamentale. Ma mentre nell’ospedale il lavoro ha il solo significato di un riempitivo, nella nuova situazione esso deve assumere un valore terapeutico, come occasione di incontri, rapporti interpersonali spontanei e come stimolo all’attuazione di una spontaneità creativa distrutta (….). E nell’esigere la retribuzione quale logica contropartita di ciò che il lavoro dà alla comunità, il malato riesce a farsi riconoscere nel proprio valore di scambio” Basaglia, 1967

Le due assemblee che Antonio Slavich e Letizia Jervis Comba commentano in Che cos’è la psichiatria? sono un capitolo straordinario, perché rappresentano una discussione tra persone su temi estremamente attuali. Innanzitutto per ciò che si dice sul lavoro in generale: vengono discusse questioni che corrispondono al tema della piena occupazione, che allora esisteva nei Paesi socialisti, o a quello del reddito di cittadinanza, del quale si discute oggi in Italia. Ma anche per quello che i degenti dicono sul lavoro in rapporto alla riabilitazione: si parla della paga, che per in paziente è «un sollievo e una terapia, perché tira su di morale, dà il coraggio» (p. 156). E del significato generale del lavoro per la persona; la sig.na Danieli è lapidaria in proposito: «aiuta più il lavoro che le medicine, le medicine sono di contorno, le medicine mettono in condizione l’ammalato di lavorare, ma poi quando l’ammalato lavora, è più la terapia che riceve dal lavoro che dalle medicine» (p. 167). Insomma, si scopre che questi folli, ammutoliti da secoli, possono davvero dire la loro.

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Gli anni passano e tra 1967 e 1968, l’équipe di Gorizia dà alle stampe due libri fondamentali, nei quali racconta quello che sta avvenendo; hanno titoli ambiziosi: il primo niente meno che «Che cos’è la psichiatria?» e il secondo «L’istituzione negata», e avrà un successo strepitoso. Il gruppo di Basaglia vi recupera le figure di Conolly e Marandon de Montyel, sconosciute in Italia, affronta diversi snodi teorici della questione della comunità terapeutica, gli operatori di Gorizia si confrontano con i colleghi di Parma che lavorano ancora in modo tradizionale. Sono due libri strani, nei quali è tutta la comunità ospedaliera a essere protagonista; la voce dei degenti irrompe in interviste e spezzoni di verbali d’assemblea, non più come «esempio clinico» come avveniva in genere nei libri di psichiatria, ma come soggetti che dicono la loro: sul processo di trasformazione in atto, sul desiderio di avere casa, lavoro, affetto. Dicono la loro e sono anche critici verso il direttore, e in questa possibilità di reciproca contestazione tra il personale, direttore compreso, e i degenti (impensabile al tempo del manicomio) Basaglia individua un segno del fatto che il processo di risoggettivazione sta avendo successo. Alla fine del 1968 il giornalista Sergio Zavoli entra a Gorizia e gira un documentario straordinario, I giardini di Abele, nel quale di nuovo accanto a direttore, medici e infermieri sono i pazienti a parlare di sé: c’è chi non vuole essere visto come un mostro e chi vuole lavoro e soldi. In 7 anni, sono cambiate davvero tante cose…. L’esperienza ora è famosa, ma ormai sta stretta nei suoi muri: i degenti sarebbero pronti a ritornare alla città, alcuni lo fanno. Ma la città non si adopera per riprenderli. Tra Basaglia e Gorizia si è al braccio di ferro che porterà alle sue dimissioni. Lascia Gorizia facendo sue le parole con le quali Fanon aveva lasciato Algeri.

