Letteratura italiana Anno accademico 2012-2013 · Che fosti donna, or sei povera ancella. Chi di te...

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Letteratura italiana Anno accademico 2012-2013 Prof.ssa Giovanna Benvenuti I testi qui contenuti sono da stampare e portare a lezione unitamente a quelli raccolti nel PDF denominato POESIA_Laboratorio Letteratura italiana.

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Letteratura italiana – Anno accademico 2012-2013 Prof.ssa Giovanna Benvenuti

I testi qui contenuti sono da stampare e portare a lezione unitamente a quelli raccolti

nel PDF denominato POESIA_Laboratorio Letteratura italiana.

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UGO FOSCOLO (1778-1827)

A Zacinto (1802-03)

1

Né più mai toccherò le sacre sponde

ove il mio corpo fanciulletto giacque,

Zacinto mia, che te specchi nell’onde

del greco mar da cui vergine nacque

Venere, e fea quelle isole feconde

col suo primo sorriso, onde non tacque

le tue limpide nubi e le tue fronde

l’inclito verso di colui che l’acque

cantò fatali, ed il diverso esiglio

per cui bello di fama e di sventura

baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,

o materna mia terra; a noi prescrisse

il fato illacrimata sepoltura.

1 Originariamente pubblicato in U. Foscolo, Poesie, Tipografia de Stefanis, 1803; qui tratto da U. Foscolo, Opere, a

cura di Mario Puppo, Milano, Mursia, 1966, p. 16.

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GIACOMO LEOPARDI (1798-1837)

ALL’ITALIA (1818) 2

O patria mia, vedo le mura e gli archi

E le colonne e i simulacri e l’erme

Torri degli avi nostri,

Ma la gloria non vedo,

Non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi

I nostri padri antichi. Or fatta inerme,

Nuda la fronte e nudo il petto mostri.

Oimè quante ferite,

Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio,

Formosissima donna! Io chiedo al cielo

E al mondo: dite dite;

Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,

Che di catene ha carche ambe le braccia;

Sì che sparte le chiome e senza velo

Siede in terra negletta e sconsolata,

Nascondendo la faccia

Tra le ginocchia, e piange.

Piangi, che ben hai donde, Italia mia,

Le genti a vincer nata

E nella fausta sorte e nella ria.

Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,

Mai non potrebbe il pianto

Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;

Che fosti donna, or sei povera ancella.

Chi di te parla o scrive,

Che, rimembrando il tuo passato vanto,

Non dica: già fu grande, or non è quella?

Perché, perché? dov’è la forza antica,

Dove l’armi e il valore e la costanza?

Chi ti discinse il brando?

Chi ti tradì? qual arte o qual fatica

O qual tanta possanza

Valse a spogliarti il manto e l’auree bende?

Come cadesti o quando

Da tanta altezza in così basso loco?

Nessun pugna per te? non ti difende

Nessun de’ tuoi? L’armi, qua l’armi: io solo

Combatterò, procomberò sol io.

Dammi, o ciel, che sia foco

Agl’italici petti il sangue mio.

2 Pubblicata originariamente nel 1819, poi raccolta in G. Leopardi, Canti, Piatti, 1831; qui in G. Leopardi, Canti, a cura

di E. Peruzzi, Rizzoli, 1981, pp. 1-5.

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Dove sono i tuoi figli? Odo suon d’armi

E di carri e di voci e di timballi:

In estranie contrade

Pugnano i tuoi figliuoli.

Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,

Un fluttuar di fanti e di cavalli,

E fumo e polve, e luccicar di spade

Come tra nebbia lampi.

Né ti conforti? e i tremebondi lumi

Piegar non soffri al dubitoso evento?

A che pugna in quei campi

L’itala gioventude? O numi, o numi:

Pugnan per altra terra itali acciari.

Oh misero colui che in guerra è spento,

Non per li patrii lidi e per la pia

Consorte e i figli cari,

Ma da nemici altrui

Per altra gente, e non può dir morendo:

Alma terra natia,

La vita che mi desti ecco ti rendo.

Oh venturose e care e benedette

L’antiche età, che a morte

Per la patria correan le genti a squadre;

E voi sempre onorate e gloriose,

O tessaliche strette,

Dove la Persia e il fato assai men forte

Fu di poch’alme franche e generose!

Io credo che le piante e i sassi e l’onda

E le montagne vostre al passeggere

Con indistinta voce

Narrin siccome tutta quella sponda

Coprìr le invitte schiere

De’ corpi ch’alla Grecia eran devoti.

