LETTERATURA INGLESE – II GENERAZIONE DI ROMANTICI

64
LETTERATURA INGLESE – II GENERAZIONE DI ROMANTICI JOHN KEATS L’opera letteraria di John Keats si sviluppò in un tempo tragicamente breve: egli scrisse il primo componimento, da studente di medicina, nel 1814, e terminò con il sonetto “Bright Star”, del 1820, l’anno prima di morire. Echi di poesia spenseriana, chauceriana, miltoniana e shakespeariana si ritrovano nei suoi lavori, coadiuvati da influssi dei contemporanei Leigh Hunt, Wordsworth e Byron. In particolare, John apprezzava e frequentava il circolo di Clarke, animato da pensatori politici progressisti, artisti, poeti, giornalisti. Il perno di questo circolo culturale era Leigh Hunt, che avviò la carriera di Keats poeta pubblicando i suoi primi sonetti nel settimanale da lui diretto, l’Examiner. Grazie a Hunt, John ebbe la possibilità di confrontarsi con gli autori più noti ed apprezzati dell’epoca, quali William Wordsworth, William Hazlitt, Charles Lamb, Percy Shelley e il controverso pittore Robert Haydon. Nel primo volume pubblicato da Keats, “Poems” del 1817, i temi trattati erano la grandezza della poesia e i grandi poeti; problemi politici; scorci d’immaginazione; e un interesse ed entusiasmo particolari per la mitologia classica. Oltre a venti sonetti, la pubblicazione conteneva anche odi e spenserian stanzas. Keats dedicò il volume ad Hunt. “Poems” fu ridicolizzato dalla critica, che lo lesse come un parto della “Cockeny School” inaugurata da Hunt, poesia volgare e suburbana, nemica dello Stato e della Chiesa. Nel 1817 Keats, Shelley e Hunt si sfidarono, per vedere chi per primo fosse in grado di comporre un poema di 4000 versi. Keats fu l’unico a vincere, con Endymion, che rimane il suo più esteso componimento. Esso tratta di un principe-pastore che sogna incontri amorosi con una dea, e al risveglio è profondamente alienato dalla realtà. Nel prologo, lo stesso John ammette che Endymion è un lavoro immaturo, incompleto, non degno di essere pubblicato. Keats era irritato dall’egotismo e dal “didactism” di Wordsworth, tuttavia ne apprezzava il moderno senso di “passaggio oscuro” nella vita: i dolori, i dispiaceri, le oppressioni che né un romanzo come Endymion, né un’opera di filosofia morale come il Paradise Lost possono argomentare. Con questi pensieri Keats iniziò la stesura di Hyperion, come una deliberata revisione di Milton. L’eroe previsto del poema è Apollo, dio della conoscenza,

Transcript of LETTERATURA INGLESE – II GENERAZIONE DI ROMANTICI

LETTERATURA INGLESE – II GENERAZIONE DI ROMANTICI

JOHN KEATS

L’opera letteraria di John Keats si sviluppò in un tempo tragicamente breve: egli scrisse il primo componimento, da studente di medicina, nel 1814, e terminò con il sonetto “Bright Star”, del 1820, l’anno prima di morire.Echi di poesia spenseriana, chauceriana, miltoniana e shakespeariana si ritrovano nei suoi lavori, coadiuvati da influssi dei contemporanei Leigh Hunt, Wordsworth e Byron. In particolare, John apprezzava e frequentava il circolo di Clarke, animato da pensatori politici progressisti, artisti, poeti, giornalisti. Il perno di questo circolo culturale era Leigh Hunt, che avviò la carriera di Keats poeta pubblicando i suoi primi sonetti nel settimanale da lui diretto, l’Examiner. Grazie a Hunt, John ebbe la possibilità di confrontarsi con gli autori più noti ed apprezzati dell’epoca, quali William Wordsworth, William Hazlitt, Charles Lamb, Percy Shelley e il controverso pittore Robert Haydon.Nel primo volume pubblicato da Keats, “Poems” del 1817, i temi trattati erano la grandezza della poesia e i grandi poeti; problemi politici; scorci d’immaginazione; e un interesse ed entusiasmo particolari per la mitologia classica. Oltre a venti sonetti, la pubblicazione conteneva anche odi e spenserian stanzas. Keats dedicò il volume ad Hunt. “Poems” fu ridicolizzato dalla critica, che lo lesse come un parto della “Cockeny School” inaugurata da Hunt, poesia volgare e suburbana, nemica dello Stato e della Chiesa.Nel 1817 Keats, Shelley e Hunt si sfidarono, per vedere chi per primo fosse in grado di comporre un poema di 4000 versi. Keats fu l’unico a vincere, con Endymion, che rimane il suo più esteso componimento. Esso tratta di un principe-pastore che sogna incontri amorosi con una dea, e al risveglio è profondamente alienato dalla realtà. Nel prologo, lo stesso John ammette che Endymion è un lavoro immaturo, incompleto, non degno di essere pubblicato.Keats era irritato dall’egotismo e dal “didactism” di Wordsworth, tuttavia ne apprezzava il moderno senso di “passaggio oscuro” nella vita: i dolori, i dispiaceri, le oppressioni che né un romanzo come Endymion, né un’opera di filosofia morale come il Paradise Lost possono argomentare. Con questi pensieri Keats iniziò la stesura di Hyperion, come una deliberata revisione di Milton. L’eroe previsto del poema è Apollo, dio della conoscenza, della poesia e della medicina, un trio ben caro a Keats. I due libri terminati invece narrano della dolorosa sconfitta e caduta dei Titani e in particolare l’ansia e il tormento di Iperione conscio del suo destino. Quando Keats dovette procedere con il narrare di Apollo, il successore di Iperione, perse l’ispirazione. La riacquistò probabilmente con la morte del fratello Tom, ucciso dalla tubercolosi nel 1818, e nel 1819 Keats riprese in mano Hyperion e compose alcuni dei suoi lavori più ammirati: “The Eve of St. Agnes”, “La Belle Dame sans Merci”, “Lamia”, le Odi. A differenza dei suoi contemporanei, egli non scrisse mai saggi, ma espresse le sue idee tramite lettera. Molti concetti di critica e teoria letteraria, quali la “Negative Capability”, e il “egotistical sublime” li conosciamo grazie alla spiegazione che Keats ne dà nelle lettere indirizzate agli amici, agli editori, al fratello George in America.IL PRIMO KEATS: DELIZIA E LIBERTA’La carriera di John iniziò con la menzione in un saggio di Hunt sull’Examiner, intitolato “Young Poets”; Hunt aveva appena riacquistato la libertà dopo due

anni passati in carcere con l’accusa di diffamazione del Prince Regent e la vivace contestazione alla corruzione del regime Tory (Con il termine Tory è indicato il partito politico (opposto ai Whig) che si venne a creare nel XVII secolo in seguito alla fine della Repubblica di Cromwell, durante il regno di Carlo II.Essi erano chiamati ironicamente "banditi cattolici" e sostenevano che il potere parlamentare, seppur presente nello stato inglese, dovesse comunque essere meno forte rispetto al potere regio. Inoltre erano assolutamente contrari alla tolleranza religiosa, sostenendo che l'unica religione praticabile fosse l'anglicanesimo.). Hunt promosse una scuola poetica con l’intento di riformare la poesia ed estinguere in essa l’influsso francese e il neoclassicismo favorito dal regime Tory, di cui primo esponente era Pope. La scuola di Hunt voleva ritornare a valori antichi, “restaurare l’amore per la Natura, e pensare invece che meramente parlare”, per essere veri poeti e non solo versificatori.Il saggio di Hunt sui giovani poeti suscitò l’indignazione della Blackwood ‘s Edimburgh Magazine, che parlò della scuola fondata da Hunt , “uomo di poca cultura”, coniando il termine Cockney School. Le caratteristiche individuate nella poesia Cockney erano effeminatezza, volgarità, immoralità, e ovviamente inferiorità di classe sociale, motivi che spinsero il regime Tory a screditarla.POEMS, 1817: composto in tre sequenze: una serie di poesie rievocanti i romanzi spenseriani e la cavalleria, una serie di “epistole”(indirizzate ai lettori dei Poems come se fossero amici cui porre problemi circa la poesia) e una sequenza di sonetti (alcuni già pubblicati nell’Examiner). La poesia di Keats comprendeva elementi di cavalleria, mitologia classica, romanzo, tutti con caratteristiche huntiane. Nell’Examiner, spesso la mitologia , la “religone greca” era adoperata per suggerire una morale e i difetti teologici della religione nazionale in Inghilterra. Anche Wordsworth si avvalse della mitologia greca nelle sue opere, non con l’intento di fomentare una riforma politica ma per riflettere sulla nostalgia per la vitalità degli antichi miti. Keats amava ciò in Wordsworth. Quello che non sopportava era la moderna religione di egli: il quietismo con cui aveva accettato il conservatorismo politico.Dopo aver trattato di svariate coppie mitologiche (Cupido e Psiche, Pan e Siringa, Narciso ed Eco) Keats si concentrò sul mito di Endimione e Cinzia. In un sonetto il protagonista è presentato come una creazione della poesia, che ha un suo doppio nel poeta moderno “he was a poet, sure a lover too”. La storia d’amore tra Cinzia ed Endimione rompe l’editto di Giove che impone la castità alla dea della luna, e libera li amanti dai loro stati di isolamento. È immaginata una nuova era sulle cui forze naturali si innestano nuove promesse d’amore: è la gioiosa poesia di Hunt che si fonde con la keatsiana narrazione della liberazione dall’oppressione. Qualcuno ha scritto che la festosa unione di Cinzia e Endimione ha qualcosa dello spirito della Rivoluzione Francese. Gli altri componimenti sono stati definiti “imitazioni del romance spenseriano in moderno stile huntiano”.Il sonetto “Written on the Day that Mr. Leigh Hunt left Prison”, poi, è un’aperta dichiarazione di solidarietà ad Hunt e al suo attacco al principe reggente. In “Sleep and Poetry”, lamenta il passaggio dallo spirito classico in contrasto con la perdita della gloria dovuta all’attuale regime.ENDYMIONKeats stesso lo definì un “rito di passaggio”. Un “test” per la sua immaginazione e capacità inventiva. In tutto il poema si notano echi biografici con la figura del poeta: Endimione, ma anche Glauco, Giacinto, Ganimede, Adone…e perfino la dedica a Chatterton. Tutti sognatori, isolati dal mondo a

causa degli dei, scelti dal Fato, destinati alla celebrità. La Blackwood stroncò il lavoro come un’opera Cockney, una “masturbazione mentale”, onanista. Molti critici tendono a vedere Endymion come il punto ultimo del Keats immaturo, che sarà seguito dal Keats “canonico”, delle grandi Odi che tutti amano, e della Negative Capability”, del poeta che “has no charachter”.Alla risposta “Chi è un poeta?”, Wordsworth rispose “un uomo che parla agli uomini” (prefazione delle Lyrical Ballads). Keats sembra ribattere “è un ragazzo isolato dal mondo per mano divina”. Durante la descrizione della pergola di Adone, Keats/Endimione osserva come osserverebbe un dio: egli giunge sopra Adone addormentato e si innamora di lui, proprio come Diana giunse sopra il dormiente Endimione e se ne invaghì. Adone è solo il primo, in Keats, di uomini muti, seducenti..ma cosa vogliono gli dei? Da questi giovani dormienti? Un giovane che eluda i loro desideri, qualcuno da osservare in estasi mentre è addormentato. Qualcuno ha osservato che si prova imbarazzo dinanzi ai sognatori di Keats, perfetti e superficiali giovani che avvolti in sete e damaschi, seducenti col loro broncio nel sonno.Nonostante Endimione abbia in comune con Adone il sonno e la sottomissione ad un amore celeste, nel libro III si scopre che egli ha in verità un compito da assolvere: Endimione è investito di un ruolo messianico, è colui che deve resuscitare gli amanti, riportarli all’antico splendore. Primizia di quest’impresa è la storia di Scilla e Glauco. Inizialmente Endimione è perplesso e impaurito, la la storia narrata da Glauco, la sua disavventura con Circe lo porta a convincersi di avere davvero una parte in questa storia, e se ne compiace: “we are twin brothers in this destiny!”, e riconosce in Glauco un’”anima giovane con una maschera anziana”.Le critiche mosse al poema furono di volgare erotismo, mutuato dalla scuola Cockney, ed esibizionismo. Ma si può pensare più ad Endymion come ad un palazzo di cristallo, che non come a un luogo promiscuo e violentemente erotico. KEATS E LA “COCKNEY SCHOOL”Coniato dalla Blackwood, Cockney è un aggettivo dispregiativo che sottolineava la volgarità e la pochezza culturale della poesia di Leigh Hunt, secondo il recensore “uomo di poca cultura, quasi ignaro della cultura greca, latina ed italiana”. Faceva comodo ai nemici di Hunt fingere che egli non avesse idea di come comporre poesia, ma la verità è che egli aveva piena coscienza di quello che faceva; in un saggio intitolato “Una risposta al quesito: cos’è la poesia?”, Hunt scrisse che “la poesia è passione, immaginaria passione”, riecheggiando un’espressione di Wordsworth : “al lettore non è mai troppo spesso ricordato che la Poesia è Passione: è la storia o la scienza delle emozioni”.Nonostante Hunt la manifesta simpatia di Hunt per il poeta lacustre, egli si indignò quando nel 1814 Wordsworth cominciò a combinare in poesia realismo sociale e aspirazioni spirituali, eliminando gli originali propositi della poesia stessa. Hunt non condivideva l’idea di Wordsworth e Coleridge che la poesia potesse essere strumento politico: scrive per piacere, per amore del piacere, e per amore della morale, non per qualche specifico obiettivo. “I do not write, I confess”. Keats stesso cominciò a criticare Wordsworth, non per il motivo per cui lo faceva Hunt, ma perché gli imputava egotismo e vanità, nonostante egli riconoscesse ed amasse nella sua poesia (come anche Hunt faceva) il primo tentativo di rivivere e gustare la Natura.Nel Keats additato come Cockney dalla critica, si possono ritrovare echi wordsworthiani. È interessante, per paragonare la sua poesie e quella di Hunt,

comparare i due sonetti scritti sulla cavalletta e il grillo; sicuramente alcune espressioni del sonetto di Keats sono tipicamente huntiane, ma Keats risulta più meditativo dell’amico. Il cantare del grillo trasporta il lettore dal gelido inverno all’estate rigogliosa, dove il poeta solo immagina di ascoltare la canzone della cavalletta. Invece di una scena di diretto ascolto, Keats presenta l’immaginazione del poeta. E questo è molto più wordsworthiano che huntiano. Per Wordsworth, una “philosophic mind” si guadagna con la sofferenza, e ciò è parecchio distante dal credo del piacere di Leigh Hunt. Keats è in questo molto più affine a Wordsworth. Nella “Ode” Wordsworth avanza un’idea di anima predestinata e preesistente. Allo stesso modo Keats parla di un mondo di dolore necessario perché si forgi l’anima. “a place where the heart must feel and suffer in a thousand diverse ways!”. È riecheggiata la frase di Wordsworth “la sofferenza è costante, oscura, e ha la natura dell’infinito”.ISABELLA, LAMIA E LA VIGILIA DI ST. AGNESEContenute nell’ultimo volume di poesie pubblicato in vita da Keats, rappresentano un annuncio dell’abbandono della poesia del piacere, per trattare dell’agonia, del tormento del cuore umano, materia tipicamente riservata all’epica e alla tragedia. I romances del 1820 continuano tuttavia la campagna Cockney per riformare cultura, politica e poesia. Isabella è parte di un progetto iniziato con Reynolds, volto a riadattare le novelle del Decameron di Boccaccio. Insieme alla Vigilia di St. Agnese, abbraccia il progetto Cockney di adoperare la tradizionale letteratura italiana per riformare quella inglese(Keats definì Isabella un “tentativo di fare mutare la vecchia prosa in rima moderna, più dolcemente”). Primo frutto di tale progetto fu il riadattamento di Hunt dell’infelice storia di Paolo e Francesca, nella “Story of Rimini”, seguito dall’”Epipsychidion di Shelley, che tratta dell’amore libero dal controllo patriarcale. La Vigilia contiene qualcosa dell’erotismo sensuale della Story of Rimini, e anche con l’opera di Shelley, poiché simpatizza per l’amore ribelle alle ristrettezze sociali.L’erotismo in Keats non è un potere di dubbio incanto ma una connessione col mondo fisico. In Lamia, l’amore assapora tutte le sfumature del desiderio, della gelosia, della violenza. Renèe Girard lo chiama “triangolo del desiderio”: il desiderio non è mai schietto e limpido, ma veicolato da altri fattori: dai sogni derivati dalla lettura dei romanzi, dal desiderio di qualcun altro (lo voglio perché lui/lei lo vuole). L’Hermes di Keats in Lamia desidera la ninfa perché “a world of love was at her feet”. Lamia e Lycius formano una sorta di paradiso dal quale ogni altra cosa è esclusa. Sembra che essi siano immuni al triangolo del desiderio. Ma il mondo esterno prepotentemente invade questo idillio e Lycius viene svegliato da questo sogno di eterna passione da “uno squillo di trombe”. Lycius cambia prospettiva e comincia a vedere Lamia come un premio invece che un oggetto di beatitudine. Insinuato quindi il triangolo del desiderio, Lycius scopre il piacere della dominazione. Eros turns to violence. La presenza di Apollonio, un pitagorico vissuto nella prima era cristiana, rappresenta per Keats il passaggio dall’età classica a quella cristiana. Egli riduce il sublime ad oggetto di scienza, freddo. Apollonio è il non plus ultra del triangolo del desiderio: qualcosa acquista valore solo in prospettiva di qualcos’altro (Dio,la Verità, l’Altro).Isabella mostra cosa accade quando un amore non veicolato dalla violenza è ucciso dallo spirito di “money-getting”. Molti critici han riconosciuto in questo testo un attacco alla società ossessionata dal denaro. Lorenzo e Isabella sono presi in mezzo all’economia opprimente tipica del loro mondo. Molti hanno riflettuto a lungo sull’esperienza amorosa di Isabella con Lorenzo morto, e il

suo attaccamento al vaso di basilico. Forse ella è più felice ancora, poiché possiede l’oggetto d’amore perfetto, “jewel, safely casketed”.Anche nella Viglia Porfiro e Madeline consumano il loro amore osteggiati dai parenti e dalla società. Madeline è come Lycius incantata dalla fantasia della promessa della Vigilia, Porfiro un raggiratore. Porfiro agisce così per mostrarle come la realtà fisica e l’abbondanza delle sensazioni terrene sono dolci e meravigliose. Ma quando Madeline sveglia vede il suo amante solo una pallida imitazione di quello che era il suo amante ideale. Porfiro offre a Madeline una scappatoia dal mondo reale, il sesso. Esso conduce in un altro reame, di incubi e morte.Tutti insieme, Lamia, Isabella e la Vigilia costituiscono una critica alla società che reprime il desiderio, con un’argomentazione sull’eros come potere di trasformazione. Questo fu oggetto di attacchi feroci e accuse di libertinismo, volgarità, giacobinismo.IPERIONE E L’AMBIZIONE EPICA DI KEATSKeats aspirava ad una poesia in grande. Tuttavia era frenato, e guardava ai grandi poeti del passato, primo su tutti Milton ,con discrezione e desiderio. Cominciò Hyperion nel 1818, lo abbandonò nel 1819 e lo ricominciò alla fine dello stesso anno. Negli ultimi anni aveva patito l’enorme dolore della morte del fratello, Tom, e si era invaghito di Fanny Brawne. La sua opera tratta dell’intervallo tra la caduta dei Titani e l’imminente caduta di Iperione, destinato a lasciare il posto ad Apollo. Il poema inizia con la caduta di Saturno (un’eco al virtuale detronamento del pazzo re Giorgio III e l’era nascente di agitazioni civili per una riforma parlamentare, che raggiunse il climax nell’attacco militare ad un gruppo di manifestanti a St. Peter’s Fields a Manchester (una debacle rinominata Peterloo). Hyperion stesso richiama la figura di Napoleone, con il suo regno magnifico e la sua disfatta a Waterloo.Saturno, come Lear, o può essere re oppure niente. Come Napoleone, sulla starda di Waterloo, può solo sperare di ritornare alla grandezza mediante altre vittorie. Quensti Men of Power non sono in grado di comprendere il progresso del mondo, al contrario dei Men of Genius, che influenzano l’umanità dispensando la filosofia illuminista, di cui Wordsworth e Milton sono leader. Wordsworth col suo esplorare i passaggi oscuri dell’animo umano, senza discernere cosa è bene da cosa è male, ma piuttosto accettare il fardello del mistero e della sofferenza. La filosofia di Milton è inferiore, poiché questioni circa il bene e il male, vizi e virtù , dannazione o redenzione non contribuiscono a perfezionare il progresso. Oceanus è volutamente non-miltoniano, non-teologico per questo motivo. Quando si parla della colomba innevata, non è vista come un simbolo cristiano di purità e castità, ma come semplice ed intensa bellezza. Iperione è studiato come una galleria di studi sul dolore: per la dea Clymene non è tanto la perdita del vecchio e del familiare, ma la stranezza del nuovo.Inoltre, le azioni in Iperione sono già accadute (la rivolta degli Olimpi), o in procinto di accadere (il duello tra Apollo e Iperione). Il poema è un intervallo di reazioni. Quel che Keats vuole ottenere con Iperione è l’estetizzazione del dolore, presentare la sofferenza più bella della stessa Bellezza. Il crepuscolo degli dei drammatizza le sensazioni piuttosto che le azioni.È probabile che qui Keats abbia usufruito della poesia come terapia, trasponendo in miti impersonali i fatti mortali della sua insicurezza e agitazione. Saturno incarna il sublime egotismo che per Keats era l’anti-personaggio poetico. Nel III libro la nascita di Apollo è un tripudio di rose, venti,

