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Levi, appendice a Se questo è un uomo (1947- 1958) Domanda: i tedeschi sapevano? Gli alleati sapevano? Come è possibile che il genocidio, lo sterminio di milioni di esseri umani, abbia potuto compiersi nel cuore dell’Europa senza che nessuno sapesse nulla?

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Levi, appendice a Se questo è un uomo (1947-1958)

•Domanda: i tedeschi sapevano? Gli alleati sapevano? Come è possibile che il genocidio, lo sterminio di milioni di esseri umani, abbia potuto compiersi nel cuore dell’Europa senza che nessuno sapesse nulla?

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•Sul sapere-non sapere: lunga citazione del libro di Kogon, che descrive le fonti di informazione esperienziale da parte dei cittadini tedeschi e dei funzionari dello stato e poi affermazione di Levi che aggiunge: la maggior parte dei tedeschi non sapevano perché non volevano sapere, anzi, perché volevano non sapere

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•Sapere e far sapere era un modo (in fondo poinon tanto pericoloso) di prendere le distanze danazismo: penso che il popolo tedesco, nel suocomplesso, non vi abbia fatto ricorso, e diquesta deliberata omissione lo ritengopienamente colpevole (227)

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Didi-Huberman, Images malgré-tout, 2003

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1) Per sapere bisogna immaginare (immaginarsi/s’imaginer). E noi dobbiamo immaginarci che cosa sia stato l’inferno di Auschwitz nell’estate del 1944.

2) Strappare qualche immagine da questo reale. E strappare al pensiero umano in generale un immaginabile per ciò di cui sino allora nessuno vedeva la possibilità (16)

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La possibilità di evasione o di rivolta era talmente ridotta ad Auschwitz che la semplice emissione di una immagine o di una informazione diveniva un’urgenza, uno tra gli ultimi gesti di umanità (21)

Immagini che si rivolgono all’inimmaginabile per rifiutarlo in ogni modo

Macchina di disimmaginazione messa all’opera dai nazisti per non far immaginare Auschwitz (30)

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•Campi come laboratori di una scomparsa generalizzata

•Fotografia legata a questo discorso – circolare di Hoess, il comandante di Auschwitz, 2 febbraio 1943: vietato fotografare - ma astuzia dell’immagine contro la ragione della storia –ovunque circolavano immagini

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• «Senza dubbio si può parlare a proposito di questa immagine in termini di après-coup. Ma a condizione di precisare che l’après-coup può formarsi nell’immediato, che può far parte integrante del sorgere dell’immagine. Nell’istante trasforma la monade temporale dell’evento in un complesso montaggio di tempi. Come se l’après-coup qui fosse contemporaneo al coup» (46)

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•Strana temporalità di queste fotografie –ma anche Benjamin/Barthes/Butler strana temporalità in generale delle fotografie

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• Walter Benjamin: saggio su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936) :

fotografia e messa in crisi dell’hic et nuncdell’opera d’arte

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• Rolan Barthes, Camera chiara, 1980

il referente della fotografia è stato là, e tuttavia è stato immediatamente separato; è stato sicuramente, inconfutabilmente presente, e tuttavia è già differito (78)

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• Judith Butler, Frames of war, 2009

Come azione, scattare una foto non è né anteriore all’evento, né posteriore ad esso

La fotografia è una sorta di promessa che l'evento continuerà, anzi è davvero continuo, e produce così un equivoco a livello della temporalità dell'evento: queste azioni sono avvenute allora? Continuano ad accadere? La fotografia continua l'evento nel futuro (84)

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• Come azione, scattare una foto non è né anteriore all’evento, né posteriore ad esso

• La fotografia è una sorta di promessa che l'evento continuerà, anzi è davvero continuo, e produce così un equivoco a livello della temporalità dell'evento: queste azioni sono avvenute allora? Continuano ad accadere? La fotografia continua l'evento nel futuro (84)

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• Le foto di Abu Ghraib sono sicuramente referenziali, ma possiamo dire in che modo le foto non solo registrano la norma della guerra, ma sono anche diventate l'emblema visivo della guerra in Iraq?

• Quando il business della guerra è soggetto all'onnipresenza di telecamere vaganti, il tempo e lo spazio possono essere cronometrati e registrati casualmente, e le prospettive future ed esterne vengono ad integrarsi nella scena stessa.

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• Ma l'efficacia della telecamera funziona su una traiettoria temporale diversa dalla cronologia che registra. L'archivio visivo circola.