Allor, vile e feroce,

Serse per l’Ellesponto si fuggia,

Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;

E sul colle d’Antela, ove morendo

Si sottrasse da morte il santo stuolo,

Simonide salia,

Guardando l’etra e la marina e il suolo.

E di lacrime sparso ambe le guance,

E il petto ansante, e vacillante il piede,

Toglieasi in man la lira:

Beatissimi voi,

Ch’offriste il petto alle nemiche lance

Per amor di costei ch’al Sol vi diede;

Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira.

Nell’armi e ne’ perigli

Qual tanto amor le giovanette menti,

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Qual nell’acerbo fato amor vi trasse?

Come sì lieta, o figli,

L’ora estrema vi parve, onde ridenti

Correste al passo lacrimoso e duro?

Parea ch’a danza e non a morte andasse

Ciascun de’ vostri, o a splendido convito:

Ma v’attendea lo scuro

Tartaro, e l’onda morta;

Né le spose vi foro o i figli accanto

Quando su l’aspro lito

Senza baci moriste e senza pianto.

Ma non senza de’ Persi orrida pena

Ed immortale angoscia.

Come lion di tori entro una mandra

Or salta a quello in tergo e sì gli scava

Con le zanne la schiena,

Or questo fianco addenta or quella coscia

Tal fra le Perse torme infuriava

L’ira de’ greci petti e la virtute.

Ve’ cavalli supini e cavalieri;

Vedi intralciare ai vinti

La fuga i carri e le tende cadute,

E correr fra’ primieri

Pallido e scapigliato esso tiranno;

Ve’ come infusi e tinti

Del barbarico sangue i greci eroi,

Cagione ai Persi d’infinito affanno,

A poco a poco vinti dalle piaghe,

L’un sopra l’altro cade. Oh viva, oh viva:

Beatissimi voi

Mentre nel mondo si favelli o scriva.

Prima divelte, in mar precipitando,

Spente nell’imo strideran le stelle,

Che la memoria e il vostro

Amor trascorra o scemi.

La vostra tomba è un’ara; e qua mostrando

Verran le madri ai parvoli le belle

Orme del vostro sangue. Ecco io mi prostro,

O benedetti, al suolo,

E bacio questi sassi e queste zolle,

Che fien lodate e chiare eternamente

Dall’uno all’altro polo.

Deh foss’io pur con voi qui sotto, e molle

Fosse del sangue mio quest’alma terra.

Che se il fato è diverso, e non consente

Ch’io per la Grecia i moribondi lumi

Chiuda prostrato in guerra,

Così la vereconda

Fama del vostro vate appo i futuri

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Possa, volendo i numi,

Tanto durar quanto la vostra duri.

L’INFINITO (1819) 3

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

E questa siepe, che da tanta parte

Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

Spazi di là da quella, e sovrumani

Silenzi, e profondissima quiete

Io nel pensier mi fingo; ove per poco

Il cor non si spaura. E come il vento

Odo stormir tra queste piante, io quello

Infinito silenzio a questa voce

Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,

E le morte stagioni, e la presente

E viva, e il suon di lei. Così tra questa

Immensità s’annega il pensier mio:

E il naufragar m’è dolce in questo mare.

A SILVIA (1828) 4

Silvia, rimembri ancora

Quel tempo della tua vita mortale,

Quando beltà splendea

Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,

E tu, lieta e pensosa, il limitare

Di gioventù salivi?

Sonavan le quiete

Stanze, e le vie dintorno,

Al tuo perpetuo canto,

Allor che all’opre femminili intenta

Sedevi, assai contenta

Di quel vago avvenir che in mente avevi.

Era il maggio odoroso: e tu solevi

3 Pubblicato originariamente in G. Leopardi, Canti, Piatti, 1831; qui in G. Leopardi, Canti, a cura di E. Peruzzi, Rizzoli,

1981. 4 Pubblicato originariamente in G. Leopardi, Canti, Piatti, 1831; qui in G. Leopardi, Canti, a cura di E. Peruzzi, Rizzoli,

1981

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Così menare il giorno.

Io gli studi leggiadri

Talor lasciando e le sudate carte,

Ove il tempo mio primo

E di me si spendea la miglior parte,

D’in su i veroni del paterno ostello

Porgea gli orecchi al suon della tua voce,

Ed alla man veloce

Che percorrea la faticosa tela.

Mirava il ciel sereno,

Le vie dorate e gli orti,

E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.