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Basaglia e parte dell’équipe lasciano Gorizia per Parma, ma la cosa non andrà bene. Così, nel 1971 Basaglia accetta la proposta di Michele Zanetti, presidente della provincia di Trieste: avrà carta bianca e pieno appoggio per arrivare a chiudere l’ospedale psichiatrico. Intanto, altre esperienze stanno crescendo: a Perugia, Voghera, Nocera Inferiore e tanti altri centri le cose sono partite per conto loro, mentre dell’équipe di Gorizia Nico Casagrande rimane lì ancora un po’, poi raggiunge Basaglia a Trieste; Antonio Slavich è a Ferrara; Agostino Pirella ad Arezzo; Giovanni Jervis a Reggio Emilia. Artisti, giornalisti, intellettuali sostengono l’operazione, e Gorizia dissemina un po’ dappertutto in Italia. A Trieste tutto procede più speditamente che a Gorizia; l’appoggio dell’Amministrazione rende più facile trovare case per i dimessi, lavoro per le cooperative che si sono formate sulle ceneri della vecchia ergoterapia. Nascono dal 1975 6 Centri di Salute Mentale nelle 6 zone nelle quali è divisa la città, sono aperti 24 h e 7 giorni la settimana, dotati ciascuno di spazi ricreativi per chi ha bisogno di trascorrerci la giornata e di 6-8 posti letto per chi deve trattenervisi qualche giorno. Si aggiungeranno un SPDC di 8 letti, centri riabilitativi riferiti all’arte, allo sport, alla formazione, un numero importante di posti di lavoro nelle cooperative e anche un servizio carcerario che nasce già all’inizio degli anni ‘80. «Marco cavallo», il cavallo blu di cartapesta costruito da un gruppo di degenti e di artisti, lascia il manicomio verso la città coinvolgendola in una grande festa di strada per la liberazione dal manicomio e così già alla fine del 1977, prima dell’approvazione della legge 180, Zanetti e Basaglia possono annunciare in conferenza stampa che l’ospedale psichiatrico è chiuso. Di lì a poco, il 13 maggio 1978, la legge 180 chiuderà gli ospedali psichiatrici in tutta Italia, e dopo qualche mese la Riforma sanitaria, legge 833, assorbirà la legge 180 e in ciascuna regione si allestiranno i servizi della nuova psichiatria.

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L’esperienza di Trieste in manicomio 1971-1977

• Apertura dei reparti, rimozione di reti e sbarre

• Qualificazione degli spazi dei reparti e introduzioni degli oggetti della vita quotidiana

• Trasformazione dei ricoveri coatti in volontari

• L’ospite (cioè la persona formalmente non più ricoverata che può trattenersi in ospedale finché non ha una casa dove andare)

• Fine della segregazione tra uomini e donne

• Feste, concerti e spettacoli che fanno entrare nel manicomio la città

• Gli internati cominciano a uscire nella città

• Costituzione della prima cooperativa di lavoro con i dimessi dell’ospedale -1972

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A Trieste: il lavoro con i ‘lungodegenti’:

• Ricostruzione delle storie e dei contesti

• Ricostruzione percorsi lavorativi

• Diritto al reddito, anche attraverso l’attivazione delle pensioni

• Apertura di gruppi di convivenza

• Cura della qualità della vita, personalizzazione

• Passaggio dall’ergoterapia al diritto al lavoro

A Trieste: il lavoro con gli ‘acuti’

• Soppressione delle terapie di shock e di ogni forma di contenzione

• Ricerca del consenso e trasformazione del ricovero da coatto in volontario

• Non interruzione dei legami con il contesto famigliare e lavorativo

• Dimissioni il più possibile precoci e sostegno fuori

• Interruzione dell’invio dal reparto di osservazione agli altri reparti del manicomio

• Costituzione di accettazioni collegate a territori definiti sul modello del settore e poi, tra 1975 e 1978, apertura dei 6 centri di salute mentale.

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Con la chiusura del manicomio e l’apertura di Centri di Salute Mentale, SPDCD, atelier riabilitativi, cooperative di lavoro, il luogo della psichiatria non è più il manicomio, ma è la città. Basaglia e i suoi hanno fatto l’operazione opposta a quella della quale Menavino era stato testimone: spingere fuori le persone dal Timerahane perché si disperdano nella città. E costruire servizi nella città per dare loro sostegno. Lui stesso lo scrive molto chiaramente nel 1967:

«La salvezza del malato mentale è quella di restare nelle nostre case, coinvolgendo nella sua problematica la nostra vita reale, così che la sua presenza richiederà strutture terapeutiche vicino a lui, psichiatri a domicilio, organizzazioni comunitarie in cui possa sentirsi protetto, luoghi di lavoro dove possa trovare un ruolo, una funzione che giustifichi - davanti a se stesso - la sua presenza nel mondo».