vino, dolore e piacere si mescolano. Nei libri I e II Keats enfatizza la caduta degli dei, come se essi fossero trasposizione dell’insostenibile idea dei nostri poeti morti, e il suo fratello morto. Interrompendo il poema circa venti righe dopo la dichiarazione di immortalità di Apollo, Keats sembra riconoscere di non poter produrre più potente poesia del cuore umano.La revisione del poema diventa una psicomachia, un dibattito mentale sulla funzione e il valore della poesia. I poeti sono sacerdoti-re, che portano la sofferenza al servizio della collettività per edificarla. Il poeta-protagonista dell’opera spera di portare saggezza, guarigione. La trasformazione di Apollo è una percezione nuova, umana, che eleva al divino. E dopo questa prova, il poeta è subito ricompensato, o maledetto, quando Moneta si rivela a lui, e l’immaginazione è arrestata da quella visione. È alquanto ironico che colui che è stato scelto per far rivivere la potenza del mito, per vivificare le statue, sia ripagato con questa estinzione dell’immaginazione. Moneta subito tace come una pietra, il soprannaturale strizzerà via la vita da te. Entrando nel reame del mito, il poeta è fiducioso del suo compito, rivendicando la disposizione di un occhio di aquila, per vedere come vedono gli dei. Nella riedizione, Keats corregge con “vedere come un umano vede”.saturno è umanizzato perché le sue sofferenze riflettono le sofferenze degli uomini.Il motivo per cui Keats interruppe l’opera, per sua stessa affermazione, fu che era “troppo miltonica”.LE ODITradizionalmente, le odi erano celebrazioni di un soggetto esterno. Caratteristiche peculiari sono l’apostrofe (una figura retorica e si ha quando un personaggio o la voce narrante si rivolge ad un uditore ideale diverso da quello reale al fine di persuadere meglio quest'ultimo) e la personificazione. Le odi di Keats ricercano la compartecipazione del lettore, poiché a parer suo la poesia deve penetrare nell’anima di chi legge, e fecondarla.La più allegra è l’”Ode a Psiche”, composta “con calma, e con moderata sofferenza. È considerata un’anteprima delle odi che verranno, ha forma irregolare, tratta le divinità classiche: Psiche stessa gioca ruoli diversi: vittima del processo storico, divinità trascurata dai Romani, Keats la redime come suprema sacerdotessa. Il suo nome è allusivo del significato di “anima” o “mente”, nella tradizione neoplatonica perpetrata da Apuleio. Keats incorpora tutto ciò in una moderna e sensibile dea erotica e sensuale. Nella prima stanza la luce soverchia il buio, è finito il tempo in cui l’amore tra i due amanti era segreto, dopo molti patimenti essi possono godere l’un l’altra liberamente. Tutta l’ode è una celebrazione non solo della coppia classica, ma anche del loro doppio moderno, la coppia John-Fanny. L’elaborato concetto dell’ultima sezione anticipa la futura revisione di Iperione rilocando il mito nell’immaginazione del poeta. Tutti i quattro sensi sono coinvolti nell’ode, ma l’evanescente mitologia classica lascia lo spazio alla vivida immaginazione del poeta, e al mondo dell’esperienza sensibile. Keats inserisce in uno stesso verso le parole “conched” e “couched”, come se fosse un’eco, le parole del desiderio e della poesia diversificate solo dalle lettere speculari u e n.“Ode ad un usignolo” è invece stata scritta velocemente, completata secondo Brown in tre o quattro ore. Cruciale è la decisione di Keats di abbandonare il verso irregolare in favore di stanze, che meglio si adattano all’impulso passionale e creativo della scrittura del poeta. Inventò una nuova stanza di dieci strofe: un ibrido tra il sonetto shakespeariano e il sestetto petrarchiano, più lunghe delle stanzas spenseriane della Vigilia di St. Agnes. Il risultato deve

averlo soddisfatto, dal momento che avrebbe usato questa forma per le rimanenti grandi odi. Tre sono i personaggi principali sullo sfondo dell’ode: l’uccello, il poeta-narratore e “the fancy”, l’immaginazione. Quest’ultima è dei tre la più evanescente, maliziosa, capziosa come il Puck shakespeariano. L’usignolo, invece, è ammirato per quel che non è. Il poeta riceve la sua musica solo quando essa è finita.L’ode comincia con la gioia dell’usignolo, troppo intensa per essere durevole. La prima metà del componimento è dedicata al desiderio del poeta di fuggire da se stesso e dalla sua umana condizione. Nella terza stanza vengono esposti quei patimenti che Keats ammise essere necessari alla crescita dell’anima umana. Nell’ultima metà, i desideri del poeta sono castigati.La “easeful Death” richiama il linguaggio spenseriano, col suo duro rifiuto del suicidio. L’aggettivo “darkling” evoca il cieco Milton e il Paradise Lost e apre analogie tra i due componimenti e i due ciechi componitori.Keats usa lo stacco tra una stanza e l’altra per drammatizzare la contrapposizione tra la mortalità del poeta e l’immortalità dell’uccello:

Still wouldst thou sing, and I have ears in vain –To thy high requiem become a sod

7

Thou wast not born for death, immortal bird!

L’ode non offre una codifica per il suo dramma: “do I wake or sleep? Non conclude nulla se non l’ode stessa, e la sua alleanza con l’evanescente musica dell’usignolo. “Ode a un’urna greca” ha il suo soggetto, l’urna appunto, più incastonato nella storia rispetto al precedente usignolo immortale. Pare essere un’invenzione di Keats, con disegni da lui immaginati e decorazioni varie che ha visto in oggetti simili. A molti quest’ode è sembrata riecheggiare il vero spirito degli Antichi. Il poeta narrante è impersonale (nessun “Io…”. Con la descrizione ekfrastica dell’urna, Keats dimostra il potere della poesia paragonato a quello dell’arte “spaziale”: la pittura, la scultura. Solo la poesia instilla vita nel soggetto, calore, come il respiro che anima le figure dipinte sull’urna. Le prime tre stanze elargiscono dolore in abbondanza. La quarta e la quinta presentano la metamorfosi dell’urna nell’ideale, ma inumano, artificio. Il poeta “legge” l’urna come noi leggiamo l’ode. La sua lettura modella la nostra. La sottilmente ironica constatazione/consolazione “she cannot fade”. Un’immagine dell’urna mostra una scena di purificazione, un rituale che precede il sacrificio. L’immaginazione si fissa sulla piccola città e i suoi abitanti, strade desolate, ed è proposto l’annoso quesito se l’arte ideale sia da preferirsi alla Natura o il contrario. Nel famoso chiasmo “Beauty is Truth, Truth Beauty” c’è l’intenzione di identificare due astratti sostantivi.“Ode on Indolence” è stata scritta in un momento in cui le pulsioni che animavano la vita di Keats si erano arrestate per un attimo: Amore, Ambizione e Poesia. L’indolenza di Keats è comunque feconda, genera qualcosa che potrebbe apparire come disperazione. L’intento è riconciliare l’indolenza con la pigrizia, per presentare l’inattività come qualcosa di creativo. Celebrata come l’apatia (l’assenza di ogni emozione) l’indolenza smussa l’energia.“Ode on Melancholy” abbonda di immagini associate, emblemi e citazioni letterarie, da Milton “L’Allegro” al disordine mentale e fisico analizzato da

Burton “Anatomy of Melancholy”. Invece di invocare la dea Melanconia, il poeta si rivolge al lettore, identificandosi come un devoto della melanconia, e il lettore è iniziato a segreti rituali, i misteri del suo culto. Le tre stanze seguono un ordine logico, non drammatico. 1. Abbandono della ricerca dell’oblio o della morte. 2. Nutrirsi di bellezza, nonostante sia fugace. 3. Ammettere la sovranità di Melanconia e fare di te suo trofeo. C’è molto più che una semplice riconoscenza del dolore come “piacere”, come è in Ode to Psyche; qui si mira a guadagnare “l’angoscia dell’anima”. Invece di lamentare l’indissolubilità di piacere e dolore, come in altri poemi, qui egli lo stipula.In “Ode to Autumn” si ritorna alle tematiche di Ode to Psyche, le problematiche epiche. A diseptto del suo mimetico naturalismo, l’ode riprende una ricca tradizione georgica che rimanda a Chatterton, Thomson, e Virgilio. Tuttavia Keats bandisce il lessico latineggiante di stampo miltonico e umanista, e si avventura in un lessico più domestico, agricolo, che richiama quello di Chaucer. Scompare la frustrazione causata dal desiderio di Nightingale e Urn, e l’immaginazione sembra finalmente godere di ciò che l’occhio vede e la Natura offre. Il sesso dell’Autunno non è determinato, è il lettore a deciderlo. Anche se è l’Estate ad essere nominata, sappiamo che l’inverno sta per giungere. La stanza seocnda è dedicata all’occhio, e implicitamente all’arte sorella della poesia, la pittura, la terza all’arte temporale della musica, in cui il poeta respinge la nostalgia. Keats riconcilia la poesia alla filosofia.LE ULTIME OPERE E LE LETTERESe la poetica maschile è sempre stata contraddistinta dalla dominazione o almeno dall’occultamento del femminile, Keats in Physician Nature ribalta questo stereotipo. Scritta nel febbraio del 1820, probabilmente dopo la prima violenta emottisi. Nel componimento “On the Sonnet” egli invita i compagni poeti a non lasciare che la loro Musa muoia. La figura di Andromeda, destinata ad essere uccisa da un mostro marino, è liberata dal doppio del poeta, che cavalca il Pegaso rappresentante l’ispirazione crescente. Questa allusione mitologica apre un’interessante discussione sull’intento di Keats di avvicinarsi ad una poesia più effeminata.Per i critici di Keats, le sue lettere hanno costituito un prezioso supplemento alla sua poesia, presentando varianti, commenti sulla genesi dei componimenti, “speculazioni” sulla natura del poeta e della poesia e sui successi di colleghi predecessori e contemporanei. La prosa delle lettere, si è osservato, è simile a quella del Prelude di Wordsworth, nonostante sia essa pregna tanto di linguaggi elevati e ispirati quanto da slang o parlate quotidiane. Alcuni temi altamente filosofici trattati da Keats per lettera sono stati: la Negative Capability, la vita come Casa dai molti antri, la Valle che forgia l’anima. Raramente in poesia Keats ha ammesso il tono colloquiale o quotidiano (Brown che gli rimproverava i discorsi affettati tra Endimione e la sorella Peona), mentre nelle lettere sovente ne fa uso. Scrivendo ad amici e parenti sperimenta un “relax poetico”, gioca con le parole, critica, senza curarsi di usare uno stile molto vicino a quello del parlato. Nelle lettere egli riporta frammenti di componimenti, suoi e di altri, e conversazioni, storie riguardanti il circolo da lui frequentato. Questo perché era molto importante mantenere un contatto coi fratelli lontani, e perché lui trovava nelle lettere ispirazioni, esercizi per comporre.LE FONTIKeats amava dei sonetti shakespeariani il fatto che essi fossero pieni di cose sublimi dette inconsciamente. Aveva in Chatterton il modello perfetto di poesia inglese, puro e incontaminato da influssi stranieri.Secondo Wordsworth, la

nostra eredità più preziosa è il potere della percezione: più importante di tutti i sensi, l’occhio e l’orecchio. Keats invece credeva che l’eredità più grande fosse la poesia inglese stessa. Egli sentiva una sorta di fratellanza coi colleghi, poiché è grazie all’”altro” che un poeta diviene tale. Le allusioni, ciò che un’altra persona produce, sono cruciali per il poeta, che le deve registrare e trasformare in arte. Keats amava le allusioni, e ne sono pregne tutte le poesie e anche le lettere.Endymion:

Look not so wilder’d; for these thigs are treu,and never can be born of atomies

that buzz about our slumbers, like brain-fliesQuesti atomi sono un’invenzione di Shakesperare, che mette in bocca a Mercuzio:

Drawn with a team of little atomiesAthwart men’s noses as they lie asleep

Tuttavia, le allusioni non sono cruciali per comprendere il pensiero di Keats. Sono un “bonus”, qualcosa che chi riconosce può godere, ma non sono necessari ai fini della comprensione.In Ode to a Nightingale, poi, è palese la citazione shakespeariana da Midsummer Night Dream: i fiori, le violette, le rose muschiate, la notte buia, il dolce che non è dolciastro, il selvaggio non pericoloso. Tutto ciò è stato trapiantato dal giardino di Shakespeare e quello di Keats. Egli è profondamente toccato dal modo in cui Shakespeare dà voce ai sentimenti e li rende veri, reali. Parlando in una lettera della Negative Capability, egli la definisce la capacità di vivere e godere dell’incertezza, dei dubbi, e indicava Shakespeare come il più dotato di questa capacità.KEATS E L’ECFRASTICOEsso la poesia keatsiana prende forma ecfrastica, ovvero la descrizione verbale o retorica di un oggetto d’arte: l’urna funeraria, gli Elgin Marbles, e spesso i personaggi dei poemi di Keats sono trattati come veri e propri oggetti d’arte (Madeline della Vigilia, o i Titani in Iperione: Thea e Saturno sono presentati come sculture la cui possente e pesante materialità ci ricorda che non sono più dei). Orazio amava affermare che la poesia è un dipinto parlante, e i dipinti sono poesia silente. Interessante è a questo proposito un saggio di Lessing, “Sui limiti della pittura e della poesia”. Secondo la sua opinione, la poesia è rivale della pittura, ed entrambe sentono una mancanza da colmare: per questo la poesia abbonda di descrizioni, e la pittura di allegorie. In ogni caso, la poesia ha il pregio di comunicare una storia, mentre la pittura può al massimo mostrare un momento significativo di una storia, e chi osserva è costretto ad immaginare il resto.Keats evocava invece una storia dal momento cristallizzato nell’opera d’arte. L’ecfrastica ha questo dono, di poter ampliare e narrare qualcosa che è immobilizzato. Comparata ad un classico prototipo greco (Idyll di Teocrito) , l’ode all’urna greca risulta diversa: nell’Idyll, un capraro descrive una coppa di legno intagliata, e afferma che la regalerà a Thyrsis se questi canterà bene. Teocrito non si limita a descrivere gli intarsi della coppa, ma ci dice cosa fanno le figure umane raffigurate, cosa pensano, cosa dicono. Nell’Ode all’Urna Greca, Keats inizia presentando varie personificazioni dell’urna, e include un riferimento all’annosa rivalità tra arte visiva e arte verbale, e quindi si interroga sulle figure statiche che osserva dipinte sulla superficie dell’oggetto. Al contrario del narratore Teocrito, Keats rimpiazza la sua conoscenza con interrogativi che si limitano all’esteriorità: fa ipotesi sul significato dei disegni.

Teocrito avverte Thyrsis che sarebbe una vergogna non cantare, poiché nessuno canta nell’Ade. L’urna di Keats è evidentemente (ma non esplicitamente) un’urna funeraria.Endymion ha invece parecchie affinità col romanzo di Spenser The Faerie Queene, squisitamente pittorico ed ecfrastico. Keats nota che l’ecfrastica potrebbe occultare gli orrori morali e fisici dietro a un luccicante, seduttivo schermo verbale.KEATS E LA POESIA INGLESEKeats si identificò con il Troilo di Chaucer nel suo amore per Fanny Brawne. I suoi interessi in poesia tendevano ad essere le atmosfere medievali e l’amore dilaniante, tema assai caro a Chaucer. In Endymion c’è un riferimento a Troilo e Cressida nell’apologia che Keats fa dell’amore e del suo sopravvivere più degli onori della guerra nel cuore e nella memoria degli uomini (riferimento anche a Shakespeare).Tuttavia, il suo primo poema fu Imitation of Spenser, in stanze spenseriane. E tuttavia il più grande amore sarebbe stato sempre Shakespeare, per la grande affinità che sentiva con lui: ammirava il modo in cui la poesia era magistralmente accompagnata dalla psicologia, dal potere politico, e come Shakespeare riusciva a scrutare dentro al cuore dei suoi personaggi, e la sua profonda conoscenza della sofferenza e dell’umana esperienza. Come Spenser, Shakespeare fu un genio della poesia della bellezza. La Negative Capability che Shakespeare aveva in abbondanza consisteva nell’identificarsi con gli altri e tuttavia rimanere nell’incertezza, nel dubbio. Saturno ricorda Lear, il grande re privato della sua autorità, e “the voice I hear this passing night” in Ode a un Usignolo può essere associata al discorso di Bassanio (che Keats sottolineò) sulle sofferenze patite da amanti antichi “In such a night as this”. E il tema dell’accettazione della sofferenza, anch’esso fu presente in Shakespeare, e colpì Keats: “Ripeness is all” (King Lear) vs “ripening…the ripe hour came” (Hyperion). L’Autunno non deve’essere accolto come presagio di morte, ma come momento di maturità del cuore (To Autumn).Il Paradise Lost i Milton fu il gran capolavoro epico cui Keats aspirò sempre, e mai raggiunse. Con la sua favola di impotenti Titani, il magnifico linguaggio, e l’opprimente aura di costrizione che pervade Iperione, sembra di assistere ad un frammento del tortuoso e complicato confronto di Keats con Milton.Burns e Chatterton furono altre due importanti influenze: la morte del secondo e il suo vivace linguaggio impressionarono Keats, che lo nominò il più importante poeta inglese dopo Shakespeare. Chatterton era il più puro dei poeti inglesi, senza idiomi francesi, e si occupò della condizione di mutabilità e sofferenza che anche Keats abbracciò.BYRON LEGGE KEATSByron considerava la Cockney School, cui Keats era costantemente associato, una sorta di costola nata dalla Lake School, e Keats un “girino” della Lake School (opinione condivisa da Shelley, che salvò di tutte le opere di Keats solo Iperione). Questo pregiudizio di entrambi li portò probabilmente a considerare Keats non in qualità di poeta singolo, ma di riempire la sua figura di quei preconcetti. La bassa classe sociale di Keats e le recensioni spietate dei magazines non fecero altro che alimentare il fuoco. I critici hanno ipotizzato che le violente aggressioni a Keats da parte di Byron fossero dovute ad un imbarazzante apprezzamento del secondo sul primo. In un tratto del Don Juan si può riconoscere un’impronta keatsiana: when amatory poets sing their lovein liquid lines mellifluously bland,