• La data sulla fotocamera può specificare con precisione quando si è verificato l'evento, ma la circolarità indefinita dell'immagine permette all'evento di continuare ad accadere e, anzi, grazie a queste immagini, l'evento non ha smesso di accadere.

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altro riferimento rispetto al nazismo, Arendt: alcuni saggi (tra 1966 e 1975) confluiti poi in un libro postumo del 2003, trad. it.: Responsabilità e giudizio, Einaudi 2004

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• “ho scelto di focalizzare la mia attenzione sulle questioni morali, quelle che concernono la condotta e il comportamento dell’individuo: le poche regole e norme in base alle quali gli uomini distinguono il bene dal male e che vengono sempre invocate per giudicare gli altri e giudicare se stessi – regole e norme la cui validità è ritenuta evidente da chiunque sia sano di mente, facendo esse stesse parte del diritto naturale o divino. Tutto questo, senza troppo scalpore, venne meno dal mattino alla sera. E fu allora che ci accorgemmo del significato originale, etimologico della parola morale, proveniente dal latino mores, che significa semplicemente usi o costumi – i quali si possono cambiare all’improvviso senza troppi problemi, così come si possono cambiare da un giorno all’altro le nostre abitudini a tavola” (42)

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• anni ’30-’40 Totale collasso delle norme morali allora vigenti (44)

• La morale crollò o si afflosciò come un vuoto insieme di mores – usi, costumi, convenzioni che si possono cambiare quanto si vuole, non a causa dei criminali ma della gente ordinaria, che fino a quando le norme morali erano accettate da tutti non si sognò mai di mettere in dubbio ciò che le era stato insegnato. Problema che non si risolve nel dire che con la caduta di Hitler la dottrina nazista si sciolse come neve al sole, al contrario, tutto questo ci induce a pensare che abbiamo assistito non una bensì due volte al totale collasso dell’”ordine morale” (45)

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«Esistono situazioni estreme in cui non ci possiamo assumere la responsabilità di

quanto accade nel mondo, una responsabilità primariamente politica, poiché la

responsabilità politica implica sempre almeno un minimo di potere politico.

L’impotenza o la completa mancanza di potere è, a mio parere, una scusa valida.

E la sua validità non è che rafforzata da quella qualità morale che ci consente di

ammettere la nostra impotenza, ossia dalla buona fede che ci consente di far

veramente fronte alla realtà, invece di rinchiuderci in un mondo di illusioni. Forse, del

resto, è proprio in questa ammissione di impotenza che si cela un ultimo residuo di

forza e di potere, anche nelle situazioni più disperate» (38)

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Resposabilità collettiva (1968)

•Ciò che sto cercando di tracciare qui è una netta linea di confine tra la responsabilità politica (collettiva) e la colpa morale e/o giuridica (personale) (130)

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• Quando si è tutti colpevoli, in fin dei conti nessuno lo è. La colpa, a differenza della responsabilità, ci singolarizza: è qualcosa di strettamente personale (127)

• E’ questa la grandezza del tribunale: persino un semplice ingranaggio, in quella sede, ridiventa una persona. (128)

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• differenza tra colpa collettiva e responsabilità collettiva –quest’ultima è sempre politica: sia che l’intera comunità si assuma la responsabilità di ciò che è stato fatto da uno dei suoi membri, sia che la comunità venga ritenuta responsabile di ciò che è stato fatto in suo nome (129)

• In tal senso, noi siamo sempre responsabili dei peccati dei nostri padri, così come godiamo del prestigio e dei vantaggi che ci derivano dai loro meriti. Ma non siamo colpevoli dei loro misfatti, né sul piano giuridico, né su quello morale (129)

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• Possiamo sfuggire a questa responsabilità politica e propriamente collettiva solo abbandonando la comunità, e dal momento che nessuno di noi può vivere senza appartenere a una comunità, ciò significa semplicemente che si tratta di cambiare comunità e tipo di responsabilità. E’ vero che nel Novecento si è assistito alla creazione di una categoria di persone realmente esuli, che non appartenevano a nessuna comunità riconoscibile sul piano internazionale, parlo dei rifugiati e degli apolidi, che in effetti non si possono ritenere responsabili di alcunché. Da un punto di vista politico – individuale o collettivo – costoro sono assolutamente innocenti. Ed è precisamente questa assoluta innocenza che li condanna a restare fuori, per così dire, dell’umanità (130)