Oltre la deistituzionalizzazione insomma, c’era ancora strada da fare. C’era bisogno di lasciarsi tutti, operatori, degenti, futuri pazienti, la vecchia istituzione alle spalle e costruire un circuito di nuovi servizi, sull’esempio del settore francese e della psichiatri di comunità anglosassone, , ma senza conservare al manicomio neppure quel ruolo residuale che in quei modelli gli era riservato. Insomma, c’era da costruire una psichiatria senza manicomio fatta di luoghi e di gruppi accesi qua e là, e tra loro connessi e organizzati come le luci del presepe, ciascuna delle quali fa luce per sé , ma tutte insieme formano un circuito.

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Dobbiamo ricordare, però, che non è stata solo la psichiatria, a muoversi non è solo il manicomio a essere messo in discussione, e Franca Basaglia, la donna che è sempre stata in questi anniformidabili accanto al marito, ci rende quel clima in un passaggio di grande chiarezza, con il quale chiudiamo questa terza lezione. Rimangono proposte di approfondimento e di fonti da affrontare, poi, per l’ultima.

«In questi ultimi anni si è imparato che i bambini abbandonatihanno bisogno di una famiglia, non di un istituto; i bambiniritardati hanno bisogno di stare insieme agli altri, per essernestimolati, anche se non arriveranno a imparare la lezione, e i bambini normali ne impareranno una molto più importante da questa convivenza; che i vecchi hanno bisogno di continuare a partecipare alla vita collettiva e continuare a sentirsi in qualchemodo utili, non di essere chiusi in un ospizio in attesa di morire; chei malati stanno bene in ospedale nella fase acuta della malattia, ma guariscono meglio a casa, in famiglia, con i loro affetti; i disturbatimentali hanno bisogno di essere assistiti, nelle loro crisi, in struttureterapeutiche che garantiscano protezione e sostegno sia per loroche per i familiari, ma che non considerino e non traducano come definitivo il loro stato».

Franca Ongaro Basaglia

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Quindi, in conclusione:In questo necessariamente rapido percorso, abbiamo affrontato la storia della riabilitazione psichiatrica a partire dal trattamento morale nei manicomi; passando per le esperienze a carattere prevalentemente psicoanalitico o socioterapico delle comunità terapeutiche e della psicoterapia istituzionale; per arrivare alle esperienze fondate sulla filosofia fenomenologico-esistenziale e la sociologia radicale del movimento antiistituzionale. Dopo la chiusura del manicomio, i servizi di salute mentale italiani hanno intercettato e sperimentato numerosi modelli e tecniche di carattere riabilitativo, per lo più di derivazione dal mondo anglosassone, centrati sul soggetto considerato in se stesso, nella famiglia e nella società, in qualche caso applicandoli in modo più rigido e in altri dando luogo a originali contaminazioni, ma mi pare che in molte di queste esperienze sia possibile ritrovare, in diverse proporzioni: - l’idea, che è originariamente caratteristica del trattamento morale, che applicando tecniche riabilitative di carattere psicologico e/o comportamentale al soggetto ed eventualmente alla famiglia sia possibile fargli acquisire (o riacquisire) abilità delle quali la malattia stessa e/o la sua risposta e quella dell’ambiente malattia lo rendono privo - l’idea, che è originariamente caratteristica del movimento della comunità terapeutica, che per il miglioramento della qualità della vita e per la riabilitazione sia necessario garantire innanzitutto la possibilità di un clima o un luogo di relazioni affettuose, costruttive e incoraggianti, individuali e gruppali, e una presa in carico complessiva degli aspetti materiali e simbolici della sua esistenza- l’idea, che è originariamente caratteristica del movimento antiistituzionale, che proteggendo il soggetto dai rischi che comporta l’interazione con l’istituzione di cura e aiutandolo a contrastare la spinta espulsiva che nella famiglia e nella società può generare la malattia (aiutandolo cioè a poter contare su casa, lavoro, reddito, socialità, affetti) sia possibile costruire con lui nella società situazioni nelle quali possa essergli più facile perseguire gli obiettivi che definisce per se stesso