and pair their rhymes as Venus yokes her dovesthey little think what mischief is in handVS Isabella:So said, his erewhile timid lips grew bold / and poesied with hers in dewy rhymeLe “liquid lines” di Byron sono testimoni della sublimazione della saliva in “dewy rhyme” di Keats. Questi versi sono estremamente Cockney a causa della loro eroticità. Inoltre, come Keats, Byron afferma i piaceri del poetare come un metro per misurare tutti gli altri piaceri della vita. Dietro a molte critiche, si può riconoscere più di un comune impulso poetico. Keats prende il materiale mitologico del Prometheus Unbound di Shelley per tracciare la storia del progresso inesorabile artistico e del potere in Iperione: una vecchia generazione di governatori viene rimpiazzata da una nuova, più vitale generazione di dei, come vuole il corso della Natura.KEATS E I GENERI M/FNumerosi recensori commentarono l’opera di Keats riconoscendola effeminata, giovanile, puerile. Egli mise in discussione gli schemi fissi del maschile e del femminile, occupando una posizione idealmente “femminile” nei suoi scritti, sfumando le distinzioni tra i due sessi. Giocò un ruolo decisivo anche la vita che il poeta condusse, guidando i fratelli minori come una madre, accudendo Tom durante la malattia. Quando le lettere furono pubblicate, nel 1848, questa visione di Keats effeminato si ingrandì ulteriormente: Keats affermava di identificare il concetto di Poesia e il poeta come qualcosa di femminile. Egli contrasta la mascolina costruzione di Wordsworth riguardo al sé: stabile, completa, unitaria, e la associa ironicamente al vanaglorioso e sbruffone Aiace (Shakespeare, Troilo e Cressida – “he is a very man per se / and stands alone”). Keats identifica il sé poetico nelle caratteristiche del fluido, dell’inconsistente, incostante. La Negative Capability è la capacità di un uomo di stare nell’incertezza, e tuttavia la vera caratteristica del poeta è l’empatia, una qualità generalmente associata al sesso femminile, soprattutto ai suoi tempi. Keats sovente associa il processo creativo ad una gravidanza, e la stesura di un’opera ad un parto.Ripetutamente nei suoi lavori egli assegna il possesso di bellezza, potere e saggezza al sesso femminile, e cerca di stabilire una distanza tra il poeta maschio e l’oggetto del desiderio femmina, per conservare la propria mascolinità. Ode To Psyche termina con una affermazione di sessualità femminile, “casement ope at night / to let the warm love in!, occupando la posizione di entrambi il maschio e la femmina: egli ha penetrato e ricevuto, posseduto la sua stessa Immaginazione, il suo stesso “shadowy thought”.Anche in Ode all’Indolenza è riscontrabile questa mescolanza di sessi: in principio egli pone il poeta maschio in una posa tipicamente femminile, passiva, indolente, che attende, mentre tre figure vestite di bianco gli si presentano dinanzi, due delle quali (Amore e Poesia) sicuramente femminili, e forse anche la terza Ambizione. Non a proprio agio cerca di prendere le distanze da certi componimenti sentimentali scritti da donne (Robinson, Tighe) e cerca di insistere su una più virile dimensione dell’indolenza. Ma questo addio ai tre spiriti sembra un confidenziale ritorno ad un tipo di poesia che egli ama, piuttosto che una insofferenza ad esso. Avendo allontanato l’azione virile (Ambizione) e la produzione femminile (Poesia), Keats rimane senza genere, senza un soggetto poetico.Nonostante il suo avvicinamento a produzioni che la storia aveva tradizionalmente individuato come “maschili” (l’epica miltonica, la tragedia

classica, la commedia shakespeariana), egli è sempre stato attratto da forme associate a poetesse: sonetti, odi, romanzi. Le emozioni, la bellezza della natura e dell’arte, il processo creativo. Le sue Grandi Odi si focalizzano continuamente sul potere femminile. È femminile l’urna greca, l’usignolo che col suo canto regala al poeta un momento di perfetta felicità, la Melanconia che ci insegna ad apprezzare la gioia e la bellezza ricordandoci quanto fugaci esse siano. E l’Autunno, che Keats ha in una lettera descritto come “chaste weather, Diane skies”, è femminile. In ognuna di queste odi il poeta cerca di penetrare e possedere il potere contenuto nell’oggetto femminile: la creatività di Psiche, la verità e la bellezza dell’urna, l’apprezzamnto di mutabilità della melanconia, l’accettazione della morte e della saggezza che è tutto, tipiche dell’Autunno. Il poeta cerca una fusione col simbolo femminile, per poi ammetterne l’impossibilità. Avendo identificato l’oggetto del desiderio come femmina, egli è spinto a riconoscerne una distanza. L’usignolo è fuggito; il messaggio dell’urna è leggibile solo da chi si è sottratto alla storia ed è divenuto oggetto d’arte; la melanconia è visibile solo da colui che è in grado di schiacciare contro il palato il grappolo della Gioia.Nelle Odi Keats momentaneamente occupa i panni di una donna, ma non come transessuale: lui non può diventare femmina.Continuamente Keats ritorna a forme poetiche femminili durante la sua vita: i poemi del 1820 Lamia, Isabella, The Eve of St. Agnes sono scritte nella forma del romance. In essi Keats cerca di sviluppare una più virile versione di questa forma femminile. Nella Belle Dame Sans Merci il cavaliere ama la bella dama, per poi perderla. Perché? La spiegazione offerta dal poema è un sogno, in cui lui ode le voci di altri uomini: la colpa è della donna, la dama ha sedotto e abbandonato l’innocente cavaliere, e come lui altri. E tuttavia sono loro a narrare la storia, sono l’unica versione dei fatti presentata. La Belle Dame non parla. Il poema è un assalto e una calunnia ad una donna che non può difendersi. Secondo la psicologia, questo è un tentativo di avvicinarsi ai colleghi poeti, e rifiutare così la sua inclinazione al favorito oggetto poetico. In Lamia questo conflitto è ancor più evidente. Le simpatie dei lettori sono allontanate dal personaggio femminile: l’amore di Lycius per Lamia lo sottomette ad un potere circiano, demoniaco: Lamia infatti può vedere gli dèi, far comparire o scomparire una ninfa, e perciò è associata all’immaginazione. Ha il potere di trasformare l’invisibile in visibile, soddisfare desideri degli dei, ricreare le convenzioni di un romance (amore passionale, palazzi incantati..). per Keats il processo creativo è inesorabilmente associato alla biologia femminile e alla produzione femminile: ance in Iperione, egli continua ad assegnare il possesso di bellezza e saggezza alle femmine. Nell’Iperione Keats cerca di assumere le vesti del virile poeta epico, adottando il blanke verse miltonico. Ma lo stile miltonico non si confaceva alle inclinazioni riflessive di Keats, che tendevano a lasciare aperte le questioni, e il poema si interrompe appena dopo aver proclamato la superiorità di Apollo, in virtù della sua bellezza derivata dalle sofferenze e dalla saggezza.KEATS E IL CORPOKeats divenne apotecario in un tempo in cui l’insegnamento della medicina stava subendo una riforma, completando gli studi all’ospedale Guy, uno dei più avanzati ospedali in cui si insegnava. Con Darwin, la scienza e la medicina presero un tratto “romantico”, con un’attenzione particolare alla forma organica e all’ethos naturalistico molto affini agli impulsi artistici. Alcuni fiori descritti da Keats hanno proprietà mediche, e ciò ci mette di fronte alla relazione che egli ha avuto con i suoi studi medici. Anche i fenomeni mente-

corpo giocarono un ruolo importante nella carriera medica e poetica di Keats, in un tempo in cui si cominciava a mettere in relazione le due cose: osservare come l’imbarazzo o l’eccitamento sessuale producevano negli uomini fenomeni fisici permise di riflettere su quanto mente e corpo fossero legati. Inoltre, “there is richer juice in poison-flowers” era un luogo comune della farmacologia dell’epoca.Ode a Psiche, che celebra la nascita dell’ultima dea assunta sull’Olimpo, rimanda all’anatomia del cervello e alla psicologia che cominciava a muovere i primi passi. Nell’ultima stanza, il poeta descrive la mente ponendola in relazione col cervello grazie ad una serie di metafore : “wild-ridget mountains, dark cluster’d trees”.. i “fiumi” menzionati paiono rimandare ai flussi sanguigni che cooperano col cervello. Keats fu uno dei primi poeti inglesi ad associate l’idea di mente, pensiero a quella di cervello.Le sue conoscenze della sofferenza umana anche fisica, la sua inclinazione a volere il bene per chiunque, lo portarono a considerare il mondo un sorta di grande ospedale, la cui cura fondamentale era però la poesia. Il poeta è il guaritore.

SKETCHESMentre gli aspetti più esteriori del gusto romantico erano divulgati dappertutto dai poemi del Byron e dai romanzi dello Scott, gli aspetti più intimi della sensibilità romantica trovavano espressione, dopo il Coleridge, nell’esotismo classicheggiante di John Keats. Nato a Londra di umili origini, soltanto tra i quindici e sedici anni il Keats sviluppò l’amore per i libri e la poesia. Mortagli tisica la madre (suo padre, stalliere che aveva sposato la figlia del padrone della rimessa, era morto nel 1804), fu messo dal tutore come apprendista presso un chirurgo, ma intanto le letture, specialmente della Faerie Queene dello Spenser, gli rilevarono la sua vera vocazione. Aiutato da Leigh Hunt (in politica radicale, in  poesia eclettico diluitore di motivi derivati dagli antichi inglesi – Chaucer, Spenser – e italiani – Dante, Pulci, Boiardo, Ariosto), il Keats si vide confuso dai critici con la scuola poetica a cui apparteneva il suo protettore (la cosiddetta « Cockney School »)  allorché pubblicò nel 1818 Endymion, a poetic romance.Le spietate stroncature dei critici del Blackwood’s Magazine e della Quarterly Review, deprimendo il morale, poterono contribuire con altre circostanze – specialmente l’assistenza prestata al fratello Tom che mori d’etisia, gli strapazzi d’un giro in Scozia, e un amore appassionato e tormentato per Fanny Brawne – a scuotere una fibra delicata e predisposta alla tisi come quella del Keats. La malattia si dichiarò improvvisamente nel febbraio del 1820; prostrato da irritabilità nervosa e debolezza generale, il Keats s’imbarcò per l’Italia con l’amico Joseph Severn, pittore, e si stabilì a Roma, in Piazza di Spagna, dove mori il 23 febbraio 1821. Fu sepolto nel Cimitero Protestante di Roma, e la sua lapide reca l’iscrizione che egli stesso s’era scelta: « Here lies one whose name was writ in water ». Lo Shelley ne pianse la morte in Adonais, rievocando per lui l’eterno simbolo del martire iddio giovinetto, pianto dalle donne di Levante.L’entusiasmo per l’arte dell’antica Grecia (alimentato dalla lettura del dizionario classico del Lemprière e dai marmi del British Museum – gli « Elgin marbles »  – il Keats non sapeva leggere il greco) orientò la sensibilità romantica del poeta nel senso d’un esotismo classicheggiante, che contiene talora in embrione, talora in pieno sviluppo, tutti gli elementi del tardo romanticismo e del decadentismo della fine dell’Ottocento.

Il cosiddetto classicismo del Keats risente del gusto dell’epoca della Reggenza, e cioè risultante da una contaminazione di elementi disparati (anche gotici e orientaleggianti), e presenta quindi caratteristiche d’ibridismo, diversamente dal classicismo settecentesco che era divenuto una seconda natura nel linguaggio poetico: qui il rischio era l’accademia, in Keats, cresciuto in un’epoca di declinante tradizione e non assistito d’altronde nei primi anni da un ambiente familiare comunque colto, il rischio era una vistosa superficialità decorativa come quella degli almanacchi così diffusi in quel primo Ottocento, e in tale difetto Endymion incorre a ogni piè sospinto, con la sua spesso smaccata e stucchevole mellifluità che illustra un aspetto tutt’altro che secondario del Keats, la sua struggente tenerezza quasi femminea, attestata anche nell’Ode to Psyche, il cui morbido alessandrinismo fa pensare a certe manierate e squisite incisioni neoclassiche (soprattutto francesi) dell’epoca, e al clima poetico di languida sensualità contemplativa espresso dalle Veneri, dalle Psichi e dagli Amori di Canova.Per altro una miracolosa metamorfosi avvenne nel Keats nella stagione tra il settembre 1818 e il settembre 1819, allorché la malattia e la passione d’amore che lo consumavano poterono contribuire a potenziare il suo genio e a forzarne la fioritura. Keats era una lastra impressionabile, un camaleonte, com’egli ebbe a dire, assimilava istantaneamente e (ancor più sorprendente) con una prontezza da sbalordire restituiva gli elementi assimilati in una visione nuova in cui essi erano a stento riconoscibili. Così, in contrasto al Keats maggiore, poeta mesto e solenne che attraverso il presentimento sente il fascino della Bellezza immortale, sorprendiamo in The Cap and Bells (Il berretto a sonagli) la presenza d’una multiforme Musa affine a quella di Shakespeare: accanto alle note comiche troviamo squisite descrizioni d’una lirica sensuosità.Padre dell’estetismo il Keats non è un esteta: il succo della sua poesia è a base etica: Stimmung di questo poeta:  egli esalta contro il razionalismo l’intuizione della vita accettata integralmente, e, come tale, configurantesi in Bellezza. In questo modo va interpretata la famosa chiusa dell’Ode on a Grecian Urn:

Beauty is Truth, Truth Beauty — that is allYe know on earth, and all ye need to know.

Il poeta che in Endymion anelava a « una vita di sensazioni piuttosto che di pensieri », e amava abbandonatamente  la Bellezza, come un’amante, approfondisce la sua ispirazione nella magnifica fioritura di versi del 1819, soprattutto nelle odi (Ode to a Nightingale, Ode on a Grecian Urn, To Autumn, Ode on Melancholy, Ode to Psyche) e nel poema in blank verse miltonico Hyperion (non finito), ove il progresso del cosmo è presentato come un passaggio del regno dei cieli e nuovi iddii sempre « più belli ». Il poema s’interrompe appunto nel momento in cui Apollo consegue la divinità e il dono del canto attraverso a una sorta di doloroso transito, a una morte oltre la quale è la vera vita: « conoscenza smisurata » e simpatia per l’umano dolore fanno di Apollo un   uomo – dio, un dio più perfetto. Ma a questo punto il poema non può più conservare il tono epico, lo stile « artistico » di foggia miltonica, e s’interrompe.L’« io lirico » troverà piena espressione nelle Odi. In esse più intensamente, attraverso il presentimento della morte, il poeta sente la Bellezza, che immortale, impassibile, assiste al travaglioso vanire delle vicende umane intorno: generazioni e generazioni d’uomini s’inebriano per un ‘istante del canto eterno dell’usignolo, dell’armonioso lineamento dell’Urna eterna, e

salutano morituri la perenne Imperatrice. In questa sua  accettazione e dedizione a una Bellezza che placa l’ansia dell’anima dinanzi al mistero del mondo, si esalta il motivo dominante della vita del Keats. Le sensazioni che il poeta chiede all’amore – come ci attesta l’epistolario con Fanny Brawne – sono sensazioni di narcosi; desidera che la lettera della fidanzata sia come una pozione d’oppio. Il motivo dell’Ode to a Nightingale è pur questo. Domina le lettere a Fanny una vertigine di abbandono quale alita nel mito d’Endimione predato dalla Luna: il Keats si sente « assorbito » dall’amata.

  Una coppia di versi del Petrarca (che è un peccato il Keats, non conoscesse) sembra in forma emblematica significare la Stimmung di questo poeta:

Deh! or foss’io col vago de la Luna, Addormentato in qualche verdi boschi.

Questa Stimmung domina anche altre poesie del volumetto del 1820. Tali poemetti Lamia, Isabella (ispirata dal Decameron, IV, 5), The Eve of St. Agnes, la ballata La Belle Dame sans Merci, che presentano un’ispirazione più sensuale e decorativa, tipica del medievalismo romantico. Da questo Keats prenderanno le mosse i Preraffaelliti. Soprattutto La Belle Dame sans Merci, con la vaga evocazione dei languidi fiori simbolici, coi lenti muti gesti e le lacrime ineffabili, col  nome strano e spietato della dama sconosciuta, con la presentazione delle immagini carnali – il pallore, la madida fronte, le riarse labbra – con l’insistente ricorrere di certe note, fino alla chiusa che, ripresentando la desolata landa acquatica, propaga un brivido d’estaticità per tutta la visione: questa poesia che esprime un malioso e doloroso mistero, par contenere in embrione tutto il mondo dei Preraffaelliti e dei simbolisti, dalla Laus Veneris di un Swinburne a certi quadri di un Moreau. E proprio i principi che il Moreau metteva a base della sua arte, il principio della « bella Inerzia » e quello della « Ricchezza necessaria », già si trovano nei versi del Keats, con la loro andatura lenta e sognante, con la lorofrase onusta d’immagini e di suggestive risonanze (il Keats consigliava allo Shelley di « load every rift with ore » nella suapoesia; che il Keats giungesse per questa via a un decorativismo addirittura decadente, è mostrato da The Eve of St. Agnes).Riconnettendosi alla grande tradizione del verso inglese (Spenser, Shakespeare, Chapman, Milton) il Keats segna il momento di massima perfezione raggiunto dal romanticismo.

D’altronde il suo rappresentarsi la vita come un’armonia di contrasti, in cui tutte le passioni umane e tutte le creature, dalle sublimi alle infime, trovano giustificazione, avviava l’arte del Keats al dramma: il verso miltonico finì per apparirgli artificiale, il linguaggio di Milton una curiosità, col suo forzare un idioma del Nord a inversioni e intonazioni greche e latine: e più urgente divenne il modello di Shakespeare con la sua concezione integrale del mondo sublimata in intuizione poetica, e il suo uso (soprattutto in King Lear) di parole dell’inglese ordinario pei più sublimi e terribili effetti di visione fantastica: per questa via il Keats s’era avviato con Isabella, or the Pot of Basil. Forse, come concludono il Grierson e lo Smith (A Critical History of English Poetry), « le Odi son l’ultimo e più perfetto prodotto di quella che avrebbe potuto essere chiamata la prima maniera di Keats, se la vita e il suo genio avessero permesso una transizione quale fu quella di Shakespeare dalle immagini decorative,

naturali e mitologiche, di – ad esempio – il Sogno d’una notte d’estate o Il mercante di Venezia, alle immagini più drammatiche e realistiche di Amleto e di Macbeth ».