Lingua mortal non dice

Quel ch’io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,

Che speranze, che cori, o Silvia mia!

Quale allor ci apparia

La vita umana e il fato!

Quando sovviemmi di cotanta speme,

Un affetto mi preme

Acerbo e sconsolato,

E tornami a doler di mia sventura.

O natura, o natura,

Perché non rendi poi

Quel che prometti allor? perché di tanto

Inganni i figli tuoi?

Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,

Da chiuso morbo combattuta e vinta,

Perivi, o tenerella. E non vedevi

Il fior degli anni tuoi;

Non ti molceva il core

La dolce lode or delle negre chiome,

Or degli sguardi innamorati e schivi;

Né teco le compagne ai dì festivi

Ragionavan d’amore.

Anche peria fra poco

La speranza mia dolce: agli anni miei

Anche negaro i fati

La giovanezza. Ahi come,

Come passata sei,

Cara compagna dell’età mia nova,

Mia lacrimata speme!

Questo è quel mondo? questi

I diletti, l’amor, l’opre, gli eventi

Onde cotanto ragionammo insieme?

Questa la sorte dell’umane genti?

All’apparir del vero

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Tu, misera, cadesti: e con la mano

La fredda morte ed una tomba ignuda

Mostravi di lontano.

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GUIDO GOZZANO (1883-1916)

L’amica di nonna Speranza5

«...alla sua Speranza

la sua Carlotta...»

28 giugno 1850

(dall’album: dedica d’una fotografia)

Loreto impagliato e il busto d’Alfieri, di Napoleone,

i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto!)

il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti,

i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro,

un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve,

gli oggetti col mònito, salve, ricordo, le noci di cocco,

Venezia ritratta a musaici, gli acquerelli un po’ scialbi,

le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici,

le tele di Massimo d’Azeglio, le miniature,

i dagherottipi: figure sognanti in perplessità,

il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone

e immilla nel quarto le buone cose di pessimo gusto,

il cùcu dell’ore che canta, le sedie parate a damasco

chermisi... rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta!

I fratellini alla sala quest’oggi non possono accedere

che cauti (hanno tolte le federe ai mobili: è giorno di gala).

Ma quelli v’irrompono in frotta. È giunta è giunta in vacanza

la grande sorella Speranza con la compagna Carlotta.

Ha diciassette anni la Nonna! Carlotta quasi lo stesso:

da poco hanno avuto il permesso d’aggiungere un cerchio alla gonna;

il cerchio ampissimo increspa la gonna a rose turchine:

più snella da la crinoline emerge la vita di vespa.

Entrambe hanno uno scialle ad arancie, a fiori, a uccelli, a ghirlande:

divisi i capelli in due bande scendenti a mezzo le guance. 5 Testo originariamente pubblicato in G. Gozzano, La via del rifugio, Streglio 1907; qui da G. Gozzano, Le poesie, a

cura di E. Sanguineti, Einaudi, Torino 1990.

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Son giunte da Mantova senza stanchezza al Lago Maggiore

sebbene quattordici ore viaggiassero in diligenza.

Han fatto l’esame più egregio di tutta la classe. Che affanno

passato terribile! Hanno lasciato per sempre il collegio.

O Belgirate tranquilla! La sala dà sul giardino:

fra i tronchi diritti scintilla lo specchio del Lago turchino.

Silenzio, bambini! Le amiche - bambini, fate pian piano! -

le amiche provano al piano un fascio di musiche antiche:

motivi un poco artefatti nel secentismo fronzuto

di Arcangelo del Leuto e di Alessandro Scarlatti;

innamorati dispersi, gementi il «core» e «l’augello»,

languori del Giordanello in dolci bruttissimi versi:

«...caro mio ben

credimi almen,

senza di te

languisce il cor!

Il tuo fedel

sospira ognor

cessa crudel

tanto rigor!

Carlotta canta, Speranza suona. Dolce e fiorita

si schiude alla breve romanza di mille promesse la vita.

O musica, lieve sussurro! E già nell’animo ascoso

d’ognuna sorride lo sposo promesso: il Principe Azzurro,

lo sposo dei sogni sognati... O margherite in collegio

sfogliate per sortilegio sui teneri versi del Prati!

Giungeva lo Zio, signore virtuoso di molto riguardo,

ligio al Passato al Lombardo-Veneto e all’Imperatore.

Giungeva la Zia, ben degna consorte, molto dabbene,

ligia al Passato sebbene amante del Re di Sardegna.