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Helena Janeczek, La ragazza con la Leica, Guanda, Milano 2017

•Su Gerda Taro e indirettamente su Robert Capa – a partire da due foto sullo stesso soggetto scattate con prospettive leggermente diverse in Spagna nel 1936

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• “Il mondo è giusto che lo sappia. Deve sapere in un colpo d’occhio che da una parte c’è la guerra vecchia di secoli, i generali sbarcati dal Marocco con le feroci truppe mercenarie, dall’altra parte gente che desidera difendere quel che sta vivendo e si desidera l’un l’altra. A Barcellona, in quel principio di agosto del 1936, stanno arrivando in tanti per unirsi al primo popolo d’Europa che non ha esitato ad armarsi contro il fascismo. Raccontano la città in subbuglio nella lingua universale delle immagini, che dalle pagine esposte nelle edicole di mezzo mondo, affisse nelle sedi di partito e sindacati, sventolate dagli strilloni, riutilizzate per avvolgere uova e prodotti della terra, saltano in faccia persino a chi non compra e non legge i giornali (…) I fotografi, che non sono in attesa di armi e addestramento, fanno parte di quel continuo afflusso alle milizie volontarie. Sono qui per noi, sono come noi, compagni, comprende chi li vede all’opera e li lascia lavorare”. (11)

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Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri (2003), Einaudi

• “La guerra civile spagnola (1936-1939) fu la prima guerradocumentata (“coperta”) in senso moderno, da un corpo difotografi professionisti inviati in prima linea e nelle cittàbombardate, i cui scatti furono immediatamente pubblicatisu quotidiani e periodici sia in Spagna che all’estero” (23)

• La guerra mossa dagli Stati uniti al Vietnam (1955-1975), laprima seguita giorno dopo giorno dalle telecamere, fececonoscere al fronte interno una nuova tele-intimità con lamorte e la distruzione (24)

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Dove?

Quando?

Chi rappresenta?

Cosa ne sappiamo?

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Aehman Ahmad, Il pianista di Yarmouk(2017), la nave di Teseo, Milano 2018.

“Le immagini non raccontano mai l’inizio delle storie. E su quello che viene dopo tacciono” (e a partire da questo racconta la storia che diventa il libro Il pianista di Yarmouk)

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“dietro alla foto” della distribuzione di cibo

• “Io mai avrei osato mettermi in coda per uno scatolone. Perché la famosa foto non diceva tutta la verità, solo una parte. Il fotografo dell’Unrwa scattò da Fedayn Street verso Rijh Square. Se si fosse girato, avrebbe visto tre checkpoint: il primo gestito dal Comando generale; il secondo dalle milizie sciite, che non ho idea di che cosa ci facessero lì; il terzo dall’esercito governativo. Il punto di distribuzione dell’Onu era oltre questi tre blocchi. Solo dopo che uno aveva mostrato per tre volte il documento, dopo che i tre gruppi avevano pescato abbastanza ragazzi e saldato abbastanza conti in sospeso, solo dopo che uno aveva superato indenne le forche caudine di tre checkpoint riceveva il riso dell’Onu. Un sacco di ragazzi, infatti, vennero arrestati. Tutti quelli che non avevano nessuno che potesse fare la cosa al posto loro. Che a un certo punto, annebbiati dalla fame, camminavano dritti tra le braccia dei loro futuri torturatori. Ecco perché nella famosa foto ci sono solo donne e anziani, o quasi. Perché loro se la cavavano indenni. Il ragazzo con gli occhiali, l’insegnante di inglese, dopo quel giorno non li rividi mai più” (221-222)

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OCCHI CHE VEDONO O CHE GUARDANO MA NON VEDONO. OCCHI CIECHI

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Mauthausen

• 1941. Il campo di Mauthausen, in Austria, come tutti gli altri campi in Germania e in Polonia, è in piena funzione. Il campo, in realtà, non è invisibile, si intreccia, come ricorda Bensoussan, nel suo libro Eredità di Auschwitz (1988, Einaudi), ricordando che ciò vale per l’intero universo concentrazionario, con il mondo ordinario.

• Eleanore, una contadina dei dintorni, scrive alle autorità per denunciare il campo e le sue atrocità, scrive, in realtà, per denunciare non il campo e le sue atrocità, scrive per denunciare la visibilità del campo e delle sue atrocità: “chiedo che si faccia in modo di porre fine a tali azioni inumane, oppure che vengano compiute dove non possono essere viste”.