ENDYMIONL’eroe mitico e il poeta sono entrambi amati da Diana e la loro “quest”, la loro ricerca, ha lo stesso scopo: congiungersi con lei, ricevere da lei il dono dell’immortalità. Alla fugacità della vita il giovane poeta oppone il suo progetto, dieci anni di seppellimento nella poesia, dapprima in unione con la natura dionisiaca. La quest romantica diventa più intensa quando, consumata l’alleanza prometeica con la natura, si muove in una sfera più dolorosa e astratta. Al paradiso terrestre segue la crisi penitenziale del purgatorio o la mescolanza lancinante dei due luoghi nella coscienza del poeta cristiano. L figura retorica ricorrente che conferisce ingenua emozione al discorso è l’elenco: di domande e risposte, di piaceri, di visioni o meglio frammenti di visioni che Sonno o Poesia lasciano intravvedere. In chiusura la dolorosa incertezza è trasformata in lieto ardimento.Keats era convinto che l’immaginazione fosse la guida più autentica alla Verità, e una forza generatrice , creatrice di energia divina. Per lui l’animale più simile al poeta era il pipistrello, simile ai ciechi Milton e Omero. La cecità dà origine a materia sublime, perché non ostacolata dalla vista terrena. La mente del cieco immagina entro un’altra mente, riempie in tutta la sua pienezza quel che intellettualmente non è in grado di capire. La cecità di Keats consiste nel non sapere: come Adamo, può sognare il paradiso. Keats annota a margine della sua copia del Paradise Lost che “Milton è scaltro con la sua preda: vede la

bellezza in volo, le piomba addosso e se ne sazia fino a produrre il suo verso essenziale”.I pensieri immaginosi di Keats fanno di Endimione un eroe di desiderio, di bellezza, felicità, eternità, ma anche di mondanità (attacchi a filosofia, politica, storia).Il mondo arcadico e quello infero, del primo e del secondo libro, l’abisso marino del terzo e l’aere del quarto: questi sono gli argomenti del poema. Nel primo libro la descrizione neoclassica della natura è pienamente nelle mani del poeta: egli a suo piacere fa sbocciare fiori, il clima non impone restrizioni, il vento è da lui comandato, si costruisce un modello di Natura. Al centro del libro, come un cuore, sta l’Inno a Pan, in cui la figura del dio è cantata come apice simbolico: Pa è ogni figura iniziatica e fusione, sorprende la vita nascosta nelle forme vegetali, s’avvicina a ninfe e uomini come un monello divino. “Sii sempre simbolo d’immensità” lo supplica il coro. Endimione è destinato a raccogliere quel compito, a inseguire la numinosità della Natura fino al mondo delle essenze.E questo è assai doloroso, poiché subentra l’umanità ad interferire: quando l’occhio divino ci osserva, noi non vediamo quello sguardo.Il secondo libro presenta il mondo degli inferi non nell’accezione classica dell’Ade, ma un luogo incantato e splendente, nella cui oscurità fiorisce la pergola di Adone, dio della vegetazione. Venere scende ad abbracciare l’amato. Endimione, che presagisce il proprio destino, assiste al loro amplesso, allegoria dell’anima che scende per unirsi alla materia e comprenderla nella sua rete divina. Il giovane re-pastore è ora pronto per la metamorfosi d’acqua del terzo libro: si separa dalla terra, scende nel mondo marino, e si trova immerso nel liquido materno che conserva e incessantemente genera vita. Pervaso dalla feconda luce lunare, l’abisso è tomba-vita e archivio della memoria umana. Vi si trovano oggetti del classicismo (ancore, elmetti, loriche). Endimione entra in aiuto di Glauco (il mito di Glauco era stato narrato da Platone nella Repubblica, come anima immortale rosa e sfigurata dai flutti). Endimione diventa mago e restituisce la giovinezza a Glauco e la vita agli amanti periti nelle tempeste d’amore. In questo libro l’ecfrasi, la descrizione, è forzata in barocchismi: il nero mantello di glauco coi suoi ricami viventi, il palazzo trasparente di Nettuno, il masque e l’orgia. I sensi sollecitati di Endimione lo inducono ad appellarsi a Venere perché arresti la vertigine.Nel quarto libro, dedicato all’aria, si svolge l’ultima prova di Endimione e il congiungimento in cielo con la sua amata, si conclude col masque glorioso delle nozze. Nel quarto libro vi è l’Inno a Bacco, continuazione dell’Inno a Pan. A cantarlo è la fanciulla indiana, il doppio terrestre e doloroso di Diana immortale. Se Pan è enigma, Bacco conduce al simbolo, alla sua presenza arbitraria e illuminante. La fanciulla indiana distoglie Endimione da Diana (l’Anima) e dalla voglia di immortalità, e svia il poeta dall’allegoria e dal lieto fine (le baciò la mano e si ritrovò da solo). Sul cavallo alato Endimione sale in cielo senza la sua compagna terrestre. Un finale con Endimione forgiato dalle esperienze spirituali parrebbe la soluzione più giusta, ma Diana interviene per realizzare il matrimonio convenzionale.Keats situa la composizione di Endimione in un tempo psichico tra l’adolescenza e la maturità, e si sbilancia verso la prima stando dalla parte dello spontaneo e dell’imprevisto, col linguaggio della poesia.

LE ODI

Nelle Odi si riassume il romanticismo del Keats, il suo slancio ardente verso la bellezza, ricercata nella creazione dello spirito, al di là delle manifestazioni naturali che sono dolorosamente caduche e ingenerano nell'animo la sazietà, la triste voluttà che nasce dalla contemplazione della morte. Famose sono: l'"Ode a un usignolo" ["Ode to a Nightingale"], l'"Ode su un'urna greca" ["Ode on a Grecian Urn"] l'"Ode sulla malinconia" ["Ode on Melancholy"] e "All'autunno" ["To Autumn"]. Cronologicamente fu composta per prima la "Ode to a Nightingale", pubblicata nel luglio del 1819 sugli "Annals of Fine Arts". Scritta poco dopo la morte del fratello del Poeta, Tom, essa è fra tutte la più umana e appassionata. Ascoltando il canto dell'usignolo, il poeta sogna di fuggire da questo mondo di tristezza e di dolore sulle ali dell'immaginazione e di rifugiarsi nel mondo ideale della bellezza, simboleggiato dal canto dell'uccello: quel canto meraviglioso che fu udito da tante generazioni passate e sarà il diletto di tante generazioni future e che perciò si può considerare il simbolo della bellezza eterna. Ma l'usignolo si allontana e l'incanto è rotto. Il motivo è ripreso dal Keats, con maggior serenità, nella "Ode on a Grecian Urn". Davanti al bassorilievo di un'urna antica il poeta si sofferma affascinato dal mistero delle belle forme fermate nel marmo. Le figure sono immobili, destinate a rimanere in eterno fissate nel loro gesto di amore, di devozione o di estasi, ma appunto per questo esse sono fortunate: non conosceranno mai le lotte della vita, il tramonto della bellezza, la morte. Rimarranno immutabili a insegnare agli uomini che la bellezza è una cosa reale e durevole e che la fede nella bellezza è la sola che sia necessaria nella vita. Famosi i versi: "Heard melodies are swert, but those unheard - Are sweeter" ("Dolci le melodie udite, ma più dolci quelle non udite"). Ma il pessimismo di Keats, che in queste due odi è solo accennato e trova fino a un certo segno compenso nella sua fede in una forma di bellezza capace di sopravvivere alla breve vita umana, si delinea in tutta la sua intensità nella "Ode on Melancholy", nella cui ricca armonia circola un senso amaro della realtà, una tristezza profonda. In tutte le manifestazioni della bellezza eterna il poeta trova una sorgente di dolore: nelle fuggevoli immagini del bello, nella gioia che ci sfugge appena conosciuta, accanto al piacere, ha dimora la malinconia: così è per chi sente intensamente e perciò soffre molto; per chi ama veramente la bellezza che non si lascia afferrare né trattenere. Ma nell'ode "To Autumn" che comincia col famoso verso: "Season of mists and mellow fruitfulness" ("Stagione di nebbia e di matura ubertà"), sotto l'influsso dell'eterna e sempre nuova bellezza della natura, lo spirito del poeta si rasserena: egli sente che il bello, cui aspira la sua anima, non è poi tanto effimero, che una volta veduto e afferrato dall'uomo esso rimane in suo possesso per sempre. Altre due Odi si possono ancora ricordare tra le più belle del Keats: "Fancy" e "Ode to Psyche". Nell'"Ode alla fantasia" ["Fancy"] il motivo preferito del poeta è ripreso ancora, benché con un tono più leggero. Tutte le cose reali, anche le più belle, hanno perduto per lui ogni attrattiva, egli perciò esalta la fantasia che permette di sfuggire alla realtà; che nulla, né il luogo né la stagione può trattenere nella sua continua ricerca di gioie nuove. L'"Ode a Psiche" è un appassionato inno alla bellezza, personificata in Psiche; è un canto pagano, caldo e sensuale, che il poeta eleva a ciò che fu il pensiero costante, il culto supremo della sua breve vita. Prendendo lo spunto dalla leggenda di Psiche, la cui bellezza conquista lo stesso dio dell'Amore e che viene perciò accolta tra gli immortali, e dal fatto che Psiche fu annoverata tra gli déi solo in un periodo assai tardo del paganesimo, sicché ella non venne mai adorata con l'antico fervore, Keats le promette che, se in passato fu negletta, egli la compenserà con la sua devozione. Nel complesso queste Odi sono inni

alla bellezza. In esse il Keats ha trasfigurato in poesia il suo pensiero filosofico, già posto alla base di altre sue opere, che si compendia nei noti versi dell'"Ode su un'urna greca": "La bellezza è verità, la verità bellezza, questo è tutto - ciò che conosciamo su questa terra, e tutto ciò che abbiamo bisogno di conoscere" ["'Beauty is truth, truth beauty', that is all - Ye know on earth, and all ye need to know"); qui la bellezza assume tutto il valore dell'"ethos" e si avvia a comporre, per il poeta, una visione integrale della vita e del mondo. La straordinaria ricchezza e sceltezza del linguaggio, che delle Odi sono carattere saliente, si sentono nate non dalla preziosità di una ricerca a freddo, ma da un gusto e da un nutrimento letterario (il Keats si rifece soprattutto a Shakespeare) assimilati fino a divenire la sostanza stessa dello spirito: tanto che proprio in queste Odi il poeta arriva a una concisione e sobrietà da lui mai raggiunte prima. Ogni aggettivo è scelto con rara sicurezza, e la viva sensualità che dà corpo alle immagini resta, alla fine, riassorbita nell'intenso affiato spirituale che anima il poeta. La magnificenza del Keats ha qualcosa di marmoreo e di morto; nella bellezza keatsiana è una traccia inquietante, come la minaccia gelida di una sciagura che impende.

ODE A UN USIGNOLOKeats, nel giardino suburbano, udì l’eterno usignolo di Ovidio e di Shakespeare e sentì la propria condizione di mortale e la oppose alla tenue voce imperitura dell’invisibile uccello. Keats aveva scritto che il poeta deve dare poesie naturalmente, come l’albero dà foglie; due o tre ore gli bastarono per creare quella pagina d’inesauribile e insaziabile bellezza, che poi avrebbe appena limata; il suo pregio, ch’io sappia, non è stato discusso da alcuno; lo è stata, invece, la sua interpretazione. Il nodo del problema sta nella penultima strofa - L’uomo determinato dalle circostanze e mortale si rivolge all’uccello, « che non calpestano le affamate generazioni » e la cui voce è la stessa che nei campi d’Israele, un’antica sera, udì Ruth la moabita.Nella sua monografia su Keats, pubblicata nel 1887, Sidney Colvin (che ebbe un carteggio con Stevenson e fu un suo amico) avvertì o inventò una difficoltà nella strofa di cui parlo. Copio la sua curiosa affermazione « Con un errore di logica, che a parer mio è anche un errore poetico, Keats oppone alla fugacità della vita umana, per cui intende la vita dell’individuo, il perenne durare della vita dell’uccello, per cui intende la vita della specie ». Nel 1895, Bridges ripeté l’accusa; F.R. Leavis l’approvò nel 1936 e vi aggiunse la nota: « Naturalmente, l’errore racchiuso in questo concetto prova l’intensità del sentimento che lo genera ». Keats, nella prima strofa del poema, aveva chiamato driade l’usignolo; un altro critico, Garrod, con tutta serietà si valse di tale epiteto per sentenziare che, nella settima, l’uccello è immortale perché è una driade, una divinità dei boschi. Amy Lowell scrisse, più felicemente: « Il lettore che abbia un briciolo di sentimento fantastico o poetico intuirà immediatamente che Keats non si riferisce all’usignolo che cantava in quel momento, ma alla specie ».Cinque giudizi di cinque critici, attuali e passati, ho raccolti; credo che di essi il meno futile sia quello della nordamericana Amy Lowell, ma rifiuto l’opposizione che in esso è postulata tra l’effimero usignolo di una notte e l’usignolo generico. La chiave, l’esatta chiave della strofa, sta, credo, in un paragrafo metafisico di Schopenhauer, che non la lesse mai.L’Ode a un usignolo è del 1819; nel 1844 apparve il secondo volume de Il mondo come volontà e rappresentazione. Nel capitolo 41 si legge: « Chiediamoci con sincerità se la rondine di quest’estate è

un’altra da quella dell’estate passata e se realmente tra le due il miracolo di trarre qualcosa dal nulla si è verificato milioni di volte per essere smentito altrettanto dall’annientamento assoluto. Chi mi oda affermare che il gatto che sta giocando lì è lo stesso che saltava e scherzava in quel luogo trecento anni fa, penserà di me quel che vorrà, ma pazzia più strana è immaginare che- fondamentalmente sia un altro ». Cioè, l’individuo é  in qualche modo la specie, e l’usignolo di Keats è anche l’usignolo di Ruth.

Keats, che, senza troppa imprecisione, poté scrivere:« Non so niente, non ho letto niente », indovinò attraverso le pagine di un dizionario scolastico lo spirito greco; sottilissima prova di quell’indovinare o ricreare è l’aver intuito nell’oscuro usignolo di una notte l’usignolo platonico. Keats, forse incapace di definire la parola archetipo, precedette di un quarto di secolo una tesi di Schopenhauer.Chiarita così la difficoltà, resta da chiarirne una seconda, d’indole assai diversa. Come mai non pensarono a questa interpretazione evidente Garrod e Leavis e gli altri? * Leavis è professore di uno dei collegi di Cambridge — la città che, nel secolo XVII, raccolse e dette nome ai Cambridge Platonists —; Bridges scrisse un poema platonico intitolato The Fourth Dimension; la sola enumerazione di questi fatti sembra aggravare l’enigma. Se non mi sbaglio, la ragione deriva da qualcosa che è essenziale nella mente britannica.Coleridge osserva che tutti gli uomini nascono aristotelici o platonici. Gli ultimi sentono che le classi, gli ordini e i generi sono realtà; i primi, che sono generalizzazioni; per questi, il linguaggio non è altro che un approssimativo giuoco di simboli; per quelli è la mappa dell’universo. Il platonico sa che l’universo è in qualche modo un cosmo, un ordine; tale ordine, per l’aristotelico, può essere un errore o una finzione della nostra conoscenza parziale. Attraverso le latitudini e le epoche, i due antagonisti immortali cambiano di lingua e di nome: uno è Parmenide, Platone, Spinoza, Kant, Francis Bradley; l’altro, Eraclito, Aristotele, Locke, Hume, William James. Nelle ardue scuole del Medio Evo, tutti invocano Aristotele, maestro dell’umana ragione (Convivio, IV, 2), ma i nominalisti sono Aristotele; i realisti, Platone. Il nominalismo inglese del secolo XIV risorge nello scrupoloso idealismo inglese del secolo XVIII; l’economia della formula di Occam, entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem, permette o prefigura il meno tassativo esse est percipi. Gli uomini, disse Coleridge, nascono aristotelici o platonici; della mente inglese è dato osservare che nacque aristotelica. Il reale, per quella mente, non sono i concetti astratti, ma gli individui; non l’usignolo generico, ma gli usignoli concreti. È naturale, forse inevitabile, che in Inghilterra non sia compresa rettamente l’Ode a un usignolo. Nessuno veda riprovazione o disdegno nelle parole che precedono. L’inglese rifiuta il generico perché sente che l’individuale è irriducibile, inassimilabile e senza eguale. Uno scrupolo etico, non un’incapacità speculativa, gl’impedisce di operare con astrazioni, come i tedeschi. Non capisce l’Ode a un usignolo; codesta importante incomprensione gli permette di essere Locke, di essere Berkeley e Hume, e di redigere, settant’anni fa, gl’inascoltati e profetici avvertimenti dell’Individuo contro lo Stato.L’usignolo, in tutte le lingue del mondo, gode di nomi melodiosi (nightingale, nachtigall, ruiseñor), come se gli uomini istintivamente avessero voluto che questi non demeritassero del canto che li meravigliò. A tal punto lo hanno esaltato i poeti, che ora è un poco irreale; meno affine alla calandra che all’angelo. Dagli enigmi sassoni del Libro di Exeter (« io, antico cantore della sera, reco ai nobili gioia nelle ville ») alla tragica Atalanta di Swinburne, l’infinito usignolo ha cantato nella letteratura

inglese; Chaucer e Shakespeare lo esaltano, e così Milton e Matthew Arnold, ma a John Keats uniamo fatalmente la sua immagine, come a Blake quella della tigre.

ODE A UN’URNA GRECAOde su un'urna greca (titolo originale Ode on a Grecian Urn) è una famosa poesia di John Keats, pubblicata per la prima volta nel 1819. Il componimento, in forma di ode, è appunto un canto dedicato alla bellezza "senza tempo" di un manufatto artistico dell'antica Grecia, descritta come una sublime e perfetta manifestazione dell’arte che non ha bisogno di giustificazioni.Il poeta trasse probabilmente ispirazione, nel comporla, dai marmi del Partenone, che aveva ammirato in una esposizione al British Museum.Oltre il suo significato meramente letterale, la poesia rappresenta inoltre un'espressione del concetto di "Negative Capability", caro a Keats, secondo cui l'arte -e la bellezza- si manifestano anche e soprattutto attraverso ciò che è vago e misterioso, segreto e non svelato. Questo tema ricorre infatti spesso all'interno della poesia, le figure che ornano l'immaginaria urna descritta dal poeta sono misteriose e sconosciute, e lo stesso si può dire dei gesti e delle azioni che compiono sulle scene rappresentate.Gli ultimi versi sono invece una riflessione filosofica sul rapporto tra l'arte e la bellezza: la poesia si conclude infatti con la celebre coppia di versi:

(EN)

« Beauty is truth, truth beauty, - that is allYe know on earth, and all ye need to know »

(IT)

« Bellezza è verità,verità è bellezza, - questo soloSulla Terra sapete, ed è quanto basta”. »

(John Keats, Ode on a Grecian Urn, vv.49-50)Questa concezione ricalca le tesi del filosofo Friedrich Schiller, per il quale la bellezza si manifesta solo quando il suo soggetto mostra realmente la propria vera natura.L'Ode Secondo Maurice Bowra[1], l'ode si compone in tre parti distinte: un'introduzione, un corpo principale e una conclusione.

IntroduzioneNella prima strofa si ha la presentazione dell'urna, dei suoi misteri e una serie di domande che il poeta si rivolge e che rivolge al lettore stesso.Corpo principaleLa seconda, terza e quarta strofa raccontano diverse scene che sono rappresentate sull'urna: la descrizione non è quella che potrebbe fare un osservatore qualunque, ma come e cosa Keats vede in quell'urna e ciò che essa rappresenta per il poeta stesso.ConclusioneLa conclusione si ha nella quinta e ultima strofa, in cui il poeta mette in relazione ciò che ha precedentemente scritto in versi: è una sorta di dichiarazione della sua poetica e delle sue idee riguardo alla bellezza e all'arte.Strofa I

(EN) (IT)

« Thou still unravished bride of quietness!Thou foster-child of silence and slow time,Sylvan historian, who canst thus expressA flow'ry tale more sweetly than our rhyme[..] »

« Tu, ancora inviolata sposa della quiete,Tu, figlia adottiva del silenzio e del lento tempo,Narratrice silvana, tu che sai esprimereuna favola fiorita più dolcemente delle nostre rime[..] »

(John Keats, Ode on a Grecian Urn, vv.1-4)Il poeta nei primi quattro versi dell'Ode si rivolge all'urna come ad una creatura vivente: l'urna assume la connotazione di sposa, figlia adottiva e narratrice (vv. 1-3), capace di una qualsiasi azione umana. Quest'urna è un'opera d'arte, perfetta e immutabile nel tempo, per sempre incorruttibilmente catturata nel silenzio (figlia adottiva del silenzio, v.2): la reazione che scaturisce alla vista di questo vaso è un senso di immediata riverenza, di meraviglia verso qualcosa capace di raccontare una favola fiorita e di raccontarla più dolcemente delle nostre[2] rime (vv. 3-4).

(EN)

« What leaf-fringed legend haunts about thy shapeOf deities or mortals, or of both,In Tempe or the dales of Arcady?What men or gods are these? What maidens loth?What mad pursuit? What struggle to escape?What pipes and timbrels? What wild ecstasy? »

(IT)

« Quale leggenda intarsiata di foglie pervade la tua formaDi dei o di mortali, o di entrambi,Nella Valle di Tempe o in Arcadia?Quali uomini o dei sono questi? Quali fanciulle ritrose?Quale folle fine? Quale forzata fuga?Quali flauti e quali cembali? Quale estasi selvaggia? »

(John Keats, Ode on a Grecian Urn, vv.5-10)Il poeta di fronte all'urna si domanda chi siano le figure rappresentate intorno alla sua forma: quali leggende narrino o da dove provengano. Lascia al lettore l'immaginarsi la storia di una fanciulla che scappa ritrosa, una processione di uomini e donne o una fuga precipitosa. In questa serie di domande, si denota la negative capability, una caratteristica stilistica di Keats: l'incerto, il vago e il misterioso (esplicato con la ripetitività delle domande) coinvolgono il lettore, che è portato ad esplorare queste vaghezze, più che a percepirne una qualsiasi soluzione.Il contrasto con i primi cinque versi risulta quasi immediato: al silenzio e alla quiete si contrappongono la gioia di una festa, dei flauti o il movimento di una fuga precipitosa, di uno scopo definito folle (Quale folle fine?, v.9). L'urna silenziosa e quieta diviene, nel raccontare storie e leggende, narratrice più abile del poeta stesso, di quanto possano fare le parole o i versi.Strofa II

(EN)

« Heard melodies are sweet, but those unheardAre sweeter; therefore, ye soft pipes, play on;

(IT)

« Le melodie ascoltate sono dolci, ma quelle inascoltateSono più dolci; su, flauti lievi, continuate;

Not to the sensual ear, but, more endeared,Pipe to the spirit ditties of no tone[..] »

Non per l'orecchio sensibile, ma, più accattivanti,Suonate per lo spirito melodie silenziose[..] »

(John Keats, Ode on a Grecian Urn, vv.11-14)La seconda strofa si apre con l'immagine di un giovane che suona un flauto: è la prima scena rappresentata sull'urna, per quanto concerne la descrizione del poeta nell'opera. Il poeta rivolge la parola all'ipotetico protagonista suonatore affermando che le melodie che sono inascoltate sono ancora più dolci di quelle reali (vv.11-13), incitando i flauti a suonare non per l'orecchio ma per lo Spirito (vv.13-14). Le melodie inascoltate sono più dolci perché non son toccate dal tempo né sono frutto del reale: è l'immaginazione che produce queste melodie inascoltate e questa immaginazione è più vitale, più dolce del reale perché rimanda alla sfera irrazionale e di un sogno irrealizzato. Keats infatti sosteneva che più dolce e perfetto è il sogno irrealizzato in quanto ancora speranza, un desiderio che può ancora compiersi: il reale spezza questo desiderio con una negazione o con la sua realizzazione, ma comunque termina la tensione verso la realizzazione.