«Baciate la mano alli Zii!» - dicevano il Babbo e la Mamma,

e alzavano il volto di fiamma ai piccolini restii.

«E questa è l’amica in vacanza: madamigella Carlotta

Capenna: l’alunna più dotta, l’amica più cara a Speranza».

«Ma bene... ma bene... ma bene...» - diceva gesuitico e tardo

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lo Zio di molto riguardo - «Ma bene... ma bene... ma bene...

Capenna? Conobbi un Arturo Capenna... Capenna... Capenna...

Sicuro! Alla Corte di Vienna! Sicuro... sicuro... sicuro...»

«Gradiscono un po’ di marsala?» «Signora Sorella: magari.»

E sulle poltrone di gala sedevano in bei conversari.

«...ma la Brambilla non seppe... - È pingue già per l’Ernani;

la Scala non ha più soprani... - Che vena quel Verdi... Giuseppe!...

«...nel marzo avremo un lavoro - alla Fenice, m’han detto -

nuovissimo: il Rigoletto; si parla d’un capolavoro. -

«...azzurri si portano o grigi? - E questi orecchini! Che bei

rubini! E questi cammei?... La gran novità di Parigi...

«...Radetzki? Ma che! L’armistizio... la pace, la pace che regna...

Quel giovine Re di Sardegna è uomo di molto giudizio! -

«È certo uno spirito insonne... - ...è forte e vigile e scaltro.

«È bello? - Non bello: tutt’altro... - Gli piacciono molto le donne...

«Speranza!» (chinavansi piano, in tono un po’ sibillino)

«Carlotta! Scendete in giardino: andate a giuocare al volano!»

Allora le amiche serene lasciavano con un perfetto

inchino di molto rispetto gli Zii molto dabbene.

Oimè! Ché giocando, un volano, troppo respinto all’assalto,

non più ridiscese dall’alto dei rami d’un ippocastano!

S’inchinano sui balaustri le amiche e guardano il Lago,

sognando l’amore presago nei loro bei sogni trilustri.

«...se tu vedessi che bei denti! - Quant’anni? - Vent’otto.

- Poeta? - Frequenta il salotto della Contessa Maffei!»

Non vuole morire, non langue il giorno. S’accende più ancora

di porpora: come un’aurora stigmatizzata di sangue;

si spenge infine, ma lento. I monti s’abbrunano in coro:

il Sole si sveste dell’oro, la Luna si veste d’argento.

Romantica Luna fra un nimbo leggero, che baci le chiome

dei pioppi arcata siccome un sopracciglio di bimbo,

il sogno di tutto un passato nella tua curva s’accampa:

non sorta sei da una stampa del Novelliere Illustrato?

Vedesti le case deserte di Parisina la bella

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non forse? Non forse sei quella amata dal giovane Werther?

«...Mah!... Sogni di là da venire. - Il Lago s’è fatto più denso

di stelle - ...che pensi?... - Non penso... - Ti piacerebbe morire?

«Sì! - Pare che il cielo riveli più stelle nell’acqua e più lustri.

Inchìnati sui balaustri: sognamo così fra due cieli...

«Son come sospesa: mi libro nell’alto!... - Conosce Mazzini...

- E l’ami? - Che versi divini!... Fu lui a donarmi quel libro,

ricordi? che narra siccome amando senza fortuna

un tale si uccida per una: per una che aveva il mio nome».

Carlotta! Nome non fine, ma dolce! Che come l’essenze

risusciti le diligenze, lo scialle, le crinoline...

O amica di Nonna conosco le aiuole per ove leggesti

i casi di Jacopo mesti nel tenero libro del Foscolo.

Ti fisso nell’albo con tanta tristezza, ov’è di tuo pugno

la data: vent’otto di Giugno del mille ottocento cinquanta.

Stai come rapita in un cantico: lo sguardo al cielo profondo,

e l’indice al labbro, secondo l’atteggiamento romantico.

Quel giorno - malinconia! - vestivi un abito rosa

per farti - novissima cosa! - ritrarre in fotografia...

Ma te non rivedo nel fiore, o amica di Nonna! Ove sei

o sola che - forse - potrei amare, amare d’amore?

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UMBERTO SABA (1883-1957)

A mia moglie (da Casa e campagna, 1909-1910)6

Tu sei come una giovane,

una bianca pollastra.