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• Di qua la morte e di qua la vita, di qua la morte e di qua la vita, ripete Lanzmann, in Shoah, a un contadino polacco che continuava il suo lavoro nel qua della vita vicino a Treblinka. Nessuna linea che le separi. E la separazione tra la morte e la vita non occupa nemmeno una zona di terra.

• Se dunque non è lo spazio a separare il luogo della normalità e della quotidianità ordinaria dal campo, persino nella sua forma più estrema ed essenziale che è quella del campo di sterminio, se, anzi, persino nella sua forma più estrema, come campo di sterminio, campo di morte, il campo confina con e attraversa lo spazio ordinario, deve essere necessariamente un altro elemento quello che permette a questo luogo di non avere luogo.

• Questo elemento è la sua invisibilità. Che le cose avvengano, che le atrocità si compiano, se devono essere compiute, chiede Eleanore, ma che non si vedano. E’ la domanda di una testimone esterna, nel qua della vita, rispetto al qua della morte.

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Theresienstadt

• “Negli anni hitleriani Theresienstadt veniva definita ghetto, oggi la si annovera fra i campi di concentramento. […] Nel linguaggio normale, un ghetto non era un campo di prigionia per deportati, bensì un quartiere cittadino in cui abitavano gli ebrei. Theresienstadt, invece, era la stalla accanto al macello. […] Io vissi là con 40.000 o 50.000 persone, mentre c’era posto, di diritto, solo per 3500 soldati e civili. Per me Theresienstadt significò innanzitutto gente. […] Trasporti arrivavano, altri trasporti partivano, i letti si vuotavano, tornavano a riempirsi. Gli annunci di morte non si interrompevano mai, facevano parte della quotidianità. […] Theresienstadt è per me, oggi, una catena di ricordi di persone perdute, fili che nessuno ha continuato a filare. Theresienstadt fu fame e malattia. […] La libertà di movimento era limitata a un chilometro quadrato, e dentro il Lager si era esposti completamente a una volontà anonima che in ogni momento poteva spedirci oltre, in un Lager terribile dai contorni indistinti. Perché Theresienstadt significava trasporti verso l’est, che, imprevedibili come catastrofi naturali, si verificavano a intervalli di tempo. Questi erano i confini della struttura mentale della nostra esistenza, l’andare e venire di gente che non disponeva di sé, che non aveva nessuna influenza su cosa e quando si disponeva di lei, e non sapeva neppure se e quando si sarebbe di nuovo disposto di lei. Sapeva solo che l’intento era ostile” (Klüger, Vivere ancora (1992) Einaudi 72-83).

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• “Lo stato dell’abbigliamento è, in generale, abbastanza soddisfacente. La gente che incontriamo per strada è vestita correttamente, con le differenze che si incontrano normalmente in una piccola città tra gente più o meno ricca. Le eleganti hanno tutte calze di seta, cappelli, foulards, borsette a mano moderne. Anche i giovani sono vestiti bene. […] Possiamo dire che abbiamo provato uno stupore immenso per il fatto di trovare nel ghetto una città che vive di una vita quasi normale” (Un vivant qui passe/Un vivo che passa, Lanzmann, 52-53 – 1979)

• Maurice Rossel, delegato a Berlino del Comitato internazionale della Croce rossa negli anni della guerra, il cui compito era quello di visitare i campi dei prigionieri di guerra in Germania, e che, sempre dalla Croce rossa internazionale, fu incaricato di andare a visitare i campi di concentramento, che visitò dunque Auschwitz e, nel giugno del 1944, il ghetto-campo di Theresienstadt.

• “Ero incaricato di andare a vedere quello che mi mostravano. Se ero inviato, ero gli occhi, dovevo vedere, e dovevo, se si vuole, cercare di vedere al di là, se c’era qualcosa da vedere al di là”.

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• Oggi: «non ho approfondito, ho guardato con disattenzione e mi sento a disagio e responsabile di questa disattenzione»

• Alcune domande:

• cosa sta avvenendo nel mare Mediterraneo? E nel mare Mediterraneo centrale?

• Cosa sappiamo della Libia?

• Quanti sono i migranti in Libia. Da dove provengono?

• Quanti sono i migranti arrivati nel 2015, 2016, 2017, 2018 attraverso il mare in Europa – chi arriva in Italia

• cosa succede in Grecia?

• quante persone muoiono nel Mediterraneo