ODE ALLA MALINCONIAL’ode si apre con una serie di immagini di piante velenose e insetti associati alla morte; ma hanno anche un altro denominatore comune: sono veleni che non sono sgradevoli o terrificanti in se stessi, ma che distruggono la consapevolezza e annientano la sensazione del morire, e questo è un prezzo troppo alto da pagare per avere un sollievo dalla malinconia. Dopo averci detto che cosa è bene non fare per liberarsi dalla malinconia, Keats suggerisce al lettore quale è il rimedio che considera giusto: come la pioggia del verso 12, anche la malinconia può essere allo stesso tempo piacevole e dolorosa, e dare vita e morte; la migliore cura è di gettarsi nelle forti impressioni sensuali che ci rendono consapevoli che il rimedio contro la malinconia non è soporifero ma stimolante, e può essere fatto di piacere e dolore, ma deve essere acuto e totalmente coinvolgente.La Malinconia ha per compagni Bellezza, Gioia e Piacere; così come la malinconia è una creatura complessa che è allo stesso tempo benefica e distruttrice, anche i suoi compagni hanno in se stessi i semi del loro opposto: la bellezza deve morire e questo comporta decadimento e bruttura; la gioia è di breve durata ed è seguita dal dolore; il piacere fa male perché coesiste sempre con il dolore: è un aching pleasure. Ma nonostante l’inevitabile vittoria della malinconia sul piacere, l’esperienza stessa, sia piacevole che dolorosa, è di grande valore perché è vita.Nell’Ode alla Malinconia, il poeta esprime il suo supremo dolore che cerca di controllare e modulare apprezzandolo per la forza con cui riesce a provarlo. Questo ci ricorda molto le parole di Goethe:Tutto danno gli dei ai loro predilettiTutte le gioie le più grandiTutti i dolori i più grandi. Bellezza e gioia passeranno necessariamente  e la malinconia inevitabilmente passerà con loro. E se la malinconia dimora con la bellezza, cosi  anche la poesia come arte e quindi bellezza può provenire dalla tristezza se il poeta riesce a sentirne il sapore. Anche Coleridge, l’altro grande romantico (di prima generazione però) scrisse un’ode alla malinconia intitolata  On Dejection, ma in uno stile molto diverso perché qui il poeta  si trova dentro la poesia e parla di se stesso.   A differenza di Keats, Coleridge disegna un

cerchio dove si trovano uomo e natura e sostenendo che l’universo è fatto di percezioni e che il mondo in cui l’essere umano si trova è il risultato delle sensazioni. La malinconia esiste in questo circolo e può essere sopraffatta solo dalla gioia. La poesia di Keats , al contrario tende all’impersonalità, non introduce mai l’ego poetico,ed è piena di personificazioni ed astrazioni allo scopo di evitare l’intrusione della personalità del poeta.

ODE A PSICHEPsyche era una ninfa di cui Eros s'innamoro`; temendo l'ira della madre, Eros incontrava l'amata solo di notte, ma un giorno ella lo espose alla luce d'una lanterna, ed i due vennero separati; dopo un periodo di sofferenza, essi vennero riuniti tra gli dei, e Psyche divenne immortale. Il poeta sorprende i due innamorati abbracciati tra l'erba in una foresta, e riconosce in essi Eros e Psyche: Psyche e` l'ultima arrivata nell'Olimpo degli dei, ma supera in bellezza tutta la gerarchia, benche' a lei non siano dedicati templi, altari, cori di vergini, ecc., e, seppure in ritardo rispetto al tempo in cui quei luoghi erano sacri, il poeta, vista la dea con i suoi occhi, vuole essere colui che la cantera` ed adorera` come si sarebbe dovuto fare; il poeta sara` il suo sacerdote, costruira` un tempio nella mente, dove, invece del vento, mormoreranno pensieri nati da un dolce soffrire, ed in quel paesaggio mentale troveranno posto tutti i fiori, sempre diversi, che, come un bravo giardiniere, la fantasia sapra` inventare, e vi sara` tutto il possibile diletto per scacciare i pensieri ombrosi, e in piu` una torcia accesa e la porta aperta per lasciar entrare il caldo Amore. Psyche rappresenta l'anima che, espiata la sofferenza, s'e` formata, e` maturata, ed e` ora in grado di sfruttare la fantasia invece che affogare nei pensieri negativi; da un lato ne risultera` la poesia, dall'altro l'amore. La serenita` di giudizio e di meditazione e` indispensabile sia per l'uno sia per l'altro; essi sono strettamente connessi, poiche' la fantasia stimola la poesia, che scaccia i pensieri negativi, ed elimina, quindi, l'unico ostacolo all'amore. Affinche' questa catena si realizzi, occorre che nella mente si sia creata la condizione opportuna, che il dolore si sia, cioe`, moderato.

ODE ALL’AUTUNNOQuest'ode e` un parallelo con la vita umana: l'autunno rappresenta la maturita` raggiunta con l'accumularsi delle esperienze, e preparata dall'esuberanza dell'estate; alle canzoni della primavera s'e` sostituita una musica piu` modesta, ma anche piu` perfetta, che culmina nelle rondini radunate in cielo, pronte ad emigrare. In questo culmine e` gia` sottintesa la successiva fase della morte.

ODE ALL’INDOLENZAAmore, Ambizione e Poesia sono come tre figure incise su un'urna greca, che, girando il verso, si presentano una dopo l'altra, ma, per quanto esse scorrano nei suoi pensieri, il poeta non vuole abbandonare il suo ozio, e sceglie l'Indolenza.

BYRON

Byron è sempre stato il “poeta maledetto”, dipingendosi come un angelo caduto in grado di comporre un poema perfetto in pochi minuti, ma minacciato da un terribile passato segreto.Nato a Londra il 22 Gennaio 1788, con un piede equino che lo avrebbe costretto per l’intera vita alla claudicanza, trascorse l’infanzia in Scozia.Ossessionato dal peso e dalle apparizioni in pubblico, arrivò perfino ad inventare un tipo di sguardo, “under-look”, che divenne famoso. Nelle sue opere traspose le circostanze personali, creando dei “doppelganger”. Tale intreccio inscindibile di vita biografica e opera letteraria in Byron ha reso negli anni molto arduo il compito dei suoi biografi e anche dei suoi critici, dal momento che i due aspetti risultano inscindibili.

MANFRED"Manfred" è un dramma composto per certi versi nei toni angosciati del "Faust" di Goethe.   L'autore, certamente inserendo elementi autobiografici, descrive Manfred, tormentato dal rimorso per un delitto che egli aveva compiuto in circostanze assai misteriose, affranto per la perdita dell'insostituibile amata, nell'atto di evocare gli spiriti dell'universo.   Essi, peraltro, non possono concedergli ciò che egli reclama, ossia l'oblio totale. Mentre è sul punto di suicidarsi gettandosi dalla cima dello Jungfrau, il giovane viene fermato dalla presenza fortuita di un cacciatore.   Segue nella narrazione del dramma la visita di Manfred ad Arimane, dal quale riesce ad avere la possibilità di vedere il fantasma dell'amata.  Ma questo non lo placa, poichè Astarte gli si palesa con l'annuncio dell'imminente sua dipartita: egli morrà l'indomani. Il protagonista, allora, sceglie di riconciliarsi con Dio e attende la morte in una torre solitaria.   Al giungere dei demoni, egli li sfida, perchè non si sente assolutamente parte del loro drappello. L'opera ha fine con Manfred che, sempre nello stato di

angosciata inquietudine, spira senza elevare una preghiera, mentre i demoni si allontanano.  Questo dramma dai toni foschi e crepuscolari delinea un personaggio perennemente teso ad ottenere l'irraggiungibile pace dell'anima, uomo senza timore di Dio, un disperato che non trova soluzioni di riavvicinamento con l'Entità Superiore, nemmeno all'approssimarsi della morte. 

A più riprese la storia sembra ripercorrere il filone del "Faust" di Goethe; soprattutto per quanto riguarda il tormento del giudizio sul bene e sul male degli uomini."Manfred", palesemente pennellato di ambientazioni autobiografiche, narra la storia di un uomo tormentato. Egli, colpevole di un delitto dai tratti molto oscuri, quali ad esempio l'incesto con la sorella Astarte, si strugge per la definitiva perdita della donna che ama, proprio nell'atto dell'evocazione degli spiriti dell'universo per reclamare un oblio totale, senza colpe e senza tormenti, nel quale possa trovare una pace interiore.Ma le forze che egli richiama non hanno il potere di elargirgli ciò che egli chiede; così, mentre è sul punto di togliersi la vita, gettandosi dalla cima dello monte Jungfrau, Manfred viene fermato nel suo gesto dalla presenza, del tutto fortuita, di un cacciatore di camosci.Il dramma prosegue nella visita di Manfred ad Arimane (il diavolo nella tradizione persiana), , che si presenta come uno spirito della terra in pompa magna, grazie alla quale riesce ad avere un incontro con lo spettro dell'amata. Ma questo non basta a placare il suo spirito distrutto dal rimorso; il verme che si nutre dentro lui scava profondo e insaziabile. Astarte gli si palesa innanzi silenziosa, e in ultimo, dopo che Manfred l'implora di parlare, gli porta l'annuncio (benvoluto, dopotutto) della sua dipartita l'indomani. A questo punto Manfred, di fronte alle brevi ore che lo dividono dalla morte, decide che è venuto il momento di un riconcilio con Dio. Così attende la morte in una torre solitaria.Al giungere dei demoni che lo porteranno con sé, egli li sfida, in presenza di un abate e dei servi che lo nutrono e lo vestono, poiché non si sente parte del loro drappello. E l'opera si chiude, infine, con il protagonista, eterno angosciato ed inquieto, che spira senza elevare nemmeno una preghiera, mentre i demoni si allontanano.Manfred chi é se non lo stesso autore, che decide di dipingersi in un dramma crepuscolare, denso e cupo; un personaggio che non riesce a raggiungere la pace che tanto agogna; Manfred è il Byron che non teme il giudizio dei suoi pari e dei suoi dei, ma che, proprio a causa di questo suo continuo rimbalzare le regole e le opinioni, ecco ravvivarsi dentro il rimorso dell'irraggiungibilità di un equilibrio (desiderio inconscio e ultimo di noi tutti). Un equilibrio, che questo disperato non riesce a riconciliare, né con se stesso né con l'eventuale divinità.Byron ripercorre così una faccia che non espone... e in ultimo che cosa diceva Montaigne se non proprio questo: "Scrivere non porta tormento, nasce dal tormento."? Forse, e qui siamo nel pieno campo delle ipotesi personali, Byron cercava di rappresentare la sua stessa ricerca interiore, mediante le righe di questo dramma, di un possibile avvenire senza tormento, mediante la fine della ricerca della pace, vuoi perché la si trova in una vita terrena (forse solo per placebo, e non come vera cattura di un antidoto per un tormento che, comunque, è parte integrante di qualsiasi artista), o vuoi, come molti di noi si augurano vivendo... con la propria morte, e quindi, a seconda delle diverse

tradizioni e religioni, al ritorno alla terra, o alla comunione con le diverse entità superiori in cui ognuno decide di riferirsi o meno.

Nel poema drammatico Manfred Byron affronta il tema della scissione della natura umana e mortale e della ricerca della conoscenza infinita. Manfred sembra un’anima amareggiata: colui che ha distrutto l’amore e trova forza e potenza nel momento in cui si isola dal consorzio umano. Il tormento di Manfred è la vita, il dolore di esserci. È la figura di un uomo solitario perseguitato da un destino inevitabile, colpevole di un crimine misterioso e inespiabile, torturato dal rimorso, potente al punto da evocare esseri occulti, ricorrendo alle arti magiche. L’azione del Manfred si svolge in dieci scene, raggruppate in tre atti, e copre un arco di tempo di circa quarantotto ore. Indipendentemente dalla suddivisione, si individuano tre nuclei di azione, in cui tempo teatrale e tempo reale sembrano coincidere. Un primo nucleo comprende quattro scene: dall’apparizione degli spiriti nella galleria gotica di Manfred, all’alba sui dirupi della Jungfrau con l’intervento del Cacciatore di camosci, al colloquio di quest’ultimo nello sperduto chalet, fino all’evocazione e alla conseguente apparizione della strega delle Alpi. Il secondo nucleo è notturno e comprende due scene: l’incontro delle Parche con Nemesi sulla vetta della Jungfrau e l’ammissione di Manfred alla sala del trono di Arimane, con l’evocazione di Astarte. Il terzo nucleo coincide con le quattro scene del terzo atto; si svolge tra il tardo pomeriggio e la sera del giorno successivo, l’azione ha sempre luogo nei dintorni e nel castello di Manfred con l’intervento dell’Abate di San Maurizio e l’invocazione di Manfred al tramonto, le rivelazioni dei servi e l’arrivo dello spirito della Morte.

Un attento esame del dramma ci induce a ritenere non veritiera l’affermazione di Byron che avrebbe composto il Manfred senza pensare alla possibilità di una sua messa in scena teatrale. Il poema inizia con la discussione di Manfred sul suo passato. Egli ha già imparato che “l’albero della conoscenza non è l’albero della vita” e ha già rifiutato le costruzioni umane della Filosofia, della Scienza, della Filantropia, della Battaglia perché non servono a nulla. Egli è al di sopra dei desideri umani e si sta preparando a volgere la propria attenzione altrove per trovare aiuto in forze non terrene.

 “Non ho paura/ e sento la maledizione di non aver paure naturali/ neppure

battiti palpitanti di speranze o desideri/ o amore nascosto per qualcosa sulla terra”.

 “Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante non immagini la tua

filosofia”: sono le parole che Amleto rivolge all’amico fedele allorché si tratta di giurare lealtà allo spettro. E sono versi che, due secoli dopo, Lord Byron pone come epigrafe a Manfred, in cui oltre al protagonista appaiono in scena soltanto altri due personaggi “terreni”, il Cacciatore di camosci e l’Abate di San Maurizio, che provano a salvare il corpo di Manfred dai precipizi della Jungfrau nel primo atto, e l’animo del protagonista dalle grinfie dello Spirito della Morte nel terzo. Il resto dei personaggi, ad eccezione di alcuni servitori, vive tra la terra e il cielo: tre Parche, sette Spiriti, una Strega dalle sembianze di ninfa, e inoltre Nemesi e Arimane, il cui intervento nei vari atti supera per qualità quello dei personaggi terreni. Manfred quindi funge da unione tra il mondo della magia e il mondo della realtà, ed è questa la ragione per cui più che Amleto e Orazio il pensiero corre a Prospero in The tempest. Infatti Manfred come il Duca

di Milano acquisisce il potere di far sorgere le creature incorporee al suo comando, ma in lui non vi è nulla della serenità con cui Prospero esercita e rinuncia al suo potere; come poco vi è in Byron della eleganza con cui Shakespeare affronta il problema delle scienze occulte. Perché Byron fa di tutto per credere nelle manifestazioni dell’irrazionale, mentre Shakespeare si limita a contemplare gli effetti. Con sofferenza Manfred giunge alla conoscenza e “con la conoscenza crebbe la sete di conoscenza”: come non pensare al mito di Faust? Byron stesso ammette il proprio debito con Marlowe e Goethe. A Manfred viene conferita grande dignità dalla sua assenza di paura sia di fronte ad Arimane in un onirico aldilà, sia al cospetto del demone con “la cicatrice dell’inferno sul volto”, apparso nell’ultima scena per ghermirlo fin dentro la torre nel suo castello. Al contrario di Faust che implora e impreca, Manfred mantiene un orgoglio espresso attraverso l’esaltazione del potere della mente: “La mente, che è immortale, rende a se stessa/ la sua ricompensa per i pensieri buoni e malvagi…/ È l’origine del suo stesso male e la sua fine”. Malgrado i suoi poteri e il possesso della scintilla prometeica, Manfred è infelice e si sente condannato a vivere: “Ho implorato/ la pazzia come una benedizione, ma mi è negata/ ho affrontato la morte ma nella lotta/ degli elementi le acque si ritirarono da me, e cose fatali inoffensive scorsero; la mano fredda/ di un demone spietato mi trattenne/ tenendomi per un solo capello, che non volle spezzarsi”. La condanna di Manfred è dunque la vita eterna nella espiazione di ciò che non può riferire. Manfred racconta al cacciatore la sua condanna a vivere per “secoli…/ spazio ed eternità e la coscienza d’essere vivo”. Implora l’annullamento della sua consapevolezza nel convegno iniziale con i Sette Spiriti: “Che cosa vorresti da noi, figlio di mortali? Parla/ L’oblio/Di che cosa – di chi e perché?/Di ciò che è dentro di me; leggete lì il suo nome/ voi lo sapete, e io non posso più pronunciarlo”. Narra poi all’Abate di essere come il più solitario simun (vento secco del deserto) che spira nel deserto e trae piacere dalle onde aride di sabbia, e non cerca viventi, così da non essere cercato, ma che – se incontrato – è mortale nel suo respiro rosso di fuoco. Manfred può procurare la morte, ma non darla a se stesso.

È d’obbligo un riferimento alla biografia del poeta, che crebbe nella convinzione che vi fossero peccatori destinati alla dannazione fin dalla nascita. E Manfred nasce sotto il segno di “una deformità luminosa nei cieli”, una stella vagante senza orbita in eterna dannazione. “Uomo di strane parole” pensa il cacciatore “e di qualche terribile peccato” che lo rende estraneo al mondo. Il mistero non si svela nemmeno con la Strega delle Alpi, sebbene Manfred dica: “Era con me nei lineamenti – i suoi occhi/ i suoi capelli, tratti, tutto persino il tono stesso/ della voce…si diceva fosse come il mio/ ma tutto più addolcito/ io l’ho amata e l’ho distrutta”. Ed anche nella scena al cospetto di Arimane, quando il fantasma di Astarte lo libera dalla condanna alla vita, permane misteriosa la natura di Manfred, “l’uomo di un qualche terribile peccato”. Soltanto nella penultima scena, dalle parole dei servi, è possibile comprendere qualcosa: “La sola compagna delle sue stranezze/ e delle sue veglie era lei, che di tutte le cose esistenti sulla terra/ sembrava essere l’unica che egli amasse/ e in effetti, per sangue, era giusto che così fosse/ Madamigella Astarte era sua…”.

E se anche la parola “sorella” non viene pronunciata, il mistero è quasi svelato, perché al Cacciatore Manfred aveva detto: “quel sangue che scorse nelle vene dei miei padri, e nelle nostre/ quando eravamo nella nostra gioventù, e avevamo un cuore solo/ ci amavamo come non avremmo dovuto”.

E nelle parole dei servi la storia assume il tono del racconto da tramandare negli anni.