Le si arruffano al vento

le piume, il collo china

per bere, e in terra raspa;

ma, nell’andare, ha il lento

tuo passo di regina,

ed incede sull’erba

pettoruta e superba.

È migliore del maschio.

È come sono tutte

le femmine di tutti

i sereni animali

che avvicinano a Dio.

Così, se l’occhio, se il giudizio mio

non m’inganna, fra queste hai le tue uguali,

e in nessun’altra donna.

Quando la sera assonna

le gallinelle,

mettono voci che ricordan quelle,

dolcissime, onde a volte dei tuoi mali

ti quereli, e non sai

che la tua voce ha la soave e triste

musica dei pollai.

Tu sei come una gravida

giovenca;

libera ancora e senza

gravezza, anzi festosa;

che, se la lisci, il collo

volge, ove tinge un rosa

tenero la sua carne.

Se l’incontri e muggire

l’odi, tanto è quel suono

lamentoso, che l’erba

strappi, per farle un dono.

È così che il mio dono

t’offro quando sei triste.

Tu sei come una lunga

cagna, che sempre tanta

dolcezza ha negli occhi,

6 Qui da U. Saba, Il Canzoniere, Einaudi 1961, p. 64

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e ferocia nel cuore.

Ai tuoi piedi una santa

sembra, che d’un fervore

indomabile arda,

e così ti riguarda

come il suo Dio e Signore.

Quando in casa o per via

segue, a chi solo tenti

avvicinarsi, i denti

candidissimi scopre.

Ed il suo amore soffre

di gelosia.

Tu sei come la pavida

coniglia. Entro l’angusta

gabbia ritta al vederti

s’alza,

e verso te gli orecchi

alti protende e fermi;

che la crusca e i radicchi

tu le porti, di cui

priva in sé si rannicchia,

cerca gli angoli bui.

Chi potrebbe quel cibo

ritoglierle? Chi il pelo

che si strappa di dosso,

per aggiungerlo al nido

dove poi partorire?

Chi mai farti soffrire?

Tu sei come la rondine

che torna in primavera.

Ma in autunno riparte;

e tu non hai quest’arte.

Tu questo hai della rondine:

le movenze leggere:

questo che a me, che mi sentiva ed era

vecchio, annunciavi un’altra primavera.

Tu sei come la provvida

formica. Di lei, quando

escono alla campagna,

parla al bimbo la nonna

che l’accompagna.

E così nella pecchia

ti ritrovo, ed in tutte

le femmine di tutti

i sereni animali

che avvicinano a Dio;

e in nessun’altra donna.

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(da Autobiografia, 1924)7

Mio padre è stato per me «l’assassino»,

fino ai vent’anni che l’ho conosciuto.

Allora ho visto ch’egli era un bambino,

e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto.

Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,

un sorriso, in miseria, dolce e astuto.

Andò sempre pel mondo pellegrino;

più d’una donna l’ha amato e pasciuto.

Egli era gaio e leggero; mia madre

tutti sentiva della vita i pesi.

Di mano ei gli sfuggì come un pallone.

«Non somigliare - ammoniva - a tuo padre».

Ed io più tardi in me stesso lo intesi:

Eran due razze in antica tenzone.

7 Qui da U. Saba, Il Canzoniere, Einaudi 1961, p. 245

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GIUSEPPE UNGARETTI (1888-1970)

Fratelli 8

Mariano il 15 luglio 1916

Di che reggimento siete

fratelli?

Parola tremante

nella notte

Foglia appena nata

Nell’aria spasimante

involontaria rivolta

dell’uomo presente alla sua

fragilità

Fratelli

I fiumi 9

Cotici il 16 agosto 1916

Mi tengo a quest’albero

mutilato

abbandonato in questa dolina

che ha il languore

di un circo

prima o dopo lo spettacolo

e guardo

il passaggio quieto

delle nuvole sulla luna

Stamani mi sono disteso

in un’urna d’acqua

e come una reliquia

ho riposato

L’Isonzo scorrendo

8 Pubblicata già nel 1916, nella prima edizione del Porto Sepolto, ora in G. Ungaretti, Vita d’un uomo, Milano,

Mondadori, p. 39. 9 Pubblicata già nel 1916, nella prima edizione del Porto Sepolto, ora in G. Ungaretti, Vita d’un uomo, Milano,

Mondadori, pp. 43-45.