Pare dunque che il virus abbia proprio deciso che dobbiamo terminare corso senza poterci incontrare di persona, in aula. La prossima lezione consisterà nella risposta a eventuali altre domande che mi voleste fare, e nell’indicazione di una serie di proposte di approfondimento, tra le quali vi chiederò di sceglierne due. Vorrei sapere da voi se pensate che le cose scritte che ci siamo scambiate possano essere sufficienti, o vi potrebbe fare piacere organizzarci per fare l’ultima lezione con TEAMS, in modo da poterci parlare direttamente almeno una volta, nel qual caso mi organizzerò per farlo.

Page 34: Lezione n. 3 – 25 aprile 1945 – 13 maggio 1978: dalla ... · Lezione n. 3 –25 aprile 1945 –13 maggio 1978: dalla Liberazione dell’Italia alla liberazione dei «matti» Paolo

1. Cosa accadde dopo il bombardamento dell’ospedale psichiatrico di Ancona nel 1944, e perché questo parve a Basaglia importante?2. Cosa fece Bion all’ospedale militare di Northfield, e come andò a finire?3. Quale difficoltà principale incontravano secondo Main medici e altri operatori nelle prime comunità terapeutiche? 4. Quali erano per il sociologo Rapoport le 4 caratteristiche principali del modello comunitario? Ti sembrano aspetti importanti, e quali ti

sembrano le difficoltà di metterle realmente in pratica?5. Che cos’è il «settore», e qual è la differenza principale con l’attuale organizzazione dei servizi in Italia?6. Quali erano le principali critiche che Fanon muoveva alla socioterapia francese?7. Quali erano per Fanon i vantaggi dei trattamenti diurni rispetto a quelli h24? E tu pensi che avesse ragione o no?8. Come si possono schematizzare i principali riferimenti teorici che Basaglia ha presenti a Gorizia?9. Che cos’è la «carriera morale» del malato di mente? Quali sono i suoi passaggi?10. Che cos’è lo stigma del malato di mente secondo Goffman? E l’autostigma cos’è?11. Che cos’è la «nevrosi istituzionale» secondo Burton? Sapresti elencare 3 azioni utili a restaurare la relazione del paziente

istituzionalizzato con il mondo esterno nella direzione interno-esterno, e altre 3 nella direzione esterno-interno?12. Qual è l’elemento stilistico di maggiore originalità dei libri scritti dall’équipe di Gorizia, rispetto agli altri libri di argomento psichiatrico di

quegli anni?13. La sig.ra Danieli all’assemblea sul lavoro a Gorizia riportata in Che cos’è la psichiatria? Dice che il lavoro è più importante delle medicine.

E tu cosa le risponderesti se fossi lì seduto in assemblea? 14. Ritieni che sia possibile realizzare in una comunità terapeutica un’uguaglianza completa tra i membri, o quali ti sembrano gli aspetti sui quali è possibile che tutti abbiano lo stesso potere, e quali no? 15. Dì con parole tue cosa hai compreso del concetto di «deistituzionalizzazione».16. Quale relazione ti pare che ci sia tra deistituzionalizzazione e riabilitazione?17. Se tu, dopo essere divenuto TeRP, potessi lavorare con Basaglia a Gorizia, in cosa ti pare che potresti renderti utile? 18. E se potessi lavorare con lui a Trieste?19. E se avessi l’opportunità di porgli qualche domanda, cosa gli chiederesti e cosa ti risponderebbe?20. E concludendo, naturalmente, quali tra le cose che ci siamo detti oggi ti paiono più utili per la formazione del TeRP, e perché?