Ispirandosi al Faust di Goethe che ebbe occasione di leggere nella traduzione di M. G. Lewis (agosto 1816), e alle immagini delle Alpi Bernesi che perlustrò con l’amico Hobhouse (settembre 1816), Byron concepisce il suo Manfred, che, a differenza di Faust, non vende l’anima al diavolo in cambio del potere, del sapere e del piacere. Manfred desidera soprattutto l’oblio e il suo potere magico deriva dall’avere dedicato la sua giovinezza a studi faticosi. Il culto della libertà non gli permette di piegarsi davanti alle leggi del mondo invisibile e l’eroe si staglia sullo scenario alpestre come un Titano che ha in odio la troppo umana pratica del compromesso. Per il suo amore trasgressivo, Manfred evoca anche l’arcaico mito di Narciso.

La relazione di Byron con la sorellastra Augusta, il senso di colpa, l’idea di dannazione, l’esilio dal mondo, sono dunque elementi biografici che il poeta traspone nell’opera, falsificandoli. Manfred tra le Alpi soffre indicibilmente, e infine accoglie come liberazione una morte orribile, mentre Byron dopo poche settimane lascia le Alpi e si isola per tre anni nel suo sfrenato libertinaggio veneziano. Inoltre, il legame tra Manfred e Astarte viene descritto come sublime e esclusivo, mentre la relazione del poeta con Augusta fu eccezionale solo per il vincolo di sangue che li univa: in realtà fu travagliata da gelosie, abbandoni, ritorni, matrimoni. Attraverso l’espressione furiosamente ridondante delle proprie passioni, Manfred si prosciuga fino ad incontrare l’essenza sovrumana che distingue:

Nel Manfred ci sono alcune prefigurazioni inconfondibili di ciò che sarà il Don Juan, dalle più sventate (il Cacciatore che, salvando Manfred dal precipizio, gli dice: Bene, così…coraggio – Avresti dovuto fare il cacciatore”) alla nota eroicomica (Arimane sul trono, sempre muto, acconsente che Astarte venga evocata con un pigro “Yea”), fino alle espressioni più amare di sottile ironia: al servo che osserva “il sole sta per tramontare”, Manfred risponde “Davvero tramonta?” e all’Abate che, all’arrivo dello Spirito della Morte chiede: “Che cosa fa qui?”, Manfred risponde: “É venuto senza invito”.Non è così difficile morire.

Manfred è il primo pezzo drammatico scritto da Lord Byron; la bozza del manoscritto - cosa davvero singolare per questo scrittore - non è datata e il protagonista si staglia sullo sfondo dei precedenti personaggi byroniani come quello più esasperato, ma anche più “profondo”.E’ eroe d’origine faustiana - mezzo scienziato, mezzo mago - divorato da un senso di colpa tale da togliere il respiro a qualsiasi altro pensiero. La causa scatenante del suo tormento non è tanto l’incesto con la sorella Astarte, quanto l’averle spezzato il cuore e l’averle distrutto la vita in mille frammenti che rispecchiano, impietosamente, la sua indicibile colpa. Ossessionato da questioni filosofiche, alla ricerca di una formula che gli dia l’oblio per dimenticare tutto il male causato all’unica persona che lui abbia mai amato, egli gravita in una sfera d’azione densa di mitologia e simbolismo. E Lord Byron per primo lo evidenzia quando afferma:“...it's a mixed mythology of my own - which you may suppose is somewhat of the strangest (si tratta di una mitologia mia personalissima, tale che tu potresti considerarla stranissima)”.Metà polvere, metà dio (“half-dust, half-deity”), il Conte Manfred è figlio del Conte Sigismondo, un uomo sui generis, piuttosto orgoglioso ma allo stesso

tempo libero e ozioso.Il poema si apre con l’eroe che rimugina sulla sua vita, mentre si trova sulla vetta delle Alpi - dove risiede da solo come un derelitto - e parla a sé stesso, facendo riferimento ad un compito da portare a termine.Egli parla del sonno in termini tristi: esso non da pace né riposo ma, anzi, è “a continuance of enduring thought, / Which then, [he] can resist not (un flusso perpetuo di pensiero, al quale è impossibile resistere)”. Prosegue mettendo in luce le zone d’ombra del suo carattere, quelle a causa delle quali, pur egli avendo le stesse forme e lo stesso aspetto di qualsiasi essere umano, a lui la gioia è negata, perché “sorrow is knowledge (la sofferenza è conoscenza)”. Per di più egli detiene la “verità fatale”, per cui: “The tree of knowledge is not that of life (l’albero della conoscenza non è quello della vita)”.Manfred, così, appare fin da subito come un personaggio tormentato e malinconico, il cui dolore è così forte che ha perso la paura nei confronti di ogni cosa. Se ha studiato la scienza e la filosofia - le armi migliori per non temere nulla ed anzi, ottenere quella saggezza dagli umani tanto ambita -, queste non l’aiutano a colmare il vuoto che dilaga nel suo cuore. L’unica cosa che gli resta da fare è riesumare le divinità dell’universo e, per questo, le invita al suo cospetto. Esse gli appaiono sotto forma di sette stelle che rappresentano rispettivamente: l’aria, le montagne, gli oceani, la terra, il vento, la notte ed Astarte e lo chiamano “child of clay” (uomo d’argilla). Gli chiedono cosa desideri e lui risponde: l’oblio… di tutto ciò che in lui risiede, di quel peso che porta con sé e che non potrà mai alleggerire, per aver amato una donna a tal punto da distruggerla.Le divinità gli rispondono che l’oblio proprio non possono darglielo e gli offrono qualsiasi altra cosa; ma Manfred le sfida. Perentorio nella sua richiesta risponde che non desidera altro che quello, insiste, le prega ma senza mai piegarsi nei toni. Fin quando gli appare la settima divinità nella persona di Astarte, la bellissima donna da lui tanto amata. Ella gli rivolge parole terribili: "There are shades which will not vanish, / There are thoughts thou canst not banish (Ci sono ombre che non possono svanire, ci sono pensieri che tu non puoi bandire)”; poi lo condanna a vivere per sempre nell’Inferno che con le sue stesse mani si è costruito: “Nor to slumber, nor to die, / shall be in thy destiny (né dormire, né morire tu potrai, questo sarà il tuo destino)”.Dal neo-platonico Thomas Taylor, Byron desunse il concetto secondo cui: “Man could damn himself without help from any Evil Principle (l’uomo è in grado di danneggiare sè stesso, senza aver bisogno di far ricorso all’aiuto del Male)”.Ed è proprio la forza e l’indifferenza con cui Manfred affronta le forze trascendentali che lo circondano, a renderlo affascinante e al tempo stesso inquietante. Con provocante sdegno egli resiste alle tentazioni e agli insulti di streghe, demoni e divinità; allo stesso modo rifiuta l’aiuto del cacciatore di camosci che tenta di salvarlo dalla morte e quello dell’abate che cerca di redimerlo dalla perdizione interiore (girano voci che Manfred abbia stretto un patto col Demonio e che s’intrattenga con lui nella solitudine della sua stanza).L’eroe palesa fin da subito un’istintiva ma allo stesso tempo purissima forma di auto-distruzione, che lo differenzia perfino dal Faust, il quale aveva bisogno d’aiuto per compiere il suo proprio disfacimento. Manfred, invece,non può maledire nessuno per la sua rovina se non sé stesso e le sue stesse parole lo dicono chiaramente:“I’m the careful pilot of my proper woe" (io sono colui che guida amorevolmente il male contro di me).

Il dramma consiste, quindi, in una serie di tentativi falliti di procacciarsi l’oblio, a causa dei quali l’eroe esaspera ogni suo gesto, fino a giungere all’atto finale.Il bisogno di ubriacare i pensieri e di dimenticarsi dei misfatti della propria esistenza, serviva probabilmente più a Byron che a Manfred, in una dimensione - quella della scrittura - in cui lo scrittore/attore metteva in scena, come se fosse su un palcoscenico, i propri sogni e desideri più nascosti. Non possiamo, per esempio, dimenticare il dolore che dilaniava Byron per aver reso la vita della sua amante Augusta un incubo: così come si erano follemente amati, con altrettanta intensa spietatezza lui l’aveva abbandonata, costringendola a lasciare la loro casa, appena poco tempo dopo che lei aveva partorito la loro figlia. Il comportamento di lord Byron era inoltre apparso così drastico ed estremo da portare molti a pensare che fosse matto o addirittura malato, e questo gli rendeva sempre più una cattiva fama.Così, se Manfred incarna in modo sublime gli aspetti più oscuri del suo creatore, Astarte - l’eroina del poema - diventa un ulteriore espediente narrativo. Con ogni probabilità rappresenta Augusta, sorellastra ed amante dello scrittore, in un incrocio frenetico tra il piano della realtà e quella dell’invenzione. Su Astarte e Manfred Byron scarica tutto il suo bisogno di sensazioni forti, allo stato brado, la sua forza quasi masochistica e autolesionista, impaziente, di “cancellare le macchie” di un passato troppo vergognoso e rovinoso per poter stagnare nelle celle asfittiche della mente. Tutto il resto del poema è poesia pura, intrisa di emozioni laceranti e di squarci di cielo. Figure benigne e maligne si avvicendano attorno all’eroe, lo tirano al di qua del burrone verso cui lui vuol lasciarsi andare e poi vi rinunciano, poiché egli è troppo forte e deciso a seguire i suoi passi.Le parole si snodano, una dopo l’altra, come intreccio di suono e di colori, senza mai giungere alla fine, aprendo il varco a congetture su quello che sarà l’epilogo del poema e coinvolgendo il lettore nella trama di odori, misti a pensieri, che attanaglia la figura di Manfred strozzandogli la vita. E con lui ci si ritrova a sfiorire, piano, o a slanciarsi, con voracità, verso quel traguardo che egli sembra aver segnato definitivamente e che, man mano che il poema scorre, appare sempre più come l’unica salvezza.Ovviamente non dirò altro del testo, perché significherebbe rovinare una lettura che non è per niente difficile - quella di Byron - ma che va gustata in ogni suo dettaglio ed esplorata in tutti gli angoli nascosti. Ma quello che possiamo fare è consigliare vivamente la lettura di questo capolavoro della letteratura gotica, con pochi altri che lo superano in bellezza.Sarebbe invece interessante cercare di intuire la relazione segreta che ha unito Byron e Manfred a quel mondo etereo fatto, da un lato, di atmosfere magiche e tonalità color pastello e, dall’altro, di tinte forti ed esaltanti. E’ una dimensione contrastante che non deve sorprendere, poiché rifugio in cui deities e demons si alternano in interventi alternativi, tesi a sopraffare la coscienza dell’eroe. Se sembra assodato, quindi, che il poema tragga spunto da elementi metafisici ed astratti, è altrettanto indubbio che i riferimenti alla vita concreta dell’autore riecheggino e rimbalzino di riga in riga. Nel suo Alpine Journal - una raccolta di lettere indirizzate alla sorella Augusta -, per esempio, Byron riporta un’analisi dettagliata del suo viaggio fatto assieme ad Hobhouse sulle Alpi, ma lo fa in una forma deliziosamente narrativa. I torrenti, i ghiacciai e le vette delle montagne, inaccessibili, sono descritti con incanto e passione e quello scenario, piacevole e stupefacente, deve averlo sopraffatto.

Fu durante tale viaggio che Byron e l’amico sperimentarono gli aspetti più o meno piacevoli della Natura, quelli per cui non si mai cosa aspettarsi e che danno vita a sorprese continue, nel bene e nel male. I sentieri abbandonati da Dio, le strade a malapena tracciate lungo i declivi, gli avvallamenti improvvisi, le cascate dirompenti, le violente tempeste di neve, le valanghe: tutto doveva apparire ai suoi occhi così affascinante e al tempo stesso spaventoso! Le sensazioni che derivavano dal contatto profondo con l’anima della Natura confondevano e lasciavano senza parola. Questo nuovo mondo evidentemente gettò le radici ad un nuovo Byron, fatto di presente, futuro e passato, dove il passato veniva però da lui rielaborato alla luce delle nuove scoperte della sua anima. Il suo umore si alternava tra momenti di estrema dolcezza ed altri di profondo sconcerto.Egli stesso scrive che un giorno: “ (he) heard the Avalanches falling every five minutes nearly - as if God was pelting the Devil from Heaven with snow balls (sentì le valanghe cadere ogni cinque minuti, come se Dio stesse bombardando il Demonio facendo cadere pesanti palle di neve dal cielo)” e un altro: “ (he) would see a very fine Glacier - like a frozen hurricane... and clouds... like the foam of the Ocean of Hell during a springtide... white & sulphury and immeasurably deep (scorse un bellissimo ghiacciaio - che sembrava un uragano di ghiaccio… e le nuvole… sembravano la schiuma degli Oceani infernali durante una marea… bianca e sulfurea ed incommensurabilmente profonda)”.Ma conclude dicendo: “I am a lover of nature - and an admirer of Beauty... and have seen some of the noblest views in the world. But in all this - the recollections of bitterness - & more especially of recent & more home desolation - which must accompany through life - have preyed upon me here - and neither the music of the Shepherd - the crashing of the Avalanche - nor the torrent - the mountain - the Glacier - the Forest - nor the Cloud - have for one moment - lightened the weight upon my heart - nor enabled me to lose my own wretched identity in the majesty & the power and the Glory - around - above - & beneath me (ho scoperto di essere un amante della Natura e un devoto ammiratore della Bellezza… e credo di aver visto alcune delle cose più nobili esistenti al mondo. Ma in tutto questo il ricordo dell’amarezza - e più precisamente quella legata ai problemi della mia vita e della mia famiglia, quella che attraversa l’intera esistenza - mi ha travolto spesso mentre ero qui - e nemmeno i pastori, il fragore delle valanghe, né i torrenti, le montagne, i ghiacciai, le foreste, né le nuvole… mai, nemmeno per un momento sono riusciti ad alleggerire il peso che grava sul mio cuore, né mi hanno aiutato a sconfiggere la mia condizione di naufrago sospeso nella grandezza del creato. Né la forza, né la gloria di tutto ciò che mi circonda, sono riuscite a benedire il male che ho dentro)”.Tutta l’infelicità, il senso di colpa e le frustrazioni della sua vita gli bruciavano dentro e chiedevano di venire fuori per trovare voce nella scrittura. Manfred diventa così simbolo di tutto ciò, in un’altalena di emozioni che oscillano tra il fascino ed il compiacimento per il paesaggio attorno e l’immensa tristezza che abita il suo cuore, tra il rimpianto per aver fatto soffrire e aver rinnegato l’unica donna che amava e la consapevolezza di una giusta punizione inflitta, però, da sé stesso: la mano del “peccatore” è l’unica a sapere dove colpire per tramortire il corpo. E questo miscuglio di stati d’animo rende il poema criptico e seducentemente oscuro.Se dovessimo descrivere la scrittura di Byron potremmo definirla “sublime”, ma non nell’accezione solita e popolare del termine, bensì in quella filosofica

tratteggiata da Edmund Burke nel suo A Philosophical Enquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and the Beautiful. Essa è individuale e solitaria, ma al tempo stesso terribilmente accattivante e facilmente comprensibile, frutto di una tra le più fervide immaginazioni dell’epoca. Per individuale non intendo certo qualcosa di elitario o di inaccessibile, ma semplicemente un tentativo personalissimo di raggiungere il proprio stato emozionale più alto. Se lo scrittore può essere paragonato ad un pittore, allora evidenzia i punti del paesaggio che in lui rievocano le sensazioni più forti; lo fa in base alla propria fantasia e al proprio mondo interiore che, nel momento stesso in cui si offre all’ “Altro” diventa fruibile e, come tale, condivisibile.E in tutto questo c’è magia. Perché se Byron ha contribuito a creare uno stile, l’ha fatto pur senza inchinarsi ai capricci di un’oggettività prepotente che reclama esclusivamente bellezza e luce e non da voce al “diverso”, all’oscuro. Forse involontariamente o forse semplicemente sobillato dai demoni che in lui si guerreggiavano, egli ha mostrato con delicatezza estrema quanto di affascinante ci sia nel nostro “buio”: quella parte di noi, straniera per i più, che si agita e non si dà pace, che è legata ai ricordi rimossi e alle colpe taciute, ma anche quella più sensibile all’ambiente circostante e alle sue suggestioni.Il potere e la marcia in più che l’artista possiede, sia egli scrittore, poeta, musicista, pittore, è quindi quello di non avere paura di affrontare le tenebre, di saper andare dietro le quinte, affondando con la sua spada - la scrittura, la pittura, la musica - la patina dorata che copre molte delle cose “belle” della vita. Grazie alla sua eccezionale sensibilità egli scardina la porta del cuore e vi entra, di soppiatto, senza temere ciò che incontrerà sul suo percorso. E, alla fine del suo viaggio - quasi abbia compiuto un’endoscopia del cuore -, tira fuori ogni cosa e la comunica al mondo, per renderci visibile l’invisibile, per ricordarci che: “conoscere i nostri demoni ci dà l’arma per combatterli” (Dostoevskij). A noi, poi, la scelta: se lasciar loro la strada libera, mettendo nelle loro mani lo scettro della nostra vita; dichiarare loro guerra sperando di avere noi la meglio… o semplicemente conviverci, imparando a voler loro un po’ più di bene. Magari questo è l’unico modo per sconfiggerli, lasciando che dal cuore emergano per poi dissolversi, prima che accada a noi di svanire nella luce dell’orizzonte.

Manfred funge da tramite tra il mondo della magia e quello della realtà, ed in questo è simile al Prospero della Tempesta, e al Faust: ma la differenza è che Faust si concede, si svende al demonio e può quindi avere Elena, mentre Manfred non lo fa e può solo ammirare Astarte, desiderarla e svenire impotente. Nell’opera byroniana il tema del patto col demonio, questa volta concluso, si ha però in The Deformed Trasformed, in cui un nobile zoppo e deforme cede la propria anima a Satana in cambio di un aspetto prestante. Mary Shelley osservò che Byron fu sempre condizionato, anche nella produzione letteraria, dal difetto congenito che lo aveva reso claudicante, e tracce di questo malessere si ritrovano in quasi tutte le sue opere.Malgrado i propri poteri, Manfred è infelice e condannato alla vita eterna, col compito di raccontare la sua maledizione (proprio la stessa condanna che è costretto ad espiare il cavaliere della Belle Dame Sans Merci keatsiano, o il marinaio di Coleridge). Echi biografici di questa dannazione si trovano nell’infanzia di Byron, la cui governante Agnes Gray era una fanatica predicatrice del calvinismo knoxiano,

secondo cui vi sono dei peccatori destinati fin dalla nascita alla dannazione. Da qui scaturisce la maledizione di Manfred, nato sotto il segno di una “deformità luminosa nei cieli”.Anche la relazione con Augusta, il senso di colpa, l’esilio dal mondo, sono elementi biografici che riecheggiano nel poema. Sono ovviamente iperdrammatizzati: Manfred dopo la morte di Astarte cerca disperatamente la morte, mentre Byron si rifugia nella mondanità veneziana e non si risparmia una vita da libertino. Inoltre, il legame profondo ed esclusivo di Astarte e Manfred non trova riscontro nel legame travagliato del poeta con la sorellastra, costellato di gelosie, incomprensioni ed infine ripudi. Vi sono quattro blocchi tematici :

- Apparizione come segnale di predestinazione : la chiave di lettura è chiaramente shakespeariana. Manfred è definito dagli Spiriti un “mago di grande abilità e potere”, ed egli paragona il suo operato a quello dei Magi. La sua caratteristica è quella di evocare apparizioni. Primariamente, egli chiama a sé i sette spiriti, per poi svenire sopraffatto alla vista del più potente di essi con l’aspetto di Astarte. Dopo questo evento, una voce non identificata che pronuncia una sorta di maledizione: “e sul tuo capo il liquido verso che ti lega a questa prova”, la cui “vial” nella forma inglese è vicina al termine usato da Shakespeare per descrivere il modo in cui viene ucciso il vecchio re: l’usurpatore Claudio gli versa nell’orecchio, nel sonno, un veleno contenuto in una “vial”. In seguito il padre di Amleto riapparirà sotto forma di spettro, e se ne udrà la voce in una grande incantation. L’incantation di Byron avverrà nella quarta scena con l’apparizione di Astarte ( che al contrario del re non chiede vendetta ma nemmeno concede il perdono). Gli spettri invece evocati da Manfred sembrano affini alle streghe di Macbeth, che con filastrocche profetizzano l’inevitabile. Qui sono gli spiriti a fornire il senso di predestinazione. Sembra tuttavia che questo fil rouge che lega gli ambienti shakespeariani a quelli byroniani sia del tutto inconscio.- Natura: dall’identificazione ossianica alla contemplazione romantica :la compenetrazione uomo-natura appare completa. Dapprima, nella vertigine della distanza, la natura si era persino fatta minuscola (“Io mi ergo, e sulla riva del torrente là in basso/osservo gli alti pini restringersi come cespugli”), ma per questo umanamente più subdola: “quando un balzo, un gesto, perfino un respiro basterebbero..” La natura assume anche connotazioni infernali “le nuvole si levano torcendosi ai miei piedi, come schiuma dell’oceano agitato dal profondo inferno”, e poi nuovamente dolci, e ispira Manfred positivamente. Il sole e la luna sono forse le due immagini più pregnanti dell’opera, l’ultima in particolare con la celebre descrizione del Colosseo.- Ribellione come necessità religiosa : la tematica religiosa appare anche in altre opere di Byron; nel Manfred, la settima e la decima scena sono particolarmente significative, imperniate sul dialogo con l’abate di San Maurizio. La figura del religioso luterano è permeata di grande nobiltà, il coraggio di questo personaggio ha dell’incredibile. Tutta l’opera vede i concetti non convenzionali di religione accostati ad atti di ribellione. Tre sono i momenti topici di ribellione:1°- l’incontro con la Strega delle Alpi, che richiede a Manfred sottomissione in cambio dei desideri da lui espressi, vede il rifiuto sprezzante di Manfred a sottomettersi.2°- Manfred rifiuta di inginocchiarsi anche dinanzi ad Arimane, dichiarandosi disposto ad onorare il Fattore, l’Unico.