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mi levigava

come un suo sasso

Ho tirato su

le mie quattr’ossa

e me ne sono andato

come un acrobata

sull’acqua

Mi sono accoccolato

vicino ai miei panni

sudici di guerra

e come un beduino

mi sono chinato a ricevere

il sole

Questo è l’Isonzo

e qui meglio

mi sono riconosciuto

una docile fibra

dell’universo

Il mio supplizio

è quando

non mi credo

in armonia

Ma quelle occulte

mani

che m’intridono

mi regalano

la rara

felicità

Ho ripassato

le epoche

della mia vita

Questi sono

i miei fiumi

Questo è il Serchio

al quale hanno attinto

duemil’anni forse

di gente mia campagnola

e mio padre e mia madre

Questo è il Nilo

che mi ha visto

nascere e crescere

e ardere dell’inconsapevolezza

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nelle estese pianure

Questa è la Senna

e in quel torbido

mi sono rimescolato

e mi sono conosciuto

Questi sono i miei fiumi

contati nell’Isonzo

Questa è la mia nostalgia

che in ognuno

mi traspare

ora ch’è notte

che la mia vita mi pare

una corolla

di tenebre

Universo 10

Devetachi il 24 agosto 1916

Col mare

mi sono fatto

una bara

di freschezza

Commiato 11

Locvizza il 2 ottobre 1916

Gentile

Ettore Serra

poesia

è il mondo l’umanità

la propria vita

fioriti dalla parola

la limpida meraviglia

di un delirante fermento

Quando trovo

in questo mio silenzio

una parola

10

Pubblicata già nel 1916, nella prima edizione del Porto Sepolto, ora in G. Ungaretti, Vita d’un uomo, Milano,

Mondadori, p. 49. 11

Pubblicata già nel 1916, nella prima edizione del Porto Sepolto, ora in G. Ungaretti, Vita d’un uomo, Milano,

Mondadori, p. 58.

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scavata è nella mia vita

come un abisso

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EUGENIO MONTALE (1896-1981)

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato 12

l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco

lo dichiari e risplenda come un croco

perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,

agli altri ed a se stesso amico,

e l’ombra sua non cura che la canicola

stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,

sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.

Codesto solo oggi possiamo dirti,

ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

***

Meriggiare pallido e assorto 13

presso un rovente muro d’orto,

ascoltare tra i pruni e gli sterpi

schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia

spiar le file di rosse formiche

ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano

a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare

lontano di scaglie di mare

mentre si levano tremuli scricchi

di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia

sentire con triste meraviglia

com’è tutta la vita e il suo travaglio

in questo seguitare una muraglia

che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

12

Testo originariamente pubblicato in E. Montale, Ossi di seppia, Gobetti, 1925 (dalla seconda sezione, intitolata “Ossi

di seppia”); qui tratto da E. Montale, L’opera in versi, a cura di R. Bettarini e G. Contini, Einaudi, 1980, p. 27. 13

Testo originariamente pubblicato in E. Montale, Ossi di seppia, Gobetti, 1925 (dalla seconda sezione, intitolata “Ossi

di seppia”); qui tratto da E. Montale, L’opera in versi, a cura di R. Bettarini e G. Contini, Einaudi, 1980, p. 28.

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***

Cigola la carrucola del pozzo, 14

l’acqua sale alla luce e vi si fonde.

Trema un ricordo nel ricolmo secchio,

nel puro cerchio un’immagine ride.

Accosto il volto a evanescenti labbri:

si deforma il passato, si fa vecchio,

appartiene ad un altro…

Ah che già stride

la ruota, ti ridona all’atro fondo,

visione, una distanza ci divide.

***

Non ho mai capito se io fossi 15

il tuo cane fedele e incimurrito

o tu lo fossi per me.

Per gli altri no, eri un insetto miope

smarrito nel blabla

dell’alta società. Erano ingenui

quei furbi e non sapevano

di essere loro il tuo zimbello:

di essere visti anche al buio e smascherati

da un tuo senso infallibile, dal tuo

radar di pipistrello.

14

Testo originariamente pubblicato in E. Montale, Ossi di seppia, Gobetti, 1925 (dalla seconda sezione, intitolata “Ossi

di seppia”); qui tratto da E. Montale, L’opera in versi, a cura di R. Bettarini e G. Contini, Einaudi, 1980, p. 45. 15

Testo originariamente pubblicato in E. Montale, Satura, Mondadori, 1971 (dalla prima sezione, intitolata “Xenia I”);

qui tratto da E. Montale, L’opera in versi, a cura di R. Bettarini e G. Contini, Einaudi, 1980, p. 285.