3°- Manfred rifiuta di seguire lo spirito diabolico: egli non gli appartiene, e lo scaccia con decisione

- Inverosimiglianza e sarcasmo nella utopia politica: il sarcasmo tipico di Byron è solo apparentemente occultato in Manfred: Nemesi, dea della vendetta, giunge in ritardo alla chiamata di Manfred, adducendo come giustificazione l’essersi dovuta occupare di troni distrutti, far sposare pazzi, restaurare dinastie, spingere saggi alla follia. È chiaro il riferimento a Giorgio III, con parole come fool, dynasties e madness. È riconducibile all’ambito politico anche il dialogo col Cacciatore di camosci: mentre Manfred possiede un pezzo di natura, egli la conosce. Il discorso nello chalet si chiude come quello di Romeo con lo speziale di Mantova. Come Romeo, Manfred dà dell’oro al Cacciatore, altezzoso.

Il poeta metafisico di Manfred può essere ricollegato al Coleridge dell’ipnosi e della visione: nella divisione di compiti tra Coleridge e Wordsworth, il primo avrebbe dovuto occuparsi di scrittura soprannaturale, allo scopo di suscitare nel lettore le sensazioni che si proverebbero se le cose descritte succedessero realmente. Secondo Coleridge, quelle sensazioni sono realmente percepibili per chi crede di essere preda di forze soprannaturali.L’atto III è sorprendente: il personaggio è investito da un’insolita calma, libero da ricordi dolorosi e dalla ricerca di perdono. Il discorso che segue mostra che Manfred non è scettico riguardo a tale sensazione, anzi vorrebbe conoscerla meglio, esplorarla, ma sa che la sua ora è giunta. È sopraffatto da un ricordo piacevole, il paesaggio lunare del Colosseo, e tale ricordo produce un mutamento nel suo umore, che è per un momento sollevato dall’enorme peso che grava su di lui. Manfred comprende che i ricordi non sono soltanto dolorosi e devastanti, ma possono anche offrire consolazione e piacere; ma egli, scappando dal ricordo che più di tutti lo aveva turbato, finì per fuggirli tutti. Questo apre uno spiraglio all’ipotesi che in verità Manfred si sia distrutto con le proprie mani, e la sofferenza che ha patito se la sia imposta, come “Master of his thoughts”. Il rifiuto della religione in Manfred potrebbe essere letto come una possibile alternativa ad essa in favore di una vitalità spontanea, variegata, umana.Nella prima stampa di Manfred, l’editore omise, senza il consenso di Byron, le ultime parole del protagonista “Old man! ‘Tis not so difficult to die”, che voleva essere una critica all’idea della morte dell’abate da parte di un giovane che illustra un buon modo di morire. Questo mandò l’autore su tutte le furie, sostenendo che senza tali parole l’intero dramma risultava vano e privo di edificazione morale. Tali parole costituiscono una rassegnazione pacifica al corso dell’esistenza.Byron parteggiava per i Whig (I Whig (con i Tory) sono spesso descritti come uno dei due partiti politici presenti in Inghilterra, e più tardi nel Regno Unito, tra il tardo XVII secolo e la metà del XIX. Ma è più preciso identificarli come un raggruppamento accomunato da affinità e tendenze ideologiche. Mentre le origini dei Whig si rifanno alla monarchia costituzionale i loro avversari all'assolutismo monarchico. In generale, la politica dei Whig andava a supporto delle grandi famiglie aristocratiche e dei non-Anglicani, mentre i Tory davano il proprio sostegno alla Chiesa Anglicana e alla gentry inglese. Nel corso del XIX secolo il programma politico dei Whig abbracciava non più solamente gli ideali di un Parlamento dominante rispetto al monarca e del libero scambio, ma anche l’abolizione dello schiavismo, e, ancora più importante, l’ampliamento del suffragio. Infine i Whig formarono il Partito Liberale (mentre i Tory diventarono il Partito Conservatore).

BYRON E IL SESSOTutti gli eroi byronici paiono ribellarsi allo standard di virilità in voga nel XIX sec; tale stereotipo voleva i personaggi letterari portatori di valori quali la sincerità, l’amore patriottico per l’Inghilterra, la probità morale. Le creature di Byron non presentavano alcuna di queste qualità, come d’altronde erano assenti anche nel loro autore. Liberando i suoi personaggi dalle costrizioni morali, Byron potè articolare la loro mente in modo più complesso, e affidargli personalità ambigue. Essi incoraggiavano i lettori a fruire della letteratura non come di uno strumento didattico e pedagogico di comportamento, ma anzi come di un rifugio da questo.La testimoniata tendenza omosessuale di Byron fu sempre celata, e solo tramite la poesia egli fece trasparire il suo senso di colpa e vergogna.L’altra grande trasgressione del Lord, com’è noto, fu l’incesto. Tale peccato inorridiva principalmente la classe media, dal momento che tra i nobili era uso comune cercare legami con parenti più o meno prossimi, al fine di mantenere pura la linea di sangue.L’opera che tratta questo tema è Manfred, anche se la parola incesto non è pronunciata, come non lo è “sorella”, la donna con cui Manfred compie l’orrendo peccato. L’incesto compare dunque nell’immaginazione dei lettori, ma non davanti agli occhi, poiché al momento della verità il servo Manuel è provvidenzialmente interrotto dall’arrivo dell’Abate.L’amore incestuoso dei due mette in moto una catena di eventi cui non possono sottrarsi, che è fuori dal loro controllo e che produce fatali ed indescrivibili effetti.

Come spregio all’idealizzazione dell’amore coniugale promossa dalla Reggenza, Byron spinge i lettori a confrontarsi con forme di sessualità che non erano socialmente ammesse.Tutti i più grandi autori romantici, da Coleridge a Wordsworth, a Keats e Shelley, si cimentarono in almeno un’opera destinata al teatro, ma tutti fallirono, considerati forme di “teatro mentale” non destinato alla scena. La definizione “mental theatre” è di Byron, che in gioventù fu un dotato e stimato attore amatore. Manfred è da egli definito una “sorta di dramma metafisico”, per nulla adatto alla trasposizione sul palcoscenico. Tuttavia, alcuni scenari presenti sono tipici del melodramma gotico, a quell’epoca in voga nei teatri londinesi. Ed elementi come il coro ci fanno addirittura pensare ad una influenza come Eschilo, alle prime tragedie greche. Tuttavia, a lungo Manfred è stato visto come un monodramma statico: non c’è azione, non ci sono personaggi: solo Manfred che soffre e poeta dall’inizio alla fine. Egli si confronta con una serie di spiriti e demoni, incluso il Principio Malefico della tradizione manichea, e tuttavia ad ogni incontro si ritrova auto-tormentato e auto-coinvolto come prima. Il nome di Astarte è preso da una novella di amore incestuoso tra fratelli narrata nelle “Lettere Persiane” di Montesquieu.Macbeth, coi suoi personaggi criminali e insonni è un’ombra dietro all’opera.Byron rievoca la famosa cena del banchetto quando, nell’atto di sorbire del vino da una coppa di vetro, scorge del sangue lungo il bordo. L’entrata delle Destinies poco dopo è modellata sull’ingresso delle tre streghe. Tuttavia, la conclusione dell’opera è un chiaro omaggio al Paradise Lost: Satana, nel primo libro, motivando la sua decisione di ribellarsi afferma che “the mind is its own place, and in itself / Can make Heaven of Hell, a Hell of

Heaven”. Resistendo alle pressioni dell’Abate che voleva la sua conversione nell’ora della morte, Manfred proclama “But in all sufficient of itself / Would make a hell of Heaven”.Nell’opera, Byron modella un personaggio asociale, eroico in proporzioni titaniche, solo per poi mostrane i limiti.In Italia, Byron fu poco recepito a causa del regime restrittivo dei sovrani. Ferdinando II di Napoli proclamava che la gente non aveva bisogno di pensare, poiché ci pensava già lui a prendersi cura del Paese e del suo benessere.

PERCY B. SHELLEY

Nella sua "Defence of the Poetry" S. ci parla di poeta come veggente, colui che è capace di comprendere le "shadows that the future casts upon the present" (le ombre che il futuro getta sul presente). Da qui, l'idea che il poeta abbia la funzione di guidare e rigenerare la società (possiamo trovare questo tema centrale in "Prometheus Unbound" e in "Ode to the West Wind"). In particolare nel "Prometeo Liberato" la poesia appare come una torcia, il fuoco bruciato dal poeta agli dei per darlo agli uomini a costo della propria sofferenza: al centro di questo pensiero troviamo i concetti romantici di "titanism" e "self-pity". "Prometheus Unbound" può essere quindi considerata un'opera visionaria proprio per questo forte pensiero dell'esistenza di una capacità veggente e salvifica in ogni poeta (che quindi Shelley credeva di possedere lui stesso): il poeta va ad assumere un ruolo chiave nella società, è colui che porta sulle proprie spalle il forte peso della responsabilità di poterla cambiare in meglio (sul pensiero della veggenza, ricorda che Shelley aveva previsto la sua morte

tempo prima. Morì giovane in un viaggio per mare con la sua piccola barca "Don Juan", così come aveva predetto nella stanza finale di "Adonais"). Quelle che molti studiosi chiamano allucinazioni, lui le considerava semplicementi "previsioni", visioni del futuro nel presente: un dono che a suo parere possedeva in quanto poet/high priest.PoeticaLa poesia di Shelley è fatta soprattutto di idee ed è proiettata verso una dimensione rarefatta. Anche nell'opera in prosa Defence of poetry, scritta nel 1821 e pubblicata nel 1840, trovano spazio le sue convinzioni sulla natura e funzione della poesia: egli fa una difesa della poesia come mezzo di espressione dell'immaginazione. I poeti sono gli esseri dotati del massimo grado di immaginazione, con la quale possono realizzare la rappresentazione artistica. Se i poeti sono i "misconosciuti legislatori del mondo" per il legame tra bellezza e verità (e perciò promotori non solo delle arti, ma anche dell'ordine e dell'avvento della società civile), essi sono dotati della capacità di vedere oltre la realtà immediata e diventano anche profeti di una possibile riforma. Solo il poeta può stabilire un vero contatto con la realtà attraverso il linguaggio e trasmetterne il significato autentico. Shelley fu il solo vero poeta radicale tra i romantici inglesi, capace della massima idealizzazione visionaria della realtà. Egli sentì acutamente "l'inadeguatezza della condizione dell'uomo nei confronti delle sue idee" e la sua reazione non fu lo scetticismo satirico di Byron, ma una continua lotta per una rigenerazione morale dell'umanità. Si dichiarò ateo, materialista e riformatore sociale ma, se riformatore sociale fu veramente e rimase per tutta la vita, invece di ateismo e materialismo sarebbe più opportuno parlare di una vaga forma di panteismo. Stile Nella lirica di Shelley le immagini variano col variare degli stati d'animo e ciascuna trae origine da un preciso impulso emotivo. Animato da uno slancio lirico intensissimo e da un soggettivismo a volte esasperato fino all'ossessione, Shelley non sempre riesce a tradurre tutta la sua emotività in un'espressione adeguata, in un'intuizione concreta, e indugia talvolta nella rappresentazione fine a se stessa dei propri atteggiamenti spirituali, in stati d'animo languidi, misteriosi, estatici. Quando, invece, arriva a cogliere un'immagine precisa in cui trasferire l'idea o l'emozione, allora i suoi componimenti combinano un pathos sincero (anche se enfatico) con l'intensità delle immagini naturali, rappresentando al meglio un'epoca che propone la rivalutazione del sentimento e della natura.

PROMETHEUS UNBOUNDIl Prometeo liberato è un dramma lirico in versi di Percy Bysshe Shelley, ispirato all’omonima tragedia (perduta) di Eschilo.In origine il dramma era in tre atti; qualche mese dopo la sua redazione, Shelley vi aggiunse il quarto atto, celebrativo della vittoria di Prometeo.Racconta la liberazione dalle catene di Prometeo ma, diversamente dalla tragedia di Eschilo, non è concluso dalla riconciliazione tra Giove e Prometeo. Al contrario, è solo nel momento in cui Giove viene detronizzato che Prometeo ritrova la sua libertà. Una scelta drammaturgica che riflette una visione tipicamente romantica, in cui la ribellione contro il tiranno può sfociare solo nel

suo rovesciamento.Condannato a essere incatenato a una roccia del Caucaso, dove un avvoltoio gli divora continuamente il fegato, Prometeo (simbolo dell'Umanità) sopporta i suoi tormenti con la speranza che cesseranno allorché Giove (simbolo del Male) sarà cacciato dalle forze del Bene, come predetto da una profezia. La detronizzazione di Giove potrebbe essere evitata solo dallo stesso Prometeo, nel caso in cui rivelasse tale segreto, di cui è l'unico ad essere a conoscenza. Ma Prometeo riesce a mantenere il segreto, nonostante le torture e le lusinghe di Giove. Finalmente Giove sarà detronizzato da Demogorgone (simbolo dell'Eternità, e figlio di Giove e di Teti), e Prometeo sarà liberato da Ercole (simbolo della Forza). Prometeo sposerà Asia (simbolo della Natura), una delle Oceanine, e darà così inizio al regno del Bene e dell'Amore sulla Terra.

 La figura di Prometeo viene restituita dal mito antico come una figura doppia. Nella tragedia eschilea superstite non è una figura risolta: è il trasgressore, ribelle che si oppone all'ordine divino, ma anche il benefattore dell'umanità, il dio che si priva della sua condizione divina per l'uomo e per questo è sottoposto al castigo doloroso che tutti conosciamo; altrove è anche il dio creatore che plasma simulacri e procura loro la vita.Proprio questa ambivalenza, questa domanda lasciata aperta dal mito classico ha intrigato numerosi autori delle moderne letterature occidentali: che cosa rappresenta Prometeo? il colpevole? l'innocente? l'anti-dio? il dio buono? il senza-dio? il super-uomo? l'uomo alle prese con la propria coscienza?Alcuni autori hanno così accostato il mito trovandovi una fonte di pensiero e di ispirazione, ne hanno quindi prodotto una rivisitazione, parziale o completa, vitale e appassionante che testimonia la sopravvivenza del pensiero mitopoietico anche in tempi molto lontani dal mondo classico.C'è stato anche chi si è appassionato soprattutto alla lettura eschilea fino addirittura a identificarsi nel mito trovando in Prometeo delle configurazioni del proprio genio.Molto frequente è stato l'utilizzo ideologico del mito, cioè quando la figura di Prometeo non è stata fonte di pensiero originario, ma immagine da riempire di idee già pensate e da divulgare. Tipico in questo senso è stato ad esempio l'utilizzo politico del mito.Va inoltre segnalata una vasta produzione di opere sul mito di Prometeo o sull'origine del fuoco finalizzata al divertimento o alla messinscena spettacolare.Non sempre è possibile evidenziare nettamente l'una o l'altra tendenza, ma suggerire queste grandi linee di sviluppo del mito è utile per avere un criterio con cui aggirarsi all'interno di una produzione vasta e molto lunga nel tempo. Se poi la ricerca volesse seguire non solo la produzione di intere opere dedicate a questo mito, ma anche il filo delle idee che il mito ha generato, penso che la rassegna sarebbe ancor più vasta, suggestiva e implicata con gran parte della cultura occidentale.D'altra parte miti connessi con l'universale problema dell'origine del fuoco e della civiltà appartengono alla cultura universale.In epoca romantica il mito o viene rifiutato perché sentito lontano dalla nuova cultura o se ne teorizza la moderna e libera rielaborazione. Percy Bysshe Shelley è su questa seconda linea e trova la giustificazione di questa licenza proprio nell'imitazione degli scrittori tragici greci che già adottavano, secondo le parole del poeta romantico, "a certain arbitrary discretion" nel trattare

soggetti tradizionali del mito o della storia. Non c'è dunque interesse a fare una restaurazione del mito eschileo, ma piuttosto a esaltarne e potenziarne il messaggio morale. Fu questa l'epoca in cui il mito di Prometeo ebbe la maggiore popolarità.

Si può leggere la liberazione di Prometeo come la liberazione dalla classe dirigente. Wordsworth lodò Shelley per avere uno degli orecchi più fini della sua generazione. Shelley tuttavia criticò in Alastor quei poeti che escludono dalla loro vita l’amore e il mondo per imbalsamarsi nella natura. Una competizione fra amici produsse la nascita del Manfred di Byron e il Frankenstein di sua moglie Mary. Shelley realizzò negli anni del college un pamphlet in cui spiegava che una riforma politica era necessaria per estinguere la schiavitù in Inghilterra. Il Prometeo fu scritto da Shelley in Italia, nel 1820, dove il poeta notò il gran paradosso del nostro paese: circondati dalla magnificenza artistica e letteraria di un passato greco e romano, i più degli italiani si mostravano servili e indifferenti alla vita politica.Il Prometeo è un lyrical drama: la lirica ha alle spalle una lunga e complessa tradizione, con radici classiche, bibliche, e post-bibliche e incroci di culture, linguaggi e modelli. Ma l’opera è stata anche influenzata dalla passione, sbocciata in Shelley in Italia per merito di Thomas Love Peacock, per l’opera, e ovviamente dalla tragedia greca, particolarmente eschilea: Shelley trasformò il Prometheus Bound in Prometheus Unbound. Si può dire che i drammi di Shelley ricalchino l’intera storia del dramma, dalle radici della tragedia alle forme popolari teatrali. Precisamente, il suo scopo era piazzare una “high art” entro un “low theatre”, progetto condiviso da Leigh Hunt e il suo circolo: l’incorporamento della cultura popolare era fondamentale per rinnovare la società. Shelley si impegnò anche per far sì che i suoi personaggi non fossero modellati sulle sue personali opinioni di bene e male, vero e falso; il potere dal dramma sta nell’abilità di suscitare in chi lo assiste una auto-coscienza. In questo erano maestri i greci, che trasponevano sul palcoscenico tragedie in cui gli spettatori potevano specchiarsi e scorgervi essi stessi. La figura di Demogorgone alla fine del dramma ricorda che “non c’è alcun millennio”, cioè non esiste la fine di una storia. Ci sarà sempre la possibilità che si cada nuovamente nell’imperfezione, nella tirannia, proprio nel momento in cui si pensa di aver raggiunto una situazione stabile.Giove è presentato come oppressore dell’umanità sofferente, che ha come rivale Prometeo, l’eroe che nel primo atto subisce un martirio spirituale solo per scoprire che la sua ribellione ha rafforzato il suo nemico. Quando il fantasma di Giove appare per ripetere la maledizione a Prometeo, quest’ultimo reagisce non più con la violenza e la ribellione ma guardando al futuro con rassegnata speranza e passiva resistenza: è il momento della crescita spirituale dell’eroe. Anche Asia, la sua amante, crescerà nel secondo atto, quando capirà che la profonda verità delle cose non è esplicabile, e non si può nemmeno immaginare. L’ordine delle cose esiste fuori dall’umana espressione, e tutte le rivendicazioni di verità, specialmente quelle religiose, sono false, parziali.Giove cade proprio nel momento di un’apparente vittoria, e questo è un aspetto quasi comico dell’oppressore che si accartoccia nel momento in cui la gente smette di temerlo. Nel confronto con Demogorgone, Giove s’infuria e fa lo sbruffone, per poi cadere miseramente. Il resto dell’opera presenta le conseguenze di questo momento di universale liberazione (anche gli uomini ne beneficiano), e si chiude con l’avvertimento di Demogorgone che questo non è altro che un solo attimo di vittoria, temporaneo.

Il secondo atto è cruciale : si apre con il benvenuto di Asia alla primavera e il tentativo della sorella Panthea di comunicarle i suoi recenti sogni, che rivelavano un Prometeo liberato e raggiante. L’esperienza di quel sogno sveglia anche l’altra sorella, Ione.La Quarterly Review presentò Shelley come una lettura per niente facile; mentre i poeti illustrano e rappresentano fenomeni della vita o oggetti materiali, Shelley utilizza quegli stessi fenomeni per tentare di risalire alla loro origine.Il Prometeo è accessibile a coloro che si forzano di immaginare un mondo che realmente “non esiste al di fuori delle percezioni”.

ATTO 1Comincia con un discorso molto simile a quello di Satana nel Paradise Lost. Prometeo affronta il suo oppressore Giove, e la proiezione dei suoi stessi impulsi quali l’odio, la dominazione, la vendetta. Inizialmente, Prometeo crede che la sua condizione di tortura e solitudine durerà per sempre. Nelle ultime righe del soliloquio egli individua una soluzione per liberarsi, che consiste nel cessare di odiare e rimangiarsi le maledizioni lanciate a Giove. Per fare ciò, convoca gli spiriti della natura. Il Prometheus Unbound comincia quindi con un cambiamento psichico, etico e politico nel protagonista, che rinuncia al potere dell’odio.ATTO 2La rinuncia e il cambiamento di Prometeo sono proiettati lungo un asse di immaginativo desiderio erotico che lo connette al regno dell’esistenza.Dopo la rivelazione ad Asia dei sogni profetici di liberazione, Panthea si incammina con la sorella seguendo echi e voci incorporee che le conducono al regno di Demogorgone. ATTO 3Inizialmente previsto come atto finale. Un Giove piccato e irascibile si scontra con Demogorgone e viene detronizzato nella scena iniziale. Prometeo viene sciolto dalle catene grazie ad Ercole e si ricongiunge ad Asia, e subito annuncia la volontà di trasferirsi con lei in una grotta. I due vengono annunciati dallo Spirito della Terra e dagli spiriti delle Ore. Uno di questi ultimi tiene il discorso più lungo dell’opera, in cui ricorda il tuono che segnò la fine del regno di Giove, e il cambiamento che nel mondo questo ha operato. Sceso sulla terra a contemplare le conseguenze, rimane deluso dal constatare che nessun uomo sembra aver preso quelle “forme fidiane” che si aspettava. Ma ad un secondo sguardo egli nota la trasformazione che è avvenuta dentro ad ogni uomo, che ha cambiato le relazioni e le istituzioni. Perfino gli animali carnivori diventano vegetariani, cambiano dieta [nell’era romantica, il vegetarianismo era non solo una pratica contro la crudeltà verso gli animali; esprimeva anche l’idea di una critica all’imperialismo e all’eccessiva produzione di zucchero e spezie. Per Shelley, astenersi dalla carne produceva benessere mentale e fisico]. Troni, altari, prigioni e tribunali esistono ancora, ma sono diventati fantasmi di una gloria ormai dimenticata. L’umanità è stata liberata dall’iniquità dei precedenti regimi, ma non da quelle forze che risiedono al di là dell’esistenza e delle percezioni: la morte, i cambiamenti. E permangono anche le idee di anarchia, schiavitù e tirannia, anche se gli antichi regimi sono stati abbattuti.ATTO 4

Demogorgone, attraverso versi rimati, spiega come si deve comportare l’umanità nell’eventualità affatto remota che un giorno l’oppressione gioviana torni a governare.Shelley recupera il nome Demogorgone da una sintesi di Boccaccio delle parole greche daimon e georgos (demoni della terra), probabilmente associandovi altre due parole greche : demos (gente) e gorgos (feroce). Appare a Panthea e Asia come un potere invisibile, la cui voce è solo interpretabile e inudibile senza filtri umani.

Il primo atto del dramma è simile a quello di Eschilo, con Prometeo che dialoga con svariate presenze, incluse le Oceanidi, elementi corali, ed Ermes. Shelley prende le distanze dalla tragedia greca col secondo atto, in cui presenta la ricerca di Asia, e nel terzo in cui lo sfondo è la dimora pastorale di Asia e Prometeo. Il quarto atto mostra una danza cosmica di celebrazione. La forma chiusa della tragedia evolve nella struttura aperta della quest romantica.I palcoscenici all’epoca di Shelley erano costituiti da cavernosi teatri, attori famosi, dipendenti dalla musica e dagli effetti speciali, ed incontravano i gusti delle classi più basse. Shelley non rigettava questo tipo di spettacolo, ma mirava a riformarlo introducendo più elementi, ad esempio la tradizione drammatica. Egli amava la capacità dei Greci di fondere poesia, musica, danza e scenografia. Egli avrebbe voluto coinvolgere l’intera tradizione del teatro nelle sue rappresentazioni.Madge Darlington mise in scena il Prometeo Slegato ad Austin, in Texas nel 1998, adoperando toghe per le vesti, un set scarno, e imponenti elementi corali.

LA POLITICA NEL PROMETEOL’opera di Shelley sfida i lettori a pensare alla realtà in termini rivoluzionari. Un intelligente idealismo, ha scritto Lenin, è più vicino all’intelligente materialismo che non uno stupido materialismo. Shelley constatò che il regno della materia costituisce un tipo di realtà, mentre il regno dell’esperienza mentale ne costituisce un altro. Nel 1819 Shelley compose il saggio “On Life”, in cui asseriva, in linea coi filosofi del tempo, che “nulla esiste al di fuori della percezione”. Questa è la formula di partenza per comprendere lo Shelley idealista. La percezione è parte dell’esistenza, ma lascia aperta la questione su come essa sia al di fuori delle percezioni. Shelley non esclude l’esistenza di un universo al di fuori delle percezioni, ma argomenta che tutto ciò che noi conosciamo lo conosciamo attraverso i sensi. Questa visione è simile a quella di William Blake, che nel “Matrimonio tra Cielo e Inferno” , col suo stile criptico e profetico, proclama che “if the doors of perception were cleansed, every thing would appear to man as it is, infinite”.

PAVESE E SHELLEYPavese mette in rilievo quell’amore per l’umanità e l’universo cantato dal poeta inglese che pare ispirato dagli stessi ideali della Rivoluzione Francese. Egli rimase particolarmente impressionato dalla definizione che Carducci diede di Shelley: “spirito di Titano entro virginee forme”. Percy era in effetti qualcosa di molto simile al suo eroe Prometeo, ribelle in nome dell’umanità, della giustizia. E tuttavia sensibile al canto di un’allodola, alla bellezza del mondo che gli faceva sanguinare il cuore tanto è insopportabile. Il suo aspetto esterno era delicato, femmineo, “virgineo” (al college patì le ingiustizie di compagni più grandi, che si approfittarono di lui anche con abusi fisici).

PREFAZIONE DEL PROMETHEUS UNBOUNDGli scrittori greci, scegliendo come loro soggetti episodi della storia nazionale o della mitologia, si prendevano la libertà di trattare le loro avventure con una certa elasticità. Così intende fare Shelley col suo Prometeo, rigettando la tradizione eschilea che vorrebbe un Titano salvo grazie alla riconciliazione con Giove, dovuta all’avvertimento del pericolo incombente per le nozze con Teti. Secondo Shelley questo sviluppo della storia toglie efficacia alla morale: la costanza di Prometeo nel soffrire e nell’accettare la punizione diviene inutile e incomprensibile, se si prospetta un compromesso con il tiranno.Vi è poi una trattazione sulle influenze che inevitabilmente ogni scrittore subisce dai suoi predecessori. Anzi, molti possono, seguendo le linee guida tracciate dagli illustri avi, creare un’opera che nella forma riecheggi quelle della tradizione, ma senza lo spirito che l’animò e che la rese grande. Lo spirito è quindi ciò che dà vita alla forma, la giustifica.Un poeta è il prodotto combinato di potenze interiori tali da modificare la natura altrui. E anche di potenze esteriori tali da eccitare e sostenere queste potenze. La mente di un uomo è modificata dagli oggetti della natura e dell’arte. Anche i più alti non possono sfuggire a questa suggestione.

PROMETEO NELLA TRADIZIONE LETTERARIAL'utilizzo del mito di Prometeo per esprimere ad esempio la fede nel progresso civile dell'umanità fu assai diffuso. Schlegel volle fondere nel suo poemetto Prometeo (1797) il tema della fede nell' azione della civiltà con la critica alla rivoluzione francese, implicito esempio della continua presenza sulla terra delle mitiche sventure e sciagure di Nemesi. Prometeo crea un uomo di argilla capace di essere sempre felice sia nella gioia sia nel dolore, prototipo della nuova umanità che dovrebbe far progredire l'uomo dallo stato di miseria materiale e morate dei tempi antichi. Nemesi però continua a imperversare, come fa notate a Prometeo la madre Temi, ma la fede nell'uomo e nella sua azione di civilizzazione vincerà anche i tempi più iniqui. Giovanni Daniele Falck, amico di Goethe, afferma nel suo Prometeo (1803) che la civiltà è necessaria all'uomo. Questa volta però Prometeo diventa il sostenitore dello stato di natura dell'uomo contro Giove propugnatore della civiltà e del progresso attraverso le arti. C'è una chiara critica alle tesi rousseauiane. Goffredo Herder esprime la sua fede profonda nel progresso dell'umanità con il suo Prometeo disciolto (1802); qui Prometeo è colui che reca sulla terra la fiamma simbolo della civiltà umana in continuo progresso. L'interpretazione del mito di Prometeo come vittoria della scienza e dell' intelligenza umana sarà ripresa più avanti in epoca positivista, con una forte tendenza però a cancellare il ruolo del divino e a divinizzare semmai la scienza.Il tema già goethiano e di gusto molto romantico del "titanismo", inteso come rifiuto di un'etica della sottomissione e della fede cieca in nome di un'esigenza di libertà e responsabilità, raccoglie varie interpretazioni di Prometeo. Il Prometeo in rivolta contro la tirannia e il dispotismo o contro un dio ingiusto e nemico fu frequentemente rappresentato. All'interno di questa opposizione i due antagonisti mutano di volta in volta caratteristiche. Prometeo in alcuni autori è il Faust, il Satana, l'angelo caduto che si rivolta titanicamente, lo spirito del male in opposizione al Dio-bene; altrove invece è il giovane dio portatore del bene oppure il riformatore sociale o il filosofo scientista che demistifica il divino e in opposizione Dio sarà rispettivamente l'antico dio della vendetta, l'ordine esistente, la superstizione

religiosa. Interessante la posizione di Byron di fronte al mito. Egli infatti assimila dal personaggio Prometeo, a cui si appassiona leggendo Eschilo, il carattere del titano ribelle. Nel suo Prometeo, canto composto nel 1816, esalta la forza d'animo di Prometeo che si raddoppia nelle sventure e nella sfida fino alla morte concepita dal poeta inglese quale vittoria finale. Il tema della rivolta in senso byroniano continua anche nella seconda metà dell'800, ad esempio in Mario Rapisardi, Lucifero 1877 e in Carducci in I due titani, Rime Nuove, VI, XXXV. Con il Frankenstein or the modem Prometheus di Mary Shelley del 1818 è sviluppato il tema del Prometeo malfattore e ribelle. Qui il protagonista è fornito del gusto faustiano della conoscenza proibita: si macchia della colpa di ergersi contro Dio nel tentativo di superare i propri limiti cioè dare vita a una nuova creatura; la punizione sarà di essere distrutto dalla sua stessa creatura. Il messaggio è che scienza e ragione umana non possono svilupparsi senza il consenso divino, come anche sostiene Salvatore Viganò nel suo balletto mitologico Prometeo, 1813. Il Prometheus Unbound di Shelley, dramma lirico in quattro atti scritto e elaborato fra il 1819 e il 1820, riassume in sé i motivi romantici (perfettibilità dell'uomo, ribellione al dio oppressivo e tiranno in nome della libertà, fede nella scienza e nella ragione). Di segno opposto l'operetta morale di Leopardi La scommessa di Prometeo, ove Prometeo fallisce perché ha creato il genere sommo per imperfezione: l'uomo. Il fuoco non è segno di progresso, ma di morte.

PROMETEO E FRANKENSTEINNel Prometheus shelleyano si riprende il tema mitologico del Titano incatenato: Prometeo viene liberato perchè vinto dal sentimento della bontà e dell'Amore universale, che era invece stato assente nella fase eroica della lotta per il bene dell'umanità. In questo libro si trova sviluppata ampiamente la problematica frankeinsteiniana della ribellione dell'uomo; lo stanno a dimostrare espliciti riferimenti alla Shelley e alcuni brani del poema che dimostrano inequivocabilmente la comunanza di ispirazione ideale, ma non poetica, fra i due artisti. Per la Shelley, Prometeo incarnava il simbolo del sacrificio cui deve sottostare chi intende lottare per il progresso e il benessere degli altri uomini. Che il sacrificio sia imposto dall'esterno o liberamente scelto, esso è un prodotto in entrambi i casi dell'altissima dignità umana di chi sposa la causa dell'umanità. In una formulazione sintetica la Shelley ebbe a dire: "Il donatore, come Adamo o Prometeo, deve pagare il prezzo di essersi elevato sopra alla propria natura, diventando un martire della propria superiorità." Nell'esame dei valori etici del "Prometheus", la Shelley amplia l'arco degli elementi costitutivi del concetto di "bene". Il Titano incarna anche quegli ideali di coraggio e aspirazione al sapere assoluto che erano stati attribuiti dalla scrittrice a Frankenstein, quando ne aveva fatto il paladino sfortunato di una superiore condizione umana. Nell'epopea del moderno Prometeo di P.B. Shelley prevaleva invece nettamente il carattere conoscitivo-superiore del gesto "titanico", per esempio all'atto della consegna del fuoco agli uomini. Un dono che, secondo P.B. Shelley, permise agli uomini di fondere i metalli, dominare la natura, estendere il proprio potere, e quindi diffondere il linguaggio e il pensiero. I due lavori differiscono nella scelta stilistica (poesia e prosa) e nel contesto narrativo (mitologia greca e "gotico" contemporaneo) oltre che nei significati reali dei due protagonisti. E' nella sofferenza e con imprecazioni che inizia il dramma di Prometeo. Questi è tormentato dalle Furie e il suo unico desiderio è vendicarsi di Zeus. Frankenstein, al contrario, sembra già aver vissuto tutto ciò e inizia a recitare la propria parte là dove si conclude il

dramma prometeico. Il personaggio della Shelley è un "Prometeo già liberato", che ha spezzato le catene della devozione religiosa e della ricerca scientifica storicamente consentita, per avventurarsi in direzioni inesplorate. Le Furie -che lo stesso Frankenstein evoca nel romanzo- non lo permetteranno. E finiranno con l'impadronirsi anche del suo destino, ma solo ad uno stadio avanzato del dramma, quando saranno già stati resi visibili tutti i limiti dell'azione sacrilega. Per lo scienziato ginevrino, inoltre, non è data la possibilità di un riscatto finale, a differenza dell'itinerario prometeico. La speranza di un esito diverso dall'esperimento scientifico viene demandata ad altri, ignoti come i posteri, mentre Frankenstein si autodistrugge. Nel romanzo della Shelley vi è una parabola discendente, dalla serenità e laboriosità mentale iniziale; nel poema dello Shelley è trionfante la conclusione. Il rapporto di affinità ideale tra i due Shelley è ovviamente molto più profondo e complesso di quanto non si sia potuto esprimere: tra i tanti elementi costitutivi di quel rapporto, vogliamo citare, per la sua rilevanza rispetto alla vicenda del Frankenstein mostro quello della solitudine.

Shelley scelse di scrivere il Prometheus Unbound nel 1820, riprendendo la tragedia del greco Eschilo. La scelta non fu casuale, ma volta a utilizzare l’eroe mitico come simbolo della ribellione e della resistenza al dispotismo della Chiesa e dello Stato dei suoi anni. Prometeo è l’immagine di colui che resiste alla forza di Giove diventando un esempio per tutta l’umanità contro gli oppressori. Inoltre simbolizza l’aspirazione alla perfezione intellettuale e alla libertà spirituale degli uomini che, a differenza di come molti ritenevano, per Shelley poteva essere raggiunta non solo nell’aldilà ma anche sulla terra. Prometeo si rifiuta di odiare Giove, anzi nel momento stesso in cui egli cessa di odiarlo la forza del dio cessa di esistere: sono solo le paure degli uomini verso di lui che incrementano il suo potere. Analizzando i due passaggi sopra riportati si nota come nel primo appaiano le sofferenze del Titano, costretto a sopportare il freddo e i ghiacci che tagliano il suo corpo e violente piogge e tempeste, e come egli le esponga a Giove senza però mai mostrarsi debole: egli annuncia con orgoglio le proprie pene al mondo intero, poiché esse sono la prova della sua grandezza. E’ nel secondo passaggio invece che appare la vera e propria ribellione verso il dio: Prometeo impreca contro di lui e afferma che egli è superiore a tutto eccetto la propria volontà. Shelley fa inoltre alcuni riferimenti alle sofferenze di Cristo sulla croce e così dà importanza al sacrificio di Prometeo per la salvezza dell’umanità dall’ignoranza.Per punire la temerarietà del titano, Giove lo fa incatenare ad una roccia del Caucaso, dove un avvoltoio gli divora il fegato, che continuamente si rinnova. Prometeo sopporta stoicamente i tormenti che Giove gli infligge, aspettando l'ora in cui, secondo una profezia, il re degli dei sarà detronizzato e lo spirito del bene trionferà.Il compiersi del fato potrebbe essere evitato, se Prometeo rivelasse il segreto di cui è custode. Giove è a conoscenza di questo segreto, ma non riesce a farselo rivelare, neanche con la promessa della liberazione dalla tortura.L'ora fatale arriva: Giove viene detronizzato da Demogorgone, mentre Ercole (la forza) libera Prometeo (l'Umanità) dalle torture generate dal Male. Asia (la Natura), una delle oceanidi, riacquista tutta la sua bellezze e può riunirsi al suo sposo, Prometeo.Inizia così un regno di Amore e di Bene.

L'operaL'esigenza filosofica forma il substrato che sostiene il suo lirismo e la sua ispirazione, ma, che nel contempo, non di rado lo inceppa.Al centro delle idee di Shelley troviamo la convinzione che il male non è legato alla natura umana, ma accidentale e quindi, eliminabile.Nelle sue opere ritorna sempre un principio: l'uomo deve sempre tendere a perfezionarsi con l'intento di eliminare il male da sè.Il Prometeo liberato è la trasposizione filosofica di una vicenda lirica che chiede un risonanza più profonda all'antichità del mito da cui è tratta. Esso è senza dubbio la più grande e la più prodiga esibizione del potere di

Shelley, lo stupendo mondo lirico, dove chiarità immortali possano sospirando accanto ai profumi dei fiori, popolano gli aliti delle brezze, s'accalcano e sfavillano nelle foglie che brillano sui rami; dove l'erba stessa è tutta frusciante di amabili creature spirituali e una plorante nebbia di musica riempie l'aria. Thompson

Il suo obiettivo fondamentale, che senza dubbio non è più semi-cosciente, sta in un'impalpabile tunica sonora che diviene come il rivestimento dell'espressione, e la sua musica è ben dello stesso ordine di quei grandi fenomeni naturali che egli ha tanto amato: il vento, l'incantatore che spazza davanti a lui le foglie morte. Du Bos